Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio.
Giacomo Matteotti. Il giurista
di Giovanni Canzio
Sommario: 1. Premessa. - 2. Matteotti giurista e cultore della procedura penale. - 3. Il pensiero e l’azione di Giacomo Matteotti fra diritto e politica. - 4. Il delitto Matteotti. - 5. Il processo, rectius i processi, per il delitto Matteotti. - 6. Una metafora del Potere.
1. Premessa
Il Parlamento, con il voto unanime di entrambi i rami, ha approvato nel 2023, su proposta della Sen. Liliana Segre, la legge che istituisce le celebrazioni per il centenario della morte di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924 – 10 giugno 2024), con l’importante avviso che tra le attività di ricerca su vita, pensiero e opera di Matteotti «saranno sostenute anche iniziative didattiche e formative, in sinergia con biblioteche, musei e istituzioni culturali, attraverso il coinvolgimento diretto delle istituzioni scolastiche»
Uno speciale rilievo va attribuito all’impegno culturale e formativo del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara che, insieme a quello di Rovigo, agli Ordini degli Avvocati di Ferrara e Rovigo, alla Casa-Museo Giacomo Matteotti e al Comune di Fratta Polesine, ha contribuito efficacemente alla pubblicazione nel 2022 del terzo Quaderno di Casa Matteotti intitolato “Giacomo Matteotti fra diritto e politica”, oggetto di due partecipati seminari presso le citate Università nell’ottobre-dicembre 2023.
Il volume, curato dal Prof. Daniele Negri, ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Ferrara, raccoglie una serie di studi preziosi di Michele Pifferi, Donato Castronuovo, Paolo Veronesi, Fernando Venturini, Ludovica Mutterle, Gianpaolo Romanato e dello stesso Negri, perché, nel ricordo dell’opera del martire del fascismo, si rinnovi la cultura e la passione dei giuristi per le regole dello Stato di diritto e per la democrazia.
2. Matteotti giurista e cultore della procedura penale
Giacomo Matteotti - dottore in legge, allievo dei maestri Alessandro Stoppato e Luigi Lucchini, studioso di diritto e procedura penale -, dopo avere rielaborato e pubblicato nel 1910 la poderosa (e documentata con ampio apparato statistico) tesi di laurea su “La recidiva”[1], discussa nel 1907 nell’Ateneo bolognese con Stoppato, redige una serie di saggi in materia processuale nel breve arco temporale di tre anni fra il 1917 e il 1919, mentre era ristretto al confino di polizia a Campo Inglese, nei pressi di Messina, come “internato militare politico”.
Il rigore scientifico di Matteotti si dimostra pienamente all’altezza del confronto serrato e talora aspramente critico che apre con taluni aspetti di rilievo della disciplina dettata dal “nuovo” codice di procedura penale Finocchiaro Aprile (r.d. 27 febbraio 1913, entrato in vigore il 1° gennaio 1914), come illustrata nelle note accompagnatorie della Relazione al Re[2].
Il giurista dialoga, senza alcuna sudditanza accademica, con la dottrina penalistica italiana dell’epoca, rappresentata dalle Scuole classica-liberale, positivista e del socialismo giuridico, che erano schierate, con le rispettive Riviste di riferimento, a favore (Stoppato) o contro (Lucchini e la Rivista Penale) la riforma o in posizione neutrale (Eugenio Florian e la Rivista di diritto e procedura penale), ma anche con la dottrina d’Oltralpe, tedesca e francese, da lui direttamente frequentata nei viaggi e negli incontri di studio all’estero, nonché con la giurisprudenza, peraltro non sempre giudicata perspicua, della Cassazione penale dell’epoca.
Orbene, se una compiuta attenzione è stata rivolta dalla ricerca storico-giuridica alla figura e all’opera del giurista Matteotti come “penalista”[3], non sembra che siano stati finora adeguatamente indagati e valorizzati gli straordinari contributi offerti dallo studioso alla evoluzione della scienza e della dottrina processualpenalistica italiana, nel contesto del riformismo penale europeo, fatta eccezione per taluni, lontani riferimenti di L. Mascilli Migliorini e di C. Carini e per il recente e perspicuo saggio di D. Negri cui si è fatto cenno[4].
Di qui l’esigenza della riscoperta, dell’analisi e della riproposizione all’attenzione soprattutto dei più giovani studiosi di quelli che si ritiene costituiscano gli scritti di Giacomo Matteotti di maggior rilievo nella materia.
2.1. Nel lungo e articolato saggio su “Il concetto di sentenza penale e le dichiarazioni d’incompetenza in particolare”[5] il giurista di Fratta Polesine sottopone a serrata critica la definizione di sentenza penale offerta dall’art. 98, comma 1, cod. proc. pen., secondo il quale “sentenza è la decisione che definisce l’istruzione o il giudizio”, mentre secondo il comma 2 della medesima norma, “ordinanza è la decisione pronunziata nel corso dell’istruzione o del giudizio o in sede di esecuzione”.
Il legislatore ultimo del 1913 non fissa in realtà l’oggetto specifico che la sentenza definisce, con la conseguenza che, a fronte di “un puro nome per sé stesso nulla significante”, la lettera della legge appare “inesatta, contraddittoria, senza che alcuno spirito le stia dietro a supplire a vivificare”, sì che spetta alla dottrina di formulare, “non contro ma oltre la legge”, una precisa definizione.
Di qui il severo monito ad abbandonare abiti mentali, deviazioni, formule sterili dettate da un astratto tecnicismo giuridico, errori di definizioni prese a prestito dalla dottrina civilistica o dai trattati scolastici o dall’allora dominante dottrina germanica, per assecondare invece la corrispondenza del concetto con l’essenza, l’oggetto e i fini del procedimento. A tal fine lo studioso rivendica con fermezza l’autonomia scientifica della procedura penale, perché il processo penale si presenta “più libero dalle tradizioni, più semplice nell’unico tipo e nell’unico scopo, trovando nel suo stesso fondamento il criterio”. E conclude con un appello a che le soluzioni proposte siano non solo empiricamente semplici e concretamente praticabili ma anche coerenti con un’armonica composizione del vigente sistema processuale:
“Nessuno deve illudersi di possedere l’unica e assoluta verità. Ogni epoca, ogni momento storico ha un complesso variabile di necessità e di esigenze, di tradizioni e ambizioni, costituenti l’elemento politico dell’opera, di cui il legislatore deve tenere conto per le premesse e gli effetti pratici della norma da dettare, in corrispondenza coi fini che egli si propone. La nobiltà giuridica dell’opera appare poi quando a ogni proposta sia data la formulazione più adeguata e più chiara, e tutte le norme si riuniscano e si fondano nel sistema più armonico e semplice. … Quindi non vi è un’idea immutabile di sentenza ma migliore è quel concetto che, perspicuo in sé e non equivocabile, sia conforme ai fini della legge e, traendo luce dall’essenza di essa, la riverberi sulle altre norme e gli effetti che ne devono seguire”.
Una conclusione, questa, invero preannunciata e coerente con l’esergo del saggio: “Non ex regula ius, sed ex iure regula”.
A prescindere dal giudice che emana il provvedimento o dal momento processuale in cui questo interviene e dalla sua impugnabilità o irrevocabilità, sentenza è solo quella che decide sull’oggetto del procedimento e quindi esaurisce la pretesa penale attinente all’istanza punitiva: i concetti di pretesa penale, procedimento e sentenza sono “correlativi”.
2.2. Nel saggio su Nullità assoluta della sentenza penale[6], Matteotti apprezza la definizione di nullità assoluta, insanabile, deducibile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, offerta dall’art. 136 del nuovo codice di rito del 1913[7]. Avverte tuttavia che è urgente determinarne con esattezza la portata, “per arrestare le deviazioni e gli errori che minacciano di diffondersi anche ad opera dei migliori cultori della disciplina”, con speciale riguardo alla fissazione dei precisi confini con l’opposta categoria della inesistenza.
Osserva che, dal punto di vista strettamente letterale, nullità vuol dire causa di annullabilità non già inesistenza, sicché, se manchi l’impugnazione o non intervenga il giudizio di annullamento, l’atto resta valido e capace di effetti giuridici, comunque affetto da nullità assoluta. Questa “ha sempre un limite nel procedimento, di fronte al passaggio in giudicato”.
E però, la pur chiara volontà del legislatore non è bastata a impedire le interpretazioni arbitrarie della Cassazione penale, la quale, pure a fronte del ricorso inammissibile o invalido, talora procede all’annullamento di una sentenza invocando “il supremo interesse della giustizia” o sostenendo che le “verità giuridiche non possono essere coverte dal giudicato”. Parole, queste, che ad avviso del commentatore, “non hanno precisione né delimitazione giuridica”, come del pari l’opinione formulata da V. LANZA circa la persistente rilevabilità della nullità in sede di incidente di esecuzione.
Ammette tuttavia che “per i casi speciali”, non previsti dalla legge, di vizi così essenziali da rendere la sentenza una non-sentenza, possa provvedersi “con altri mezzi ulteriori al giudicato formale … protestando non la annullabilità ma la straordinaria e non legata a termine inesistenza stessa della sentenza”. Spetta alla dottrina identificare la chiave per riconoscerli, oltre ogni indeterminatezza ed elasticità propria delle suggestioni di tipo civilistico o delle teorie sulla mancanza dei presupposti o elementi essenziali della sentenza, quali: la capacità del giudice, l’illegale costituzione e l’incompetenza, gli errori nell’apprezzamento del fatto, rilevabili in appello e in pochi casi mediante la revisione, o gli errori di diritto, la sentenza contraddittoria, il difetto di querela o autorizzazione, gli ultra petita o gli errori di pura procedura.
Solo nel caso del non-giudice (quello privo di giurisdizione) la sentenza non è semplicemente annullabile bensì inesistente e la nullità eccepibile e rilevabile anche in sede di incidente di esecuzione. Qui non si ha in fatto una sentenza: la sentenza in fatto non esiste.
Ancora una volta il pensiero critico dell’Autore verso soluzioni ermeneutiche elastiche, flessibili, perciò incerte, è ispirato dalla costante preoccupazione per la salvaguardia dell’unità e dell’armonia del sistema:
“Si può forse ammettere o lodare codesto dal punto di vista dell’equità … però è sempre una breccia che si apre in un sistema legislativo ben definito scuotendone le fondamenta … pericolosa breccia anche per la difficoltà di un limite. … L’istituto della cassazione verrebbe così svuotato del suo principale contenuto… Non è l’arditezza della proposta che ci spaventa. Nemmeno ci impressiona la marca italiana o tedesca della proposta. La scienza ha confine e marca soltanto per coloro che sono meno degni della disputa scientifica: potremmo essere d’accordo e anzi più arditi nel desiderio di riforme che diano più larga soddisfazione alla giustizia di contro alla formalità del giudicato, ma poiché questo non è e non vuole il sistema legislativo attuale, è dovere dell’interprete e dello studioso di applicarlo secondo la sua precisa e chiara volontà. Gli inconvenienti non si tolgono con sottigliezze e amputazioni incoerenti: ma è meglio che la pratica li riveli nella loro piena corrispondenza con i testi di legge per suggerire oneste e sicure modificazioni”.
Di contro alle pretese esigenze di equità del caso concreto oppone decisamente la forza e il valore del giudicato:
“Non un artificio formale ma una manifesta necessità sociale… senza la quale sarebbe tutto risospinto nell’incertezza”. Si potrà proporre de lege ferenda una diversa disposizione, si potrà costruire un sistema meglio corrispondente alle esigenze del senso popolare di giustizia del momento storico attuale, ma intanto si applichi quello che la legge vuole. E de lege ferenda si intenda un unico sistema coordinato e armonico di disposizioni sul giudicato, le impugnazioni, le nullità, l’esecuzione; non la disordinata proposta di colui che, lasciandosi vincere dall’impressione del particolare iniquo caso concreto, ne pretenda il più pronto rimedio, senza tener conto dei danni che ne verrebbero per altri casi o sotto altri aspetti”.
Conclude, infine, con un severo e profetico monito:
“In uno Stato e in un tempo come il nostro dove è altrettanto facile l’abuso delle autorità quanto la diffidenza del popolo verso di esse, è da preferirsi nelle leggi l’interpretazione più esatta e rigida e far posto alle esigenze dell’equità solo con le dovute riforme legislative”.
Non certamente il mito conservatore dell’intangibilità del giudicato domina, quindi, il pensiero giuridico di Giacomo Matteotti. La rigorosa difesa dei valori della certezza del diritto e della legalità processuale, sulla linea di stretta interpretazione letterale del testo legislativo, viene giustificata dal socialista riformista con il richiamo allo storico verificarsi di ripetuti abusi di autorità, che segnalano il drammatico avvento di un regime autoritario e di una deriva antidemocratica.
2.3. L’analisi condotta nell’ulteriore scritto su “Oggetti di ricorso per cassazione nelle giurisdizioni non ordinarie (militare, marittima, coloniale ecc.). Art. 500 capov°. cpp”[8] appare strettamente e logicamente coerente con le riflessioni svolte sul concetto di sentenza penale, sulla nullita’ assoluta della sentenza e sulla forza del giudicato.
L’art. 500 del codice di rito del 1913, dopo avere delimitato nel primo comma i casi di proponibilità del ricorso per cassazione, stabilisce nel capoverso che “Contro le sentenze di condanna penale di qualsiasi altra autorità, eccetto quelle del Senato costituito in alta corte di giustizia, può essere in ogni tempo proposto il ricorso per difetto di legittima costituzione, incompetenza, od eccesso di potere, qualora non possano essere altrimenti impugnate. Il ricorso non ha effetto sospensivo.”.
Suggerendo una lettura sistematica della disposizione sulla base del rapporto fra regola generale e regola speciale, l’Autore individua i caratteri di una norma generale valida per ogni giurisdizione possibile, essendo riferita a “qualsiasi altra autorità”, cui l’ordinamento processuale attribuisce una funzione suppletiva in difetto di previsioni speciali - “qualora non possano essere altrimenti impugnate” -, peraltro proponibile “in ogni tempo”. E avverte che ciò vale a maggior ragione per le sentenze di quei tribunali speciali costituiti talvolta in Italia in occasione di moti rivoluzionari o lotte civili con la proclamazione dello stato d’assedio e i poteri assoluti delle autorità militari, anch’esse impugnabili senza limite di tempo “per resistere agli arbitrii e abusi della forza”.
In tal modo, per una condivisibile ragione teorica, la regola del ricorso diviene generale e assoluta, estendendosi a tutte le sentenze penali nella loro esistenza oggettiva, quali che siano il soggetto giudicante e le diverse specie di giurisdizione, così che l’applicazione del ricorso per cassazione alle giurisdizioni non ordinarie, “fino allora abbandonate”, diviene reale ed effettiva.
La formula del nuovo art. 500 cpv. risponde inoltre a una esigenza di ordine processuale e materiale, che, posizionando al vertice di tutte le giurisdizioni penali “una unica Corte per la unità del diritto”, assicura il controllo della Cassazione anche sul Tribunale supremo di guerra e marina.
Con questa radicale e argomentata affermazione, Matteotti sembra anticipare il testo del tuttora vigente art. 65 dell’ordinamento giudiziario di cui al r.d. n. 12 del 1941, che attribuisce alla Corte di cassazione, quale organo supremo della giustizia, il ruolo nomofilattico e coerenziatore di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale.
Altrettanto acute sono le sue osservazioni circa la portata delle due sole eccezioni previste dalla citata disposizione:
- le sentenze che non siano di condanna penale, anche se ritiene incongrua l’esclusione da ogni controllo delle sentenze di assoluzione, le quali pure possono essere affette dalle più gravi violazioni di diritto;
- le sentenze del Senato costituito in Alta Corte di giustizia: una “singolare eccezione” e una “singolare giurisdizione penale”, che giustifica solo in forza del più elevato principio costituzionale della divisione dei poteri dello Stato, pur auspicando che “sia presto tolta di mezzo o almeno ridotta a carattere meramente politico”.
2.4. Nella ricostruzione del pensiero giuridico dello studioso polesano assumono particolare rilievo le profonde riflessioni svolte nel saggio intitolato “Classificazione degli incidenti di esecuzione”[9], in tema di esecuzione amministrativa delle pene e misure di sicurezza, con peculiare riferimento al rischio di atti arbitrari dell’amministrazione in una fase nella quale il giudice e la giurisdizione sono di regola assenti.
Di fronte alle divergenze e incertezze e ai persistenti difetti metodologici della dottrina nell’esame delle disposizioni di cui agli artt. 548-550 del nuovo codice di rito, nel titolo “Degli incidenti di esecuzione”, avverte innanzitutto che “dove la materia è ancora così greggia come la nostra, l’elaborazione dottrinaria dev’essere più intensa, graduale e attenta”.
Classifica quattro gruppi principali di incidenti di esecuzione, dei quali il primo e il secondo si riportano alla sentenza da eseguire, cui sono di chiarimento o integrazione, mentre il terzo e quarto si riferiscono più propriamente alla legalità della esecuzione e al controllo giurisdizionale del giudice sui limiti legali dell’operato dell’autorità amministrativa. A questa è invero riservato un ampio margine di discrezione nelle modalità della esecuzione di cui “può fare l’uso che vuole e incontrollabilmente”.
Disegna le caratteristiche del rito: la richiesta del pubblico ministero o l’istanza di parte, che non esclude una riforma nel senso della procedibilità talora anche d’ufficio; il contraddittorio nella forma contratta, prevalentemente scritta, che tollera talora la procedibilità de plano nei casi incontroversi; la decisione del giudice dell’esecuzione con ordinanza; il ricorso per cassazione per violazione di legge.
Conclude profeticamente, con uno sguardo rivolto decisamente al controllo giurisdizionale di legalità nei casi di violazione della legge, che nel prossimo avvenire tutti i provvedimenti della esecuzione spetteranno a una “importantissima magistratura fornita di speciali cognizioni, capacità e facoltà”.
Va rimarcato infine che, per le medesime ragioni di principio, un’analoga posizione critica è espressa dallo studioso in un differente scritto riguardante quelle figure della pubblica amministrazione alle quali vengono attribuite dalla legge competenze proprie della giurisdizione penale, come l’Intendente di Finanza[10].
2.5. Nel breve e fulminante saggio intitolato “Il pubblico ministero è parte”[11]Matteotti sostiene con particolare vigore che il pubblico ministero, nel sistema processuale penale e nell’esercizio dei poteri assegnatigli in particolare dagli artt. 1 e 179 cod. proc. pen. del 1913, va decisamente considerato nella sostanza come “parte”, questa intesa come colui che può far valere o contro il quale è fatta valere la pretesa penale. La tesi è sostenuta in aperto dissenso con l’opposta annotazione recata in proposito della Relazione al Re, per la quale quella del pubblico ministero sarebbe, viceversa, “una posizione più nobile e imparziale al di sopra delle parti”.
L’Autore osserva che indubbiamente il pubblico ministero dispone dell’azione penale per fini superiori di giustizia, per il rispetto e l’osservanza della legge e per un interesse collettivo, pubblico e generale, cioè dello Stato; difende gli interessi della collettività offesa da un reato, e ben può se del caso, alla luce delle prove raccolte, chiedere l’assoluzione dell’imputato o l’esenzione della pena in suo favore.
Ma tutto ciò non rileva ai fini dell’attribuzione della qualità di parte perché sottende soltanto che il contrasto fra pubblico ministero e imputato è “essenzialmente potenziale”: può, ma non deve necessariamente sussistere.
Le norme di procedura confermano la qualità di parte del P.M. o più esattamente la sua qualità di “organo della collettività persecutrice”.
Invero,
“La divisione dei poteri su cui si fondano i moderni regimi costituzionali e la divisione delle funzioni, fra le quali anche la “funzione persecutiva” assegnata “agli organi esecutivi dello Stato”, permettono codesto apparente assurdo di uno Stato che è giudice e parte nel tempo stesso; fino a quando almeno sembreranno sufficienti quelle garanzie d’indipendenza di cui sono circondati gli organi di giustizia … organi sempre più autonomi”.
Il pensiero di Matteotti sulla figura del pubblico ministero, pur senza volere trarne conclusioni sopra le righe, apre scenari inediti e di attuale modernità: dal riconoscimento della piena parità delle posizioni delle parti davanti al giudice terzo, per il corretto equilibrio del rapporto fra accusa e difesa, secondo i principi di quello che oggi si qualifica come “il giusto processo” (art. 111, comma 2, Cost.), alla lettura politica delle differenti forme della unità della magistratura, nella comune cultura della giurisdizione, o della separazione – solo delle funzioni o anche delle carriere – fra i diversi organi statuali del pubblico ministero e del giudice.
3. Il pensiero e l’azione di Giacomo Matteotti fra diritto e politica
Dalla lettura dei saggi sopra richiamati emergono con chiarezza le linee caratteristiche del metodo di lavoro del fine cultore della procedura penale.
Contro ogni definizione aprioristica e autoreferenziale Matteotti oppone l’analisi empirica, prevalentemente di tipo induttivo, sostenuta dal riferimento a dati e fatti concreti. Le singole disposizioni codicistiche vengono di volta in volta investigate e destrutturate con intransigente rigore antidogmatico e antiformalista e con originalità di visione. Spesso in dissenso non solo con le varie Scuole, classica o positivista o del socialismo giuridico, ma anche con talune soluzioni formulate dalla giurisprudenza di legittimità, la lettura delle norme risponde a una logica coerente di ricomposizione e ristrutturazione del sistema processuale da ricondurre ad armonica e organica unità. Prevale sempre l’attitudine sistematica dell’interprete contro gli eccessi del tecnicismo giuridico[12] imputati soprattutto a Vincenzo Manzini, in rigorosa difesa dell’autonomia scientifica della procedura penale rispetto alle tradizionali categorie del diritto processuale civile o delle allora dominanti correnti germaniche.
In stretta contiguità storico-concettuale con gli studi di Piero CALAMANDREI su La Cassazione civile, pubblicati nel 1920, si fa inoltre strada l’ambizioso disegno del giurista polesano (confessato nella fitta corrispondenza con la moglie Velia Titta[13]) di percorrere la strada parallela di un approfondimento in due volumi della ricerca e degli studi intorno al ruolo e alla funzione della Cassazione penale, vertice indiscusso della relativa giurisdizione. Il che lascia pure immaginare che, se fosse vissuto più a lungo, Giacomo Matteotti sarebbe stato non solo un protagonista della vita politica nazionale nel dopoguerra ma anche, insieme con Piero Calamandrei, fra i più nobili padri costituenti dell’Italia repubblicana, con particolare riguardo alla dibattuta redazione del Titolo IV della Costituzione su “La Magistratura”.
Alla luce dell’eccezionale contributo dato agli sviluppi del pensiero giuridico dell’epoca, Matteotti è stato giustamente definito “autorevole rappresentante del riformismo penale europeo”[14]. E però, la sua ricca e complessa personalità di uomo di raffinata cultura (anche extragiuridica) a tutto tondo e di intransigente spirito dialettico, rende davvero ardua, se non erronea, l’operazione concettuale di tenere distinta la figura del politico da quella del giurista e di perimetrare due differenti stagioni della sua attività, l’una del socialista riformista e l’altra del giurista.
L’esaltazione dei valori liberali della legalità del diritto e della procedura, meglio assicurati dall’auspicata armonia e unità del sistema di giustizia penale e dalla tendenziale certezza e uniformità delle applicazioni giurisprudenziali, e la valorizzazione del ruolo coerenziatore e della funzione nomofilattica della Cassazione penale, non sembrano affatto in contraddizione, bensì si coniugano e s’intrecciano con gli accenti profondamente drammatici – e tutti politici - della lettera di risposta a Luigi Lucchini del 10 maggio 1924, appena un mese prima della sua uccisione per mano fascista.
Al Maestro che (forse per proteggerlo dalle ritorsioni già minacciate nei suoi confronti) lo invitava a riprendere la prestigiosa carriera universitaria, Giacomo Matteotti, eletto ancora una volta deputato nelle file del socialismo riformista di Filippo Turati, replica che, per necessità, si è dovuto distaccare dagli “studi prediletti e abbandonati” ormai da qualche anno, per rispondere al “dovere” morale di situarsi “al posto più pericoloso”, quello centrale della democrazia rappresentativa in Parlamento, per “difendere i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna”, cioè lo Stato di diritto contro l’arbitrio del regime fascista[15].
Nobile e drammatica testimonianza, questa, dell’aspra resistenza diretta a tracciare, talora in perfetta solitudine, i confini legali del Potere esecutivo, nel contesto della incombente minaccia di una assoluta compressione delle libertà individuali, politiche, sindacali e di pensiero[16].
L’audacia innovativa e antiformalista verso un più moderno, giusto e civile sistema di giustizia penale s’accompagna costantemente con l’esigenza di tenere fermo il pur insufficiente ordinamento liberale dell’epoca, nella triste e talora solitaria consapevolezza dell’avanzare della minaccia di un nuovo e illiberale ordine statuale. In una sofferta e inquieta contingenza fatta di contraddizioni giuridiche, morali e politiche, fra modernizzazione e stabilità e fra arbitrio e legalità democratica, l’appassionato socialista riformista convive, di necessità, con l’ideologia liberale, schierandosi senza esitazione a difesa dei residui spazi di legalità penale e processuale.
Leonardo SCIASCIA, con la sua acuta sensibilità, coglie l’importanza della figura di Giacomo Matteotti nella storia nazionale e il senso profondo della complessità della sua opera, laddove, in Porte aperte[17], nel dialogo fra il piccolo giudice e il procuratore generale, questi afferma che “Matteotti era stato considerato tra gli oppositori del fascismo il più implacabile, non perché parlava in nome del socialismo … ma perché parlava in nome del diritto. Del [terribile] diritto penale”.
4. Il delitto Matteotti
Al termine del discorso tenuto alla Camera il 30 maggio 1924 su preciso incarico di Turati, nel corso del quale, nella veste di segretario del Partito socialista unitario d’ispirazione riformista, aveva accusato il partito fascista e lo stesso Mussolini di avere stravolto la libertà di voto dei cittadini nelle recenti elezioni politiche del 6 aprile mediante brogli e inauditi atti di violenza fisica e morale, Matteotti rivolse al compagno di partito Giovanni Cosattini, seduto accanto a lui, e indirettamente ai compagni del suo partito e della lacerata sinistra parlamentare, la seguente frase, che ne evidenziava il coraggio e però anche il progressivo e rischioso isolamento fisico e politico: «Io, il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”[18].
Dopo pochi giorni, infatti, un gruppo di squadristi, ex arditi di guerra, composto da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo, appartenenti alla cosiddetta Ceka, un corpo speciale agli ordini della gerarchia fascista e del capo della polizia Emilio De Bono, nel pomeriggio del 10 giugno 1924, sequestra dopo una breve colluttazione Giacomo Matteotti mentre sta camminando sul Lungotevere Arnaldo di Brescia. La vittima, caricata a forza a bordo di una Lancia Kappa nera, viene subito dopo accoltellata al torace e muore per dissanguamento. Il cadavere verrà ritrovato il 16 agosto 1924 da un brigadiere nella Macchia della Quartarella in territorio del comune di Fiano, a venti chilometri circa da Roma[19].
5. Il processo, rectius i processi, per il delitto Matteotti.
5.1. Al pronto arresto degli uomini della Ceka, favorito da una serie di testimonianze oculari del rapimento, segue l’istruttoria per il sequestro e il barbaro assassinio. Questa, avocata dalla Procura Generale, viene affidata al presidente della Sezione d’Accusa della Corte d’appello di Roma, Mauro Del Giudice[20], al quale viene affiancato il sostituto procuratore Guglielmo Tancredi. Anzi, fu lo stesso Del Giudice, nonostante il tentativo di dissuasione del primo presidente della Corte, ad autoassegnarsi coraggiosamente l’inchiesta invece di affidarla al consigliere anziano della Sezione, che egli riteneva «contagiato da lue fascista».
Come avvenne per altri magistrati scomodi, non allineati o definiti “incompatibili” che per l’imparzialità dimostrata, talora anche a fronte di atti di violenza, si erano caratterizzati per doti non gradite di intransigenza e d’indipendenza, Del Giudice venne rimosso dall'incarico attraverso una promozione, che lo costringerà a lasciare il suo ufficio alla volta di Catania, per poi essere mandato forzatamente in pensione.
Sono note le vicende successive.
Dopo il rinvio a giudizio dinanzi alla Corte d’assise di Roma (Sez. Istr. App., sent. 1/12/1925) di Dumini e altri con l’accusa di omicidio aggravato, esclusa la premeditazione, venne disposta la rimessione del giudizio alla Corte d’assise di Chieti da parte della Corte di cassazione, su istanza del P.G. presso la Corte d’appello di Roma, per gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica (Cass., sez. I, 21/12/1925).
Il giudizio di merito in primo grado venne celebrato a Chieti, in assenza della parte civile essendosi i familiari di Matteotti ritirati dal processo. Gli imputati Dumini, Volpi e Poveromo, difesi dall’Avv. Roberto Farinacci, segretario nazionale del Partito nazionale fascista, vennero dichiarati colpevoli del delitto di omicidio preterintenzionale e condannati, con le attenuanti generiche, alla pena di anni 5 mesi 11 e giorni 20 di reclusione, di cui condonati 4 anni ex r.d. n. 1276/1925, mentre i coimputati Viola e Malacria vennero assolti (Ass. Chieti, sent. 24/3/1926, non impugnata e irrevocabile).
Nello stesso tempo la Commissione permanente istruttoria dell’Alta Corte di Giustizia presso il Senato, con sentenza del 12 giugno 1925, dichiarava non doversi procedere nei confronti del Sen. Emilio De Bono, già capo della polizia, in ordine alle accuse di complicità o favoreggiamento mosse nei suoi confronti per il rapimento e l’uccisione di Matteotti.
5.2. Dopo la caduta del fascismo, il processo Matteotti viene riaperto alla luce dell’art. 6, comma 4, del d.lgs. 27 luglio 1944, n. 159, che consentiva all’Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo di chiedere alla Corte di cassazione, sezione speciale, la dichiarazione di inesistenza giuridica delle sentenze penali irrevocabili, istruttorie o pronunciate nel giudizio, e la riapertura dell’istruttoria e del giudizio, sulla base di due presupposti: l’indole del delitto, commesso per motivi fascisti, e la influenza esercitata sulla decisione da uno stato di morale coercizione determinato dal fascismo.
Espletate le indagini preliminari in merito alla verosimile sussistenza dei due presupposti e quindi alla verifica positiva circa l’ammissibilità della procedura - assimilabile per analogia alla revisione -, la Corte di cassazione penale, sezione Seconda speciale, riconosceva la consistenza e la rilevanza delle prove a sostegno non solo dell’indole del delitto Matteotti commesso per motivi fascisti, ma anche della effettiva influenza esercitata sulla decisione da uno stato di morale coercizione esercitata dal fascismo. Deponevano decisamente in tal senso le chiare e incisive dichiarazioni rese dai magistrati a riposo Mauro Del Giudice e Filippo Occhiuto, in merito alle indebite e gravi ingerenze del governo e del partito fascista per deviare il normale svolgimento del processo e far prevalere soluzioni conformi agli interessi di parte e non a quelli superiori di giustizia. In particolare, viene definita “notevole e impressionante” la deposizione di Del Giudice, il quale, oltre le lusinghe e le pressioni subite durante l’istruzione del processo, aveva messo in luce le manovre usate per allontanarlo dal posto di presidente della sezione di accusa, di fronte alla adamantina fermezza con cui resistette agli allettamenti e alle minacce. Come pure viene considerata importante la dichiarazione resa da tale Salvatore Girgenti circa le confidenze ricevute dal P.G. Salucci in ordine alle benemerenze politiche acquisite per i suoi interventi nel processo Matteotti favorevoli al regime.
Ad avviso del P.G. requirente la dichiarazione d’inesistenza giuridica, oltre a conformarsi alle condizioni di legge, “risponde anche ad imperiose esigenze di giustizia e viene a rimuovere l’ostacolo perché’ il magistero punitivo abbia finalmente libera esplicazione in relazione a un delitto che tanta commozione e indignazione destò in tutto il mondo civile”.
La Corte, con sentenza del 6 novembre 1944 (Pres. rel. De Ficchy)[21], fatte proprie tutte le argomentazioni della requisitoria scritta del P.G. Battaglini, dichiarava “giuridicamente inesistenti” le sentenze, sia quella istruttoria della Sezione d’accusa App. Roma dell’ 1 dicembre 1925 che quella di merito della Corte di assise di Chieti del 24 marzo 1926, disponendo la rimessione degli atti al P.G. della Corte di appello di Roma per la riapertura dell’istruttoria e per il rinnovato giudizio a carico di Dumini e altri.
All’esito del nuovo processo gli imputati sopravvissuti - Dumini, Viola e Poveromo - vennero condannati nel 1947 all’ergastolo, commutato in trenta anni di reclusione. Poveromo morì in carcere a Parma nel 1952; Dumini ottenne la grazia e venne definitivamente liberato il 23 marzo 1956 per poi morire a Roma il giorno di Natale del 1967[22].
A Mussolini, il quale aveva implicitamente rivendicato l’uccisione di Matteotti nel noto e arrogante discorso tenuto alla Camera il 3 gennaio 1925, viene imputata la correità nel sequestro e nell’omicidio, cui si aggiungono la costituzione della Ceka e le numerose spedizioni punitive compiute dal gruppo omicida, di cui viene riconosciuto come mandante[23].
6. Una metafora del Potere
Al termine di questa pur breve disamina degli eventi che hanno caratterizzato i processi per il delitto Matteotti risulta impressionante la divaricazione dei descritti esiti giudiziari rispetto alle categorie liberali e garantiste del pensiero giuridico di Giacomo Matteotti intorno al diritto processuale penale, ispirate – come si è visto – alla più stretta legalità delle regole e delle forme del procedere, senza cedimento alcuno alle soluzioni arbitrarie dettate da asserite “imperiose esigenze di giustizia” sostanziale.
A ben vedere, tanto la sentenza istruttoria quanto la sentenza di merito della Corte di assise di Chieti, nonostante l’accertato condizionamento del magistero inquirente e punitivo ad opera di uomini e servizi del fascismo, non erano in fatto una “non sentenza”, ne’ erano state emesse da un “non giudice”, per cui non poteva essere legittimamente invocata la fattispecie straordinaria della inesistenza giuridica della sentenza, con il conseguente venir meno della irrevocabilità della cosa giudicata.
In realtà, appare evidente che fu esclusivamente la caduta del regime fascista e l’avvento di quello democratico a legittimare il rovesciamento di quello che, quanto al delitto Matteotti, era (e tale ben poteva restare) l’inesorabile giudizio “storico-politico” di condanna del fascismo e dei suoi capi in un rinnovato, forse più debole, giudizio stavolta di fonte “giudiziaria”, che era peraltro conseguito a una eccentrica e incostituzionale procedura di revisione del giudicato di condanna contra reum.
Una metafora del Potere, dunque, che per conseguire i suoi fini, talora spregevoli o talora anche nobili come in questo caso, mostra di non esitare a impiegare – e piegare - lo strumento “terribile” del diritto e della procedura penale, sovvertendone, ove lo ritenga occorrente, i principi liberali e il sistema di garanzie.
[1] G. MATTEOTTI, La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici (dedicato alla memoria del fratello Matteo), F.lli Bocca, 2010. Per un’attenta analisi del saggio, cons. D. CASTRONUOVO, La concezione della recidiva in Giacomo Matteotti, in Giacomo Matteotti fra diritto e politica, a cura di D. Negri, Cierre Edizioni, 2022, p. 33 ss.: A. GARGANI, La visione socio-criminologica della recidiva nel pensiero di Giacomo Matteotti, in L’Indice penale, V, 1 (2002), p. 1247 s.
[2] M.N. MILETTI, Un processo per la terza Italia. Il codice di procedura penale del 1913, I, L’attesa, Giuffrè, 2003.
[3] S. CARETTI, Introduzione, in G. Matteotti. Scritti giuridici, a cura di S. Caretti, I, Pisa, 2003, p. 7 ss.; G. VASSALLI, Presentazione, ivi, p. 29 ss.; L. MASCILLI MIGLIORINI, La formazione giuridica di Giacomo Matteotti, in Ricerche storiche, VIII, n. 3, 1978, p. 730; C. CARINI, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Olschki, Firenze, 1984; A. GARGANI, Il sistema penale tra tradizione liberale e positivismo (a proposito degli Scritti giuridici di Giacomo Matteotti), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 32 (2004), p. 555; P. MARCHETTI, voce Matteotti, Giacomo, in Dizionario Biografico dei Giuristi Italiani, a cura di I. Birocchi e altri, II, Bologna, 2013, p. 1307 ss. Da ultimo, D. CASTRONUOVO, op. loc. cit.
[4] D. NEGRI, Giacomo Matteotti custode della legalità processuale contro l’arbitrio del potere, in Giacomo Matteotti fra diritto e politica, cit., p. 47 ss.
[5] Riv. pen., 1918, vol. LXXXVIII, p. 206 ss. e 353 ss.
[6] Riv. dir. proc. pen., 1917, I, p. 315 ss.
[7] Art. 136. La osservanza delle disposizioni che concernono la costituzione del giudice, l'intervento e la rappresentanza del pubblico ministero, l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato, nei casi e nelle forme che la legge stabilisce, si intende sempre prescritta a pena di nullità. Tale nullità non può essere sanata in alcun modo, può essere dedotta in ogni stato e grado del procedimento e deve anche essere pronunciata di ufficio.
[8] Riv. pen., 1918, V, 2° Suppl., p. 206 ss.
[9] Riv. dir. proc. pen., 1919, I, p. 114 ss.
[10] G. MATTEOTTI, Dalla critica alla ricostruzione (a proposito dell’Intendente di finanza improvvisato giudice penale), in Riv. dir. e proc. pen., 1918, I, p. 396 ss.
[11] Riv. pen., 1919, XC, p. 346 ss.
[12] Cons. G. MATTEOTTI, Rendiconti analitici (recensione favorevole all’opera di G. Sabatini, Principi di scienza del diritto penale, in Riv. dir. e proc. pen., 1919, p. 154 ss.
[13] C. CARINI, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Firenze, 1984, p. 81.
[14] M. PIFFERI, Giacomo Matteotti e il riformismo penale europeo, in Giacomo Matteotti fra diritto e politica, cit., p. 13 ss.
[15] La lettera a L. Lucchini è pubblicata in Rivista penale, 1924, p. 102. Sottolinea il fermo ancoraggio del pensiero di Matteotti al principio di legalità D. NEGRI, Giacomo Matteotti custode della legalità processuale contro l’arbitrio del potere, cit., p. 58.
[16] Per una recente rivisitazione e valorizzazione del pensiero e dell’azione politica del socialista riformista polesano, cons. M.L. SALVADORI, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Donzelli Editore, 2023. V. anche P. VERONESI, Giacomo Matteotti, i fatti e le idee dal Polesine al Parlamento, in Giacomo Matteotti fra diritto e politica, cit., p. 69 ss.; G. ROMANATO, Conclusioni, ivi, p. 151 ss.; G. ROMANATO, Un italiano diverso. Giacomo Matteotti, Longanesi, 2011.
[17] L. SCIASCIA, Porte aperte, Adelphi, 1987, p. 16. Il passo è menzionato da D. CASTRONUOVO, La concezione della recidiva in Giacomo Matteotti, cit., p. 43.
[18] La frase è riportata da E. LUSSU, Marcia su Roma e dintorni, Einaudi, 1965, p. 154. Secondo M. CANALI, Il delitto Matteotti: affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997, sarebbe altrettanto probabile che Mussolini tema un attacco sulla vicenda legata alla stipulazione della convenzione con la Sinclair Oil, una società petrolifera americana che, nel maggio 1924, acquista oltre 100 mila ettari di terreni italiani. Matteotti scrive sulla questione un lungo articolo (“Machiavelli, Mussolini e il fascismo”) che la rivista britannica English Life pubblica a luglio, dopo il suo assassinio, in cui prospetta la tesi che la convenzione con la Sinclair nasconda pratiche di corruttela a favore di alti funzionari del regime per finanziare i propri giornali.
[19] G. SABBATUCCI, 1924. Il delitto Matteotti, tratto da Novecento italiano, Laterza, 2012; G. TAMBURRANO, Giacomo Matteotti. Storia di un doppio assassinio, Utet, 2004.
[20] Il materiale istruttorio raccolto da Del Giudice è custodito nell'Archivio Centrale dello Stato, ma non è stato consultabile fino al 2004. Per un ritratto di Del Giudice si veda Il magistrato che fece tremare il Duce: Mauro Del Giudice. Memorie e Cronistoria del processo Matteotti”, a cura di Teresa Maria Rauzino, by Amazon, 2022. Cons. anche P. SERRAO, La legalità del male, in Quest. giust., 22 novembre 2018. Nel film Il delitto Matteotti, regia di Florestano Vancini (1973), la figura di Mauro Del Giudice è interpretata da Vittorio De Sica.
[21] Foro it., 1944-46, II, p. 25 ss.
[22] G. MAYDA, Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dumini, sicario di Matteotti, Bologna, Il Mulino 2004.
[23] Per M. CANALI, Il delitto Matteotti, Il Mulino, 2015, le responsabilità addebitate a Rossi e Marinelli per l’organizzazione del delitto, a De Bono e Finzi per intralcio alle indagini e occultamento di prove, vanno estese anche a Mussolini. Nel periodo della detenzione, della latitanza e negli anni successivi Mussolini fa versare consistenti somme di denaro ai sicari autori dell’omicidio per comprarne il silenzio. Secondo CANALI alcune lettere scritte da Dumini al suo avvocato non lasciano dubbi sul coinvolgimento di Mussolini. Lo squadrista toscano si considera un esecutore di ordini pervenutigli dal capo tramite Rossi e Marinelli per «un delitto da noi commesso – certamente – ma che ci fu imposto e che noi eseguimmo – come tanti altri prima di quello – con cieca disciplina e dopo che ci fu garantita in modo assoluto qualsiasi immunità penale».
(Contributo già apparso su Sistema Penale a gennaio 2024 https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/canzio-giacomo-matteotti-il-giurista e qui ripubblicato con il consenso dell'autore, che ringraziamo.)