ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riflessioni a proposito della valutazione ambientale strategica: autorità coinvolte e autonoma impugnabilità della determinazione di assoggettamento a V.A.S. (Nota a T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 12 gennaio 2024, n. 52)
di Ilaria Genuessi
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La complessità dell’istituto anche alla luce della normativa vigente. – 2.1. La V.A.S. nelle intenzioni del legislatore eurounitario. – 2.2. La frammentarietà della disciplina sul piano interno e ricadute sul piano pratico. – 3. Autorità procedente e competente e problematicità legate ai diversi livelli di competenza. – 4. L’aspetto problematico circa la natura stessa della V.A.S. – 5. Impugnabilità della determinazione di assoggettamento a V.A.S. e ulteriori profili processuali. – 6. Osservazioni conclusive.
1. Il caso di specie
La pronuncia presa in esame concerne l’istituto della valutazione ambientale strategica e, nello specifico, l’aspetto di ordine processuale dell’autonoma impugnabilità della determinazione di assoggettamento a V.A.S. in relazione ad una variante al piano delle regole emessa, nella fattispecie concreta in questione, dalla Autorità Procedente, anziché da quella Competente.
La sentenza riguarda nello specifico una variante al PGT avviata nell'ambito di una procedura di SUAP finalizzata al cambio di destinazione d'uso di un’area, da residenziale ad artigianale, determinante la modifica al Piano delle Regole e, pertanto, sottoposta a screening di valutazione ambientale strategica.
In dettaglio, la società ricorrente, ditta operante nella attività di stampaggio metallico, proponeva al Comune resistente nel giudizio in questione una variante al P.G.T., ai sensi e per gli effetti dell’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 e dell’art. 97 della l.r. n. 12/2005, concernente l’ampliamento di un opificio produttivo esistente, mediante la costruzione di un fabbricato artigianale da adibirsi ad uso magazzino, su area sita a margine di una via del Comune interessato avente destinazione residenziale, contigua e limitrofa al predetto opificio esistente.
Con delibera di Giunta n. 42 del 14 marzo 2017, il Comune esprimeva il proprio atto d’indirizzo favorevole rispetto all’avvio del procedimento istruttorio relativo alla variante allo strumento urbanistico e individuava nella fattispecie quale Autorità Procedente il Responsabile SUAP e quale Autorità Competente altro soggetto.
Mediante delibera n. 61 del 28 marzo 2017, di poco successiva, il Comune approvava l’avvio del procedimento di variante al Piano delle Regole attraverso la procedura di SUAP, nonché l’avvio del procedimento di assoggettabilità a V.A.S.
Ebbene, nel giugno 2017, l’Autorità Procedente adottava le determinazioni conclusive della conferenza indicando come si ritenesse doveroso sottoporre la proposta in oggetto alla procedura di V.A.S.; tale provvedimento veniva di seguito approvato, sempre dalla medesima Autorità Procedente, mediante specifica determina di assoggettabilità n. 292 del 27 luglio 2017.
Proprio avverso tale atto insorgeva pertanto la ricorrente, deducendone l’illegittimità per incompetenza, violazione della normativa di settore ed eccesso di potere sotto svariati profili. La società ricorrente impugnava l’atto predetto chiedendone l’annullamento, oltre alla condanna del Comune al risarcimento del danno, da liquidarsi in via equitativa.
L’ente locale, costituitosi in giudizio, eccepiva, in rito, l’inammissibilità della domanda di annullamento per carenza d’interesse, in particolare sulla base dell’argomentazione della natura endoprocedimentale della determina di assoggettabilità a V.A.S., rilevando altresì l’improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse, in particolare, in considerazione del nuovo quadro normativo in materia introdotto dalla l. n. 108 del 29 luglio 2021, oltre che dalla l. n. 233 del 29 dicembre 2021.
Tale ultimo profilo, nello specifico, è ritenuto infondato dal giudice adito, il quale considera non condivisibile l’eccepita sopravvenuta carenza d’interesse per mutamento del quadro normativo, in applicazione del noto principio tempus regit actum.
Del pari, ritiene il collegio giudicante infondata l’ulteriore eccezione d’inammissibilità per carenza d’interesse sollevata dal Comune, per come si avrà modo di esporre in maniera più dettagliata oltre (cfr. § 5).
Con specifico riguardo all’aspetto processuale della autonoma lesività e, dunque, conseguente possibile immediata impugnabilità degli atti conclusivi della stessa procedura di valutazione di impatto ambientale e di screening, in particolare, il giudice ritiene condivisibile e, pertanto, richiama sul punto, l’orientamento già espresso dal medesimo Consiglio di Stato in materia di assoggettabilità a V.I.A., giudicato applicabile, in ragione dell’eadem ratio, anche al caso concreto in esame concernente come esposto una fattispecie di assoggettabilità a V.A.S.[i]
2. La complessità dell’istituto anche alla luce della normativa vigente
2.1. La VAS nelle intenzioni del legislatore eurounitario
Come noto, la valutazione ambientale (V.A.S.) trova il suo fondamento nella Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001 e ha la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente innestandone la tutela anche nell’ambito del procedimento di adozione e di approvazione di piani e programmi idonei ad impattare significativamente sullo stesso, con lo scopo della promozione di uno sviluppo sostenibile[ii].
La V.A.S., peraltro, condivide con altri strumenti di valutazione, quale soprattutto la valutazione di impatto ambientale (V.I.A.) su singoli progetti, l’ispirazione al rispetto del principio di precauzione, in una prospettiva di sviluppo durevole e sostenibile dell’uso del suolo, in maniera tale da costituire un unico sistema che vuole l’intero ciclo della decisione teleologicamente orientato alle predette esigenze di tutela[iii].
Peraltro, sebbene la locuzione di cui trattasi sia stata per la prima volta individuata proprio in ambito comunitario, si ravvisavano tuttavia, sia a livello internazionale, sia in taluni Stati, istituti simili già prima della introduzione della V.A.S. medesima[iv].
In ambito eurounitario, la scelta del legislatore si è collocata inizialmente nel senso della individuazione di una disciplina unicamente rivolta alla valutazione dei “progetti”, dunque con specifico riguardo alla V.I.A. e, solo in un secondo momento, con riferimento anche a “piani e programmi”, con la conseguente previsione di una disciplina differenziata per la V.A.S. rispetto a quella già disposta per la V.I.A.
In tal senso, pare che la Commissione europea, al fine di giustificare tale scelta di ordine legislativo, abbia posto in evidenza come i progetti possano potenzialmente produrre un impatto distorsivo sulla concorrenza maggiore rispetto a quello determinato da piani e programmi.
A ciò si aggiunga che, neppure in sede di modifica della disciplina in materia, condotta per mezzo della direttiva n. 2011/92/UE, si sia optato a livello europeo per una scelta di accorpamento sul piano normativo delle due predette discipline.
Di conseguenza, a livello interno, la dottrina ha posto in evidenza in senso pressochè unanime il merito della specifica disciplina dettata sul piano nazionale in materia di valutazione ambientale strategica: la stessa cioè sarebbe stata in grado di sopperire alle carenze proprie della procedura di valutazione di impatto ambientale, integrando i medesimi interessi ambientali all’interno del procedimento pianificatorio sin dalla fase inziale e, dunque, non a valle del procedimento, laddove le opzioni percorribili che residuano si riducono alla possibilità di dare assenso ovvero manifestare dissenso rispetto alla realizzazione di un progetto[v].
Mediante, l’esperimento della V.A.S., in altri termini, sarebbe possibile conoscere gli esiti della valutazione circa gli effetti di piani e programmi sul piano ambientale in una fase iniziale, considerando il procedimento pianificatorio in ottica complessiva, con conseguenti ricadute pratiche positive per gli stessi operatori abilitati a consultare il piano regolatore di un Comune e a conoscere in una fase preliminare in quali aree potrebbe essere consentito collocare un impianto avente potenziali effetti dannosi per l’ambiente[vi].
2.2. La frammentarietà della disciplina sul piano interno e ricadute sul piano pratico
Nell’ordinamento interno si è registrato anzitutto un notevole ritardo nel recepimento della menzionata direttiva in materia di valutazione ambientale di piani e programmi, in conseguenza del quale, come noto, si sono aperte due procedure di infrazione ad opera della Commissione europea nei confronti del nostro Paese.
Di seguito, la relativa disciplina è stata inserita nell’ambito del Codice dell’ambiente del 2006, con una successiva riscrittura della medesima per mezzo del d.lgs. n.4/2008 e, a seguire, del d.lgs. n. 128/2010. Da ultimo, si registra l’ulteriore modifica del Codice in questione ad opera del d.lgs. n. 104/2017, in attuazione della direttiva 2014/52/UE, dalla quale emerge un insieme di previsioni evidentemente complesso e articolato circa la valutazione in oggetto.
Ciò in ragione dei diversi livelli normativi che vengono in rilievo e, altresì, alla luce della presenza di diverse autorità coinvolte, con attribuzione di specifici compiti, secondo un riparto di competenze multiforme sul fronte prescrittivo: si contano in materia stratificate fonti, sovranazionali, nazionali e regionali, ma anche eterogenee fonti di rango primario e secondario, cui si affiancano in aggiunta strumenti di soft law.
A ciò si somma poi un ulteriore elemento di complessità, derivante dalla evidente difformità tra le singole discipline regionali sul tema, con discrepanze anche e soprattutto rispetto all’approccio nell’attribuzione delle competenze alle autorità coinvolte sul piano normativo, ma anche nel riscontro fattuale e sul piano della prassi.
Nell’ambito di tale frammentario quadro sul piano normativo interno, rispetto alle diverse legislazioni regionali si rinvengono punti comuni anche su aspetti qualificanti, bensì anche peculiarità significative della singola legislazione regionale: così talune Regioni hanno emanato normative organiche in tema di V.A.S.; altre, nell’ambito delle legislazioni di loro competenza, hanno puntualmente disciplinato le proprie competenze e quelle degli enti locali, così come i criteri al fine della individuazione degli enti locali territoriali interessati ed i soggetti competenti nella materia ambientale, ovvero ancora eventuali ulteriori modalità, rispetto a quelle indicate nel Codice, per l’individuazione di piani e programmi da sottoporre a V.A.S.
In particolare, come accennato, in talune realtà regionali si è in presenza di una normativa, di rango primario e secondario, oltre che di ulteriori numerosi provvedimenti quali delibere regionali sulla materia[vii].
Il medesimo art. 7 del d.lgs. 152/2006, infatti, dispone che la V.A.S. risulta assoggettata alla normativa dettata in sede statale rispetto a piani e programmi la cui approvazione compete ad organi dello Stato, mentre deve conformarsi alle disposizioni delle leggi regionali nell’ipotesi di piani e programmi la cui approvazione sia di competenza delle Regioni (o delle Province autonome) o degli enti locali.
In questo senso, difatti, la tutela ambiente rientra, ai sensi dell’art. 117, comma 2 lett. s), nell’ambito delle competenze esclusive statali, sebbene residui un margine di intervento facente capo alle singole Regioni, abilitate ad intensificare la tutela apprestata dalla legge statale (e non evidentemente a ridimensionarla) pur nel rispetto della c.d. “teoria del punto di equilibrio”, a condizione cioè che la disciplina locale più restrittiva non risulti lesiva di altri interessi ritenuti parimenti meritevoli di protezione.
In aggiunta, si consideri il disposto dell’art. 3-quinquies, comma 2, del d.lgs. 152/2006 il quale precisa che “le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell'ambiente più restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti un'arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali”[viii].
3. Autorità procedente e competente e problematicità legate ai diversi livelli di competenza
Ecco che, proprio rispetto a tale ultimo profilo, con riguardo alla fattispecie in esame i giudici ritengono nella sentenza in commento dirimente e, dunque, dotata di carattere assorbente, la specifica censura relativa alla incompetenza dell’autorità che nel caso di specie ha assunto la decisione e dunque, conseguentemente, ha emesso concretamente la determinazione di assoggettamento a VAS della variante al piano delle regole.
Proprio in ragione di tale difformità rispetto al dettato normativo sul punto i giudici ritengono nel caso in esame che la domanda di annullamento sia fondata e vada pertanto accolta[ix].
In particolare, nel caso di specie tale decisione veniva assunta dall’Autorità procedente, anziché da quella competente, come previsto sul piano normativo e specialmente dall’art. 4, comma 3 quater, della l.r. n. 12/2005. Peraltro, si rileva nella pronuncia come tale circostanza emerga ex actis e non sia stata contestata.
Sul punto si esprimeva peraltro il Comune resistente deducendo come la suddetta determina, seppur adottata dall’Autorità procedente sarebbe stata tuttavia di seguito ratificata, ex tunc, ad opera dall’Autorità competente, in ragione del fatto che la stessa vi avrebbe dato seguito senza alcuna contestazione.
Il giudice amministrativo interpellato nel caso de quo rileva nondimeno in merito come l’atto amministrativo di ratifica implicante la sanatoria del vizio di incompetenza relativa postuli specifici presupposti individuati in sede normativa, dei quali tuttavia non si ravvisa traccia nell’ambito del provvedimento in questione.
Si tratterebbe, in particolare, dei seguenti elementi: la necessità di esternazione delle “ragioni di interesse pubblico” giustificatrici del potere di sostituzione, intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza dell'organo privo di legittimazione, l'organo a legittimazione naturale all'adozione dell'atto l'abbia ratificato sotto la spinta di effettive esigenze a valenza pubblicistica; la menzione dell'atto da convalidare; l'indicazione del vizio che lo inficia; una chiara manifestazione della volontà di eliminare il vizio (c.d. animus convalidandi) e, da ultimo, la produzione degli stessi effetti che l'atto oggetto di convalida intendeva produrre.
Ebbene, la pronuncia in esame offre certamente spunti di riflessione a proposito di tale aspetto, ossia circa il riparto di competenze tra Autorità procedente e competente nell’ambito di una procedura di V.A.S., così come espresso nella normativa statale sull’istituto, oltre che più nel dettaglio nell’ambito della normativa regionale.
Peraltro, proprio a proposito di tale questione, nella presente sede, si impone necessariamente una attenta riflessione in chiave critica, la quale pare di maggiore interesse laddove si interseca con l’ulteriore profilo della natura stessa della V.A.S., così come emerge dal dato normativo, bensì anche come delineata nel tempo dalla prevalente dottrina e giurisprudenza[x].
Sul piano strettamente normativo occorre rilevare come l’art. 5 del d.lgs. 152/2006, recante Codice dell’Ambiente, operi un preciso riferimento all’Autorità procedente e all’Autorità competente, senza imporre, tuttavia, un principio di necessaria separazione tra le stesse.
Del resto, come posto in luce dallo stesso giudice amministrativo, la ricostruzione volta a sostenere a livello interpretativo il suddetto principio di separazione parrebbe basato sull’implicita convinzione che la V.A.S. rappresenti un momento di controllo sull’attività di pianificazione, posto che invece occorrerebbe intenderla come incentrata su di un rapporto di “collaborazione” tra le due autorità in vista del comune obiettivo dell’elaborazione di un piano o programma attento ai valori della tutela e sostenibilità ambientale, seppur in un contesto dialettico, essendo le predette autorità in questione deputate alla tutela di interessi diversi[xi].
Rispetto al riparto di competenze in caso di V.A.S. di rilievo locale, in particolare, si è approdati ad un complesso e articolato quadro sul piano normativo, il quale vede la coesistenza di una legislazione regionale, primaria e secondaria, caratterizzata da una pluralità di approcci, soprattutto con riferimento alle modalità procedimentali, tanto che risulta concretamente impraticabile una sintesi e comparazione tra le diverse discipline regionali.
In linea generale, tuttavia, emerge il dato comune e diffuso per cui le Regioni abbiano per lo più delegato sul punto gli altri Enti territoriali, sicché si assiste sovente ad una sovrapposizione tra l’Autorità proponente e l’Autorità competente quali articolazioni distinte della stessa Amministrazione.
In merito occorre ribadire come tale dato non si ponga però in contrasto con la disciplina eurounitaria, ai fini del rispetto della quale non rilevano i meccanismi concretamente impiegati dagli Stati membri, bensì unicamente “che essi siano idonei ad assicurare il risultato voluto di garantire l’integrazione delle considerazioni ambientali nella fase di elaborazione, predisposizione e adozione di un piano o programma destinato a incidere sul territorio. Sicché “per nulla illegittima, e anzi quasi fisiologica, è l’evenienza che l’autorità competente alla V.A.S. sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa autorità procedente”.[xii]
Sul piano europeo, in dettaglio, l'art. 6, 3 della direttiva 2001/42 non imporrebbe in altri termini che sia creata o designata un'altra Autorità consultiva in ragione di tale disposizione, “purché, in seno all'autorità normalmente incaricata di procedere alla consultazione in materia ambientale e designata a tal fine, sia organizzata una separazione funzionale in modo tale che un'entità amministrativa, interna a tale autorità, disponga di un'autonomia reale, la quale implichi, segnatamente, che essa abbia a disposizione mezzi amministrativi e risorse umane propri, sia in tal modo in grado di svolgere i compiti attribuiti alle autorità consultive ai sensi di tale art. 6, n. 3, e, in particolare, di fornire in modo oggettivo il proprio parere sul piano o programma previsto dall'autorità dalla quale essa promana”[xiii].
Tale specifico aspetto, tuttavia, parrebbe oggi recepito nell’ordinamento interno sul piano normativo unicamente con riferimento alla valutazione di impatto ambientale, ai sensi dell’art. 7 bis, comma 6 del Codice dell’ambiente.
In dettaglio, così come emerge dal Rapporto del 2017 redatto dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare sullo stato di attuazione dei procedimenti di V.A.S., le Regioni avrebbero perlopiù delegato le funzioni di “Autorità competente” a province, città metropolitane e comuni, in quanto preposti alle scelte urbanistiche nell’ambito del proprio territorio di riferimento.
Posto tuttavia che tale delega non può non risolversi – al pari del resto di quanto avviene con riferimento alla tutela del vincolo paesaggistico – nella concentrazione delle attività istruttorie e di quelle valutative nel medesimo contesto organizzativo, si imporrebbe poi in capo alle Regioni un ruolo di garanzia circa la reale separazione e autonomia di giudizio tra le articolazioni interne indicate come competenti in concreto.
Nel medesimo Rapporto ministeriale, si pone in evidenza del pari come la frammentazione dei procedimenti derivata da tali deleghe abbia prodotto concretamente un onere aggiuntivo per le Regioni, chiamate a monitorare i procedimenti attivati sul territorio, garantendo la necessaria unitarietà della governance[xiv].
Nel solco dell’orientamento giurisprudenziale predominante, il Consiglio di Stato, a proposito del riparto di competenze, pertanto, come anticipato, è giunto ad affermare che dalle definizioni oggi contenute nell’art. 5, d.lgs. n. 152 del 2006 di “Autorità competente” e “Autorità procedente” risulta chiaro solo che entrambe siano “amministrazioni”, non che le stesse debbano essere diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in un diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente)[xv].
4. L’aspetto problematico circa la natura stessa della V.A.S.
Un’ulteriore questione connessa a quella appena trattata riferita al problematico riparto di competenze nell’ambito della procedura di V.A.S. riguarda pertanto la natura stessa della V.A.S. quale fase interna nell’ambito del procedimento pianificatorio ovvero, secondo altra interpretazione affermatasi, quale procedimento a sé stante e dotato di una sua autonomia, un sub-procedimento autonomo cioè rispetto alla più generale procedura di pianificazione.
Alla luce dello stesso dettato di cui all’art. 11 del Codice dell’Ambiente, parrebbe maggiormente sostenibile quell’opzione ermeneutica che concepisce la V.A.S. non quale procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, bensì come un passaggio endoprocedimentale di esso[xvi].
Tale ricostruzione ermeneutica, inoltre, fa capo a talune specifiche pronunce del Consiglio di Stato nell’ambito delle quali si è sostenuta la tesi della valenza meramente endoprocedimentale della V.A.S., la quale si concretizzerebbe in un passaggio interno al procedimento e finalizzato alla espressione di un parere di verifica circa la sostenibilità ambientale della medesima pianificazione[xvii].
Secondo tale orientamento, peraltro, si ravviserebbe un’argomentazione a sostegno della tesi de qua proprio nel dato della sostanziale identità funzionale tra Autorità procedente e Autorità competente (così come espresso nel paragrafo precedente).
In altri termini, dal dettato normativo sull’argomento non emergerebbe che la valutazione ambientale strategica sia attribuita ad un’amministrazione diversa rispetto a quella competente rispetto all’adozione del piano.
Di contro, i sostenitori della tesi della autonomia della V.A.S. fondano invece tale assunto sull’argomentazione della distinzione tra Autorità procedente, chiamata all’elaborazione del piano o del programma e Autorità competente rispetto all’espletamento della V.A.S., anche in ragione della necessaria indipendenza e imparzialità che dovrebbe connotare l’Autorità competente al fine dello svolgimento della valutazione in oggetto[xviii].
5. Impugnabilità della determinazione di assoggettamento a V.A.S. e ulteriori profili processuali
Rispetto alle questioni di ordine processuale che vengono in rilievo nel caso in esame, si pone in evidenza come il giudice nella pronuncia in questione ritenga infondata l’eccezione di inammissibilità della domanda di annullamento sollevata dal Comune per carenza d’interesse, sulla base della argomentazione della natura endoprocedimentale della determina di assoggettabilità a VAS.
In merito, a proposito della autonoma lesività e, dunque, conseguente possibile immediata impugnabilità degli atti conclusivi della stessa procedura di valutazione di impatto ambientale e di screening, nella sentenza si ritiene condivisibile l’orientamento già espresso dal Consiglio di Stato, a proposito della procedura di V.I.A., giudicato applicabile in ragione dell’eadem ratio anche al caso concreto in esame.
In tal senso, infatti, si esplicita testualmente come “fin dal loro ingresso nell’ordinamento[xix], le procedure di VIA e di screening, pur inserendosi sempre all’interno del più ampio procedimento di realizzazione di un’opera o di un intervento, sono state considerate da dottrina e giurisprudenza prevalenti come dotate di autonomia, in quanto destinate a tutelare un interesse specifico (quello alla tutela dell’ambiente), e ad esprimere al riguardo, specie in ipotesi di esito negativo, una valutazione definitiva, già di per sé potenzialmente lesiva dei valori ambientali[xx]. Questo è il motivo per il quale anche gli atti conclusivi della procedura di screening, seppure connotati dal rilevato grado di provvisorietà, nell’accezione meglio esplicitata, sono stati ritenuti immediatamente impugnabili dai soggetti interessati alla protezione di quei valori, ovvero dal privato che ritenga immotivato l’aggravio procedurale impostogli”[xxi].
A proposito delle censure proponibili avverso le decisioni in materia di V.A.S., peraltro la giurisprudenza pare si sia assestata poi nel senso che le medesime siano ritenute ammissibili nella misura in cui la parte istante indichi la concreta lesione alla sua proprietà derivata dall’inosservanza delle norme sul procedimento, laddove in aggiunta si dimostri che proprio le determinazioni raggiunte in sede di V.A.S. abbiano inciso in maniera determinante sulla decisione finale concernente la destinazione urbanistica del suolo[xxii]; sarebbe di contro inammissibile una doglianza meramente “strumentale”, ritenuto che il generico interesse ad un rinnovato esercizio del potere pianificatorio ad opera dell’Amministrazione non sarebbe sufficiente a distinguere la posizione del ricorrente da quella del quisque de populo[xxiii].
In altri termini, sotto il profilo dell’interesse ad agire, la procedura di V.A.S. non sarebbe impugnabile al fine di ottenere ad opera dell’amministrazione una riedizione del potere pianificatorio.
Tale rigida opzione ermeneutica si spiegherebbe, nondimeno, in ragione del fatto che proprio la V.A.S. va a collocarsi nell’ambito di un procedimento di pianificazione caratterizzato da ampia ed evidente discrezionalità delle scelte urbanistiche, per natura insindacabili eccettuati i casi di manifesta erroneità, illogicità, ovvero arbitrarietà delle scelte operate dall’amministrazione.
Le limitazioni alle censure proponibili avverso i provvedimenti adottati in sede di V.A.S. incontrano, in definitiva, i limiti propri del medesimo sindacato esperibile in materia di valutazioni ambientali e dunque anche di valutazione di impatto ambientale, connotate del pari da discrezionalità tecnica, con tutte le implicazioni del caso.[xxiv]
Ancora, occorre considerare che le censure proposte in tema di V.A.S. dovrebbero essere essenzialmente e, in ultima istanza, orientate all’ottenimento di una più marcata ed effettiva tutela dei valori ambientali.
La complessità dell’istituto della V.A.S. evidentemente dà luogo a problematiche anche di ordine più strettamente processuale così come nel caso di specie, ma si pensi ad ulteriori implicazioni quali quelle della possibilità autonoma impugnabilità del parere V.A.S., in relazione alla natura giuridica del medesimo; il connesso aspetto degli effetti della mancata acquisizione del parere V.A.S., ovvero della configurabilità di una V.A.S. “postuma”, aspetto sul quale peraltro la giurisprudenza si è pronunciata con arresti di segno opposto.
In particolare, secondo un primo orientamento, la fase di valutazione della V.A.S. deve essere effettuata prima dell’approvazione del piano, o comunque durante la predisposizione del medesimo, in quanto gli impatti significativi sull’ambiente vanno necessariamente presi in considerazione ex ante.
In tal senso i sostenitori di tale tesi richiamano l’argomentazione per cui non esiste una disposizione per la V.A.S. corrispondente alla logica di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 152/2006 in materia di V.I.A.; l’art. 11 del Codice, infatti, stabilisce semplicemente l’annullabilità del piano o del programma non assoggettato preventivamente a V.A.S., con l’unica mitigazione, quindi, di stabilizzare gli effetti del provvedimento qualora non venga impugnato[xxv].
Di contro, secondo altro orientamento del giudice amministrativo, il diritto dell’Unione non osta a che la valutazione sia effettuata ex post, purché le norme nazionali che consentono la regolarizzazione non forniscano agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto comunitario[xxvi].
6. Osservazioni conclusive
Rispetto alla sentenza in commento la peculiare statuizione che si ritiene di maggior rilievo non è tanto quella relativa alla predicata incompetenza dell’autorità che, nel caso di specie, ha emesso la determinazione di assoggettamento a V.A.S., quanto certamente quella concernente la ritenuta autonoma lesività del provvedimento di assoggettamento alla valutazione ambientale strategica della variante oggetto di causa.
Tale affermazione, infatti, concretizzatasi nel rigetto dell’eccezione d’inammissibilità per carenza d’interesse sollevata dal Comune resistente, viene di fatto a discostarsi dall’orientamento dominante della giurisprudenza amministrativa, volto alla esclusione della possibilità di far valere in giudizio vizi relativi alla proceduta di V.A.S. ad opera di soggetti privati interessati alla edificazione.
Come esplicitato difatti dalla predetta giurisprudenza amministrativa sul punto, a tale conclusione si dovrebbe pervenire ritenuto che l’istituto in questione è finalizzato ad esigenze di tutela ambientale, in quanto tali pertanto antitetiche rispetto alla posizione giuridica del cittadino interessato alla edificazione[xxvii].
Tuttavia, si ritiene che il caso di specie, se analizzato nel dettaglio, mostri come tale discostamento del giudice nel caso concreto rispetto alla consolidata giurisprudenza sul punto sia soltanto apparente. In altri termini, dalla pronuncia in questione non emergerebbe una negazione della natura meramente endoprocedimentale della V.A.S., così come esplicitato da ultimo dal supremo consesso amministrativo nell’ambito della nota sentenza n. 6152/2021[xxviii].
Tale ricostruzione sarebbe cioè confermata dal giudice amministrativo lombardo il quale, nel caso in esame, avrebbe piuttosto posto l’accento su altri aspetti dirimenti e, in particolare, sul fatto che nella fattispecie concreta non si discuterebbe dell’esito della pianificazione, bensì di una sezione procedurale iniziale dell’istituto della valutazione strategica interessata dal predetto vizio di incompetenza.
Ancora, nel caso di specie, il giudice giunge alla conclusione esplicitata sulla base dell’argomentazione determinante per cui la decisione di assoggettamento a V.A.S. rappresenterebbe senza dubbio un atto dotato di lesività, essenzialmente in quanto implicante un evidente aggravio procedimentale, in senso analogo rispetto agli effetti prodotti da uno screening negativo nell’ambito di una procedura di valutazione di impatto ambientale.
Detto altrimenti, la decisione di assoggettamento a V.A.S. in questione avrebbe vincolato il privato ad intraprendere tale fase endoprocedimentale, a cui il medesimo avrebbe potuto sottrarsi alla luce di una decisione spettante ad una Autorità diversa, ovvero quella competente[xxix].
[i] Tra le pronunce più recenti sul tema si v., in partic., TAR Veneto, sez. II, 22 maggio 2023, n. 680.
[ii] Sulla tematica si v. G.F. Ferrari, Valutazione ambientale strategica e di impatto ambientale, in S. Nespor, L. Ramacci (a cura di), Codice dell’ambiente: profili generali e penali, Milano, 2022, 2689 ss.; si v. altresì G. Delle Cave, La Valutazione Ambientale Strategica: ratio, caratteristiche e peculiarità (nota a Consiglio di Stato, Sez. II, 01 settembre 2021, n. 6152), in questa rivista; B. Giuliani, Valutazione ambientale strategica, valutazione di impatto ambientale e autorizzazione integrata ambientale, in M. Allena-A. Bartolini-P. Chirulli (a cura di), Trattato di diritto del territorio, vol. II, Torino, 2018, pp. 1067 ss.; R. Greco, VIA, VAS e AIA: queste sconosciute, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010.
[iii] V. sull’argomento Cons. Stato, sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152.
[iv] Così, a titolo esemplificativo, in Inghilterra o in Olanda. Si v. peraltro in argomento M. D’Orsogna – L. De Gregoriis, La valutazione ambientale strategica, in AA.VV., Trattato di diritto dell’ambiente, diretto da P. Dell’Anno – E. Picozza, vol. II, Discipline ambientali di settore, Cedam, 2013, 561 ss.
[v] Cfr. in particolare, E. Boscolo, La valutazione degli effetti sull’ambiente di piani e programmi: dalla VIA alla VAS, in Urb. e app., 2002, 10, 1121 ss. e M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007.
[vi] Sull’argomento si v. tra gli altri, L. Ugolini, F. Vanetti, La sottoposizione a Valutazione ambientale strategica (V.A.S.) degli strumenti di pianificazione urbanistica ed il coordinamento con la Valutazione di impatto ambientale (V.I.A.). Nota a sentenza: CGUE, sez. II, 7 giugno 2018, causa C-671/16; CGUE, sez. II, 7 giugno 2018, causa C-160/17, in RGA, 3, 2018, 529-534; A. Cassatella, Discrezionalità amministrativa e valutazione ambientale strategica, in Riv. giur. urbanistica, 1, 2016, 164-195; S. Amorosino, La Valutazione Ambientale Strategica dei piani territoriali ed urbanistici e il silenzio assenso di cui al nuovo art. 17 bis L. n. 241/1990, in Urb e app., 12, 2015, 1245-1251.
iv È il caso di Regione Lombardia ove, in relazione alla V.A.S., rilevano la l. r. 12/2005, bensì anche, tra le altre, le DGR n.6420/2007, n.761/2010; n. 3836/2012; n.6707/2017 e n. 2667/2019. Sul sistema lombardo cfr. in partic. P. Brambilla, L’autorità procedente non è competente. Ma l’autorità competente lo è?, in RGA online, 51, 2024, ove si chiarisce come le modalità organizzative della VAS nella Regione Lombardia siano rette da criteri e indirizzi di soft law e specialmente la DCR 351/2007 e la DGR 10971/2009, le quali dispongono che entrambe le Autorità, competente e procedente, siano collocate nella stessa amministrazione, con conseguente pretermissione della prerogativa della separazione. Ne consegue che nel modello lombardo è la stessa amministrazione che valuta e decide, sovente mediante figure appartenenti a uffici diversi, ma con il coinvolgimento diretto anche di sindaci o segretari comunali, specialmente ove siano interessati piccoli comuni, così come previsto nell’ambito della DGR 13071/2010.
[viii] Lo stesso giudice costituzionale si è pronunciato in numerose ipotesi sul tema. Si v., tra le altre: Corte cost. 29 marzo 2013, n. 58, pronunciatasi a proposito della legge della Regione Veneto, secondo la quale “è consentito alla legge regionale incrementare gli standard di tutela dell’ambiente, quando essa costituisce esercizio di una competenza legislativa della Regione e non compromette un punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato”; Corte cost. 1° dicembre 2006, n. 398, ove, nel dichiarare legittima una legge Regione Friuli Venezia Giulia, si è precisato che “la valutazione ambientale strategica, disciplinata dalla direttiva 2001/42/CE, attiene alla materia ‘tutela dell’ambiente’. Da tale constatazione non deriva tuttavia la conseguenza che ogni competenza regionale sia esclusa”; Corte cost. 17 giugno 2010, n. 221, sempre su una l. Regione Friuli Venezia Giulia, che invece ha ritenuto non lesiva della potestà legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente la previsione, nella legislazione regionale, di termini procedimentali ridotti.
[ix] Sempre a proposito delle competenze nell’ambito della procedura “dinamica” di valutazione ambientale strategica si v. una recente pronuncia a proposito del caso del piano di gestione dei rifiuti di Roma: Cons. Stato, sez. IV, 9 febbraio 2024, n. 1349.
[x] V. sul tema E. Boscolo, La valutazione ambientale strategica di piani e programmi, in RGE, 1, 2008, 3-17.
[xi] Cfr. Cons. Stato, sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152.
[xii] Si v. in partic. in questo senso Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133. Tra le pronunce più recenti a proposito della non indispensabile separazione tra le due autorità in oggetto si v. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 14 gennaio 2016, n. 81 e Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2023, n. 7130.
[xiii] Così Cons. Stato, sez. IV, 1° settembre 2015, n. 4081, ove si richiama CGUE, 20 ottobre 2011, C-474/10, Department of the Environment for Northern Ireland c. Seaport (NI) Ltd e al.
[xiv] V. Cons. Stato, sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152.
[xv] Ibidem.
[xvi] V. in argomento F. Vanetti – E. Serra, Valutazione ambientale strategica e limiti del sindacato giurisdizionale, in RGA online, n. 50, febbraio 2024.
[xvii] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133; si v, inoltre, TAR Abruzzo, Pescara, 9 febbraio 2012, n. 51.
[xviii] Cfr. tra le altre TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17 maggio 2010, n. 1526.
[xix] Si fa riferimento, in particolare, al d.P.R. 12 aprile 1996 in materia.
[xx] Si richiama in particolare sul punto Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2009, n. 1213.
[xxi] Così la sentenza in commento, la quale opera un riferimento a Cons. Stato, sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379.
[xxii] Così, tra le più recenti, TAR Toscana, Firenze, sez. I, 23 giugno 2023, n. 641.
[xxiii] In questo senso, tra le pronunce più recenti, si v. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 5 dicembre 2023, n. 2951; Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2023, n. 7130; TAR Lombardia, Milano, 4 aprile 2019 n. 451 e TAR Lombardia, Milano, sez. II, 7 luglio 2020, n. 1291.
[xxiv] Cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 30 maggio 2022, n. 4355 e Id., 28 marzo 2023, n. 3168.
[xxv] Si v., in tal senso, TAR Puglia Bari, n. 1677/2020 ove si è precisato che “è solo l’Amministrazione che può valutare funditus l’interesse pubblico ambientale e se vi siano profili nuovi non già considerati e quali essi siano e, per questo, è la stessa a dover, in prospettiva logico-giuridica, dar impulso, nel caso di specie, ad un nuovo procedimento di V.A.S., qualora lo ritenga in concreto indispensabile, alla luce del P.P.T.R.”.
Cfr. A. Forina, Le sopravvenienze urbanistico-edilizie e l'ammissibilità di una valutazione ambientale strategica postuma (commento a T.A.R. Puglia, Bari, sez. II, 22 dicembre 2020, n.1677), in Riv. giur. urbanistica, 3, 2021 655-685.
[xxvi] Così, in particolare, TAR Lombardia, Milano, n. 1319/2018 che, applicando le coordinate date dalla CGUE 27 luglio 2017, C‑196/16 e C‑197/16 sulla eliminazione delle conseguenze illecite derivanti dall’omessa effettuazione di una valutazione di impatto ambientale (VIA), ha ritenuto che il diritto dell’Unione non osta a che la valutazione sia effettuata ex post, purché le norme nazionali che consentono la regolarizzazione non forniscano agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto comunitario. Sebbene tali principi siano stati enucleati in materia di V.I.A. il T.A.R. Milano ha ritenuto di estendere l’approccio della CGUE ad una procedura di V.A.S., in ragione del simile schema procedimentale e del comune carattere preventivo delle due valutazioni.
[xxvii] In tal senso la stessa giurisprudenza ha rilevato sul punto come la valutazione ambientale (V.A.S.) trovi il suo fondamento nella Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001 e abbia “la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente innestandone la tutela anche nel procedimento di adozione e di approvazione di piani e programmi astrattamente idonei ad impattare significativamente sullo stesso. Essa condivide con altri strumenti di valutazione, come la valutazione di impatto ambientale (VIA) su singoli progetti e quella di incidenza, riferita ai siti di Natura 2000, l’ispirazione al rispetto del principio di precauzione, in una prospettiva di sviluppo durevole e sostenibile dell’uso del suolo, in modo da costituire un unico sistema che vuole l’intero ciclo della decisione teleologicamente orientato a ridette esigenze di tutela”. Così, in particolare, Cons. Stato, sez. II, 1° settembre 2021, n. 6152.
[xxviii] Ibidem, laddove, in particolare, il Collegio nell’ambito della sentenza ha esplicitato di non condividere “l’approccio ermeneutico di fondo della parte appellante, che desume la necessaria “separatezza” tra le due autorità dalla implicita convinzione che la VAS costituisca una sorta di momento di controllo sull’attività di pianificazione svolta dall’autorità proponente, con il corollario dell’impossibilità di una identità o immedesimazione tra controllore e controllato, appunto. Siffatta ricostruzione, invero, è smentita dall’intero impianto normativo in subiecta materia, il quale invece evidenzia che le due autorità, seppur poste in rapporto dialettico in quanto chiamate a tutelare interessi diversi, operano “in collaborazione” tra di loro in vista del risultato finale della formazione di un piano o programma attento ai valori della sostenibilità e compatibilità ambientale: ciò si ricava, testualmente, dall’art. 11, d.lgs. n. 152 del 2006, che secondo l’opinione preferibile costruisce la V.A.S. non già come un procedimento o subprocedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ma come un passaggio endoprocedimentale di esso, concretantesi nell’espressione di un “parere” che riflette la verifica di sostenibilità ambientale della pianificazione medesima. Ciò trova conferma anche nelle più recenti modifiche normative, peraltro in materia di V.I.A., che declinano l’esigenza di segnalare ogni situazione di conflitto, anche potenziale, alle competenti autorità (art. 50, comma 1, lett. c), punto 3, d.l. n. 76 del 2020, che ha modificato sul punto l’art. 7 bis, comma 6, d.lgs. n. 152 del 2006); ma senza incidere sulla previgente previsione inforza della quale l’autorità competente può coincidere con l’autorità proponente di un progetto, purché ne vengano separate in maniera appropriata, nell’ambito della singola organizzazione, le funzioni potenzialmente confliggenti”.
[xxix] V. sul punto P. Brambilla, L’autorità procedente non è competente. Ma l’autorità competente lo è?, cit.
Atomo scisso e silenzio prefettizio: tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario (nota a TAR Reggio Calabria, 25 gennaio 2024, n. 68)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini***
Sommario: 1. Breve ricostruzione della vicenda contenziosa; 2. Sull’autonomia funzionale tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario; 3. Il silenzio dell’autorità prefettizia tra legislazione e giurisprudenza.
1. Breve ricostruzione della vicenda contenziosa
Il rapporto tra controllo giudiziario e interdittiva antimafia conduce l’operatore del diritto a porsi interrogativi sempre differenti. Detto binomio impone costante attenzione, al fine di cogliere appieno la portata dei due istituti nella loro sfera individuale e nella loro sinergia; nonché al fine di individuare e superare i limiti che si palesano nella loro applicazione [1].
Nella pronuncia in commento, il giudice di prime cure, è stato investito dal ricorso dell’impresa individuale che chiedeva l’accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dall’autorità prefettizia a fronte dell’istanza di revisione della valutazione interdittiva.
Nonostante il susseguirsi dei solleciti, l’amministrazione si limitava a confermare la pendenza dell’istruttoria finalizzata all’aggiornamento dello status dell’impresa.
Intanto l’impresa otteneva dal Tribunale delle Misure di Prevenzione l’ammissione alla misura del controllo giudiziario di cui all’art. 34 bis D.lgs. n. 159/2011 e sulla scorta di ciò l’amministrazione eccepiva l'improcedibilità del ricorso per difetto d'interesse, motivandola in ragione della dichiarata insussistenza, da parte della Prefettura, dell’obbligo di definire l’istanza di riesame fino all'esito della misura di cui all’art. 34 bis Codice antimafia.
Il giudice, argomentando per come segue, concludeva per l’accoglimento del ricorso con contestuale dichiarazione d’illegittimità del silenzio della Prefettura e ordinava di provvedere in maniera espressa.
2. Sull’autonomia funzionale tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario
Occorre indagare l’estensione dell’istituto del controllo giudiziario ex art. 34-bis del decreto legislativo n. 159 del 2011, segnatamente riguardo ai riflessi che si producono sulla sfera giuridica dell’impresa destinataria di provvedimento interdittivo antimafia.
Risulta necessario segnalare la presenza di un ampio ventaglio di misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa nell’economia che variano di intensità e pervasività in modo proporzionale al livello di contagio mafioso.
L’applicazione di tali misure, ha posto nel tempo interrogativi sempre differenti, ai quali la dottrina e la giurisprudenza hanno tentato di rispondere ponendo a sistema i due istituti.
La soluzione più convincente appare quella secondo cui i due istituti risultano vasi comunicanti che non si riversano l’uno nell’altro bensì mantengono il proprio contenuto a comparti stagni.
Così, il massimo organo della giustizia amministrativa, recentemente, ha indagato il rapporto che intercorre tra il provvedimento interdittivo antimafia e il controllo giudiziario con le pronunce dell’Adunanza Plenaria n. 6 e 7 del 2023 [2].
Ora, risulta chiaro come il controllo giudiziario volontario può essere chiesto dalle «imprese destinatarie di informazione antimafia interdittiva ai sensi dell’articolo 84, comma 4, che abbiano proposto l’impugnazione del relativo provvedimento del prefetto», quando, ai sensi del comma 1, l’agevolazione di soggetti indiziati di appartenere ad organizzazioni di stampo mafioso «risulta occasionale».
Già all’indomani dell’introduzione dell’istituto del controllo giudiziario è stato messo in discussione anche da chi scrive il potere-dovere del giudice amministrativo di decidere i ricorsi avverso il provvedimento interdittivo antimafia, ove l’impresa abbia ottenuto dal Tribunale della prevenzione la misura del controllo giudiziario.
Sul punto l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che, in forza della normativa vigente, è valido l’orientamento che riconosce l’autonomia dei procedimenti e che l’ammissione al controllo giudiziario non impedisca che vada definito senza ritardo il giudizio amministrativo di impugnazione avverso quest’ultima.
A conferma di ciò, è condivisibile l’orientamento secondo cui si ritiene che, ove anche l’interdittiva non venga annullata all’esito del giudizio di impugnazione devoluto al giudice amministrativo e, dunque, risulti accertata sulla scorta del principio del più probabile che non l’esistenza di infiltrazioni mafiose nell’impresa, non per questo si deve ritenere venuta meno l’esigenza di risanare la stessa. È in tale circostanza altresì necessario intervenire con gli strumenti vigenti al fine di dare la possibilità all’impresa di reinserirsi nell’economia sana.
In tal senso, oltre alla lettura della disposizione normativa, depone la sua funzione risanatrice. Il controllo giudiziario si avvia a seguito del provvedimento prefettizio antimafia ma si fonda su un’autonoma valutazione prognostica del Tribunale della prevenzione di superamento delle circostanze occasionali di condizionamento [3].
Dunque, postulare la sospensione del giudizio di impugnazione avverso il provvedimento interdittivo condurrebbe a snaturare la funzione intrinseca del processo tramutandolo in uno strumento per l’attivazione di ulteriori mezzi di tutela allontanandolo dalla naturale ratio di tutela di situazioni giuridiche.
Sicché, l’Adunanza plenaria ritiene che non è rilevabile alcun rapporto di pregiudizialità tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il controllo giudiziario.
Pertanto, è altresì fermo che l’attivazione del controllo giudiziario non inficia la possibilità di ottenere la liberatoria dall’informativa antimafia.
L’intero apparato si fonda e si giustifica sull’autonomia funzionale dei due istituti. Il controllo giudiziario trae origine dal provvedimento interdittivo e ne risulta atomo scisso ma orbitante dal momento successivo.
Ribadita l’autonomia degli accertamenti di competenza del Tribunale della prevenzione penale rispetto a quelli svolti dall’autorità prefettizia, in sede di rilascio delle informazioni antimafia, deve a fortiori ritenersi libera la decisione prefettizia circa la liberazione dell’impresa destinataria di interdittiva [4].
In conclusione, risulta evidente come l’interdittiva antimafia si fonda su una valutazione statica di elementi da cui può scaturire l’attivazione del controllo giudiziario ex art. 34 bis cd. Codice antimafia. Quest’ultimo viaggia, da questo momento in poi, su un binario parallelo.
3. Il silenzio dell’autorità prefettizia tra legislazione e giurisprudenza
La staticità della valutazione dell’interdittiva antimafia impone un contemperamento degli interessi coinvolti al fine di evitare inutili ed ingiuste compressioni di diritti costituzionalmente garantiti.
Così, la Corte Costituzionale [5] fonda la legittimità dell’informativa interdittiva antimafia, riconoscendo la sua funzione avanzata nella lotta contro il condizionamento mafioso, nella sua funzione anticipatoria della difesa della legalità.
Solo una misura così camaleontica risulta essere idonea a recidere ogni legame con l’ambiente mafioso ove ciò risulta più probabile che non[6].
Ciò rappresenta un allontanamento dallo stato di diritto che si giustifica esclusivamente nella volontà di intervenire e tutelare il preponderante interesse pubblico.
Pertanto, l’invasività di tale strumento impone la necessaria ponderazione dei contrapposti valori, escludendo circostanze in cui il soggetto destinatario di provvedimento interdittivo sia privato della sua identità d’impresa.
Insieme a pochi altri, una delle previsioni normative necessarie ad assicurare la sopravvivenza e il corretto esercizio dell’attività economica è certamente il “carattere provvisorio della misura”, per come previsto dall’art. 86 comma 2 D.lgs. n. 159/2011, cui segue l’obbligo della Prefettura di provvedere all’aggiornamento degli elementi posti a base della stessa, per come espressamente previsto dal successivo art. 91 comma 5.
Sicché, una delle forme di tutela del privato è rinvenibile nella validità temporale limitata a dodici mesi del provvedimento interdittivo, al termine del quale, l’autorità prefettizia è tenuta a procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze fondanti l’interdittiva, con il diretto effetto, nella positiva ipotesi, del reinserimento dell'impresa nel mercato libero e sano.
Al fine di scongiurare la compressione ingiustificata di un diritto costituzionalmente garantito quale la libertà d’impresa in modo prolungato è necessario che l’amministrazione proceda senza indugio alla rivalutazione dell’apparato che sorregge il provvedimento interdittivo.
Nondimeno, l’impresa ha il diritto ad ottenere una rivalutazione della sua posizione nel mercato al fine di evitare inutili limitazioni che risulterebbero illegittime.
Nel caso di specie, il comportamento inerte dall’autorità prefettizia risulta dunque in contrasto tanto con il più generale principio previsto all’art. 2 L. n. 241/90, tanto con la disciplina speciale del codice antimafia in tema di rinnovazione di valutazione del provvedimento interdittivo di cui all’art. 91 comma 5 D.lgs. n. 159/2011, a mente del quale il “prefetto, anche sulla documentata richiesta dell'interessato, aggiorna l'esito dell'informazione al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell'accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa” [7].
La pronuncia in commento merita pertanto di essere segnalata per l’affermazione dell’obbligo dell’amministrazione di evadere le istanze di aggiornamento dell’informazione antimafia per scongiurare il rischio di inutili compressioni che possono comportare la morte economica dell’impresa e per non penalizzare proprio le imprese che si siano dimostrate più collaborative al risanamento.
In conclusione, il rapporto di condizionamento tra il controllo giudiziario ed il procedimento amministrativo di revisione ex art. 91 comma 5 del Codice Antimafia, entrambi in itinere nei confronti dell’impresa ricorrente, muove nel senso diametralmente opposto a quello posto in essere dall’autorità prefettizia nel caso di specie.
*** Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire il terzo paragrafo al Prof. Renato Rolli i restanti alla dott.ssa Martina Maggiolini.
[1] Si rinvia ampiamente a M.A.Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell'informativa antimafia e l'istituto del controllo giudiziario, L’Amministrativista, 2022
[2] Si consenta il rinvio a R. Rolli, V. Bilotto, F. Bruno, Interdittive antimafia e controllo giudiziario volontario: l’adunanza plenaria mette la parola fine (?) al dibattuto rapporto tra i due istituti, RatioIuris, 2023; R. Rolli, V. Bilotto, F. Bruno, Interdittive antimafia e il loro difficile (e travagliato) rapporto con il controllo giudiziario volontario: un quadro di insieme in attesa dell’adunanza plenaria, Ratio Iuris, 2023
[3] Sul punto si segnala la sentenza della Cassazione, Sezioni Unite penali, 19 novembre 2019, n. 46898, che ha affermato che quest’ultimo istituto costituisce una «risposta alternativa da parte del legislatore: perché alternativa è la finalità di queste, volte non alla recisione del rapporto col proprietario ma al recupero della realtà aziendale alla libera concorrenza, a seguito di un percorso emendativo», contraddistinta dal presupposto dell’«occasionalità della agevolazione dei soggetti pericolosi» e dalla valutazione prognostica incentrata «sulle concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano», sulla base del ‘controllo prescrittivo’ del Tribunale della prevenzione penale.
Così Adunanza plenaria 7/2023: “ la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva”.
[4] Così Adunanza plenaria 7/2023: “ la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva”.
[5] Sentenza del 26.03.2020, n. 57
[6] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in Questa rivista, 3 luglio 2020
[7] cfr., tra le tante, T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 3.08.2023, n. 661; 23.09.2022, n. 633
Il nuovo Tribunale persone minori e famiglie: cosa occorrerebbe fare entro il 17 ottobre 2024 perché possa funzionare
PARTE PRIMA
di Domenico Pellegrini
Sommario: 1. Premessa: riepilogo sintetico delle attività preliminari per l’avvio del TPMF e ipotesi di cronoprogramma - 1.1. Ipotesi di cronoprogramma - 1.2. Ipotesi circa il fabbisogno di risorse - 1.2.1. Ipotesi 1: lo studio del Dog - 1.2.2. Ipotesi 2: un calcolo secondo i carichi esigibili - 1.2.3. Osservazioni su fabbisogno, aumento dei carichi di lavoro e gestione pendenze ante 17 ottobre 2024.
1. Premessa: riepilogo sintetico delle attività preliminari per l’avvio del TMPF e ipotesi di cronoprogramma
1.1. Ipotesi di cronoprogramma
1.2. Ipotesi circa il fabbisogno di risorse
Rinviando al § 7 per una analisi di dettaglio delle possibili modalità di determinazione del fabbisogno di risorse magistratuali e amministrative per il nuovo TPMF si riportano sinteticamente di seguito alcune ipotesi di calcolo.
1.2.1. Ipotesi 1: lo studio del Dog
Nel 2022 il Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria del Ministero della Giustizia (DOG) ha condotto un primo studio per determinare l’organico del personale di magistratura necessario per l’avvio del TPMF.
Il risultato complessivo di tale studio proponeva la seguente dotazione organica:
Nello studio del DOG si evidenziava una dotazione complessiva e le modalità di recupero di tali risorse in parte dalle piante organiche degli uffici giudiziari e in parte da un aumento del personale di magistratura.
Per quanto attiene al personale amministrativo nello stesso studio il DOG evidenziava i seguenti fabbisogni:
Per quanto attiene ai dirigenti amministrativi il fabbisogno complessivo era stato quantificato dal DOG in 65 unità complessive.
1.2.2. Ipotesi 2: un calcolo secondo i carichi esigibili
Questa ipotesi considera il numero di iscrizioni nazionali in materia di famiglia e di procedimenti in gestione al giudice tutelare (tutele/ads/curatele/vigilanze): il numero delle sopravvenienze viene diviso per il numero di iscrizioni/gestioni stabilite dal CSM nella circolare sui carichi esigibili.
Nel valutare il numero di iscrizioni si è attribuito un peso alle procedure consensuali pari a 1/10 delle procedure contenziose.
Dei carichi esigibili vengono considerate l’ipotesi minima, mediana e massima (per il GT è stato ipotizzato un ruolo di 1000/1800/4000 procedimenti in gestione).
In base al dato mediano occorrono 634 giudici nelle sezioni circondariali.
Per i dati dei giudici distrettuali e per le Procure si rinvia allo studio del DOG e quindi per il nuovo TPMF servono:
1.2.3. Osservazioni su fabbisogno, aumento dei carichi di lavoro e gestione pendenze ante 17 ottobre 2024
In relazione alle ipotesi di fabbisogno si osserva che:
a) la previsione del Dog prevedeva, tanto per i magistrati che per il personale amministrativo, che il fabbisogno fosse soddisfatto sia da risorse sottratte alle Corti di Appello che ai Tribunali ordinari, sia da nuove risorse aggiunte con un aumento della pianta organica nazionale;
b) tale aumento veniva incontro alla esigenza di non sottrarre risorse dai (numerosi) tribunali più piccoli, dove vi è una sola sezione civile ed a volte una sola sezione promiscua: in tali uffici la perdita anche di una sola unita può portare alla paralisi dell'ufficio;
c) inoltre evitava di gravare in modo eccessivo su quegli uffici che oggi destinano da 1,1 a 1,9 risorse full-time equivalent al settore famiglia: invero poiché i giudici del TPMF svolgono funzioni esclusive nella materia di competenza a tali uffici potrebbe essere sottratta un numero di risorse fisiche superiore alla quota full time equivalent.
Va poi evidenziato che con la sottrazione ai giudici onorari esperti del TM delle competenze in materia di ascolto del minore e delle parti processuali e quindi di celebrazione delle udienze più impegnative il lavoro di questi ultimi si riverserà sui giudici ordinari.
I giudici onorari esperti sono 770: lavorando due giorni a settimana il loro lavoro equivale a quello di circa 250 giudici togati.
L’aumento di carico di lavoro stimabile, sui giudici ordinari, considerate le attività già devolute ai giudici esperti, può essere stimato nel 30%: tale dato non è stato preso in considerazione nel calcolo del fabbisogno che sotto tale profilo è sottostimato.
In ogni caso, qualunque decisione sulla pianta organica presuppone la risoluzione del tema delle cause pendenti presso i tribunali ordinari.
La attuale soluzione normativa prevede la permanenza di tali cause presso i tribunali ordinari che quindi dovranno organizzare specifiche sezioni anche qualora i giudici delle sezioni specializzate si trasferiscano presso il nuovo TPMF. In tale caso la copertura della pianta organica del TPMF potrebbe essere ridotta, inizialmente, ma con necessità di adeguare la copertura ogni 6 mesi per evitare la formazione di un forte arretrato.
Viceversa, ove con modifica normativa si adotti la soluzione opposta (ossia che i nuovi TPMF gestiscano anche le pendenze dei tribunali ordinari in materia di famiglia al 17 ottobre 2024, la pianta organica dei TPMF dovrà non essere adeguata ma adeguatamente coperta.
Va segnalato che con l’attuale normativa le Corti di Appello rimarranno competenti sugli appelli nei confronti dei provvedimenti del TO ben oltre il 31-12-2029: calcolando un tempo di definizione di 2 o 3 anni per gli appelli contro i provvedimenti di primo grado si può stimare una competenza residua della Corte fino al 2032/2033. È pur vero che la CDA rimane competente per gli appelli contro i provvedimenti collegiali del TPMF ma questi ultimi, a normativa invariata, non riguardano nessun procedimento dell’attuale TO.
Tale residualità della competenza della CDA, il cui peso diminuirà nel tempo, rischia di determinare, come per i TO, l’affidamento delle cause a sezioni non più specializzate.
La creazione di due circuiti giudiziari per le cause di famiglia determina la possibilità che mentre le separazioni introdotte prima del 17 ottobre verranno decise dal collegio TO con appello alla CDA, i divorzi introdotti il 17 ottobre 2024 dopo vengano decisi dal TPMF circondariale con appello al TPMF distrettuale, con tempi diversi e non coordinabili tra loro.
SEGUE QUI LA PARTE SECONDA https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/3152-il-nuovo-tribunale-persone-minori-e-famiglie-domenico-pellegrini-parte-seconda
(Immagine: José Ferraz de Almeida Júnior, Scena di famiglia, 1891, Pinacoteca di Stato di San Paolo, Brasile)
Il tema dei criptofonini, vicenda ormai notissima, è approdato alla Corte di Giustizia, su iniziativa del Landgericht Berlin, che si è pronunciata nella Grande Sezioni il 30 aprile 2024.
I termini della decisione erano noti alla luce delle argomentazioni sviluppate dal procuratore generale. In Italia, anche questo dato è noto, a sciogliere i forti contrasti interpretativi espressi in materia, soprattutto in punto di utilizzabilità del materiale trasmesso dalla Francia, sono intervenute le Sezioni unite che, rispondendo ai quesiti prospettati dalla Sez. III e dalla Sezioni VI, hanno fissato i seguenti punti di diritto.
In relazione alle questioni sollevate dalla Sez. III hanno deciso:
a) se il trasferimento all’Autorità giudiziaria italiana, in esecuzione di ordine europeo di indagine, del contenuto di comunicazioni effettuate attraverso criptofonini e già acquisite e decrittate dall’Autorità giudiziaria estera in un proprio procedimento penale, costituisca acquisizione di documenti e di dati informatici ai sensi dell’art. 234 bis c.p.p. o di documenti ex art. 234 c.p.p. ovvero sia riconducibile ad altra disciplina relativa all’acquisizione di prove;
b) se il trasferimento di cui sopra debba essere oggetto di verifica giurisdizionale preventiva della sua legittimità, nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine;
c) se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine.
In relazione al primo che il trasferimento di cui sopra rientra nell’acquisizione di atti di un procedimento penale che, a seconda della loro natura, trova alternativamente il suo fondamento negli artt. 78 disp. att. c.p.p., 238, 270 c.p.p. e, in quanto tale, rispetta l’art. 6 della Direttiva 2014/41/UE; in relazione al secondo quesito sostenendo che rientra nei poteri del pubblico ministero quello di acquisizione di atti di altro procedimento penale e in relazione al terzo quesito affermando che l’Autorità giurisdizionale dello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine deve verificare il rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo (informazione provvisoria n. 3 del 2024).
In relazione alle questioni sollevate dalla Sez. VI hanno stabilito: a) se l’acquisizione, mediante ordine europeo d’indagine, dei risultati di intercettazioni disposte da un’autorità giudiziaria straniera, in un proprio procedimento, su una piattaforma informatica criptata e su criptofonini integri l’ipotesi disciplinata, nell’ordinamento nazionale, dall’art. 270 c.p.p.;
b) se, ai fini dell’emissione dell’ordine europeo di indagine finalizzato al suddetto trasferimento, occorra la preventiva autorizzazione del giudice;
c) se l’utilizzabilità degli esiti investigativi di cui al precedente punto a) sia soggetta a vaglio giurisdizionale nello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine.
In relazione al secondo ricorso le Sezioni Unite hanno convenuto che si trattava di un atto riconducibile all’art. 270 c.p.p. che l’oie può essere richiesto dal p.m.; che l’Autorità giurisdizionale dello Stato di emissione dell’ordine europeo di indagine deve verificare il rispetto dei diritti fondamentali, comprensivi del diritto di difesa e della garanzia di un equo processo (informazione provvisoria n. 4 del 2024).
Siamo in attesa delle motivazioni anche se nel frattempo con le decisioni n. 13535 della Sez. I e n. 13819 della Sez. IV del 2024 due sezioni della Cassazione si sono già pronunciate relativamente ai ricorsi davanti ad esse pendenti.
La sentenza della Corte di Giustizia è importante perché, al di là di possibili variabili, fissa i punti di diritto della Corte sovranazionale destinati ad essere efficace per le situazioni che si dovessero prospettare, ma soprattutto perché ad essa dovranno adeguarsi le Corti dei vari Paesi interessati nel valutare l’utilizzabilità delle attività probatorie sviluppate in Francia.
La motivazione della Corte è molto ampia, come sempre, ma è possibile individuare le risposte alle questioni prospettata dai giudici tedeschi, che non differiscono da quelle che sono prospettate nelle sedi giudiziarie dei vari Paesi dove la questione si presenta.
In premessa: si da per acquisito che il materiale probatorio sia costituito da esiti di intercettazioni.
Secondo i giudici di Strasburgo, tenuto conto del fatto che nessuna disposizione della direttiva 2014/41 contiene una definizione della nozione di “telecomunicazione” utilizzata all’art. 31, par. 1, di tale direttiva, né un rinvio espresso al diritto degli Stati membri per determinare il senso e la portata di tale nozione, si deve ritenere che tal disposizione debba ricevere un’interpretazione autonoma e uniforme nel diritto dell’Unione.
Conseguentemente, sulla scorta dei dati deducibili dal contesto dell’art. 31 della direttiva 2014/41, ne deriva che l’infiltrazione in apparecchiature terminali volta ad estrarre dati di comunicazione, ma anche dati relativi al traffico o all’ubicazione, a partire da un servizio di comunicazione basato su Internet costituisce un’”intercettazione di telecomunicazioni” ai sensi dell’art. 31 della direttiva 2014/41.
Venendo alle puntuali questioni sollevate dai giudici tedeschi, va in premessa detto che la Corte pur ritenendo che spetti a lei dare al giudice la risposta che gli consenta di dirimere la controversia, ritiene che spetti ai giudici europei trarre dalle motivazioni della decisione gli elementi del diritto dell’Unione europea.
Sotto questo profilo, nel rispondere alla richiesta relativamente al presupposto dei gravi indizi da porre a fondamento dell’OIE, allo svolgimento della difesa in relazione alla segretezza delle procedure; alle stesse condizioni sostanziali applicate nello stato di emissione, la Corte fissa i seguenti punti di diritto.
In primo luogo, in relazione all’individuazione l’autorità competente all’emissione dell’OIE, la Corte precisa che un ordine europeo di indagine inteso a ottenere la trasmissione di prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione non deve essere adottato necessariamente da un giudice quando, in forza del diritto dello Stato di emissione, in un procedimento puramente interno a tale Stato, la raccolta iniziale di tali prove avrebbe dovuto essere ordinata da un giudice, ma competente ad ordinare l’acquisizione di dette prove è il pubblico ministero.
Conseguentemente, l’art. 6, par. 1, della direttiva 2014/41 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che un pubblico ministero adotti un ordine europeo di indagine inteso a ottenere la trasmissione di prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione, qualora tali prove siano state acquisite a seguito dell’intercettazione, da parte di tali autorità, nel territorio dello Stato di emissione, di telecomunicazioni dell’insieme degli utenti di telefoni cellulari che permettono, grazie a un software speciale e a un hardware modificato, una comunicazione cifrata da punto a punto, purché un tale ordine di indagine rispetti tutte le condizioni eventualmente previste dal diritto dello Stato di emissione per la trasmissione di tali prove in un caso puramente interno a detto Stato.
La conclusione si poggia sul concetto di autorità giudiziaria che definisce l’autorità di emissione e che ricomprende anche il pubblico ministero.
Va subito detto che l’affermazione è in linea con quanto precisato dalle due decisioni delle Sezioni unite, anche sulla scorta di quanto previsto dall’art. 270 c.p.p., relativamente alle intercettazioni disposte in un procedimento separato. Sul punto bisognerà tener conto sia dell’evoluzione normativa, sia dei più recenti orientamenti giurisprudenziali anche a sezioni unite.
La Corte afferma, altresì, che in forza di tale art. 6, par. 1, lett. a), tale autorità deve accertarsi che l’emissione dell’ordine europeo di indagini sia necessaria e proporzionata ai fini del procedimento di cui all’art. 4 di detta direttiva, tenendo conto dei diritti della persona sottoposta a indagine o della persona imputata. Dall’altro, in forza di detto art. 6, par. 1, lett. b), tale autorità deve verificare che l’atto o gli atti di indagine richiesti nell’ordine europeo di indagine avrebbero potuto essere emessi alle stesse condizioni in un caso interno analogo. Naturalmente il rispetto della integrità della prova dovrà essere valutato solo nel momento si disporrà delle prove e non in una fase anteriore.
In conclusione, un siffatto ordine può essere emesso unicamente a condizione che tale trasmissione avrebbe potuto essere disposta “alle stesse condizioni in un caso interno analogo”: impiegando i termini “alle stesse condizioni” e “in un caso interno analogo”, l’art. 6, par. 1, lett. b), della direttiva 2014/41 subordina al solo diritto dello Stato di emissione la determinazione delle specifiche condizioni richieste per l’emissione di un ordine europeo di indagine.
Ne consegue che, qualora un’autorità di emissione intenda acquisire prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione, tale autorità deve subordinare un ordine europeo di indagine al rispetto di tutte le condizioni previste dal diritto del proprio Stato membro per un caso interno analogo.
Del resto, l’art. 14, par. 7, della direttiva 2014/41 impone agli Stati membri di assicurare che, nel procedimento penale avviato nello Stato di emissione, siano rispettati i diritti della difesa e sia garantito un giusto processo nel valutare le prove acquisite tramite tale ordine europeo di indagine.
A questo elemento si salda anche l’affermazione dei giudici della Corte di Giustizia a mente della quale, sulle possibili ricadute di un ordine europeo di indagine illegittimo.
La Corte affronta anche il problema delle conseguenze della possibile violazione delle garanzie difensive del giusto processo e dei diritti fondamentali.
Pur riconoscendo che spetta agli stati membri definire le condizioni di ammissibilità e di valutazione di prove acquisite in violazione delle norme dell’Unione, afferma che il giudice penale nazionale deve espungere, nell’ambito del procedimento penale avviato a carico di una persona sospettata di atti di criminalità, informazioni ed elementi di prova su tale persona, grado di svolgere efficacemente le proprie osservazioni su tali informazioni ed elementi di prova e questi ultimi siano idonei ad influire in modo preponderante sulla valutazione dei fatti.
Non può al riguardo negarsi una certa evanescenza del riferimento al “preponderante” peso dell’attività svolta in modo “efficacemente” carente delle garanzie individuali.
La Corte, infine, affronta anche il tema delle intercettazioni effettuate in un altro Paese, nei confronti di un cittadino di quella nazione, affermando che il fatto deve essere notificato allo stato del cittadino straniero, il quale (stato membro) ha la facoltà di segnalare che tale intercettazione di telecomunicazioni non può essere effettuata o che si deve porre fine alla medesima qualora essa non possa essere autorizzata in un caso interno analogo.
Questo dato non è affrontato, allo stato, dalle decisioni delle Sezioni Unite, non potendosi escludere, tuttavia, che possa essere prospettato in una qualche vicenda processuale pendente. Non sembra, tuttavia, che notificazioni in tal senso siano state effettuate, prospettandosi, pertanto, se del caso, il problema della loro utilizzabilità.
Se una riflessione conclusiva si può trarre è che Corte di Giustizia e Corte di Cassazione si collocano in sintonia confermando quel processo di dialogo tra le Corti, confermato da quel paragrafo del comunicato della Corte nel quale si afferma che il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione, ma che la Corte non risolve la controversia nazionale, spettando al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tuttavia, tale decisione vincolerà egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.
(Immagine: Christo e Jeanne-Claude, Telefono impacchettato, 1962)
Il 19 gennaio 2024, giorno in cui Paolo Borsellino avrebbe compiuto 84 anni, a Marsala è stato inaugurato il “Museo Borsellino” su iniziativa promossa e condivisa dalla Sottosezione ANM di Marsala.
Lo spazio espositivo è stato realizzato nell’ufficio del vecchio Palazzo di Giustizia che dal 4 agosto dell’86 al 5 marzo 1992 fu destinato al Procuratore Borsellino: sono state utilizzate la sua stanza e l’antisala recuperandone gli arredi del tempo - poltrona, scrivania, divani, libreria, foto alle pareti ed anche i pacchetti delle sue immancabili sigarette - insieme ai faldoni in originale di alcuni procedimenti penali da lui promossi a Marsala.
È proprio tra queste carte poste sulla scrivania della stanza museo che il visitatore attento potrà trovare la misura di prevenzione personale e patrimoniale che, nel gennaio 1990, fu proposta a firma del Procuratore della Repubblica nei confronti di Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. Si tratta di una delle prime applicazioni della normativa antimafia in materia, testimonianza della nuova attenzione investigativa nei confronti della criminalità organizzata che l’arrivo di Paolo Borsellino avrebbe comportato su quel territorio.
Paolo Borsellino si insedia alla Procura di Marsala una volta conclusa l’esperienza al Pool dell'Ufficio Istruzione di Palermo, dove, con Giovanni Falcone, aveva predisposto e sottoscritto l’ordinanza-sentenza nei confronti di “Abbate Giovanni + 706” che diede vita al grande processo a “Cosa nostra” – unico ed irripetibile nella storia giudiziaria italiana – passato alla storia come Maxiprocesso per il numero elevatissimo – 475 – di imputati con vari capi d’accusa tra cui quello di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Il suo “essere magistrato” si era immediatamente caratterizzato per il piglio rivoluzionario rispetto al contesto, sia interno che esterno alla magistratura di allora: pool, organizzazione mafiosa, criminalità economica, accertamenti bancari, riscontri a dichiarazioni eteroaccusatorie e condivisione professionale non erano termini solitamente usati già dentro i Palazzi di Giustizia.
Paolo Borsellino - così come Rocco Chinnici, e come anche tutti coloro che con lui composero il Pool antimafia, Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello – furono dei veri innovatori per l’intera magistratura, capaci di stabilire regole deontologiche prima che professionali, di far prevalere il NOI sull'IO, superando così gelosie, protagonismi, vittimismi e soprattutto, di svolgere l’attività con curiosità investigativa e riscontri necessari, nel segno di una cultura di indagine dove la prova sovrasta la cultura del sospetto o del pre-giudizio.
Ed è con tale spirito che le attività investigative si arricchiscono, attraverso scambio di notizie ed informazioni, sia all’interno dell’ufficio che con altre Procure, adottando un metodo che, soprattutto in ambiti di fenomeni delittuosi pervicaci e di organizzazioni criminali che operano senza distinzione di competenze e/o territori, diventa chiave di successo affermando il principio che processi e indagini non appartengono al singolo Pubblico Ministero o al singolo magistrato, ma sono (o dovrebbero essere) - patrimonio comune.
L’esempio che il Procuratore Borsellino ha fornito alla Procura di Marsala – testimoniato il 19 gennaio scorso dai preziosi e commossi ricordi di Alessandra Camassa, Giuseppe Salvo e Luciano Costantini tra i protagonisti del gruppo marsalese di quel periodo - invita a rifiutare il ruolo del magistrato-burocrate, attendista e superficiale, appiattito al formale rispetto dell’orario di lavoro o delle “carte a posto” (oggi, “numeri e dati statistici a posto”!) o del magistrato isolato nella sua torre eburnea o al contrario, di quello che gareggia all'interno di una scenografica arena incoraggiando tifoserie, dimentico di “essere” un servitore dello Stato.
Egli ha svolto il ruolo di Procuratore, di coordinatore di indagini, senza schermarsi dietro formalismi o rispetto del “quieto vivere”, operando a tutela dei colleghi e, al tempo stesso, con l’autorevolezza derivata dalla sua professionalità e dall’impegno etico nel rispetto assoluto delle norme su assetto organizzativo e strutturale della Procura, individuando itinerari investigativi rispettosi delle norme e del doveroso coordinamento tra i vari organi investigativi, senza ingerenze o stress test di natura aziendale sul corretto sviluppo delle indagini.
Il suo agire si caratterizzava per il modo di affrontare le indagini: indagare “senza se e senza ma”, penetrando nel circuito criminale grazie agli strumenti normativi del processo e del diritto penale, facendo emergere fenomeni delittuosi di non facile e immediata acquisizione; egli infatti, ha indagato dove altri non indagavano nel rispetto del principio di autonomia e indipendenza della magistratura, riconosciuto costituzionalmente non quale prerogativa e privilegio di libertà da vincoli, ma, piuttosto, come principio che ne contraddistingue e delimita competenze e ruoli rispetto agli altri poteri dello Stato.
Così Paolo Borsellino è stato al servizio dello Stato e della Giustizia, protagonista indiscusso e autorevole della nostra storia giudiziaria senza scrivere libri su indagini svolte, né esibire od ostentare il proprio servizio; senza tessere relazioni con poteri estranei alla magistratura alla ricerca di vacui consensi o di prebende e incarichi; ha svolto le indagini nel rispetto della legge, senza esitazioni né personalismi, svelando sacche di impunità e facendo emergere reti di protezione o clientele, senza tatticismi o titubanze, preoccupazioni o retropensieri.
Egli ha acquisito credibilità, autorevolezza e riconoscimento solo indossando la toga per entrare nelle aule di Giustizia; non ha fatto ricorso a scorciatoie, raccomandazioni, relazioni per far valere il suo “essere” magistrato.
Tutto ciò Paolo Borsellino l’ha fatto mantenendo sempre quel sorriso accogliente e trasparente che mostra nelle foto esposte nel Museo, luogo di doverosa memoria, aperto a studenti, a marsalesi, a cittadini e a tutti coloro che hanno voglia di “vedere” i luoghi di questa illustre storia, per recuperare e meglio comprendere il valore che rappresentano questi Uffici non per (o almeno non solo per) statistiche, buone prassi, monitoraggi – più facilmente riferibili alla produttività aziendale – ma, piuttosto, per la capacità di condurre e sviluppare indagini che, nel rispetto delle regole penali e processuali e di fronte a prove verificate, configurino ipotesi di reato senza sacrificare le reali esigenze della persona sottoposta alle indagini e della persona offesa da sottoporre al vaglio del Giudice nel contraddittorio tra le parti.
Paolo Borsellino è stato un dirigente innamorato della funzione requirente in un momento storico nel quale tale figura cominciava ad essere al centro di polemiche tempestose degenerate in ingiuste e irragionevoli delegittimazioni, poiché molteplici sono stati e continuano ad essere i tentativi di assoggettare la Procura della Repubblica allo scopo di esercitare poteri di controllo e condizionamento o peggio, di indurre a forme di obbedienza.
Oggi a destare le preoccupazioni maggiori sono le preannunciate linee di fondo del progetto di riforma della giustizia penale che mirano a coinvolgere (o forse, a sconvolgere) l'assetto costituzionale che è proprio del Pubblico Ministero proponendo in modo ossessivo la separazione delle carriere giudicanti e requirenti, l'istituzione di due distinti Csm, l'incremento della percentuale della componente non togata in entrambi a scapito di quella togata, la prova psicoattitudinale, l'introduzione di un nuovo meccanismo disciplinare, un diverso rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, in balia di un legislatore frenetico e allo stesso tempo contraddittorio perché sempre orientato a sanzionare esclusivamente in sede penale – con delega diffusa al P.M. e al Giudice penale - ogni accadimento ritenuto illegittimo o in contrasto con le regole democratiche.
In tal modo, viene svilito il ruolo del Pubblico Ministero additandolo come il male di tutti i guai del valore Giustizia, tristemente affermando una palese sfiducia nel suo operato con il desiderio di delegittimarlo.
Il Museo dedicato a Paolo Borsellino, riecheggiando il convincimento proustiano secondo il quale "la memoria è l'unico strumento in grado di cogliere le trasformazioni che il tempo causa alle cose e alle persone; conservare la memoria, quindi, significa conservare l'identità" ci aiuta a recuperare il reale significato della funzione della Procura: ricca, appassionata, capace di intervenire in favore della vittima e nel rispetto della persona indagata, affermandone l’identità secondo il principio di un’azione della magistratura inquirente svolta dentro la cultura della giurisdizione e della prova, distante ed estranea – per il bene della collettività - a ogni forma di controllo e influenza, diverse da quelle fisiologiche delle regole del Processo.
L’auspicio è che il Museo diventi, in tal senso, anche un luogo di riflessione attenta, dove, attraverso oggetti della memoria, possa cogliersi l’essenza di “esser magistrato” di una Procura della Repubblica che, nella sua, apparentemente, semplice quotidianità, nasconde fatica, impegno, passione, riuscendo a realizzare risultati che possono aiutarci “a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
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