ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Dissenso dei condòmini, legittimità urbanistica e controlli dell’amministrazione: un ritorno alla tutela civilistica dei terzi (nota a CGARS, sez. giurisdizionale, 5 giugno 2023, n. 392).
di Ippolito Piazza
Sommario: 1. Il tema e i fatti all’origine della controversia. – 2. Dissenso dei condòmini e legittimità urbanistica. – 3. La distinzione di piani nella sentenza del CGARS. – 4. Le ragioni per la tesi civilistica.
1. Il tema e i fatti all’origine della controversia.
Il Consiglio di Giustizia amministrativa adotta, nella sentenza in commento, una posizione netta circa la natura delle controversie edilizie tra vicini e il ruolo che (non) deve avere l’amministrazione. Ad avviso dei giudici siciliani, l’illegittimità urbanistica di un’opera non può mai dipendere dalla presunta lesione di un diritto civilistico del terzo-vicino di casa: non è infatti compito dell’amministrazione effettuare un simile accertamento, come non lo è quello di dare esecuzione a eventuali pronunce del giudice ordinario intervenute sul punto. Come si proverà ad argomentare, si tratta di una tesi condivisibile, perché consente di tenere distinti il piano delle relazioni civilistiche tra vicini da quello delle relazioni pubblicistiche tra costruttore e pubblica amministrazione, evitando così di attribuire a quest’ultima un compito che l’ordinamento non le attribuisce.
La pronuncia è importante perché sembra discostarsi da alcuni diffusi indirizzi giurisprudenziali: il primo è quello in base al quale l’amministrazione, se edotta dell’esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba effettuare un controllo sull’attendibilità di quanto affermato dal richiedente, pur non potendosi sostituire al giudice ordinario nell’effettuare valutazioni civilistiche[i]; il secondo è quello che afferma l’esistenza della cosiddetta ‘doppia tutela’, in base alla quale il terzo-vicino di casa sarebbe titolare sia di un diritto derivante dal rispetto delle norme civilistiche sugli immobili, sia di un interesse legittimo al rispetto della normativa edilizia, da far valere rispettivamente di fronte al giudice ordinario e al giudice amministrativo[ii]. La sentenza del CGARS consente quindi di svolgere alcune considerazioni riguardo all’incidenza dei rapporti privati sull’attività di controllo dell’amministrazione e alla tutela dei terzi in materia edilizia.
Prima di tutto è, però, necessario descrivere la vicenda. La controversia nasce dall’ordinanza di demolizione di una canna fumaria a servizio esclusivo di un’attività di ristorazione, posta su un muro esterno condominiale comune. La presenza della canna fumaria aveva già dato luogo a un giudizio civile tra il proprietario dell’immobile al piano terra, adibito a ristorante, e la proprietaria degli immobili soprastanti, conclusosi con una sentenza che imponeva la rimozione dell’opera per alterazione del decoro architettonico dell’edificio. Il proprietario dell’immobile al piano terreno aveva, pertanto, dapprima rimosso la canna fumaria e poi ne aveva installata una diversa, che riteneva conforme alla legge e al giudicato. La nuova collocazione della canna fumaria era autorizzata dal Comune, previo parere dell’ARPA. Anche la nuova canna fumaria veniva però rimossa, stavolta a opera dell’ufficiale giudiziario, in esecuzione della sentenza civile sopra richiamata. A questo punto, gli interessati, dopo aver presentato una Scia nel 2020 ritenuta inammissibile dal Comune, trasmettevano al Comune una CIL e reinstallavano la canna fumaria. Il caso tuttavia rimaneva aperto: in esito a un sopralluogo, i tecnici comunali e i vigili urbani evidenziavano nella loro relazione come la installazione della canna fumaria, già autorizzata dal Comune, avesse bisogno del consenso di tutti i condòmini, consenso che invece mancava nel caso di specie. In base a tale relazione, il Comune ingiungeva la demolizione della canna fumaria, pur confermando che quest’ultima rispettasse i parametri fissati dal regolamento edilizio.
Gli odierni proprietari e il conduttore dell’immobile al piano terra ricorrevano quindi al Tar per l’annullamento dell’ordine di demolizione e dei provvedimenti conseguenti[iii]. Il Tar respingeva il ricorso[iv], tra l’altro, perché condivideva la tesi dell’amministrazione secondo cui occorresse il previo assenso degli altri condòmini per la realizzazione dell’opera. La necessità di tale consenso, assente nel caso di specie, risponde secondo il Tar, «(anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie»: in quest’ottica, il provvedimento dell’amministrazione svolge una funzione arbitrale rispetto a una questione civilistica.
2. Dissenso dei condòmini e legittimità urbanistica.
La asserita mancanza del consenso dei condòmini viene quindi a condizionare, nella ricostruzione del giudice di primo grado, la legittimità dell’intervento edilizio, a causa della violazione dell’art. 1102, c. 1, del codice civile. Quest’ultima disposizione prevede che ciascun partecipante possa servirsi della cosa comune «purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto»; le modifiche apportate dal singolo condomino sono soggette inoltre al rispetto del decoro architettonico dell’edificio, limite posto in generale dall’art. 1120, c. 4, c.c., per le innovazioni nel condominio di edifici[v].
Nella prospettiva adottata dal Tar, il rispetto di questi limiti civilistici costituisce un presupposto necessario per la sussistenza della legittimazione a richiedere il titolo edilizio e deve pertanto essere soggetto a un controllo da parte dell’amministrazione. Sulla natura di questo controllo si è più volte espressa la giurisprudenza amministrativa: se, infatti, può sembrare ragionevole che l’amministrazione effettui un simile controllo (così da evitare che sia concesso un titolo edilizio a chi non è legittimato), è pur vero che su una questione civilistica la parola non può che essere affidata al giudice ordinario. In ragione di ciò, la giurisprudenza maggioritaria (sia in materia di interventi su parti condominiali comuni che, in generale, in materia di rilascio di titoli edilizi) si attesta, come noto, su una linea interpretativa mediana, in base alla quale l’amministrazione, «quando venga a conoscenza dell’esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza del giudice ordinario), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili»[vi]. La specificazione della attendibilità prima facie consente di evitare che l’amministrazione sia tenuta a effettuare dispendiosi accertamenti sulla titolarità di un diritto civilistico.
Una recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha poi precisato che il controllo dell’amministrazione debba «sempre collegarsi al riscontro di profili d’illegittimità dell’attività per contrasto con leggi, regolamenti, piani, programmi e regolamenti edilizi, mentre non può essere esercitato a tutela di diritti di terzi non riconducibili a quelli connessi con interessi di natura pubblicistica, quali ad esempio il rispetto delle distanze dai confini di proprietà o del distacco dagli edifici». In altre parole, il controllo dell’amministrazione riguarderebbe solo la legittimità urbanistica delle opere; tuttavia, la stessa sentenza – in linea con l’orientamento maggioritario – fa salvo il caso in cui «de plano risulti l’inesistenza di un titolo giuridico che fondi la legittimazione attiva del richiedente il titolo edilizio»[vii]. Se da quest’ultima giurisprudenza emerge l’idea che l’amministrazione non debba, almeno in linea di principio, occuparsi di questioni civilistiche, vi sono altre pronunce, proprio in tema di opere su parti comuni, che, pur scindendo il profilo della conformità urbanistica da quello del consenso dei condòmini, ammettono invece che il controllo dell’amministrazione risponda specificamente «alla esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie»[viii].
Queste oscillazioni giurisprudenziali sulla finalità del controllo e sulla effettiva distinzione tra legittimità urbanistica e titolo civilistico mostrano come, una volta accettata l’idea che all’amministrazione competa un controllo sui titoli, non sia facile individuarne il limite. Del resto, il criterio della facile rilevabilità della contestazione – pur fondato sulle ragioni richiamate: evitare il rilascio di titoli edilizi a chi non ne abbia la legittimazione e al contempo non gravare l’amministrazione di un onere di controllo eccessivo – non appare pienamente convincente dal punto di vista teorico. Infatti, o si ritiene che la legge imponga all’amministrazione un controllo sui titoli del richiedente[ix] – e, allora, se così fosse, il controllo dovrebbe essere sempre fatto e in modo completo – oppure si ritiene che tale controllo non competa all’amministrazione.
Proprio quest’ultima è la via intrapresa dal CGARS nella sentenza che si annota: basandosi sulla distinzione tra rapporti fra condòmini e rapporto con l’amministrazione, il giudice ‘libera’ quest’ultima dall’onere del controllo sul rispetto delle regole civilistiche da parte del richiedente e si fa carico in maniera convincente delle conseguenze di tale distinzione.
3. La distinzione di piani nella sentenza del CGARS
La pronuncia ruota attorno alla questione dell’assenza del consenso dei condòmini alla costruzione della canna fumaria: il punto è, del resto, «dirimente» per i giudici dal momento che l’ordinanza di demolizione è motivata con rinvio alla relazione di sopralluogo nella quale «dopo il riferimento all’art. 1102 del c.c., testualmente è riportato che “in conseguenza del mancato assenso preventivo reso dagli altri soggetti comproprietari, viene meno la piena legittimità da parte del sig. …, alla collocazione dell’opera in argomento su parti comuni…”».
Ebbene, ad avviso del CGARS, l’errore dell’amministrazione è consistito proprio nell’aver sovrapposto il piano dei rapporti civilistici tra condòmini con quello relativo alla conformità urbanistica dell’opera. Si legge, infatti, nella pronuncia che l’amministrazione «dalla supposta violazione dell’art. 1102 c.c., il cui accertamento invece appartiene al Giudice ordinario, ha fatto derivare l’illegittimità urbanistica, con conseguente emissione dell’ordinanza di demolizione e, a seguire, quella di acquisizione»: secondo i giudici siciliani, invece, l’abusività di un’opera «che sia urbanisticamente realizzabile» non può essere «in alcun senso condizionata dall’assenso o dal dissenso degli altri comproprietari», essendo pacifico che i loro diritti «non sono giammai pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio». E tra questi diritti rientrano anche quelli connessi all’eventuale violazione dei limiti posti dall’art. 1102 c.c. e alla lesione del decoro architettonico dell’edificio. La distinzione dei piani non porta naturalmente ad affermare l’irrilevanza delle norme civilistiche ma a prendere atto che la loro violazione rileva unicamente nei rapporti fra condòmini: ricorrendo ancora alle parole della sentenza, alla violazione di tali norme «corrispondono diritti soggettivi individuali di ogni altro condomino, e non già interessi legittimi tutelabili in via amministrativa».
Ne consegue che «i diritti dei terzi sono tutelabili (esclusivamente) mediante azioni civili innanzi al Giudice ordinario». Il CGARS nega dunque la possibilità per il terzo, in un caso di questo tipo, di ottenere la ‘doppia tutela’, cioè la tutela dei diritti di fronte al giudice ordinario e degli interessi legittimi lesi dal titolo edilizio di fronte al giudice amministrativo: il condomino è, infatti, estraneo al rapporto tra l’amministrazione e il costruttore e, per definizione, non può venirne leso.
La tesi del CGARS è molto lineare e porta con sé alcune conseguenze, esplicitate nella sentenza.
In primo luogo, secondo i giudici siciliani, la legittimità di un intervento edilizio che uno dei condòmini richieda di fare sulla parte comune ai sensi dell’art. 1102 c.c. deve essere valutata dall’amministrazione «senza riguardo ai profili civilistici e ai connessi limiti posti dal cit. art. 1102», incluso quindi il rispetto del decoro architettonico. L’amministrazione è infatti competente ad autorizzare un simile intervento «solo per i profili amministrativi», mentre sui profili civilistici ha titolo di pronunciarsi unicamente il giudice civile.
La stessa distinzione di profili si realizza anche sul piano esecutivo. Secondo la tesi del CGRAS, non è compito dell’amministrazione quello di dare esecuzione alle sentenze del giudice civile[x]. Del resto, come sottolinea la sentenza, l’amministrazione ha la possibilità di intervenire in autotutela per revocare o annullare un’autorizzazione illegittima, senza che ciò dipenda da una precedente o sopravvenuta sentenza del giudice civile. Il CGARS ammette naturalmente che dalla sentenza del giudice civile possa sorgere un obbligo di rimozione di un’opera: tuttavia, un simile intervento repressivo è azionabile da chi ne abbia titolo nei modi previsti dal codice di procedura civile.
Infine, mentre la tesi del giudice di primo grado si fondava sulla difesa dei diritti dei condòmini, il CGARS svolge in proposito un ragionamento opposto: l’amministrazione non solo difetta del potere di intervenire in tal senso, ma difetta anche «degli strumenti tecnici per valutare» simili questioni civilistiche. Vi è di più: i diritti dei condòmini – prosegue la sentenza – potrebbero addirittura essere lesi dall’intervento dell’autorità pubblica («anche solo in via di stretta esecuzione delle sentenze rese dal giudice civile»). Infatti, anche dopo la demolizione imposta dal giudicato civile, le parti «restano perfettamente libere di transigere o novare ogni loro diritto od obbligo scaturente da esso»: pertanto, l’esecuzione della pronuncia da parte dell’amministrazione potrebbe ledere «il diritto di tutte le parti a ulteriormente esercitare la propria autonomia negoziale pur dopo il giudicato civile». Se, invece, la condomina controinteressata avesse inteso opporsi ancora all’attività edilizia, avrebbe dovuto coerentemente «rivolgersi nuovamente al Giudice ordinario per accertare se la nuova canna fumaria violasse ancora il decoro architettonico».
4. Le ragioni per la tesi civilistica.
La soluzione individuata dal CGARS si distingue per chiarezza dei presupposti e coerenza degli sviluppi. A fronte di una vicenda che, pur nella sua ordinarietà di lite condominiale, si era intricata per il susseguirsi di provvedimenti amministrativi e giurisdizionali, i giudici siciliani individuano la soluzione nella separazione dei rapporti che intercorrono, rispettivamente, tra i condòmini e tra il costruttore e la pubblica amministrazione.
Non si tratta di una novità: la stessa Corte di Cassazione[xi] afferma che è irrilevante, sul piano civilistico, che l’attività edilizia sia stata acconsentita dalla pubblica amministrazione. Meno limpida è invece, come s’è detto, la giurisprudenza amministrativa[xii], che anche quando riconosce che l’amministrazione non debba occuparsi di questioni civilistiche, tuttavia ritiene sussistente un dovere di controllo prima faciedell’amministrazione sul titolo del richiedente. Non sembra però potersi tenere tutto insieme: se si ammette che l’amministrazione debba – più o meno approfonditamente – occuparsi delle vicende civilistiche, allora i due piani finiscono per sovrapporsi[xiii], con le conseguenze stigmatizzate dallo stesso CGARS, cioè l’assenza dei mezzi per dirimere la controversia in capo all’amministrazione e la potenziale lesione dell’autonomia privata[xiv].
Che la soluzione di un contrasto tra privati circa la titolarità di un diritto sia un compito complesso, che sfugge alla competenza dell’amministrazione pubblica, è dimostrato anche dal caso che ci interessa, nel quale la questione civilistica pareva invece chiara, sia perché evidente risultava il dissenso di un condomino, sia perché si era addirittura formato sul punto un giudicato civile: eppure, come ammesso dallo stesso Tar nella pronuncia di primo grado, i limiti di quel giudicato non erano facilmente identificabili (si poneva infatti, in concreto, la questione di individuare a quale delle diverse canne fumarie installate nel tempo si riferisse l’ordine di demolizione del giudice civile)[xv].
Di là dalla difficoltà pratica, occorre però ancor prima domandarsi se sul piano giuridico l’amministrazione sia tenuta a svolgere una simile funzione arbitrale e se la sua attività debba essere condizionata da una contestazione sul titolo civilistico. La risposta alla domanda dovrebbe dipendere dalla disciplina della singola fattispecie: l’amministrazione è, infatti, titolata a intervenire e a effettuare un controllo quando una norma lo richieda[xvi]. Ebbene, in questo caso, sia che si ritenga (come fa il Tar) che l’installazione della canna fumaria necessitasse del permesso di costruire, sia che si ritenga invece (come il CGARS) che l’intervento richiedesse una semplice s.c.i.a., le norme che disciplinano l’attività dell’amministrazione non richiedono un controllo sul titolo del richiedente[xvii]. A quest’ordine di idee aderisce anche il CGARS, che addirittura offre un esempio in motivazione: dopo aver ribadito che non spetta all’amministrazione, «neanche incidentalmente», di valutare se l’opera integri un’alterazione della destinazione della cosa comune o se il suo utilizzo sia incompatibile con l’uso paritario altrui o se l’opera sia lesiva del decoro architettonico, i giudici sottolineano che quest’ultimo compito potrebbe spettare semmai «solo nei congrui casi» all’amministrazione dei beni culturali.
Vero è che il permesso di costruire deve essere rilasciato dall’amministrazione al «proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo», tuttavia lo stesso articolo del testo unico sull’edilizia si chiude con la clausola di salvezza dei diritti dei terzi (art. 11, c. 3, d.P.R. n. 380/2001), sulla quale si fonda il sistema. I terzi non sono pregiudicati dal rilascio del titolo edilizio e non sono privati di tutela, ma possono richiederla nelle forme previste dalle leggi e dal processo civile[xviii].
Questa non è l’unica possibile interpretazione della clausola di salvezza dei diritti dei terzi. Si è, infatti, anche sostenuto in dottrina che i diritti dei terzi non solo non possano, ma neppure debbano essere lesi dall’attività dell’amministrazione. Ne conseguirebbe che l’amministrazione sarebbe tenuta a negare il rilascio del titolo edilizio ogni volta che vi sia una contestazione sul diritto del richiedente, «pur in presenza di un progetto astrattamente conforme alla normativa urbanistica della zona di riferimento»: ciò non solo nel caso in cui emerga «con chiarezza» l’assenza del titolo di godimento ma anche quando la sua sussistenza sia «incerta o contestata»[xix]. Simile ricostruzione supera, quindi, anche l’impostazione della giurisprudenza prevalente (che richiede solo un controllo prima facie sui titoli) ed è certamente coerente con le proprie premesse.
Si può, tuttavia, obiettare che il significato della clausola di salvezza sembra proprio quello di separare il rapporto che corre tra amministrazione e richiedente da quello privatistico che lega quest’ultimo a eventuali terzi. Si arriverebbe inoltre, sul piano pratico, alla conseguenza, difficilmente accettabile, che il rilascio di un titolo edilizio dovrebbe essere negato, pur se vi sia la conformità urbanistica, almeno[xx] fino alla pronuncia del giudice civile[xxi], e in presenza di una semplice opposizione[xxii] da parte di un controinteressato.
[i] Per questo orientamento, in dottrina, v. F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, in Urb. App., 2/2012, 150 ss., secondo cui «(…) il potere amministrativo di conformazione delle iniziative edilizie si pone in stretta correlazione con tutte le altre discipline che hanno come “terminale”, immediato e diretto, il territorio, nel suo complesso o nelle singole parti di cui si compone, quali, ad esempio, la materia ambientale, la materia paesaggistica e, per l’appunto, la disciplina dei rapporti negoziali e dei diritti reali contenuta nel codice civile» (ivi, 157).
[ii] Per una rassegna degli orientamenti giurisprudenziali in materia, si vedano, tra altri, A. Berra, R. Damonte, Art. 11, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, III ed., Giuffrè, Milano, 2015, spec. 336 ss. e A. Chierichetti, Testo unico in materia edilizia, Art. 11, in R. Ferrara, G.F. Ferrari (a cura di), Commentario breve alle leggi in materia di urbanistica ed edilizia, III ed., Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2019, spec. 293 ss.
[iii] Cioè il conseguente accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, nonché il provvedimento con cui veniva comunicata la immissione in possesso e l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune ai sensi dell’art. 31, c. 3, d.P.R. n. 380/2001.
[iv] Tar Sicilia, Catania, I, 13 dicembre 2021, n. 3730.
[v] In particolare, l’art. 1120, c. 4, c.c. prevede che «Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino».
[vi] La citazione è tratta da Cons. Stato, VI, 13 marzo 2023, n. 2618, pronuncia conforme alla più recente giurisprudenza del massimo giudice amministrativo. Nella stessa sentenza si legge che, in un caso simile a quello di cui ci si sta occupando, «era preciso compito dell’Amministrazione verificare l’effettiva legittimazione dell’appellante a richiedere il titolo richiesto» e che il Comune «non poteva ignorare la posizione esplicitamente espressa dal condominio» in senso contrario all’intervento edilizio. Si vedano anche, sempre in tema di costruzioni su parti comuni, Cons. Stato, VI, 30 agosto 2022, n. 7540 e Cons. Stato, IV, 4 maggio 2010, n. 2546 (dove i giudici ritengono che, pur mancando il consenso dei condòmini, lo stesso non era necessario poiché, nel caso di specie, appariva «manifesta» la «osservanza dei limiti posti dagli artt. 1102 e 1120 c.c. all’uso del tetto comune da parte dei singoli comproprietari»).
[vii] Cons. Stato, IV, 24 febbraio 2022, n. 1302, citata da M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. Giur. Ed., 3/2022, 171 ss., cui si rinvia in generale sul tema. Netta circa la distinzione tra rapporto pubblico e rapporti privati è anche Cons. Stato, 24 marzo 2011, n. 1770, ove si legge che «la concessione edilizia è un atto amministrativo che rende semplicemente legittima l’attività edilizia nell’ordinamento pubblicistico, e regola solo il rapporto che, in relazione a quell'attività, si pone in essere tra l'autorità amministrativa che lo emette ed il soggetto a favore del quale è emesso, ma non attribuisce a favore di tale soggetto diritti soggettivi conseguenti all’attività stessa, la cui titolarità deve essere sempre verificata alla stregua della disciplina fissata dal diritto comune» (in proposito v. anche A. Chierichetti, Testo unico in materia edilizia, Art. 11, cit., 293). La distinzione tra attività pubblicistiche e questioni civilistiche trova conferma anche nella giurisprudenza della Cassazione: si veda, per esempio, Cass. civ., II, 20 gennaio 2022, n. 1764, secondo cui «[…] in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perché queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l’aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni».
[viii] Tar Campania, VI, 18 aprile 2017, n. 2114, ove si legge che l’assenso dei condòmini «non rileva ai fini della conformità urbanistica […] trattandosi di aspetti rimessi alla esclusiva valutazione della autorità amministrativa», ma tuttavia «la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini ai fini del rilascio di titoli abilitativi al posizionamento sulle facciate dei fabbricati di canne fumarie, risponde alla esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie».
[ix] L’obbligo del controllo si potrebbe ricavare dall’art. 11, c. 1, d.P.R. n. 380/2001, che stabilisce che il permesso di costruire sia rilasciato «al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo» oppure, in generale, dall’art. 6, c, 1, lett. a) della l. n. 241/1990, laddove richiede che il responsabile del procedimento valuti «le condizioni di ammissibilità i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento» (in tal senso, v. A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 338); si veda anche F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 157.
[x] In senso conforme, v. anche la successiva sentenza del CGARS, sez. giurisdizionale, 21 agosto 2023, n. 535.
[xi] Cass. civ., SS.UU., 22 settembre 2016, n. 18571; Cass. civ., II, 20 ottobre 2021, n. 29166.
[xii] Non tutta, però: si vedano per esempio Tar Abruzzo, L’Aquila, I, 23 marzo 2016, n. 177 e Cons. Stato, V, 7 settembre 2009, n. 5223.
[xiii] Per usare le parole di A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 325, «la disciplina civilistica si proietta su quella amministrativa per quanto riguarda l’esatta individuazione del soggetto titolare dello jus aedificandi ed in quanto tale abilitato a conseguire il titolo edificatorio».
[xiv] Sul punto sia consentito rinviare a L. Ferrara, G. Mannucci, I. Piazza, Sui rapporti di vicinato in una giurisprudenza recente. Diritti soggettivi e interessi legittimi, diritti soggettivi trasformati in interessi legittimi o soltanto diritti soggettivi?, in Dir. Pubbl., 2023, spec. 315.
[xv] Si trova in ciò conferma, incidentalmente, che in sede di esecuzione civile vengono compiuti accertamenti preordinati alla stessa esecuzione della sentenza: in generale sul tema si rinvia, per tutti, a P. Biavati, Argomenti di diritto processuale civile, BUP, Bologna, 2023, 783 ss.; in particolare sulla analogia, da questo punto di vista, tra processo di esecuzione e giudizio di ottemperanza si rinvia invece a L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Giuffrè, Milano, 2003, spec. 57 ss. e 250 ss.
[xvi] Per questa impostazione, v. G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo. Dalla legalità ai diritti, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2016, 246 ss.
[xvii] Diverso è il caso delle norme sulle distanze tra le costruzioni, che, come noto, costituiscono limiti legali e integrano il parametro di conformità edilizia: oltretutto, in questo caso, «trattandosi (…) di vincoli direttamente imposti dalla legge, per essi non si pongono certo problemi in tema di “conoscibilità” dei medesimi da parte dell’Amministrazione» (A. Berra, R. Damonte, Art. 11, cit., 322). Anche su questo punto, v. G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, cit., 249 ss. Nega che la verifica dell’amministrazione sul titolo del richiedente possa «mai tradursi in una funzione arbitrale o paragiudiziale» G. Pagliari, Il permesso di costruire, in F.G. Scoca, P. Stella Richter, P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, vol. I, Giappichelli, Torino, 2018, 771 s., secondo cui l’attività dell’amministrazione debba limitarsi a una «verifica dell’idoneità giuridico-formale del documento prodotto ad attestare la titolarità del diritto di proprietà o della diversa qualità vantata per legittimare la richiesta del permesso di costruire».
[xviii] Come ricorda anche il CGARS nella sentenza, il rilascio del titolo edilizio deve avere «esclusivo riguardo alla compatibilità urbanistica» dell’opera; il che «non implica affatto che essa non sia lesiva di diritti soggettivi altrui», ma ogni questione che li riguarda ha una «unica sede competente, che è il giudizio civile». Una ricostruzione simile è seguita anche in L. Ferrara, G. Mannucci, I. Piazza, Sui rapporti di vicinato in una giurisprudenza recente, cit., spec. 314 ss.
[xix] F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 158.
[xx] Ché, come abbiamo visto, neppure il giudicato civile è a volte in grado di chiudere la questione.
[xxi] F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 159.
[xxii] Lo stesso Autore specifica che la contestazione dovrebbe essere «puntuale e dettagliat[a]» (F. Gaffuri, Il permesso di costruire e i diritti dei terzi, cit., 158), introducendo tuttavia così un elemento di valutazione che si scontra con la linearità della stessa tesi; anche D. Chinello, Legittimazione edilizia dei singoli condòmini per intervenire sulle parti comuni e poteri comunali di verifica, in Urb. App., 4/2012, 461, che aderisce alla tesi del controllo sui titoli da parte dell’amministrazione, suggerisce di porre a carico del richiedente una «accurata verifica tecnica» circa la applicazione dell’art. 1102 c.c. e, quindi, circa possibilità di effettuare un intervento sulle parti comuni senza aver prima ottenuto il consenso dei condòmini. Sulla necessaria ‘serietà’ delle contestazioni sul titolo civilistico, si veda la recente sentenza del CGARS, sez. giurisdizionale, 15 settembre 2023, n. 569.
Sommario: 1. L'ordinamento giuridico federale austriaco e le sue Alte Corti di giustizia - 2. Tribunali di diritto pubblico (Gerichte öffentlichen Rechts) e tribunali ordinari (ordentliche Gerichte) - 3. Articolazione interna della Corte Suprema austriaca (Obertster Gerichtshof - OGH): composizione, Camere di consiglio (Senate) e funzione della Procura Generale - 4. Procedure e Sitzungen des OGH - 5. Le decisioni della Corte Suprema - 6. Il servizio scientifico dell'OGH (Evidenzbüro – EB) - 7. Dispositivi informatici e banca dati ufficiale: il Rechtsinformationssystem (RIS-Justiz) - 8. Ruolo della Corte amministrativa suprema (Verwaltungsgerichthof – VwGH) vis-à-vis l’OGH - 9. Considerazioni conclusive sullo scambio.
1. L'ordinamento giuridico federale austriaco e le sue Alte Corti di giustizia[1].
1.1. Molto utile per delineare la missione della Corte Suprema austriaca è stato l'incontro con il suo Presidente, Praesidentin des OGH On. Prof. Dott.ssa Elizabeth Lovrek. Ha sottolineato il ruolo dell'Obertster Gerichtshof (OGH) come il più alto tribunale in materia civile e penale (Zivil- und Strafrechtssachen) all'interno dell'ordinamento giuridico federale austriaco.
1.2. L'OGH è una delle tre Alte Corti di giustizia in Austria, "gleichrangingen Hoechstgerichten" o "Alte Corti di pari rango", insieme alla Corte amministrativa suprema (Verwaltungsgerichthof - VwGH) e alla Corte costituzionale (Verfassungsgerichtshof - VfGH).[2]
1.3. La magistratura austriaca nel suo complesso costituisce il nucleo di un caratteristico sistema giuridico romano-germanico, che trae origine dal preesistente ordinamento giuridico imperiale multinazionale. La sua regolamentazione è stata modificata senza soluzione di continuità attraverso la caduta dell'impero austro-ungarico e la fondazione nel 1919 della Prima Repubblica austriaca, poi la guerra civile austriaca del 1934, l'integrazione nel 1940 nell'ordinamento giuridico tedesco dopo l'Anschluss del 1938, il ristabilimento della Repubblica austriaca su base federale nel 1945 e, quindi, la fine dell'occupazione militare da parte delle forze alleate nel 1955 con il trattato di indipendenza austriaca (Österreichischer Staatsvertrag).[3]
1.4. L’esito di una storia così complessa è l’attuale complessivo sistema giudiziario austriaco, suddiviso in ordentliche Gerichte (tribunali ordinari) e Gerichte öffentlichen Rechts (tribunali di diritto pubblico).
1.5. Nel mio stage a Vienna, organizzato in modo impeccabile dal capo del Dipartimento relazioni internazionali dell'OGH, Herr. Dr. Michael Matzka, per conto della Rete dei Presidenti delle Corti Supreme Giudiziarie dell'Unione Europea (Réseau des Présidents des Cours Suprêmes Judiciaires de l'Union Européenne), ho potuto apprezzare sia pure brevemente entrambe le articolazioni (tribunali generali e tribunali di diritto pubblico). Ho visitato le loro massime autorità giudiziarie e preso parte alle sedute di due camere di consiglio (Senate) dell'OGH, in cui sono state emesse numerose sentenze. Mi è stato permesso di apprezzare anche il ruolo e le funzioni del servizio scientifico della Corte Suprema (Evidenzbüro) e i progressi nella digitalizzazione del sistema giudiziario.
2. Tribunali di diritto pubblico (Gerichte öffentlichen Rechts) e tribunali ordinari (ordentliche Gerichte).
2.1. I “tribunali di diritto pubblico” o Gerichte öffentlichen Rechts, hanno competenza con riferimento alle articolazioni del potere esecutivo e legislativo del governo e sono divisi in due rami.[4]
2.1.1. Il primo è costituito dalla giurisdizione del giudice amministrativo, che controlla in linea di principio la legalità degli atti amministrativi. Il tribunale di ultima istanza nell'ambito della giurisdizione amministrativa è la “Corte amministrativa suprema” (Verwaltungsgerichthof), acronimizzato in VwGH. Nell'ordinamento giuridico austriaco, il VwGH giudica anche sulle domande di asilo (Asylfälle) e in materia di diritto tributario (Steuerrecht), mediante appositi collegi di giudici (Senate).
2.1.2. L'altro organo appartenente ai tribunali di diritto pubblico è la Corte costituzionale (Verfassungsgerichtshof o, brevemente, VfGH), che giudica sulla costituzionalità delle leggi federali e provinciali ed esamina la legalità delle ordinanze e di altre fonti normative secondarie. Ha giurisdizione anche sulle azioni di responsabilità contro la Repubblica d'Austria, i suoi Stati federati e le sue articolazioni territoriali. Il VfGH inoltre regola anche i conflitti tra tribunali e tra tribunali e funzionari pubblici e, infine, risolve le eventuali controversie in materia elettorale. A differenza di altri organi giurisdizionali, i giudici in servizio presso la Corte Costituzionale sono giudici onorari e non sono costituiti in modo permanente, ma si riuniscono in occasione di “sessioni” che si tengono solitamente quattro volte l’anno.[5]
2.2. Per contro, il primo ramo della magistratura ("tribunali ordinari" o ordentliche Gerichte) esercita professionalmente la giurisdizione ordinaria e i giudici trattano tutte le cause civili e penali. Il diritto a un processo davanti a un giudice ordinario è sancito in Austria dall'articolo 83 (2) B-VG (Costituzione federale o Bundes-Verfassungsgesetz) e il numero di avvocati ammessi all'albo non arriva a 7.000, mentre il numero di giudici ordinari è di poco inferiore a 2.000 e quello dei pubblici ministeri si avvicina a 400 unità. Gli uffici giudiziari sono strutturati in un sistema piuttosto complesso, distribuito sul territorio della Federazione. In breve, le decisioni processuali possono provenire dai tribunali distrettuali (Bezirksgericht) o dai tribunali regionali (Landesgericht); contro le sentenze dei tribunali regionali è previsto in linea di principio l'appello a un tribunale regionale superiore (Oberlandesgericht). I giudici ordinari trattano circa 3,5 milioni di procedimenti all'anno, ma meno di 10.000 di essi arrivano alla Corte Suprema di Vienna.[6]
2.2.1. L'Obertster Gerichtshof assicura il riesame finale (Revision) delle decisioni dei tribunali ordinari di merito, ma può rifiutare la trattazione del caso se non vi sono questioni giuridiche di importanza significativa.[7]Un ricorso (Rechtsmittel) alla Corte Suprema può essere richiesto sia per ottenere la revisione ordinaria - ordentliche Revision - sia la revisione straordinaria - außerordentliche Revision - a seconda dei diversi presupposti dell’impugnazione.
Revisionrekurse possono essere presentate contro le violazioni su questioni di diritto (Rechtsfragen) in materia penale e civile, ma non su questioni di fatto (Tatfragen).[8]
2.2.2. Il ricorso alla Corte Suprema è soggetto a varie limitazioni, a seconda della materia trattata. Tra le più importanti, vi sono limiti in base al valore della richiesta (Streitwert), indipendentemente dal fatto che la sentenza impugnata possa sollevare questioni di significato giuridico, con poche eccezioni per le questioni sensibili.[9] In particolare, l'appello (Revision) contro le sentenze di secondo grado non è consentito nelle controversie di valore pari o inferiore a 5.000 euro e, se il valore della controversia non supera i 30.000 euro, il ricorso alla Corte Suprema può richiedere anche l'autorizzazione della corte d'appello che ha adottato la sentenza impugnata. Al di sopra della soglia dei 30.000 euro la richiesta di revisione è sempre ammessa.
2.2.3. La funzione principale della Corte Suprema (OGH) è quella di assicurare l'applicazione uniforme della legge in tutta la Federazione. Sebbene le Corti di merito non siano legalmente vincolate dalle decisioni dell'OGH, come caratteristico dei sistemi giuridici romano-germanici, la giurisprudenza è guidata dalle sentenze e dai principi di diritto (Rechtssätze) stabiliti dalla Corte Suprema, disponibili sul database elettronico (Rechtsinformationssystem - RIS-Justiz), costantemente aggiornato dal servizio scientifico della Corte, l'Evidenzbüro.
3. Articolazione interna della Corte suprema austriaca (Obertster Gerichtshof - OGH): composizione, camere di consiglio (Senate) e ambito di competenza della Procura generale.
3.1. Herr. Michael Matzka, insieme a Herr. Dr. Goddfried Musger, capo del primo Senat des OGH e Herr Dr. Erich Schwarzenbacher, membro del quarto Senat des OGH, in diversi incontri mi hanno offerto molti elementi di conoscenza sul funzionamento interno della Corte suprema austriaca.
3.2. La composizione della Corte consta di un presidente, due vicepresidenti, tredici giudici presidenti di camere di consiglio (Senatspräsidenten) e quarantaquattro giudici ordinari (Hofrat des oberstes Gerichtshofes). I giudici supremi sono formalmente nominati dal Presidente della Repubblica, anche se il compito è spesso delegato al Ministero della Giustizia e sono tratti da una breve lista di candidati.
Questo meccanismo viene utilizzato anche per scegliere il Presidente dell'OGH. Solo i giudici ordinari e non anche i professori universitari o gli avvocati possono essere nominati giudici supremi, benché i giudici possono anche insegnare del mondo accademico.
I giudici sono distribuiti tra dieci camere di consiglio civili (Senate) di cinque membri ciascuna e, nel settore penale, tra cinque camere di consiglio. L'OGH è il vertice della giurisdizione ordinaria (ordinäre Gerichtsbarkeit), e la distribuzione dei giudici tra le Camere di consiglio civili e penali riflette una proporzione simile di casi pendenti davanti alla Corte, dei quali circa il 60% riguarda controversie civili e il resto penali.
3.3. Nel settore civile dell'OGH le udienze pubbliche sono molto rare. In linea di principio, le discussioni pubbliche dei casi non hanno luogo e di regola una volta al mese le camere di consiglio si riuniscono e decidono a porte chiuse in presenza (o talvolta on-line). Al contrario, i collegi giudicanti penali decidono normalmente dopo un'udienza pubblica e la discussione dei ricorsi da parte degli avvocati.
3.4. Esiste presso la Corte una Procura Generale (Generalprokuratur) con competenze per le questioni penali. Si tratta della massima istanza dei pubblici ministeri della Repubblica d'Austria e, insieme ad altre funzioni, fornisce pareri su questioni di diritto utili per le decisioni dell'OGH. Pertanto, la Generalprokuratur agisce di fronte all'OGH non come pubblico ministero, ma come custode della legge ed eventuale stimolo all'evoluzione giurisprudenziale (Judikatur).[10]
3.5. Allorquando è necessario modificare la giurisprudenza su una questione specifica, la composizione della camera di consiglio della Corte Suprema è rafforzata dai presidenti di tutti i Senate. Tuttavia, questo verstärkert Senat si riunisce solo in casi molto rari e per questioni importanti.
3.6. L'agenda della riunione camerale mensile (Sitzung) per ciascun collegio giudicante viene fissata alla fine dell'anno per il successivo dal Senatspräsident, di concerto con tutti i membri della Camera di consiglio.
4. Procedure e Sitzungen des OGH.
4.1. Prima della partecipazione alle Camere di consiglio, ho esaminato i fascicoli e discusso parte dei casi da decidere insieme con il Senatpraesident des 1. Senat des OGH, Dr. Gottfried Musger, e con il giudice relatore della quarta Camera di consiglio civile, Dr. Michael Matkza.
4.2. Le cause civili sono infatti solitamente trattate a porte chiuse con l’eventuale deposito di memorie scritte delle parti, mentre le cause penali sono normalmente decise all’esito di udienze pubbliche e la discussione del caso da parte degli avvocati, tenendo conto delle osservazioni della Generalprokuratur.
4.3. Anteriormente alla seduta, una bozza della proposta di decisione sul caso viene condivisa dal relatore con il Senatpraesident e, quando il caso è calendarizzato, anche con gli altri tre membri del collegio. Se necessario, è possibile indirizzare all'Evidenzbüro una richiesta di ricerca preventiva sulla questione giuridica che dev’essere decisa.
4.4. Il giorno della riunione della camera, una breve presentazione scritta dei punti chiave dei casi (Liste) viene distribuita a tutti i partecipanti alla riunione, compresi i tirocinanti e i giudici dell'Evidenzbüro che hanno preparato le ricerche relative alle questioni in discussione.
In breve, il documento riassume per ogni caso la questione tecnica (Fachsache) da decidere, con l'indicazione delle parti (Parteien), del rimedio richiesto (Wegen, come, ad esempio, un ricorso presentato contro una decisione di una corte d'appello - Revisionsrekurs), della questione controversa (Problem), della soluzione proposta dal relatore (Vorschlag), del parere del presidente sulla proposta del relatore (Bemerkung).
4.5. Il presidente (Vorsitzender) dirige la riunione, dando la parola ai colleghi. Dopo la relazione del giudice incaricato (Vorsteullung), segue la discussione e infine la decisione del collegio dei cinque giudici. Una volta raggiunta la soluzione consensuale sulla questione giuridica, ciascun membro della Camera propone al relatore degli emendamenti al testo della bozza di decisione (Anmerkungen), volti a chiarire la linea di ragionamento o a emendare mancanze linguistiche.
4.6. Quando il contenuto della decisione è stato definito dal collegio e le imperfezioni della bozza sono state corrette, il Vorsitzender firma la stampa cartacea della bozza così come modificata, che diventa il testo originale della sentenza. Ulteriori documenti sul contenuto della decisione sono contestualmente compilati dal giudice relatore al fine di fornire informazioni alla cancelleria utili per la pubblicazione della sentenza.
5. Le decisioni della Corte Suprema.
5.1. Martedì 19 dicembre ho preso parte alla 4. Senat Sitzung, suddivisione della Corte specializzata in concorrenza sleale e diritto commerciale (Fachsenat für Lauterkeitsrecht und gewerblichen) sotto la presidenza del Prof. Dr. Georg Kodek. La Camera di consiglio, in una seduta durata diverse ore, ha deciso ventuno casi pendenti; tra le varie questioni interessanti, una controversia ha riguardato l'uso di un emblema a tre stelle da parte di un'azienda informatica e hi-tech, contestato dalla casa automobilistica tedesca Mercedes come sleale.
5.2. Mercoledì 20 dicembre sono entrato a far parte del 1. Senat civile presieduto dal Senatspräsident Dr. Gottfried Musger, Camera specializzata, tra l'altro, in responsabilità dei pubblici dipendenti e dello Stato (Fachsenat für Amts- und Staatshaftung). Il collegio ha deciso diciotto casi e una delle questioni più delicate ha riguardato la responsabilità medica per mancata informazione preventiva sulle conseguenze di un'operazione chirurgica andata male, un esito che statisticamente - secondo un'ampia letteratura scientifica - si verifica in una serie molto limitata di casi.
5.3. È degno di nota il fatto che ogni Senat della Corte non è mai completamente specializzato, e anzi, come regola generale, il 50% di tutte le cause pendenti davanti alla Corte sono distribuite, quali Rechtsklagen"generiche", tra tutte le Camere. Questa organizzazione del lavoro contribuisce a generare una giurisprudenza piuttosto coerente (eine relativ präzise Judikatur entwickeln), evitando al contempo il rischio di un approccio eccessivamente settoriale alle questioni di diritto (eine Relativierung ist gesucht) che potrebbe avere un impatto sulla professionalità dei giudici.
5.4. Ad esempio, durante la mia visita, entrambi i Senate hanno deciso diversi c.d. "Diesel fälle". I casi riguardano richieste generate da presunti illeciti di case automobilistiche (Porsche, VW, FCA...) che hanno venduto auto con motori diesel apparentemente non conformi alla normativa UE. Tali cause, attualmente pendenti in gran numero, sono solitamente distribuite tra tutti i Senate civili della Corte Suprema.
5.5. L'OGH decide solo su questioni di diritto e, pertanto, la Corte nel pronunciarsi è vincolata ai fatti stabiliti dai tribunali in primo e secondo grado. La Corte Suprema decide sull'accuratezza delle sentenze emesse dai tribunali di merito, evidenzia eventuali invalidità e, in una certa misura, si pronuncia sugli errori procedurali commessi nei procedimenti precedenti (errores in procedendo).
5.6. Un Senat des OGH può in certi casi anche decidere il caso nel merito, confermando o modificando la sentenza impugnata. Può anche annullare la precedente decisione impugnata e incaricare al tribunale regionale o alla corte d'appello di riesaminare la questione. Infine, può respingere il ricorso (Verneinen), chiudendo il caso.
5.7. Ogni giudice della Corte Suprema austriaca è richiesto di redigere 70-80 sentenze all'anno, in media 5-7 sentenze per ogni Sitzung. Per raggiungere questo obiettivo, i giudici si avvalgono di una consistente assistenza da parte di personale specializzato (Mitarbeiter), e sono supportati da giovani giuristi, studenti universitari in stage e dall'Evidenzbüro.
6. Il servizio scientifico dell'OGH (Evidenzbüro - EB).
6.1. Sono grato a Herr Martin Huettenmayr e Herr Daniel Binder, giudici in servizio presso l'Evidenzbüro (EB), i quali sono stati molto efficaci giovedì 21 dicembre nel presentare la portata e le best practices del servizio scientifico della Corte.
6.2. L'Evidenzbüro è composto da venti giudici distaccati presso la Corte Suprema da corti e tribunali di merito, normalmente per un periodo di due anni, a scopo di ricerca scientifica. Tredici di loro sono applicati alle cause civili e gli altri agli affari penali. Questa sproporzione è compensata in materia penale dal ruolo della Procura Generale (General Prokuratur) che, come l'Evidenzbüro per le questioni civili, fornisce pareri utili per le decisioni della Corte sugli specifici casi pendenti.
6.3. Le principali competenze dell'Evidenzbüro des OGH comprendono le attività di ricerca per i giudici, la documentazione e anche la stesura di proposte di decisione: nell’anno tra i dieci Senate civili quasi il 40% di tutte le sentenze emesse è stato oggetto di ricerche preliminari da parte dell'EB con la formulazione di possibili soluzioni sulle questioni giuridiche controverse. Una ricerca non ha mai lo scopo di offrire un quadro sistematico generale su un tema astratto, ma piuttosto è diretto a offrire spunti di decisione specifici sul caso concreto. Così, ad esempio, il documento copre lo sviluppo delle decisioni di Strasburgo solo se sulla questione controversa incide la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.
6.4. Un altro compito dell'EB è quello di leggere tutte le sentenze della Corte per verificare se sono stati commessi errori, di categorizzare tutte le decisioni per la banca dati giudiziaria ufficiale (RIS-Justiz)[11] ed estrarre dai casi più importanti i principi di diritto rilevanti (Rechtssätze). Infatti, dopo che la sentenza è stata firmata su carta dal Vorsitzender, la Cancelleria si occupa dell’eventuale correzione del testo e di inserire la decisione nella banca dati, mentre l'EB lavora alla sua categorizzazione e alla stesura del nuovo Rechtssatz, se la questione giuridica è rilevante.[12]
6.5. Estrapolare i principi del diritto dal testo è un'attività giuridica significativa. Per quanto riguarda lo stile di scrittura delle sentenze della Corte Suprema, la maggior parte dei giudici ritiene spesso non necessario né elegante citare all'interno delle proprie sentenze la parte rilevante di un'altra decisione della Corte. In effetti, nella tipica linea di motivazione, si tende a fare semplice riferimento al numero di un principio di diritto già esistente (Rechtssatznummer) disponibile in RIS-Justiz, senza la sua completa esposizione. La sentenza è quindi per lo più scritta per essere compresa tecnicamente dagli avvocati piuttosto che dalle parti e dai cittadini in generale.
6.6. Tutte le decisioni della banca dati, sia in materia civile che penale, sono anonimizzate manualmente. Per lo più l'anonimizzazione riguarda i nomi delle parti, ma talvolta anche ulteriori dati sensibili all'interno del testo. Quando il giudice relatore redige la sentenza, evidenzia le parti del testo da anonimizzare utilizzando un colore grigio e, dopo la pronuncia della sentenza, l'Evidenzbüro controlla il testo prima che la decisione venga pubblicata dalla cancelleria. L'uso dell'intelligenza artificiale (IA) a questo scopo non è ancora implementato né auspicato in questa fase dell'evoluzione tecnica degli algoritmi disponibili: a causa del sovraccarico di informazioni, si ritiene vi sia il rischio che sfuggano informazioni critiche e, per effetto di una non adeguata anonimizzazione automatica, l’autorevolezza della Corte Suprema potrebbe essere danneggiata.
7. Dispositivi informatici e banca dati ufficiale: il Rechtsinformationssystem (RIS-Justiz).
7.1. L'utilizzo delle tecnologie informatiche nella Corte Suprema austriaca è ampio, soprattutto nel settore civile, dove di solito ogni documento è digitalizzato (Digitalerakt), ma non copre ogni aspetto della procedura.[13] In linea di principio, tutti i nuovi fascicoli civili sono dematerializzati e sono in uso dispositivi di firma digitale. Tuttavia, per la maggior parte delle cause civili è ancora disponibile una copia cartacea del fascicolo e la decisione viene normalmente formalizzata in presenza dei giudici, mediante un testo stampato della sentenza, eventualmente modificato, che viene firmato a mano dal Vorsitzender davanti al Senat.
7.2. Sebbene l'obiettivo sia quello di consentire a tutti i giudici di lavorare direttamente su dispositivi informatici per operare su atti nativi digitali depositati dagli avvocati, non sembra esserci urgenza per celebrare in videoconferenza i processi della Corte, né per un uso esteso della firma digitalizzata delle sentenze da parte dei giudici e della loro pubblicazione elettronica automatica. Quasi tutti i giudici della Corte Suprema risiedono a Vienna, hanno un ufficio all'interno dell'OGH Justizpalast[14] e si riuniscono e decidono in presenza.
7.3. Inoltre, i fascicoli dei procedimenti penale sono solo parzialmente dematerializzati e non esiste un processo penale telematico.
7.4. La maggior parte delle sentenze della Corte Costituzionale (VfGH) sono raccolte nel RIS-Justiz dal 1980, le sentenze delle Corti amministrative supreme (VwGH) dal 1990, le sentenze della Corte suprema (OGH) dal 1991; oltre al testo completo delle sentenze dell’OGH categorizzate, sono disponibili più di 136.500 Rechtssätze.[15] Gradualmente il RIS-Justiz è diventato un enorme database, e ora include in piccole proporzioni anche sentenze di tribunali di merito quando la giurisprudenza è di rilevanza generale, come le decisioni della Corte di Korneburg, competente per l'aeroporto internazionale di Vienna. Ad oggi il sistema non utilizza algoritmi di intelligenza artificiale all’interno della banca dati. Esiste una maschera di ricerca per l'interrogazione e individuazione della sentenza richiesta e i risultati della ricerca permettono di visualizzare le informazioni rilevanti (Norm, disposizione legale, autorità giudiziaria, testo, principio di diritto o Rechtssatz,...) e, se disponibile, la collegata giurisprudenza ritenuta significativa.
7.5. La banca dati è aperta al pubblico ed è gratuita: ogni avvocato e cittadino può accedere al RIS-Justiz, e i database consente di accedere non solo alla versione ufficiale delle sentenze pubblicate delle Corti supreme, ma anche al testo ufficiale di disposizioni giuridiche come ad esempio le leggi federali.
8. Ruolo della Corte amministrativa suprema (Verwaltungsgerichthof - VwGH) vis-à-visl'OGH.
8.1. Herr Dr. Markus Thoma, Senatspräsident des VwGH mi ha ricevuto nel bellissimo palazzo dell'ex Alta Cancelleria di Boemia in Judenplatz. Fino al 2012 in questo edificio aveva sede anche la Corte costituzionale. La particolarità è che il palazzo è stato costruito e ricostruito[16] appositamente per essere al centro dell'amministrazione pubblica e dell'esercizio della giurisdizione amministrativa, una funzione che vi è stata svolta per cinque secoli.
8.2. Per quanto riguarda la composizione, la Corte suprema amministrativa dell'Austria consta di 70 giudici articolati in collegi e camere di consiglio da tre a cinque membri. Ogni giudice è nominato dal Presidente della Repubblica su indicazione del Gabinetto esecutivo,[17] tratto da una lista ristretta. Il Presidente e il Vicepresidente sono nominati direttamente dal Gabinetto esecutivo e il posto chiave di Presidente della Corte Suprema amministrativa dell'Austria è da tempo vacante.
8.3. L'attuale competenza e composizione del VwGH riflette il contenuto della grande riforma amministrativa del 2012 entrata in vigore il 1° gennaio 2014 (Verwaltungsgerichtsbarkeit-Novelle 2012) che ha comportato, tra l'altro, una totale riscrittura del capitolo sulla giustizia amministrativa nella Costituzione federale del 1930 (Bundes-Verfassungsgesetz). Per l’effetto, sono stati eliminati i precedenti livelli di controllo amministrativo e sono stati creati undici nuovi tribunali amministrativi, uno per ogni Land dell'Austria, i quali garantiscono il controllo giurisdizionale delle decisioni delle varie articolazioni amministrative della Federazione anche in materia fiscale.
In questo nuovo quadro giuridico, il VwGH è ora il tribunale amministrativo di ultima istanza ed esamina su importanti questioni di diritto le decisioni dei tribunali amministrativi di prime cure.[18] La creazione di una giurisdizione amministrativa capillare articolata su diversi livelli ha avuto l'obiettivo di soddisfare i requisiti della Convenzione europea sui diritti dell'uomo come interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU.
8.4. Davanti al VwGH l’udienza pubblica (mündliche Verhandlung) è eccezionale e la maggior parte dei casi viene decisa a porte chiuse (Sitzungen) in Camere di consiglio di giudici (Senate). I diritti della difesa vengono esercitati mediante memorie scritte depositate dalle parti.
8.5. Le controversie riguardanti il diritto tributario e il diritto di asilo sono di competenza della Corte amministrativa suprema. Eventuali conflitti di competenza tra giurisdizioni diverse, come la giurisdizione ordinaria vis-à-vis quella amministrativa, sono esaminati e risolti dalla Corte costituzionale (Verfassungsgerichtshof - VfGH).
8.6. La Corte suprema amministrativa dispone di un servizio scientifico simile all'Evidenzbüro des OGH volto a sviluppare l'uniformità della giurisprudenza attraverso Rechtssätze, principi di diritto. Il servizio mette anche in relazione la singola sentenza con la Judikatur precedente ed evidenzia se la nuova sentenza si discosta da essa. Questa attività giuridica è molto importante per capire se la giurisprudenza sulla questione specifica è coerente o meno.
9. Considerazioni conclusive sullo scambio.
La preziosa esperienza acquisita durante lo scambio e i rapporti professionali e cordiali instaurati con i colleghi austriaci sono elementi che contribuiscono a rafforzare la fiducia reciproca tra le Corti Supreme dell'Unione Europea. Sia il capo del Dipartimento relazioni internazionali dell'OGH che il Senatspräsident della Corte amministrativa suprema (VwGH) hanno espresso l'interesse e il desiderio di sviluppare ulteriormente, in un futuro prossimo, relazioni e progetti di formazione con il Segretariato Generale della Corte di Cassazione italiana su temi comuni, come ad esempio l'uso giudiziario dell'IA e le sue sfide.
[1]Il presente contributo è un rapporto sullo scambio presso la Corte Suprema d'Austria, tenutosi a Vienna dal 18 al 22.12.2023 (Besuch beim Obersten Gerichtshot 18. bis. 22.12.2023) nell'ambito del “Network of the Presidents of the Supremes Judicial Courts of the European Union” (Réseau des Présidents des Cours Suprêmes Judiciaires de l'Union Européenne).
[2] E. Lovrek, “Vorwort”, in “Oberster Gerichtshof Tätigkeitsbericht 2022”, p.3, Vienna, 2023.
[3] Si veda la sezione “II. Geschicte des Obersten Gerichtshofs” nel volume “Obertster Gerichtshof. Ein Überblick über das Gericht letzter Instanz in Zivil- und Strafrechtssachen der Republik Österreich”, Vienna, 2017, pp. 16-17
[4] Si veda “The Austrian Judicial System, The Republic of Austria” pubblicazione del Ministero federale della giustizia, ultima edizione, p.14
[5] La Corte Costituzionale austriaca è composta da 14 membri, compresi Presidente e Vice Presidente. Ciascun membro della Corte Costituzionale è nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Governo o del Parlamento (Consiglio Nazionale e Federale), e nessuno dei giudici è attualmente eletto dalle Alte Corti austriache (OGH e VwGH).
[6] Cfr. “The Austrian judicial system”, opera citata nella nota 4, p.32
[7] Si veda la sezione relativa ai “rimedi civili” (Rechtsmittel und Rechtsmittelklagen) in https://www.oesterreich.gv.at, ultimo accesso 5 gennaio 2024
[8] Per riferimenti, si esamini la sezione “A. Stellung und Aufgaben” nella pubblicazione “Obertster Gerichtshof. Ein Überblick“, citata in nota 3, p. 9
[9] Sono previste eccezioni per alcune controversie in materia di diritto di famiglia e di locazione (familien- und mietrechtlichen Streitigkeiten) e in materia di lavoro e diritto sociale (Arbeits- und Sozialrechtssachen), cfr. https://www.oesterreich.gv.at, ultimo accesso 5 gennaio 2024.
[10] Per riferimenti, disponibili anche in lingua inglese, si veda https://www.generalprokuratur.gv.at/en/, ultimo accesso 5 gennaio 2024.
[11] Cfr. il Rechtsinformationsystem, disponibile all'indirizzo htts://ris.bka.gv.at, ultimo accesso 5 gennaio 2024. Il dipartimento ministeriale della digitalizzazione della giustizia è incaricato della manutenzione tecnica del database.
[12] La giurisprudenza antecedente al 1945 è poco documentata. In passato, quando la banca dati non era ancora disponibile, brevi riassunti delle sentenze della Corte venivano scritti su schede cartacee e conservati nel centro di documentazione della Corte. Dopo il 1945 fu ripristinata la giurisdizione della Corte Suprema austriaca, ma tutta la documentazione era già stata bruciata a Lipsia, dove nei primi anni '40 del XX secolo fu trasferita l'intera documentazione dell'OGH, in seguito all'Anschluss del 1938.
[13] Per ulteriore riferimenti, cfr. “The Austrian judicial system”, citata in nota 4, p.39.
[14] Si veda “Der Wiener Justizpalast” pubblicato da Republick Oesterreich, 2023.
[15] L’Evidenzbüro è competente solo per le decisioni della Corte Suprema (OGH).
[16] L'attuale ricostruzione del palazzo risale all'inizio del XVIII secolo ed è considerata un capolavoro dell'architetto barocco Johann Bernhard Fischer von Erlach.
[17] È il Governo dell'Austria, composto dal Cancelliere, dal vice Cancelliere e da tutti i Ministeri.
[18] Si veda la pubblicazione “Österreichischer Verwaltungsgerichtshof – Unabhängigkeit, Rechtskompetenz, Verlässlichkeit“, Vienna, 2022, p.5.
(foto via Wikimedia Commons)
Il 10 giugno 1924 cinque sicari guidati da un certo Amerigo Dumini sequestravano e uccidevano Giacomo Matteotti.
A cento anni da quel tragico evento è giusto e doveroso ricordare un eroe della nostra storia d’Italia.
Giustizia Insieme intende introdurre i contributi che saranno dedicati alla Sua memoria riproducendo in primo luogo, e per intero, il discorso che Egli tenne alla Camera del Deputati il 30 maggio 1924 e che gli costò la vita.
Quel discorso costituisce ancora oggi un inno alla libertà e alla democrazia.
Presidente. Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà.
Giacomo Matteotti. Noi abbiamo avuto da parte della Giunta delle elezioni la proposta di convalida di numerosi colleghi. Nessuno certamente, degli appartenenti a questa Assemblea, all’infuori credo dei componenti la Giunta delle elezioni, saprebbe ridire l’elenco dei nomi letti per la convalida, nessuno, né della Camera né delle tribune della stampa. (Vive interruzioni alla destra e al centro)
Dario Lupi. È passato il tempo in cui si parlava per le tribune!
Giacomo Matteotti. Certo la pubblicità è per voi un’istituzione dello stupidissimo secolo XIX. (Vivi rumori. Interruzioni alla destra e al centro) Comunque, dicevo, in questo momento non esiste da parte dell’Assemblea una conoscenza esatta dell’oggetto sul quale si delibera. Soltanto per quei pochissimi nomi che abbiamo potuto afferrare alla lettura, possiamo immaginare che essi rappresentino una parte della maggioranza. Ora, contro la loro convalida noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: cioè, che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti... (Interruzioni).
Voci al centro: "Ed anche più!"
Giacomo Matteotti. ... cotesta lista non li ha ottenuti, di fatto e liberamente, ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessario (Interruzioni. Proteste) per conquistare, anche secondo la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono stati attribuiti! Potrebbe darsi che i nomi letti dal Presidente: siano di quei capilista che resterebbero eletti anche se, invece del premio di maggioranza, si applicasse la proporzionale pura in ogni circoscrizione. Ma poiché nessuno ha udito i nomi, e non è stata premessa nessuna affermazione generica di tale specie, probabilmente tali tutti non sono, e quindi contestiamo in questo luogo e in tronco la validità della elezione della maggioranza (Rumori vivissimi). Vorrei pregare almeno i colleghi, sulla elezione dei quali oggi si giudica, di astenersi per lo meno dai rumori, se non dal voto. (Vivi commenti - Proteste - Interruzioni alla destra e al centro)
Maurizio Maraviglia. In contestazione non c’è nessuno, diversamente si asterrebbe!
Giacomo Matteotti. Noi contestiamo....
Maurizio Maraviglia. Allora contestate voi!
Giacomo Matteotti. Certo sarebbe Maraviglia se contestasse lei! L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo, ripetuta da tutti gli organi della stampa ufficiale, ripetuta dagli oratori fascisti in tutti i comizi, che le elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso - come ha dichiarato replicatamente - avrebbe mantenuto il potere con la forza, anche se... (Vivaci interruzioni a destra e al centro. Movimenti dell’onorevole Presidente del Consiglio)
Voci a destra: "Sì, sì! Noi abbiamo fatto la guerra!" (Applausi alla destra e al centro).
Giacomo Matteotti. Codesti vostri applausi sono la conferma precisa della fondatezza dei mio ragionamento. Per vostra stessa conferma dunque nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà... (Rumori, proteste e interruzioni a destra) Nessun elettore si è trovato libero di fronte a questo quesito...
Maurizio Maraviglia. Hanno votato otto milioni di italiani!
Giacomo Matteotti. ... se cioè egli approvava o non approvava la politica o, per meglio dire, il regime del Governo fascista. Nessuno si è trovato libero, perché ciascun cittadino sapeva a priori che, se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso. (Rumori e interruzioni a destra)
Una voce a destra: "E i due milioni di voti che hanno preso le minoranze?"
Roberto Farinacci. Potevate fare la rivoluzione!
Maurizio Maraviglia. Sarebbero stati due milioni di eroi!
Giacomo Matteotti. A rinforzare tale proposito del Governo, esiste una milizia armata... (Applausi vivissimi e prolungati a destra e grida di "Viva la milizia")
Voci a destra: "Vi scotta la milizia!"
Giacomo Matteotti. ... esiste una milizia armata... (Interruzioni a destra, rumori prolungati)
Voci: "Basta! Basta!"
Presidente. Onorevole Matteotti, si attenga all’argomento.
Giacomo Matteotti. Onorevole Presidente, forse ella non m’intende; ma io parlo di elezioni. Esiste una milizia armata... (Interruzioni a destra) la quale ha questo fondamentale e dichiarato scopo: di sostenere un determinato Capo del Governo bene indicato e nominato nel Capo del fascismo e non, a differenza dell’Esercito, il Capo dello Stato. (Interruzioni e rumori a destra)
Voci: a destra: "E le guardie rosse?"
Giacomo Matteotti. Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. (Commenti) In aggiunta e in particolare... (Interruzioni) mentre per la legge elettorale la milizia avrebbe dovuto astenersi, essendo in funzione o quando era in funzione, e mentre di fatto in tutta l’Italia specialmente rurale abbiamo constatato in quei giorni la presenza di militi nazionali in gran numero... (Interruzioni, rumori)
Roberto Farinacci. Erano i balilla!
Giacomo Matteotti. È vero, on. Farinacci, in molti luoghi hanno votato anche i balilla! (Approvazioni all’estrema sinistra, rumori a destra e al centro)
Voce al centro: "Hanno votato i disertori per voi!"
Enrico Gonzales. Spirito denaturato e rettificato!
Giacomo Matteotti. Dicevo dunque che, mentre abbiamo visto numerosi di questi militi in ogni città e più ancora nelle campagne (Interruzioni), gli elenchi degli obbligati alla astensione, depositati presso i Comuni, erano ridicolmente ridotti a tre o quattro persone per ogni città, per dare l’illusione dell’osservanza di una legge apertamente violata, conforme lo stesso pensiero espresso dal Presidente del Consiglio che affidava ai militi fascisti la custodia delle cabine. (Rumori) A parte questo argomento del proposito del Governo di reggersi anche con la forza contro il consenso e del fatto di una milizia a disposizione di un partito che impedisce all’inizio e fondamentalmente la libera espressione della sovranità popolare ed elettorale e che invalida in blocco l’ultima elezione in Italia, c’è poi una serie di fatti che successivamente ha viziate e annullate tutte le singole manifestazioni elettorali. (Interruzioni, commenti)
Voci: a destra: "Perché avete paura! Perché scappate!"
Giacomo Matteotti. Forse al Messico si usano fare le elezioni non con le schede, ma col coraggio di fronte alle rivoltelle. (Vivi rumori. Interruzioni, approvazioni all’estrema sinistra) E chiedo scusa al Messico, se non è vero! (Rumori prolungati) I fatti cui accenno si possono riassumere secondo i diversi momenti delle elezioni. La legge elettorale chiede... (Interruzioni, rumori)
Paolo Greco. È ora di finirla! Voi svalorizzate il Parlamento!
Giacomo Matteotti. E allora sciogliete il Parlamento.
Paolo Greco. Voi non rispettate la maggioranza e non avete diritto di essere rispettati.
Giacomo Matteotti. Ciascun partito doveva, secondo la legge elettorale, presentare la propria lista di candidati... (Vivi rumori)
Maurizio Maraviglia. Ma parli sulla proposta dell’onorevole Presutti.
Giacomo Matteotti. Richiami dunque lei all’ordine il Presidente! La presentazione delle liste - dicevo - deve avvenire in ogni circoscrizione mediante un documento notarile a cui vanno apposte dalle trecento alle cinquecento firme. Ebbene, onorevoli colleghi, in sei circoscrizioni su quindici le operazioni notarili che si compiono privatamente nello studio di un notaio, fuori della vista pubblica e di quelle che voi chiamate "provocazioni", sono state impedite con violenza. (Rumori vivissimi)
Giuseppe Bastianini. Questo lo dice lei!
Voci dalla destra: "Non è vero, non è vero."
Giacomo Matteotti. Volete i singoli fatti? Eccoli: ad Iglesias il collega Corsi stava raccogliendo le trecento firme e la sua casa è stata circondata... (Rumori)
Maurizio Maraviglia. Non è vero. Lo inventa lei in questo momento.
Roberto Farinacci. Va a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!
Giacomo Matteotti. Fareste il vostro mestiere!
Emilio Lussu. È la verità, è la verità!...
Giacomo Matteotti. A Melfi... (Rumori vivissimi - Interruzioni) a Melfi è stata impedita la raccolta delle firme con la violenza (Rumori). In Puglia fu bastonato perfino un notaio (Rumori vivissimi)
Gino Aldi-Mai. Ma questo nei ricorsi non c’è! In nessuno dei ricorsi! Ho visto gli atti delle Puglie e in nessun ricorso è accennato il fatto di cui parla l’on. Matteotti.
Roberto Farinacci. Vi faremo cambiare sistema! E dire che sono quelli che vogliono la normalizzazione!
Giacomo Matteotti. A Genova (Rumori vivissimi) i fogli con le firme già raccolte furono portati via dal tavolo su cui erano stati firmati
Voci: "Perché erano falsi."
Giacomo Matteotti. Se erano falsi, dovevate denunciarli ai magistrati!
Roberto Farinacci. Perché non ha fatto i reclami alla Giunta delle elezioni?
Giacomo Matteotti. Ci sono.
Una voce dal banco delle commissioni: "No, non ci sono, li inventa lei."
Presidente. La Giunta delle elezioni dovrebbe dare esempio di compostezza! I componenti della Giunta delle elezioni parleranno dopo. Onorevole Matteotti, continui.
Giacomo Matteotti. Io espongo fatti che non dovrebbero provocare rumori. I fatti o sono veri o li dimostrate falsi. Non c’è offesa, non c’è ingiuria per nessuno in ciò che dico: c’è una descrizione di fatti.
Attilio Teruzzi. Che non esistono!
Giacomo Matteotti. Da parte degli onorevoli componenti della Giunta delle elezioni si protesta che alcuni di questi fatti non sono dedotti o documentati presso la Giunta delle elezioni. Ma voi sapete benissimo come una situazione e un regime di violenza non solo determinino i fatti stessi, ma impediscano spesse volte la denuncia e il reclamo formale. Voi sapete che persone, le quali hanno dato il loro nome per attestare sopra un giornale o in un documento che un fatto era avvenuto, sono state immediatamente percosse e messe quindi nella impossibilità di confermare il fatto stesso. Già nelle elezioni del 1921, quando ottenni da questa Camera l’annullamento per violenze di una prima elezione fascista, molti di coloro che attestarono i fatti davanti alla Giunta delle elezioni, furono chiamati alla sede fascista, furono loro mostrate le copie degli atti esistenti presso la Giunta delle elezioni illecitamente comunicate, facendo ad essi un vero e proprio processo privato perché avevano attestato il vero o firmato i documenti! In seguito al processo fascista essi furono boicottati dal lavoro o percossi. (Rumori, interruzioni)
Voci: a destra: "Lo provi."
Giacomo Matteotti. La stessa Giunta delle elezioni ricevette allora le prove del fatto. Ed è per questo, onorevoli colleghi, che noi spesso siamo costretti a portare in questa Camera l’eco di quelle proteste che altrimenti nel Paese non possono avere alcun’altra voce ed espressione. (Applausi all’estrema sinistra) In sei circoscrizioni, abbiamo detto, le formalità notarili furono impedite colla violenza, e per arrivare in tempo si dovette supplire malamente e come si poté con nuove firme in altre provincie. A Reggio Calabria, per esempio, abbiamo dovuto provvedere con nuove firme per supplire quelle che in Basilicata erano state impedite.
Una voce al banco della giunta: "Dove furono impedite?"
Giacomo Matteotti. A Melfi, a Iglesias, in Puglia... devo ripetere? (Interruzioni, rumori) Presupposto essenziale di ogni elezione è che i candidati, cioè coloro che domandano al suffragio elettorale il voto, possano esporre, in contraddittorio con il programma del Governo, in pubblici comizi o anche in privati locali, le loro opinioni. In Italia, nella massima parte dei luoghi, anzi quasi da per tutto, questo non fu possibile.
Una voce: "Non è vero! Parli l’onorevole Mazzoni!" (Rumori)
Giacomo Matteotti. Su ottomila comuni italiani, e su mille candidati delle minoranze, la possibilità è stata ridotta a un piccolissimo numero di casi, soltanto là dove il partito dominante ha consentito per alcune ragioni particolari o di luogo o di persona. (Interruzioni, rumori) Volete i fatti? La Camera ricorderà l’incidente occorso al collega Gonzales.
Attilio Teruzzi. Noi ci ricordiamo del 1919, quando buttavate gli ufficiali nel Naviglio. lo, per un anno, sono andato a casa con la pena di morte sulla testa!
Giacomo Matteotti. Onorevoli colleghi, se voi volete contrapporci altre elezioni, ebbene io domando la testimonianza di un uomo che siede al banco del Governo, se nessuno possa dichiarare che ci sia stato un solo avversario che non abbia potuto parlare in contraddittorio con me nel 1919.
Voci: "Non è vero! non è vero!"
Aldo Finzi.7 Michele Bianchi! Proprio lei ha impedito di parlare a Michele Bianchi!
Giacomo Matteotti. Lei dice il falso! (Interruzioni, rumori) Il fatto è semplicemente questo, che l’onorevole Michele Bianchi con altri teneva un comizio a Badia Polesine. Alla fine del comizio che essi tennero sono arrivato io e ho domandato la parola in contraddittorio. Essi rifiutarono e se ne andarono e io rimasi a parlare. (Rumori, interruzioni)
Aldo Finzi. Non è così!
Giacomo Matteotti. Porterò i giornali vostri che lo attestano.
Aldo Finzi. Lo domandi all’onorevole Merlin che è più vicino a lei! L’onorevole Merlin cristianamente deporrà.
Giacomo Matteotti. L’on. Merlin ha avuto numerosi contraddittori con me, e nessuno fu impedito e stroncato. Ma lasciamo stare il passato. Non dovevate voi essere i rinnovatori del costume italiano? Non dovevate voi essere coloro che avrebbero portato un nuovo costume morale nelle elezioni? (Rumori) E, signori che mi interrompete, anche qui nell’assemblea? (Rumori a destra)
Attilio Teruzzi. È ora di finirla con queste falsità.
Giacomo Matteotti. L’inizio della campagna elettorale del 1924 avvenne dunque a Genova, con una conferenza privata e per inviti da parte dell’onorevole Gonzales. Orbene, prima ancora che si iniziasse la conferenza, i fascisti invasero la sala e a furia di bastonate impedirono all’oratore di aprire nemmeno la bocca. (Rumori, interruzioni, apostrofi)
Una voce: "Non è vero, non fu impedito niente." (Rumori)
Giacomo Matteotti. Allora rettifico! Se l’onorevole Gonzales dovette passare 8 giorni a letto, vuol dire che si è ferito da solo, non fu bastonato. (Rumori, interruzioni) L’onorevole Gonzales, che è uno studioso di San Francesco, si è forse autoflagellato! (Si ride. Interruzioni) A Napoli doveva parlare... (Rumori vivissimi, scambio di apostrofi fra alcuni deputati che siedono all’estrema sinistra)
Presidente. Onorevoli colleghi, io deploro quello che accade. Prendano posto e non turbino la discussione! Onorevole Matteotti, prosegua, sia breve, e concluda.
Giacomo Matteotti. L’Assemblea deve tenere conto che io debbo parlare per improvvisazione, e che mi limito...
Voci: "Si vede che improvvisa! E dice che porta dei fatti!"
Enrico Gonzales. I fatti non sono improvvisati! (Rumori)
Giacomo Matteotti. Mi limito, dico, alla nuda e cruda esposizione di alcuni fatti. Ma se per tale forma di esposizione domando il compatimento dell’Assemblea... (Rumori) non comprendo come i fatti senza aggettivi e senza ingiurie possano sollevare urla e rumori. Dicevo dunque che ai candidati non fu lasciata nessuna libertà di esporre liberamente il loro pensiero in contraddittorio con quello del Governo fascista e accennavo al fatto dell’onorevole Gonzales, accennavo al fatto dell’onorevole Bentini a Napoli, alla conferenza che doveva tenere il capo dell’opposizione costituzionale, l’onorevole Amendola 8, e che fu impedita... (Oh, oh! - Rumori)
Voci: a destra: "Ma che costituzionale! Sovversivo come voi! Siete d’accordo tutti!"
Giacomo Matteotti. Vuol dire dunque che il termine "sovversivo" ha molta elasticità!
Paolo Greco. Chiedo di parlare sulle affermazioni dell’onorevole Matteotti.
Giacomo Matteotti. L’onorevole Amendola fu impedito di tenere la sua conferenza, per la mobilitazione, documentata, da parte di comandanti di corpi armati, i quali intervennero in città...
Enrico Presutti. Dica bande armate, non corpi armati!
Giacomo Matteotti. Bande armate, le quali impedirono la pubblica e libera conferenza. (Rumori) Del resto, noi ci siamo trovati in queste condizioni: su 100 dei nostri candidati, circa 60 non potevano circolare liberamente nella loro circoscrizione!
Voci: a destra: "Per paura! Per paura!" (Rumori - Commenti)
Roberto Farinacci. Vi abbiamo invitati telegraficamente!
Giacomo Matteotti. Non credevamo che le elezioni dovessero svolgersi proprio come un saggio di resistenza inerme alle violenze fisiche dell’avversario, che è al Governo e dispone di tutte le forze armate! (Rumori) Che non fosse paura, poi, lo dimostra il fatto che, per un contraddittorio, noi chiedemmo che ad esso solo gli avversari fossero presenti, e nessuno dei nostri; perché, altrimenti, voi sapete come è vostro costume dire che "qualcuno di noi ha provocato" e come "in seguito a provocazioni" i fascisti "dovettero" legittimamente ritorcere l’offesa, picchiando su tutta la linea! (Interruzioni)
Voci: a destra: "L’avete studiato bene!"
Orazio Pedrazzi. Come siete pratici di queste cose, voi!
Presidente. Onorevole Pedrazzi!
Giacomo Matteotti. Comunque, ripeto, i candidati erano nella impossibilità di circolare nelle loro circoscrizioni!
Voci: a destra: "Avevano paura!"
Filippo Turati. Paura! Sì, paura! Come nella Sila, quando c’erano i briganti, avevano paura. (Vivi rumori a destra, approvazioni a sinistra)
Una voce: "Lei ha tenuto il contraddittorio con me ed è stato rispettato"
Filippo Turati. Ho avuto la vostra protezione a mia vergogna! (Applausi a sinistra, rumori a destra)
Presidente. Concluda, onorevole Matteotti.. Non provochi incidenti!
Giacomo Matteotti. Io protesto! Se ella crede che non gli altri mi impediscano di parlare, ma che sia io a provocare incidenti, mi seggo e non parlo! (Approvazioni a sinistra - Rumori prolungati)
Presidente. Ha finito? Allora ha facoltà di parlare l’onorevole Rossi...
Giacomo Matteotti. Ma che maniera è questa! Lei deve tutelare il mio diritto di parlare! lo non ho offeso nessuno! Riferisco soltanto dei fatti. Ho diritto di essere rispettato! (Rumori prolungati, Conversazioni)
Antonio Casertano.9 Chiedo di parlare.
Presidente. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente della Giunta delle elezioni. C’è una proposta di rinvio degli atti alla Giunta.
Giacomo Matteotti. Onorevole Presidente!...
Presidente. Onorevole Matteotti, se ella vuole parlare, ha facoltà di continuare, ma prudentemente.
Giacomo Matteotti. Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente!
Presidente. Parli, parli.
Giacomo Matteotti. I candidati non avevano libera circolazione... (Rumori. Interruzioni)
Presidente. Facciano silenzio! Lascino parlare!
Giacomo Matteotti. Non solo non potevano circolare, ma molti di essi non potevano neppure risiedere nelle loro stesse abitazioni, nelle loro stesse città. Alcuno, che rimase al suo posto, ne vide poco dopo le conseguenze. Molti non accettarono la candidatura, perché sapevano che accettare la candidatura voleva dire non aver più lavoro l’indomani o dover abbandonare il proprio paese ed emigrare all’estero. (Commenti)
Una voce: "Erano disoccupati!"
Giacomo Matteotti. No, lavorano tutti, e solo non lavorano, quando voi li boicottate.
Voci a destra: "E quando li boicottate voi?"
Roberto Farinacci. Lasciatelo parlare! Fate il loro giuoco!
Giacomo Matteotti. Uno dei candidati, l’onorevole Piccinini, al quale mando a nome del mio gruppo un saluto... (Rumori)
Voci: "E Berta? Berta!"
Giacomo Matteotti. ... conobbe cosa voleva dire obbedire alla consegna del proprio partito. Fu assassinato nella sua casa, per avere accettata la candidatura nonostante prevedesse quale sarebbe stato per essere il destino suo all’indomani. (Rumori) Ma i candidati - voi avete ragione di urlarmi, onorevoli colleghi - i candidati devono sopportare la sorte della battaglia e devono prendere tutto quello che è nella lotta che oggi imperversa. Lo accenno soltanto, non per domandare nulla, ma perché anche questo è un fatto concorrente a dimostrare come si sono svolte le elezioni. (Approvazioni all’estrema sinistra) Un’altra delle garanzie più importanti per lo svolgimento di una libera elezione era quella della presenza e del controllo dei rappresentanti di ciascuna lista, in ciascun seggio. Voi sapete che, nella massima parte dei casi, sia per disposizione di legge, sia per interferenze di autorità, i seggi - anche in seguito a tutti gli scioglimenti di Consigli comunali imposti dal Governo e dal partito dominante - risultarono composti quasi totalmente di aderenti al partito dominante. Quindi l’unica garanzia possibile, l’ultima garanzia esistente per le minoranze, era quella della presenza del rappresentante di lista al seggio. Orbene, essa venne a mancare. Infatti, nel 90 per cento, e credo in qualche regione fino al 100 per cento dei casi, tutto il seggio era fascista e il rappresentante della lista di minoranza non poté presenziare le operazioni. Dove andò, meno in poche grandi città e in qualche rara provincia, esso subì le violenze che erano minacciate a chiunque avesse osato controllare dentro il seggio la maniera come si votava, la maniera come erano letti e constatati i risultati. Per constatare il fatto, non occorre nuovo reclamo e documento. Basta che la Giunta delle elezioni esamini i verbali di tutte le circoscrizioni, e controlli i registri. Quasi dappertutto le operazioni si sono svolte fuori della presenza di alcun rappresentante di lista. Veniva così a mancare l’unico controllo, l’unica garanzia, sopra la quale si può dire se le elezioni si sono svolte nelle dovute forme e colla dovuta legalità. Noi possiamo riconoscere che, in alcuni luoghi, in alcune poche città e in qualche provincia, il giorno delle elezioni vi è stata una certa libertà. Ma questa concessione limitata della libertà nello spazio e nel tempo - e l’onorevole Farinacci, che è molto aperto, me lo potrebbe ammettere - fu data ad uno scopo evidente: dimostrare, nei centri più controllati dall’opinione pubblica e in quei luoghi nei quali una più densa popolazione avrebbe reagito alla violenza con una evidente astensione controllabile da parte di tutti, che una certa libertà c’è stata. Ma, strana coincidenza, proprio in quei luoghi dove fu concessa a scopo dimostrativo quella libertà, le minoranze raccolsero una tale abbondanza di suffragi, da superare la maggioranza - con questa conseguenza però, che la violenza, che non si era avuta prima delle elezioni, si ebbe dopo le elezioni. E noi ricordiamo quello che è avvenuto specialmente nel Milanese e nel Genovesato ed in parecchi altri luoghi, dove le elezioni diedero risultati soddisfacenti in confronto alla lista fascista. Si ebbero distruzioni di giornali, devastazioni di locali, bastonature alle persone. Distruzioni che hanno portato milioni di danni... (Vivissimi rumori al centro e a destra)
Una voce, a destra: "Ricordatevi delle devastazioni dei comunisti!"
Giacomo Matteotti. Onorevoli colleghi, ad un comunista potrebbe essere lecito, secondo voi, di distruggere la ricchezza nazionale, ma non ai nazionalisti, né ai fascisti come vi vantate voi! Si sono avuti, dicevo, danni per parecchi milioni, tanto che persino un alto personaggio, che ha residenza in Roma, ha dovuto accorgersene, mandando la sua adeguata protesta e il soccorso economico. In che modo si votava? La votazione avvenne in tre maniere: l’Italia è una, ma ha ancora diversi costumi. Nella valle del Po, in Toscana e in altre regioni che furono citate all’ordine del giorno dal Presidente del Consiglio per l’atto di fedeltà che diedero al Governo fascista, e nelle quali i contadini erano stati prima organizzati dal partito socialista, o dal partito popolare, gli elettori votavano sotto controllo del partito fascista con la "regola del tre". Ciò fu dichiarato e apertamente insegnato persino da un prefetto, dal prefetto di Bologna: i fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri o tre nomi, secondo i luoghi (Interruzioni), variamente alternati in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto. In moltissime provincie, a cominciare dalla mia, dalla provincia di Rovigo, questo metodo risultò eccellente.
Aldo Finzi. Evidentemente lei non c’era! Questo metodo non fu usato!
Giacomo Matteotti. Onorevole Finzi, sono lieto che, con la sua negazione, ella venga implicitamente a deplorare il metodo che è stato usato.
Aldo Finzi. Lo provi.
Giacomo Matteotti. In queste regioni tutti gli elettori...
Francesco Ciarlantini. Lei ha un trattato, perché non lo pubblica?
Giacomo Matteotti. Lo pubblicherò, quando mi si assicurerà che le tipografie del Regno sono indipendenti e sicure (Vivissimi rumori al centro e a destra); perché, come tutti sanno, anche durante le elezioni, i nostri opuscoli furono sequestrati, i giornali invasi, le tipografie devastate o diffidate di pubblicare le nostre cose. (Rumori)
Voci: "No! No!"
Giacomo Matteotti. Nella massima parte dei casi però non vi fu bisogno delle sanzioni, perché i poveri contadini sapevano inutile ogni resistenza e dovevano subire la legge del più forte, la legge del padrone, votando, per tranquillità della famiglia, la terna assegnata a ciascuno dal dirigente locale del Sindacato fascista o dal fascio. (Vivi rumori interruzioni)
Giacono Suardo. L’onorevole Matteotti non insulta me rappresentante: insulta il popolo italiano ed io, per la mia dignità, esco dall’Aula. (Rumori - Commenti) La mia città in ginocchio ha inneggiato al Duce Mussolini, sfido l’onorevole Matteotti a provare le sue affermazioni. Per la mia dignità di soldato, abbandono quest’Aula. (Applausi, commenti)
Attilio Teruzzi. L’onorevole Suardo è medaglia d’oro! Si vergogni, on. Matteotti. (Rumori all’estrema sinistra)
Presidente. Facciano silenzio! Onorevole Matteotti, concluda!
Giacomo Matteotti. Io posso documentare e far nomi. In altri luoghi invece furono incettati i certificati elettorali, metodo che in realtà era stato usato in qualche piccola circoscrizione anche nell’Italia prefascista, ma che dall’Italia fascista ha avuto l’onore di essere esteso a larghissime zone del meridionale; incetta di certificati, per la quale, essendosi determinata una larga astensione degli elettori che non si ritenevano liberi di esprimere il loro pensiero, i certificati furono raccolti e affidati a gruppi di individui, i quali si recavano alle sezioni elettorali per votare con diverso nome, fino al punto che certuni votarono dieci o venti volte e che giovani di venti anni si presentarono ai seggi e votarono a nome di qualcheduno che aveva compiuto i 60 anni. (Commenti) Si trovarono solo in qualche seggio pochi, ma autorevoli magistrati, che, avendo rilevato il fatto, riuscirono ad impedirlo.
Edoardo Torre. Basta, la finisca! (Rumori, commenti) Che cosa stiamo a fare qui? Dobbiamo tollerare che ci insulti? (Rumori - Alcuni deputati scendono nell’emiciclo) Per voi ci vuole il domicilio coatto e non il Parlamento! (Commenti - Rumori)
Voci: "Vada in Russia!"
Presidente. Facciano silenzio! E lei, onorevole Matteotti, concluda!
Giacomo Matteotti. Coloro che ebbero la ventura di votare e di raggiungere le cabine, ebbero, dentro le cabine, in moltissimi Comuni, specialmente della campagna, la visita di coloro che erano incaricati di controllare i loro voti. Se la Giunta delle elezioni volesse aprire i plichi e verificare i cumuli di schede che sono state votate, potrebbe trovare che molti voti di preferenza sono stati scritti sulle schede tutti dalla stessa mano, così come altri voti di lista furono cancellati, o addirittura letti al contrario. Non voglio dilungarmi a descrivere i molti altri sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare. Il fatto è che solo una piccola minoranza di cittadini ha potuto esprimere liberamente il suo voto: il più delle volte, quasi esclusivamente coloro che non potevano essere sospettati di essere socialisti. I nostri furono impediti dalla violenza; mentre riuscirono più facilmente a votare per noi persone nuove e indipendenti, le quali, non essendo credute socialiste, si sono sottratte al controllo e hanno esercitato il loro diritto liberamente. A queste nuove forze che manifestano la reazione della nuova Italia contro l’oppressione del nuovo regime, noi mandiamo il nostro ringraziamento. (Applausi all’estrema sinistra. Rumori dalle altre parti della Camera) Per tutte queste ragioni, e per le altre che di fronte alle vostre rumorose sollecitazioni rinunzio a svolgere, ma che voi ben conoscete perché ciascuno di voi ne è stato testimonio per lo meno... (Rumori) per queste ragioni noi domandiamo l’annullamento in blocco della elezione di maggioranza.
Voci a destra: "Accettiamo" (Vivi applausi a destra e al centro)
Giacomo Matteotti. [...] Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo; altrimenti voi sì, veramente, rovinate quella che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. (Interruzioni a destra) Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni. (Applausi all’estrema sinistra - Vivi rumori)
Sommario: 1. Il fatto di reato e il contesto in cui è maturato. 2. Un paio di brevi (ma necessarie) considerazioni preliminari. 3. Le indagini compiute nell’immediatezza del fatto e l’apertura del procedimento penale. Il primo atto di depistaggio e la chiusura delle indagini. 4. La riapertura del procedimento e l’arresto di Volpi e Zaccagnini. L’indagine si arena fino all’amnistia. 5. Alcune brevi considerazioni a margine del procedimento del 1924-25. 6. Dopo la caduta del fascismo: la riapertura del fascicolo venti anni dopo. E la scoperta ex post di un altro depistaggio. 7. Conclusioni.
1. Il fatto di reato e il contesto in cui è maturato.
Grazie al rapporto di collaborazione di recente instaurato tra la nostra rivista e l’Archivio di Stato di Roma, ho avuto la possibilità di consultare il fascicolo dell’istruttoria aperta in seguito all’aggressione subìta da Giovanni Amendola nel dicembre del 1923 ad opera di un gruppo di squadristi.
Come noto, sin dall’inizio il fascismo si caratterizzò per l’uso sistematico della violenza nei confronti degli oppositori politici e di chiunque non aderisse al suo programma di distruzione della democrazia; nella fase successiva alla marcia su Roma dell’ottobre 1922 e all’assunzione da parte di Mussolini dell’incarico di Primo Ministro i suoi esponenti, lungi dall’assumere una posa più istituzionale e ripudiare la violenza, attraverso le milizie fasciste intensificarono gli attentati all’incolumità fisica di giornalisti, politici, sindacalisti per intimidire con brutali pestaggi o eliminare assassinandoli molti di coloro che si opponevano all’instaurazione del regime.
Giovanni Amendola, intellettuale, giornalista ed esponente politico di primo piano del morente agone parlamentare[1], era dunque tra i naturali bersagli delle spedizioni intimidatorie pianificate dagli alti ranghi del Fascio ed eseguite da militanti scelti tra quelli di indole particolarmente violenta e spesso pregiudicati per reati comuni.
In questo contesto si inserisce il fatto di reato da cui scaturisce la vicenda processuale in esame: la mattina del 26 dicembre del 1923, mentre camminava a piedi presso Porta Pinciana a Roma, il deputato fu avvicinato da un gruppo di uomini che, dopo averlo inseguito, lo raggiunsero alle spalle e lo percossero con bastoni, calci e pugni fino a provocargli lesioni in varie parti del corpo; uno di loro, postosi di fronte (e sarà dunque l’unico ad essere riconosciuto dalla vittima in Albino Volpi, che pochi mesi dopo infliggerà la coltellata al costato che ucciderà Giacomo Matteotti), lo colpì al volto e al capo con diverse bastonate anche mentre era a terra.
Infine, gli aggressori si allontanarono a bordo del taxi dal quale cui erano discesi per il pestaggio; l’autista li aveva infatti attesi sul ciglio della strada, a pochi metri dal luogo del fatto.
Ad aumentare la valenza intimidatoria del gesto, durante l’azione delittuosa uno dei partecipanti aveva esploso un colpo di pistola in aria.
Nonostante la violenza del fatto appena descritto, si tratta – da un punto di vista strettamente processuale – di un “reato minore”, oggi rubricabile come “lesioni personali lievi” quanto alle conseguenze sulla salute della persona offesa (25 giorni di prognosi), senza tenere conto ovviamente delle circostanze aggravanti ictu oculi evincibili (uso di armi ed oggetti atti ad offendere, più persone riunite, motivi abietti ed altre ancora).
Né il giudizio cambia se si adottano i parametri dell’epoca: anzi, come detto, pestaggi del genere erano all’epoca all’ordine del giorno, e non pochi esponenti dell’antifascismo hanno incontrato la morte per mano dei fascisti nei primi, cruciali, anni del Ventennio.
Lo stesso Amendola aveva subìto altre aggressioni prima di quella cui ci occupiamo, ed altre ne subirà (l’ultima delle quali, come si dirà in prosieguo, ne causerà indirettamente la morte nel 1926).
Tuttavia, il caso in esame ha una valenza simbolica fuori dal comune, sia per la caratura politica e intellettuale della vittima che per il peso politico del gesto rapportato al momento, tanto da avere rappresentato un vero e proprio “salto di qualità”, preludio alla fase più cruenta di instaurazione del regime che priverà l’Italia di libertà per più di venti anni.
In merito, basti riflettere sul fatto che il nascente regime dittatoriale, non ancora cristallizzato come fatto irreversibile nella coscienza collettiva, stava affrontando la pressione derivante dall’abbandono del Parlamento da parte delle forze politiche di ispirazione democratica, avvenuto per protesta contro la decisione del Re di affidare il Governo all’autore della Marcia su Roma.
L’iniziativa politica, nota come “secessione dell’Aventino”, avrebbe potuto indurre il Re a tornare sui suoi passi e revocare l’incarico di Primo Ministro al giovane Mussolini per ripristinare la legalità democratica. Giovanni Amendola era l’ispiratore e la figura più carismatica degli Aventiniani e quindi l’ostacolo più temibile, in quel momento, per la realizzazione del piano dittatoriale di Mussolini; in questo contesto va cercato il movente del delitto oggetto del presente articolo.
Va però rilevato che una ricostruzione in chiave storico-politica del delitto poco aggiungerebbe alle numerose già esistenti e sarebbe forse eccentrica rispetto al target e agli obiettivi di “Giustizia Insieme”.
Ho scelto dunque di consultare l’incartamento con lo sguardo tecnico del giudice penale, esaminando – con le lenti dell’attuale codice di rito – il procedimento aperto in conseguenza del reato per offrire una riflessione ancorata a dati strettamente giuridici e processuali.
Una sorta di cold case, la immaginaria riassegnazione del fascicolo ad un magistrato italiano cento anni dopo il fatto, per una valutazione il più possibile asettica del materiale probatorio raccolto e dei suoi esiti processuali, simile alla valutazione critica del giudice di appello sul fascicolo di primo grado.
2. Un paio di brevi (ma necessarie) considerazioni preliminari.
Prima di iniziare l’analisi del merito della vicenda, due considerazioni di carattere metodologico.
La prima è che l’esame del fascicolo si è dimostrato alquanto impervio a causa della vetustà dell’incartamento, non tanto per lo stato di conservazione – che, anzi, si presenta eccellente – ma per la circostanza che la quasi totalità delle centinaia di pagine che lo compongono è scritta a mano, con inchiostro in alcuni punti schiarito dal tempo e una calligrafia che, per quanto esteticamente pregevole, è quasi sempre di non agevole decrittazione, soprattutto agli occhi di chi ha passato quasi tutta la sua vita a leggere i rassicuranti e sempre identici caratteri Times New Roman 12 di uno schermo di computer.
Non può negarsi, per altro verso, che la suggestione del verbale manoscritto dell’ interrogatorio di Albino Volpi (come si è detto, assassino conclamato di Matteotti) o delle missive con cui lo stesso Giovanni Amendola sollecitava i magistrati dell’epoca ad uscire dalle secche in cui l’istruttoria periodicamente finiva è incomparabile e restituisce il privilegio di trovarsi a tu per tu con un passato che sembra vivissimo, tangibile com’è, in un certo modo anche fisicamente.
La seconda considerazione è di carattere più strettamente tecnico-processuale.
I fascicoli odierni sono caratterizzati dal naturale dipanarsi di una sorta di filo invisibile – ma ben riconoscibile agli occhi di un tecnico - che lega un atto all’altro: alla notizia di reato seguono le deleghe di indagini con cui il Pubblico Ministero dà contezza, nel conferire direttive alla Polizia Giudiziaria, degli atti da compiere e (spesso) del motivo per cui essi vanno compiuti, che trae origine a sua volta da un atto presente nel fascicolo (ad esempio: “con riferimento alla vostra informativa del 12 aprile 2023, da cui emerge la possibile presenza sul luogo del delitto di Tizio, si delega l’escussione del medesimo a sommarie informazioni affinché riferisca quanto a sua conoscenza”); le stesse informative di reato (ed i seguiti) danno conto della scaturigine degli atti compiuti (ad esempio: “in data odierna si presentava in caserma Caio il quale rendeva le seguenti spontanee dichiarazioni”).
In questo modo è possibile ricostruire, momento per momento, una sorta di filo che cuce insieme le indagini, e la riconoscibilità di questo ordito è garanzia del corretto svolgimento delle stesse.
Nel procedimento esaminato questo filo non è sempre agevolmente rinvenibile: si susseguono ad esempio verbali di ricognizione di persona senza che sia dato conoscere su che base siano stati scelti i soggetti da sottoporre all’atto; compaiono verbali di dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria di soggetti senza che sia esplicitato se si siano spontaneamente presentati o siano stati convocati (e per quale motivo).
Probabilmente ciò è dovuto alla differente ed ancora embrionale cultura della motivazione, quale necessità di ricostruzione del percorso logico-giuridico seguito dal magistrato (anche) inquirente, che si è affermata nel nostro ordinamento in tempi più recenti di quelli oggetto del nostro esame.
Queste caratteristiche, unite all’assenza di molte regole “moderne” di gestione del fascicolo (quale, a quanto si evince, l’obbligo di immediata iscrizione come indagati di tutti i soggetti raggiunti da elementi di colpevolezza) hanno reso il viaggio nell’incartamento a tratti accidentato.
3. Le indagini compiute nell’immediatezza del fatto e l’apertura del procedimento penale. Il primo atto di depistaggio e la chiusura delle indagini.
La dinamica del fatto di reato, come descritta nel paragrafo iniziale, non presenta - né ha presentato all’epoca - alcun problema di ricostruzione.
Alla deposizione della persona offesa fanno infatti da riscontro i testimoni oculari, numerosi dato che l’aggressione è avvenuta in pieno giorno un una strada centrale della capitale. Diversi di loro sono stati tempestivamente escussi, sicché non vi sono zone d’ombra su cosa sia accaduto quella mattina di un Santo Stefano di un secolo fa: un’aggressione compiuta con bastoni e una rivoltella da parte di almeno cinque persone, giunte a bordo di un taxi ed allontanatesi dopo l’azione con il medesimo mezzo, rimasto ad attenderli sul luogo del delitto.
Le indagini si sono dunque concentrate sin dalle prime fasi esclusivamente sull’individuazione degli autori, che avrebbe portato con sé inevitabilmente il disvelamento del movente (per quanto questo appariva facilmente intuibile, date le caratteristiche dell’azione, la personalità della vittima ed il contesto di cui si è detto nel primo paragrafo).
Anche da questo punto di vista, l’istruttoria sembrava partire con il piede giusto perché uno dei partecipanti all’azione era immediatamente individuato: un testimone forniva infatti la targa dell’autovettura utilizzata dagli autori delle lesioni (un taxi, come si è detto), da cui si risaliva all’autista, lo chaffeur Fausto Zaccagnini.
Neanche il tempo di registrare questo primo elemento come punto di partenza dell’indagine (con la logica iscrizione del soggetto individuato come indiziato di reato) che la sua valenza veniva però neutralizzata dall’intervento di un fattore esterno: nelle ore successive all’aggressione la polizia acquisiva le dichiarazioni di Mario Candelori, Comandante della 112 Milizia.
Questi riferiva che Zaccagnini, appena dopo il fatto, si era recato nella sede della Milizia per parlare con lui e gli aveva raccontato di essere stato avvicinato da alcuni uomini sconosciuti che lo avevano costretto ad accompagnarli in un luogo e ad attenderli; che aveva assistito all’aggressione di Amendola dopo che gli occupanti erano scesi (tutti tranne uno, rimasto a bordo ad assicurarsi che non si allontanasse); che gli aggressori erano risaliti in macchina e uno di loro, impugnando una rivoltella, gli aveva ingiunto di allontanarsi velocemente dal posto e darsi alla fuga.
Lo stesso Zaccagnini, escusso direttamente subito dopo Candelori, riferiva dichiarazioni di analogo tenore.
Sulla scorta di queste dichiarazioni, di “provvidenziale” tempestività, Zaccagnini venne ritenuto strumento incolpevole dell’azione delittuosa e non correo della stessa.
Il fascicolo fu dunque iscritto direttamente contro ignoti per avere aggredito l’onorevole Giovanni Amendola provocandogli lesioni e per avere costretto Fausto Zaccagnini ad accompagnare gli autori del primo reato.
Il provvedimento si presenta apparentemente incensurabile, alla luce delle acquisizioni fino a quel momento raccolte, visto che non c’erano elementi per dubitare della veridicità delle dichiarazioni del Candelori.
A ben vedere, però, non può non osservarsi che la dichiarazione dell’autista di non avere visto in volto (perché troppo spaventato) nessuno dei soggetti con cui aveva condiviso un lungo periodo a stretto contatto nell’autovettura e di cui aveva assistito interamente al pestaggio, seduto comodamente al suo posto di guida e in condizioni ottimali di visibilità, avrebbe forse meritato un approfondimento investigativo maggiore.
Sul giudizio di attendibilità di quello che avrebbe potuto essere considerato un sospetto di correità ha pesato indubbiamente il “peso politico” del Candelori, che si è presentato a fare da fideiussore dell’autista, facendo valere tutto il carisma della carica rivestita di Comandante della Milizia.
Agli occhi di un magistrato attuale non può peraltro sfuggire che un alto esponente del fascismo sembra la figura meno opportuna per agevolare la serena ed imparziale valutazione di un fatto di reato che già all’epoca non poteva non apparire di matrice fascista.
Di fatto, questo primo atto – precedente addirittura, come si è detto, la trasmissione della notizia di reato alla Procura - porrà una pesante ipoteca sulla possibilità di giungere ad un esito positivo delle indagini, privandole di un importante e robusto elemento indiziario che col senno di poi avrebbe potuto essere decisivo.
La certezza che l’indagine sia stata, nei suoi primi vagiti, indirizzata verso una lenta ed inevitabile morte trae ulteriore vigore dalla circostanza, che emerge in tutta evidenza dall’esame delle carte processuali, che il Candelori è il mandante e l’organizzatore della spedizione punitiva in danno dell’onorevole Amendola.
Come meglio si dirà di qui a breve, da plurime e convergenti fonti emerge infatti la prova che è stato proprio lui ad avere convinto Zaccagnini a prender parte all’azione delittuosa, assicurandogli espressamente che in caso di problemi con le forze dell’ordine sarebbe intervenuto a coprirlo, promessa effettivamente mantenuta proprio con la falsa deposizione sopra descritta: in altri termini, l’indagine nasce viziata da un consapevole depistaggio.
Non sorprende dunque che, poco dopo la sua apertura, il procedimento penale si sia chiuso con un provvedimento di non doversi procedere per “essere rimasti ignoti gli autori del fatto”.
4. La riapertura del procedimento e l’arresto di Volpi e Zaccagnini. L’indagine si arena fino all’amnistia.
Poche settimane dopo, il 27 giugno del 1924, il procedimento viene riaperto.
L’atto di impulso che provoca la riapertura delle indagini è uno scritto anonimo, in cui si indicano i responsabili dell’aggressione Misuri, dell’aggressione Amendola e di un non meglio precisato omicidio di Tivoli.
L’anonimo viene unito al procedimento che riprende vita, dotato di nuova copertina che recita “nuove indagini relative all’aggressione in danno di Amendola”.
Allo sguardo di un giurista moderno tale circostanza appare singolare: l’articolo 240 del codice di procedura penale attuale, come noto, prescrive il divieto di acquisizione e la radicale inutilizzabilità di questo tipo di scritti nel nostro processo.
Tuttavia, vale la pena di ricordare che la regola è una conquista piuttosto recente nel nostro ordinamento[2] e nessuna preclusione in tale senso esisteva all’epoca dei fatti.
Lo scritto, peraltro, è ricco di dettagli interessanti, poiché indica chiaramente mandante ed esecutori: “l’ordine fu impartito da De Bono. In esecuzione fu organizzato dal console Mario Candelori (che però non vi prese parte personalmente) della caserma Magnana Poli e compiuto da elementi della 112 Legione. Consta allo scrivente che vi presero parte tra gli altri le seguenti persone: Bernacchia, milite della 112 legione, Falcinelli. Sarà facilissimo constatare la loro partecipazione: basterà metterli a confronto con le persone che assistettero al fatto”.
L’autore mostra di conoscere bene la catena di comando che ha ideato il reato, poichè indica con chiarezza il suo vertice nel Generale Emilio De Bono, uno degli uomini più in vista del ventennio, quadrumviro della marcia su Roma, al momento del fatto Capo della Polizia e della Milizia Fascista e Senatore del Regno.
In pratica, si attribuisce l’ideazione dell’aggressione in danno di uno degli esponenti politici più importanti dell’antifascismo al braccio destro di Benito Mussolini e suo plenipotenziario per le questioni di “ordine pubblico”.
Come organizzatore della fase esecutiva compare il nome di Mario Candelori, del cui ruolo di depistaggio si è detto.
Meno precisa l’indicazione degli esecutori: ne vengono indicati solo due, Bernacchia e Falcinelli, con l’importante precisazione che si tratta di appartenenti alla Milizia, capitanata dallo stesso Candelori.
La decisione di Zaccagnini di recarsi, immediatamente dopo il fatto, direttamente nella sede della predetta milizia a conferire con Candelori (circostanza pacificamente ammessa dai due) assume dunque un preciso significato: l’auto con gli aggressori è andata a fare rapporto immediato sull’accaduto all’organizzatore del piano delittuoso, che ha avuto modo di pianificare la reazione all’eventualità (altamente probabile) che qualcuno avesse preso la targa del mezzo (come effettivamente avvenuto).
Dall’anonimo scaturiva un atto di delega per riferire notizie su tre dei quattro soggetti menzionati (Candelori, Bernacchia e Falcinelli: De Bono viene semplicemente ignorato).
La Polizia rispondeva con una stringata informativa il 9 luglio, contenenti brevi – ed inutili - indicazioni biografiche dei soggetti, cui seguiva il successivo 12 luglio diversa informativa della Questura con cui si comunicava laconicamente che “questo Ufficio non ha elementi per ritenere che l’aggressione all’On Amendola sia stata organizzata da Candelori e compiuta da elementi della 112 Legione”.
In pratica, un invito al Pubblico Ministero a non indagare oltre.
La forza propulsiva dell’anonimo si esauriva dunque in un nulla di fatto.
Più difficile è stato ignorare un ulteriore atto di impulso che compare nel fascicolo, perché trattasi di una denuncia-querela formalmente presentata dall’onorevole Amendola il 31 luglio del 1924.
Nel corso della stessa la persona offesa, oltre a confermare le dichiarazioni rese nell’immediatezza dei fatti, esprimeva la sua convinzione che Zaccagnini fosse pienamente coinvolto nel delitto e non strumento inconsapevole.
In particolare, riferiva di avere saputo da fonte non specificata che Zaccagnini si sarebbe vantato con un suo collega di avere partecipato all’aggressione in suo danno. Inoltre, coraggiosamente, sottolineava e faceva mettere a verbale che trovava significativo che l’autista Zaccagnini fosse andato a costituirsi in una caserma della milizia fascista dopo un’aggressione fascista.
Infine, aggiungeva di avere riconosciuto l’aggressore che gli si era parato di fronte in un paio di effigi fotografiche comparse sul giornale di Albino Volpi, nel frattempo arrestato per l’omicidio di Giacomo Matteotti.
Si tratta di elementi impossibili da ignorare e che provocavano la riapertura dell’istruttoria, con l’iscrizione del procedimento a carico di Volpi e Zaccagnini in concorso con ignoti.
Il 7 agosto Amendola veniva chiamato ad effettuare una ricognizione di persona, nel corso della quale riconosceva con certezza Albino Volpi come l’uomo che gli si era parato davanti e lo aveva colpito al volto e al corpo.
Il 3 settembre Volpi, già detenuto per altra causa (il già menzionato omicidio Matteotti) venne arrestato anche per il pestaggio in danno di Amendola.
Le indagini proseguirono con l’escussione, avvenuta il 24 agosto, del Cavalier Pennetta, funzionario di polizia titolare delle indagini, da cui si apprendeva che l’auto con a bordo gli aggressori era stata vista correre a velocità sostenuta – subito dopo l’aggressione - da due vigili che, insospettitisi, le avevano intimato l’alt senza ottenere risposta.
È evidente che tale comportamento mal si concilia con il racconto di Zaccagnini di essere stato costretto ad allontanarsi dal luogo del delitto sotto minaccia, perché se così fosse stato la vista di due pubblici ufficiali avrebbe dovuto essere considerata come salvezza ai suoi occhi e non come un pericolo da fuggire.
Emerge poi che un certo Zara era stato aggredito da Zaccagnini, poche settimane prima del fatto in esame, nel corso di una spedizione punitiva di carattere fascista: l’autista appariva sempre meno credibile nel ruolo di vittima attribuitogli dal Candelori (sul quale peraltro si continuava a non muovere carta, nonostante le plurime evidenze).
Sulla scorta di questi elementi, cui si aggiungeva un verbale di sopralluogo ed una planimetria dei fatti che evidentemente dimostravano ancora di più l’inverosimiglianza della ricostruzione difensiva di Zaccagnini, anche quest’ultimo veniva tratto in arresto il 9 settembre del 1924.
Nel mandato di cattura, dal contenuto stringatissimo e pressocché privo di motivazione come all’epoca usava, si faceva riferimento alle “gravissime responsabilità emerse nel sopralluogo di ieri”.
Quanto agli altri aggressori, ogni ulteriore atto acquisito era destinato a non sortire alcun effetto.
In particolare, il 28 agosto si presentava spontaneamente Luigi Amendola, lontano parente della vittima, per riferire di avere appreso che gli aggressori dell’onorevole suo congiunto erano Bernacchia e Onorari.
Pur essendo il Bernacchia tra i soggetti già indicati dall’anonimo menzionati in principio di questo paragrafo, tale ulteriore elemento a suo carico venne semplicemente ignorato, così come un successivo anonimo del 10 settembre che indicava tra gli aggressori tale Falcinelli.
Null’altro si registra nelle carte processuali, l’indagine sembra fermarsi del tutto, tanto che il 18 dicembre Zaccagnini viene scarcerato per decorrenza dei termini.
Un nuovo tentativo di contrastare l’entropia da cui sembra affetto il fascicolo fino allo stato di immobilità delle indagini arrivava ancora una volta da Giovanni Amendola, che il 25 maggio del 1925 inviava in Procura una missiva nella quale riferiva di avere appreso che del gruppo degli aggressori faceva parte un nuovo soggetto, Vico Perrone, che avrebbe confidato a un giornalista, oltre al suo ruolo di esecutore insieme a tali Falchetti e Mercuri, che i mandanti erano Candelori e De Bono.
Ma anche questa nuova sollecitazione – che come si vedrà sarebbe stata di fondamentale importanza, anche se lo stesso Amendola non era in grado di apprezzarne appieno le potenzialità - era ignorata dal magistrato inquirente e l’inchiesta non registrava altre attività.
Nel frattempo provvedeva il Governo fascista ad emanare un’amnistia che cancellava con un tratto di penna tutti i reati “compiuti per motivi politici”, ivi compresi ovviamente i pestaggi e le aggressioni agli antifascisti.
Il 5 agosto del 1925 il Pubblico Ministero chiedeva conseguentemente non doversi procedere nei confronti di Volpi e Zaccagnini “poiché il reato è stato evidentemente determinato da movente politico” e quindi estinto per amnistia.
Pochi giorni prima, il 25 luglio, Giovanni Amendola era stato oggetto di una nuova, violentissima aggressione a Montecatini nel corso della quale riporterà ferite e lesioni che sono ritenute causa diretta del suo decesso, avvenuto alcuni mesi dopo in Francia, dove si era rifugiato dopo aver constatato l’impossibilità di continuare la propria attività politica e giornalistica nonché, si immagina, di avere giustizia per i plurimi atti di violenza subìti.
Tra le cause del trasferimento in Francia va annoverata altresì l’esigenza di curarsi, visto che in Italia gli sarebbe di fatto stato impossibile; nonostante le cure, Amendola morirà in Francia nel 1926 tra atroci sofferenze, a soli 42 anni.
5. Alcune brevi considerazioni a margine del procedimento del 1924-25.
Come si è visto, l’indagine è stata pesantemente condizionata da un evidente depistaggio prima ancora che la notizia di reato potesse giungere sulla scrivania del magistrato inquirente, ad opera di quel Candelori che - per come emerge dai successivi sviluppi dell’inchiesta – deve ritenersi l’organizzatore dell’azione delittuosa.
In poco tempo, il fascicolo è stato dunque inviato in archivio, esito che non stupisce dati i tempi e il contesto in cui il reato è maturato.
Assai meno scontato è invece il successivo percorso del procedimento, che ha ripreso linfa vitale non tanto in conseguenza dell’acquisizione di un anonimo che – come si è potuto constatare dalla lettura delle carte – era destinato ad essere facilmente neutralizzato con una delega solo formale (acquisite le informazioni nei confronti dei due presunti esecutori ed appurato che trattasi di soggetti di pessima condotta, il pubblico ministero si acquieta), quanto per l’iniziativa dello stesso Amendola, dato che – anche visto a distanza di un secolo – sembra aver sparigliato le carte.
Se la spedizione punitiva nei confronti dell’autorevole esponente dell’antifascismo aveva avuto lo scopo di intimidirlo e fiaccarne lo spirito, può dirsi che sia stata un totale insuccesso, perché nei mesi successivi il deputato moltiplicherà gli sforzi per arrivare alla verità processuale su quanto accaduto e non cesserà di domandare giustizia e di credere in un esito positivo del procedimento che lo riguardava.
L’omicidio brutale di Giacomo Matteotti, nel giugno del 1924, rese evidente il salto di qualità della violenza fascista contro gli oppositori del regime: non si rischiava più l’umiliazione o la bastonatura ma la stessa vita.
Tale consapevolezza, lungi dal fiaccarne coraggio e spirito di iniziativa, suscitava tuttavia in lui una reazione di maggiore attivismo e l’arresto dei responsabili dell’assassinio del politico socialista gli dava l’occasione per cercare le connessioni con quanto accaduto a lui poche settimane prima: era chiara sin dal primo momento la matrice comune ai due delitti e assai plausibile dunque che gli esecutori potessero coincidere in tutto o in parte.
Tra le foto degli arrestati mostrati sui giornali l’Amendola riconosceva l’unico aggressore che aveva avuto modo di vedere e si recava immediatamente a presentare denuncia querela per rappresentare il fatto, in uno con le considerazioni raccolte sul coinvolgimento dell’autista Zaccagnini.
La sua iniziativa sortiva l’effetto di neutralizzare depistaggi e tentativi di far morire l’indagine, e in breve si arrivava non solo alla riapertura del procedimento ma all’arresto di Volpi e Zaccagnini.
Ma era solo un fuoco di paglia: l’indagine non progrediva di un metro oltre il contributo offerto coraggiosamente dalla persona offesa; tutti gli spunti investigativi raccolti su ideatori e mandanti venivano ignorati e nessuno sforzo compiuto per ricostruire il movente del delitto.
Dall’ottica di un magistrato moderno, è particolarmente significativa la mancata iscrizione come indagato di Candelori, pur indicato da più parti come organizzatore del delitto e di cui era emersa a quel punto la palese opera di favoreggiamento di Zaccagnini, ormai ritenuto pienamente coinvolto nel reato tanto da essere destinatario di un mandato di cattura.
Ciò nonostante, come si è detto, l’indagine arrivava presto ad una stasi fino all’intervento, ab externo, del Governo fascista, che con provvedimento del 31 luglio 1925 concedeva amnistia “per i reati determinati da movente politico o che abbiano comunque connessione con fini politici”: depenalizzati – e dunque approvati ex post con provvedimento governativo- i pestaggi, le spedizioni punitive e le bastonature con cui il fascismo aveva imposto la fine della democrazia nel Paese.
L’inchiesta giungeva così, in data 11 agosto 1925, alla seconda declaratoria di non doversi procedere, e sulla vicenda calava il sipario per i successivi venti anni.
6. Dopo la caduta del fascismo: la riapertura del fascicolo venti anni dopo. E la scoperta ex post di un altro depistaggio.
L’ultima parte della vicenda processuale in esame comincia il 19 febbraio del 1945: il fascismo è caduto e tra i primi atti simbolici del ripristino della democrazia, si procede alla revoca dell’amnistia per i “delitti di matrice fascista puniti con pena superiore a tre anni”.
Conseguentemente, si riaprono i procedimenti penali per molti dei reati e degli atti violenti del Ventennio precedentemente definiti per l’amnistia del 1925; tra questi, l’aggressione a Giovanni Amendola di quell’ormai lontano 26 dicembre di 22 anni prima.
Il procedimento penale viveva la sua terza stagione e - libero finalmente da condizionamenti e censure - veniva iscritto a carico di tutti i soggetti fino a quel momento raggiunti da indizi di reità: Benito Mussolini, ispiratore e mandante, il Capo della Polizia Emilio De Bono e il Comandante della 112 Milizia Mario Candelori come organizzatori, nonché di Albino Volpi, Fausto Zaccagnini ed altri cinque esecutori.
La squadra al completo era improvvisamente riconoscibile agli occhi degli inquirenti e indicata nella copertina del fascicolo con nomi e cognomi e a ciascuno dei suoi componenti attribuito il ruolo formale di indagato del delitto in esame.
Si tratta però, per alcuni, di iscrizione solo formale: Emilio De Bono era stato fucilato qualche mese prima, Albino Volpi era morto nel 1939; lo stesso Benito Mussolini sarà ucciso poche settimane dopo l’iscrizione nel registro degli indagati.
Anche Giovanni Amendola, come si è detto, era deceduto già dal 1926, esule in Francia, e non avrà la soddisfazione di vedere non solo che i suoi coraggiosi sforzi per ottenere giustizia avevano avuto un – seppur tardivo – riscontro, ma soprattutto che le sue sollecitazioni investigative offerte alle istituzioni erano tutte corrette.
In proposito, occorre fare un salto indietro ad una delle circostanze emerse nel 1925.
Come si è visto, nell’ultima denuncia querela l’onorevole Amendola aveva tra gli altri fatto il nome di Vico Perronecome soggetto che si era autoaccusato del reato parlando con un giornalista francese.
Ebbene, nel procedimento riaperto “compare” a pagina 15[3] un documento scritto dal Perrone di suo pugno, che ha valore di vera e propria confessione.
Si tratta di un “memoriale” redatto il 29 giugno 1924 e indirizzato al Capo Manipolo della milizia volontaria della sicurezza nazionale Maggiore Vagliasindi, a cui il Perrone affida la confessione della sua partecipazione all’aggressione a Giovanni Amendola con l’intento esplicito di ottenere dall’influente suo superiore protezione in caso di problemi giudiziari: “eccomi ora a quella che potrebbe essere la mia confessione se per la bontà che ella mi ha sempre mostrato non intendessi renderle del fatto una deposizione, certo che ella sorgerà in mia difesa il giorno in cui la mia libertà e la mia vita stessa fosse nel caso compromessa da interessi che, cessando di essere nazionali, fossero esponenti di calcolo personalistico.
Le rimetto dunque la mia deposizione perché Ella convinto di un mio inutile sacrificio voglia assumere le mie difese qualora il sacrificio, qualunque fatica, non risultasse beneficio all’interesse del paese”.
È proprio il movente del documento a renderne massima l’attendibilità, perché il Perrone compromette innanzitutto se stesso, quando dalle indagini il suo nome non era mai emerso.
È assolutamente inverosimile che taluno si attribuisca la commissione di un grave reato, lasciandone per di più traccia scritta, al solo scopo di chiedere ad un superiore protezione per l’ipotesi in cui dovesse un giorno essere accusato del reato medesimo; l’unica spiegazione per un comportamento siffatto è che quanto confessato corrisponda a verità.
Ulteriore elemento che ne comprova l’assoluta affidabilità è la ricostruzione del delitto nei minimi particolari, alcuni dei quali coincidenti con le risultanze delle (poche) indagini compiute e che difficilmente avrebbero potuto essere note all’esterno del circuito giudiziario.
Nel suo manoscritto il Perrone riferisce di essere stato capomanipolo della 112 Milizia e che il Comandante di questa, Mario Candelori, gli aveva chiesto se si sentisse di “compiere una spedizione punitiva verso un tale, che, con la sua opera, si opponeva ed ostacolava l’opera del Governo Nazionale intralciandone il benefico svolgimento. Alla mia risposta affermativa ed impegnativa seppi che la persona in questione era l’Onorevole Amendola al quale bisognava dare una bastonatura. Dato il nome dell’On. Amendola la cosa mi impressionò; ma di persona potei accertarmi che pure Sua Eccellenza Mussolini voleva che cosi si facesse. Seguirono dei colloqui con SE il Generale De Bono il quale dispose che l’On.le Amendola fosse soltanto bastonato e che se pure si fosse difeso ed avesse reagito contro di noi con le armi, non avremmo dovuto in nessun caso adoperarne contro di lui disponendoci anche ad essere uccisi”
Si ha dunque, dalla testimonianza diretta di uno dei partecipanti, la vivida descrizione dell’ideazione e progettazione del reato, con il coinvolgimento chiaro di Mussolini, De Bono e Candelori come mandanti.
Chiara- semmai ce ne fosse stato bisogno – la spiegazione del delitto: Giovanni Amendola, con la sua opera di parlamentare, giornalista e intellettuale non allineato alla nascente dittatura, dava fastidio agli interessi di Mussolini e del fascismo e pertanto doveva essere colpito da un atto di intimidazione perché cessasse di essere, con la sua attività, di ostacolo ai piani dittatoriali in corso.
Il Perrone descriveva poi la fase esecutiva, con alcuni primi appostamenti infruttuosi seguiti da un rapporto a De Bono in cui la squadra deputata al pestaggio riferiva che non era possibile agire se non in pieno giorno e con la certezza di essere individuati; seguiva la descrizione della reazione di De Bono che “la cosa andava fatta comunque” e la decisione – che trova così quella spiegazione plausibile che finora mancava - di agire in pieno giorno anche a costo di essere individuati da qualche passante.
L’aggressione era descritta nei minimi particolari, anche con colloqui con il portiere dello stabile e con precisa individuazione dei presenti – indicati tra gli altri in Bernacchia Cincinnato, Diana caposquadra della Milizia, Mercuri e Falchetti, sicché non è dubitabile leggendo il manoscritto che sia una scena vissuta in prima persona.
Non mancava un cenno al ruolo di Zaccagnini, che secondo il Perrone fu reso edotto del motivo della spedizione e “si prestò dietro rassicurazione che il generale De Bono avrebbe assicurato l’impunità della cosa”.
Il Perrone riferiva ancora che due giorni prima del reato, il 24 dicembre, avevano provato ad aggredirlo ma avevano desistito dopo aver affiancato l’AMENDOLA, che in quell’occasione li aveva visti e avrebbe potuto confermare (giova ricordare incidentalmente che quando è stato vergato il memoriale la vittima era ancora viva, sicché il PERRONE stava effettivamente offrendo un possibile riscontro alla sua descrizione, narrando circostanze del tutto ignote a chiunque altri se non ai partecipanti all’agguato e alla parte offesa del delitto).
Ad ulteriore conferma dell’attendibilità del documento, nel 1945 è stato escusso il VAGLIASINDI, che ha confermato l’autenticità dello stesso, ricordando che la lettera gli era stata sequestrata nel 1925 in occasione di una perquisizione che aveva subìto per possesso illegale di arma.
Questo particolare apre l’ultimo, inquietante squarcio del nostro viaggio in questo fascicolo: se già dal 1925 la lettera di Perrone era nelle mani degli organi di polizia, come mai non è transitata nelle carte del processo?
La notorietà del fatto era tale che non può essere ipotizzato che l’importanza di un documento confessorio di tale portata sia sfuggita agli organi investigativi, sicché non rimane che concludere che essa sia stata dolosamente tenuta lontana dal fascicolo in cui avrebbe dovuto essere immediatamente depositata, come tutti gli elementi che avrebbero potuto portare ad un esito positivo dell’indagine in corso.
Alzando solo per un momento lo sguardo dalle carte processuali per una veloce consultazione su Internet, tale conclusione diviene triste certezza.
Emerge infatti che contemporaneamente all’inchiesta penale era stata aperta sull’aggressione in danno di Amendola una commissione di inchiesta parlamentare del Senato del Regno, estrinsecatasi nell’assunzione di informazioni e documentazione.
Tale duplicazione di sforzi, purtroppo, non sembra aver prodotto alcun frutto (e la cosa non sorprende) visto l’insuccesso anche di questa inchiesta extra-processuale.
Ma l’aspetto più difficilmente accettabile della vicenda è che agli atti della commissione la lettera di Perrone risulta essere stata acquisita, discussa…. e poi ignorata come tutti gli altri elementi che avrebbero potuto consentire di arrivare ad una verità che a questo punto possiamo dire amaramente che era davanti agli occhi di tutti quelli che avrebbero dovuto, per dovere istituzionale, accertarla e punire i responsabili del fatto.
Compulsando l’interessante volume di Gaetano Salvemini “Scritti sul fascismo” si legge infatti del tentativo di dimostrare l’esistenza di un’unica regia dietro le spedizioni punitive ai politici dell’epoca, diretta da De Bono e capitanata dal famigerato Arrigo Dumini (la nota “CEKA”) e che in questo ambito era stata vagliata la lettera del Perrone ed escusso il Vagliasindi che già all’epoca ne aveva attestato l’autenticità.
L’esito degli accertamenti è trattato dal Salvemini in un paragrafo intitolato significativamente “Una farsa legale”[4] e che si apre così: “Per il procuratore generale Santoro e la Commissione senatoriale d’inchiesta tutte queste prove non contarono affatto. Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere”.
In sostanza, ricorda Salvemini, l’unico accertamento che la commissione ordinò a riscontro delle affermazioni di Perrone fu di chiedere informazioni sullo stesso; acquisite le quali, “prendendo coscienziosamente nota della risposta, lasciò cadere la cosa”.
Di tutto questo nelle carte processuali non vi è traccia.
Solo nel 1945 si acquisirà, come detto, la lettera del Perrone e saranno effettuati i primi, veri atti di indagine, tra i quali l’interrogatorio di Mercuri (che sostanzialmente confessò il fatto come descritto dal Perrone[5]) e dello stesso Zaccagnini, che pur continuando a professarsi innocente ammetteva di avere avuto dal Candelori promessa di impunità.
Poco dopo il fascicolo verrà riunito a quello aperto presso la Corte di Appello di Firenze in conseguenza della seconda e più grave aggressione ad Amendola di cui si è detto, avvenuta in territorio di Montecatini, sicché il nostro viaggio nel processo di tanto tempo fa – nell’impossibilità di compulsare le carte dell’Archivio di Stato toscano - termina qua.
7. Conclusioni.
Nata come tentativo di esaminare le carte di un procedimento penale risalente di cento anni con le lenti del giurista moderno, l’immersione nelle pieghe di questo reato ha portato alla scoperta dei mille rivoli in cui si perde il fiume delle indagini scomode in un regime autoritario e dell’importanza del controllo del potere giurisdizionale per il soffocamento di un ordinamento democratico.
Dal punto di vista tecnico, colpisce la scoperta in controluce – più che di quello che nelle carte processuali c’è – di quello che manca, degli atti di indagine omessi e degli elementi di prova occultati, delle tante strade investigative consapevolmente non percorse, dell’assoluta tetragonia degli inquirenti a non alzare lo sguardo dal livello più basso possibile e non avanzare un centimetro più dell’inevitabile.
Tentando di restituire alle carte lo sguardo asettico promesso in principio, non può non sottolinearsi che la mancata iscrizione di Zaccagnini come correo sembra precipitosa e superficiale e che – anche in presenza di una “autorevole” copertura quale quella offerta dal Candelori - nel racconto emergono ictu oculi discrasie e contraddizioni che avrebbero dovuto imporre un approfondimento che evidentemente non si è voluto fare.
Sarebbe stato necessario altresì verificare il motivo per cui l’autista, nel fuggire dal luogo del delitto di evidente impronta fascista, si rifugia nella caserma di una milizia fascista e il perché si sia dichiarato non in grado di riconoscere nessuno dei soggetti con cui aveva condiviso il tragitto.
Più in generale, sembra evidente che ogni spunto investigativo che ha riguardato ideatori e mandanti (da Candelori a De Bono) è stato completamente ignorato, mentre quelli dedicati agli esecutori neutralizzati con deleghe generiche per riferire notizie sulla loro condotta.
Deleghe totalmente inutili, tanto che anche quando le notizie erano allarmanti perché si attestava che i soggetti erano di pessima condotta o pregiudicati non si svolgeva alcun ulteriore atto di indagine.
Ancora, va notato che l’esistenza di una Commissione di inchiesta senatoriale – che lo scrivente ha scoperto quasi alla fine del suo viaggio nel tempo attraverso le carte – doveva essere ben nota agli inquirenti: come mai non è stato acquisito al fascicolo alcun atto di questa commissione né vi è stato alcuno scambio di informazioni tra i due organi? Come si è visto, un coordinamento avrebbe apportato al fascicolo di indagine elementi fondamentali.
Infine, desta inquietudine la mancanza agli atti dell’indagine del 1924 del memoriale di Perrone, evidentemente non trasmesso dagli organi di polizia che avevano proceduto alla perquisizione domiciliare a carico del Vagliasindi che aveva portato al sequestro del documento.
Più che uno sguardo da giudice di appello come promesso in principio verrebbero qui in soccorso molto più utilmente gli istituti delle indagini suggerite e dell’imputazione coatta (articoli 409, commi 4 e 5 del nostro codice di procedura penale), ovvero quegli strumenti con cui il G.I.P. moderno censura e corregge le omissioni nelle indagini del Pubblico Ministero….[6]
In realtà, la semplice acquisizione alle carte dell’inchiesta delle dichiarazioni di Perrone con i conseguenti atti compiuti venti anni dopo (interrogatorio di Mercuri e degli altri) sarebbe oggi sufficiente, senza nemmeno ulteriori atti di indagine, a pervenire agevolmente ad una sentenza di condanna nei confronti di De Bono, Candelori, Volpi, Perrone, Bernacchia, Mercuri, Zaccagnini e forse di qualcuno degli altri indicati come esecutori, nonché – quale mandante – dello stesso Mussolini, senza contare l’inevitabile acquisizione di ulteriori elementi di riscontro facilmente ottenibile a seguito del tempestivo arresto di tutti i soggetti predetti.
È evidente dunque che nelle carte processuali del 1924-25 non emerge una mera inerzia incolpevole nella conduzione delle indagini (ipotesi per la quale è oggi previsto il doppio rimedio dell’articolo 409 c.p.p. menzionato) ma una vera e propria sottomissione del potere giurisdizionale al Governo fascista che è da ritenersi correo del delitto.
Alcuni degli atti di sabotaggio dell’inchiesta sono stati attuati dalla polizia delegata allo svolgimento delle indagini ed altri addirittura dallo stesso Governo, sceso direttamente in campo con il provvedimento di amnistia; ma altri, e sono i più dolorosi da constatare per un esponente della magistratura di oggi, provengono dall’accettazione passiva da parte del Pubblico Ministero di veri e propri input a non indagare (come nel caso dell’invito a non approfondire la posizione di Candelori) o a spontanee autolimitazioni della magistratura inquirente, che ha così abdicato al proprio ruolo di custode della separazione dei poteri e guardiano dell’osservanza della legge chiunque sia il soggetto indagato.
Se ne trae l’amara conclusione che il processo penale è, ora come allora, un meccanismo delicato e facilmente corruttibile, e che occorre per il suo funzionamento che gli operatori dello stesso possano sentirsi – e volersi sentire – liberi da ogni tipo di condizionamento.
L’amore per la verità processuale è la bussola che guida – o dovrebbe guidare – ogni procedimento penale odierno e che manca totalmente tra le pagine di questa indagine di tanti anni fa.
[1] La statura di Amendola, peraltro presumibilmente conosciuta dai lettori di questa rivista, è davvero incomprimibile in una nota; a mero titolo esemplificativo e senza pretesa di esaustività, egli fu giornalista e fondatore de “Il Mondo”, che diverrà in poco tempo una delle più autorevoli testate giornalistiche di ispirazione democratica; deputato liberale e fondatore del Partito Democratico Italiano e dell’Unione Democratica Nazionale; ispiratore della “secessione dell’Aventino” che porterà le maggiori forze di opposizione al fascismo ad abbandonare il Parlamento in segno di protesta contro le torsioni antidemocratiche impresse da Mussolini; promotore insieme a Benedetto Croce del “manifesto degli intellettuali antifascisti”. Costretto dopo le numerose aggressioni ed intimidazioni a lasciare l’Italia, morirà in Francia nel 1926 per le conseguenze di un ultimo attentato subìto pochi mesi prima in una strada toscana, che stava percorrendo per allontanarsi dall’albergo di Montecatini dove si era recato per le cure termali, dopo che l’albergo era stato circondato dalle milizie fasciste giunte lì per linciarlo.
[2] In merito, in dottrina si parla esplicitamente in proposito di una vera e propria inversione di tendenza rispetto ad un passato “tutt’altro che remoto dove si riconosceva un particolare rilievo alle delazioni senza paternità che, anzi, venivano incoraggiate perché si riteneva potessero facilitare la scoperta dei reati”: così CANTONE, Denunce anonime e poteri investigativi del pubblico ministero, in Cass. Pen., 1996, 2983.
[3] Si è già detto in precedenza che il fascicolo è costellato di atti della cui provenienza non si dà conto, circostanza che risulta agli occhi di un tecnico del processo attuale piuttosto eccentrica.
[4] Op. cit. pag. 281.
[5] Nell’interrogatorio reso in data 29 gennaio 1946 Mercuri riferisce di essere stato chiamato da Bernacchia per fare una “operazione di polizia” a carico di un assistente edile; che era salito su un taxi dove c’erano altre persone che non conosceva; che era rimasto a bordo del taxi quando gli altri erano scesi e che aveva visto Bernacchia e gli altri venire a diverbio con uno che passava e picchiarlo, salvo apprendere dopo che si trattava dell’onorevole Giovanni Amendola ….
[6] Si tratta, sia detto incidentalmente, degli stessi istituti recentemente messi in discussione da molti esponenti dell’attuale Governo, che ne ha sostenuto l’inutilità; sia consentito un richiamo a quanto da me scritto, su questo tema, in “Imputazione coatta e sistema accusatorio”, Giustizia Insieme 13 luglio 2023.
La sanzione per l’inottemperanza all’ordine di demolizione (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 11 ottobre 2023, n. 16)
di Cristina Fragomeni
Sommario: 1. I fatti della controversia – 2. La nozione di sanzione. L’iter sanzionatorio di cui all’art. 31, d.P.R. n. 380/2001 – 3. Segue: la sanzione dell’acquisizione gratuita della res abusiva al patrimonio comunale – 4. Segue: la sanzione amministrativa pecuniaria – 5. Rilievi conclusivi.
1. I fatti della controversia.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si pronuncia sulla natura e sulle conseguenze dell’illecito dovuto alla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
Nel caso in specie, l’appellante è nuda proprietaria di un fondo agricolo donato dal padre, il quale ha conservato sul medesimo il diritto di usufrutto. All’esito del sopralluogo effettuato dal personale dell’Amministrazione procedente, viene rilevata la presenza di opere risalenti ad un’epoca remota in relazione alle quali non si è riscontrata la sussistenza di titoli edilizi. Conseguentemente, l’Amministrazione comunale emette un’ordinanza di demolizione nei confronti della nuda proprietaria nonché dell’usufruttuario. La prima propone impugnazione avverso l’ingiunzione, rappresentando la propria estraneità agli abusi, che sarebbero stati perpetrati dal padre in epoca anteriore alla donazione. L’adito TAR per la Campania, con sentenza n. 3870/2017, respinge il ricorso.
Nelle more del giudizio di primo grado, il Comune, constatata l’inottemperanza all’ordinanza oggetto di impugnazione, dispone l’acquisizione dell’immobile al suo patrimonio indisponibile e irroga ai titolari dei diritti reali la sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, per la realizzazione di opere edilizie sprovviste di titolo, in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. Per chiedere l’annullamento di detto provvedimento insorge l’usufruttuario innanzi al TAR per la Campania. Il gravame è respinto con sentenza n. 4032/2017, confermata dalla Settima Sezione del Consiglio di Stato (sentenza n. 10087/2022).
L’odierna appellante agisce per l’annullamento dello stesso verbale di accertamento dell’inottemperanza edilizia dinanzi al TAR per la Campania. Il mezzo di tutela è affidato alle seguenti censure: a) violazione del principio di irretroattività delle norme introduttive di misure sanzionatorie, in quanto l’ingiunzione edilizia sarebbe stata notificata ai titolari dei diritti reali anteriormente all’introduzione del comma 4 bisnel corpo dell’art. 31, d.P.R. n. 380/2001; b) violazione dell’art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380/2001, in quanto la ricorrente, rivestendo la qualità di nuda proprietaria, non avrebbe potuto ottemperare all’ordine di demolizione nonché in quanto la stessa, non essendo autrice degli abusi edilizi, non avrebbe dovuto essere sanzionata con la perdita della nuda proprietà; c) illegittimità derivata del provvedimento impugnato, emesso sulla scorta dell’ordinanza di demolizione, stante la pendenza di un giudizio di impugnazione avverso quest’ultima. Il ricorso è giudicato infondato e rigettato, con sentenza n. 4033/2017, in quanto: a) la violazione del predetto principio di irretroattività deve escludersi in ragione del carattere permanente dell’illecito integrato dall’inottemperanza all’ordinanza di demolizione: la ricorrente avrebbe potuto ottemperare anche una volta spirato il termine; la protrazione della sua inerzia ha legittimato l’Amministrazione all’irrogazione della sanzione pecuniaria; b) la sanzione demolitoria ha natura oggettiva e reale e colpisce, in quanto tale, l’attuale proprietario del bene, prescindendo dall’accertamento del dolo o della colpa in capo al soggetto a cui è imputata la trasgressione; c) in ragione della legittimità del provvedimento presupposto, è esclusa la caducazione, per l’asserita invalidità derivata, del provvedimento impugnato.
La pronuncia del TAR è appellata dinanzi al Consiglio di Stato. In tale sede, l’appellante contesta la qualificazione dell’inottemperanza all’ordine di demolizione come illecito permanente, sostenendo che, scaduto il termine di novanta giorni, l’ablazione della proprietà del bene precluderebbe l’imputabilità al privato dell’inottemperanza: a quel punto, sia la condotta sia l’illecito sarebbero consumati in via definitiva. Giungerebbe, pertanto, in considerazione non un illecito permanente, ma un illecito istantaneo, con annessa illegittimità dell’operato dell’Amministrazione, la quale avrebbe inflitto la sanzione di cui all’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. n. 380/2001, a fronte di una condotta omissiva che si sarebbe esaurita prima dell’entrata in vigore della legge 11 novembre 2014, n. 164, in violazione dell’art. 25 della Costituzione, dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dell’art. 11 delle disp. prel. cod. civ. L’appellante, da ultimo, lamenta l’illegittimità dell’immissione dei manufatti abusivi nel patrimonio comunale e insiste per la declaratoria di illegittimità derivata del provvedimento impugnato.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, investita dell’impugnazione, con ordinanza n. 3974/2023, rimette all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., la risoluzione di quattro questioni: a) se l’inottemperanza all’ordine di demolizione comporti la produzione di effetti traslativi automatici alla scadenza del termine di novanta giorni, fissato ai fini della demolizione; b) se l’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. n. 380/2001, assoggetti a sanzione l’illecito integrato dall’abuso edilizio ovvero un illecito autonomo di natura omissiva consistente nella mancata ottemperanza all’ingiunzione di demolizione; c)se l’inottemperanza in questione configuri un illecito permanente ovvero istantaneo con eventuali effetti permanenti; d) se, infine, la sanzione prevista dal comma 4 bis dell’art. 31, d.P.R. n. 380/2001, sia irrogabile ai soggetti destinatari della notifica di un’ordinanza di demolizione il cui termine per ottemperare risulti scaduto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 164/2014.
Il presente lavoro focalizza l’attenzione sulle prime due questioni, tra quelle elencate, sottoposte al vaglio della Plenaria.
2. La nozione di sanzione. L’iter sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
Nella legislazione vigente, non ricorre alcuna definizione del concetto di sanzione, tantomeno di quello di sanzione amministrativa[1].
In senso generale, può definirsi «sanzione» la conseguenza sfavorevole riconnessa alla perpetrazione di un illecito, applicata coattivamente (dallo Stato ovvero da altro ente pubblico). La sanzione si sostanzia, secondo un’opinione, nella «misura retributiva» applicata al trasgressore, effetto, diretto e immediato, della condotta antigiuridica che costui ha tenuto[2]. Posto che la natura eminentemente afflittiva integra il connotato saliente della sanzione, ne deriva l’impossibilità di qualificare come sanzione il ripristino, in qualsiasi forma, dello status quo ante, all’esito della trasgressione (cosiddette sanzioni ripristinatorie)[3]: il termine «sanzione» sarebbe adoperato, in tali circostanze, tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, in maniera inappropriata. La sanzione amministrativa, in senso proprio, il cui tratto caratterizzante è costituito dall’ascriversi la relativa irrogazione nell’esercizio di una potestà amministrativa, è così identificata, in via residuale, nella misura afflittiva non integrante né una sanzione penale né una sanzione civile[4].
E’ bene precisare che l’obiettivo perseguito dalla pubblica amministrazione, in sede di applicazione di sanzioni amministrative è, in generale, non soltanto quello di punire, ma anche quello di tutelare un interesse pubblico specifico[5]. Del resto, com’è stato opportunamente rilevato, tra il punire e l’amministrare non si manifesta alcuna divergenza sul piano ontologico; tra la natura afflittiva della sanzione e la cura dell’interesse pubblico intercorre uno stretto legame[6], tale che gli stessi interessi tutelati dall’Amministrazione, “partecipando” all’esercizio della funzione sanzionatoria, influiscono sulla commisurazione della sanzione[7].
In dottrina, alle posizioni che individuano la finalità delle sanzioni amministrative nella tutela degli interessi pubblici devoluti all’Amministrazione[8], si affiancano quelle di quanti hanno intravisto un nesso con l’autotutela.
Nell’ambito della sua teoria della sanzione amministrativa, Feliciano Benvenuti ha concepito la sanzione come elemento costitutivo della norma, che riveste una posizione paritaria rispetto al precetto sul quale agisce, imponendo il rispetto della norma medesima ai soggetti dell’ordinamento. L’illustre Autore porta a compimento la prefata teoria collocando le sanzioni amministrative nel solco dell’autotutela decisoria: le sanzioni attuerebbero le finalità dell’autotutela mediatamente, comportando «speciali svantaggi» a carico dell’inadempiente, così indotto, nella prospettiva di questi ultimi, ad ottemperare agli obblighi di cui è destinatario[9]. Il risvolto finale della tesi del Benvenuti si sintetizza nella qualificazione della sanzione come mezzo dell’azione amministrativa, stante la relativa funzionalità alla realizzazione delle pretese della pubblica amministrazione[10].
In senso analogo, si è, pur successivamente, sostenuto che il conferimento alla pubblica amministrazione della capacità sanzionatoria completerebbe lo strumentario di cui essa è stata dotata al fine di realizzare la «propria azione specifica»[11].
Tracciata la distinzione tra «sanzione amministrativa di un illecito» e «misura ripristinatoria di una situazione (di fatto) abusiva»[12], si possono considerare le misure repressive disciplinate dal d.P.R. n. 380/2001.
Giova, innanzitutto, premettere che, nel linguaggio corrente, si impiega l’espressione «abuso edilizio» con riferimento all’illecito scaturente dalla violazione delle norme urbanistiche[13].
In dottrina è stato evidenziato il carattere polisemantico del termine «abusivismo», adoperabile al fine di indicare sia la condotta antigiuridica di chi costruisce contra legem sia anche il concreto risultato delle costruzioni abusive, che incidono sulla «realtà del territorio»[14].
Il sistema repressivo degli abusi edilizi e urbanistici rinviene organica sistemazione nel Titolo IV del Testo unico in materia edilizia. Tale sistema è innestato su quattro tipologie di sanzioni (penali, civili, amministrative, accessorie) nonché su un complesso di obblighi, facenti capo ad una pluralità di soggetti (ufficio tecnico erariale, segretari comunali, polizia giudiziaria, etc.), tesi ad incrementare l’efficacia del sistema medesimo[15]. Il regime sanzionatorio in argomento è delineato dal legislatore in modo apparentemente conforme ai criteri del livello di «gravità dell’infrazione formale perpetrata» e dell’«intensità del danno urbanistico sostanziale arrecato»[16]. L’art. 31, d.P.R. n. 380/2001, ricalcando e attualizzando il contenuto dell’art. 7, L. 28 febbraio 1985, n. 47[17], regola la risposta dell’ordinamento alla fattispecie di abuso più grave: gli interventi edilizi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali. La disciplina richiamata definisce, al primo comma, il solo intervento totalmente difforme rispetto al permesso di costruire[18], mentre rimanda al successivo art. 32 ai fini della determinazione delle variazioni essenziali[19].
La vicenda in esame trae origine dall’omesso riscontro di titoli abilitativi in relazione ad opere oggetto di sopralluogo. Si è trattato, nello specifico, coerentemente con quanto constatato dal giudice di primo grado, di interventi di nuova costruzione, con realizzazione di nuove volumetrie che, incidendo sull’assetto edilizio esistente, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire; cosicché si è ritenuta configurata la fattispecie dell’espletamento dell’attività costruttiva in difetto del permesso di costruire.
L’illecito in discorso ricorre nelle ipotesi di mancata richiesta del provvedimento ovvero di domanda del permesso di costruire non ancora evasa; di avvio dei lavori in esito all’emanazione del permesso, ma prima del rilascio del provvedimento medesimo; di decadenza del permesso (per inutile decorso del termine di inizio dei lavori ovvero del termine di conclusione degli stessi); di annullamento del permesso[20].
Acclarata l’esecuzione di interventi abusivi, l’iter sanzionatorio, strutturato in modo bifasico, ha inizio con la notificazione al proprietario e al responsabile dell’abuso dell’ingiunzione di demolizione o di rimozione degli effetti dell’attività abusiva[21], conseguenza diretta dell’abuso edilizio.
L’ordine di demolizione del manufatto abusivo è una misura sanzionatoria preordinata alla restitutio in integrum dello stato dei luoghi (carattere ripristinatorio), tramite la previa rilevazione dell’inosservanza delle disposizioni urbanistiche. La fattispecie presupposto dell’ordine di ripristino muove, nel caso che si esamina, dalla situazione antigiuridica derivante dall’inosservanza delle disposizioni che condizionano la trasformazione della res al consenso dell’Amministrazione. L’ordine di ripristino ha, dunque, natura di atto di esercizio del potere di autotutela decisoria, volto all’eliminazione degli effetti dovuti all’attività di trasformazione illecita[22].
L’ingiunzione di demolizione, avendo ad oggetto l’opera abusiva, attiene anche a quelle accessorie e complementari ed alle aggiunte successive sulle quali si ripercuote l’illiceità dell’originaria edificazione[23].
Si deve rammentare che l’ordinanza di demolizione corrisponde ad un atto vincolato per il quale non è richiesta la previa comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, alla luce della preclusione all’Amministrazione di valutazioni di interesse pubblico concernenti il mantenimento del bene, poiché il bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello privato è già effettuato a monte dal legislatore[24]. Il presupposto di fatto, che si colloca alla radice dell’ordine demolitorio, è, pertanto, costituito dall’abuso del quale il destinatario si presume abbia contezza, in quanto compreso nella sua «sfera di controllo»[25]. Si pone come corollario della natura vincolata del provvedimento in argomento, la sufficienza, sotto il profilo motivazionale, dell’indicazione dei presupposti di fatto che ne hanno sorretto l’emissione nonché delle norme che si assumono violate; sicché l’ordinanza di demolizione non deve essere analiticamente motivata[26]. Il carattere doveroso degli atti volti al perseguimento dell’illecito conduce, altresì, ad escludere la necessità di un onere motivazionale aggiuntivo che supporti l’ingiunzione di demolizione emanata a notevole distanza temporale dalla realizzazione dell’abuso; in altri termini, l’ordine di demolizione non richiede una motivazione calibrata in relazione alla ricorrenza di un interesse pubblico attuale al ripristino della legalità violata. L’eventuale tardiva emanazione non risulta idonea a determinare il consolidamento di un affidamento legittimo in capo al proprietario dell’abuso, stante l’impossibilità, in casi siffatti, di delineare, di fatto, una sorta di «sanatoria extra ordinem» nonché di riconnettersi al quadro generale dell’autotutela[27].
Un minoritario orientamento giurisprudenziale assumeva, invece, che il considerevole lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il perdurare dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza generassero una posizione di affidamento idonea a fondare un onere di congrua motivazione che specificasse l’interesse pubblico, diverso da quello al ripristino della legalità violata, in vista della cui tutela era sacrificato l’interesse privato di segno opposto (tesi propugnata, in sede ricorsuale, dall’odierna appellante)[28].
Da ultimo, quanto al soggetto passivo dell’ordinanza di demolizione, costante giurisprudenza, in linea con il tenore letterale dell’art. 31 del Testo unico, conclude per la sua individuazione nel soggetto avente il potere di rimuovere concretamente l’opera abusiva, vale a dire, in virtù della titolarità del diritto dominicale, nel proprietario attuale, indipendentemente dalla sua coincidenza con il responsabile dell’abuso, attesi il carattere permanente dell’illecito, la natura reale del medesimo, il carattere ripristinatorio dell’ordinanza (che prescinde dall’accertamento del dolo ovvero della colpa in capo al soggetto a cui è imputata la trasgressione), la preminenza dell’interesse pubblico urbanistico[29]. Tant’è vero che si ricomprende nella nozione di «responsabile dell’abuso» non solo il soggetto che ha materialmente commesso la violazione contestata, ma anche colui il quale dispone dell’immobile, che, pertanto, nelle qualità di detentore e utilizzatore, ha il dovere di provvedere alla demolizione funzionale alla restaurazione dell’ordine violato[30].
Eventualmente, come chiarito da una giurisprudenza piuttosto compatta, il proprietario di un’opera abusiva realizzata da altri che intenda sottrarsi all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31, d.P.R. n. 380/2001, della demolizione o dell’acquisizione, all’esito dell’inottemperanza all’ordine di demolizione, «deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità all’abuso, siano però anche idonee a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall’autorità amministrativa», risultando, d’altro canto, del tutto insufficiente al medesimo fine la posizione di una condotta di pedissequa adesione alle iniziative comunali[31].
Nella vicenda che si esamina, la nuda proprietaria ha avuto modo di contestare l’ingiunzione di demolizione insistendo sulla propria estraneità agli abusi, verosimilmente riconducibili al padre, e, dunque, sull’asserita impossibilità di essere punita per un’attività che non ha posto in essere. Il motivo è destituito di fondamento per le considerazioni espresse. Coerentemente con una consolidata giurisprudenza, approfondisce l’Adunanza Plenaria nella pronuncia in commento, l’acquirente dell’opera abusiva o del sedime su cui la stessa è stata realizzata, subentra nella totalità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al proprietario precedente e afferenti al bene ceduto, inclusa l’abusiva trasformazione, soggiacendo agli effetti dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur risalendo il compimento dell’abuso ad un’epoca anteriore alla traslazione della proprietà.
3. Segue: la sanzione dell’acquisizione gratuita della res abusiva al patrimonio comunale.
Ai sensi del richiamato art. 31, comma 3, nell’ipotesi di accertata inerzia dei destinatari dell’ordine di reintegro dello stato dei luoghi abusivamente alterato, che si protragga per oltre novanta giorni decorrenti dalla notificazione, sia il bene che l’area di sedime nonché quella necessaria, ai sensi delle vigenti prescrizioni, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, subiscono l’immissione ex lege nel patrimonio comunale, con il limite del decuplo della superficie abusiva complessiva[32]. L’accertamento dell’inottemperanza attesta il trasferimento della proprietà del bene all’interno del patrimonio pubblico e costituisce il titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione gratuita nei registri immobiliari.
La sanzione in esame, comportando l’estinzione ex lege del diritto di proprietà, punisce la condotta di chi disattenda l’ordine di ripristino e funge da deterrente per quanti siano inclini alla commissione di un abuso[33].
A mente di un risalente orientamento della giurisprudenza costituzionale, l’acquisizione al patrimonio comunale della superficie su cui insiste la costruzione abusiva, così come la misura demolitoria che la precede, costituisce la reazione dell’ordinamento al duplice illecito perpetrato da chi, realizzata un’opera abusiva, non ottemperi all’obbligo di demolirla, conformemente al principio secondo cui «l’ordinamento reagisce, oltre che sulle cose costituenti il prodotto dell’illecito, anche su quelle strumentalmente utilizzate per commetterlo». La sanzione in commento, autonoma e conseguente all’inottemperanza all’ingiunzione, secondo tale orientamento, sarebbe volta a stimolare il responsabile dell’abuso all’esecuzione della demolizione nel termine fissato, contestualmente escludendo che essa possa colpire il proprietario estraneo all’abuso; diversamente, la sanzione risulterebbe inidonea all’espletamento della funzione di prevenzione speciale in vista della quale è irrogata[34].
Nel caso in esame, la Plenaria, non accogliendo la tesi dell’estraneità della nuda proprietaria all’abuso, ha reputato legittima l’emanazione nei suoi confronti dell’ordinanza di demolizione e dell’atto di acquisizione. Pur essendo l’abuso edilizio imputabile all’attuale usufruttuario, egli ha, successivamente, posto in essere un atto a titolo derivativo in favore della figlia, attuale nuda proprietaria del fondo, che, subentrando nella posizione giuridica del donatario, diviene destinataria dell’obbligo propter rem di effettuare la demolizione. Il Comune, in casi siffatti, afferma la Plenaria, ha il dovere di adottare gli atti di cui agli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001, così come li avrebbe emanati nei riguardi del dante causa. Se si fosse attivata ai fini del ripristino dell’ordine giuridico compromesso, la nuda proprietaria avrebbe preservato il diritto reale di cui era titolare, a fronte della condotta illecita del responsabile dell’abuso. Avendo poi la stessa ricevuto la notifica dell’ordinanza di demolizione, contenente la precisazione delle conseguenze riconnesse all’omessa ottemperanza, trova applicazione anche nei suoi confronti la regola dell’acquisizione di diritto, decorso il termine di novanta giorni.
La producibilità di effetti traslativi automatici in conseguenza dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, decorso il termine predetto, è oggetto di uno dei quesiti rimessi all’Adunanza Plenaria. Copiosa giurisprudenza ha avuto già modo di sottolineare l’automaticità dell’effetto traslativo della proprietà originato dall’inottemperanza; in termini più puntuali, il provvedimento di acquisizione costituirebbe l’effetto automatico innescato dall’inottemperanza ad un precedente ordine di ripristino. Sulla scorta di quando evidenziato, l’ordinanza di acquisizione dell’opera abusiva al patrimonio comunale costituirebbe un atto dovuto, privo di discrezionalità, per il quale non è richiesta alcuna specificazione dell’interesse pubblico sotteso all’acquisizione medesima[35].
Alla giurisprudenza favorevole alla qualificazione dell’acquisizione come effetto automatico dell’inottemperanza all’ordine di demolizione[36], si è opposto l’indirizzo, di segno diverso, a mente del quale, in ragione della sua indole afflittiva, la sanzione acquisitiva che si commenta può essere legittimamente irrogata in presenza di un’inottemperanza volontaria all’ingiunzione, protrattasi per oltre novanta giorni, senza che l’interessato abbia dedotto un valido impedimento di fatto ovvero di diritto alla tempestiva demolizione. Tale valutazione dell’elemento psicologico, asseritamente necessaria, precluderebbe la produzione di eventuali automatismi[37]. In senso conforme, parte della dottrina ha valorizzato la volontarietà dell’inottemperanza ai fini della valutazione in ordine alla legittimità del provvedimento di acquisizione[38]. Emblematica del cennato orientamento è la tesi secondo cui la previsione dell’acquisizione di diritto al patrimonio comunale dell’immobile abusivo deve essere interpretata alla luce dei principi generali in materia di adempimento, tenuto conto, segnatamente, del dettato dell’art. 1218, primo comma, Cod. civ., che obbliga il debitore inadempiente al risarcimento del danno, facendo salva la prova della riferibilità dell’inadempimento o del ritardo all’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile allo stesso debitore. Di conseguenza, sull’interessato graverebbe l’onere di denunciare tempestivamente all’Amministrazione l’eventuale causa dell’impossibilità nonché i fatti noti comprovanti la rilevanza del caso concreto[39].
La ricostruzione evocata è stata ripresa e avallata dalla giurisprudenza più recente, stando alla quale l’acquisizione della res abusiva è legittima nella misura in cui l’inottemperanza all’ordine di demolizione, che persista da oltre novanta giorni, sia volontaria o colpevole; ovvero l’inerzia dell’interessato sussista in difetto di validi impedimenti di diritto o di fatto alla demolizione. La produzione dell’effetto ablativo sarebbe, quindi, preclusa nelle ipotesi di inottemperanza non volontaria nonché di appartenenza dell’area a soggetto estraneo all’illecito edilizio, che non abbia ricevuto la notifica dell’ordine di demolizione[40]. In tal senso, il presupposto essenziale per l’applicazione della sanzione in argomento deve correttamente identificarsi non già nell’inottemperanza all’ordine di demolizione, bensì nella volontaria inottemperanza allo stesso, che perduri da oltre novanta giorni, a far data dalla comunicazione (condotta colpevolmente omissiva).
L’Adunanza Plenaria si approssima alle considerazioni innanzi esposte. Con la pronuncia che si annota, ribadita la natura afflittiva dell’acquisizione gratuita, si esclude la possibilità di adozione dell’atto di immissione delle opere abusive nel patrimonio comunale qualora l’inottemperanza non sia imputabile al destinatario dell’ordine di demolizione per «malattia completamente invalidante». L’onere di fornire la prova relativa incombe, conformemente al principio della vicinanza alla fonte della prova, sullo stesso destinatario dell’ordine di demolizione ovvero, eventualmente, sul suo rappresentante legale. Resta fermo per la Plenaria, in adesione alla tesi della natura dichiarativa dell’atto amministrativo di accertamento e in ossequio alle regole dell’obbligo propter rem, che l’acquisto del bene indicato nell’ordinanza di demolizione, allo spirare del termine di novanta giorni, si svolge ipso iure[41].
Alla luce della sentenza che si commenta, risulta, dunque, temperata l’inflessibilità dell’indirizzo giurisprudenziale superiormente riportato, sulla scorta del quale l’avocazione alla mano pubblica del manufatto abusivo sarebbe un effetto automatico dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione.
Infine, per quanto attiene alle sorti dell’obbligo di demolizione decorsi i novanta giorni fissati per l’adempimento, l’Adunanza Plenaria ne evidenzia la conversione ex lege in un obbligo diverso, cioè quello di rimborsare all’Amministrazione le spese sopportate per la demolizione ex officio della res abusiva (novazione oggettiva dell’obbligo ricadente propter rem sull’autore dell’abuso e sui suoi aventi causa). L’obbligo del responsabile, dunque, muta nel tempo. Decorso il termine di esecuzione spontanea dell’ordine demolitorio e immessa l’area interessata dall’abuso nel patrimonio comunale, risulterebbero irragionevole la permanenza dell’obbligo in capo al privato di demolire un bene ormai rientrante nella proprietà dell’Ente e irrilevante il relativo adempimento al fine dell’esclusione dell’illecito.
Si tratta delle medesime valutazioni effettuate dalla Sezione remittente, la quale ha osservato, ancora, che, decorso il termine di novanta giorni, l’interessato conserverebbe comunque l’obbligo di collaborare con l’Amministrazione, in quanto l’adempimento all’ordine di demolizione, ancorché tardivo, gli consentirebbe di arginare effetti più gravi, quali la privazione dell’area ulteriore rispetto a quella di sedime[42].
4. Segue: la sanzione amministrativa pecuniaria.
La sanzione amministrativa pecuniaria incarna l’archetipo delle sanzioni amministrative. Più precisamente, la sanzione amministrativa, intesa in senso stretto[43], è tendenzialmente assimilata alla sanzione pecuniaria, nella cui struttura si specchierebbe. La sanzione così intesa mira a punire il responsabile dell’illecito tramite l’irrogazione di una pena che, assumendo come riferimento non la condotta, ma il suo autore, punta «alla riprovazione giuridica dell’illecito stesso nonché alla dissuasione dalla reiterazione di comportamenti simili»[44].
Con la l. 11 novembre 2014, n. 164, di conversione del cosiddetto Decreto “Sblocca Italia” (D.L. 12 settembre 2014, n. 133)[45], il contenuto dell’art. 31 del Testo unico in materia edilizia è stato arricchito tramite l’introduzione dei commi 4 bis, 4 ter, 4 quater. Ai sensi del primo comma tra quelli menzionati, con l’atto di accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire ovvero con successivo atto integrativo autoritativo, l’autorità competente irroga, prontamente, una sanzione amministrativa pecuniaria di importo oscillante tra i 2000 e i 20000 euro. Tale sanzione di carattere personale si affianca a quella reale dell’acquisizione gratuita del manufatto abusivo al patrimonio dell’Ente (entrambe «sanzioni in senso stretto»[46], che muovono dal presupposto dell’accertamento dell’inottemperanza all’ordine demolitorio), spingendo, per tale via, i responsabili alla rimozione dell’abuso.
La sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4 bis, risponde all’esigenza di mantenere indenne l’Amministrazione comunale dalle spese di ripristino provenienti da ordinanze di demolizione disattese (in tal senso depone il vincolo di destinazione previsto al comma 4 ter del medesimo articolo). La ratio della riforma del 2014 deve, dunque, rintracciarsi nell’intento di sollevare l’Amministrazione dall’onere economico costituito dalla eliminazione delle opere abusive[47]. In aggiunta, si è osservato che la misura repressiva in argomento sarebbe stata introdotta all’interno del sistema sanzionatorio vigente al fine di indurre il trasgressore alla diretta esecuzione della demolizione, considerate le concrete difficoltà, riscontrate sul piano empirico, che questa implica, sia se svolta dal responsabile sia se svolta d’ufficio[48].
A rafforzare la tesi ora esposta, l’Adunanza Plenaria pone l’accento sulla necessità di potenziare la protezione dei valori tutelati ai sensi degli artt. 9, 41, 42 e 117, Cost., tenuto conto dell’alterazione della funzione sociale della proprietà cagionata dal responsabile dell’illecito.
Tra le questioni che la Sezione remittente sottopone all’Adunanza Plenaria, si inserisce quella afferente all’oggetto della sanzione pecuniaria in argomento: se esso consista nell’abuso edilizio ovvero nell’illecito integrato dall’inottemperanza all’ordine di demolizione. Sul punto, sedimentata giurisprudenza ha, in molteplici occasioni, chiarito che il comma in discorso sottopone a sanzione non la realizzazione dell’abuso edilizio, ma, esclusivamente, la mancata ottemperanza spontanea al provvedimento di demolizione emesso dalla pubblica amministrazione; in altri termini, il disvalore del comportamento punito è l’inottemperanza all’ordine di ripristino legittimamente impartito in reazione ad un accertato abuso edilizio[49].
L’interpretazione fornita dall’Adunanza Plenaria, secondo cui il principio dell’imputabilità dell’illecito omissivo sanziona l’inottemperanza, si pone in linea con la giurisprudenza richiamata. Del resto, depone nel medesimo senso lo stesso tenore letterale della norma esaminata («L’autorità competente, constatata l’inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria»), che istituisce una consequenzialità logica tra la constatazione (previa) della mancata ottemperanza e l’irrogazione (successiva) della sanzione pecuniaria da parte dell’autorità competente.
5. Rilievi conclusivi.
All’esito dell’indagine condotta con il presente lavoro, due risultano i punti fermi:
a) deve escludersi la possibilità di emissione dell’atto di acquisizione delle opere abusive al patrimonio comunale qualora l’inottemperanza non sia imputabile al destinatario dell’ordine di demolizione per «malattia completamente invalidante»;
b) tanto la sanzione pecuniaria introdotta con la riforma del 2014 quanto la sanzione dell’immissione del manufatto abusivo nel patrimonio comunale colpiscono un illecito amministrativo omissivo propter rem, distinto dal primo illecito consistente nella realizzazione dell’abuso, che spiega la sua rilevanza anche sul piano penale[50].
Quanto al primo punto, non possono trascurarsi, in conclusione, le perplessità che permangono a fronte di una sentenza dell’Adunanza Plenaria in cui, in punto di declinazione delle cause ostative all’adozione dell’atto di acquisizione al patrimonio dell’Ente locale delle costruzioni realizzate abusivamente, si riferisca esclusivamente alla sussistenza di una patologia invalidante.
In disparte l’osservazione che precede, a noi pare densa di significato la questione afferente alla natura afflittiva ovvero ripristinatoria delle sanzioni trattate, che si ripropone, in senso circolare, in fase di chiusura.
Le misure ripristinatore (sanzionatorie lato sensu), diversamente dalle sanzioni afflittive (ispirate ad una logica punitiva)[51], mirano a restaurare, come si è visto, un bene ovvero un interesse che ha subito lesione tramite un’attività di ripristino[52], che, nella materia affrontata, è di tipo materiale, in quanto eventualmente surrogabile da un intervento dell’Amministrazione[53]. Le misure ripristinatorie difettano, inoltre, di contenuto afflittivo, per cui non esigono l’integrazione dell’elemento soggettivo[54].
L’indole afflittiva della sanzione ha costituito l’argomento dirimente per concludere nel senso della rilevanza della volontarietà dell’inottemperanza all’ordine demolitorio al fine dell’applicazione della misura di cui all’art. 31, comma 3, e nel senso, ancora, dell’assoggettamento alla sanzione di cui al comma 4 bis del medesimo articolo dell’illecito integrato dalla stessa inottemperanza. Più puntualmente, ha ritenuto l’Adunanza Plenaria che, in considerazione della natura afflittiva dell’immissione gratuita e della sanzione pecuniaria ad essa correlata[55], trovi applicazione in materia «il principio per il quale deve esservi l’imputabilità dell’illecito omissivo della mancata ottemperanza».
La Plenaria, in tal modo, si discosta dall’orientamento giurisprudenziale precedente, a mente del quale la sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. n. 380/2001, presenterebbe natura ripristinatoria[56]. A cagion d’esempio, la sentenza in commento è successiva di qualche mese rispetto alla pronuncia n. 3670/2023, in cui la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha rimarcato il fine ripristinatorio e non afflittivo cui, in linea di principio, sarebbero ispirate le sanzioni edilizie, escludendo, lungo tale direzione, l’applicabilità alle medesime del divieto di retroattività[57].
Il riconoscimento alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 31, comma 4 bis, di una valenza afflittiva, operato dall’Adunanza Plenaria, ne determina una sostanziale assimilazione alle sanzioni penali. Il principale corollario delle riflessioni svolte è costituito dall’applicazione in materia, tra gli altri, del principio della irretroattività delle norme sanzionatorie sfavorevoli e retroattività delle norme sanzionatorie favorevoli. Come parimenti rilevato in dottrina, la sanzione pecuniaria condivide il suo carattere afflittivo con la sanzione penale, da cui, tuttavia, si discosta in ragione della fisiologica attinenza alla sfera dei rapporti tra Amministrazione e cittadino, là dove la sanzione penale pertiene a violazioni connotate da gravità maggiore, tali da coinvolgere interessi generali facenti capo alla società[58].
Conclusivamente, ferma restando la condivisibilità delle considerazioni effettuate dall’Adunanza Plenaria in merito al carattere afflittivo connaturato alle sanzioni analizzate, non può omettersi di richiamare, in questa sede, la rilevata evoluzione delle misure ripristinatorie, in materia urbanistico-edilizia (dall’art. 32, l. 17 agosto 1150, n. 1942 al sistema disciplinato dagli artt. 27-36, d.P.R. n. 380/2001), avvenuta all’insegna dell’inasprimento dei relativi procedimenti nonché della sovrapposizione culturale dei medesimi con il modello sanzionatorio[59]. Ciò ha sicuramente alimentato la riduzione delle distanze esistenti tra le categorie ora esaminate.
[1] In dottrina, le sanzioni amministrative sono state autorevolmente definite come «pene in senso tecnico», irrogabili dall’Amministrazione senza l’ingerenza del giudice. Sul punto si veda G. Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, Bocca, 1924, 38 ss. Tale paradigmatica monografia ha sancito, sul piano lessicale, un decrescente impiego del termine «contravvenzione», ai fini dell’indicazione dell’inosservanza della normativa amministrativa, cui ha fatto adeguato riscontro la predilezione accordata al diverso termine «sanzione». In tal senso, M. Lunardelli, Sanzioni e misure ripristinatorie: una rivalutazione del pensiero di Feliciano Benvenuti, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2021, 4, 185 – 186.
[2] In tal senso, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2020, 333.
[3] Con riferimento ai provvedimenti ripristinatori, si è posto in luce che i medesimi «rappresentano un episodio della dialettica fra autorità e libertà tipico del diritto amministrativo perché, senza il previo controllo di un giudice, essi incidono imperativamente sulla posizione giuridica della persona e sono eseguiti, ove la legge lo preveda, direttamente dalla pubblica amministrazione». In tal senso, C. Gabbani, La logica dei provvedimenti ripristinatori, in Il diritto dell’economia, 2018, 3, 911.
[4] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 334.
[5] La Corte costituzionale, a suo tempo, ha osservato che le sanzioni amministrative, a differenza di quelle penali, lungi dal costituire uno «strumento di difesa dei valori essenziali del sistema», si sostanziano in «un momento ed un mezzo per la cura dei concreti interessi pubblici affidati all’amministrazione». Cfr. Corte cost., 14 aprile 1988, n. 447.
[6] S. Cimini, Il potere sanzionatorio, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), La vigilanza e la procedura di irrogazione delle sanzioni amministrative, Milano, Giuffrè, 2021, 460.
[7] M. T. P. Caputi Jambrenghi, Il principio di obbligatorietà, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia di edilizia, Torino, Giappichelli, 2014, 10.
[8] Confermerebbe tale visione il carattere apparentemente complementare delle sanzioni irrogabili dalle autorità indipendenti rispetto alle funzioni dalle medesime esercitate. A titolo esemplificativo, basti pensare all’ANAC, il cui potere sanzionatorio è connesso alla funzione di prevenire la corruzione; conseguentemente, l’Autorità, con l’irrogazione di sanzioni amministrative, protegge gli interessi pubblici rimessi alla sua cura dall’ordinamento. In tal senso, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 334; S. Cimini, Il potere sanzionatorio, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), La vigilanza e la procedura di irrogazione delle sanzioni amministrative, cit., 462.
[9] In senso contrario si veda, a titolo esemplificativo, G. Coraggio, voce Autotutela, I) Diritto amministrativo, in Enc. Giur., IV, Roma, 1988, 2.
[10] Cfr. per i riferimenti sulla teoria esposta M. Lunardelli, Sanzioni e misure ripristinatorie: una rivalutazione del pensiero di Feliciano Benvenuti, cit., 187 ss.
[11] A. Travi, Sanzioni amministrative e pubblica Amministrazione, Padova, CEDAM, 1983, 240; S. Licciardello, Sulle sanzioni a tutela della concorrenza e del mercato. Italia e Francia a confronto, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1993, 108.
[12] A. Travi, Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Diritto amministrativo, 2014, 4, 638 ss. Sostiene l’Autore che la confusione tra le due categorie sia in parte da imputarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, inidonea alla modifica dell’assetto delle sanzioni amministrative esistente all’interno dell’ordinamento nazionale. Sull’autonomia dell’illecito amministrativo rispetto all’orientamento della Corte di Strasburgo, si veda Corte cost., 26 marzo 2015, n. 49.
[13] G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 2019. L’attività edilizia persegue il fine precipuo di controllare la conformità urbanistica dei progetti di trasformazione preordinati alla realizzazione degli interventi edilizi; sicché tra edilizia e attività di controllo urbanistico intercorre un rapporto di identificazione. Si è rilevato che, all’esito delle riforme introdotte dal 2001, l’urbanistica costituisce esclusivamente una funzione e non più una materia, mentre l’edilizia si estrinseca in una funzione autonoma, ancorché connessa a quella urbanistica. In tal senso, A. Bartolini, voce Urbanistica, in Enciclopedia del diritto. I tematici, vol. III – Le funzioni amministrative, 2022, 1286.
[14] In tal senso, F. Saitta, Commento all’art. 36 d.P.R. 380/2001, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, Giuffrè, 2015, 863. Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, che ha tradizionalmente attanagliato il nostro territorio, è stato, nel tempo, contrastato attraverso il ricorso ai condoni (negli anni 1985, 1994, 2003) nonché al «teorico» aggravamento del trattamento sanzionatorio previsto per le violazioni più gravi (dal 1977). M. A. Sandulli, voce Edilizia, in Enciclopedia del diritto. I tematici, vol. III – Le funzioni amministrative, 2022, 412. In senso critico rispetto al pregiudizio inferto dall’abusivismo al patrimonio culturale nazionale, si veda L. Casini, Abusi e condoni edilizi: dalla clandestinità al giusnaturalismo, in Giorn. dir. amm., 2019, 1.
[15] F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, Milano, CEDAM, 2021, 265.
[16] In tal senso, F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, cit., 267. L’ultimo tra i criteri indicati sembra essere quello prevalente; per effetto dello stesso potrebbe, ad esempio, avvenire che l’intervento eseguito in difetto di permesso edilizio (fattispecie di abuso più grave) sia, in dati casi, sanato, nei limiti della conformità alla normativa sostanziale urbanistica di quanto abusivamente realizzato.
[17] L’art. 7, L. n. 47/1985, configura in via definitiva l’azione repressiva della pubblica amministrazione, la cui «natura obbligatoria e vincolata» riceve forma per effetto dell’art. 15, L. 28 gennaio 1977, n. 10. E. Bonelli, Effettività del sistema sanzionatorio edilizio e tutela dei diritti fondamentali protetti dalla Cedu, in www.federalismi.it, 2018, 24, 5.
[18] Trattasi di interventi che danno luogo ad un organismo edilizio completamente diverso da quello oggetto di permesso, per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione, ovvero alla realizzazione di volumi edilizi eccedenti i limiti definiti nel progetto e tali da costruire un organismo edilizio, o parte di esso, dotato di «specifica rilevanza» nonché «autonomamente utilizzabile». Sussiste, dunque, difformità totale nell’ipotesi di costruzione di aliud pro alio, vale a dire nell’ipotesi in cui i lavori svolti tendano alla realizzazione di opere non incluse tra quelle assentite, dotate di autonomia e novità sui piani costruttivo e della valutazione economico-sociale. Cfr. Cass. pen., Sez. III, 17 febbraio 2010, n.16392. A mente di un più risalente orientamento giurisprudenziale, la difformità totale sussisterebbe allorché i lavori concernano un’opera differente «per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione» rispetto a quella oggetto dell’atto di concessione. Cfr. Cass. pen., Sez. III, 7 ottobre 1987.
[19] La definizione delle variazioni essenziali al progetto approvato è rimessa, ai sensi dell’art. 32, alla potestà regionale, entro i limiti definiti dall’art. 32 medesimo (ricorrenza delle condizioni previste dalle lettere a) – e) del comma 1). Complessivamente, trattasi di modifiche significative, idonee ad alterare il progetto dell’intervento edilizio originario nei suoi tratti caratterizzanti, configurando una categoria intermedia tra la difformità totale (limite superiore) e quella parziale (limite inferiore). In tal senso, F. Gaverini, Differenze e conseguenze nelle variazioni essenziali e non essenziali, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia di edilizia, cit., 231.
[20] G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 2015, 718. Quanto all’ipotesi di permesso emanato, ma non rilasciato, l’Autore ne ammette la rilevanza a condizione che si aderisca alla tesi che subordina la realizzazione del provvedimento al ritiro da parte del titolare del permesso. L’impostazione secondo cui il permesso di costruire acquisterebbe esistenza ed efficacia dal momento della relativa emanazione, ad avviso dello stesso Autore, desterebbe perplessità, a fronte della maggiore condivisibilità, sotto il profilo logico, della tesi che qualifica il pagamento del contributo di costruzione (in tutto o in parte) come condizione di efficacia del permesso stesso. Ciò posto, con stretto riferimento al dato testuale (la legge parla di «assenza»), non può prescindersi dal constatare che l’emanazione del permesso di costruire realizza la condizione richiesta dalla legge per l’esclusione del carattere abusivo dell’attività edilizia, indipendentemente dal ritiro del permesso.
[21] Considerato che il Testo Unico in materia edilizia, diversamente dalla precedente normativa, impiega non soltanto il termine «opere», ma anche il termine «interventi» (comprensivo delle «trasformazioni urbanistico-edilizie» che non si siano concretate nella realizzazione di opere), l’ordine impartito dall’Amministrazione non può circoscriversi alla sola demolizione, inidonea alla repressione delle fattispecie di abuso nel cui ambito non si siano registrate «trasformazioni fisiche», ma deve estendersi anche alla rimozione degli effetti dell’abuso. In tal senso, V. Mazzarelli, Diritto dell’edilizia, Torino, Giappichelli, 2004, 224. Nella medesima prospettiva, definisce la rimessione in pristino «la sanzione-base» che consente di ottenere la rimozione della totalità degli effetti dell’abuso F. Salvia, Il difficile cammino della legalità nel campo urbanistico (con particolare riferimento al profilo sanzionatorio), in Riv. giur. urb., 2010, 2, 345 ss.
[22] L’antigiuridicità, si è osservato, può ricadere non sulla condotta in sé, bensì sul risultato dell’attività di trasformazione della res, in ragione del conferimento alla stessa di caratteristiche non compatibili con quelle contemplate alla stregua della disciplina sostanziale; il che si registra nella fattispecie dell’intervento edilizio realizzato in difformità dal permesso di costruire. In tal senso, C. Gabbani, La logica dei provvedimenti ripristinatori, cit., 921 ss.
[23] D. Galasso, L’ordine di demolizione ha natura amministrativa non penale, in Diritto & Giustizia, 2022, 44, 7 ss.
[24] Sulla natura vincolata e obbligatoria del potere repressivo esercitato dall’Amministrazione in materia urbanistico-edilizia, si vedano A. Iannelli, Le violazioni edilizie amministrative, civili e penali, Milano, Giuffrè, 1981; R. Ursi, Commento ad art. 27 Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, in M. A. Sandulli (a cura di), Testo Unico dell’edilizia, cit., 671 ss.
[25] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 4 maggio 2023, n. 4537; Sez. VI, 7 novembre 2022, n. 9715; Sez. II, 20 maggio 2019, n. 3208. Una diversa impostazione ritiene più conforme alla ratio della L. 7 agosto 1990, n. 241 la tesi della necessaria comunicazione di avvio del procedimento nella materia esaminata, in quanto l’accertamento del fatto e il suo corretto inquadramento giuridico integrerebbero momenti imprescindibili della valutazione amministrativa in ordine all’esistenza delle condizioni per l’emissione del provvedimento, sicché risulterebbero indiscutibili l’interesse del destinatario a presentare le proprie osservazioni e la relativa partecipazione. In tal senso, G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 745; quanto alla giurisprudenza, si vedano, invece, TAR, Abruzzo, Pescara, 11 marzo 2008, n. 157; Cons. Stato, Sez. V, 29 gennaio 2004, n. 296; TAR, Campania, Napoli, Sez. VIII, 28 dicembre 2007, n. 16550.
[26] Cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 5 maggio 2011, n. 2496; TAR Liguria, Genova, Sez. I, 4 agosto 2011, n. 1220.
[27] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 9. Sul punto si è fondatamente osservato che, avuto riguardo alle ipotesi di sussistenza dei presupposti per la sanatoria del permesso, appurata la doppia conformità dell’opera alla normativa urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione sia al momento della presentazione dell’istanza ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380/2001, l’acquisizione della conformità non consente di evitare il ripristino: quest’ultimo, in casi siffatti, non può dunque definirsi come preordinato alla ricomposizione dell’interesse al corretto assetto urbanistico-edilizio, integrando, diversamente, una conseguenza dell’originaria carenza del titolo. Difettando l’esigenza di ricostituire «un assetto territoriale secundum legem», in presenza delle predette circostanze, «non sembra ragionevole né proporzionato prescindere totalmente da qualsiasi valutazione dell’elemento soggettivo e, più in particolare, dell’affidamento creato nel proprietario incolpevole da una protratta inerzia delle p.a. competenti a vigilare sull’attività edilizia». In tal senso, M. A. Sandulli, voce Edilizia, in Enciclopedia del diritto. I tematici, cit., 432 – 433. In termini critici sempre rispetto al profilo della tutela del legittimo affidamento del privato, si vedano P. Tanda, L’Adunanza Plenaria n. 9/2017 si pronuncia sul ruolo del fattore tempo nell’esercizio del potere repressivo della p.a. in materia urbanistico-edilizia, in www.federalismi.it, 2018, 1; L. Droghini, G. Strazza, L’ordinanza di demolizione degli abusi edilizi tra tempo, legittimo affidamento e obbligo di motivazione, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2018, 113 ss; C. Contessa, Rassegna di giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2017, 2581 ss.
[28] Cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 10 giugno 2008, n. 646; TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 4 dicembre 2007, n. 924; Cons. Stato, Sez. V, 29 maggio 2006, n. 3270; Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 23 aprile 2001, n. 183.
[29] Cfr. TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 19 luglio 2022, n. 1963; Cons. Stato, Sez. II, 12 settembre 2019, n. 6147; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 13 agosto 2013, n. 1619.
[30] Cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 16 luglio 2020, n. 610; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 10 agosto 2020, n. 1559; TAR. Toscana, Firenze, Sez. III, 16 marzo 2020, n. 333.
[31] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 maggio 2015, n. 2211; Sez. VI, 30 marzo 2015, n. 1650; Sez. VI, 4 settembre 2015, n. 4125. Sulla figura così delineata del «proprietario incolpevole» si vedano D. Chinello, L’acquisizione gratuita di immobili abusivi e la figura del proprietario incolpevole, in Giur. it., 2015, 11, 2468 ss; A. Liguori, L’acquisizione al patrimonio comunale nei confronti degli eredi estranei all’abuso, in Nuove aut., 2017, 2, 375 ss.
[32] Acquisita la proprietà, con ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio comunale competente, si procede alla demolizione dell’opera abusiva nonché al ripristino dello stato dei luoghi, a spese dei responsabili dell’abuso, salva l’eccezione prevista al comma quinto del citato art. 31. Su tale ultimo punto, si veda F. Saitta, La “redenzione dalla colpa”. Ovvero della conservazione dell’immobile abusivo, tra giudice amministrativo e giudice penale, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2022, 4, 309 ss.
[33] Cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. III, 28 agosto 2017, n. 4146.
[34] Cfr. Corte cost., 15 luglio 1991, n. 345, sulla previsione, analoga rispetto a quella analizzata, di cui all’art. 7, L. n. 47/1985.
[35] Cfr. Cons. Stato, Sez. II, 7 febbraio 2020, n. 996; Sez. V, 27 aprile 2012, n. 2450; Sez. V, 1° ottobre 2001, n. 5179.
[36] Cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 4 aprile 2011, n. 2930; Tar Toscana, Firenze, Sez. III, 20 gennaio 2009, n. 24.
[37] TAR Liguria, Genova, Sez. I, 21 novembre 2005, n. 1490.
[38] G. Margiotta, Differenze e conseguenze nella difformità totale e parziale, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia di edilizia, cit., 263.
[39] G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 748. Precisa, inoltre, l’Autore che la causa di impossibilità sospenderebbe il termine di novanta giorni, mentre il suo venir meno determinerebbe l’obbligo dell’interessato di attivarsi, senza un previo atto dell’autorità. Ancora, quanto al profilo della tempestività, la denuncia effettuata a fronte dell’atto accertativo dell’inottemperanza sarebbe tardiva, salva la prova dell’impossibilità di comunicare l’impedimento.
[40] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 giugno 2020, n. 2813; Sez. VI, 29 marzo 2019, n. 2100; Sez. VI, 10 settembre 2018, n. 5308. In senso analogo depone anche un più risalante orientamento facente capo alla Corte di Cassazione, che subordina l’automatica acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio del Comune all’inottemperanza «ingiustificata» all’ordine di demolizione della costruzione abusiva, prescindendo dalla notifica all’interessato dell’accertamento formale della mancata ottemperanza. Cfr. Cass. pen., Sez. III, 17 novembre 2009, n. 2912; Sez. III, 8 ottobre 2009, n. 39075.
[41] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 18 maggio 2020, n. 3120; Sez. VI, 25 giugno 2019, n. 4336. Se l’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale identifica, per la prima volta, l’area acquisita ulteriormente al manufatto abusivo, l’ordinanza ha natura parzialmente costitutiva avuto riguardo solo a quest’ultima.
[42] Le medesime osservazioni sono effettuate dall’indirizzo giurisprudenziale minoritario che attribuisce natura istantanea all’illecito derivante dell’inottemperanza all’ordine demolitorio, il quale si consumerebbe una volta spirato il termine fissato ai fini della demolizione spontanea. Tale conclusione sarebbe sorretta dalla lettura sistematica della normativa recante la disciplina della materia de qua. Cfr. TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 22 gennaio 2020, n. 189; Cons. Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2018, n. 178. Negli stessi termini si è espressa l’Adunanza Plenaria nella sentenza in commento, rilevando la coincidenza tra il momento di consumazione dell’illecito e lo spirare del termine assegnato dall’autorità amministrativa con l’ingiunzione di demolizione. Considerata la persistenza della lesione di valori costituzionalmente presidiati, ai sensi degli artt. 9, 41, 42, 117, Cost. (sino a che non sia ripristinata la legalità violata, tramite il rilascio di un titolo abilitativo o la materiale demolizione delle opere), ritiene, ancora, la Plenaria che l’omessa ottemperanza all’ingiunzione rivesta la peculiare natura di illecito con effetti permanenti.
[43] La sanzione è intesa in senso stretto allorquando l’ordinamento, considerate le ricadute negative sull’ordine pubblico generale scaturenti dalla posizione di una condotta antigiuridica, reagisce attraverso la produzione di un danno al responsabile, prescindendo dall’effettiva ricomposizione dell’interesse che ha subito lesione. In tal senso, M. A. Sandulli, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione (Studi preliminari), Napoli, Jovene, 1981; Id., Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, Jovene, 1983; E. Rosini, Sanzioni amministrative, Milano, Giuffrè, 1991.
[44] A. Di Lascio, Sanzioni amministrative pecuniarie e reali, in A. Cagnazzo, S. Toschei, F. Tuccari (a cura di), La vigilanza e la procedura di irrogazione delle sanzioni amministrative, cit., 574.
[45] Tra gli obiettivi che la riforma del 2014 ha perseguito, per il tramite di una serie di modifiche apportate al d.P.R. n. 380/2001, si annoverano la semplificazione delle procedure edilizie, la riduzione degli oneri gravanti su cittadini e imprese, l’introduzione di nuovi mezzi di agevolazione dell’attività edilizia privata, l’incentivazione di processi di sviluppo sostenibile.
[46] M. A. Sandulli, Edilizia, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2022, 3, 215.
[47] Cfr. TAR Piemonte, Torino, Sez. II, 20 marzo 2018, n. 336.
[48] F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, cit., 268.
[49] Cfr. TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 12 ottobre 2022, n. 768; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 9 dicembre 2020, n. 5940; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 12 luglio 2016, n. 1105. Nello stesso senso in dottrina, là dove si è affermato che l’abuso edilizio comporta, in qualità di «unica e diretta conseguenza», l’ordine di ripristino, sottratto all’applicazione dei principi e delle regole in materia di misure punitive; diversamente, l’acquisizione gratuita del bene e la sanzione pecuniaria costituiscono sanzioni in senso stretto derivanti dall’inottemperanza, «ciò che riduce a questa seconda fase l’ambito di operatività dei presupposti per l’applicazione delle pene». M. A. Sandulli, voce Edilizia, in Enciclopedia del diritto. I tematici, cit., 432.
[50] Sul rapporto tra processo amministrativo e processo penale in materia, si veda F. Francario, Illecito urbanistico o edilizio e cosa giudicata. Spunti per una ridefinizione della regola del rapporto tra processo penale ed amministrativo, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2015, 4, 99 ss.
[51] Tale species è stata definita, in particolare, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che ha concorso alla delineazione di uno «statuto di regole fondato su garanzie convenzionali di natura sostanziale e processuale (artt. 6 e 7)». Precisamente, i criteri per l’identificazione della categoria di sanzioni in argomento sono costituti: «i) dalla qualificazione giuridica dell’illecito; ii) dalla natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione, di carattere generale, della norma che lo prevede (deve essere rivolto alla generalità dei consociati) e dallo scopo perseguito che deve essere non risarcitorio ma afflittivo; iii) dal grado di severità della sanzione, che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non di quella concretamente applicata». In tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 11 novembre 2019, n. 7699, con espresso riferimento a Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Bassi.
[52] M. A. Sandulli, voce Sanzione, IV) Sanzioni amministrative, in Enc. giur., vol. XXVIII, Roma, 1992, 2.
[53] C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, Giuffrè, 1988, 43. In altri termini, come efficacemente chiarito da granitica giurisprudenza, si tratta di misure preordinate «alla soddisfazione diretta dell’interesse pubblico specificamente pregiudicato dalla violazione». Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 26 luglio 2017, n. 3694; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 7 luglio 2023, n. 4099.
[54] M. Lunardelli, Sanzioni e misure ripristinatorie: una rivalutazione del pensiero di Feliciano Benvenuti, cit., 190.
[55] In dottrina, la natura afflittiva nonché tipicamente sanzionatoria delle misure menzionate è stata reputata innegabile; il carattere tipicamente sanzionatorio delle medesime risulterebbe dalla stessa applicazione dei cosiddetti «Engel criteria» (nota 52). M. A. Sandulli, voce Edilizia, in Enciclopedia del diritto. I tematici, cit., 412.
[56] In tal senso, le già menzionate TAR Piemonte, Torino, Sez. II, 20 marzo 2018, n. 336; TAR, Campania, Napoli, Sez. III, 28 agosto 2017, n. 4146. In tali pronunce, il riconoscimento della natura ripristinatoria della sanzione di cui all’art. 31, comma 4 bis, d.P.R. n. 380/2001, conduce ad escludere l’operabilità di una riduzione del relativo importo ai sensi dell’art. 16, L. n. 689/1981, che sarebbe stata ammessa nella differente ipotesi di adesione alla tesi della natura punitiva della sanzione medesima.
[57] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 12 aprile 2023, n. 3670.
[58] A. Di Lascio, Sanzioni amministrative pecuniarie e reali, cit., 575.
[59] C. Gabbani, La logica dei provvedimenti ripristinatori, cit., 951-952.
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