ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il risiko dei termini e ambiguità sulla disciplina del reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nel rito del silenzio (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 8 gennaio 2024, n. 254)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Sulla (in)certezza e (in)stabilità degli effetti giuridici del provvedimento del commissario ad acta nel risikodei termini. 2. Il caso di specie. 3. La fase esecutiva del rito del silenzio, la disciplina e la giurisdizione sul reclamo. 4. La natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio. 5. Gli atti del commissario e l’attività. 6. Le ambiguità. 7. Una chiave di lettura.
1. Sulla (in)certezza e (in)stabilità degli effetti giuridici del provvedimento del commissario ad acta nel risikodei termini
Il codice del processo amministrativo non ha espressamente chiarito se la fase esecutiva del rito del silenzio possa equipararsi alla generale azione di ottemperanza prevista dagli artt. 112 e ss. c.p.a. creando nel corso degli anni una serie di posizioni giurisprudenziali “non del tutto univoche”[1] e quindi diverse “con intuitivi effetti anche sul piano della certezza e stabilità degli effetti giuridici discendenti dal provvedimento commissariale”[2].
La questione emerge in sede di eccezioni preliminari di irricevibilità del reclamo avverso gli atti del commissario ad acta nella procedura avverso l’inerzia della pubblica amministrazione, cioè di un non-provvedimento della pubblica amministrazione, per violazione del termine stabilito dall’art. 114, c. 6, c.p.a., che è di sessanta giorni, a fronte invece di chi ha promosso reclamo secondo il rito del silenzio ai cui termini, pertanto, la proposizione del reclamo resta assoggettata, con la conseguenza di risultare tempestiva, atteso il rispetto dei termini decadenziali previsti per il rito ex art. 117 c.p.a.
A fronte di un’eccezione di irricevibilità, si pone il dilemma, che diventa un vero risiko, se nel caso del reclamo continuerebbero ad applicarsi i termini previsti per il rito del silenzio di cui all’art. 31, c. 2, c.p.a. o quelli dimidiati per i riti speciali o i termini di cui all’art. 114, c. 6. La complessa decisione di selezionare i termini appropriati implica un rischio significativo, in quanto una scelta errata potrebbe determinare conseguenze rilevanti. Questo rischio crea non poche ansie per gli operatori del diritto, in particolare gli avvocati, che devono considerare attentamente le implicazioni di ogni scelta.
Da qui scaturisce il dibattito sulla possibile applicabilità per “analogia”[3] del disposto dell’art. 114, c. 6, c.p.a. (analogia che si estende non solo alla forma del rimedio, ma anche al suo termine di impugnazione)[4] oppure perché è “implicita nel disposto del comma 4 dell’art. 117 la disciplina dell’art. 114, c. 4”[5] o ancora perché “è evidente la ratio legis di concentrare in capo al giudice la cognizione di tutte le vicende conseguenti alla pronuncia avverso il silenzio-inadempimento, ivi incluso il sindacato sugli atti commissariali eventualmente emanati”[6].
Quindi il ragionamento seguirebbe il filo logico che la previsione della nomina di un commissario ad acta nel rito del silenzio[7] “presenta somiglianze con il giudizio di ottemperanza”, anch’esso soggetto alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, come stabilito dagli artt. 112 e ss c.p.a[8].
Ulteriore ragionamento si rinviene nella considerazione pratica dello scopo dei fautori del Codice che insieme alla giurisprudenza si sono concentrati sull’obiettivo di ridurre i costi legati all’individuazione precisa del giudice competente. Questo è stato fatto cercando strumenti più semplici e chiari per definire le rispettive competenze. L’adozione di un unico procedimento che copra tutti gli atti del commissario nominato dal giudice, sia nel contesto di un giudizio di ottemperanza stricto sensu che in un giudizio sul silenzio, rientra in questa logica. Questo approccio non solo semplifica gli adempimenti richiesti alle parti coinvolte, ma contribuisce anche a rendere l’intero processo più efficiente[9]. Sul punto anche la Plenaria n. 8 del 2021 fa riferimento alla “sussistenza di una disciplina unitaria in tutte le citate ipotesi di nomina giudiziale” e quindi “sia esso un giudizio di ottemperanza, un giudizio sul silenzio ovvero un giudizio cautelare”[10].
L’applicabilità di una disciplina rispetto all’altra sposta, in particolare, i termini per l’esercizio dell’azione ma fa anche emergere in radice una serie di questioni che ruotano attorno alla natura stessa del commissario ad acta, del tipo di attività che il commissario è chiamato a svolgere, la natura degli atti posti in essere, ma anche il tipo di giurisdizione applicato al reclamo. Da qui le ulteriori questioni se in caso di contestazione da parte dell’amministrazione quest’ultima al posto di esercitare il reclamo possa agire in autotutela sugli atti del commissario stesso e, ancora, quale sia la posizione processuale dello stesso. Questioni già affrontate dalla giurisprudenza e sviluppate dalla dottrina, in particolare, in questa Rivista con gli interventi di Scognamiglio[11].
2. Il caso di specie
La questione riguarda il reclamo avverso la decisione assunta dal commissario ad acta nominato nel giudizio avverso l’illegittimo silenzio dell’ASP di Catanzaro, culminato con sentenza Tar Catanzaro sez. I, n. 725/2017 di condanna a concludere, con determinazione espressa, il procedimento di evidenza pubblica avviato nel lontano 14 giugno 2005, relativo all’affidamento in concessione di una Residenza Sanitaria Assistenziale per Anziani. Nello specifico la sentenza dichiarava l’obbligo dell’amministrazione resistente “di assumere una determinazione espressa, sia essa positiva o negativa rispetto all’interesse ad ottenere la stipulazione”, nominando al contempo, “nel caso di persistente inerzia (…) quale Commissario ad acta il Prefetto di Catanzaro, con facoltà di delega ad altro funzionario dell’ufficio, il quale assumerà la relativa decisione entro il termine dei successivi 30 giorni, quale organo straordinario dell’amministrazione”.
Il commissario ad acta, in esecuzione di quanto statuito, ha concluso il procedimento manifestando la sua “determinazione negativa, in ordine alla stipulazione di un contratto per l’affidamento in concessione novennale della gestione della residenza Sanitaria Assistenziale sita nel Comune di San Mango d’Aquino, di proprietà dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro”. In sostanza egli aveva proceduto alla revoca in autotutela degli atti di gara e dell’aggiudicazione, (piuttosto che all’annullamento d’ufficio[12]), in ragione del sostrato motivazionale del provvedimento, dal quale emergono prevalenti ragioni di inopportunità fondate su un ripensamento, anche per effetto delle sopravvenienze verificatesi, dei modi di perseguimento dell’interesse pubblico all’avvio dell’attività della Struttura. Aspetto oggetto di contestazione nel merito della controversia che va a denotare il tipo di attività svolta dal commissario stesso in base alla citata sentenza sull’inerzia che ha ritenuto sussistente “indubbiamente l’inadempimento dell’Amministrazione, che non ha concluso il procedimento di evidenza pubblica” e quindi ha statuito che “deve essere dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di assumere una determinazione espresso, sia essa positiva o negativa rispetto all’interesse ad ottenere la stipulazione”.
Avverso la determina del Commissario ad acta ha proposto reclamo ex art. 114, c. 6, c.p.a. “recte, come poi dalla stessa dichiarato: art. 117, c. 4”, la ATI aggiudicataria della concessione della R.S.A, lamentando violazione del contraddittorio (in particolare sulle ragioni ostative addotte dall’A.S.P. di Catanzaro a proposito della stipula del contratto, sulle quali non avrebbe potuto interloquire) e delle norme sull’autotutela non avendo il Commissario proceduto nelle forme dell’annullamento d’ufficio degli atti di gara. L’ATI ha pure avanzato, in subordine alla richiesta di accertamento del diritto alla stipula del contratto, domanda di risarcimento danni per responsabilità precontrattuale dell’amministrazione.
La A.S.P. di Catanzaro, costituitasi in giudizio, ha eccepito, tra l’altro, l’irricevibilità del reclamo per tardività del deposito ex art. 114, comma 6, c.p.a.[13].
Il Tar adito decideva la causa con la sentenza n. 1541 del 3 settembre 2019 che ha ritenuto infondate le eccezioni preliminari sull’irricevibilità del reclamo in quanto considera “applicabile al reclamo promosso avverso gli atti del commissario ad acta ex art. 117, comma 4, c.p.a., il rito del silenzio inadempimento (Cons. di Stato, Sez. III, 5 marzo 2018, n. 1337), ai cui termini, pertanto, la proposizione del reclamo resta assoggettata, con la conseguenza di risultare tempestiva, atteso il rispetto dei termini decadenziali dimidiati previsti per il rito ex art. 117 c.p.a.”. Inoltre ha argomentato anche sulla sussistenza della “conversione del rito in annullatorio, tenuto pure conto della domanda risarcitoria (Cons. di Stato, Sez. III, n. 1337/2018 cit.)”. Nel merito invece il Tar rigettava le censure rivolte contro la deliberazione commissariale e anche quelle sulla domanda risarcitoria.
La sentenza appellata in via principale dalla ricorrente ATI veniva altresì appellata incidentalmente dall’A.S.P. la quale l’ha ritenuta manifestamente erronea e ingiusta nelle parti in cui ha respinto le eccezioni preliminari di irricevibilità e inammissibilità del reclamo, sollevate in primo grado. Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello incidentale e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava irricevibile il ricorso di primo grado e improcedibile l’appello principale assumendo la massima che: “Il reclamo, ex art. 114, comma 6, c.p.a., rappresenta lo strumento attraverso il quale le parti, anche in un giudizio incardinato sul silenzio-inadempimento della p.a., possono impugnare gli atti del commissario ad acta, dinanzi allo stesso giudice che ha accolto il ricorso avverso il silenzio. In virtù del combinato disposto con l’articolo 117, comma 4, c.p.a., l’analogia si estende non solo alla forma del rimedio, ma anche al suo termine di impugnazione”[14].
Dalle osservazioni emerse nel paragrafo 1 e dalla ricostruzione della vicenda, emergono questioni che necessitano di un’analisi, anche se sintetica.
3. La fase esecutiva del rito del silenzio, la disciplina e la giurisdizione sul reclamo
Il procedimento del rito del silenzio, com’è noto, si compone di due fasi: una fase di cognizione e una fase di esecuzione, quest’ultima attivata solo se necessario. La fase di cognizione riguarda l’accertamento da parte del giudice della violazione dell’obbligo di adottare un provvedimento e la condanna dell’amministrazione a farlo. È ben possibile nella fattispecie ex art. 31 c. 3, c.p.a. che il giudice stesso possa pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa. Fuori da questi casi vi è la fase (eventuale) di esecuzione che viene attivata nel caso in cui l’amministrazione non adotti il provvedimento entro il termine stabilito dal giudice. Questa fase prevede la nomina di un commissario ad acta, il quale provvede a sostituire l’amministrazione nell’adozione dell’atto, come stabilito dall’articolo 117, c. 3, c.p.a. il quale prevede che “il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata”. L’esigenza di una supplenza giudiziaria si manifesta quando non vi possa essere un vuoto di tutela giurisdizionale e debba essere assicurata l’effettività della pronuncia.
Nella fase di esecuzione si innesta l’ulteriore fase (eventuale) data dal reclamo avverso gli atti del commissario ad acta, con l’inciso del comma 4 in base al quale “il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”.
Nel testo del Codice non viene fornita alcuna indicazione riguardo alla procedura di reclamo, avviando così il dibattito sulla disciplina da seguire per i reclami riguardanti gli atti del commissario ad acta all’interno del rito del silenzio. Vi è solamente l’inciso del richiamato comma 4 dell’art. 117 c.p.a., il quale prospetta la possibilità, di impugnare questi atti mediante reclamo al medesimo giudice del rito del silenzio, al pari di quanto accade tra le parti nel giudizio di ottemperanza per l’impugnativa degli atti commissariali ai sensi dell’art. 114, c. 6, c.p.a[15].
Quindi, in base a questa ricostruzione, il reclamo si colloca nella fase del processo esecutivo di ottemperanza e quindi rientra nella giurisdizione di merito.
4. La natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio
Oggettivamente, anche a voler sostenere l’analogia della prima parte del comma 6 dell’art. 114 con quella del comma 4 dell’art. 117, la designazione del commissario ad acta presenta aspetti concettuali e operativi distinti a seconda che avvenga nell’ambito del procedimento di ottemperanza o nel contesto del rito del silenzio[16].
Nel caso dell’ottemperanza, il commissario assume il ruolo di mandatario del giudice, incaricato di attuare una decisione già presa dal giudice stesso, con la possibilità per quest’ultimo di esaminare tutte le questioni correlate, conformemente a quanto previsto dal dall’art. 114, c. 6, c.p.a.
Al contrario, nel contesto dell’inerzia, l’organo commissariale è chiamato per la prima volta a pronunciarsi su una richiesta rimasta inevasa, seguendo un ordine giudiziario volto a superare l’inerzia.
Quindi si è dibattuta la natura del commissario ad acta nel contesto del rito del silenzio, chiedendosi se egli agisca come ausiliario del giudice o dell’amministrazione. Mentre nell’ambito dell’ottemperanza è consolidato il ruolo del commissario come ausiliario del giudice[17], nel contesto del rito del silenzio questo ruolo presenta alcune peculiarità che hanno indotto la dottrina e la giurisprudenza ad assumere posizioni di distinzione rispetto alla figura nell’ottemperanza, almeno fino alla Plenaria n. 8 del 2021. La questione sebbene cristallizzata dalla Plenaria stessa in termini di unitarietà di disciplina secondo la quale le soluzioni: “valgono in tutte le ipotesi in cui il processo amministrativo contempla la nomina di un commissario ad acta la quale può essere disposta con la sentenza che definisce il giudizio di merito; in sede di ottemperanza al giudicato; in sede di esecuzione di una pronuncia esecutiva o di una ordinanza cautelare; all’esito del ricorso contro il silenzio”[18] non convince del tutto e non è esente da critiche dalla dottrina molto attenta sul tema[19].
In termini ricostruttivi, si notava che il commissario ad acta nel rito del silenzio disponesse di poteri più ampi rispetto a una semplice sentenza di accertamento dell’obbligo di adottare un provvedimento. Sulla base di questa considerazione il commissario ad acta non fungerebbe propriamente da ausiliario del giudice, bensì assumerebbe un ruolo di ausiliario dell’amministrazione. Ciò avviene poiché il suo compito non è tanto quello di adottare direttamente il provvedimento, dal momento che la sentenza non può sostituirsi all’amministrazione in tal senso, ma piuttosto di impegnarsi affinché siano soddisfatti tutti i requisiti necessari affinché l’amministrazione possa prendere una decisione e quindi avviare l’attività procedimentale e organizzativa come ad es. indire una conferenza di servizi o addivenire ad accordi amministrativi[20].
In situazioni in cui una sentenza impone all’amministrazione l’obbligo di provvedere, il commissario si trova spesso a prendere decisioni senza alcun vincolo sul contenuto sostanziale dell’atto da adottare, a meno che il giudice del silenzio non si sia pronunciato sull’oggetto della pretesa, come previsto dall’articolo 31, c. 3, c.p.a. Il commissario ad acta assume la funzione di redigere l’atto sostitutivo, valutando ogni aspetto, anche discrezionale, come farebbe l’amministrazione stessa.
Nel contesto del giudizio di ottemperanza, invece il vincolo è costituito dall’effetto conformativo del giudicato. Di conseguenza, emerge comunque la differenza dal giudizio di ottemperanza sul punto che non si potrebbe considerare il commissario nell’inerzia come una mera estensione del giudice in quanto egli svolge un’attività di pura sostituzione nell’esercizio del potere proprio dell’amministrazione soccombente. Il collegamento alla pronuncia giudiziale insiste solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell’amministrazione medesima[21].
Per altro verso, non senza le riserve sopra evidenziate, si ritiene oggi che il commissario ad acta nominato nello speciale rito avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 117, c. 3, c.p.a. così come quello nominato in sede di ottemperanza, sia un ausiliario del giudice e non un organo straordinario dell’amministrazione instaurando con l’amministrazione una relazione intersoggettiva e non interorganica[22].
5. Gli atti del commissario e l’attività
Inoltre volendo indagare la posizione processuale del commissario ad acta in base alla tesi del sostituto dell’amministrazione, il commissario agisce come uno degli attori processuali ed è tenuto ad attenersi alle regole applicabili a tali soggetti, comprese le modalità di costituzione in giudizio. Invece se il commissario opera come ausiliario del giudice, è possibile ammettere una certa flessibilità nei mezzi, poiché egli agisce all’interno di un ambito di competenza del giudice stesso[23]. La giurisprudenza sembra preferire questa seconda posizione e nota come l’intervento del commissario ad acta nel processo avverso il silenzio inadempimento non necessiti di un ricorso ma di una semplice istanza[24].
Sulla base di questi ragionamenti la giurisprudenza[25] ha escluso che gli atti adottati dal commissario ad actanominato dal giudice in esito allo speciale giudizio avverso il silenzio-inadempimento della pubblica amministrazione possono essere rimossi in autotutela dall’amministrazione sostituita dal commissario[26]. Gli atti del commissario non sono “geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio della potestà amministrativa”, ma conseguono proprio al rilievo giurisdizionale di un illegittimo esercizio di tale potestà o di un’illegittima omissione di tale doveroso esercizio[27].
Oggi la posizione prevalente, confermata anche dalla giurisprudenza commentata, assume che l’istituto del reclamo da attività commissariale, espressamente previsto dal Codice solo in relazione al giudizio di ottemperanza, è applicabile anche per le attività surrogatorie dell’ausiliario del giudice volte a superare il silenzio-rifiuto dell’amministrazione.
Da qui poi si sviluppa il duplice discorso sulla natura “giudiziaria” degli atti, alla stregua degli atti del commissario designato in sede di giudizio di ottemperanza e la questione sul tipo di attività (di valutazione discrezionale o di mero adempimento) che il commissario è chiamato a svolgere nel giudizio di ottemperanza e nel giudizio avverso il silenzio.
Quindi la natura degli atti del commissario ad acta è sempre giudiziale, come nel giudizio di ottemperanza, e si attribuisce la massima estensione allo strumento del reclamo applicandolo a tutti gli atti commissariali, indipendentemente dal loro contenuto, in funzione della natura dell’atto. Tuttavia in caso di terzi estranei al giudicato, gli atti commissariali sono impugnabili secondo il rito ordinario come del resto prevede il 117, c. 6 ultimo periodo. Di conseguenza sul punto però la dottrina ha ritenuto lecito porsi il quesito se dalla duplicità di rimedi possa discendere una duplicità di natura giuridica (amministrativa e giudiziale) degli atti commissariali[28]. La giurisprudenza, oggi minoritaria, ha assunto invece la posizione che l’atto del commissario ad acta va impugnato con l’ordinario ricorso impugnatorio anche dalle parti (e non solo da terzi) e quindi non con il rito camerale del reclamo[29].
Questa teoria poi subisce alcuni temperamenti in quanto vi è l’ulteriore posizione che ammette il reclamo ex art. 117, c. 4, c.p.a., solo quando il giudice risolve gli incidenti di esecuzione strictu sensu intesi, dando direttive e istruzioni per la corretta esplicazione dei compiti del commissario[30].
Vi sono ulteriori estensioni e posizioni che distinguono il tipo di attività svolta dal commissario, discrezionale o vincolata, e quindi anche di trovarsi di fronte a fattispecie di “inadempimento” (inerzia a fronte di attività vincolata) o “rifiuto” (inerzia a fronte di attività discrezionale). In effetti dalla lettura delle sentenze è agevole individuare nel corpo l’espressione concettuale di silenzio-inadempimento e altre volte quella di silenzio-rifiuto; quindi, a rigor di logica, andrebbero indagate le singole pronunce al fine di capire il tipo di inerzia oggetto di trattazione e l’ambito del potere del giudice in considerazione sempre dell’inciso del comma 2 dell’art. 117 che distingue il totale accoglimento dal parziale accoglimento del ricorso.
6. Le ambiguità
Sulla scia di quanto detto va considerata l’ipotesi per la quale, il commissario ad acta è incaricato ad attuare una decisione giudiziale che ha semplicemente accertato l’obbligo di provvedere. In questa circostanza, il commissario valuta autonomamente e sin dall’inizio il merito della questione. In questo contesto, il commissario non andrebbe considerato come una estensione del giudice, bensì organo straordinario dell’amministrazione pubblica.
L’altra ipotesi, inversa, presuppone invece che il commissario ad acta si trovi ad attuare una sentenza del giudice del silenzio che ha riconosciuto fondatezza della pretesa. In questo caso, il commissario trova nella sentenza un’indicazione precisa e vincolante sul contenuto dell’atto da adottare, assumendo un ruolo di ausiliario del giudice e agendo come un organo sostanzialmente giudiziario.
Nel primo caso, gli atti risultano essere provvedimenti amministrativi autonomi, non soggetti all’impugnativa tramite reclamo come previsto dalla normativa in questione. Al contrario, l’impugnativa dovrebbe avvenire secondo le procedure ordinarie.
Nel secondo caso, invece, le parti coinvolte potrebbero contestare l’atto emesso dal commissario qualora non rispetti le disposizioni della sentenza, in conformità con quanto stabilito dall’articolo 117, c. 4[31].
Tuttavia altra giurisprudenza vede nella teoria che sostiene che il commissario ad acta in fase di silenzio abbia una “piena autonomia decisoria” un’incongruenza con il dato testuale dell’art. 117, c. 4, c.p.a. Quest’ultimo prevede che “il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto”, facendo così a opinione di questo filone giurisprudenziale, risaltare come il commissario stesso si muova in un contesto governato dal giudice, che ne indirizza, eventualmente anche in senso contenutistico, l’azione[32].
Su questo gioca il “carattere testuale”, degli artt. 114 e 117 che “parlano, con una uniformità terminologica significativa” di un giudice che “conosce di tutte le questioni”[33].
Tuttavia ancora la dottrina ha rilevato come “l’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario”[34]. Sul punto la dottrina, in particolare Scognamiglio, evidenzia, come già prima sopra rilevato, che si “configurerebbe il paradosso di un sostituto del giudice che gode rispetto a questo di poteri più ampi” ogniqualvolta “l’azione va oltre l’effetto conformativo della sentenza” e il commissario è chiamato a compiere valutazioni discrezionali “in luogo degli organi (ordinari) dell’amministrazione ogni qualvolta il giudice si sia limitato ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere e ad emettere sentenza di mera condanna”.
7. Una chiave di lettura
La questione, se non affrontata con una soluzione decisiva, persiste nel creare incertezze e cicli giurisprudenziali lesivi dell’effettività e della certezza da cui può diventare difficile uscire. Affrontare, infatti, una questione senza una risoluzione chiara porta inevitabilmente alla creazione di una situazione problematica, in cui dubbi e incertezze si moltiplicano, alimentando una spirale negativa spesso difficile da interrompere. Questo circolo vizioso, una volta instaurato, diventa un labirinto di complicazioni da cui è arduo trovare una via d’uscita. La chiave sta nel riconoscere l’importanza di una posizione che indica la via per evitare l’insorgere di dinamiche contrarie.
Si consideri il potenziale vulnus all’effettività della tutela evidenziato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento che riforma la sentenza di primo grado la quale prevedeva il regime temporale dell’azione previsto dall’art. 31 c.p.a. in un anno e in alcuni passaggi si richiamava a termini dimidiati, cioè di sei mesi. Termine che appare decisamente incongruo, in quanto estende all’impugnazione di un atto avente indubbio contenuto provvedimentale il regime elaborato dal legislatore per una situazione ontologicamente diversa, ossia per l’azione proposta avverso una inerzia, un non-provvedimento dell’amministrazione, “con intuitivi effetti anche sul piano della certezza e stabilità degli effetti giuridici discendenti dal provvedimento commissariale”, in particolare quando il giudice di primo grado si fa sfuggire, omettendo di indicare il dies ad quem di esperibilità del reclamo e quindi intende far decorrere ex novo il termine annuale dall’atto (commissariale) sopravvenuto, ma non si capisce bene da quando (potendo eventualmente intuire la data della pubblicazione o comunicazione)[35]. Nel contesto dell’incertezza dei termini, l’alto risiko sulla scelta dei termini e quindi del rito assomiglia a una roulette russa, dove ogni scelta rispetto a quella del termine più breve è potenzialmente rischiosa con esiti incerti.
La chiave di lettura, e la soluzione, è data dalla posizione di Scognamiglio sul meccanismo di reclamo previsto dall’art. 117, c. 4. Questo ragionamento mette in evidenza il ruolo del giudice e il controllo (sindacato) sugli atti del commissario ad acta e offre la prospettiva su come il sistema funzioni e su quali siano gli ambiti di intervento del giudice. Sebbene la questione dei termini non sia il fulcro centrale della discussione emerge comunque incidentalmente.
L’art. 117, c. 4. conferisce al giudice la competenza di esaminare “tutte le questioni” relative agli atti del commissario ad acta, estendendo il suo controllo a ogni aspetto dell’atto, inclusa la sua conformità ai principi di buon andamento, legalità e imparzialità. Quindi il “sindacato” menzionato nella norma si riferisce alla capacità del giudice di valutare e controllare gli atti del commissario ad acta. La norma stabilisce che tale controllo è ampio, implicando che il giudice può esaminare non solo la legalità dell’atto, ma anche la sua opportunità, efficacia e correttezza secondo i principi di buon governo. La particolarità di questo meccanismo di reclamo risiede nel fatto che si inserisce in una fase esecutiva o di ottemperanza del processo, ovvero quella fase in cui si attua concretamente quanto deciso in precedenza.
In questa fase, il giudice agisce all’interno della giurisdizione di merito, il che significa che il suo intervento è finalizzato a garantire l’effettiva realizzazione di quanto stabilito nel corso del processo.
In tale contesto il giudice non assume un ruolo sostitutivo o direttivo nei confronti dell’amministrazione o del commissario ad acta prima dell’emanazione dell’atto (ex ante), ma interviene dopo (ex post), valutando l’adeguatezza dell’azione dell’ausiliario (il commissario ad acta) in termini sia di legittimità che di merito. Questo significa che il giudice non dirige l’azione amministrativa prima che essa si realizzi, ma valuta l’operato del commissario ad acta dopo che l’atto è stato compiuto, con la possibilità di attribuire una maggiore ampiezza di poteri in questa fase, rispetto a quelli che avrebbe in un contesto di controllo ex ante[36].
In sintesi, il concetto chiave è che, in sede di reclamo, il giudice dispone di un ampio potere di controllo sugli atti del commissario ad acta, potendo esaminare ogni aspetto dell’atto, sia sotto il profilo della legittimità che del merito, in una fase successiva all’emanazione dell’atto stesso, al fine di garantire il rispetto dei principi fondamentali dell’azione amministrativa.
[1] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[2] Cons. St., sez. III, 8 gennaio 2024, n. 254.
[3] Cons. St., sez. III, 5 marzo 2018, n. 1337.
[4] Cfr. Sentenza in comento n. 254/2022 pt. 11.5.
[5] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[6] Cons. St., sez.. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[7] Sul tema in ordine sparso se senza pretese di esaustività oltre ai Manuali di: M.A. SANDULLI, Il giudizio amministrativo, Napoli 2024, F.G. SCOCA (a cura di) Giustizia amministrativa, Torino 2023, M. CLARICH, Manuale di giustizia amministrativa, Bologna 2023; E. PICOZZA, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 2016; A. POLICE, Lezioni sul processo amministrativo, Napoli, 2021 si segnala L. BERTONAZZI, Il giudizio sul silenzio, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 986 ss.; G. MARI, L’azione avverso il silenzio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Vol. I, Milano, 2013, p. 250 ss.; A. CIOFFI, Il dovere di provvedere nella legge sull’azione amministrativa, in A. ROMANO (a cura di), L’Azione amministrativa, Torino, 2016, p. 134 ss.; F. SCALIA, Profili problematici del rito sul silenzio dell’amministrazione nella prospettiva dell’effettività e pienezza della tutela, in Federalismi.it, n. 10/2016; G. TROPEA, La domanda cautelare, l’azione di ottemperanza e quella avverso il silenzio nel sistema del codice del processo amministrativo: per un inquadramento sistematico, in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/195539/nsiga_4641007.pdf/54be7576-04a1-a216-ac73-976f3a9fa7e9?t=1646993082000; R. CHIEPPA, Il danno da ritardo (o da inosservanza dei termini di conclusione del procedimento), in https://www.giustizia-amministrativa.it, 4 aprile 2011. N. DURANTE, I rimedi contro l’inerzia dell’amministrazione: istruzioni per l’uso, con un occhio alla giurisprudenza e l’altro al codice del processo amministrativo, in https://www.giustizia-amministrativa.it, 13 settembre 2010; V. SALAMONE, I riti speciali nel nuovo processo amministrativo, in https://www.giustizia-amministrativa.it, 17 novembre 2010
[8] Per una ricostruzione della letteratura di riferimento si rinvia altresì al lavoro di S. D’ANTONIO, Il Commissario ad acta nel processo amministrativo. Qualificazione dell’organo e regime processuale degli atti, Napoli, 2012.
[9] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[10] Cons. St., Ad. Plen. 25 maggio 2021 n. 8.
[11] A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), in questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1940-sul-potere-di-provvedere-anche-dopo-la-nomina-del-commissario-ad-acta-nel-giudizio-sul-silenzio-della-p-a-nota-ad-ad-plen-25-05-2021-n-8?hitcount=0, 16 settembre 2021. I.d., Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, 19 gennaio 2021; S. CAREGGI, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, in questa Rivista, https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/118-diritto-processo-amministrativo/1199-l-esecuzione-della-pronuncia-silenziosa, 1 luglio 2020; R. FUSCO, Autotutela sugli atti del commissario ad acta nel giudizio avverso il silenzio (nota a Cons Stato, Sez. IV, 18 03 2021, n. 2335), in questa Rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1708-autotutela-sugli-atti-del-commissario-ad-acta-nel-giudizio-avverso-il-silenzio, 3 maggio 2021.
[12] Il TAR qualifica l’impugnata determinazione commissariale alla stregua di “una revoca in autotutela degli atti di gara e dell’aggiudicazione, piuttosto che sub specie di annullamento d’ufficio e ciò in ragione del sostrato motivazionale del provvedimento, dal quale emergono prevalenti ragioni di inopportunità fondate su un ripensamento, anche per effetto delle sopravvenienze verificatesi, dei modi di perseguimento dell’interesse pubblico all’avvio dell’attività della Struttura”. Ritiene che: “a differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca esige solo una valutazione di opportunità, seppur ancorata alle condizioni legittimanti dettagliate all’art. 21-quinquies l. cit. (e che, nondimeno, sono descritte con clausole di ampia latitudine semantica), sicché il valido esercizio dello stesso resta rimesso, in buona sostanza, a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’Amministrazione procedente”.
[13] Aveva altresì insistito sull’inammissibilità sul rilievo che la ricorrente non avrebbe interesse all’annullamento della delibera impugnata, non potendo raggiungere lo scopo prefissato mediante l’auspicata sottoscrizione del contratto in ragione dei profondi mutamenti intervenuti, nel corso del tempo, nel quadro normativo, anche regionale, di riferimento.
[14] News Reclamo avverso gli atti del commissario ad acta e termine di impugnazione, in https://www.giustizia-amministrativa.it/-/105486-197.
[15] F. D’ALESSANDRI, Ottemperanza, come si impugnano provvedimenti adottati dal commissario ad acta in sede di rito del silenzio? in il QG, 23 marzo 2018.
[16] Per una ricostruzione della dottrina in generale senza esaustività si rinvia a F.G. SCOCA, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, p. 4 ss, S. GIACCHETTI, Il giudizio d'ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa, in Giur. amm. sic., 1988, II, p. 36 ss. e in www.lexitalia.it (par. 6); L. MAZZAROLLI, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, p. 253; M. CLARICH, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 3/2018, p. 540.
[17] Sul punto Ad. Plen. 25 maggio 2021, n. 8.
[18] Per una ricostruzione delle teorie si rinvia a R. FUSCO, op. cit. , in questa Rivista.
[19] A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8), cit.; S. CAREGGI, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, cit.
[20] S.n., Il processo amministrativo alla prova dei fatti: tutela cautelare e riti speciali. Il punto di vista del primo grado e il punto di vista dell’appello, Riti Speciali, in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/195539/nsiga_4643866.pdf/1c2ea4e3-4e48-70fb-77fc-ed63cff32a41?t=1646993005000
[21] Cons. St., sez. IV, 25 giugno 2007, n. 3602, quest’ultima parla di un’ottemperanza “anomala o speciale” poichè “si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio” e in quanto l’attività del commissario “può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione”.
[22] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006 in base alla quale: “È pacifico in giurisprudenza (per tutti, Cons. Stato, IV, 22 ottobre 2019, n.7172) che quando il commissario ad acta è nominato da un’autorità per consentire lo svolgimento delle funzioni dell’ente locale, senza l’indicazione degli specifici atti che deve emanare, la relazione che si instaura con l’ente è di natura interorganica e il provvedimento commissariale va qualificato come atto di un organo straordinario, che può essere rimosso dallo stesso ente locale nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali di autotutela. Invece, laddove il commissario è nominato nell’esercizio dei poteri di controllo sostitutivo, per l’adozione di uno specifico atto indicato dall’autorità controllante, la relazione ha carattere intersoggettivo e le statuizioni del commissario possono essere solo impugnate dall’ente locale innanzi al giudice amministrativo. La correttezza di tale ricostruzione appare confermata, in termini di diritto positivo, dall’art. 57 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia”, dedicato proprio alla “equiparazione del commissario ad acta agli ausiliari del magistrato”, in quanto ivi si è previsto che “al commissario ad acta si applica la disciplina degli ausiliari del magistrato, per l’onorario, le indennità e spese di viaggio e per le spese sostenute per l’adempimento dell’incarico”.
[23] Sul tema in generale: A. IANNOTTA, La natura giuridica del commissario ad acta e il regime di impugnazione dei suoi atti, in I Tribunali amministrativi regionali, 1993, II, p. 414.
[24] Cons. Stato, VI, 9 febbraio 2016, n. 557.
[25] Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335
[26] In particolare, la natura intersoggettiva, esclude che l’atto emanato vada imputato all’ente sostituito, impedisce non solo che questo stesso possa rimuoverlo in autotutela, ma anche che all’atto possano applicarsi decadenze e preclusioni derivanti dalle omissioni dello stesso ente inadempiente cfr. Tar Veneto, II, 19 dicembre 2019, n.1379.
[27] L’Amministrazione sostituita, pertanto, non viene indebitamente “espropriata” del potere di autotutela, che, nel caso degli atti commissariali, in radice non le compete, proprio perché il commissario non è un organo straordinario dell’Amministrazione, bensì un organo ausiliario del giudice. Di converso, l’Amministrazione non è privata della facoltà di contestare gli atti commissariali, potendo attivare l’apposito rimedio del reclamo, cfr. Cons. St., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335.
[28] P.M. VIPIANA, L’ottemperanza al giudicato amministrativo fra l’attività del commissario ad acta e quella dell’amministrazione “commissariata”, in Urb. e app., n. 10/2015, p. 1055. Tema sviluppato in questa Rivista da R. Fusco, cit. supra.
[29] Tar Napoli, 17 luglio 2017, n. 3797, sostiene che gli atti di un Commissario ad acta nominato per porre rimedio alla persistente inerzia dell’amministrazione sono impugnabili con l’ordinario ricorso impugnatorio, e non già con lo strumento del reclamo.
[30] Tar Calabria, sez. I, 26/01/2017, n. 82, Cons. Stato Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338.
[31] Cons. Stato Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338.
[32] Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[33] Se gli atti del commissario fossero provvedimenti imputabili all’ente, ossia se la sua attività fosse un’azione amministrativa autonoma, unicamente legittimata dal giudice solo per il suo avvio, questa estensione della cognizione del giudice non avrebbe senso: non avrebbe senso in rapporto all’esito finale perché, trattandosi di provvedimento amministrativo, questo sarebbe comunque autonomanente impugnabile senza una previsione esplicita; non avrebbe senso in relazione alle attività precedenti all’emissione del provvedimento, in quanto il giudice si ingerirebbe in poteri amministrativi ancora non esercitati (in violazione dell’art. 34 comma 2 c.p.a.) e, anzi, li connoterebbe, cfr. Cons. St., sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006.
[34] L’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario. In particolare, e in specie con riferimento all’ipotesi della nomina del commissario in sede di ricorso avverso il silenzio, è restata in campo la tesi secondo la quale si tratta di un organo straordinario dell’amministrazione in quanto egli esercita attività discrezionale in senso proprio; ovvero di un organo misto in quanto assume di volta in volta l’uno o l’altro ruolo a seconda che la sentenza abbia altresì accertato la “fondatezza della pretesa” o abbia un contenuto di mera condanna a provvedere; o ancora di un organo ausiliario del giudice, il quale però pone in essere atti soggetti a reclamo dinanzi al giudice che lo ha nominato ovvero con ricorso ordinario di legittimità a seconda che essi siano si muovano o meno entro il perimetro dell’accertamento svolto in sede di giudizio di cognizione. La tesi dell’organo misto è riproposta anche nella giurisprudenza successiva al codice e fino all’Adunanza Plenaria del 9 maggio 2019, n. 7. Cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8) in questa Rivista, cit. e Stessa A., Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, cit.
[35] Cfr. Sentenza in commento n. 254/2024 pt. 11.8.
[36] Cfr. A. SCOGNAMIGLIO, Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. cit.
1. Le Sezioni Unite hanno definito le questioni di diritto sottese alla vicenda dei criptofonini. Sorta in sordina, la problematica dell’uso processuale ha progressivamente interessato tutto il mondo della giustizia non solo italiana, ma anche quella di altri paesi europei nonché le giurisdizioni sovranazionali (attivate da alcuni Paesi stranieri).
In Italia, i contenuti delle comunicazioni intercorse tra tantissimi soggetti, implicati in rilevanti traffici illeciti, sono stati posti a fondamento di misure cautelari, la cui verifica è approdata rapidamente (art. 309 e 311 c.p.p.) in Cassazione prospettando moltissimi interrogativi sulla loro utilizzabilità quale gravità indiziaria.
L’origine della vicenda è molto nota, come pure i suoi sviluppi investigativi – legati a significative attività e tecniche di indagine (non tutte ancora conosciute) che hanno portato alla decriptazione del contenuto delle comunicazioni ed alla loro trasmissione nei vari processi dove operavano i soggetti coinvolti.
Per una esauriente ricostruzione sul punto di questi elementi si può fare riferimento alla Memoria della procura generale della Cassazione (Giordano).
Tre, sintetizzando, erano i nodi da affrontare, che peraltro sottointendevano rilevanti sottoquestioni, prima fattuali e poi giuridiche.
Come si era espletata l’attività, in Francia; quale era la natura degli atti trasmessi o richiesti; chi era legittimato a richiederli alle autorità francesi o per il tramite di meccanismi transnazionali; quali poteri di controllo sulle modalità di svolgimento dell’attività investigativa potevano essere svolti e chi doveva valutarli nel porli a fondamento della decisione a tutela dei diritti riconosciuti ai suoi destinatari.
Su questi profili sono state interessate le Sezioni Unite che hanno depositato il 29.2.2024 risposte ai quesiti prospettati.
Erano stati prospettati i seguenti quesiti:
a) se il trasferimento all’Autorità giudiziaria italiana, in esecuzione di ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni effettuate attraverso criptofonini e già acquisite e decrittate dall’Autorità giudiziaria estera in un proprio procedimento penale, costituisca acquisizione di documenti e di dati informatici ai sensi dell’art. 234 bis c.p.p. o di documenti ex art. 234 c.p.p. ovvero sia riconducibile ad altra disciplina relativa all’acquisizione di prove;
b) se il trasferimento di cui sopra debba essere oggetto di verifica giurisdizionale preventiva della sua legittimità, nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine;
c) se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine.
Da un’altra sezione, si era chiesto di chiarire se:
a) se l’acquisizione, mediante ordine europeo d’indagine, dei risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera, in un proprio procedimento, su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini integri l’ipotesi disciplinata, nell’ordinamento nazionale, dall’art. 270 c.p.p.;
b) se, ai fini dell’emissione dell’ordine europeo di indagine finalizzato al suddetto trasferimento, occorra la preventiva autorizzazione del giudice;
c) se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine.
Oltre al contenuto delle questioni di diritto prospettate, un aspetto interessante della questione risiede alla dinamica che ha condotto due sezioni, in tempi diversi a sollecitare le Sezioni Unite, oggetto di pura contrapposizione ad alta densità, ancorché sottotraccia. Il dato è, del resto, noto, ancorché fosse non in tutti i suoi risvolti. La questione sottende sia la questione di merito, sia questioni legate alle dinamiche interne al Supremo Collegio, considerato il suo elevato ruolo. Sul punto sarebbe necessario ritornare con ulteriori riflessioni.
Come emerge dai quesiti questi si differenziavano per la natura da attribuire agli atti trasmessi dalla Francia, prospettandosi per un verso l’operatività, sostenuta da un lato in modo piuttosto diffuso dall’art. 234 bis c.p.p. e da un altro, minoritario, alla base appunto del contrasto, che faceva riferimento all’art. 270 c.p.p.
Entrambi si interrogavano, invece, con possibili ricadute diversificate tuttavia, legate a questo aspetto pregiudiziale, sulla legittimazione alla richiesta tramite oie degli atti francesi, e sui poteri di controllo del giudice sulla loro utilizzabilità.
Con la decisione sui quesiti si delinea il seguente quadro: integrando le pronunce dei quesiti, si afferma che gli atti provenienti dall’estero – (escluso il riferimento all’art. 234 bis c.p.p.) – possono essere valutati come prova ai sensi dell’art. 78 disp. c.p.p., degli artt. 238 e 270 c.p.p. e così le preclusioni di cui all’art. 6 della direttiva 2014/41/UE (ove si prevede che l’attività sia necessaria e proporzionata, tenendo conto della persona sottoposta alle indagini), in quanto sono considerati singolarmente nella loro natura.
Per entrambi i quesiti si afferma che l’oie può essere richiesto dal p.m.; per entrambi i quesiti, che il giudice è legittimato a controllare il rispetto dei diritti fondamentali, del diritto di difesa e del giusto processo.
Considerato che i due ricorsi che hanno dato origine all’intervento delle Sezioni Unite sono stati rigettati, deve ritenersi, pur in assenza della motivazione, che le disposizioni di garanzia per la loro utilizzabilità sono state riconosciute.
Invero, oltre al riferimento al p.m., per ogni attività dell’oie, le perplessità riguardano, considerate le modalità con le quali si è svolta l’attività in Francia, da un lato, il rispetto dell’art. 6 d. lgs. 2014/41/UE e dall’altro quello del rispetto del diritto di difesa e del giusto processo nel riconoscimento della loro utilizzabilità.
2. Proprio perché la “partita”, stante la blindatura delle misure cautelari deve ritenersi chiusa, anche sotto il profilo degli esiti dei giudizi di merito, e pur nella consapevolezza delle non secondarie implicazioni che ciò avrebbe potuto e poteva determinare, non deve ritenersi improprio anche in pendenza del deposito della motivazione, chiedersi se non era possibile prospettare alla luce di quanto è dato sapere sulle modalità di svolgimento dell’attività di indagine e di acquisizione attraverso la decriptazione delle comunicazioni dei titolari dei criptofonini, se un’altra conclusione in punto di rispetto delle garanzie non risultava prospettabile.
Sotto questo profilo, innanzitutto, non può negarsi che l’attività di indagine in Francia abbia riguardato tutta l’attività di comunicazione delle conversazioni, in modo del tutto indistinto, salvo poi, diffondere ai paesi interessati la posizione, in sfregio al principio di proporzionalità.
In secondo luogo, bisognerebbe interrogarsi, alla luce del rispetto dei diritti fondamentali, se siano date e assicurate alla difesa le adeguate informazioni (si parla di società olandese che ha usato degli algoritmi) sull’attività e sulle modalità delle decriptazioni (si parla di uso di troyan e di altro).
Aspettiamo ancora una volta l’Europa. “Non è finita finché non è finita” (dal Caso Thomas Crawford).
Sommario: 1. Alla ricerca di un pubblico ministero “sensibile” – 2. Tempestività e coordinamento delle indagini - 3. Il sopralluogo e il sequestro – 4. La raccolta di informazioni - 5. Il tema d’indagine e la condotta del lavoratore - 6. Formazione, informazione, vigilanza, sorveglianza sanitaria - 7. Le responsabilità soggettive e le posizioni di garanzia - 8. Il caso della pluralità di imprese – 9. La responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/2001.
(contributo di approfondimento in tema di infortuni v. L'emergenza nazionale degli infortuni sul lavoro e la risposta delle istituzioni: uno sguardo di insieme pubblicato su questa Rivista il 1 marzo 2024)
1. Alla ricerca di un pubblico ministero “sensibile”
Il settore della salute e sicurezza del lavoro è purtroppo uno dei – non pochi per la verità – settori “di nicchia” per le indagini: intendo dire che non sono molti i pubblici ministeri che studiano sistematicamente questa materia e che quindi partecipano con passione, e non solo per dovere, ai gruppi specializzati (laddove ve ne sono) competenti per tali reati e dimostrano quindi una maggiore sensibilità al tema. Per lo più i reati in questione vengono – necessariamente – affrontati nel corso del turno esterno, in occasione di decessi o lesioni gravissime sul lavoro, e per il resto costituiscono oggetto di procedimenti del tutto routinari, per quanto attiene alle contravvenzioni oggetto della procedura di cui al d.lgs. 754/1994 – fondata sull’emanazione di prescrizioni nella finalità di regolarizzazione della violazione e di estinzione del reato – ovvero “quasi” routinari, per quanto attiene alle denunce (raramente querele) che impongono, per lo più ad impulso dell’ispettorato del lavoro o della ASL, indagini in una certa azienda, in relazione ad un certo infortunio.
Non è raro quindi che il pubblico ministero si lasci guidare dalle indicazioni della polizia giudiziaria specializzata in materia (ciò vale soprattutto per la redazione dei capi di imputazione oggetto della richiesta di decreto penale, all’esito della conclusione negativa della procedura di cui al d.lgs. 754/1994) ed affronti “senza entusiasmo” le complesse indagini - in tema, ad esempio, di individuazione delle posizioni di garanzia e di rapporto di causalità - che vengono in rilievo quando si tratta di accertare le responsabilità per un infortunio.
Ancor più complesse – e dunque ancor meno “appassionanti”, almeno per i più – sono poi le indagini in tema di malattie professionali, nell’ambito delle quali – tutt’altro che routinarie - è spesso la parola del consulente tecnico a guidare le scelte del pubblico ministero e a contrapporsi sovente, in una materia complicatissima, alle conclusioni – diametralmente opposte – dei consulenti degli indagati/imputati, soprattutto laddove si tratti di patologie (come quelle correlate all’amianto) che originano in grossi complessi industriali, i cui dirigenti sono assistiti per lo più da grandi avvocati, esperti in materia e assai battaglieri.
Che le indagini in tema di salute e sicurezza del lavoro non facciano troppo breccia negli interessi di gran parte dei pubblici ministeri trova conferma, per quanto posso ricavare dalla mia esperienza professionale, sia nella scarsa propensione alla materia che ho rinvenuto nei, peraltro validissimi, colleghi delle due procure che ho diretto e nelle quali ho coordinato il settore in questione, sia nella circostanza per cui, chiedendo, in occasione degli incontri formativi per uditori/MOT, ai colleghi prossimi a terminare il tirocinio, quanti tra di loro avessero affrontato questa materia nel corso del tirocinio stesso, ho ricevuto quasi sempre risposta negativa.
È vero che nelle procure più grandi, e soprattutto in quelle il cui territorio è caratterizzato da contesti assai industrializzati, l’attenzione alla materia è più estesa, ma non v’è dubbio che ovunque vi sia attività d’impresa - grande, media, piccola, con lavoratori in regola o in nero e, tanto più, ove vi siano imprese “in odore” di caporalato – il rischio di incidenti e malattie sul lavoro è presente e costante e per giunta accresciuto in periodi, come questo, di crisi economica, nei quali tanti imprenditori fanno fatica a pagare i dipendenti, per cui certamente non riescono, o non vogliono, investire nel settore della sicurezza. L’azione di un pubblico ministero “sensibile” è dunque assai importante.
E ciò, vale aggiungere, tanto più in quanto il bene protetto dalle previsioni normative assistite da un così vasto apparato sanzionatorio, quali sono quelle della materia in questione, è quello della vita e dell’integrità, fisica e psichica, dell’individuo, e dunque un bene primario, che il nostro ordinamento giuridico, seppure sul punto immensamente complesso, tutela al massimo e che dunque richiede il massimo impegno in sede giudiziaria.
È quindi auspicabile che l’attenzione, se non anche la sensibilità, dei pubblici ministeri per tali tipologie di reati si incrementi, così da perfezionare le competenze e da migliorare anche le modalità di coordinamento e direzione dei diversi organi di polizia giudiziaria che operano in materia.
Senza voler attribuire all’autorità giudiziaria una non dovuta attività di supplenza, in questo campo, dell’azione amministrativa, sarebbe altresì auspicabile, per il pubblico ministero, affinare la conoscenza della realtà e delle caratteristiche del territorio, con riguardo al settore della sicurezza del lavoro e sviluppare, laddove ve ne siano i presupposti, quel bagaglio conoscitivo che deriva da ispezioni amministrative, da esposti delle organizzazioni sindacali o da denunce dei singoli lavoratori, al fine di pervenire all’acquisizione di notizie di reato che molto spesso rimangono, in questo settore, nascoste, perché si temono, da parte dei lavoratori, sia ritorsioni del datore di lavoro che la perdita stessa del posto di lavoro.
A queste considerazioni di carattere generale si affianca indubbiamente il dato della delicatezza e complessità delle gran parte delle indagini in materia, tali da rendere necessaria, almeno in ogni ufficio che sia di dimensioni sufficienti da poterselo permettere, la specializzazione.
Ad ogni modo, anche laddove specializzazione non vi sia, la delicatezza dell’intervento del pubblico ministero di turno in caso di infortunio, mortale o gravissimo, impone di provare a delineare talune metodiche standard di intervento, che non sono altro, del resto, che suggerimenti che l’esperienza consente di apprezzare e che possono rendere più rapida e completa l’azione investigativa che deve seguire alla notizia di un decesso o di un infortunio gravissimo sul lavoro.
Diverse, e del tutto peculiari, sono, invece, le caratteristiche dell’azione investigativa in materia di malattie professionali, laddove la causa, non immediata, dell’evento lesivo origina temi di indagine parzialmente diversi ed ulteriori e comunque non richiede, per lo più, un intervento immediato, quale quello che compete al pubblico ministero di turno.
Gran parte delle notazioni che vado a delineare con riferimento precipuo alle iniziative del pubblico ministero – per lo più quello di turno – notiziato di un infortunio mortale o gravissimo sul lavoro, valgono comunque anche per l’articolazione delle indagini che, sempre in tema di infortunio, muovono dalla ricezione di una denuncia o di un esposto.
2. Tempestività e coordinamento delle indagini
Giova premettere come sia opportuno che, poiché le indicazioni operative concernono anche l’azione della polizia giudiziaria e di altri operatori del settore, le stesse formino oggetto di una specifica direttiva, che venga portata a conoscenza di tali soggetti e sia da essi recepita, compresa e condivisa.
Si tratta, dunque, di delineare - con riferimento ad infortuni sul lavoro mortali ovvero produttivi di lesioni gravi o gravissime - prassi operative comuni, in grado di rendere maggiormente efficace l’intervento investigativo immediatamente conseguente all’infortunio e di garantire un adeguato coordinamento tra i diversi uffici di polizia giudiziaria. È invero comunemente nota l’importanza delle attività di accertamento effettuate nell’immediatezza dell’infortunio, ai fini di un buon esito dell’indagine complessiva, per cui è necessario operare in modo sollecito e finalisticamente orientato all’acquisizione del più ampio bagaglio di informazioni, nella prospettiva ovviamente tipicamente probatoria.
In questo senso è dunque essenziale che l’intervento dell’organo specializzato di polizia giudiziaria sul luogo dell’infortunio sia il più tempestivo possibile rispetto all’acquisizione della notizia. Funzionale a tale esigenza e a quelle, ulteriori, di coordinamento delle indagini e di tempestivo coinvolgimento del pubblico ministero è che i servizi P.R.E.S.A.L. (servizio prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro) della ASL e il servizio ispettivo della Direzione provinciale del lavoro provvedano a comunicare tempestivamente alla Procura ed alle forze dell’ordine che operano sul territorio il turno di reperibilità dei rispettivi ispettori, così da consentire appunto la necessaria azione di coordinamento e un’adeguata e tempestiva circolazione delle informazioni inerenti l’infortunio.
La notizia dell’infortunio deve essere nel più breve tempo possibile comunicata al pubblico ministero di turno in Procura, onde consentire allo stesso, ove necessario, l’eventuale accesso sul luogo dell’infortunio, e comunque il coordinamento delle indagini e l’emanazione di specifiche direttive.
Vale sottolineare, a questo proposito, come l’esperienza insegni che il sopralluogo del pubblico ministero in esito ad un infortunio mortale sia lo strumento insostituibile per acquisire una efficace visione degli eventi e per organizzare in modo coordinato ed efficace le indagini.
È opportuno, allo scopo di privilegiare le specifiche competenze investigative in materia e di non determinare una sovrapposizione di interventi che rischi di pregiudicare l’utile esperimento delle indagini, che l’organo di polizia giudiziaria immediatamente competente per lo svolgimento delle indagini finalizzate alla rilevazione delle cause e dei responsabili dell’infortunio sia individuato nel servizio P.R.E.S.A.L., ovvero nel servizio ispettivo provinciale per i settori di specifica competenza di quest’ultimo. In proposito è indispensabile che l’individuazione dell’organo specializzato che deve intervenire sia stabilmente compiuta a monte, sulla base di indicazioni operative predeterminate, al fine di consentire anche agli organi di polizia giudiziaria non specializzati (Carabinieri, Polizia di Stato, Polizia Municipale) che di solito intervengono per primi sul logo dell’infortunio di allertare immediatamente gli ispettori del lavoro di turno.
È comunque compito degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dei Carabinieri, della Polizia di Stato o della Polizia Municipale, che siano intervenuti per primi, prestare il necessario supporto operativo ed investigativo e porre in essere i pertinenti atti di indagine con modalità tali da non creare sovrapposizioni con gli ispettori del servizio P.R.E.S.A.L. o del servizio ispettivo provinciale e da garantire a questi l’ausilio che le circostanze del caso rendano di volta in volta necessario.
Sempre al fine di garantire l’esigenza di coordinamento è bene che gli ispettori della Direzione Provinciale del Lavoro che abbiano eventualmente ad accedere al luogo di lavoro non per l’espletamento delle indagini inerenti l’infortunio ma per l’espletamento dei compiti amministrativi istituzionalmente spettanti abbiano cura di non determinare una sovrapposizione di interventi idonea a pregiudicare l’utile esperimento delle indagini, ma di coordinare, al contrario, il proprio intervento con quello del servizio P.R.E.S.A.L., fornendo anche il proprio eventuale contributo investigativo.
In quest’ottica di collaborazione, è bene precisare, nell’ambito delle direttive la cui emanazione preventiva è – come si diceva- opportuna, che il servizio P.R.E.S.A.L. di volta in volta competente sia autorizzato a fornire al servizio ispettivo della Direzione Provinciale del Lavoro le notizie, acquisite nel corso delle indagini, che quest’ultimo abbia a richiedere per finalità d’istituto, con modalità e tempistiche tali da non pregiudicare il tempestivo ed adeguato svolgimento delle indagini inerenti l’infortunio. Ancor più necessaria è, all’evidenza, tale collaborazione con riferimento ad indagini che originino non già dalla notizia di un infortunio grave, ma da una denuncia, un esposto o comunque da una delega del pubblico ministero.
In caso di indagini conseguenti ad infortunio è necessario che tutti gli organi di polizia giudiziaria garantiscano adeguate modalità operative e bagaglio conoscitivo al medico legale, il cui intervento è doveroso in caso di decesso immediato, a differenza di quanto avviene nel caso di lesioni, allorquando sono primarie l’esigenza di soccorso dell’infortunato ed il suo trasferimento in ospedale.
3. Il sopralluogo e il sequestro
Come è noto a chiunque abbia un minimo di esperienza in materia, è fondamentale che il luogo dell’infortunio non venga alterato prima della conclusione di tutti i necessari accertamenti. Va sottolineata in via generale – e fatte salve eventuali, contingenti esigenze di tipo diverso - la necessità di redigere un accurato verbale di sopralluogo che contenga la descrizione dello stato dei luoghi, il posizionamento dei macchinari, delle attrezzature, dei dispositivi, ecc. interessati dall’infortunio, la posizione del cadavere (in caso di decesso) nonché ogni altra annotazione specificamente rilevante. Deve essere cura della polizia giudiziaria operante corredare il verbale di adeguata documentazione fotografica, mentre gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria appartenenti ad altri organi devono prestare il necessario supporto all’organo di PG specializzato per la redazione del verbale. Stante la natura di atto irripetibile, inseribile nel fascicolo del dibattimento, il verbale di sopralluogo non deve comprendere indicazioni di carattere valutativo, che devono invece essere contenute in autonoma annotazione, ovvero nell’informativa di reato.
Per altro verso è palese - fatte salve eventuali esigenze di tipo diverso che dovessero nei congrui casi manifestarsi - la necessità di sottoporre a sequestro probatorio tutti i macchinari, le attrezzature, i dispositivi di protezione ed eventualmente i locali interessati dall’infortunio e comunque ogni oggetto, bene, materiale sul quale sia necessario compiere accertamenti tecnici o che sia comunque rilevante a fini probatori. Si tratta, invero, di beni, oggetti, ecc. soggetti a possibile modificazione, la cui integrità è perciò essenziale per un’esatta ricostruzione degli eventi e per la doverosa verifica circa carenze ed omissioni causalmente rilevanti nella produzione dell’evento lesivo. La valutazione da compiere in proposito deve estendersi, in un momento in cui le cause dell’infortunio sono ancora tutte da accertare, anche ad eventuali profili di rilevanza probatoria che, seppur non ancora compiutamente definiti, appaiano suscettibili di un successivo sviluppo investigativo, pur con l’accortezza di porre estrema attenzione all’esigenza di non bloccare inutilmente l’attività dell’impresa o dell’ufficio nel cui ambito si è verificato l’infortunio.
La stretta connessione tra la verifica delle condotte rilevanti per la produzione dell’evento lesivo e l’individuazione dei potenziali responsabili è alla base dell’esigenza di adoperare in modo quanto mai accorto, ma esteso, lo strumento del sequestro probatorio. È, invero, indiscutibile l’esigenza di sottoporre a sequestro tutta la documentazione pertinente all’infortunio e necessaria all’accertamento delle responsabilità; così è a dire quanto alla documentazione inerente macchinari, apparecchiature, dispositivi, ecc., interessati dall’infortunio (istruzioni di montaggio, di funzionamento, atti di collaudo, ecc.); quanto alla documentazione inerente la valutazione dei rischi (a seconda dei casi, documento di sicurezza e/o documento di valutazione dei rischi da interferenze, piano di sicurezza e coordinamento, piano operativo di sicurezza); quanto alla documentazione inerente eventuali direttive, ordini di servizio, provvedimenti di carattere generale ecc. predisposti nell’azienda o nell’ufficio in tema di sicurezza; quanto alla documentazione inerente contratti di appalto, subappalto, contratti d’opera; quanto ad atti inerenti alla ripartizione delle competenze (deleghe, ordini di servizio, delibere, statuto, organigrammi, lettere di incarico, ecc.); quanto alla documentazione relativa allo svolgimento dell’attività di formazione, informazione, vigilanza, sorveglianza sanitaria; quanto alla documentazione inerente eventuali precedenti verifiche e/o ispezioni. V’è al riguardo anche l’esigenza di far constare per iscritto ai soggetti richiesti che non esiste altra documentazione oltre quella reperita e sequestrata, onde evitare la successiva produzione di documentazione non genuina, creata ad arte.
4. La raccolta di informazioni
E sempre allo scopo di non disperdere la genuina e sollecita acquisizione delle fonti di prova, è altresì evidente l’esigenza di assumere urgentemente a sommarie informazioni, sul posto e nell’immediatezza dell’intervento, il lavoratore infortunato – sempreché in grado di rispondere e privilegiando comunque l’esigenza di tutelarne le condizioni di salute - i colleghi di lavoro dell’infortunato presenti e comunque ogni persona presente e a conoscenza dei fatti; ciò allo scopo di sfruttare il maggior coinvolgimento emotivo conseguente all’infortunio (che rende verosimile la possibilità di acquisizione di dichiarazioni genuine nel predetto contesto) e di evitare invece successive dichiarazioni che possano essere concordate con il datore di lavoro o comunque motivate dall’esigenza di evitare ritorsioni e dunque non genuine.
5. Il tema d’indagine e la condotta del lavoratore
Più in generale, va osservato che il tema dell’accertamento investigativo – sia in caso di indagini avviate d’urgenza in esito ad un infortunio mortale o gravissimo, che in caso di indagini conseguenti a denuncia/querela/esposto - deve sempre muovere dall’esatta ricostruzione delle modalità e delle cause dell’infortunio, accertando, in particolare, in questo senso, se lo stesso sia riconducibile a violazioni di una o più disposizioni del complesso apparato normativo in tema di salute e sicurezza sul lavoro. Tale accertamento deve anche mirare all’individuazione delle abituali modalità di esecuzione della prestazione cui era addetto l’infortunato, allo scopo di verificare se l’infortunio sia riconducibile ad eventuali prassi lavorative contra legem, ovvero sia frutto di una condotta o di una situazione estemporanee.
A quest’ultimo riguardo è bene però ricordare – e questa considerazione deve essere sempre tenuta presente dal pubblico ministero, come una sorta di canovaccio alla cui stregua condurre l’apprezzamento valutativo della fattispecie e poi determinarsi nelle scelte definitorie – che principio ormai stabilmente consolidatosi in giurisprudenza è quello che, muovendo dalla considerazione della finalità delle norme di prevenzione, che è quella di tutelare i lavoratori da ogni tipologia di rischio concretamente o anche astrattamente ipotizzabile, ivi compreso quello riconducibile ad eventuali condotte disaccorte, negligenti, imprudenti del lavoratore, afferma che, una volta riscontrato un deficit di approntamento nelle misure di sicurezza concernenti la prestazione da cui è derivato l’evento lesivo, dette tipologie di condotte del lavoratore non valgono certamente ad elidere il nesso di causalità tra la violazione della o delle misure di sicurezza e l’evento lesivo. All'interno dell'area di rischio considerata, infatti, la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia, oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure ancora rientri in tali mansioni, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro. In ogni caso, perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, è necessario che questi abbia posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio del comportamento imprudente (in questo senso, tra le più recenti pronunce espressive di un orientamento consolidato, vale citare Cass., sez. IV pen., 22.11.2023, n. 46841 - ud. 3.10.2023).
6. Formazione, informazione, vigilanza, sorveglianza sanitaria
Per altro verso è bene ricordare, già all’atto degli accertamenti esperiti nell’immediatezza del fatto, ed al fine sia di individuare possibili, specifiche violazione della normativa di prevenzione che di giudicare in modo appropriato la condotta del lavoratore da cui è conseguito l’infortunio, che è indispensabile porre particolare attenzione alla verifica circa l’assolvimento (e in quali termini) delle funzioni specifiche di informazione, formazione e vigilanza e, se pertinenti, di sorveglianza sanitaria. Tali funzioni rientrano, invero, nei doveri principali del datore di lavoro e dei suoi collaboratori e la relativa violazione è assai spesso – come la prassi giudiziaria dimostra – causalmente rilevante nella produzione dell’evento.
7. Le responsabilità soggettive e le posizioni di garanzia
Ma parallelamente all’investigazione in ordine alle cause dell’infortunio, che investe la condotta e il nesso di causalità, il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, che a volte ha bisogno di essere specificamente indirizzata sul punto, devono preoccuparsi dell’aspetto soggettivo della vicenda, e dunque pervenire all’individuazione dei soggetti che, nella concreta organizzazione lavorativa oggetto di investigazione ed alla luce delle qualifiche normative, rivestono il ruolo di datore di lavoro, ovvero altre qualifiche rilevanti ai fini della normativa di salute e sicurezza (a seconda della specificità del caso concreto, dirigenti, preposti, responsabile e addetti al servizio di prevenzione, medico competente, committente, coordinatori ecc.) con l’accertamento, per ciascuno di essi, dei compiti rilevanti con riguardo alla prestazione lavorativa nel cui ambito è avvenuto l’infortunio. In questo senso va sottolineato in particolare che l’individuazione della condotta, per lo più omissiva, che ha costituito la causa efficiente dell’infortunio deve condurre anche ad individuare le cd “posizioni di garanzia” che vengono in rilievo con riferimento alla predetta condotta; in questo senso il parametro per così dire oggettivo dell’investigazione viene a coniugarsi strettamente con quello soggettivo, posto che, come è noto, la responsabilità penale è personale e non possono valere forme di responsabilità oggettiva.
Si tratta, dunque, di appurare – anche con quella sollecitudine che è necessaria per il compimento di “atti garantiti” – chi sono i soggetti ai quali, alla stregua della concreta organizzazione aziendale, competeva attuare quegli adempimenti e quelle cautele previsti dalle norme ed in concreto omessi o inadeguatamente o non correttamente attuati. Questo profilo dell’indagine ha perciò necessariamente ad oggetto l’organizzazione aziendale (e con il termine “azienda” la normativa prevenzionistica intende, come è noto, non solo la struttura imprenditoriale ma anche l’ufficio che eroghi un servizio) e va condotto sia alla stregua della raccolta di informazioni dalle persone in grado di fornirle (eventualmente con l’assistenza del difensore, se già si profilano i presupposti per l’iscrizione di una certa persona nel registro degli indagati) che in base all’analisi della documentazione aziendale al riguardo rilevante, con particolare riferimento ad eventuali atti di delega di funzioni.
Con specifico riguardo alle indagini conseguenti ad un infortunio o mortale o gravissimo del quale il pubblico ministero sia notiziato durante il turno, è bene segnalare come sia palese, pur tenendo conto dell’urgenza degli accertamenti, l’opportunità di compiere il più celermente possibile l’individuazione, per quanto possibile completa, dei soggetti da sottoporre ad indagine, quanto meno al fine delle comunicazioni degli avvisi per gli atti urgenti (ad esempio per l’affidamento dell’eventuale incarico ex art.360 cpp). A tal fine bisognerà prendere in adeguata considerazione sia la documentazione reperita, sia le indicazioni fornite, anche informalmente, dalle persone ascoltate. È preferibile estendere, nel dubbio, il numero delle persone da sottoporre ad indagini, a scopo di garanzia ed al fine di non precludere la successiva utilizzabilità di atti non compiuti in contraddittorio con soggetti a carico dei quali potevano già individuarsi indizi di reità. È in ogni caso necessario un coordinamento della polizia giudiziaria con il pubblico ministero di turno, al quale, se non presente sul luogo dell’infortunio, andranno rappresentate, in modo chiaro e sintetico, le circostanze rilevante ai fini in questione.
8. Il caso della pluralità di imprese
Nel caso di incidenti verificatisi in ambiti in cui operano più imprese è poi fondamentale chiarire, nel più breve tempo possibile, i rapporti tra le stesse (acquisendo la pertinente documentazione: contratti d’appalto, di prestazione d’opera, ecc.) quale sia la posizione del lavoratore infortunatosi, se siano stati adottati atti di cooperazione e coordinamento per l’attuazione delle cautele di sicurezza, se vi sia stata informazione specifica sui rischi propri dell’ambiente nel quale le altre impresse erano chiamate ad operare. Nel caso di incidenti verificatisi in uffici pubblici è poi fondamentale chiarire, nel più breve tempo possibile, se l’amministrazione proprietaria dell’edificio sia diversa da quella che opera nell’edificio stesso e, in questo caso, quali siano i rapporti tra le due amministrazioni in materia di sicurezza, allo scopo di appurare se i responsabili dell’ente proprietario dell’immobile siano stati tempestivamente notiziati delle carenze riscontrate in materia di sicurezza e quindi richiesti di intervenire.
9. La responsabilità dell’ente ai sensi del d.lgs. 231/2001
Un pubblico ministero “sensibile” non può non porre attenzione al tema della responsabilità dell’ente/società per illecito dipendente da reato; si tratta dell’ “universo” di cui al d.lgs. 231/2001, con riferimento al quale i contributi interpretativi più rilevanti di giurisprudenza e dottrina hanno trovato terreno fertile proprio nel settore della salute e sicurezza sul lavoro, una volta introdotto nel citato decreto l’art. 25 septies.
Si pensi, ad esempio, ai temi complessi e suggestivi della colpa di organizzazione, dell’individuazione dei soggetti in posizione apicale o sottoposta, ai concetti di interesse o vantaggio dell’ente, al contenuto dei modelli di organizzazione e gestione. Si tratta di questioni complesse che certamente non possono essere affrontate in questa sede. Basta dunque ricordare che ogni indagine in materia non può ormai non dedicare specifica attenzione anche al tema della responsabilità dell’ente, preoccupandosi di verificare, qualora ve ne siano i presupposti, a quali categorie delineate dall’art. 5 del d.lgs. 231/2001 vadano ricondotti gli autori del reato, se il reato sia stato commesso nell’interesse dell’ente/società, se questo ne abbia tratto un vantaggio (in termini di risparmio di spesa o di mancato decremento della produzione), se sia stato adottato ed efficacemente attuato un modello organizzativo, se, in definitiva, via sia stata quella colpa di organizzazione che la giurisprudenza più recente qualifica come il riflesso della responsabilità in parola.
Sommario: 1. Premessa. - 2. La nota informativa del Gruppo di Lavoro sulla giustizia cibernetica e sull’intelligenza artificiale. - 2.1. Il funzionamento dell’intelligenza artificiale generativa. - 2.2. I rischi dell’impiego dell’intelligenza artificiale generativa. - 2.3. Come avvalersi dell’intelligenza artificiale generativa. - 2.4. Quando non usare l’intelligenza artificiale generativa. - 3. Cenni al seminario del 20 febbraio 2024.
1. Premessa.
In materia di intelligenza artificiale e giustizia il Consiglio d’Europa ha costituito, nell’ambito dell’European Cyberjustice Network e quale articolazione della CEPEJ, cioè la Commissione europea per l’efficienza della giustizia, il Gruppo di lavoro sulla giustizia cibernetica e sull’intelligenza artificiale [“CEPEJ Working group on Cyberjustice and Artificial Intelligence (CEPEJ-GT-CYBERJUST)].
Tra le iniziative permanenti, si segnala il “Resource Centre on Cyberjustice and AI”, che costituisce un sito pubblicamente accessibile per informazioni affidabili sui sistemi di intelligenza artificiale ed altri strumenti chiave in tema di giustizia cibernetica applicati alla digitalizzazione del sistema giudiziario; e che consente di ottenere uno sguardo d’insieme di tali strumenti, costituendo il punto di partenza per gli approfondimenti sui loro rischi e benefici per i professionisti e gli utenti finali, in linea con la Carta etica europea sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e nel loro ambiente (risalente, ormai, già al 2018, reperibile al sito https://rm.coe.int/charte-ethique-fr-pour-publication-4-decembre-2018/16808f699b).
Il gruppo di lavoro ha rilasciato, il 12 febbraio scorso, una nota informativa sull’Uso dell’Intelligenza artificiale generativa da parte dei professionisti del diritto in ambito lavorativo (avallata dal Comitato consultivo sull’Intelligenza artificiale - Artificial Intelligence Advisory Board - AIAB della CEPEJ; e reperibile all’indirizzo https://www.coe.int/en/web/cepej/resource-centre-on-cyberjustice-and-ai); ed ha organizzato, nel pomeriggio del 20 febbraio, un webinar “European Cyberjustice Network (ECN) Webinar #7/2024 Generative Artificial intelligence (AI) in the field of Justice”
2. La nota informativa del Gruppo di Lavoro sulla giustizia cibernetica e sull’intelligenza artificiale.
La nota si apre con un paragrafo introduttivo, nel quale fornisce una definizione di Intelligenza artificiale generativa (d’ora in avanti, IAG): si tratta di programmi che comunicano in linguaggio naturale, capaci di fornire risposte a domande relativamente complesse e di creare contenuti (somministrare un testo, un’immagine o un suono) a seguito della formulazione di una domanda o di specifiche istruzioni (“prompt”): strumenti che includono OpenAI®, Copilot®, Gemini® e Bard®, tutti in rapida evoluzione. Lo scopo dichiarato della nota è di fornire alcune riflessioni su quanto i giudici e gli altri professionisti del settore della giustizia possono aspettarsi dall’uso degli strumenti di intelligenza artificiale generativa in un contesto giudiziario.
2.1. Il funzionamento dell’intelligenza artificiale generativa.
La nota prosegue con l’esame del modo di funzionamento dell’IAG: questa apprende regole e caratteristiche da ampie raccolte di dati ed è basata sulla comprensione statistica del linguaggio; il suo scopo è definire, con la maggiore possibile affidabilità, la parola più affine, senza conoscerne il significato. Ad esempio, quando il sistema scrive che J.F. Kennedy fu presidente degli Stati Uniti, non è perché si sta basando su di una base di conoscenza con un legame diretto tra i due frammenti di informazione, ma perché, nei dati di addestramento (training data) forniti, ha riscontrato una rilevante frequenza statistica dell’associazione tra Kennedy e “presidente degli Stati Uniti”: in tal modo, il programma ha dedotto che questa associazione doveva essere rilevante. Per la maggior parte, i dati di addestramento sono le informazioni fornite da altri utenti alla macchina attraverso i prompt.
IAG sembra offrire buoni risultati in un contesto chiaramente delimitato, come la traduzione di testi o la generazione di testi coerenti (ma non necessariamente veri) o di immagini o suoni, di sommari automatici di testi, di analisi semantiche e di rilevamento di opinioni, il “text mining” (tecnica che utilizza l'elaborazione del linguaggio naturale per trasformare il testo libero, non strutturato, di documenti/database in dati strutturati e normalizzati) e l’accesso ai contenuti.
2.2. I rischi dell’impiego dell’intelligenza artificiale generativa.
Quanto ai rischi, la nota del Gruppo di lavoro lucidamente li cataloga separatamente.
In primo luogo, c’è il rischio di potenziale produzione di informazioni fattualmente inaccurate (risposte false, “allucinazioni” e pregiudizi). Le risposte sbagliate possono derivare, prima di tutto, da dati di addestramento insufficienti o sbagliati; da dati falsi originano false risposte. Per allucinazioni si intendono le risposte semplicemente inventate: se non è rinvenuta nessuna risposta, l’algoritmo “inventa” una risposta plausibile o probabile, talvolta per l’elaborazione di una falsa correlazione tra i dati. Fondamentalmente, tutti i sistemi di IAG sono profondamente influenzati dai dati su cui sono stati addestrati. Per questo, essi non sono mai neutrali, ma, al contrario, incorporano tutti i pregiudizi, le inesattezze, le lacune o gli sbagli contenuti nelle basi di dati di addestramento o i pregiudizi culturali di quelli che hanno progettato il sistema e guidato il suo addestramento, validando alcune delle sue risposte. Possono esserci perfino casi in cui un pregiudizio può essere intenzionalmente stato immesso nell’algoritmo. L’opacità di programmazione dell’algoritmo e dei collegamenti dei sottostanti dati porta ad una ulteriore incomprensibilità e quindi a difficoltà nel riscontro di verità delle risposte fornite.
In secondo luogo, c’è il rischio di rivelazione di dati sensibili o riservati.
Le informazioni immesse sono trasmesse al fornitore del sistema e potenzialmente usate come dati di addestramento per gli utenti futuri e per generare futuri risultati: questo può portare ad una violazione della protezione dei dati personali o una non intenzionale rivelazione di dati riservati o altrimenti sensibili. Non è, per lo più, garantita la protezione dei dati trasmessi attraverso i sistemi di IAG; ne deriva che le conversazioni ed i relativi dati sono registrati nei server delle compagnie, spesso non europee, tanto da poter essere rivenduti (o esposti a razzie informatiche, a seconda del livello di sicurezza di questi server).
In terzo luogo, si segnala il pericolo di una perdita dei riferimenti dei dati forniti e di una possibile violazione del diritto di autore o di proprietà intellettuale. C’è scarsa trasparenza sull’origine delle informazioni adoperate per popolare le basi di dati e per l’addestramento. La maggior parte dei sistemi non può elencare e accreditare i testi usati per creare i risultati: e questo può non soltanto causare difficoltà nella verificazione di questi, ma anche integrare violazioni dei diritti d’autore. Mentre le cornici normative differiscono da paese a paese, tuttavia esse si applicano anche all’uso di IA, tanto che il contenuto realizzato potrebbe essere qualificato plagio.
Ancora, è limitata la capacità di fornire la stessa risposta ad una domanda uguale. La maggior parte dei sistemi di IAG contengono un grado di casualità che permette loro di proporre differenti risposte alla stessa domanda: le risposte possono differire, a seconda del momento in cui sono formulate o delle sfumature nella formulazione delle rispettive domande; pertanto, non si può sempre garantire lo stesso livello di qualità nelle risposte.
Inoltre, il risultato dei sistemi di IAG non è in alcun modo unico e può essere identico o simile a quello generato per un altro utente, sicché la sua fonte non dovrebbe mai essere tenuta nascosta. Inoltre, specialmente nel campo giudiziario, è essenziale essere trasparenti sull’uso di IA: la relazione con la parte è basata sulla fiducia.
Infine, mentre è variabile la stabilità e l’affidabilità dei modelli di IAG quanto a tempi di risposta e disponibilità dei servizi offerti (ciò che andrebbe quindi tenuto in debito conto nei processi per i quali il tempo è un fattore determinante), la relazione tra l’uomo e la macchina è di per sé pregiudicata dalle nostre capacità cognitive: anzi, tale relazione tende ad esaltare questi pregiudizi, poiché l’interazione con la macchina aumenta la percezione, da parte di questa, del fatto che quella sia “umana”. Lo scambio non è mai neutrale.
2.3. Come avvalersi dell’intelligenza artificiale generativa.
La nota del Gruppo di lavoro prosegue con il suggerimento delle cautele con cui è possibile avvalersi di IAG:
2.4. Quando non usare l’intelligenza artificiale generativa.
Il gruppo di lavoro conclude la sua nota informativa lanciando anche i suoi moniti, invitando a non fare uso di IAG:
3. Cenni al seminario del 20 febbraio 2024.
Il seminario, che ha visto la partecipazione di oltre una sessantina di professionisti della Giustizia, ha visto la presentazione di due esperienze nazionali: quella portoghese, di impiego di autentici chatbot per una guida pratica all’accesso alla giustizia, aperta al pubblico e con la premessa che non si tratta affatto di somministrazione di consigli legali, ma solo – appunto – di informazioni di orientamento per le procedure da seguire ed i relativi costi (https://justica.gov.pt/en-gb/Servicos/Justice-Practical-Guide-Beta-Version), per di più, al momento, limitata ad alcuni specifici settori, verosimilmente di più immediato interesse per la generalità dei cittadini; quella spagnola, che consente ai professionisti (e, soprattutto, ai giudici) di gestire la mole di informazioni contenute nei testi per estrarne sommari e dati rilevanti ai fini della formazione degli atti successivi, idonei a presentare il contenuto e perfino, talvolta, a conseguentemente classificare l’atto (https://www.mjusticia.gob.es/es/JusticiaEspana/ProyectosTransformacionJusticia/Documents/Transparencia%20de%20los%20medios%20empleados%20en%20la%20construcci%C3%B3n%20de%20algoritmos%20de%20inteligencia%20artificia.pdf).
Alle relative presentazioni è seguito un interessante dibattito coi relatori in ordine ai limiti, alle potenzialità, all’affidabilità, alla struttura stessa, alla replicabilità dei sistemi. Nessuna specifica esperienza è stata addotta per la realtà italiana.
Questo articolo è parte di una campagna cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla.
Bobigny, anno 1972. Grattacieli, cemento, le acque grigie del Canal de l’Ourcq che scorrono a sud ovest per quattro chilometri fino a Parigi. Marie-Claire, 16 anni, chiede aiuto a sua madre per abortire. I soldi sono pochi e Marie-Claire si ritrova su un tavolaccio. Le infilano una sonda di ferro che le farà sanguinare via il figlio della violenza, ma pure il proprio corpo. L’emorragia e l’infezione si curano, l’aborto resta. La denuncia viene dall’uomo che l’ha stuprata. A sua madre Michèle la confessione è estorta da un gendarme, sulla porta di casa, sotto minaccia di arrestarle entrambe. Marie-Claire ne porta il cognome, Chevalier, perché è senza padre. Michèle e le tre donne che l’hanno aiutata sono rinviate a giudizio con lei.
C’è un’altra donna: colei che assume la difesa in tribunale. Si chiama Gisèle Halimi, ha abortito anche lei. È ricca, incredibilmente colta, rivoluzionaria. L’anno precedente ha firmato, con altre 343, il Manifesto per la legalizzazione dell’aborto, dichiarando di avervi ricorso. Con lei Simone de Beauvoir, Françoise Sagan, Marguerite Duras, Catherine Deneuve. Sono famose, qualcuno ne ha letto sui giornali e ne parla a Michèle. Forse ne ha letto lei stessa, con un sussulto di orgoglio, come se fosse una di quelle donne. Gisèle Halimi è una militante, sposa le cause che difende, mette la propria forza al loro servizio, al servizio dei deboli. Michèle ripone in questo ogni speranza di madre e di donna.
La violenza è un’attitudine che postula una subalternità. Poggia su un rapporto di forza, richiede un sopra e un sotto. Da entrambi i lati può venire la violenza, anche dal basso: dalla ribellione che vuole sovvertire, sollevarsi per quanto sforzo costi, e la violenza allora nasce da lì, come uno scoppio, per appianare quella disparità, a volte ribaltarla. Più spesso però dall’alto viene. È talmente più facile, non richiede coraggio, alcuno slancio. Violenza naturale come la forza di gravità, che cade senza accorgersene quasi per un rilassamento del contegno, ché trattenerla costa sforzo.
Il Manifesto delle 343 è intriso della violenza provocatoria e liberatoria di chi sta sotto. È uno schiaffo, dato con rabbia e con coraggio. Dover rivendicare sollevandosi con enorme sforzo di autocoscienza, esponendosi a un rischio dei peggiori, il diritto di compiere una scelta dolorosissima. La scelta di strapparsi di dosso una parte di sé, la più amata, minuscola e indifesa parte. Quale violenza terribile è quella di una legge che nega alle donne la possibilità di abbandonarsi esauste dopo averlo fatto. Che le costringe ad alzarsi, insorgere, lottare.
Gisèle Halimi accetta, pone la propria linea difensiva: confessare, anzi rivendicare. Dichiarare guerra al diritto violento. All’ipocrisia classista che stupra di nuovo chi non può andare ad abortire in Inghilterra. Parlare, oltre la testa dei giudici, alla gente.
E la gente ascolta la sua bella voce lenta, si lascia arringare dall’avvocata militante, l’avvocata partigiana che brandisce come arma la conoscenza del diritto nemico che combatte. La folla davanti al tribunale dei minori di Bobigny è densa, i giornali hanno costruito intorno al processo una corazza fatta di occhi e di voci. Ma per quanto Marie-Claire difenda il proprio libero arbitrio, il Tribunale decide per lei: costrizioni di ordine sociale, familiare e morale, cui non avrebbe potuto resistere, l’hanno indotta al gesto sconsiderato. L’assoluzione scende così come una cappa di negazione, di delegittimazione, su quella scelta e su quella lotta. Un’altra violenza che cade dall’alto in basso come una ghigliottina, come una spiegazione troppo semplice.
Le due amiche di Michèle che l’hanno aiutata a trovare l’abortista vengono assolte perché non hanno avuto contatti diretti con Marie-Claire. Come se il mutuo sostegno tramite una madre, un giornale, una pancarte non lo fosse. Michèle è condannata a una multa poi lasciata prescrivere in appello, in attesa di un’udienza che il giudice istruttore decide di non fissare in tempo. Colei che ha materialmente operato l’aborto è condannata a un anno, con pena convertita in multa.
Nello stesso modo, nello stesso anno 1972, Gigliola Pierobon ascolta in piedi la sentenza che le accorda il perdono giudiziale. È la Padova dei circoli per il potere operaio, delle sommosse studentesche alla facoltà di scienze politiche. Gigliola vive sola, quel giorno non è andata in fabbrica per venire in Tribunale. È colpevole di aver abortito, rea confessa, ma le spetta il perdono perché oggi è madre. Si è ravveduta quindi! Questo ravvedimento Gigliola lo rinnega, ma il Tribunale glie lo attacca addosso come un vestito altrui, che le va largo da tutte le parti. Fatti esteriori, solamente fatti. Il matrimonio, che importa che sia già finito, la maternità, come se questa scelta potesse sovrapporsi, assorbire, negare quella. Gigliola pensa alla sua bambina, la testolina bruna. Poi pensa a sé stessa sei anni prima. Tutto ciò che successe allora accadde dentro, molto dentro. Nel ventre di diciassettenne dove penetrò il ferro a tirare via quell’altra figlia. Nella testa dove Padova aveva infuso una consapevolezza fatta di piazze e libri. La scelta di questi e non di quella. Come si può giudicare quei dentro dal fuori di oggi. Come si può mai giudicare un dentro da un fuori.
Fuori dal Tribunale, Padova insorge di donne nel sole di giugno, le compagne dei circoli femministi. Attaccano striscioni sotto i portici dell’Università, alcune entrano in Tribunale, gridano in aula di aver abortito tutte. Gigliola a diciassette anni pensava che le fosse capitato qualcosa di soltanto suo. Una sfortuna individuale, una vicenda privata. Poi ha capito.
Bianca Guidetti Serra, il suo avvocato, sceglie come Gisèle Halimi di condurre un processo politico. Diversamente da Bobigny, a Padova il giudice non ammette tra i testimoni medici e intellettuali, ma non importa. La politica è fuori dal tribunale, come fuori dal Parlamento. Il processo alla legge si fa negli striscioni di quelle donne in piazza, sui giornali, nei circoli operai estremamente colti che sono gli stessi circoli della facoltà di scienze politiche, di quella cattedra di filosofia.
Per Bianca non è così diversa questa lotta dagli scioperi del ’43. Lei c’era davanti alla FIAT, orfana di padre, doveva guadagnare qualche soldo. Assistente sociale, diciassettenne come poi Marie-Claire, come poi Gigliola. Staffetta partigiana. Avvocata. Le sta comoda Padova, la sua fiducia in un egualitarismo possibile, larghissimo. Quello spazio in cui le donne sono già uguali. La presenza confortante di Gisèle Halimi dall’altra parte delle Alpi e quella social catena che infonde coraggio.
Ogni lotta per i diritti è la stessa lotta. Sono uguali per Gisèle gli indipendentisti algerini torturati dall’esercito francese e le giovani donne vittima di violenza sessuale in Francia. Sono uguali per Bianca gli operai di piazza Statuto e i sindacalisti della Spagna franchista. Uguale la lotta in difesa del corpo delle donne e quella in difesa del salario.
Tutte queste lotte nascono da una minorità. La minorità fisica della donna rispetto all’uomo, primordiale, inestinguibile, non è diversa dalla quella di un detenuto rispetto al carceriere, di un invalido rispetto a chi gli dà assistenza. Una disparità sempre sottesa, sempre latente nella mente di entrambi, anche quando inespressa. Diventa allora una minorità dialettica, non dover indisporre il proprio interlocutore. Quell’autosorveglianza ininterrotta. Una minorità sociale di ruoli imposti, così connaturata che si tramanda come il colore degli occhi. Troppe volte, la minorità economica che ne consegue senza scampo. E la condizione, impronunciabile, di minorità esistenziale che tutto ciò produce. Le scelte che nemmeno verrebbe in mente fare. Il perenne stato di allerta, il pensiero alla propria incolumità nel semplice atto del vestirsi, del programmare un tragitto. L’autoimposizione di vincoli che sembrano venire dal difuori, ma non è. La crudeltà delle scelte, non lavorare, lavorare e sfinirsi due volte, non avere figli, averli e sfinirsi due volte. Quel senso di peso sul petto, alla caviglia. Per metterla a fuoco ci vogliono gli anni, i decenni che ciascuna spende a farci i conti. A partire da quell’intuizione iniziale. Gisèle Halimi bambina, in Tunisia, che dice no, non servirò i miei fratelli maschi. Gisèle donna come noi altre, che parte per l’Algeria indipendentista, a casa il bambino ha la febbre, la studentessa che fa da babysitter ha dato buca, non sa che cosa fare ma comunque deve andare, come qualsiasi dottoressa o operaia o qualcos’altro. Gisèle intellettuale che deve reggere lo sguardo di Simone de Beauvoir sui suoi figli. Donna che deve tener testa a De Gaulle quando le sferra un colpo basso sul divorzio. Rimane in piedi, apparentemente senza sforzo. Il diritto è la sua corazza, la sua fama è la sua forza. Ma dentro, tutte abbiamo capito. Quella fragilità insopportabile cerca appoggio per salvarsi, cerca l’umanità, cerca una causa esterna su cui farsi forza e stare in piedi.
La stessa intuizione coglie Bianca Guidetti Serra di fronte alle leggi razziali, i suoi amici ebrei fino ad allora così uguali. Quell’intuizione la porta al ciclostile, alla resistenza. Sente e comprende Bianca le notizie sul governo di Vichy che nel 1943 ghigliottina Marie-Louise Giraud per aver praticato degli aborti illegali. Sente chiarissimo mentre legge le cartoline di Primo Levi dal campo. Non teme di accostare questo orrore alle altre sue battaglie, sa che la lotta per la liberazione è insieme lotta per l’emancipazione femminile, sa che la libertà non può mai declinarsi al singolare.
Questa certezza, negli anni ’70, quelle donne l’avevano rafforzata ancora, nonostante tutto. Ed era tanto bella e limpida la lotta contro un nemico così visibile, da fare a pezzi con l’accetta. Allora era chiaro: non si poteva fare una battaglia senza farle tutte. L’unica strada era scardinare l’impulso dicotomico del sopra e del sotto, del sopra che poggia il piede sul sotto per mantenere il proprio stato di superiorità, di supremazia, di dominanza. Quelle battaglie facevano tremare il suolo, smuovevano le acque, sradicavano un’erba secolare e creavano frane impossibili da arginare.
Nel 1978 passava la Loi Veil, che porta il nome di Simone, la legge 194. L’aborto era un diritto.
In Italia già c’era stato lo Statuto dei lavoratori. L’abrogazione del delitto di adulterio. La legge sul divorzio. Sarebbero venute di lì a poco la riforma del diritto di famiglia, l’abrogazione del delitto d’onore. Il diritto violento, un pezzo per volta, franava. Si costruivano pezzi di qualcos’altro. Il diritto come legge, espressione democratica di un sentire comune, ben poteva essere miope, violento e basso come quel sentire. Ugualmente incline al sopruso. Il diritto come arma, come strumento difficile il cui impiego richiede alta maestria, strumento potente nelle mani di pochi, poteva invece scegliere di inginocchiarsi al cospetto di qualsiasi ingiustizia e di farne riscatto. I processi di Gisèle Halimi e di Bianca Guidetti Serra, come tante altre lotte fatte da un lato e l’altro dello scranno, restituivano al diritto una funzione civilizzatrice. Le Gisèle prendevano per mano le Marie-Claire del mondo, sentivano che questa era la loro lotta. Questa rincorsa inarrestabile, il rinnovarsi della resistenza di fronte ad ogni ingiustizia. Concepire il diritto come qualcosa di vitale, una forma di risposta, una possibile reazione alla violenza. Il diritto come strumento umanista, arma come altre bestie hanno gli artigli.
Il diritto impara a proteggere, un pezzo per volta. Filtra dalla realtà alcuni conflitti, soltanto alcuni, le maglie strette dei tempi che sono maturi. E quei conflitti cura, lenisce, attutisce. Setaccia tra i deboli i degni di tutela. E li protegge, o tenta. Lavoratori, donne, alcune minoranze. Non tutti i deboli, non proprio tutti ancora. Le donne si, però, non si ritrova traccia di distinguo se non per tutelarle. Quel sopra e sotto esiste ancora, ma il diritto non ne è più artefice o complice, casomai spettatore, controllore e censore.
Abbiamo adesso codice rosso e quote rosa e congedi diversi da quelli dei padri e decontribuzione solo per le madri. La minorità esiste ancora, ma oggi è riconosciuta, certificata. Quella fisica, quella sociale, quella economica. Dobbiamo rallegrarci? Che ne è di quei deboli che non sono filtrati dal setaccio?
Se il discorso è coerente, se qualcosa è rimasto da quegli anni, non è finita dunque la lotta. Nemmeno per le donne è finita. Ora la legge ufficialmente non ci incolpa; ci dice poverina e brava. Le donne non hanno più una pistola puntata sull’utero. Ma la pistola è in tasca, o in un cassetto. Il germe del paternalismo si sostituisce subdolo a quello del patriarcato. Sempre da sopra a sotto viene. Sempre da sopra guardavano Marie-Claire trovandole la scusa di un condizionamento famigliare. Da sopra guardavano Michèle lasciando che il reato le si prescrivesse. Sempre dall’altro veniva il perdono accordato a Gigliola. Credevano di fare un favore a tutte loro. Nessuna di noi ha detto grazie.
Oggi una Marie-Claire non sarebbe denunciata dal padre di suo figlio. Forse partorirebbe, prenderebbe sei mesi di congedo. Perderebbe soldi, professionalità, posizione sociale, sicurezza. Sarebbe più debole, più soggetta a violenza. Anche solo una frase del compagno progressista, la cui vita non si è spostata di altrettanto, e che quasi come niente fosse assesta un colpo, dice tanto non stai lavorando, puoi occuparti di questo o di quello, oppure beata te, di cosa ti lamenti. Approfittando della temporanea minorità dell’altra per affermare, riaffermare o instaurare un rapporto di forza. Questa disuguaglianza così minuta per alcune comporta, come effetto farfalla, l’incrinarsi e poi lo sfaldarsi di un equilibrio fragile, l’inizio di una discesa verso forme di controllo, di prevaricazione più tangibili. Per altre resta lì, colpo non abbastanza forte da essere denunciato, stigmatizzato, da essere finanche visto da qualcuno. Pur sempre un colpo a ricordare quel sopra e sotto con cui dover comunque fare i conti.
C’è un germe di violenza in questo? Si, la pistola in tasca, eccola lì. Quella donna potrebbe non essersene accorta, troppo consueto. Quel colpo potrebbe anche essere venuto da un’altra donna, subdolo, non è un discorso di maschio e di femmina, ma di sopra e di sotto. Il patriarcato è il modo, il basare un rapporto sul dominio. Il nemico non è la legge sull’aborto, ma il pensiero che esista una qualsiasi forma di dominio legittima.
Chi nega che quella realtà di una legge violenta perduri, abbia strascichi, chi disconosce la permanenza del patriarcato nella nostra società, compie una grave scorrettezza intellettuale e dialettica. Il tempo di reazione della società è lungo. Il diritto agisce per strappi in avanti. È finita, è vero, la legittimazione legale di alcune forme di violenza che era a sua volta fonte di violenza. Ma il venir meno formale delle disuguaglianze lascia nell’aria un nuovo astio. La sensazione indicibile di chi prima era sopra che gli sia stato tolto qualche cosa. Negare di vedere il proprio privilegio è un modo per difenderlo. Il liberismo capitalistico, la trappola meritocratica. L’astio di un certo maschile nei confronti del femminile, per legge ormai a lui equiparato nei diritti, è lo stesso che anima i nazionalismi, i sicuritarismi. La paura che prende noi nati nel ventre grasso della vacca quando ci sentiamo invasi e depredati di qualcosa che, chissà perché, ci sembrava così innegabilmente nostro. Quel diritto allo stare sopra che prima era sancito, si poteva esercitare sotto il sole, ora è perduto, inconfessabile, indicibile, ma si fatica a cederlo. Questo si traduce in un sentimento maschile livoroso, che ti si sfoga addosso. In senso sessuale, in senso fisico, anche in senso dialettico. Nel maschio che non ritiene di dover celare il proprio malumore, anzi che provoca deliberatamente, nel maschio che non crede di dover trattenere il commento insultante, sminuente. Violenti sono gli uomini che continuano a trattare le donne come subalterne, violenti sono pure coloro che si adeguano al nuovo corso senza una vera adesione, senza una vera evoluzione, ma obtorto collo. Visibilmente scomodi, irrigiditi. Violento è dire che la violenza è nella testa delle donne che ancora la percepiscono. Violento è dire che sono frettolose, non si accontentano di quello che hanno guadagnato. Così il maschio pur rispettoso della legge esercita nei piccoli spazi rimasti il proprio predominio. E sono ancora in tanti aggrappati lì, a dirci brava, o te la sei cercata, o non dire sciocchezze, o sei migliore di me.
Non basta. Anche pochissimo più di zero violenza, zero disuguaglianza e zero rapporto di forza è già troppo. Ogni accenno alla pistola che l’uomo ha in tasca ricrea automaticamente il contesto di tensione in cui la minaccia di violenza riaffiora tangibile, da sola basta a intimidire. Non serve che sia esplicita, non ce n’è bisogno. È così chiaro, per chi ci è nato in mezzo, per chi ha ereditato quello stato di allerta insieme al colore degli occhi. Il patriarcato è un metodo, non diverso da altri.
E allora dovremmo indignarci oggi come si indignavano le avvocate degli anni ’70? Scendere in piazza a gridare che il re è nudo, che è scandaloso, che la legge è ingiusta? Di certo dovremmo allenarci a riconoscere i sintomi minuti, anche dove sono rimasti solo quelli, perché sono il germe che non consente al patriarcato di sparire. Dovremmo allenare l’intuizione, indignarci come Gisèle Halimi e il suo no di bambina a una realtà che sembrava allora così ovvia, e non era.
Si vota domani al Congresso francese la costituzionalizzazione dell’aborto. Si è discusso tanto se dovesse o meno dirsi diritto, o libertà. Su questa sfumatura semantica si è poggiato lo scontro, perché di sfumature esso oggi vive. Libertà garantita che è qualcosa meno di questo, qualcosa più di quella. Il corpo delle donne è qui ed oggi un terreno su cui operare dei così minuti distinguo, un terreno in salvo da più feroci conflitti. Un terreno che però ha memoria, da trasportare altrove, dove serve. Da custodire mentre assistiamo a queste millimetriche forme di sopravvivenza di quel germe. Le teniamo d’occhio, le teniamo a mente, sappiamo che vuol dire. Non è finita, né può mai finire, ma va avanti. Concediamoci di essere contenti. A Bianca sarebbe piaciuta, questa parola. Libertà. Libertà. Libertà.
* Alcune imprecisioni o omissioni presenti in questo articolo saranno perdonate. Lo stupratore di Marie-Claire Chevalier era un compagno di classe, altra verità densa di implicazioni, così come le grottesche circostanze della denuncia. La sonda di ferro e l’infezione sono di Gigliola, ma in un certo senso sono di tutte. Ugualmente, la traduzione della terminologia processuale dal francese non è accurata né storicamente né giuridicamente. È poco importante rispetto al resto: la storia di queste donne e di questi processi è la storia del nostro diritto e della nostra società. Per chi volesse approfondirla: Un caso di aborto. Il processo Chevalier, con prefazione di Simone de Beauvoir, Torino Einaudi 1974; G. Pierobon, Il processo degli angeli. Storia di un aborto, Tattilo Editrice, 1974; G. Halimi, Le procès de Bobigny: Choisir la cause des femmes, Editions Gallimard, 2006; B. Guidetti Serra, Bianca la Rossa, Einaudi, 2009; Il bellissimo podcast di Cédric Condon Gisèle Halimi, la cause des femmes, 2022.
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