ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ammissibilità in appello dei mezzi di prova "sopravvenuti". Il principio dispositivo con metodo acquisitivo e il divieto di nova in appello (nota a Cons. di Stato, Sez. II, 26 gennaio 2024, n. 845)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. La vicenda giuridica – 2. Il principio dispositivo con metodo acquisitivo – 3. Il divieto di nuove domande e le sue deroghe – 4. Conclusioni
1. La vicenda giuridica.
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato veniva chiamato a pronunciarsi su un ricorso proposto dal Caporal Maggiore Capo dell’Esercito Italiano al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento di rigetto dell'istanza di riconoscimento di infermità, dipendente da causa di servizio e del beneficio dell’equo indennizzo, nonché del sotteso parere negativo del Comitato di verifica per le cause di servizio.
Si chiedeva, inoltre, la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni, derivante da responsabilità contrattuale ex art. 2087 cod. civ[1]., in relazione alla malattia riscontrata dal ricorrente causalmente riconducibile alle modalità ed alla tipologia del servizio prestato in occasione delle missioni internazionali all’estero.
Sulla vicenda, il giudice di prime cure, sulla scorta del rilievo scientifico a mente del quale «il rischio per la salute riconducibile all’esposizione all’uranio impoverito sussiste significativamente solo per l’effetto dell’inalazione di sostanze cancerogene a seguito dell’impatto dei proiettili all’uranio impoverito, ossia solo per chi si sia trovato a brevissima distanza di tempo da un mitragliamento con l’utilizzo di uranio impoverito e nell’immediate vicinanze di veicoli o edifici colpiti»[2], aveva ritenuto che la malattia contratta dal ricorrente non era eziologicamente collegata all’attività da questi svolta.
In sostanza, secondo l’organo giudicante, la partecipazione ad azioni di guerra sul terreno era condizione necessaria per l’insorgere dei danni derivanti da esposizione ad uranio impoverito: condizione non verificatasi nel caso di specie, atteso che il ricorrente aveva svolto soltanto mansioni di conduzione di automezzi.
Dalla vicenda, portata dinanzi al Tar, ne derivava sentenza di rigetto, avverso la quale il Caporal Maggiore Capo dell’E.I. proponeva appello.
Dinanzi al Consiglio di Stato l’appellante deduceva il vizio di carenza di istruttoria – sia per il parere del comitato di verifica, sia per la sentenza del Tar – sulle attività effettivamente svolte, sull'inquinamento chimico, fisico e radioattivo nel territorio dell'area balcanica e sul mancato impiego di dotazione tecnica specifica per lo svolgimento delle operazioni.
A tanto aggiungeva che il Tar adito non aveva disposto una verificazione o una c.t.u., alla cui mancanza chiedeva di supplire, presentando apposita relazione di parte di cui chiedeva l’ammissione.
Di tale relazione il Consiglio di Stato ammetteva la produzione e ne disponeva la verificazione, sostenendo che si trattasse di «atto che la parte appellante non aveva potuto produrre in primo grado, a causa della veloce definizione di quel giudizio e del tempo resosi necessario per l’acquisizione dei materiali biologici presso l’Ospedale che li deteneva, oltre che per la complessità dell’indagine»[3].
L’ammissibilità della relazione nel giudizio in appello apre la strada ad una serie di riflessioni sul divieto di nova probatori in appello e sulle sue eccezioni[4].
2. Il principio dispositivo con metodo acquisitivo
Il processo amministrativo viene configurato come processo a carattere soggettivo, in conformità con quanto previsto dall’art. 24 comma 1 Cost.; il fine risulta essere la tutela di una situazione giuridicamente protetta, in cui il soggetto che ne è titolare, lamentando una lesione di quell’interesse, chiede giustizia dinanzi agli organi giurisdizionali, non avendo potuto conseguire il risultato sperato al di fuori del processo. Ciò significa che il processo amministrativo, al pari di quello civile, risponde al principio della domanda, espresso dagli artt. 99 e 112 c.p.c., i quali trovano riscontro, oltre che in virtù del rinvio esterno operato dall’art. 39 c.p.a., anche in relazione al disposto degli art. 41, co.1, e 34, co.1, c.p.a., a norma dei quali, rispettivamente “le domande si introducono con ricorso” ed il giudice adotta le pronunce previste dal codice “nei limiti della domanda”.
Pur non mancando chi ha affermato che il processo amministrativo «sia stato progressivamente ricostruito come processo di parti, muovendo però da un impianto (normativo e teorico) che mostrava i caratteri della giurisdizione oggettiva, nell’interesse della legalità delle decisioni autoritative»[5], tuttavia, il giudizio è anche, fuor di dubbio, caratterizzato dalla asimmetria delle parti.
In alcune ipotesi, tale squilibrio, può riflettersi sulla disponibilità delle prove, atteso che il soggetto privato possa trovarsi nella complicata condizione di non essere nella possibilità di acquisire le necessarie evidenze, essendo le stesse nell’esclusivo possesso dell’amministrazione[6].
Da ciò, si rende necessario che il giudice amministrativo conservi poteri istruttori[7], utili a realizzare in concreto il bilanciamento delle posizioni processuali di parte privata e parte pubblica e da tali peculiari caratteristiche, emergerebbe la natura del processo amministrativo come tendenzialmente “oggettiva”, in antitesi alle regole dei processi a carattere soggettivo, base di partenza dalla quale era stato originariamente ideato e concepito.
Il giudice diviene “signore della prova”[8], nel senso che gli sarebbe concesso il naturale potere di alterare il gioco delle parti in virtù della soluzione individuata come giusta nel rapporto sostanziale; l’attività istruttoria del giudice, se non può mai tradursi nella sostituzione della parte rimasta inerte nell’allegazione e nella successiva prova dei fatti, può invece sempre essere diretta ad evitare che la posizione di debolezza del privato rispetto al potere gli impedisca di far valere nel processo la propria pretesa.
Nondimeno, nella sentenza in commento, parte ricorrente non si era fatta trovare inerte in ordine all’allegazione della prova, ma risultava semplicemente sfornita di questa a causa della veloce definizione del giudizio di primo grado, che non aveva lasciato al ricorrente il tempo necessario per l’acquisizione dei materiali biologici.
In altri termini, anche se nel processo amministrativo vige il principio per cui l’onere della prova incombe sulla parte ricorrente, il giudice mantiene un significativo ed autonomo potere di acquisizione probatoria, utile a compensare gli squilibri derivanti dalla diversa natura delle parti in giudizio e seppur è indubbio che il processo amministrativo è processo di parti - come parrebbe dimostrato dalle norme della Costituzione e del c.p.a. che disciplinano l’istruttoria amministrativa – dalle evidenze processuali emergono tratti che mettono in crisi tale impostazione.
Nel caso de quo il giudice ammetteva la produzione, mancante in primo grado, e ne disponeva la verificazione esercitando così i suoi forti e penetranti poteri, utili a definire il cd. “principio dispositivo con metodo acquisitivo”[9] ricavabile dall’art 64 cod. proc. amm. a mente del quale sulla parte interessata a provare un fatto grava un onere probatorio alleggerito, essendo sufficiente che essa produca un principio di prova, fermo l’onere di definire con precisione il thema probandum, allegando tutti i fatti da provare in modo sufficientemente circostanziato.
Specularmente, il giudice ha un potere-dovere di acquisire ulteriore materiale probatorio integrativo in soccorso della parte che, senza sua colpa, non era nelle condizioni di fornire la piena prova nel momento acquisitivo dell’istruttoria; tale impostazione inevitabilmente si riflette sul giudizio di appello con in quest’ultimo di “elementi potenzialmente sovversivi”[10].
3. Il divieto di nuove domande e le sue deroghe
Preliminarmente, deve rammentarsi che l’appello è un mezzo di impugnazione devolutivo, atteso che trasferisce al giudice di secondo grado la stessa controversia decisa dal giudice di primo grado.
La portata dell’effetto devolutivo, però, non può travalicare i confini della controversia fissati in primo grado.
In tal senso rileva l’art 104 comma 1 cod. proc. amm. ai sensi del quale nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande, né nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio[11]. La norma sancisce il divieto di ius novorum,che impedisce l’ampiamento in appello del thema decidendum, attraverso la proposizione di nuovi motivi o l’ampliamento dei motivi precedentemente dedotti. Secondo un orientamento ormai consolidato, il divieto di motivi nuovi in appello costituisce la logica conseguenza dell’onere di specificità dei motivi di impugnazione (in primo grado) del provvedimento amministrativo e più in generale dell’onere di specificazione della domanda da parte di chi agisce in giudizio.
Nondimeno, la regola generale conosce più di un’eccezione.
Precisamente, il comma terzo dell’art 104 consente la proposizione di motivi aggiunti – e, dunque, nuovi – qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o dei provvedimenti amministrativi impugnati[12].
Allo stesso modo, esiste deroga al divieto generale, nella previsione del comma 2 nella parte in cui ammette nuovi mezzi di prova e consente la produzione di documenti nuovi, in tutte quelle fattispecie in cui il giudice li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
Tale situazione si è di fatto verificata nel caso di specie e, sulla ritenuta impossibilità della parte di produrre in primo grado la relazione scientifica, il giudice ha dichiarato l’ammissibilità del nuovo mezzo di prova.
In sede di prima applicazione delle disposizioni del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, la giurisprudenza amministrativa ha affrontato alcune importanti questioni interpretative relative alla portata del divieto in parola.
Sul punto, il Consiglio di Stato ha confermato che il divieto di nova in appello concerne le prove precostituite (documenti) al pari di quelle costituende e che i presupposti per derogare al divieto in questione (indispensabilità ai fini della decisione e impossibilità incolpevole di proporli o produrli nell’ambito del primo giudizio) hanno carattere alternativo e non cumulativo.
Sebbene la vicenda oggetto di commento sia caratterizzata dall’avverarsi del secondo presupposto richiamato dal comma 2 dell’art. 104 c.p.a, non possono omettersi talune riflessioni sul requisito della indispensabilità della prova ai fini della decisione.
Il concetto di indispensabilità deve essere indagato alla luce della consolidata giurisprudenza che non considera prova indispensabile «quella di per sé idonea a eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio, oppure provando quello che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa nelle preclusioni istruttorie del primo grado»[13], bensì la prova prodotta per la prima volta in appello, funzionale alla dimostrazione di un fatto concernente un’eccezione in rito rilevabile d’ufficio dal giudice, dunque sempre ammessa, nonché quelle prove per cui si dimostri l’impossibilità, per la parte, di acquisire la conoscenza dei fatti dedotti in giudizio con altri mezzi che ella aveva l’onere di fornire, nelle forme e nei tempi stabiliti[14].
In definitiva, possono considerarsi indispensabili soltanto quelle prove che in base a circostanze oggettive non potevano essere prodotte in primo grado, perché la parte non ne aveva la disponibilità ovvero perché l’esigenza probatoria è sorta ex novo in grado di appello[15].
Quanto sin ora esposto, consente di rilevare che il criterio utilizzato ha la capacità di modulare i poteri istruttori del giudice; questi possono essere ampliati ovvero restrinti in relazione al caso concreto e da ciò deriva, inevitabilmente, una significativa flessibilità interpretativa.
4. Conclusioni
L’ammissibilità di nuove prove documentali, attraverso la valorizzazione del metodo acquisitivo, non si pone in contrasto con il divieto di cui all’art 104 comma 2, laddove il giudice abbia constatato l’impossibilità di una preventiva acquisizione ovvero l’indispensabilità ai fini della decisione.
Nella vicenda in esame il Consiglio di Stato si era persuaso considerando la veloce definizione del giudizio di prime cure che non aveva lasciato il tempo necessario per l’acquisizione dei materiali biologici a parte ricorrente. L’esercizio di poteri officiosi da parte del giudice amministrativo, come osservato da autorevole dottrina[16], deve essere inteso come «risorsa fondamentale per assicurare l’effettività della tutela nei confronti dell’amministrazione e la giustizia nell’amministrazione».
Il sotteso principio dispositivo con metodo acquisitivo si giustifica allora alla luce della sostanziale disparità che caratterizza le parti del processo amministrativo sotto il profilo dell’accesso al materiale probatorio: il fondamento del principio si rinviene evidente nella ratio riequilibratrice, peraltro coerente con il principio della vicinanza della prova.
Non è novità, infatti, che vi sia una sostanziale differenza fra la regola probatoria posta dall’art. 2697 c.c. e quella di cui all’art 64, comma 1, c.p.a. in quanto, nel processo amministrativo deve riconoscersi una certa flessibilità nella definizione dei criteri di riparto dell’onere della prova, non essendo quelli cristallizzati in uno schema precostituito e astratto, piuttosto calibrati sul principio della vicinanza o disponibilità della prova[17].
D’altra parte, il potere riconosciuto al giudice, per non snaturare l’essenza del processo amministrativo, deve essere esercitato entro confini specificati, il rischio è quello di incorrere in una ricostruzione diversa dalla realtà fattuale, anche grazie ai limiti e alle decadenze offerte dalla normativa, ben potendo l’indeterminata discrezionalità del giudice sfociare in esiti contrastanti con quelli individuati a monte dal legislatore[18].
[1] Cfr. sul punto Cons. di Stato, sez. II, 3 novembre 2023, n. 9523, ove in ragione dell’esposizione a sostanze nocive il giudice stabiliva che: “L'Amministrazione della difesa, quale Ente datoriale, è sottoposta agli obblighi di protezione stabiliti dall'art. 2087 c.c., che impone a quanti ricorrano ad energie lavorative di terzi di adottare "misure" idonee, secondo un criterio di precauzione e di prevenzione, a "tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". La disposizione, che enuclea un dovere di protezione che arricchisce ex lege (cfr. art. 1374 c.c.) il rapporto obbligatorio riveniente dal contratto di lavoro, non ha una portata solo settoriale ma, al contrario, delinea un principio generale di tutela del prestatore di lavoro che si proietta prismaticamente in tutto l'ordinamento: come tale, integra un referente normativo e valoriale di impatto sistemico e, pertanto, trova applicazione anche nel caso del rapporto di impiego o, comunque, di servizio fra il militare e l'Amministrazione della difesa”.
[2] Cfr. sentenza in commento, p. 2.
[3] Cfr sentenza in commento, p. 4.
[4] F. Saitta, I nova nell’appello amministrativo, Milano, 2010; Id., Processo amministrativo ed appello incidentale: “vetera et nova”, in Dir. proc. amm., 4/2020, 862-892; Id., La «correzione del tiro» nel processo amministrativo: oscillazioni giurisprudenziali in tema di “emendatio” e “mutatio libelli”, in Dir. e proc. amm., 3/2020, 663-710, R. Vaccarella, Il divieto dei “nova” nell’appello del giudizio amministrativo, V. Domenichelli, Le sopravvenienze in appello: introduzione al tema, M. Lipari, Le sopravvenienze nel giudizio di appello, tutti in F. Francario - M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Castello di Modanella (Siena), 19-20 maggio 2017, Napoli, 2018.
[5] L.R. Perfetti, L'istruzione nel processo amministrativo e il principio dispositivo, in Riv. dir. proc., 2015, 72.
[6] Aa.Vv., Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, F. Francario - M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2017; M.A. Sandulli, Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa: il confronto, in www.federalismi.it, febbraio 2017; G.D. Comporti, Il giudice amministrativo tra storia e cultura: la lezione di Peir Giorgio Ponticelli, in Dir. proc. amm., 2014, 3, 743-826; V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2014, 2, 341-390; A. Travi, Recenti sviluppi sul principio della domanda nel processo amministrativo, in Foro it., 5, 2015, III, 286 ss; E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva (nota a Cons. Stato, Ad. Plen. 27 aprile 2015, n. 5), in Giur. it., 2015, 10, 2192-2203, B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir. proc. amm., 2014, 1, 74-106.
[7] F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Enc. Dir., vol. XXIII, Milano, 1973, 204 -211; F.G. Scoca, Mezzi di prova e attività istruttoria, in Il processo amministrativo, Commentario a cura di A. Quaranta - V. Lopilato, Milano, 2011, 539 ss.; L.R. Perfetti, Prova (diritto processuale amministrativo), in Enciclopedia del diritto, annali 2008, Milano, 917-946; Id., L’istruzione nel processo amministrativo e il principio dispositivo, in Dir. proc., 2015, 1, 72-103; A. Police, I mezzi di prova e l’attività istruttoria, in Il nuovo diritto processuale amministrativo, G.P. Cirillo (a cura di), cap. 17, Padova, 2014; C.E. Gallo, Istruzione nel processo amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., vol. IX, Torino 1994, 8-15; Id., I poteri istruttori del giudice amministrativo, in Ius publicum, 2011; F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 3/2017, 911 ss.; L. Bertonazzi, L’istruttoria nel processo amministrativo di legittimità: norme e principi, Milano, Giuffrè, 2005; A. Chizzini, I poteri istruttori del giudice amministrativo in generale e nella giurisdizione esclusiva, in AA.VV., Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico alla legge n. 205/2000, B. Sassani - R. Villata (a cura di); A. Chizzini - L. Bertonazzi, L’istruttoria, in Aa.Vv., Codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo B. Sassani - R. Villata (a cura di), Torino, Giappichelli, 2012; M.A. Sandulli, Riflessioni sull'istruttoria tra procedimento e processo, in Dir. e soc., 2/2020, 195-221.
[8] Sul punto cfr., M. Nigro, Il giudice amministrativo “signore della prova”, in Foro it. 1976, V, c. 9.
[9] Sul principio dispositivo con metodo acquisitivo, si veda tra gli altri, M. A. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato ed ai giudici sottordinati, Napoli 1963, 234; R. Villata, Riflessioni introduttive allo studio del libero convincimento del giudice nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm. 1990, 201 e ss.; Id., Considerazioni in tema di istruttoria, processo e procedimento, in Dir. proc. amm. 1995, 195 e ss.; L. Migliorini, L’istruzione nel processo amministrativo di legittimità, Padova 1977; Id., Istruzione (istruzione del processo amministrativo), in Enc. giur., Roma 1990, vol. XVIII; Id., Bervi note sulla posizione del giudice e delle parti nel processo amministrativo, in Scritti in onore di Giannini, I, Milano 1988, 451; F.G. Scoca, Commento all’art. 63, in Lopilato e Quaranta (a cura di), Il processo amministrativo, Milano 2011, 535; G. Corso, Istruttoria nel processo amministrativo, in Enc. giur., Roma 2003, vol. XVIII; G. Abbamonte, La prova nel processo amministrativo, in Riv. amm. Rep. it. 1985, 679; C.E. Gallo, La prova nel processo amministrativo, Milano 1994; Id., L’istruttoria processuale, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, 2ª ed., V, Milano 2003, 4391 ss.; Virga G., Attività istruttoria primaria e processo amministrativo, Milano 1991; A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino 2010, 256 ss.; A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione avanti il giudice amministrativo, vol. II, Milano 2001; Id., Istruzione preventiva e processo amministrativo: riflessioni a margine di una recente pronuncia, in Dir. proc. amm. 1998, 629; F. Saitta, I nova nell’appello amministrativo, op cit. 289 ss.; Degli Esposti, Appunti sull’istruttoria nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm. 1991, 276; L.R. Perfetti, Sull’istruttoria nel processo amministrativo oltre il “metodo acquisitivo”. Osservazioni sulla relazione tra art. 64 c.p.a. ed art. 213 c.p.c., in Scritti in memoria di Roberto Marrama, Napoli 2012, 739; Id., Prova (processo amministrativo), in Enc. dir. Annali, II, 2, Milano 2009, 917; F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo, op. cit.; M. Nigro, Il giudice amministrativo “signore della prova”, op. cit., 6 ss.
[10] Cfr. L.R. Perfetti, “L’istruzione nel processo amministrativo e il principio dispositivo”, op. cit.
[11] Sul punto il Consiglio di Stato ha precisato che “il divieto di domande o eccezioni nuove in appello ex art. 104, comma 1, c.p.a. si applica solo all'originario ricorrente, poiché solo a quest'ultimo, una volta delimitato il thema decidendum con i motivi di impugnazione articolati in primo grado, è precluso un ampliamento dello stesso nel giudizio d'appello; viceversa, rispetto alle parti resistenti il medesimo divieto va inteso come riferito alle sole eccezioni in senso tecnico, non rilevabili d'ufficio, ma non anche alle mere difese rispetto agli altrui motivi di impugnazione, il cui accoglimento determina l'interesse a formulare ogni censura volta ad ottenere la riforma della sentenza in sede d'appello” (Cons. di Stato, sez. III, 25 marzo 2021, n. 2530).
[12] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, cit.; F.G. Gallo, Giustizia amministrativa, cit.; R. Villata, Considerazioni sull’effetto devolutivo dell’appello nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 1985, 131 ss.; F. Patroni Griffi, Il metodo di decisione del giudice amministrativo, in La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, cit., 43 ss.; M. Taruffo, Giustizia, procedure e processo, in Ragion pratica, 9/1997; B. Pastore, Giusto processo e verità giudiziale, Filosofia del diritto, unife.it.; F. Francario - M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, cit.
[13] In tale circostanza le S.U. erano state chiamate a pronunciarsi sul contrasto esistente tra le sezioni semplici a proposito del concetto di prova indispensabile ai sensi dell’art. 345, comma 3, cod. proc. civ. nel testo (coincidente con quello attuale dell’art. 104, comma 2, cod. proc. amm.) vigente prima dell’ultima novella apportata dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, convertito nella legge n. 134 del 2012 (Corte di Cassazione, Sez. Unite, 4 maggio 2017 n. 10790).
[14] Sul tema della produzione di nuovi mezzi di prova in appello il Consiglio di Stato ha stabilito, a più riprese, che questa è subordinata alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile alla parte di esibirli in primo grado, ovvero alla valutazione di indispensabilità collegata all’impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l’onere di fornire nelle forme e nei tempi stabiliti dalla legge, sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 novembre 2018, Cons. Stato, Sez. III, 22 maggio 2019; Cons. Stato, Sez, IV, 17 luglio 2018.
[15] R. Dagostino, Principi e regole dell’istruttoria in appello e intellegibilità della decisione giudiziaria. A proposito di una sentenza “oscurata” (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2021 n. 5560), in Giustizia insieme, 2021.
[16] M.A. Sandulli, La giurisdizione plurale: Giudice e potere amministrativo. La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione Giustizia, 1/2021.
[17] F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo, op. cit.
[18] R. Dagostino, Principi e regole dell’istruttoria in appello e intellegibilità della decisione giudiziaria. A proposito di una sentenza “oscurata” (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2021 n. 5560), op.cit.
Il recente volume, curato da Maria Martello, con contributi di Roberto Bartoli, Pietro Bovati, Luciana Breggia, Tommaso Greco, Letizia Tomassone, pubblicato da Giappichelli, è suddiviso in due parti ed è il frutto di un lungo percorso di lavoro, fatto di studi, di riflessioni, di intrecci tra saperi diversi e di proposte sulla mediazione dei conflitti. Un libro denso, che non dà niente per scontato e assodato, che è pieno di tante domande sul ruolo, sulla funzione, sul presente e sul futuro della mediazione, ma anche di tante risposte sulle modalità in cui sanare i conflitti e sul valore umano della mediazione perché “mediare un conflitto non significa… semplicemente pervenire ad un accordo fra le parti ma permettere alle stesse parti in lite di scoprire le ragioni profonde dei propri comportamenti”.
La prima parte, di cui è interamente autrice la stessa Martello, affronta, pur mantenendo la mediazione come unico baricentro, diverse tematiche che vanno dalla spiegazione di cosa si intenda per mediazione ai nuovi orizzonti della crescita umana, dalla precarietà delle relazioni, tra libertà e autonomia, all’impossibilità di vivere con e senza l’altro, dal percorso di formazione alle chiavi del mediatore, per citarne solo alcuni.
Per Maria Martello, la mediazione per la risoluzione dei conflitti rappresenta una “evoluzione delle risposte al bisogno di giustizia dell’uomo per una nuova solidarietà umana, a partire dal dialogo costruttivo tra scienze diverse”. E se, “con la riforma della giustizia, la mediazione è la novità del nostro tempo… essa a pieno titolo rientra nel cambiamento epocale che in tanti ambiti si sta imponendo”. Per questo, merita “di divenire oggetto di studi, di riflessioni e di dibattito che coinvolga sia tutta la società civile sia la comunità scientifica. Ciò nell’urgenza di evitare che la sua introduzione mini le basi della risposta giudiziaria senza di fatto predisporre una alternativa di valore, compresa e vissuta come evolutiva”.
Certa che “la mediazione il senso ce l’abbia”, ed è quello riparativo e rigenerativo, la nostra autrice ribadisce che essa “va riconosciuta e rilanciata all’interno della riforma della giustizia e non va assolutamente tradita”.
La mediazione può avere l’effetto rigenerativo, di cui parla Marta Cartabia, solo quando la sua applicazione consente a chi è stato “ingiusto” di tornare “giusto”. Altrimenti, rappresenta “una promessa mancata. Una ipotesi di facciata. Vuota e svuotata. Che forse vale meno della risposta giudiziaria al conflitto”. Occorre – afferma Maria Martello – “andare a fondo” della questione “per non farla andare a fondo”. Occorre delineare “il senso dell’istituto della mediazione che ne definisca la visione unitaria e che sia presupposto per le applicazioni plurali in cui ne esprime le potenzialità”. Occorre riconoscere la giustizia quale “un’esigenza primaria della persona, come lo è il diritto alla salute, alla vita e all’istruzione, alla serenità nei rapporti”. Il mediatore professionale è una figura nuova per il nostro ordinamento giudiziario: non è un giudice, o un avvocato, è, invece, un professionista competente, un umanista che mira ad aiutare “le persone” a raggiungere un accordo. Più precisamente, è una figura che mantiene l’imparzialità del giudice, ma non è tenuto a decidere al posto delle parti, in base ai principi del diritto. La sua funzione è quella di aiutare le parti a raggiungere un accordo, da loro condiviso e accettato.
“Ragionevolmente – scrive Maria Martello - si può essere certi che la mediazione, prendendosi cura dell’uomo, sia la risposta più radicale, e forse risolutiva del problema Giustizia, che migliori la società costruendo le basi di un nuovo umanesimo, su un piano vicino ai valori più alti dell’uomo”. In questa accezione, non è una alternativa, tra le tante, ma una necessità che risponde a una richiesta profonda di umanizzazione della giustizia che nulla ha a che fare con la vendetta e che mira a “instaurare equilibri nuovi e superiori”. Non a caso, Maria Martello utilizza la metafora del porto e della “via di pace” per definire la potenza della mediazione: “è un porto dove le persone arrivano, trovano ristoro e poi partono. È una proposta che è esito di fecondi intrecci e sperimentazioni. … È una via di pace non solo perché volta alla soluzione del conflitto con un accordo ma perché fa toccare le emozioni alla base del problema che contrappone le parti, le fa riconoscere e governare attraverso l’empatia e la compassione, ovvero l’accoglienza del dolore… Il diritto riduce a fattispecie normative la varietà dei casi che si possono presentare nel concreto e le congela in ipotesi astratte. Questo non avviene in mediazione. Qui diventa centrale la diversa rilevanza dei vissuti personali in relazione ai comportamenti delle parti in lite, non tanto l’oggetto del contendere”.
Nel volume, a questa prima parte, corposa, profonda, ricca di indicazioni e di rigorose e illuminanti metafore, segue una seconda parte in cui vengono analizzate le radici filosofiche, spirituali, teologiche che stanno alla base e ispirano il senso profondo della mediazione e che ne giustificano “il valore e lo sforzo della sua realizzazione”. Una teologia della riconciliazione - per usare il titolo di un paragrafo del saggio di Letizia Tomassone - e una spiritualità materiale fatta di contatti fisici, di pianti, di abbracci che ti avvicinano all’altro e si rivelano essenziali sul piano identitario.
Partendo dalla riscoperta di alcune figure femminili sapienziali che aiutano il contendente con maggior potere a capire le ragioni dell’altro e a tornare a vederlo come una persona, a vederne il volto e il nome, Letizia Tomassone scrive che “sia nei testi biblici che nelle storie più recenti tra chiese, vi è la presenza dei corpi e il coinvolgimento profondo delle vite. Le persone che intraprendono un percorso di pace e di dialogo si trovano a dover faticare e piangere, a mettersi in ginocchio davanti all’altro e a chiedere perdono, a cercare e offrire l’abbraccio o il tocco empatico necessario a riconoscere l’umanità dell’altro, dell’altra”. La mediazione è, pertanto, una questione di corpi che si toccano fisicamente, che allargano le braccia per abbracciare e essere abbracciati in maniera totalizzante ed emozionante. “E in mezzo a questa fatica della consapevolezza e del perdono scambiato c’è la gioia di edificare un nuovo spazio per la coesistenza delle comunità umane. L’altro non può essere ignorato, anzi diventa essenziale per la mia stessa identità”.
Perdono e riconciliazione, “giustizia dei fratelli”, “non giudizio di Dio” sono le parole e i concetti ricorrenti nel saggio di Pietro Bovati. “Perdono e riconciliazione - scrive - non vanno riconosciuti solamente nel Signore Gesù, ma dev(ono) invece ispirare e disciplinare la condotta di coloro che vogliono essere seguaci di Gesù, desiderosi di attuare piena giustizia nei confronti dei fratelli che hanno commesso qualche colpa, cercando di riportare all’ovile chi si è perduto, perdonando settanta volte sette (Mt 18,21-22)”. E questo deve avvenire non solo nella prassi liturgica e sacramentale, ma deve “trovare concretezza nella prassi giuridica e nei provvedimenti sociali, indirizzati a favore di chi è stato riconosciuto colpevole” perché costui rimane sempre un fratello, e “per il cristiano l’amore che cerca la riconciliazione non può compiacersi della sua condanna, ma deve esplorare e trovare le vie per aiutarlo nel suo personale ritorno al bene, così che venga restituito nella sua dignità di cittadino, anzi di figlio di Dio, di fratello tra fratelli. Questa strada è stata da qualche tempo intrapresa lodevolmente dalle iniziative di giustizia riparativa e in generale dalla mediazione”. Certo, si tratta, come sottolinea Bovati, di un percorso ancora lungo, irto di intoppi, che richiede “saggezza e tenacia” ma rappresenta una meta da ambire e da raggiungere.
Secondo Tommaso Greco, la mediazione rappresenta una “grande occasione che i nostri ordinamenti giuridici possono cogliere se prendono sul serio il fenomeno… della mediazione e della riparazione”.
“Perché - scrive - siamo abituati a pensare alle regole, e al diritto in generale, come ad un qualcosa che ci serve sostanzialmente per tenerci separati dagli altri e molto spesso per attaccarli o per difenderci da loro, e invece ci troviamo davanti alla possibilità di ripensare in maniera straordinaria, non solo la funzione, ma persino la natura del diritto e questa possibilità”. Il fatto è che “non riusciamo a capire che la giustizia, pur essendo rappresentata da una dea bendata, non può rinunciare a vedere l’altro, perché è esattamente dalla qualità dell’incontro che si verifica tra i protagonisti della relazione che passa la possibilità della sua realizzazione”.
Sulla necessità di un rapporto con gli altri saperi e sull’urgenza di superare la lunga “stagione dello smarrimento” e dei confini insiste Luciana Breggia.
Quale, se non “smarrimento”, il concetto per definire “la situazione in cui si trovano tutti coloro che in modo professionale – avvocati, giudici, funzionari di cancelleria, professionisti – o casuale – le parti, i testimoni e così via – si trovano ad abitare le stanze della giustizia”? Annaspano, tutti, tra frammenti, tra faldoni che alzano muri, che costruiscono barriere e che delineano confini. Occorre aprirsi ad altri saperi e trasformare lo smarrimento in un dono. “La stagione dello smarrimento potrebbe essere il tempo dell’inizio di nuove strade da percorrere, magari inaspettate e belle”.
Già l’esperienza della conciliazione giudiziale aveva aperto un buon varco e passando da lì si era arrivati a “un mondo altro”, quello della mediazione. “Certo, - scrive Breggia - questo ha comportato uno spaesamento per chi si era formato sul modello autoritativo”, ma, è dallo spaesamento, dall’uscita dalla propria cultura “che si deve passare” per uscirne arricchiti e tornare dopo aver acquisito una comprensione più larga e profonda. “L’introduzione della mediazione – continua Breggia - come sistema generale di gestione dei conflitti aventi ad oggetto diritti disponibili, ad opera del d.lgs. n. 28/2010, ha comportato in realtà un duplice movimento. Da un lato si è assistito a una sorta di scatto di orgoglio (o di potere?) da parte della magistratura e alla riscoperta della conciliazione giudiziale, ben poco utilizzata fino a quel punto. Dall’altro, lo stesso percorso giudiziario ne è rimasto contaminato, arricchendosi di una prospettiva psicologica, comunicativa ed emotiva”.
Una prospettiva psicologica ed emozionale che può comportare un nuovo paradigma, quello della giustizia riparativa, priva di violenza e che rappresenta, per Roberto Bartoli, un’antitesi alla giustizia punitiva.
“Si deve avere il coraggio - spiega - di mettere a confronto in termini sostanziali la giustizia punitiva e quella riparativa con i capisaldi rappresentati dall’eguaglianza, dal personalismo e dalla rieducazione: il quadro che ne esce non può non far riflettere… ci dobbiamo chiedere se davvero (la giustizia punitiva) faccia in modo che tutti i cittadini abbiano parità sociale; se davvero attraverso la giustizia punitiva la Repubblica rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti alla vita del Paese. La risposta, che è sotto gli occhi di tutti, non può che essere negativa. Certo, l’autore non può essere messo sullo stesso piano della vittima, ci mancherebbe: si violerebbe il principio di eguaglianza, visto che l’autore deve essere trattato in modo diverso dalla vittima”. Ma è davvero giusto sbattere l’autore in prima pagina, distruggerlo a tutti i livelli, segnarlo con un marchio d’infamia, scandagliare la sua vita con una lente di ingrandimento al fine di deprezzarlo, di farlo a pezzi, di sfinirlo e di stenderlo a terra? “Dalla complessiva vicenda punitiva, soprattutto se a carattere carcerario, l’autore - sottolinea Bartoli - esce mortificato, umiliato, marchiato, svilito e quindi necessariamente discriminato”. Per non parlare di “quanto contrastino con l’eguaglianza i sistemi preventivi basati sui concetti di pericolosità: … i destinatari delle misure di prevenzione vanno incontro a limitazioni di diritti fondamentali come la libertà di circolazione, pur non avendo commesso alcun fatto di reato.”
E allora perché non stabilire un rapporto di complementarietà tra la giustizia punitiva e la giustizia riparativa? Una complementarietà “da intendersi nel senso etimologico del termine, non solo come aggiunta dell’una all’altra, ma anche come completamento: la giustizia punitiva, che costituisce la base, può essere completata dalla giustizia riparativa”.
Anche Natoli, nella sua premessa, insiste su questo aspetto e sulla necessità “che muti la logica della giustizia; vale a dire si passi da una concezione retributiva a quella riparativa: passiva la prima, attiva la seconda perché rende i soggetti titolari del loro cambiamento”. La mediazione non mira solo alla conciliazione: “non si limita a sanare la lite – in base e reciproche convenienze – ma tende a individuare le ragioni scatenanti il conflitto – individuali sociali -; mira alla pacificazione che vuol dire accettazione dell’altro ed insieme dei propri limiti il cui disconoscimento o ignoranza è matrice di ogni prevaricazione”. Certo, viviamo in una società conflittuale che si nutre di conflitti familiari, sociali, economici; una società dove sembra essersi smarrita la capacità di governare gli istinti, le liti, i conflitti. Forse l’educazione alla mediazione, come sostiene Maria Martello, potrebbe rappresentare un varco per cambiare mentalità, per costruire un nuovo umanesimo e potrebbe contribuire a meglio leggere e affrontare i conflitti che attraversano la società contemporanea nel suo complesso.
L’esperienza, però, ha dimostrato che le parti, in alcuni casi di mediazione, preoccupate di dire qualcosa di sbagliato e di controproducente delegano a raccontare il proprio legale, vanificando in questo modo la possibilità di raggiungere un accordo. L’educazione alla mediazione, allora, potrebbe fornire alle parti la familiarità con l'istituto che potrebbe essere scelto consapevolmente, rispetto al giudizio davanti al Giudice, perché le parti potrebbero dialogare liberamente con il mediatore ed esporre tutte le proprie esigenze e i propri bisogni nella relazione con la controparte. Non solo, l’educazione alla mediazione potrebbe far comprendere bene il ruolo del mediatore, che nulla impone e nulla giudica, ma che, essendo competente, riuscirà a stabilire un accordo tra le parti, senza alcuna forzatura.
Com’è noto, parecchie sono le critiche mosse, soprattutto da parte degli avvocati, al nuovo istituto che vanno dai dubbi di incostituzionalità, alle difficoltà pratiche di attivare gli organismi, dalla scarsa tutela dei confini professionali al pericolo di intaccare interessi e diritti di categoria. Tuttavia, dal momento che la mediazione è stata riconosciuta e legittimata, gli avvocati, pur avanzando dubbi e pur sottolineando alcune criticità, hanno dichiarato che rispetteranno la legge e metteranno a disposizione le loro competenze nella mediazione.
Certo si tratta – come dichiara Maria Martello - di “un paradigma nuovo, delicato, complesso, degno di ogni impegno” e che può suscitare remore e resistenze. Ma la mediazione, andando oltre le regole processuali, “prendendosi cura dell’uomo, è la risposta più radicale, e forse risolutiva del problema Giustizia, migliora la società costruendo le basi di un nuovo umanesimo, su un piano vicino ai valori più alti dell’uomo”. Peraltro, mediazione e processo potrebbero stabilire una civile e proficua convivenza perché la prima potrebbe far diminuire il contenzioso e realizzare una giustizia più veloce, più funzionale, più economica e a cui un più largo numero di persone, anche socialmente disagiate, potrebbe accostarsi e il secondo, cioè il processo, una volta fondato su più solide basi, potrebbe favorire, quando le parti ricorrono alla mediazione, il raggiungimento di accordi più giusti ed equi.
Il senso della mediazione dei conflitti. Tra diritto, filosofia e teologia, Giappichelli, Torino 2024, pag. 224.
Questo contributo è parte dell'approfondimento in tema di infortuni inaugurato su questa Rivista il 1° marzo 2024 (v. L'emergenza nazionale degli infortuni sul lavoro e la risposta delle istituzioni: uno sguardo di insieme di Maria Laura Paesano, Le indagini in materia antinfortunistica e la sensibilità del pubblico ministero di Giuseppe De Falco, Controlli amministrativi e sanitari. Il contrasto agli infortuni in via preventiva di Francesco Agnino, Alla ricerca del reale garante del rischio lavorativo nelle imprese individuali di Lorenzo Gestri).
Sommario: 1. Infortuni sul lavoro e pubblica amministrazione: principi generali - 2. La nozione di datore di lavoro nell’ambito della P.A. – 3. I caratteri del datore di lavoro pubblico – 4. La posizione della giurisprudenza di legittimità - 5. Infortuni sul lavoro e responsabilità del Sindaco.
1. Infortuni sul lavoro e pubblica amministrazione: principi generali.
Indispensabile premessa metodologica è quella afferente alla esigenza di distinguere rectius l'attività produttiva d'impresa (privata e pubblica), garantita dall'art. 41 Cost., dall'attività amministrativa della pubblica amministrazione, prevista dall'art. 97 Cost.
Nel primo caso, il datore di lavoro deve disporre ex se per legge - se vuol esercitare lecitamente l'attività d'impresa (art. 41, co. 2°, Cost.) - di mezzi adeguati allo scopo. (13) E devono essere contemplati tra i mezzi adeguati anche gli oneri della sicurezza sul lavoro, i quali vanno considerati nell'ambito della dinamica dei costi di produzione alla pari degli altri costi dei fattori produttivi, non potendo essi rappresentare elementi esogeni, bensì costituendo elementi endogeni alla produzione, come lo sono invero tutti i costi di produzione. Costi, che, in una struttura produttiva correttamente impostata, vanno ad essere iscritti nel bilancio di esercizio tra le passività (artt. 2424 e 2425 c.c.), non gravando dunque sull'utile d'azienda.
Più specificamente, l'art. 41 Cost., dopo aver sancito, al comma primo, che "L'iniziativa economica privata è libera", al secondo, ha subito precisato che "Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Per altro verso, già l'art. 35, in apertura della nostra c.d. Costituzione economica, statuisce che "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni", ergo non potrà mai darsi che l'attività lucrativa d'impresa possa andare a detrimento della salute e della sicurezza del lavoratore, in quanto il profitto non può essere costruito a scapito della sicurezza sul lavoro.
Del tutto diverso è invece il ragionamento da farsi per l'attività amministrativa della P.A. esplicata dagli uffici pubblici ai sensi dell'art. 97 Cost.
In tale ipotesi, non c'è alcuna ricerca del profitto o, comunque sia, di un'attività lucrativa, bensì il semplice esercizio di funzioni o servizi pubblici, nel cotesto di una organizzazione burocratica di diritto pubblico, ispirata dai principi di legalità, imparzialità e buon andamento, sottoposta a precisi vincoli gestionali e di spesa pubblica.
Lo Stato e gli enti pubblici autarchici (o istituzionali) non sono tenuti per legge a disporre di mezzi illimitati per esercitare i poteri attribuiti, sussistendo i pregnanti condizionamenti della finanza pubblica, derivanti dai principi della legalità dell'imposizione (art. 23 Cost.) e della parametrazione del prelievo fiscale alla capacità contributiva dei consociati (art. 53 Cost.), nonché dal vincolo della necessaria copertura della spesa a mezzo del bilancio pubblico (art. 81, co. 3° e 4°, Cost.).
Più specificamente, l'art. 53, comma 1, Cost. prevede che "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva". La capacità contributiva è da intendersi come parametro di riferimento fondamentale per l'impostazione dell'intero sistema tributario che, come precisato dal comma 2, "è informato a criteri di progressività". È dunque evidente che la finanza pubblica sia in gran parte condizionata dalla concreta "capacità contributiva" dei consociati ancorata ai guadagni ed alla capacità economica esprimibile in un determinato tempo e, quindi, collegata, quale variabile dipendente, al sistema produttivo del Paese.
A sua volta, è il legislatore a stabilire, con la legge di bilancio e con le altre forme previste dalla legislazione sulla contabilità e la finanza pubblica (l. 31 dicembre 2009 n. 196), le risorse di dotazione per la pubblica amministrazione, che è tenuta ad agire nei limiti dei finanziamenti assegnati, anche con riferimento alla sicurezza sul lavoro.
Inoltre, va considerato che tutte le direttive comunitarie in materia di sicurezza sul lavoro (in particolare, la Dir. 89/391/CEE) non definiscono la figura del "datore di lavoro", che viene semplicemente enunciata, ma mai descritta nel dettaglio, bensì disciplinano, con disposizioni minuziose, le caratteristiche del sistema di sicurezza sul lavoro voluto, concludendo poi nel senso che eguali garanzie degli ambienti di lavoro privato valgono anche per quelli pubblici, omettendo però ogni ulteriore specificazione e, di conseguenza, consegnando al legislatore dello Stato membro di pensare al modo migliore attraverso cui garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro pubblico, senza che per questo esista la necessità di imitare quello privato lucrativo.
Pertanto, a ratione l'articolato normativo inerente alla tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro disegnato dal d.lgs. n. 81/2008 succ. mod. va calato nell'apparato burocratico pubblico, con taluni adattamenti e correzioni indispensabili per ricostruire il "tessuto" delle disposizioni normative, che, come visto, sono carenti di sufficiente tipizzazione.
Tutte le direttive comunitarie in materia di sicurezza degli ambienti di lavoro (es. Dir. 89/391/CEE) individuano quale soggetto massimo responsabile della sicurezza sul lavoro, nel complesso aziendale, il "datore di lavoro", intendendosi per tale il soggetto giuridico persona fisica o persona giuridica "titolare" del rapporto di lavoro e che abbia, altresì, la responsabilità dell'impresa e/o dello stabilimento produttivo. Nessuna altra specificazione viene effettuata, se non quella per la quale vanno garantite agli ambienti di lavoro pubblico, tendenzialmente, eguali garanzie di sicurezza rispetto a quelli privati, attraverso apposite strutture di vigilanza interna; ciò necessariamente in quanto le persone giuridiche pubbliche, in base all'art. 11 c.c., sono in una posizione giuridica separata rispetto alle persone giuridiche private, in quanto: "[…] gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico".
Non esiste poi nel diritto comunitario alcuna assimilazione tra imprese private e pubbliche amministrazioni, anzi prevedendosi esplicitamente una possibilità di diverso e più articolato regime. Inoltre, va osservato che il soggetto giuridico titolare del rapporto di lavoro e della responsabilità d'impresa è, di norma, quello singolo che possiede la proprietà dell'impresa, oppure quello collettivo del consiglio di amministrazione della società.
Venendo all'ordinamento italiano, che ha trasposto la Dir. 89/391/CEE, notiamo che la nozione generale di "datore di lavoro", ai sensi dell'art. 2, co. 1, lett. b), prima alinea, del T.U.S.L. d.lgs. n. 81/2008 succ. mod. (che ha sostituito il D.Lgs n. 626 del 1994 succ. mod.) è quella del soggetto "titolare del rapporto di lavoro" o che, ad ogni modo, detenga "la responsabilità dell'organizzazione […] in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa".
Datore di lavoro, quindi, per la normativa in materia di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, come invero anche per quella in materia di assicurazione sociale contro gli infortuni, è colui che ha instaurato il rapporto di lavoro e che abbia necessitate un potere di decisione e di spesa ivi comprese evidentemente le problematiche inerenti alla sicurezza sul lavoro.
Una simile impostazione fa emergere il carattere fondamentale del massimo soggetto responsabile in materia di sicurezza, ossia il potere di determinare, anche in materia di spesa, quanto si debba fare in materia di sicurezza, onde poter onorare con efficacia la posizione di garanzia assegnata dall'ordinamento.
Dunque, possiamo dire, già in prima approssimazione, che non sussiste un "datore di lavoro", laddove non vi sia un adeguato "potere decisionale e di spesa" e (implicitamente) un'adeguata organizzazione aziendale di sostegno.
2. La nozione di datore di lavoro nell’ambito della P.A.
La figura giuridica del "datore di lavoro" nell'ambito della disciplina in materia di igiene e sicurezza del lavoro assume connotati affatto peculiari con riguardo alla sfera del mondo della pubblica amministrazione.
Ciò per evidenti motivazioni collegate alla natura stessa dell'attività amministrativa, che è né più né meno che attività di cura concreta dell'interesse pubblico, nell'esplicazione di potestà pubbliche predeterminate dalla legge ed intestate, di norma, a soggetti pubblici all'uopo muniti della necessaria competenza.
In generale, va ricordato che, il dirigente, nella misura in cui rivesta il ruolo di organo preposto alla gestione dei rapporti di lavoro, assume le relative misure inerenti alla gestione con la capacità (giuridica) e i poteri (funzionalizzati) del privato datore di lavoro, ma pur sempre nel rispetto della legge e degli atti di organizzazione posti dal vertice amministrativo (art. 5, co. 1 e 2, d.lgs. n. 165/2001 succ. mod.).
In sostanza, gli organi della P.A. (e le persone fisiche ivi preposte), deputati a gestire lato sensu i rapporti di lavoro, sono abilitati ad esplicare tutte le prerogative e le funzioni del datore di lavoro solo per fictio juris, senza dunque mai identificarsene in toto, in quanto in realtà l'autentico datore di lavoro, in questi casi, è difatti, impersonalmente, la persona giuridica pubblica (es.: Stato, ente pubblico autarchico, Regione, Comune, etc.), che, per l'appunto, agisce mediante appositi e predefiniti organi (di governo) di vertice ed organi (dirigenziali) amministrativi, in virtù del c.d. rapporto di immedesimazione organica, talché può dirsi che l'ente agisce tramite i suoi organi e l'azione dei suoi organi (politici e dirigenziali) è volontà espressa dell'ente.
Più specificamente, è l'organo di governo ad esercitare il c.d. potere gestorio della persona giuridica, in qualche modo, rapportabile a quello che, nelle grandi società di capitali, compete al consiglio di amministrazione. Sott'ordinati, oggi secondo una distinzione di tipo funzionale, sono i dirigenti di vario livello.
La complessità organizzativa dell'ente poi implica la sussunzione nel suo alveo di figure interne intermedie pure abilitate, nel rispetto però di prefissate aree di competenza, ad esprimere in parte qua determinazioni dal vario contenuto aventi efficacia giuridica esterna (oltreché interna). Titolari degli uffici amministrativi (interni) sono taluni funzionari pubblici apicali e qualificati, che possono variamente essere considerati "dirigenti" (art. 2, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 81/2008) o "preposti" (art. 2, co. 1, lett. e), d.lgs. n. 81/2008 ai sensi della normativa di prevenzione.
Nella P.A., dunque, la responsabilità datoriale intestata impersonalmente alla persona giuridica pubblica si "rifrange", in primis, nelle figure giuridiche del governo di vertice, che esprimono l'indirizzo politico-amministrativo del c.d. ente morale e, in secundis, nelle figure sott'ordinate dirigenziali, che esercitano, con autonomia, la gestione tecnico-amministrativa, comunque a talune predeterminate, in via normativa, puntuali condizioni.
Pertanto, datore privato di lavoro e datore pubblico di lavoro sono concetti affatto distinti per natura intrinseca e definizione legislativa. Di conseguenza, soprattutto per quanto attiene alla specifica tematica della igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, vanno operati taluni distinguo, come lo stesso legislatore del T.U. peraltro fa con riguardo alle fattispecie astratte contemplate in più parti del testo e come, d'altro canto, la giurisprudenza ugualmente ha sovente fatto con riferimento alle fattispecie concrete di responsabilità che ha esaminato.
Difatti, per il settore pubblico burocratico, sono stati previsti due tipi fondamentali di regimi derogatori diversi. Uno ordinario valido per le pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 succ. mod., ossia per le P. A. con rapporto di lavoro a regime privatizzato (o contrattualizzato) ed un altro speciale per le pubbliche amministrazioni a regime pubblicistico e per taluni ambiti lavorativi particolari (anche se a rapporto di lavoro privatizzato).
Il primo regime derogatorio, quello ordinario, è delineato nell'art. 2 (Definizioni), co. 1, lett. b), parte seconda, d.lgs. n. 81/2008, secondo il quale: "Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo".
Il secondo regime derogatorio, quello speciale, è, invece, delineato nell'art. 3 (Campo di applicazione), co. 2 e 3, d.lgs. n. 81/2008, con riferimento ai seguenti settori: a) forze armate, di polizia, protezione civile, ordine pubblico, strutture giudiziarie e penitenziarie; b) università ed istruzione pubblica; c) uffici all'estero: d) mezzi di trasporto aerei e marittimi; e) archivi, biblioteche e musei sottoposti a vincoli di tutela per i beni artistici storici e culturali; f) bordo delle navi, ambito portuale, navi da pesca, trasporto ferroviario (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, in DPP, 2011, 475).
3. I caratteri del datore di lavoro pubblico.
Il datore di lavoro pubblico settoriale è normalmente un dipendente munito della qualifica di dirigente, poiché soltanto con riferimento a siffatto soggetto, appositamente selezionato e dotato della relativa caratura professionale (ex artt. 15 ss del d.lgs. n. 165/2001 succ. mod.) necessaria ed indispensabile per l'assolvimento degli onerosi obblighi di sicurezza, è ipotizzabile il radicamento delle responsabilità, spesso di ordine penale, in materia di sicurezza del lavoro.
Va doverosamente evidenziato che l'ossimoro secondo cui "datore di lavoro" pubblico è un "dipendente" della P.A., seppure munito di qualifica dirigenziale, mostra chiaramente tutta la specialità della materia del lavoro pubblico, dove non esiste un reale datore - tale essendo in realtà solo la persona giuridica pubblica - ma soltanto figure che, in virtù di fictio juris, lo possono sostituire (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, op. cit., 483).
Continuando, la disposizione di cui all'art. 2, co. 1, lett. b), cit. fa anche riferimento alla qualifica di funzionario "nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale". Pertanto, per il legislatore del T.U.S.L., assume maggior rilievo la circostanza oggettiva della preposizione ad uffici dotati di autonomia gestionale e di spesa, più che la qualifica soggettiva rivestita da chi ne è preposto, con ciò sottolineando la preminenza della capacità di spesa come elemento che qualifica la responsabilità.
Resta comunque il primo dato normativo utile: datore di lavoro pubblico, per il T.U.S.L. (come già per il Decreto n. 626), è un dipendente, munito, di norma, di una particolare qualifica: quella di dirigente.
Elemento preponderante per radicare la responsabilità datoriale, ai fini della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, è l'autonomia gestionale dell'ufficio cui è preposto il dirigente (od il funzionario). La disposizione però non chiarisce in cosa essa consista e, per di più, sembra distinguere siffatto carattere da quelli successivi della autonomia decisionale e della spesa.
Sicuramente "gestire" in autonomia vuol significare, dal punto di vista gius-pubblicistico, possedere la facoltà giuridica di amministrare l'ufficio pubblico diretto, nell'ambito della competenza riconosciuta, con piena responsabilità dei provvedimenti ed atti adottati, ma non solo; dalla visuale gius-lavoristica significa anche "dirigere" i rapporti di lavoro dei dipendenti assegnati e badarne ai rispettivi bisogni di tutela di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, con i correlativi oneri. Ma, a tal proposito, occorre effettuare un passo indietro.
Sul punto, infatti, vanno necessariamente premesse alcune riflessioni di carattere più generale riconnesse alla peculiare natura delle soggettività pubbliche, che, oltre a possedere caratteri assai eterogenei e variabili, vedono sempre filtrata la formazione di ogni determinazione, avente giuridica significatività, ivi compresa quella c.d. gestoria, da una pluralità di organi.
In via di principio, deve rilevarsi come il potere gestorio nel campo pubblico sia scomponibile in due macro-categorie essenziali: a) la funzione di indirizzo politico-amministrativo; b) la funzione di gestione amministrativa concreta (artt. 4-5 D.Lgs n. 165 del 2001 succ. mod.).
La prima, ai sensi dell'art. 4, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, è di competenza degli organi di governo che esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Segnatamente, ad essi competono la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione e la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale e, in via indiretta, tra quelli di livello non dirigenziale generale.
La seconda, invece, ai sensi dell'art. 4, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, compete ai dirigenti, i quali adottano tutti i provvedimenti (compresi quelli che impegnano l'amministrazione all'esterno) e curano la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante autonomi poteri di spesa (nei limiti degli stanziamenti) e di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo (nei limiti prefissati normativamente), ivi compresi gli adempimenti in materia di sicurezza sul lavoro, in base al modello generale definito dagli organi di vertice.
Pertanto, fermo restando i comuni canoni di imputazione delle responsabilità (penale, civile, amministrativa), sono di norma i dirigenti ad essere chiamati a rispondere della complessiva attività gestionale amministrativa e dei relativi risultati. Ma, talvolta, va detto che emerge la responsabilità della componente politica (soprattutto a livello locale), ogni qual volta prevalga la considerazione della omissione di piani programmatici e finanziari di esclusiva competenza politica, che, a monte, si rivelino quale elementi essenziali e condizionanti le scelte, a valle, a valenza più spiccatamente amministrativa e di gestione.
Una possibile (ma non unica, stante il ruolo del massimo decisore politico) chiave di lettura è quella di ritenere che datore di lavoro, nell'ambito del lavoro pubblico, sia colui che abbia una facoltà di gestione lato sensu intesa di direzione, di organizzazione e di controllo dell'attività amministrativa dell'ufficio pubblico, come peraltro si evince dagli artt. 17-18 del d.lgs. n. 165/2001, a patto che questa sia autenticamente di vasta portata e, soprattutto, contemplante tutto quanto occorra per la efficace adozione delle misure di sicurezza sul lavoro.
In genere, come visto, siffatta figura giuridica corrisponde a quella del dirigente titolare di un organo amministrativo di una data amministrazione od ente pubblico, che ha, congiuntamente, i poteri di rappresentare l'amministrazione all'esterno, di amministrare la funzione pubblica o il pubblico servizio e di gestire i rapporti di lavoro dei dipendenti assegnati all'ufficio.
Terzo elemento fondamentale è quello che potrebbe definirsi come effettività della autonomia gestionale dell'ufficio, cui è da ricondursi la potestà decisionale e di spesa.
Si tratta di un potere gestorio, che - in linea di principio - per portata e soprattutto per funzione, dovrebbe essere molto simile a quello che, in dottrina, (57) è riconosciuto agli amministratori di società di capitali (art. 2380 bis c.c.); tuttavia, la normativa in materia di contabilità pubblica riserva un simile potere - come deve essere, in ambito pubblico, ove si amministrano denari della collettività - soltanto in testa agli organi di vertice (es.: ministri, consiglieri di amministrazione, etc.), attribuendo ai dirigenti potestà decisionali e di disponibilità finanziaria soltanto di carattere derivato, rispetto alle primarie potestà di pianificazione, di indirizzo amministrativo e di assegnazione delle risorse ai dirigenti preposti ai centri di responsabilità, veicolate attraverso il bilancio e l'assegnazione di appositi budget (l. n. 94/1997; d.lgs. n. 127/1997; d.P.R. n. 97/2003).
Difatti, i commi 1 e 2 dell'art. 4 del d.lgs. n. 165/2001, prevedono che la definizione degli obiettivi, nonché la individuazione delle risorse economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità, competa agli organi di governo. Mentre, ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, mediante autonomi poteri di spesa nei limiti dei budget assegnati.
Dal sistema sembra, quindi, evincersi un potere di gestione e decisionale di spesa ripartito tra una pluralità di figure e, soprattutto, collegato alle risorse finanziarie (disponibili de facto anche in base all'andamento generale dell'economia pubblica), oltreché subordinato alle contingenti regole giuridiche, tecniche ed economiche di programmazione.
Dunque, per le finalità del T.U.S.L., strettamente connesso al potere gestionale è quello decisionale e di spesa, da intendersi cumulativamente.
Tuttavia, la disposizione - invero, non a caso - prende in esame in modo nettamente distinto i concetti di "autonomia gestionale" e di "autonomia decisionale e di spesa", trattandosi, con tutta evidenza, di potestà che, nell'alveo delle organizzazioni pubbliche, possono essere (e sovente effettivamente lo sono) distinte e separate, in quanto, per il diritto amministrativo (come anche per l'economia e l'organizzazione aziendale), l'una non include affatto necessariamente l'altra.
Ad ogni modo, volendo tentare una interpretazione sistematica proficua, v'è da dire che il legislatore forse ha voluto contraddistinguere con maggiore risalto rispetto al passato la potestà decisionale e di spesa rispetto a quella gestionale. Sono queste, espressioni normative, le quali, evidentemente, intendono rimarcare come la "gestione" rilevante ai fini dell'applicazione dei precetti e delle sanzioni sulla sicurezza, sia quella che risulta a forza congiunta con la possibilità di esercitare effettivi poteri decisionali e di spesa.
A questo punto, è d'uopo osservare come la disciplina in materia di procedimenti di spesa nelle amministrazioni pubbliche, che va sotto il nome di contabilità di Stato e degli enti pubblici o, più semplicemente, di contabilità pubblica (o diritto delle gestioni pubbliche), ponga una serie di vincoli stringenti all'autonomia di spesa del dirigente.
Segnatamente, non sussiste una libera potestà di autodeterminarsi nella procedura di spesa pubblica, bensì la necessità di osservare una serie di vincoli giuridici, che limitano e talvolta comprimono, ma soprattutto determinano una scansione temporale (lunga) della decisione di spesa.
Inoltre, molto spesso, nell'alveo della pubblica amministrazione, oltreché distinta dalla autonomia gestionale, la c.d. potestà decisionale e di spesa è condivisa tra una pluralità di soggetti, più o meno gerarchicamente strutturati, e ripete la propria legittimità e praticabilità dalla sussistenza di una pianificazione (strategica) e di una programmazione (operativa) delineata dagli organi di governo di vertice.
Pertanto, un primo problema è appunto quello di identificare, nell'alveo della complessiva organizzazione della pubblica amministrazione, di volta in volta, presa in esame, quale figura soggettiva apicale possa essere ritenuta "datore di lavoro", ai sensi della normativa sulla sicurezza del lavoro.
Molto probabilmente, l'esito di una simile analisi non può far altro che prendere atto che - peraltro, non costituendo affatto la responsabilità per debito di sicurezza (art. 2087 c.c.) una fattispecie oggettiva - per norma di legge, o regolamentare, o per norma interna, esistono potestà decisionali e di spesa, per così dire, a struttura multilivello, per cui ogni attore, che ricopra un ruolo direzionale, non può che fare e rispondere di ciò che rientra nella propria precipua competenza amministrativa (Cass. n. 257/2000: in tema di norme per la prevenzione dagli infortuni, non si può ascrivere al dirigente ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche atteso che, sebbene l'art. 2 lett. b), seconda parte, d.lgs. n. 626 del 1994 individui la nozione di datore di lavoro pubblico nel dirigente al quale spettano i poteri di gestione, l'art. 4 comma 12 d.lgs. cit. ribadisce il principio fondamentale in materia di delega di funzioni secondo cui, attesa la posizione di garanzia assunta dal sindaco e dagli assessori in materia di prevenzione, la delega in favore del dirigente assume valore solo ove gli organi elettivi e politici siano incolpevolmente estranei alle inadempienze del delegato e non siano stati informati, assumendo un atteggiamento di inerzia e di colpevole tolleranza. Nella specie la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito i quali avevano affermato, oltre quella del dirigente che non si era avvalso dei dipendenti comunali per effettuare le opere minimali necessarie, anche la responsabilità penale del sindaco il quale, messo a conoscenza delle violazioni esistenti e delle misure da adottare, non aveva provveduto a richiedere le necessarie variazioni in bilancio per una partita relativa a poche opere provvisionali e neppure azionato i poteri di impegnativa di spese del c. d. fondo di riserva).
In definitiva, la responsabilità sanzionatoria (penale ed amministrativa) conseguente alle violazioni in materia antinfortunistica potranno appuntarsi nei limiti di ciò che, alla stregua dei normativi doveri di servizio, entro i vincoli di contabilità pubblica, è in concreto esigibile dai vari soggetti (pubblici) della sicurezza. Diversamente opinando, si sconfinerebbe nella responsabilità di stampo oggettivo, rimproverandosi la commissione (od omissione) di comportamenti antigiuridici, senza che ne sussista il relativo potere gestionale, decisionale e di spesa (L. Ieva, La responsabilità del datore di lavoro pubblico nel nuovo T.U. n. 81/2008, op. cit., 489).
Come garanzia finale per una legittima e corretta individuazione della figura del "datore di lavoro" nell'ambito pubblico, il legislatore del T.U.S.L. ha ulteriormente imposto la nomina espressa, che dunque va consacrata in apposito atto amministrativo.
L'autonomia gestionale e la potestà decisionale e di spesa non sono, infatti, da sole sufficienti ad enucleare la soggettività giuridica del dipendente pubblico, da considerarsi datore di lavoro, ai fini della normativa sulla sicurezza, dovendosi pure riscontrare la individuazione expressis verbis da parte dell'organo di vertice della P. A., di norma, attraverso apposito atto di macro-organizzazione (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 165/2001), che delinei, in modo chiaro ed univoco, quali siano le categorie di dipendenti dell'amministrazione o dell'ente pubblico considerato chiamate a ricoprire il ruolo di "datore di lavoro" settoriale.
L'omessa previsione espressa ed anche l'individuazione non conforme ai criteri delineati comporta, a mente dello stesso art. 2, comma 1, lett. b), ult. periodo, del d.lgs. n. 81/2008, il radicarsi della responsabilità datoriale direttamente in capo all'organo di vertice, da ricavarsi a seguito di attenta analisi della normativa interna della singola amministrazione od ente pubblico ed alquanto variabile, a seconda della configurazione amministrativa di ciascun soggetto pubblico.
Dunque, potrà darsi il caso che una data P.A. (magari di piccole dimensioni) rinunci ad avvalersi di datori di lavoro settoriali, oppure anche incorra in individuazioni non conformi (magari per carenze organizzative o di potere di spesa).
In tale quadro sistematico, la nomina espressa funge da norma di chiusura del sistema ed è finalizzata - perlomeno tendenzialmente - ad impedire fraintendimenti sulle responsabilità.
Resta però il dato di fondo che la nomina effettuata debba comunque rispondere ai criteri fin qui esaminati, ossia deve essere fatta nei confronti di persona in possesso di: a) qualifica dirigenziale (o di funzionario apicale); b) autonomia gestionale; c) autonomia decisionale e di spesa; d) possibilità organizzativa.
In ipotesi di omessa o di non conforme individuazione, il sistema risulta non perfezionato e quindi, stante l'art. 2, co. 1, lett. b), ult. parte, d.lgs. n. 81/2008, responsabile della sicurezza rimane il solo organo di vertice, ovverosia quel peculiare organo di governo, che è, al tempo stesso, legale rappresentante della persona giuridica pubblica (art. 11 c.c.) e titolare del rapporto di lavoro pubblico.
4. La posizione della giurisprudenza di legittimità.
La Corte di Cassazione in più occasioni ha individuato i punti consolidati del sistema prevenzionistico del lavoro all'interno delle amministrazioni pubbliche.
Punto di partenza è il dettato legislativo (art. 2, comma 1, lett. b), secondo periodo, d.lgs. n. 81/2008) secondo cui nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (T.U. pubblico impiego), per "datore di lavoro" si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa.
Ad avviso della Corte, tale individuazione è "perfettamente coerente con il principio di separazione fra funzioni di indirizzo politico e di gestione negli enti locali, ormai invalso da tempo nel nostro sistema e recepito, oltre che dal già citato d.lgs. n. 165/2001, anche dall'art. 107 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali, approvato con d.lgs. n. 267/2000" (Cass. n. 8119/2017).
L’individuazione del funzionario, con uno specifico provvedimento, quale soggetto cui erano state conferite funzioni specifiche comprensive dell'esercizio di poteri decisionali e di spesa (nei termini esplicitamente previsti dal citato art. 2, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 81/2008) comporta l’assunzione ex lege della qualifica di datore di lavoro.
Per il massimo consesso di legittimità tale atto di individuazione (tra l'altro, normativamente imposto ha, di fatti, come conseguenza il trasferimento al dirigente pubblico di tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, con ciò essendo palese la distinzione dall'atto di delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo. Proprio in tale veste datoriale comporta l’obbligo di compilazione del documento di valutazione dei rischi interferenziali, compito che la legge (art. 26, comma 3, d.lgs. n. 81/2008) assegna al datore di lavoro nel caso di contratti d'appalto, d'opera o di somministrazione.
Altro problema affrontato dalla Corte di Cassazione è quello relativo all'ammissibilità della delega di funzioni nella Pubblica amministrazione.
Secondo una tesi favorevole, il fondamento normativo della possibilità di delega da parte del dirigente pubblico è stato rinvenuto nel Testo Unico del pubblico impiego, d.lgs. n. 165/2001, e in particolare all'art. 17, comma 1 bis, che consente ai dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, di delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lett. b), d) ed e) del comma 1 del medesimo articolo, a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati (P. Fimiani, I criteri di individuazione dei soggetti responsabili nelle organizzazioni complesse e negli organi collegiali, anche all'interno della pubblica amministrazione, in Giur. mer., 2003, 11, 2320).
È pur vero che, come si è detto, il dirigente pubblico è ex lege datore di lavoro e, in quanto tale, deve necessariamente essere titolare degli stessi diritti e doveri del suo corrispondente privatistico, ma, alla luce del principio di legalità che regge l'azione della P.A. (art. 97 Cost.), pare doveroso ricercare nella legge (in questo caso il T.U. pubblico impiego) un'ulteriore conferma della possibilità di spogliarsi di poteri che sono ab origine del dirigente (in giurisprudenza ammette la delega nella P.A. Cass. n. 28410/2012).
Si sostiene, inoltre, che, in aggiunta ai comuni requisiti già previsti per il privato, nel settore pubblico la delega debba assumere la forma di vero e proprio provvedimento amministrativo (A. Tampieri, L'applicabilità del d.lgs. n. 626/1994 alle pubbliche amministrazioni, in L. Galantino (a cura di), La sicurezza del lavoro. Commento ai decreti legislativi 19 settembre 1994, n. 626 e 19 marzo 1996, n. 242, Milano, 1996) e, in quanto tale, dovrà essere motivata, in ossequio all'art. 3, l. 7 agosto 1990, n. 241, con l'indicazione delle particolari ragioni che conducono alla alterazione dell'ordinario riparto dei compiti d'ufficio riguardanti la gestione del sistema di sicurezza sul lavoro.
Secondo opinioni contrarie, invece, la delega nel settore pubblico dovrebbe sì essere prevista espressamente dalla legge, ma essa non potrebbe essere ricondotta all'art. 17, comma 1 bis, citato, perché questa forma di delega sarebbe estremamente circoscritta e temporalmente limitata (D. Venturi, in M. Tiraboschi - L. Fantini (a cura di), Il Testo unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (d. lgs 106/2009), Milano, 2009, 268). La norma richiede, infatti, come si è detto, "specifiche e comprovate ragioni di servizio", impone una durata determinata e limita l'operatività della delega a particolari funzioni: requisiti aggiuntivi e non richiesti dalla delega di disciplina comune di cui all'art. 16, d.lgs. n. 81/2008.
Altri escludono del tutto l'applicabilità dell'istituto, secondo la ragione per cui nella P.A. le ripartizioni di competenze sarebbero rigide e non alterabili, in quanto stabilite dalla legge, dallo statuto o dal regolamento (G. Di Pietro, Il problema della individuazione del soggetto responsabile alla adozione delle misure antinfortunistiche negli enti locali, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2006, 10, 1315).
Per concludere, la tesi favorevole pare condivisibile. Al di là dei citati richiami al Testo unico sul pubblico impiego (che, invero, appaiono un po' forzati), il fondamento normativo pare più correttamente doversi individuare nel principio di parità di tutela in ogni settore (a mente dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 81/2008 "Il presente decreto legislativo si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio").
Inoltre, la non ammissibilità della delega nel settore pubblico creerebbe pericolose disparità: il dirigente nominato "datore di lavoro" dagli organi di governo non potrebbe trasferire a terzi gli obblighi a lui spettanti, con la conseguenza - si pensi alle realtà complesse - di dover gestire in prima persona la sicurezza relativa a enormi settori dell'Amministrazione (M. Pericolo, La figura di datore di lavoro pubblico ai fini della sicurezza sul lavoro, in DPP, 2018, 82).
5. Infortuni sul lavoro e responsabilità del Sindaco.
Per come prima riferito, a norma del d.lgs. n. 81/2008 per datore di lavoro si intende il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo.
L'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico. Nelle pubbliche amministrazioni, in altre parole, l'attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli organi di direzione politica che devono procedere all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica. La conseguenza della mancata indicazione è la conservazione in capo all'organo di direzione politica della qualità di datore di lavoro.
Con l'atto di individuazione, emanato ai sensi dell'art. 2, comma primo, lett. b) d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, vengono trasferite al dirigente pubblico tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, il che rende non assimilabile detto atto alla delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo (Cass. n. 22415/2015). Ciò in quanto, con il suddetto atto d'individuazione, il soggetto depositario di poteri gestionali e di spesa assume ex lege la qualifica datoriale.
Agli organi di direzione politica del Comune (Sindaco e Giunta Comunale) sono attribuiti in via originaria anche i poteri di sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa, con il conferimento di tutti i poteri conseguenti.
In tema di norme per la prevenzione degli infortuni, la normativa vigente esclude, in altre parole, che si possa ascrivere al sindaco, anche se di un Comune di modeste dimensioni, quale organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando risulti individuato il dirigente con qualifica di datore di lavoro.
Tra le regole inerenti ai compiti datoriali non delegabili, invece, rientra l'obbligo di stilare il documento di valutazione dei rischi a norma del d.lgs. n. 81/2008, la cui inadeguata elaborazione costituisce, appunto, il presupposto sul quale si è fondata l'affermazione di responsabilità del Sindaco.
È pacifico in giurisprudenza che i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, residuando in capo al Sindaco unicamente poteri di sorveglianza e controllo collegati ai compiti di programmazione che gli appartengono quale capo dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo (Cass. n. 22341/2011, relativa a fattispecie nella quale un dirigente comunale era stato ritenuto datore di lavoro del reparto cantonieri di un Comune, essendo stato designato quale responsabile del settore lavori pubblici da un decreto sindacale che non aveva contestato, e rispetto al quale non aveva mai opposto difficoltà o carenze di natura economico-finanziaria, la cui risoluzione sarebbe spettata agli organi politici).
Ciò appare, del resto, perfettamente coerente con il principio di separazione fra funzioni di indirizzo politico e di gestione negli enti locali, ormai invalso da tempo nel nostro sistema e recepito, oltre che dal già citato d.lgs. n. 165/2001, anche dall'art. 107 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali, approvato con d.lgs. n. 267/2000. In tale sistema di separazione fra le due distinte forme di responsabilità - politica e gestionale - non può farsi questione circa la sussistenza o meno, in capo al dirigente o al funzionario comunale titolare di poteri di gestione e d'impegno di spesa, di una delega di funzioni sul modello e per le finalità di cui all'art. 16, d.lgs. n. 81/2008.
Siffatta delega ha rilievo laddove il soggetto destinatario di compiti e funzioni propri del datore di lavoro sia, per ciò stesso, soggetto distinto dal datore di lavoro medesimo: ciò che accade nelle ordinarie realtà aziendali e nell'ambito dei modelli organizzativi di natura privatistica. Diversa, tuttavia, è la situazione che si configura nel caso in cui il Sindaco abbia totalmente omesso di individuare il soggetto responsabile cui attribuire la qualifica datoriale. Ed infatti, la Cassazione ha ritenuto configurabile nel caso in esame la violazione del combinato disposto degli artt. 17, 18 e 43, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, osservando come la definizione di datore di lavoro contenuta nell'art. 2, lett. b), del T.U.S., quanto alla P.A. recepisce lo stabile indirizzo giurisprudenziale secondo cui è l'organo di vertice della singole amministrazioni, ossia quello che ne ha la direzione politica, a dover individuare il dirigente o il funzionario non dirigente cui attribuire la qualità di datore di lavoro.
Le conseguenze derivanti dall'omessa individuazione da parte dell'organo politico del dirigente designato ad assumere il debito di sicurezza, sono evidenti: afferma la Corte di Cassazione che in tali casi la qualifica di datore di lavoro continuerà a coincidere con l'organo di vertice, quindi con il Sindaco (Cass. n. 35137/2007).
Sotto altro aspetto, se è indubbio che la Corte di Cassazione ha precisato che gli organi di vertice dell'amministrazione comunale (Sindaco e Giunta Comunale) possono individuare i dirigenti ai quali attribuire la qualifica di datore di lavoro, tuttavia l'omessa redazione di un adeguato e completo documento di valutazione dei rischi, non è delegabile conservandosi in capo all'organo di direzione politica la posizione di garanzia (Cass. n. 22415/2015).
La giurisprudenza di legittimità, invero, ha chiarito che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto (Cass. n. 22079/2019). L'art. 299 del d.lgs. n. 81/2008 vale invero ad elevare a garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, mentre non può essere invocato in funzione restrittiva degli obblighi che la normativa prevenzionistica assegna ai soggetti regolarmente investiti di tali poteri. Il principio di effettività di cui al citato art. 299 (che così recita: «Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all'art. 2, comma 1, lett. b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti») è stato dettato dal legislatore in chiave ampliativa del novero dei soggetti gravati dalla posizione di garanzia, come reso evidente dalla presenza dell'avverbio "altresì" in funzione qualificativa del verbo "gravare"; si tratta, insomma, di una ipotesi alternativa di tipicità della fattispecie incriminatrice, che certamente non vale ad escludere da responsabilità il soggetto titolare dei relativi obblighi prevenzionistici (Cass. n. 20127/2022).
La giurisprudenza di legittimità è costante nell'interpretare l'art. 299, d.lgs. n. 81/2008 nel senso che l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale (Cass. n. 18090/2017).
Secondo il diritto vivente, pertanto, la disposizione in esame concretizzerebbe, dal punto di vista normativo, il principio di effettività (Cass. n. 22606/2017; Cass. n. 18200/2016).
Diritto d’amore e responsabilità civile esprime un’endiadi che già solo al primo sguardo sembra contenere una serie di relazioni e contraddizioni.
Scomponendo l’endiadi, la locuzione Diritto d’amore perviene, come è noto, da un celebre saggio di Rodotà su Politica del diritto[1], esito di un intervento tenuto al Festival della filosofia di Modena e dopo confluito nel lavoro monografico che ne rielabora i concetti in maniera più approfondita. In quella sede, l’A. esordisce con un interrogativo che costituisce il filo che conduce a tutte le digressioni successive, ovvero quello della compatibilità fra diritto e amore, due profili dell’esistenza umana così distanti per fondamenti epistemologici, funzioni ed esiti d’esperienza: esprimendo, si potrebbe dire in una scontata contraddizione, l’apollineo (il primo) e il dionisiaco (il secondo), l’ordine e il caos, la categorizzazione e la sorpresa, Creonte (e l’obbedienza alle leggi dell’ordine normativo) e Antigone (e la supremazia delle leggi dell’amore).
Sulla base di questa prima relazione conflittuale, l’A. passa a indagare un secondo aspetto, si può dire fondativo delle riflessioni contemporanee sul diritto, ovvero, per dirla con parole di chi scrive, se sia possibile una contro-narrazione rispetto all’idea (di foucaultiana memoria[2]) che il diritto sia un dispositivo che ha la precipua funzione di controllo sociale e di dominio sui corpi, e, di qui, che sia uno strumento che concorre a neutralizzare l’amore - e anche quelle che l’A. chiama le eccedenze dell’amore, che pure sfuggono al diritto.
In quelle pagine, fra le altre, l’A. ci ha proposto una straordinaria rilettura della scienza giuridica, come esperienza che porta con sé, coesistendo con l’opposta tensione razionalizzante e sistematizzante dell’esistenza umana, anche un seme generativo e trasformativo - quando esso dà rilevanza a interessi fondativi, riconducibili a soggettività socialmente riconosciute e su di esse costruendo diritti e formalizzando tutele.
Ma Diritto d’amore e responsabilità civile non può esimersi dal confronto con l’altra misura dell’endiadi, rimandando all’altrettanto celebre lavoro del prof. Patti sulla responsabilità civile nelle relazioni familiari[3], risalente ancor di più nel tempo, dove lo stesso A., con un accostamento apparentemente provocatorio, elabora il pensiero, altrettanto rivoluzionario, che la configurabilità dello strumento risarcitorio nel mondo dell’amore non sono non sia incompatibile con quello (in presenza dei requisiti che l’istituto richiede), ma sia anche, in certo modo, doverosa, stante la natura degli interessi coinvolti: ciò pur a fronte delle interminabili digressioni argomentative di dottrina e giurisprudenza, in particolare, sul danno non patrimoniale, sulle allegazioni necessarie e sulle poliedriche funzioni della responsabilità civile, che in questo ambito si rendono evidenti e talvolta sono anche consapevolmente assunte (es. art. 709 ter c.p.c.).
Incontestati gli approdi di quel pensiero (e lasciando da parte gli strascichi relativi alla riconducibilità a questo o a quel regime), resta la consapevolezza che, discorrendo di rimedio risarcitorio, siamo in un ambito argomentativo ben diverso dal tema rodotiano: l’art. 2043 c.c. non è lo strumento per affermare il rilievo degli interessi, tutt’altro. Esso si colloca nella dimensione della tutela, e in quanto tale successivo e secondario.
E questa affermazione non potrebbe apparire palesemente inutile nella sua banalità, se non fosse che siamo tutte e tutti consapevoli della deriva presa, suo malgrado, dalla scienza giuridica, la quale assume risonanza e riconoscibilità sociale quasi esclusivamente nella dimensione patologica.
Data quest’ultima constatazione e facendo una sorta di ipotetica sintesi fra diritto d’amore e responsabilità civile, come lettura che superi l’esperienza foucaultiana del diritto come mero strumento di controllo sulla libertà, sull’amore, sul corpo e sulla felicità degli uomini e delle donne, appare profondamente fallace appiattire il diritto nella dimensione patologica: non solo perché ciò significa allocare la responsabilità della costruzione della dimensione simbolica del diritto al solo ambito giurisdizionale, abdicando l’imprescindibile funzione politica della costruzione dell’ordine normativo e la funzione etica della dottrina; ma anche, e forse soprattutto, perché il diritto, nella costruzione dell’argomentazione, ha una profonda capacità generativa dell’ordine sociale di riferimento; da quello è permeato e quello stesso ordine sociale il diritto influenza in una mutualità di senso che è vivifica.
Tutto ciò pur senza tralasciare l’implicita capacità contenitiva (c.d. holding)[4], di matrice psicologica e psicoanalitica, che è propria del diritto - razionalizzante e categorizzante delle pulsioni più emotive, negative o di ostilità o stereotipia -, va nondimeno rivendicata la sua dimensione precedente alla fase patologica, riscoprendo il valore culturale, trasformativo, parte dell’esperienza umana. Proiettando l’argomento sul piano della responsabilità collettiva, al giurista è dato il compito di un utilizzo intelligente del diritto, a favore del vivente e non solo delle disposizioni vigenti, secondo le logiche assiologiche e personalistiche che la Costituzione ci chiama a onorare.
Fatte queste brevi premesse, che chiariscono l’adesione genuina e convinta della compatibilità fra diritto e amore e fra diritto d’amore e rimedio risarcitorio, è utile interrogarsi ora su dove si collochino gli orizzonti più inusitati della convergenza fra amore e responsabilità civile e, forse - anzi sicuramente prima - dove si spingerà la rilevanza degli interessi che Rodotà asseriva giustamente essere il prius logico per dare consistenza giuridica soggettività socialmente riconosciute.
E sembra potersi affermare con una certa dose di sicurezza che lo spazio di senso che appare di maggiore interesse è quello della genitorialità e delle genitorialità. Perché mentre l’ambito delle relazioni familiari adulte è ormai schiacciato su una certa retorica dell’autonomia privata (v. accordi prematrimoniali o a latere, contratti di convivenza, clausole di inefficacia dei doveri, cumulo di domande separazione e divorzio), quello dei minori si rappresenta multiforme: per un verso, ancora ancorato a uno spazio di inderogabilità, a principi di interesse superiore, di matrice pubblicistica; per altro verso, obbligato a confrontarsi con una dimensione tutta autodeterminativa dell’esperienza genitoriale.
Mi spiego, utilizzando proprio Rodotà.
Ragionare in punto di genitorialità, di genitorialità sociale e di omogenitorialità, seguendo la strada segnata, significa partire dall’idea che il diritto, se vuole avvicinarsi all’amore, deve, in primo luogo, abbandonare i suoi pregiudizi e farsi “discorso aperto”, senza che ciò significhi una perdita in termini di tecnicità. Come a dire che, se “l’amore ha le sue regole”, tanto irrazionali, quanto eterogene e variabili, allora il diritto non può pensare di impadronirsene e di soggiogarle in fattispecie impermeabili, ma deve offrire soluzioni a istanze affettive, trasformando tecnicamente sé stesso all’interno di una cornice di senso che, pur mantenendo l’assetto valoriale di riferimento, sappia “cogliere e accettare contingenza, variabilità e persino irrazionalità”.
Quanto premesso pare essere fondamentale quando si ragiona di genitorialità e di omogenitorialità: il diritto, e vieppiù l’interprete, nella riflessione sulla categoria di riferimento, nella costruzione della norma come nel percorso argomentativo del caso concreto, non possono esimersi dalla considerazione e dalla valutazione dell’esperienza soggettiva. Se ciò è vero all’interno della tradizionale e confortevole categoria della genitorialità biologica, non può non valere pure nel contesto della genitorialità sociale che comprende una composita fenomenologia: famiglie adottive e affidatarie, create con tecniche procreative, allargate-ricomposte, monoparentali, persino quelle straniere dove, banalmente, i concetti di parentela e affinità possono esondare/divergere dai confini che la norma occidentale prevede.
Questa premessa consente di fare alcune ulteriori riflessioni: è evidente, ormai, che, a fronte di un modello codicistico di filiazione sostanzialmente unitario, archetipico, fondato sul paradigma dominante e tradizionalmente ordinatore della genitorialità biologica (composta di eterosessualità nella procreazione, duplicità delle figure genitoriali, derivazione genetica, gestazione e parto) si contrappongono e si affiancano modelli genitoriali che si costituiscono e vivono nelle forme più diverse, si fondano su differenti presupposti e che prescindono da riconoscimenti e divieti esistenti.
Questo non solo perché “l’amore ha le sue regole”, sempre parafrasando Pascal, contingenti, eterogenee e variabili; ma anche perché queste esperienze affettive si basano su un presupposto tanto semplice, quanto irrazionale: la genitorialità, prima ancora del discorso giuridico, ha radici profonde, saldamente fissate in un terreno antico; essa è legata agli aspetti più primordiali della corporeità, rappresentandosi come un desiderio atavico, una pulsione irrazionale di perpetuazione della vita e, in un senso di onnipotenza, della creazione di un altro da sé, di una ri-nascita, e non necessariamente sempre in un senso biologista[5].
Se questo è vero, anzi costituisce un pre-dato del discorso giuridico, elemento implicito, indiscusso, anche socialmente accondisceso nella dimensione della genitorialità “naturale”, non può stupire che altrettanto sia nelle dinamiche ricorrenti nella genitorialità sociale.
È certamente vero che l’avvento dei progressi scientifici e culturali ha mutato radicalmente il paesaggio, per un verso, rendendo la genitorialità uno degli ambiti dell’autodeterminazione personale e delle disposizioni del corpo, luogo e oggetto di una delle scelte realizzabili nel mondo della possibilità procreativa; per altro verso, la stessa maternità appare sciolta dal legame intenso con la femminilità e con una certa dimensione naturalistica dell’esperienza, per assumere una forte dimensione progettuale. Questa dimensione nuova della corporeità e della genitorialità, in luogo di una maternità per alcuni aspetti dismessa, diviene un fatto autodeterminativo, sociale e psichico. Il corpo (e con esso gli aspetti più tradizionali della corporeità - quali la gestazione, l’allattamento, il parto naturale) da “luogo” anche metafisico in cui si realizza la procreazione, diviene strumento per realizzare la scelta, in una inusitata relazione fra il soggetto e la sua stessa corporeità.
Acquisito questo fatto, non può sconcertare che la pulsione narcisistica del paradigma procreativo sia assunta, se non con forza maggiore, quanto meno in misura analoga nella genitorialità sociale, soprattutto se connessa alle tecniche assistite, dove il dominio sul proprio appare implicito, sconfinando, talvolta con esiti incerti, nel terreno di una procreazione davvero artificiale, nell’utilizzo del proprio corpo e degli strumenti della tecnica e della scienza per realizzare, anche “forzando la natura”, la scelta, l’ultimo e quasi estremo desiderio di procreazione.
Non si tratta di un discorso fattualista, che meramente accondiscende la dimensione esperienziale a discapito della costruzione normativa e dei valori, e men che meno con una propensione valutativa; ma piuttosto di un elemento che non può non tenersi in considerazione, a più livelli, e anche nel senso delle conclusioni a cui si vuole approdare: perché se tutto ciò è vero, e la struttura fondativa dell’esperienza genitoriale è divenuta un percorso estremamente ricercato, voluto, consapevole e non privo di ostacoli (naturali e giuridici), di sofferenze (fisiche ed emotive) e di costi (precedenti e successivi alle nascita) e di rischi, come è possibile non immaginare di oltrepassare i tradizionali confini risarcitori della responsabilità endofamiliare per violazione dei doveri parentali, che tendenzialmente si attestano alle fattispecie di abbandono del genitore, delle costituzioni tardive del legame genitoriale e delle contestazioni tardive del legame ma con la consapevolezza della difformità fra dato biologico e status, fino alle più tradizionali condotte ostacolanti dei doveri genitoriali e denigranti dell’altro genitore.
Ebbene, sul piano interno, si possono sicuramente intravedere almeno tre profili rilevanti in tema di genitorialità sociali, che ancora non trovano una compiuta definizione e che, in stretta correlazione con questo, lasciano purtroppo ancora spazio, in termini abusivi, all’esercizio di diritti, determinando nondimeno la violazione dei principi della responsabilità nella procreazione, dell’autoresponsabilità (nel senso pugliattiano del termine), della solidarietà e…del diritto d’amore dei nati e delle nate dalle tecniche procreative:
Ponendo lo sguardo oltre la dimensione della sola genitorialità, osservando quella delle relazioni in un senso più ampio, su più piani è feconda la prospettiva dell’art. 8 Cedu: nella necessità che la tutela nazionale sia celere e effettiva, anche nella dimensione risarcitoria (Kuppinger c. Germania); che gli accertamenti sulla genitorialità siano rapidi e efficaci (Mikulić c. Croazia); che le regole consentano concretamente di accertare la paternità presunta (Bocu c. Romania), e la genitorialità di intenzione (Mennesson c. Francia; Labassee c. Francia). Perché, richiamando sempre la corte Edu, la vita familiare è intesa sì come reciproco godimento della relazione genitori/figli (Monory c. Romania e Ungheria; K.-T. c. Finlandia), ma anche come vita potenziale e non solo già vissuta (Nylund c. Finlandia); come nella dimensione dei legami fattuali con gli affidatari (Moretti e Benedetti c. Italia; Jolie et a. c. Belgio), con gli ascendenti (Marckx c. Belgio; Bronda c. Italia) e con gli zii e (Butt c. Norvegia).
L’orizzonte delle prospettive risarcitorie - anche oltre la dimensione prettamente genitoriale - è decisamente ampio, ma, prima ancora, ciò che appare limpido è il delinearsi della fase performativa dell’argomentazione, quella della rilevanza degli interessi minorili e delle soggettività socialmente riconosciute e che il diritto d’amore è chiamato comprendere, nei più sensi del verbo.
Resta indiscussa l’idea che diritto e amore siano compatibili e che questa compatibilità sia imprescindibile. Ma, sempre parafrasando Pascal, se è vero che l’amore ha le sue leggi, anche il diritto ha le sue leggi. E la via della saggezza feconda ci chiede di essere al contempo Antigone (che osserva le leggi dell’amore) e Creonte (che obbedisce a quelle del diritto): bisogna essere al contempo Antigone e Creonte, per non essere integralmente né Antigone né Creonte.
(Lo scritto rielabora la relazione tenuta dall'autrice al XX Congresso nazionale dell'Associazione Cammino, “Diritto d’amore per i vent’anni di Cammino, costruendo percorsi per la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili”, che si è tenuto a Roma nei giorni 25-25-27 gennaio 2024. Si tratta della prima di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno.)
[1] S. Rodotà, Diritto d’amore, in Pol. Dir., 2014, p. 335; poi Id., Diritto d’amore, ed. Laterza, 2014.
[2] V. proprio S. Rodotà, Foucault e le nuove forme del potere, ed. L’Espresso, 2011.
[3] S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Giuffrè, 1984, passim.
[4] J. Abram, Il linguaggio di Winnicott, Franco Angeli, 2013, che rielabora il concetto di Winnicott.
[5] Si consenta il rinvio ad A. Cordiano, Dalle tecniche procreative all’utero artificiale: una storia di limiti e di desiderio, in Nuovi paradigmi della filiazione, a cura di V. Barba, E.W. Di Mauro, B. Concas, V. Ravagnani, Sapienza-University Press, 2023, p. 445.
Immagine: Giuseppe Diotti, Antigone condannata a morte da Creonte, olio su tela, 1845, Accademia Carrara, Bergamo.
Sommario: 1. Perché questa domanda? - 2. La normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro. - 3. Il tavolo di lavoro del 2019 sull’edilizia giudiziaria. - 4. L’individuazione del datore di lavoro. - 5. Gli uffici giudiziari sono articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia?
1. Perché questa domanda?
L’interrogativo su chi debba essere individuato come datore di lavoro negli uffici giudiziari può apparire inutile o superfluo: abbiamo avuto ben due decreti ministeriali, in tempi diversi che danno una risposta univoca: “sono datori di lavoro:…..g) per gli uffici giudiziari, i rispettivi capi, e , in particolare, per gli uffici del giudice di pace, il giudice di pace coordinatore, per i commissariati agli usi civici, i commissari, e per la direzione nazionale antimafia, il procuratore nazionale antimafia”. Dizione contenuta nel D.M 18 novembre 1996 e parimenti ripetuta nel D.M. 12 febbraio 2002.
I dubbi nascono sia sotto il profilo normativo, sia sotto il profilo sostanziale relativo ai poteri decisionali e di spesa di cui deve disporre il soggetto individuato come datore di lavoro.
A livello normativo va tenuto conto che entrambi i decreti ministeriali sono antecedenti alla normativa che ha cambiato, ed in alcuni casi rivoluzionato, sia la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro (D. lgs. 9 aprile 2008 n.81), sia i ruoli di direzione dell’ufficio giudiziario (D.lgs. 25 luglio 2006 n.240), sia ancora le competenze di Ministero e uffici giudiziari (Commi 526 e seguenti della L. 23 dicembre 2014 n.190).
In particolare questa individuazione nasceva in applicazione di una normativa (il D. lgs.19 settembre 1994 n.626 relativo a salute e sicurezza dei luoghi di lavoro) superata ed assorbita dal D. lgs. n.81/2008 che imponeva all’art.30 l’individuazione da parte del vertice dell’Amministrazione pubblica dei soggetti identificati come datori di lavoro. Ciò risulta evidente anche dal titolo del Decreto Ministeriale del 12 febbraio 2002 “Individuazione del datore di lavoro e vigilanza in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.” Norma chiaramente abrogata grazie all’entrata in vigore del D. lgs. n.81/2008.
La stessa poca giurisprudenza esistente aumenta le perplessità ed i dubbi. È recente il decreto di archiviazione 7 luglio 2023 nei confronti del Presidente del Tribunale di Milano da parte del G.I.P. presso il Tribunale di Brescia che, per l’incendio sviluppatosi tra il 27 ed il 28 marzo 2020 al settimo piano del palazzo di giustizia di Milano, ha ritenuto che l’attività svolta dai vertici degli uffici milanesi nei confronti del Ministero della Giustizia di segnalazione e richiesta di interventi fosse stata puntualmente effettuata e fosse sufficiente per escludere una sua responsabilità.
Significative sono alcune frasi. “Per quanto riguarda i doveri, in materia di sicurezza, gravanti sui vertici degli Uffici Giudiziari, a prescindere dalla questione relativa all’attribuibilità della qualifica del “datore di lavoro” – apparentemente risolta in senso positivo dall’art. 1 co. 1 lett.G del decreto del Ministero della Giustizia del 12 febbraio 2002 – può certamente ritenersi che costoro siano soggetti alle disposizioni di cui all’art. 18 co III d.lgs. 81/2008, secondo cui obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione, necessari per assicurare la sicurezza dei locali e degli edifici (che restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione), si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico.”
2. La normativa in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Conviene allora verificare a livello normativo chi viene individuato come datore di lavoro. All’art.2 lettera b) del D. Leg. n. 81/2008, che si occupa delle definizioni, viene testualmente scritto:
b) «datore di lavoro»: il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo;
Una prima considerazione formale riguarda l’assenza di un’espressa indicazione successiva al Decreto legislativo n.81/2008 dei soggetti individuabili come datori di lavoro negli uffici giudiziari, anche se al riguardo si potrebbe forse far riferimento ai precedenti Decreti Ministeriali già emessi in materia o ancora al Decreto 18 novembre 2014 n.201 (Regolamento recante norme per l’applicazione, nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, delle disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro) che pur senza alcuna espressa individuazione, fa riferimento al Decreto ministeriale 12 febbraio 2002.
Ma l’elemento sostanziale è determinante, ovvero che nessuno dei dirigenti degli uffici giudiziari ha alcuna autonomia decisionale e di spesa sui terreni relativi all’edilizia giudiziaria e ai luoghi di lavoro.
A ben vedere l’unico cenno al riguardo si ha all’art.3 del D. Leg.25 luglio 2006 n.240 che prevede che l’amministrazione centrale assegni al dirigente amministrativo preposto all’ufficio giudiziario le risorse finanziarie e strumentali per l’espletamento del suo mandato. Risorse che paiono riguardare la gestione ordinaria e non i ben più incisivi interventi necessari in tema di edilizia giudiziaria, per i quali vi è un canale del tutto diverso che deve passare attraverso la Conferenza Permanente. E va anche aggiunto, risorse che oggi vengono stanziate, in misura contenuta, in favore dell’ufficio giudiziario e non al dirigente.
In realtà il punto di discrimine che ha fatto esplodere il problema relativo all’individuazione del datore di lavoro è stato il trasferimento dai Comuni al Ministero della Giustizia di tutte le funzioni in materia di gestione delle risorse materiali, dei beni e servizi per l’amministrazione degli uffici giudiziari, dei loro acquisti, anche in relazione ai beni immobili adibiti ad uffici giudiziari e alle dotazioni serventi (commi 527 e seguenti della L. 23 dicembre 2014 n.190). Difatti tutte queste attività venivano svolte in precedenza sulla base di accordi e direttive da parte degli uffici giudiziari con il Comune di riferimento, ma con grande autonomia da parte dell’ente locale e con strutture tecniche dedicate. Il passaggio, per giunta in modo improvviso e senza preparazione alcuna, di queste complesse attività e delle conseguenti responsabilità al Ministero nella sua struttura centrale, ha semplicemente voluto dire, in assenza di strutture decentrate del Ministero - Dipartimento Organizzazione Giudiziaria, di riversarle sugli uffici giudiziari e sui relativi dirigenti.
Dirigenti, magistrati e (nei limitati uffici in cui sono presenti) amministrativi, che non solo non avevano alcuna struttura tecnica su cui appoggiarsi, ma che per ogni intervento di minima rilevanza erano comunque costretti a rivolgersi al Ministero non avendo alcuna autonomia di spesa (salvo che per la piccola manutenzione).
La precarietà della situazione risulta implicita nel DPCM 15 giugno 2015 n.84 che all’art. 16 prevede che entro 180 giorni venga stabilita l’entrata in funzione degli uffici dirigenziali generali di cui al D. Lgs. n.240/2006 (ovvero l’originario decentramento amministrativo, ora ristretto a tre direzioni) e che nel frattempo “le funzioni attribuite alle direzioni generali possono essere delegate anche in parte agli uffici giudiziari distrettuali”. Uffici dirigenziali generali che comunque non vedevano mai la luce.
Situazione, quella della delega implicita agli uffici giudiziari distrettuali, che quindi da provvisoria e momentanea diventava cronica, perdurando per anni, anche dopo che questa disposizione veniva abrogata nel 2020.
Si pensava altresì di tamponare il nuovo quadro che si era determinato con la creazione della Conferenza permanente in ogni circondario composta dai capi degli uffici giudiziari, dai dirigenti amministrativi e dal Presidente del locale consiglio dell'ordine degli avvocati, - organo comunque chiamato non a decidere, ma ad individuare i fabbisogni necessari per il funzionamento, a segnalare le esigenze e a richiedere gli interventi necessari.
Le Conferenze permanenti potevano quindi essere solo uno strumento consultivo, di propulsione e di raccolta e trasmissione delle esigenze, non certo decisionale[1].
La cronicità della situazione che comportava un forte aumento di responsabilità verso operatori e utenti, senza avere né capacità di spesa, né autonomia decisionale in questo settore, faceva sempre più esplodere il problema con richieste di intervento da parte dei dirigenti degli uffici sia al Ministero che al C.S.M.
3. Il tavolo di lavoro del 2019 sull’edilizia giudiziaria.
D’altro canto anche il Ministero della Giustizia non si trovava ad affrontare una situazione facile. Con l’art.5 comma 3 lett. b) del DPCM 15 giugno 2015 n.84 venivano attribuite alla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologia, incardinata nel Dipartimento Organizzazione Giudiziaria, le competenze connesse alle spese di funzionamento degli uffici giudiziari secondo le previsioni normative vigenti tempo per tempo, nonché quelle relative alla predisposizione e attuazione dei programmi per l’acquisto, la costruzione, la permuta, la vendita, la ristrutturazione dei beni immobili, in tal modo concentrando presso una sola struttura la gestione delle risorse materiali, dei beni e dei servizi dell’amministrazione giudiziaria, in precedenza esercitata da diversi uffici dell’amministrazione centrale unificando quanto prima era suddiviso. Tale Regolamento prevedeva anche la competenza delle Direzioni Generali decentrate, poi mai costituite. In tal modo tutte le competenze in materia di spese obbligatorie relative agli uffici giudiziari, in precedenza attribuite ai Comuni, venivano riversate direttamente sulla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie del Ministero della Giustizia che pacificamente non aveva né uomini, né strutture per reggerle.
Alcuni dati fanno capire le dimensioni epocali dell’impatto che il passaggio di competenze comportava e l’impossibilità da parte del Ministero di farvi fronte: 971 immobili da gestire, 6000 contratti nei quali subentrava il Ministero, una media di 244 milioni di euro nel triennio per quanto concerne le spese di funzionamento.[2]
La situazione era ulteriormente complicata dal fatto che il trasferimento delle spese di funzionamento degli uffici giudiziari al Ministero della Giustizia determinava il passaggio della gestione di tali immobili nell’ambito della complessa disciplina generale del Sistema Accentrato delle Manutenzioni previsto dall’art. 12 del D.L. n. 98/2001 che assegna all’Agenzia del Demanio la competenza in ordine alle decisioni di spesa riguardanti gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli immobili demaniali e comunali, nonchè in quelli in locazione passiva, destinati ad uffici giudiziari. L’Agenzia del demanio veniva così ad assumere, sulla base dell’attività di validazione ed assegnazione delle priorità tecniche da parte dei competenti Provveditorati per le Opere pubbliche e dei limiti di fondi disponibili, le decisioni di spesa per la manutenzione ordinaria e straordinaria, sia pure con la possibilità di specifiche deroghe codificate.[3]
Situazione complicata sia per la ripartizione di competenze, sia per la difficoltà di rapportarsi con l’Agenzia del Demanio ed i Provveditorati per le Opere pubbliche, istituzioni anch’esse oberate e carenti di personale e spesso problematiche anche solo per arrivare ad un contatto, con tempi tutt’altro che certi per la stessa gestione della programmazione e affidamento dei lavori.
Tale situazione indubbiamente critica portava il Ministero della Giustizia – Dipartimento Organizzazione giudiziaria a costituire con provvedimento del 24 aprile 2019 il Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria al quale partecipavano gli organi apicali di diverse Corti di Appello e Procure generali unitamente ad alcuni dirigenti amministrativi e rappresentanti dell’Avvocatura. Il Tavolo, a differenza di quanto spesso accade, si dimostrava di rara rapidità ed efficienza e pur con poche riunioni (cinque) giungeva a produrre proposte e decisioni, poi riassunte nella Relazione conclusiva del Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria dell’8 ottobre 2019 a firma del Capo Dipartimento. Da un lato venivano indicati gli interventi di breve periodo con il reclutamento di nuovo personale tecnico, di cui veniva stabilita una dotazione organica di 200 unità (63 funzionari tecnici e 137 assistenti tecnici), ripartiti a livello territoriale ed inquadrati presso gli uffici distrettuali, di cui partivano le procedure per l’assunzione, realizzata in tempi estremamente celeri. Dall’altro venivano proposti interventi a regime con la creazione di strutture periferiche di livello dirigenziale non generale funzionalmente dipendenti dalla Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie e dotata di sufficienti unità dei profili tecnici, amministrativi e contabili cui veniva affidata la gestione di tutte le attività di edilizia giudiziaria e connesse, comprendendo tutte le materie trasmesse dai Comuni al Ministero. In tal modo rimane in capo agli uffici giudiziari unicamente la gestione della spesa relativa alle spese ordinarie e di mero funzionamento dell’Ufficio.[4]
Il Tavolo tecnico si concludeva, nel tempo record di sei mesi, individuando altresì una serie di nodi ulteriori da sciogliere da affrontare successivamente. Tavolo che anche a causa del Covid e del passaggio di legislatura veniva ripreso con tempi ed efficacia molto più blanda solo nel 2022.
Una delle questioni pacificamente irrisolte era proprio quella relativa a chi dovesse essere individuato come datore di lavoro.
In ogni caso le direzioni territoriali non generali venivano istituite con il Decreto Ministeriale 14 aprile 2022 che individuava la loro localizzazione in sette uffici periferici, siti in Torino, Venezia, Roma, Napoli, Palermo, Firenze, Milano, con competenza interregionale. Gli organici delle stesse (complessivamente 333 unità) venivano determinati con Decreti Ministeriali del 31 maggio 2023. Allo stato risulta in atto la procedura di reclutamento, ma le direzioni non risultano ancora costituite.
La creazione di queste direzioni avrà comunque un impatto sull’individuazione del datore di lavoro proprio per le competenze in materia di edilizia e lato sensu sicurezza che ricadranno su di loro.
4. L’individuazione del datore di lavoro.
Al di là della determinazione formale operata dal Ministero occorre quindi rifarsi ai requisiti che il D.Lgs. n.81/2008, ma anche i precedenti decreti in materia, individuavano per verificare chi fosse il datore di lavoro: colui che è responsabile dell’organizzazione dell’ufficio in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.
Ed è indubbio che i poteri decisionali e di spesa in materia di edilizia giudiziaria e di gestione degli uffici giudiziari spettino e ricadano sul Ministero della Giustizia e sulle sue articolazioni, ovvero oggi solo la Direzione generale delle risorse materiali e delle tecnologie e domani anche le direzioni decentrate, ovviamente nei limiti delle competenze e risorse che loro verranno attribuite. Direzioni decentrate che superano anche le inevitabili perplessità derivanti dalla evidente lontananza del Ministero dei vari luoghi ed ambienti di lavoro in cui si articolano gli uffici giudiziari. [5]
I magistrati dirigenti degli uffici ed i dirigenti amministrativi hanno ovviamente un ruolo assimilabile a quello di dirigente[6] o preposto[7], con i relativi obblighi che comunque sono ben delineati dall’art. 18 comma 3.
“Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico.”
Il principio generale è che al potere di gestione e di spesa corrispondono simmetriche responsabilità: è l’effettiva ripartizione dei poteri all’interno della struttura a conformare la posizione del garante – datore di lavoro. Per cui il magistrato dirigente ed il dirigente amministrativo di un ufficio giudiziario avranno obblighi e responsabilità solo per quel limitato campo, anche relativo a sicurezza e igiene del lavoro, su cui hanno potere di intervento diretto (ad esempio l’ergonomia delle postazioni, gli estintori e le vie di uscita), mentre per il resto hanno un obbligo di segnalazione e di richiesta di intervento. L’ipotesi da qualcuno avanzata di far ricadere tutti gli obblighi sul dirigente amministrativo, dando una valenza molto ampia al citato art. 3 D. Lgs. n.240/2006, pare francamente insostenibile a fronte di plurimi argomenti. Da un lato le competenze che gli vengono date dalla legge sono limitate e ben definite e non significano una reale autonomia di spesa, dall’altro in concreto le risorse oggi vengono attribuite all’ufficio e non al dirigente amministrativo. Occorre sempre ricordare che l’art. 1 comma 1 del D. Lgs.n.240/2006 attribuisce “al magistrato capo dell’ufficio la titolarità e la rappresentanza dell’ufficio, nei rapporti con enti istituzionali e con i rappresentanti degli altri uffici giudiziari, nonché la competenza ad adottare i provvedimenti necessari per l’organizzazione dell’attività giudiziaria e, comunque, concernenti la gestione del personale di magistratura ed il suo stato giuridico”. E ciò ha portato sinora ad investire il magistrato capo dell’ufficio di quanto concerne le spese di funzionamento, quanto meno nella determina e nella firma.
Così pure non convince l’idea di scindere le responsabilità tra magistrato dirigente e dirigente amministrativo, l’uno per quanto riguarda i magistrati e l’altro per ciò che concerne il personale amministrativo. Chi pensa ad un’ipotesi di tal fatta non si rende conto come la normalità è che i magistrati ed il personale amministrativo operino negli stessi ambienti di lavoro e che la finalità del D. Lgs. n.240/2006, ben espressa nell’art. 4, è proprio quella di creare una direzione integrata che punti sull’unicità dei programmi e delle finalità e che pertanto non consente scissioni.
Ne consegue che il datore di lavoro è il Ministero, ma che vi sono obblighi concorrenti che riguardano anche chi opera sul territorio e che, come tale, è in grado di rendersi conto di manchevolezze e fonti di rischio e di conseguentemente di segnalarle e chiedere i necessari interventi.
5. Gli uffici giudiziari sono articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia?
Va infine sfatata o, almeno, posta in dubbio l’idea diffusa che gli uffici giudiziari siano articolazioni decentrate o uffici periferici del Ministero della Giustizia. La stessa scelta del decentramento operata (pur senza essere poi seriamente coltivata) nel D. Lgs. n.240/2008 evidenzia come lo stesso Ministero non ritenesse di avere fino a quel momento articolazioni decentrate. Emblematici sono i titoli del Capo II “Articolazioni decentrate del Ministero della Giustizia” e dell’art 6 “Uffici periferici dell’organizzazione giudiziaria”. La stessa dizione di uffici periferici dell’organizzazione giudiziaria viene usata nel Decreto ministeriale 14 aprile 2022 quando si parla delle nuove direzioni territoriali. E laddove il Ministero ha voluto coinvolgere gli uffici giudiziari lo ha detto espressamente. Nell’art. 6 comma 1 del DPR 18 agosto 2015 n.133 si chiarisce che le Conferenze permanenti operano “nell’ambito degli indirizzi e secondo le linee di pianificazione strategica stabiliti dal Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi del Ministero”. E nello stesso articolo 6 al comma 3 si prevede che “possono essere delegate ai capi degli uffici giudiziari le competenze relative alla formazione dei contratti necessari all’attuazione dei compiti di cui all’art. 4 comma 1.[8]Nella materia della sicurezza le medesime competenze possono essere delegate al procuratore generale.” Come del resto si faceva nel già citato art.16 comma 4 del DPCM 15 giugno 2015 n.84 laddove si prevedeva che nell’attesa della costituzione delle Direzioni generali decentrate “le funzioni attribuite alle direzioni generali possono essere delegate anche in parte agli uffici giudiziari distrettuali”. Norma poi abrogata.
Del resto se uno legge con attenzione da un lato il complesso disposto normativo che oggi si può definire come Ordinamento Giudiziario o, dall’altra parte, il Regolamento del Ministero della Giustizia non troverà alcuna interazione, trattandosi da una parte degli uffici destinati ad amministrare la giustizia e dall’altra l’istituzione centrale cui sono demandati, senza alcun rapporto gerarchico, ma semmai servente, “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia” come recita l’art.110 della Costituzione. Una delega potrà essere sempre possibile trattandosi di organi con competenze (anche) amministrative, e dovendosi mantenere un costante rapporto di leale collaborazione, ma dovrà essere di volta in volta accettata, creando un quadro di obblighi a carico del delegato.
La questione in realtà è estremamente delicata perché deve coniugare profili di efficienza dell’intero sistema con le garanzie di indipendenza da assicurare agli uffici giudiziari. Uffici dipendenti dal Ministero, anche solo funzionalmente, rischiano comunque di essere condizionati. D’altro canto le esigenze di organizzazione e di efficienza impongono un’ottica nazionale. Al riguardo l’idea di direzione decentrate, come sorta di centro servizi degli uffici sulla base di un livello minimo di prestazioni assicurate, può essere un passo in avanti.
Una prospettiva forse nuova ed inusuale, ma che merita quanto meno una riflessione.
[1] “La Conferenza permanente, tenuto conto del decreto di cui all'articolo 1, commi 528 e 529, della legge, individua e propone i fabbisogni necessari ad assicurare il funzionamento degli uffici giudiziari e indica le specifiche esigenze concernenti la gestione, anche logistica e con riferimento alla ripartizione ed assegnazione degli spazi interni tra uffici, la manutenzione dei beni immobili e delle pertinenti strutture, nonché quelle concernenti i servizi, compresi il riscaldamento, la climatizzazione, le utenze, la pulizia e la disinfestazione, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il giardinaggio, il facchinaggio, i traslochi, la vigilanza e la custodia, compresi gli aspetti tecnici e amministrativi della sicurezza degli edifici. Restano ferme le competenze dei titolari dei poteri di spesa.”
[2] I dati sono ripresi dalla Relazione conclusiva del Tavolo tecnico in materia di spese di funzionamento e di edilizia giudiziaria dell’8 ottobre 2019.
[3] Le deroghe che si sostanziano nel fatto che gli interventi sono effettuati con fondi del Ministero della Giustizia riguardano i seguenti casi: 1. Nuove costruzioni e ampliamenti, 2. Piccola manutenzione, 3. Somma urgenza, 4. Interventi per l’adeguamento alla sicurezza sul lavoro. 5.Valutazioni di vulnerabilità sismica. 6.Ipotesi minori.
[4] Un’altra delle determinazioni uscite dal Tavolo tecnico è stato l’inserimento stabile da prevedersi a livello normativo della presenza dell’Avvocatura nelle Conferenze permanenti, poi recepito nella legge di bilancio 2020.
[5] Comunque sia pure in materia aziendale la Cassazione ha ritenuto di qualificare come datore di lavoro il soggetto che esercita i poteri decisionali e di spesa “con riferimento a tutta l’operatività aziendale” “l’unicità del concetto di datore di lavoro” porterebbe ad “escludere che la relativa figura possa essere sotto-articolata a seconda delle funzioni svolte o dei settori produttivi”.(Cassazione sezione III 15 febbraio 2022 n.9028)
[6] La definizione che dà del dirigente l’art 2 lettera d) del D. Lgs n.81/2008 è la seguente: "dirigente": persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa.
[7] La definizione che dà del preposto l’art 2. Lettera e) del D. Lgs n.81/2008 è la seguente: "preposto": persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa esercitando un funzionale potere di iniziativa.
[8] “La Conferenza permanente, tenuto conto del decreto di cui all'articolo 1, commi 528 e 529, della legge, individua e propone i fabbisogni necessari ad assicurare il funzionamento degli uffici giudiziari e indica le specifiche esigenze concernenti la gestione, anche logistica e con riferimento alla ripartizione ed assegnazione degli spazi interni tra uffici, la manutenzione dei beni immobili e delle pertinenti strutture, nonché quelle concernenti i servizi, compresi il riscaldamento, la climatizzazione, le utenze, la pulizia e la disinfestazione, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il giardinaggio, il facchinaggio, i traslochi, la vigilanza e la custodia, compresi gli aspetti tecnici e amministrativi della sicurezza degli edifici. Restano ferme le competenze dei titolari dei poteri di spesa.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.