ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Diniego di autorizzazione all’esportazione dell’opera d’arte e procedimento dichiarativo dell’interesse culturale. Valutazioni tecnico-discrezionali e limiti del sindacato giurisdizionale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 dicembre 2023 n. 11204)
di Maria Grazia Della Scala
Sommario. -1. Premessa. – 2. Circolazione internazionale dei beni d’interesse culturale, l’“attestato di libera circolazione” dei beni d’interesse culturale e gli apprezzamenti affidati all’amministrazione. 3. - Il diniego di rilascio dell’attestato di libera circolazione del “Ritratto di Olga Oberhummer” di Franz von Stuck. – 4. Il sindacato di “maggiore attendibilità” e le posizioni del Consiglio di Stato; brevi considerazioni.
1. Premessa.
Il dibattito sui limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche o tecnico-discrezionali dell’amministrazione è da sempre alimentato e accompagnato, nei suoi tortuosi percorsi, dalle questioni che investono il riconoscimento del bene culturale ai fini della sua sottoposizione a vincolo[1].
Da un lato, emerge la problematica relativa al reale oggetto dell’apprezzamento amministrativo - le caratteristiche del bene atte a determinarne il particolare valore meritevole di protezione ovvero l’interesse pubblico intrinseco al bene stesso-, quindi quella della natura tecnica oppure tecnico-discrezionale, o addirittura discrezionale[2], del giudizio, a fronte della risalente considerazione, almeno formalmente o sotto alcuni aspetti, dell’atto impositivo del vincolo stesso in termini di atto dichiarativo[3].
D’altro lato, considerando l’apprezzamento dell’interesse pubblico intrinseco, in tutto o in parte, come possibile oggetto della valutazione della P.A., affiora l’ulteriore quesito circa la sua necessaria ponderazione con l’interesse privato ai fini della limitazione delle facoltà d’uso connesse al titolo dominicale[4].
Nelle posizioni più risalenti della giurisprudenza gli argomenti utilizzati per giustificare la ritrazione del sindacato giurisdizionale, in coerenza con i comuni atteggiamenti assunti in relazione ai giudizi tecnico-discrezionali, sono stati, come noto, i più vari: dal prevalente riconoscimento della natura discrezionale dell’apprezzamento dell’interesse culturale[5], pur ritenuto tendenzialmente non bisognevole di ponderazione[6], alla sua non meglio precisata natura di merito[7]. Ciò in sintonia posizioni note della dottrina tradizionale che, pur quando protese verso una cognizione più estesa del giudice amministrativo, non ha mancato di rinvenire la ratio di un sindacato non pieno nell’interesse pubblico perseguito dalla p.a[8]., in una incerta nozione di merito[9], in una scelta politica[10].
Tali incertezze argomentative non sono mancate nemmeno nelle più recenti evoluzioni giurisprudenziali, sia pur nel segno di un sempre più intenso accesso al fatto nel processo amministrativo[11]. Si incontrano, dunque, diversi nodi irrisolti già nelle prospettive teoriche, pur potendosi serenamente registrare una linea evolutiva certa, anzitutto, ma non soltanto, nelle affermazioni di principio: dal riconoscimento di poteri di controllo giurisdizionale “intrinseco debole” da parte del g.a., in ragione di pretesi labili confini tra opinabilità e opportunità[12], all’affermazione della meno equivoca possibilità di sindacato “intrinseco forte”, sia pur non sostitutivo[13], sulle valutazioni tecniche della p.a.[14], fino al riconoscimento in capo al g.a. di un sindacato addirittura “di maggior attendibilità” delle valutazioni tecniche prospettate dalle parti[15].
2. Circolazione internazionale dei beni d’interesse culturale, l’“attestato di libera circolazione” dei beni d’interesse culturale e gli apprezzamenti affidati all’amministrazione.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. n.42/2004) disciplina la circolazione in ambito internazionale di beni di interesse culturale, nel suo capo V, esito della riforma apportata con l. n, 124/2017 che ha tentato di offrire una prima timida risposta all’esigenza di bilanciare la rigorosa tutela dell’integrità del patrimonio culturale nazionale con il non eccessivo sacrificio del mercato dell’arte e della fruizione collettiva dei beni[16].
L’impronta sensibilmente protezionistica del nostro sistema[17], specie ove confrontato con altri ordinamenti[18], si coglie chiaramente dall’art.64 bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che enuncia la finalizzazione del controllo sulla circolazione internazionale alla preservazione, appunto, “dell’integrità del patrimonio culturale in tutte le sue componenti”, unitamente alla previsione del divieto di uscita definitiva dai confini nazionali dei beni culturali appartenenti a soggetti pubblici o a persone giuridiche private senza scopo di lucro, finché non intervenuta la verifica di insussistenza dell’interesse culturale ex art.12, o di beni di proprietà privata “dichiarati” ai sensi dell’art.10 co.3[19]. Tra questi, accanto ai tradizionali beni privati individuati come meritevoli di protezione in quanto d’interesse “particolarmente importante”, o, talvolta “eccezionale”, la l. n.124/2017 ha inserito con la lettera d-bis la considerazione de “le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione”; nozione ampia, che evoca poteri di valutazione dell’amministrazione potenzialmente più elastici ed estendibili rispetto a quelli già noti, ed esprime l’idea dell’appartenenza collettiva dei valori insiti nei beni da tutelare, anche in una prospettiva intergenerazionale[20].
Nei casi in cui non operi tale divieto, deve essere chiesta l’autorizzazione o “attestato di libera circolazione” al competente Ufficio Esportazioni, organo periferico del Ministero della Cultura, per il trasferimento di beni, a chiunque appartenenti, che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente, la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, e il cui valore – con alcune eccezioni - sia pari o superiore ad euro 13.500. Per altri beni si prescinde da queste condizioni: l’autorizzazione va in ogni caso richiesta per archivi e singoli documenti, appartenenti a privati, che presentino interesse culturale; per le cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela ai sensi dell’art. 11, co. 1 lett. f), g), h), a chiunque appartengano[21].
L’autorizzazione, di efficacia quinquennale, è rilasciata, sentito il Ministero, previo accertamento dell’assenza dell’interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, a termini dell'articolo 10 del Codice, delle cose presentate dall’interessato “in relazione alla loro natura o al contesto storico-culturale di cui fanno parte”.
Il diniego di autorizzazione, motivato puntualmente, comporta, in continuità con la simmetria già posta dal d.lgs. n. 490/99, l’automatico avvio del procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale, con conseguente applicazione di misure di tutela in via cautelare[22].
Al fine di offrire un qualche carattere di uniformità alle valutazioni compiute in sede decentrata dagli Uffici Esportazione, il Codice affida (art.68) al Ministro della cultura il compito di definire con proprio decreto “indirizzi di carattere generale”.
Tali indirizzi sono oggi posti dal d.m. n. 537/2017, che ha sostituito la risalente circolare del Ministero della Pubblica Istruzione del 13 maggio 1974[23]. D’interesse è la precisazione che funzione degli Uffici Esportazione è compiere “accertamenti e valutazioni tecnico-scientifiche” preordinate alla decisione, avvalendosi, se del caso, di esperti esterni all’amministrazione; e, ancora, che la qualità artistica di un bene non è sufficiente, di per sé sola, a giustificare un provvedimento di sottoposizione a tutela, dovendo questo conformarsi ai criteri ed elementi valutativi appunto indicati dallo stesso Ministero, associando più di un principio di rilevanza. Tra gli elementi da considerare sono menzionati: la qualità artistica dell’opera, da apprezzare alla stregua del magistero esecutivo, della capacità espressiva, della originalità dell’opera; la rarità dell’opera in senso qualitativo e quantitativo, considerando rilevanza, diversità, complessità tecnica, e reperibilità, ad esempio, di opere dello stesso autore o con caratteristiche simili; la rilevanza della rappresentazione quale non comune livello di qualità e/o importanza culturale, storica, artistica ecc.; l’appartenenza a un complesso e/o contesto storico, artistico, archeologico, monumentale anche se non più in essere o materialmente ricostruibile; l’essere testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo, con riferimento anche alla storia e alle tradizioni locali; l’essere l’opera testimonianza rilevante sotto il profilo archeologico, artistico, storico, etnografico di relazioni significative tra diverse aree culturali anche di produzione e/o provenienza straniera.
3. Il diniego di rilascio dell’attestato di libera circolazione del “Ritratto di Olga Oberhummer” di Franz von Stuck.
Tra le ultime pronunce del giudice amministrativo che hanno indugiato sul tema della valutazione tecnico discrezionale dell’interesse culturale, si segnala la recente decisione del Consiglio di Stato, del 27 dicembre 2023 n. 11204, resa in sede di appello alla pronuncia del TAR Lombardia, Sez. III, n.1390/2022, che aveva dichiarato infondato il ricorso avverso il diniego di rilascio dell’attestato di libera circolazione e determinato il conseguente avvio del procedimento di dichiarazione del particolare interesse culturale del dipinto “Ritratto di Olga Oberhummer” dell’artista tedesco Franz von Stuck del 1907.
Il diniego di autorizzazione poggiava su argomentati caratteri di qualità e rarità dell’opera, sulla sua idoneità ad accrescere il patrimonio culturale e artistico italiano, anche in ragione del suo debito verso la ritrattistica italiana.
Il ricorso, anticipato da osservazioni presentate nel corso del procedimento e accompagnate da una relazione tecnica di parte, contestava, nell’ambito delle diverse censure, in particolare, l’errore di valutazione compiuto dall’Ufficio circa i riferimenti artistici del quadro, lamentandosi altresì la mancata considerazione della sua origine straniera e dell’assenza di collegamenti con il contesto culturale italiano.
Si censurava poi l’omessa ponderazione dell’interesse pubblico alla conservazione con l’interesse del proprietario, compresso in modo asseritamente sproporzionato, nella misura in cui al suo sacrificio non avrebbe corrisposto alcun beneficio per l’interesse culturale nazionale, tanto più considerando che il bene non sarebbe stato destinato alla fruizione collettiva. Si rilevava, ancora il contrasto con l’art.36 del TFUE[24] il quale, nel contemplare l’“eccezione culturale” nell’ambito della tutela della libertà di circolazione delle merci nel territorio europeo, imporrebbe un’applicazione rigorosa e restrittiva della predetta deroga, accompagnata da congrua motivazione, nel caso di specie ritenuta insufficiente.
Nel respingere il ricorso, il TAR Lombardia ribadiva i profili strutturali della tutela dei beni culturali, l’immanenza dei limiti alle relative facoltà di utilizzo, da cui l’esclusione dell’indennizzo. Chiariva, inoltre, che le valutazioni compiute dall’Amministrazione ai fini della relativa individuazione avrebbero natura non discrezionale, bensì di “discrezionalità tecnica”; di qui l’insussistenza di un dovere di ponderazione degli interessi “neppure allo scopo di verificare il rispetto del principio di proporzionalità”[25].
In conformità con recenti pronunce del Consiglio di Stato e con le posizioni di attenta dottrina, si ammetteva invece uno spazio per una comparazione nella fase successiva alla individuazione del bene, ovvero quella della determinazione delle misure di tutela e conservazione[26]. In ogni caso, si osservava come la sola finalità della conservazione del bene non renderebbe ingiustificato il sacrificio imposto al privato, essendo la conservazione del suo valore culturale possibile presupposto di un’eventuale acquisizione alla mano pubblica e della sua destinazione alla pubblica fruizione[27].
Quanto al merito della valutazione si osservava come dagli indirizzi ministeriali emerga chiaramente la non imprescindibilità del carattere di “italianità” del bene, legittimandosi, invece, il divieto di esportazione di opere straniere “purché la loro presenza nel patrimonio culturale nazionale sia necessaria per favorire la conoscenza delle culture di cui i beni in questione costituiscano testimonianze di civiltà, trattandosi comunque di strumenti di arricchimento del patrimonio culturale della Nazione”[28]. In ogni caso, i rilievi del tecnico di parte apparivano inidonei ad escludere di per sé l’effettivo aggancio con la pittura rinascimentale italiana. In sintesi, non sarebbe stata dimostrata l’inattendibilità della valutazione operata dall’amministrazione, non riuscendo le censure avanzate a uscire dalla consistenza di meri apprezzamenti soggettivi.
Con riferimento all’art. 36 TFUE, si considerava, infine, come la medesima sia norma che ammette espressamente che gli Stati membri introducano divieti di esportazione funzionali alla protezione del proprio patrimonio culturale, semplicemente censurando discriminazioni arbitrarie e dissimulate restrizioni al commercio tra Stati membri.
4. Il sindacato di “maggiore attendibilità” e le posizioni del Consiglio di Stato; brevi considerazioni.
Al centro delle censure proposte con il ricorso in appello vi è il profilo del “mancato sindacato di maggiore attendibilità”, che rileverebbe anche ai sensi dell’art.6 della Cedu, dell’art.47 della Carta di Nizza, dell’art.24 Cost. risolvendosi nella asserita negazione del diritto a un equo processo. La sentenza sarebbe poi inadeguatamente motivata con riferimento ai caratteri culturali dell’opera ed erronea quanto alla conformità del provvedimento impugnato all’art.36 TFUE.
Il Consiglio di Stato, nell’inquadrare in termini generali la questione, si concentra, quale profilo assorbente, sulla natura giuridica dell’apprezzamento dell’“interesse culturale” di un bene e del relativo grado, contribuendo, con il giudice di prime cure, a fare ordine nell’ambito delle incerte categorie della valutazione tecnica, della discrezionalità tecnica, della discrezionalità, tutte richiamate, nella nostra esperienza giuridica a proposito delle valutazioni in esame.
Sia pur con qualche incerto richiamo all’interesse pubblico, che ricorda posizioni della dottrina più risalente[29], il Consiglio di Stato conferma che l’attività dell’amministrazione, volta ad esprimere il giudizio di rilevanza culturale “pur implicando un apprezzamento di conformità della cosa valutata a un modello astratto alla stregua di criteri estetico-culturali” è sostanzialmente “di carattere ricognitivo e conoscitivo” non consistendo in una scelta fra diverse soluzioni possibili; il che non esclude, ovviamente, margini di apprezzamento basati su elementi tecnici, che restano, dunque, di carattere peculiare e specialistico”[30].
Puntualizza così che, mentre la selezione degli interessi è compiuta a monte dal legislatore[31], quelli in esame sarebbero appunto giudizi “tecnico-discrezionali” chiarendo, sotto il profilo nominalistico, che la formula non sottende apparentamenti con la discrezionalità amministrativa ma si riferisce appunto a valutazioni di “fatti complessi” richiedenti particolari competenze, con riferimento alle quali il sindacato giurisdizionale non si incentra, dunque, sulla ragionevole ponderazione di interessi ma sulla “specifica attendibilità tecnico-scientifica”. Di qui l’accolta sinonimia di “valutazioni tecniche” o “tecnico-discrezionali”.
Peraltro, lo stesso Consiglio di Stato ha di recente chiarito, in altre pronunce, che proprio in tale tecnica di giudizio riposerebbe la reale tutela inverando il principio fondamentale dell’art. 9 della Costituzione, appunto “consentendo una salvaguardia che prescinda dal cedimento per opportunità rispetto ad altri interessi”, realizzando “l'indefettibile funzione pubblica richiesta da questa eredità collettiva” e assicurandone la rispondenza al suo “valore primario e assoluto”[32].
In sintesi, Tar e Consiglio di Stato superano certamente quelle pronunce del Consiglio di Stato che, pur aprendo a un sindacato intrinseco sui fatti complessi valutati dall’amministrazione, ne predicavano la debolezza.
Come già chiaro al pensiero giuridico più risalente, come oggi allo stesso Ministero della cultura, l’attività che l’amministrazione svolge è un’attività di natura provvedimentale e se sono còlte le caratteristiche del bene indicate dalla legge, l’apposizione del vincolo al bene e, ancor prima, il diniego di rilascio dell’attestato di libera circolazione sono doverosi[33].
Il Consiglio di Stato fa poi riferimento agli attuali poteri decisori del g.a., come disegnati dal codice del processo amministrativo, alla sua capacità di pronunciare in alcuni casi sentenze che definiscano compiutamente “la disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino”, per considerare come ciò non sia in concreto sempre possibile, come ad esempio a fronte di valutazioni tecniche complesse, ma non sembra sviluppare in modo completo i motivi. È comunque scontato il presupposto che la stessa attività conoscitiva del giudice, nei casi in cui – fuori dall’esercizio di poteri di merito – condanni l’amministrazione a un facere specifico, riesce ad estendersi in corrispondenza della natura vincolata dei poteri esercitati dall’amministrazione e della possibilità di individuare parametri giuridici certi, ivi compresi i criteri conoscitivi dei dati fattuali, esplicitamente o implicitamente presupposti dalle norme di disciplina dell’esercizio dei poteri[34].
Se appare ormai in buona misura formula tralatizia quella secondo cui, con particolare riguardo alla discrezionalità tecnica, il giudice è semplicemente chiamato a verificare la “ragionevolezza tecnica” dell’apprezzamento “ sia nel complesso, che nell’articolazione dei diversi passaggi, oltre che sotto il profilo delle regole tecniche applicate”, appare d’interesse come presa di posizione rispetto all’ipotesi del suo dovere, prospettato dall’appellante, di individuazione della “soluzione tecnica più attendibile”[35].
Questa tesi è stata a ben vedere autorevolmente proposta anche dall’Ufficio Studi del Consiglio di Stato[36]con richiamo a pronunce relative ad atti delle amministrazioni indipendenti, esito di un sindacato certamente profondo del giudice amministrativo[37].
Guardando alla ratio delle richiamate decisioni non sembra che il g.a. abbia nei fatti realmente applicato il suddetto modus iudicandi. Da un lato, si tratta di casi in cui gli interessati avevano ampiamente adempiuto al relativo onere di deduzione di motivi specifici e di prova nei limiti della disponibilità, consentendo un sindacato pienamente intrinseco del g.a. di attendibilità tecnica secondo le regole specialistiche applicabili al settore considerato.
Il giudice non ha tuttavia scelto la soluzione tecnica più attendibile trattando necessariamente quelle proposte come due paritetiche prospettazioni capaci di aprire la strada per l’individuazione dell’unica scelta tecnica giusta e definitiva; la maggiore attendibilità tecnica della valutazione operata dal ricorrente appare piuttosto servita pur sempre a smontare – attraverso un sindacato profondo - la soluzione, prima facie ragionevole, fatta propria dal provvedimento amministrativo; è servita, in definitiva, a dimostrarne da un punto di vista tecnico-scientifico, la sua effettiva non attendibilità[38]. La tecnica di giudizio è corretta e sembra quella abbracciata dalla pronuncia in esame anche se non pienamente convincenti appaiono tutti gli argomenti utilizzati.
Se potenzialmente ambiguo appare il riferimento all’interesse pubblico[39], è discutibile il fondamento che il Consiglio di Stato infine pone a base della posizione assunta. Si assume che il giudice amministrativo debba dare la “prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche), della competenza ad adottare decisioni collettive rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato”: “ciò in quanto prevale la scelta legislativa di non disciplinare il conflitto d’interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione”[40]. Tali formule riprendono precedenti decisioni del Supremo Consesso[41] e rievocano autorevoli posizioni dottrinarie[42] ma pur risolvendosi in pregevoli considerazioni di buon senso non sembra esauriscano il ragionamento giuridico.
Più convincente appare la sentenza di primo grado in quel passaggio della motivazione in cui, in coerenza con immediati precedenti del Consiglio di Stato[43], si riferisce al criterio della struttura della norma attributiva del potere all’amministrazione[44] e sottolinea come il presupposto normativo per la dichiarazione dell’interesse culturale non sia l’accertamento del fatto storico da parte del giudice, come avviene in controversie in cui le parti siano in posizione paritetica, ma sia il fatto “mediato” “dalla valutazione affidata all’amministrazione”. È quanto la riflessione giuridica recente non ha mancato di evidenziare, osservando come sia difficile ricondurre puramente la valutazione tecnica ad attività puramente vincolata della p.a. - senza per questo ridurla alla discrezionalità-, osservandosi come nell’esercizio di potere rientra anche la determinazione degli elementi di fatto che di volta in volta costituiscono il suo presupposto e che sovente si prestano a un percorso logico insieme deduttivo e induttivo[45], senza che ciò implichi il riconoscimento di aprioristiche riserve di valutazione del fatto. Non è un caso, invero, che con riferimento alla materia in esame, il legislatore abbia affidato al Ministero il compito, di “riempire” il concetto giuridico indeterminato attraverso la determinazione di indirizzi volti ad orientare e circoscrivere le valutazioni tecniche degli Uffici Esportazione.
È su tale esercizio di potere, dunque, che cade istituzionalmente il sindacato di legittimità del g.a.[46], il quale ha appunto, come sua peculiarità quella di ripercorrere la formazione della decisione amministrativa guardando ai suoi parametri giuridici, anche integrati dalle norme tecniche cui le norme di esercizio del potere – esplicitamente o implicitamente - rinviino. La mancanza di un parametro atto a far rilevare l’errore, quindi l’illegittimità dell’azione amministrativa impedisce una pronuncia di annullamento, laddove il giudice, sconfinando nell’opinabilità tecnica, nell’“arbitrio specialistico”, oltrepasserebbe i confini della sua funzione istituzionale, sostituendosi indebitamente all’amministrazione[47]. Lo sguardo deve estendersi oltre la posizione istituzionale dell’Amministrazione, al sistema nel suo complesso e, compiutamente, alla posizione del giudice amministrativo rispetto ad essa, tenendo a mente che la sua giurisdizione generale rimane quella di legittimità, che peraltro investe gran parte del contenzioso altresì affidato alla giurisdizione esclusiva[48].
A fronte di giudizi tecnici complessi, pur ove compiuti, come nel caso in esame, alla stregua di scienze “non esatte”, come quelle di natura artistica, storica, filosofica richiamati dall’apprezzamento dell’“interesse culturale”, si evidenzia giustamente l’onere dell’interessato di contestarne seriamente e puntualmente l’attendibilità[49]: onere, dunque, di dedurre motivi specifici e onere della prova che spesso, nel processo amministrativo, pur potenziato dal c.p.a., ancora tende a scolorire nel primo[50]. L’adempimento di questo onere consente al giudice amministrativo di compiere quel controllo intrinseco forte, sia pur non sostitutivo richiesto dal dovere di dispensare una tutela effettiva. D’altra parte, non sembra, da un lato, come pur talora paventato, che le Sezioni Unite, nel riaffermare tale limite del G.A. abbiano voluto necessariamente imporgli un sindacato debole[51], né che tale atteggiamento si profili in contrasto con la Costituzione[52], con la CEDU[53] o con il diritto europeo[54].
È comunque evidente il raggiunto punto di non ritorno, ovvero l’illegittimità di pronunce con le quali il giudice rifiuti di esaminare censure atte a sollecitare un sindacato profondo ricorrendo a “formule pigre” e a motivazioni apparenti, trincerandosi dietro la dichiarata impossibilità di esercitare un sindacato sostitutivo con il rischio di “un sostanziale rifiuto di giurisdizione e un’abdicazione alla doverosa potestas iudicandi da parte del giudice amministrativo anche entro il limite, indiscusso, di un apprezzamento che in nessun modo intenda sostituirsi a quello della pubblica amministrazione”[55].
Nel merito, il Consiglio di Stato condivide così la decisione di primo grado, ritenendo il diniego dell’amministrazione puntualmente motivato, il procedimento conoscitivo seguito privo di vizi e il ricorso, in definitiva, non tale da prospettare qualcosa di diverso da una semplice opinione divergente, così, in ordine al requisito della rarità, alla qualità artistica dell’opera, al suo collegamento con la cultura italiana; conferma, in coerenza con precedenti decisioni del giudice amministrativo oltre che con gli indirizzi ministeriali, la non esclusione dal patrimonio nazionale italiano di opere straniere, ogni qualvolta rinvenibile un particolare collegamento con la cultura italiana[56].
Si valorizza il valore pubblico del patrimonio culturale, la sua appartenenza alla Nazione, ai “cittadini - sovrani”[57], e la sua strumentalità a quell’accrescimento della conoscenza capace anche di rafforzare l’identità collettiva, posto come obiettivo fondamentale dall’art.9 Cost., in combinato disposto con il principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art.3[58].
In tali valori e intenti trova invero fondamento la stessa “deroga culturale” di cui all’art.36 TFUE, che non smentendo l’autonomia e le differenze degli Stati membri, denota una crescente sensibilità verso valori non riducibili a interessi economici e s’inquadra in un progressivo rafforzamento di un’identità culturale comune, anche a livello europeo[59].
[1] Cfr., ex multis, nella giurisprudenza più risalente: TAR Lazio, 21 novembre 1986 n. 2308, in Trib. amm. reg., 1986, I, 3958, Cons. St., 5 settembre 1989 n. 1194, in Cons. St., 1989, I, 1069, TAR Lazio, 27 gennaio 1990 n. 238, in Trib. amm. reg., 1990, I, 547, Cons. St., 26 settembre 1991 n. 596, in Cons. St., 1991, I, 1368, Cons. St., 18 novembre 1991 n. 874, in Cons. St., 1991, I, 1747, TAR Lombardia, 3 maggio 1993 n. 380, in Trib. amm. reg., 1993, I, 2441, Cons. St., 10 novembre 1993 n. 817, in Cons. St., 1993, I, 1463, Cons. St., 7 maggio 1996 n. 950, in Cons. St., 1996, I, 1199, Cons. St., 1ottobre 1996 n. 1275, in Cons. St., 1996, I, 1532, CGAS 11 maggio 1996 n. 65, in Giust. amm. sic., 1997, 485.
[2] Per cui v. A. Rota, La tutela dei beni culturali tra tecnica e discrezionalità, Padova, 2002.
[3] In tal senso cfr. la nota posizione di M. S. Giannini, I beni culturali, ora in Scritti, vol. VI; 1970-1976, Milano, 2005, 1005 ss. che osservava come il giudizio valutativo intervenga per tutti i beni culturali come momento dell’istruttoria procedimentale nell’ambito di procedimenti che, pur differenziati, avrebbero tutti natura dichiarativa. Riteneva, dunque, improprio parlare di motivazione dell’atto, trattandosi di individuazione del suo presupposto, ovvero dell’esistenza dei caratteri tali da identificarlo come bene culturale. Peraltro, osservava che quella di bene culturale è una nozione “liminale” «ossia nozione a cui la normativa giuridica non dà un proprio contenuto, una propria definizione per altri tratti giuridicamente conchiusi, bensì opera mediante rinvio a discipline non giuridiche». V. anche G. Piga, Cose d’arte, in Enc. Dir., 1962, Vol. XI, 93 ss.
[4] Per l’esclusione, coerentemente con la ritenuta natura dichiarativa, di qualsiasi onere di ponderazione: M. S. Giannini, Op. cit. Sul contributo dato da Giannini allo studio dei beni culturali: S. Cassese, L’amministrazione dello Stato. Saggi, Milano, 1976, 153 ss. e, di recente, L. Casini, “Todo es peregrino y raro”…”. Massimo Severo Giannini e i beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2015, 987 ss.
[5] TAR Sicilia -Palermo, 24 aprile 1979 n. 82, in Foro amm., 1979, I, 1592, TAR Puglia, 13 giugno 1983 n. 312, in Trib. amm. reg., 1983, I, 2678, Cons. St., 31 maggio 1990 n. 47, in Riv. giur. edil., 1991, I, 438, Cons. St., 26 settembre 1991 n. 596, in Cons. St., 1991, I, 1368, TAR Veneto, 16 febbraio 1995 n. 282, in Trib. amm. reg., 1995, I, 1679, TAR Sicilia, 18 febbraio 1995 n. 101, in Foro amm., 1995, 2043, Cons. St., 24 settembre 1996 n. 1259, in Cons. St., 1996, I, 1386, TAR Sardegna, 3 novembre 1997 n. 458, in Trib. amm. reg., 1998, I, 161.
[6] TAR Sicilia - Palermo 28 agosto 1980 n. 395, in Trib. amm. reg., TAR Calabria 11 novembre n. 162, in Trib. amm. reg., 1982, I, 319, TAR Lazio 18 marzo 1983 n. 247, in Trib. amm. reg., 1983, I, 1074, TAR Sicilia 20 agosto 1990 n. 547, in Trib. amm. reg., 1990, I, 3684, Cons. St., 19 novembre 1992 n. 647, in Riv. giur. edil., 1992, I, 1159, TAR Sicilia - Palermo 18 Febbraio 1995 n. 101. Cfr., in tempi più recenti: Cons. St., Sez. IV, 31 gennaio 2005, n.256, in cui si affermava che: “L'imposizione del vincolo di notevole interesse storico artistico non è condizionato ad una ponderazione dell'interesse culturale con altri interessi, pubblici o privati, dovendosi riconoscere al primo un valore assoluto e quindi prevalente”. Ugualmente, più di recente: Cons. giust. amm. Sicilia Sez. giurisd., n. 418/2011, TAR Napoli, Sez. VI, n. 223/2015. In senso diverso, cfr. esplicitamente: TAR Lazio, 23 gennaio 1997 n. 235, ma riferimenti alla doverosa considerazione del sacrificio imposto ai privati si hanno già in Cons. St., 24 agosto 1992 n. 615, TAR Emilia - Romagna 27 novembre 1992 n. 993, TAR Abruzzo, 8 febbraio 1993 n. 48, in Foro it., 1993, 69, Cons. St., 29 maggio 1995 n. 518, in Foro amm., 1995, 1026.
[7] V., ancora di recente, Cons. St., Sez. VI, 22 gennaio 2004 n. 161.
[8] Cfr. già F. Cammeo, La competenza di legittimità della IV Sezione e l’apprezzamento dei fatti valutabili secondo criteri tecnici, in Giur. it., III, 1902.
[9] Cfr. ad es. M. S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939, pp. 162-3, A. De Valles, Norme giuridiche e norme tecniche, in Studi in onore di C. Jemolo, III, Milano, 1963, pp. 177 e ss., p. 184, G. Guarino, Atti e poteri amministrativi, in G. Guarino (a cura di), Dizionario amministrativo, Vol. I, Milano, 1983, 200 ss.
[10] Cfr. ad es. E. Presutti, Discrezionalità pura e discrezionalità tecnica, in Giur. it., 1910, 4, 16, e cfr. C. Mortati, Potere discrezionale, in Nuovo dig. it., Torino, 1039, pp. 76 e ss., pp. 79 - 80.
[11] A partire dalla storica pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, 9 aprile 1999 n. 601, in cui si è per la prima volta chiaramente affermato che “quando la tecnica è inserita nella struttura della norma giuridica, l’applicazione del criterio inadeguato o il giudizio fondato su operazioni non corrette o insufficienti comporta un vizio di legittimità dell’atto”; cfr. M. Delsignore, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, Dir. proc. amm., 2000, 185 ss. V., di recente, A. Giusti, Tramonto o attualità della discrezionalità tecnica? riflessioni a margine di una recente “attenta riconsiderazione” giurisprudenziale, in Dir. proc. amm., 2021, f.2, 335 ss. Cfr. già Id, Contributo allo studio di un concetto ancora indeterminato. La discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, Napoli, 2007; A. Moliterni (a cura di), Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice, Napoli, Jovene, 2021. In posizione decisamente critica rispetto al self restraint spesso ancora mostrato dal giudice amministrativo nell’accesso al fatto: M. A Sandulli, Conclusioni delle “Giornate di studio sulla giustizia amministrativa” svoltesi al Castello di Modanella il 16/17 giugno 2023 sul tema “Sindacato sulla discrezionalità amministrativa e ambito del giudizio di cognizione”, in questa Rivista, settembre 2023.
[12] Cfr., ad es., per tutte, Cons. St., Sez. IV, 16 ottobre 2001 n. 5287, Cons. St., Sez. VI, 23 aprile 2002 n. 2199, Cfr. F. Cintioli, Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Poteri tecnici e giurisdizionalizzazione, Milano, 2005, Id., Tecnica e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2004, 983.
[13] Cfr. ex multis: Cons. St., Sez. VI, 2 marzo 2004 n. 926, Id., Sez. VI, 8 febbraio 2007 n. 515, Id., Sez. VI, 20 febbraio 2008 n. 595, Id., Sez. VI, 20 febbraio 2008 n. 597; più di recente, ex multis: Cons. St., Sez. IV, 9 febbraio 2015 n. 657, Cons. St., Sez. III, 11 dicembre 2020 n.7097, con nota di G. Strazza, Sull’uso off-label dell’idrossiclorochina per il trattamento del Covid-19, inGiustiziainsieme, 2021, gennaio.
[14] Cfr., ad es., Cons. St., Sez. IV, 30 luglio 2003, n. 4409, Cons. St., Sez. Vi, 2 marzo 2004 n. 926, cit., Cons. St., 12 febbraio 2007 n. 550, Cons. St., Sez. VI, 20 febbraio 2008 n. 595; più di recente: Cass. Sez. Un., 12 maggio 2017 n. 11804, Cons. St., Sez. III, 2 settembre 2019 n. 6058,
[15] Ufficio Studi della Giustizia amministrativa, “Autorità indipendenti e sindacato giurisdizionale”. Ogni potere ha il suo giudice e a tale regola generale non sfuggono le autorità indipendenti, in www.giustizia-amministrativa.it, 2017, su www.giustizia-amministrativa.it. e v. infra, § 4.
[16] Sul tema, ampiamente, F. Manlio, La circolazione internazionale dei beni culturali, Milano, 2007, e di recente: A. Pirri Valentini, La circolazione internazionale dei beni culturali, Milano, 2023. Cfr. anche G. Avanzini, La circolazione intracomunitaria dei beni culturali privati tra tutela del patrimonio nazionale e identità culturale, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2018, 3, 689 ss. In particolare, la riforma ha realizzato un ampliamento dei casi di liberalizzazione dell’uscita definitiva di beni d’interesse culturale dal territorio nazionale che riguarda oggi: opere di autore vivente; di autore non vivente che risalgono a non oltre (non più 50 ma) 70 anni, o prodotte in qualunque epoca ma che abbiano valore pari o inferiore a 13.500 euro. La disciplina dell’uscita temporanea, riguardante ipotesimarginali, non è stata modificata.
[17] L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, 2016, in partic. 123 ss.
[18] Con riferimenti al sistema britannico e, ancor più, a quello francese: G. Avanzini, La circolazione intracomunitaria dei beni culturali privati tra tutela del patrimonio nazionale e identità culturale, cit., 689 ss.
[19] Per l’uscita temporanea, v. i casi tassativi indicati dagli artt. 66 e 67 del Codice e art.71.
[20] In generale sulla tutela dei beni culturali, in questa prospettiva: M. A. Cabiddu, Diritto alla bellezza, in Rivista AIC, 2020, n. 4..
[21] …le fotografie, con relativi negativi e matrici, gli esemplari di opere cinematografiche, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento, le documentazioni di manifestazioni, sonore o verbali comunque realizzate, la cui produzione risalga ad oltre venticinque ami, a termini dell’articolo 65, comma 3, lettera c), i mezzi di trasporto aventi più di settantacinque anni, a termini degli articoli 65, comma 3, lettera c), e 67, comma 2, i beni e gli strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica aventi più di cinquanta anni, a termini dell'articolo 65, comma 3, lettera c).
[22] Cfr. art. 14, co. 4 del Codice. Cfr. G. Celeste, Beni culturali: prelazione e circolazione, in Riv. notariato, 2000, 5, 1071 ss.
[23] Cfr. anche D.M. 17 maggio 2018 n. 246: Condizioni, modalità e procedure per la circolazione internazionale di beni culturali, come modificato dal D.M. 9 luglio 2018 n. 305.
[24] “Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri”.
[25] Cfr. sul punto, G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in Aedon, 2016, 3, che più radicalmente osserva che “La questione della discrezionalità tecnica, specie per le soft sciences che rilevano per la tutela del patrimonio culturale, consiste dunque nella gradazione di questa intensità, per modo che il risultato concreto sia quello sufficiente e comunque adeguato alla esigenza di cura del patrimonio”. Non ci sarebbe invece “in tema di tutela del patrimonio alcun bilanciamento con interessi diversi da quello della tutela stessa”, perché ci si muoverebbe esclusivamente lungo la “monorotaia” “dell'unico interesse in cui questa consiste (il bilanciamento si coniuga al principio di proporzionalità solo quando si tratta di discrezionalità amministrativa, non di discrezionalità tecnica”, e ricorda Cons. Stato, IV, 26 febbraio 2015, n. 964, secondo cui: “nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi” - cioè quando si esercita una discrezionalità amministrativa - allora occorre “un’adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso, il principio [di proporzionalità] rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell'esercizio del potere discrezionale in relazione all'effettivo bilanciamento degli interessi”.
[26] Cons. St., Sez. VI, n. 3360/2014, Cons. St., Sez. VI, n. 2061/2020. Cfr. P. Carpentieri, Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela, in Aedon, 2016, 3.
[27] Sulla differente disciplina della fruizione, a seconda che la proprietà del bene sia pubblica o privata, v. A. Bartolini, Beni culturali (ad vocem), in Enc. Dir., Annali, 2013, VI.
[28] Nello stesso senso si richiamano TAR Lazio, Roma, Sez. II, n. 1883/2020, Tar Lazio, Roma, Sez. II quater, n. 7833/2012.
[29] O. Ranelletti, Principi di diritto amministrativo, I, Napoli, 1912, p. 371; tale riferimento com’è noto non è assente nemmeno nelle avanzate posizioni di F. Cammeo, pur sensibile alla dottrina tedesca degli unbestimmte rechtsbegriffe. Cfr. Id., La competenza di legittimità della IV Sezione e l'apprezzamento dei fatti valutabili secondo criteri tecnici, in Giur. it., III, 1902 ss.
[30] Cons. St., Sez. VI, 3 febbraio 2022, n.757, che enuncia : “Il sindacato sugli atti della pubblica amministrazione deve rispondere ai principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, dovendo, pertanto, da un lato, estendersi anche all'accertamento dei fatti operato sulla base di concetti giuridici indeterminati o di regole tecnico-scientifiche opinabili, al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico, dall’altro, implicare la verifica del rispetto dei limiti dell'opinabile tecnico-scientifico, attraverso gli strumenti processuali a tal fine ritenuti idonei (ad. es., consulenza tecnica d’ufficio, verificazione, ecc.). Un tale sindacato, non può, tuttavia, spingersi fino al punto di sostituire le valutazioni discrezionali dell'Amministrazione. Orbene, qualora ad un certo problema tecnico ed opinabile l’amministrazione abbia dato una determinata risposta, il giudice (sia pure all'esito di un controllo “intrinseco”, che si avvale cioè delle medesime conoscenze tecniche appartenenti alla scienza specialistica applicata dall’Amministrazione) non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione, dovendosi piuttosto limitare a verificare se siffatta risposta rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili, ragionevoli e proporzionate, che possono essere date a quel problema alla luce della tecnica, delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto”.
[31] Per il diverso rapporto tra la tecnica e la decisione politica, laddove, si sottolinea, spetta proprio alla politica, in una prospettiva democratica, governare le soluzioni tecniche in relazione alla selezione degli interessi meritevoli di tutela: W. Giulietti, Tecnica e politica nelle decisioni amministrative “composte”, in Dir. amm., 2017, 2, 327 ss., anche ricordando G. Guarino, I tecnici e i politici. Nello Stato contemporaneo. Prolusioni e conferenza, Milano, 1966, 196.
[32] Cons. St., Sez. VI, 30 agosto 2023 n. 8074, sull’annullamento d’ufficio dell’attestato di libera circolazione per la coppia di dipinti di Salvador Dalì denominati Couple aux tetes pleines de nuages, Cons. St., Sez. VI, 13 ottobre 2023 n. 8983, sul diniego di rilascio dell'attestato di libera circolazione in relazione al dipinto a olio su tela di Alberto Burri, intitolato “Texas” del 1945.
[33] G. Piva, Ibidem, 102, il quale tuttavia, vedeva nell’assenza di discrezionalità una ragione per la negazione del potere dell’amministrazione e l’affermarsi della giurisdizione del giudice ordinario.
[34] Per il recepimento della norma tecnica nella norma giuridica, cfr. F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull'amministrazione pubblica, in Dir. proc. amm., 1983, 372. Per l’autonomia concettuale della valutazione tecnica, già: V. Bachelet, “L’attività tecnica della pubblica amministrazione”, Milano, 1967, 38 ss. Nel senso che la discrezionalità tecnica sia avvicinabile più a quella del giudice che dell’amministrazione: Cfr. A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 594, in cui si afferma che “la discrezionalità tecnica è prossima più alla discrezionalità del giudice che alla discrezionalità amministrativa, essendo svincolata dalla considerazione degli interessi dei singoli soggetti coinvolti nella vicenda”.
[35] Su cui cfr. ancora A. Giusti, Tramonto o attualità della discrezionalità tecnica? Riflessioni a margine di una “attenta riconsiderazione” giurisprudenziale, in Dir. proc. amm., 2021, 2, 335 ss.
[36] Cfr. Consiglio di Studi, Ufficio Studi, massimario e formazione, “Autorità indipendenti e sindacato giurisdizionale”, cit., 2017.
[37] Cfr., ad es., Cons. St., Sez. VI, 12 ottobre 2011 n. 5519, Cons. St., Sez. VI, 13 giugno 2014 n. 3032, Cons. St., Sez. VI, 15 maggio 2015 n. 2479, Cons. St., Sez. VI, 12 giugno 2015 n. 2888, Cons. St., Sez. III, 2 ottobre 2015 n. 4616, Cons. St., Sez. VI, 4 settembre 2015 n. 4123, TAR Lazio, Sez. I, 16 giugno 2016 n. 6921, Cons. Sez. VI, 9 agosto 2016 n. 3552, Cons. Sez. VI, 31 agosto 2016 nn. 3769, 3770, 3771, 3772 e 3772.
[38] Chiaramente protesa verso un sindacato di “maggiore attendibilità”, non in via generale, ma sulla base della premessa che nella disciplina antitrust non opererebbe il meccanismo norma-potere-effetto, essendo l’assetto degli interessi già a monte definito dal legislatore: Cons. St., Sez. VI, 19 luglio 2019 n. 4990, nel caso “Avastin-Lucentis”.
[39] “L’apprezzamento dell’amministrazione ai fini dell’imposizione di scelte di vincolo legate a poteri e obiettivi di valenza culturale si atteggia “come un apprezzamento ampio dell’interesse pubblico a tutelare cose che, attenendo direttamente o indirettamente alla storia, all’arte o alla cultura, per ciò che esprimono e per i riferimenti con queste ultime, sono reputate meritevoli di conservazione”. Tuttavia – si dice - l’interesse pubblico alla tutela della cosa è direttamente collegato con una valutazione in termini di “particolare interesse della cosa per i propri pregi intrinseci o per il riferimento della medesima vicenda della storia, dell’arte o della cultura, sicché l’espressione precipuo dell’attività tecnico-discrezionale dell’amministrazione si ha nel momento della formulazione di un giudizio di particolare rilevanza del bene , discendente a sua volta o dal riconoscimento di un peculiare pregio del medesimo o dal riconoscimento di un particolare collegamento di esso con le vicende della cultura, della storia, dell’arte”. Cfr. tuttavia F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell’atto amministrativo, in Dir. amm., 2008, 4, 791 ss., il quale in effetti ritiene che la discrezionalità tecnica si risolva in identificazione in concreto del presupposto del provvedimento, ed essendo l’interesse da perseguire implicito in questo, la stessa valutazione tecnica si differenzierebbe dall’apprezzamento discrezionale essenzialmente per avere riguardo ad un unico, specifico interesse. Diversamente: Piva, Cose d’arte (ad vocem), in Enc. dir., XI, 1962, vol. XI che osservava come il termine “interesse” fosse utilizzato impropriamente dal legislatore in luogo di “valore” culturale, specifico oggetto di apprezzamento dell’amministrazione.
[40] In tal senso si richiama: Cons. St., Sez. VI, n. 8167/2023.
[41] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 5 dicembre 2022, n.10624, in materia di vincoli paesaggistici, Cons. St., Cons. St., Sez. VI, 9 maggio 2023, n. 4686, in questa Rivista, luglio 2023.
[42] C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985, 203 ss.: “Di fronte a una norma che implicitamente o esplicitamente attribuisca all’amministrazione il compito di operare giudizi tecnicamente complessi o scelte scientificamente opinabili pare dunque preferibile, nel dubbio interpretativo, che sia la pubblica amministrazione a compiere la scelta, dovendosi individuare nel suo più intimo collegamento con l’organizzazione sociale, sotto molteplici profili, la ragione sostanziale di una riserva di valutazione. Sottolinea la necessaria considerazione dell’appartenenza dell’amministrazione al circuito democratico-rappresentativo e la sua sottoposizione agli indirizzi del vertice politico: P. Carpentieri, Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela, in Aedon, 2016, 3. Valorizzano, ancora, ora i profili organizzativi, ora la specifica identità della P.A.: C. Cudia, Pubblica amministrazione e valutazioni tecniche: profili organizzativi, in Dir. pubbl., 2016, 1 ss., F. Saitta, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle autorità indipendenti tra potenzialità del codice del processo e «preferenza di amministrazione», in Il Processo, 2020, f. 3, 749 ss.
[43] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 5 dicembre 2022, n.10624, Cons. St., Sez. VI, 9 maggio 2023, n. 4686, cit. e la nota di A. Cioffi, Discrezionalità tecnica e rarità di un dipinto di Giorgio Morandi. Osservazioni sul sindacato di legittimità e sul problema dei concetti giuridici indeterminati, su www.giustiziainsieme.it, luglio 2023.
[44] Cfr. P. Lazzara, Discrezionalità tecnica e situazioni giuridiche soggettive, in Dir. proc. amm., 2000, pp. 212 – 254. Già Id., Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001, in partic. p. 282 ss. Nel senso che nell’azione amministrativa vi sia uno spazio valutativo non ascrivibile alla discrezionalità, v. anche, sia pur su posizioni non pienamente sovrapponibili, D. De Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995. Per tesi particolarmente avanzate in dottrina, cfr. già V. Cerulli Irelli, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Dir. proc. amm., 1984, pp. 475 e ss., che, in linea di principio, ravvisa solo nell’assoluta soggettività e irripetibilità del giudizio un limite al sindacato giurisdizionale.
[45] P. Carpentieri, Azione di adempimento e discrezionalità tecnica (alla luce del codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., fasc.2, 2013, 385 ss.
[46] Cfr. Alb. Romano, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, 76 ss., Id., I caratteri originari della giurisdizione amministrativa e la loro evoluzione, in Dir. proc. amm., 1994, 635 ss., Id., Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999, 1, 111 ss.
[47] In tal senso, cfr. già F. Cintioli, Tecnica e processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 4, 2004, 983, secondo cui, appunto, “È questo, allora, l'unico limite che l'idea del sindacato debole postula: quando il giudice ha accertato, attraverso una serrata analisi tecnica, che la scelta finale dell'amministrazione è coerente, ragionevole e assolutamente compatibile con le premesse in quanto costituisce una delle ristrette scelte possibili, a quel punto non ha il dovere di andare oltre e di elaborare necessariamente una sua scelta finale da sostituire a quella dell'amministrazione”. Per la centralità del procedimento seguito per il formarsi della decisione A. Moliterni, Le disavventure della discrezionalità tecnica tra dibattito dottrinario e concrete dinamiche dell’ordinamento, in A. Moliterni (a cura di), Le valutazioni tecnico-scientifiche tra amministrazione e giudice, cit., 5 ss.
[48] Sulla necessità di mantenere salda la distinzione tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di merito, anche con notazioni critiche sulla nota pronuncia del Cons. St. Sez. VI, 25 febbraio 2019 n. 1321, in materia di abilitazione scientifica nazionale: F. Francario, L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito in Giustiziainsieme, Diritto e processo amministrativo, 2023, giugno.
[49] V. già, ad es. Cons. St., Sez. VI, 5 dicembre 2022, n.10624, cit.
[50] Cfr. tra i contributi recenti, P. Chirulli, L’istruttoria, in R. Caranta (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Bologna, 2011, 521 ss., P. Lombardi, Riflessioni in tema di istruttoria nel processo amministrativo: poteri del giudice e giurisdizione soggettiva “temperata”, in Dir. proc. amm., 2016, f. 1, 85 ss. F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l'esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., f.1, 1 ss., L. Giani, La fase istruttoria, in F. G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2023, 385 ss., 401 ss., V. Berlingò, Fatto e giudizio. Parità delle parti e obbligo di chiarificazione nel processo amministrativo, Napoli, 2020.
[51] Cfr. ad es. Cass. Sez. Un., 17 marzo 2008 n. 7063, Cass. Sez. Un. 23 febbraio 2012 n. 2312 e 2313, Id., 20 gennaio 2014 n. 1013, Id., n.30974/2017, Id. n. 11929/2019, Id., 14 aprile 2020, n. 7828, Id., n. 8093/2020, Id., 31311/2021.
[52] A partire dalle note pronunce della Corte cost. n. 146/1987 e n. 251/1989, cfr., ad es., Corte cost. n. 271/2019. In generale: V. A. Police, la giurisdizione amministrativa nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in G. della Cananea - M. Dugato, Diritto amministrativo e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 475 ss.
[53] Cfr. Cedu, C. Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia 27 settembre 2011, ric. n. 43509/08 con cui la Corte non ha dubitato dell’adeguatezza del sindacato svolto dal g.a. sulle sanzioni antitrust, né quardando alla fase della rilevazione dell’infrazione, né in sede di “piena giurisdizione” sulla misura delle sanzioni; v. anche Cons. St.,Sez. VI, 15 luglio 2019 n. 4990. Cfr. Cedu C. Grande Stevens e al. c. Italia 4 marzo 2014, ric. nn. 18640, 18647, 18668, 18698 del 2010, in cui la Corte, considerando le sanzioni inflitte dalla Consob, riteneva violato il principio del giusto processo solo in ragione del mancato svolgimento davanti alla Corte d’Appello di un’udienza pubblica. Nella pronuncia Di Placì c. Italia 21 gennaio 2014, ric. n. 48754/2011 analoga violazione viene rinvenuta nell’affidamento di una verificazione al collegio medico dipendente dal Ministero della Difesa, parte in causa, mancando quindi la terzietà e imparzialità nello svolgimento dell’istruttoria. Non si coglie una netta posizione contraria al sindacato “indiretto” comunemente svolto dal g.a. Nel senso che la Cedu conduca verso un sindacato pieno: L. Giani, Giudice amministrativo e cognizione del fatto (Il pensiero di Antonio Romano), in Dir. amm., 2014, f. 3, 535 ss.
[54] Cfr. già Corte giust., C- 120/97, Upjhon Ldt/The Licensing Authority established by the Medicine Act 1968 e a.; Id., C-425/97 World Wildlife Fund – WWF – e a./Provincia autonoma di Bolzano. Nel senso che il diritto dell’Unione non imponga agli Stati membri un sindacato giurisdizionale sostitutivo, come non è tale quello esercitato di giudici europei sugli atti delle istituzioni sovranazionali: F. Cintioli, Tecnica e processo amministrativo, cit., 983 ss., M. G. Della Scala, Invalidità amministrativa e valutazioni tecnico-discrezionali, in V. Cerulli Irelli – L. De Lucia, L’invalidità amministrativa, Torino, 2009, 263 ss. Ancora di recente, pur nel segno di un sindacato sempre più intrinseco anche a livello europeo, si afferma che: “il controllo del giudice dell'Unione sull’esercizio, da parte della Commissione, del potere discrezionale riconosciutole in materia di esame delle denunce non deve condurlo a sostituire la propria valutazione dell'interesse dell'Unione a quella della Commissione, bensì a verificare se la decisione controversa non si basi su fatti materialmente inesatti e non sia viziata da errori di diritto, da manifesti errori di valutazione o da sviamento di potere (v. sentenza del 15 dicembre 2010, CEAHR/Commissione, T-427/08, EU.T.2010/517, punto 65 e giurisprudenza ivi citata) oppure da un difetto di motivazione (v., in tal senso, sentenza del 16 maggio 2017, Agria Polska e a./Commissione, T-480/15, EU. T. 2017/339, punto 39), Tribunale I grado UE Sez. III, 13 luglio 2022, n.886. Cfr. ancora, ex multis, Tribunale I grado UE Sez. VII, 5 maggio 2021, n.611, Tribunale I grado UE Sez. II, 26 luglio 2023, n.269, Corte giustizia UE Sez. V, 9 marzo 2023, n. 46.
[55] Cons. St., Sez. VI, 21 marzo 2011, n. 1712; Id., Sez. III, 2 settembre 2019, n. 6058. Da ultimo: Cons. St., Sez. VII, 27 aprile 2023, n. 4234.
[56] Cfr. TAR Lazio, Sez. II quater, 24 marzo 2011 n. 2659, Id., 22 marzo 2011 n. 2540, Id., 17 settembre 2012 n. 7833.
[57] R. Cavallo Perin, Il diritto al bene culturale, in Dir. amm., 2016, 495 ss., M. A. Cabiddu, Diritto alla bellezza, cit.
[58] Cfr. G. Piva, Cose d’arte, cit., 94. Di recente: G. Zagrebelsky, Fondata sulla cultura. Arte, scienza e Costituzione, Torino, 2014, passim. V. Circolare n.13/1029 del Mibact “atto di indirizzo, ai sensi dell’art.2, comma1, secondo periodo, del DM 23 gennaio 2016 n. 44, in materia di uscita dal territorio nazionale, ingresso nel territorio nazionale ed esportazione dal territorio dell’Unione europea dei beni culturale e delle cose di interesse culturale (articoli 64 bis/74 D.lgs. n. 42/2004).
[59] P. Chirulli, Il governo multilivello del patrimonio culturale, in Dir. amm., 2019, 4, 697 ss.
Sommario: 1. Una Corte di giustizia tributaria centrale? 2. Natura e limiti dell’impugnazione; 2.1 Le sentenze impugnabili; 2.2 Quale impugnazione; 2.3 Quali effetti delle pronunce e quale rito; 2.4 L’impugnabilità delle decisioni; il rinvio pregiudiziale; 3. Profili ordinamentali ed organizzativi: struttura dell'organo; previsioni sul fabbisogno di personale giudicante; la fase di start up; 4. Giustificazioni e conclusioni.
1. Una Corte di giustizia tributaria centrale?
Le serie statistiche “storiche” dei flussi dei ricorsi per cassazione sono inequivocabili: il trend consolidato di quelli tributari negli ultimi quindici anni oscilla sulla quota 10.000 per anno. È fondato ritenere che questa sia la causa principale del disposition time della Sezione specializzata tributaria e che abbia messo a dura prova ogni sforzo legislativo ed auto organizzativo per ridurlo.
Per un verso, negli anni recenti (dal 2017, decreto-legge n. 50) si è anzitutto provato a far scendere la pressione dei ricorsi tributari con reiterate misure di definizione agevolata delle liti pendenti (anche) nel giudizio di legittimità. Come ultimamente “certificato” dalla Prima Presidente della Corte, Margherita Cassano, nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, queste misure si sono tuttavia dimostrate non abbastanza efficaci sul piano della deflazione dell’arretrato. Per altro verso, la Sezione specializzata, ben prima della sua istituzione per legge (art. 3, legge 130/2022), è stata rinforzata e ri-organizzata, raggiungendo apprezzabili risultati in termini di produttività (quasi ogni anno sono stati definiti più giudizi di quelli sopravvenuti).[1]
La durata dei giudizi tributari di legittimità è così drasticamente scesa, tanto che l’obiettivo posto dal PNRR verrà probabilmente raggiunto. Ma non si è ancora vicini ad una risposta davvero rapida ed incisiva della nomofilachia tributaria; in ogni caso si sa che la “quantità” non è amica della “qualità” né della “coerenza”.
Tale nodo problematico è stato ripreso dalla Presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, Carolina Lussana, nella relazione di inaugurazione dell'anno giudiziario tributario 2024, che peraltro si è spinta ad interrogarsi circa la possibilità di «pensare a una o più misure processuali/ordinamentali che possano incidere - a monte ed in radice - sui flussi in entrata dei giudizi tributari di legittimità» al fine di «prevenire il formarsi di arretrati quali quelli storici e quelli attuali (della Sezione tributaria della Cassazione, ndr), liberandone la nomofilachia tributaria e rendendola pienamente tempestiva ed efficiente».
Dunque, è opinione diffusa ed anche autorevolmente espressa che, a fronte di numeri soverchianti, la funzione interpretativa della Suprema Corte in questa speciale materia è davvero sotto stress e lo è da quando la materia medesima ha assunto il ruolo di protagonista del giudizio di legittimità. Il che notoriamente è avvenuto a partire dal primo aprile 1996, allorché divenne operativa la soppressione della Commissione tributaria centrale (CTC), organo previsto dal processo e dall’ordinamento della riforma del ’72 (dPR 636).
La storia di quell’organo giurisdizionale è nota e non è stata, come dire, particolarmente “gloriosa”. Al tempo della soppressione, presso la CTC erano pendenti centinaia di migliaia di processi, sostanzialmente collocati in un enorme parcheggio. La CTC ha avuto dunque la funzione di impedire l’immediato transito di molti di questi procedimenti alla Cassazione. Après elle, le déluge.
Parrebbe perciò addirittura bizzarro il solo ipotizzare la re-istituzione di un organo centrale di giustizia tributaria di merito, ma, a ben riflettere, così non è. Con questo scritto intendiamo dimostrarlo. Intendiamo dimostrare che una -ben ideata e congegnata- Corte di giustizia tributaria centrale (CGTC) può essere di grande utilità al sistema della giustizia tributaria sia di merito sia di legittimità.[2]
Va però detto e sottolineato che lo studio ha la -limitata- funzione di porre le basi di un ragionamento che richiede riflessione ed approfondimento ulteriori.
2. Natura e limiti dell’impugnazione
2.1. Le sentenze impugnabili
Prima di tutto bisogna individuare il “tipo” di impugnazione che potrebbe essere proposta a questo nuovo organo di giurisdizione speciale.
Infatti, dalle risposte a tale -fondamentale- domanda dipende la “tenuta logica” dell’idea che si sostiene rispetto agli obiettivi che ha. Chiaro che guardare al passato non giova, perché la storia della CTC non può essere ignorata. E deve insegnare: perseverare autem diabolicum.
Bisogna dunque immaginare uno strumento impugnatorio nuovo e diverso da quello “storico”.
La prima scelta di configurazione di questo nuovo istituto processuale attiene all’individuazione delle sentenze che ne formerebbero oggetto: tutte le pronunce di secondo grado? A questa opzione è strettamente connessa un’altra, che in verità appare preliminare. L’impugnazione di fronte al nuovo organo sarebbe facoltativa, potendo le parti decidere se rivolgersi alla Corte di Cassazione anziché alla Corte centrale dopo la decisione della Corte di giustizia tributaria di secondo grado?
La soluzione del secondo quesito è funzionale a quella del primo. Ma se la nuova impugnazione si immagina, principalmente, finalizzata a filtrare l’accesso al giudizio di legittimità, bisognerebbe senz’altro escluderne la facoltatività. Quindi, dopo il giudizio di appello, non sarebbe consentito adire direttamente la Corte Suprema, ma chi intendesse censurare la pronuncia di secondo grado potrebbe e dovrebbe farlo esclusivamente attraverso il ricorso alla Corte centrale.
Tale presupposto è infatti indefettibile al fine del conseguimento dell’auspicato obiettivo di far sì che la sezione tributaria della Corte di Cassazione possa veder significativamente ridotto il proprio carico dinamico (flussi in entrata) e che, conseguentemente, possa esercitare la funzione nomofilattica in tempi ragionevoli e con uno standard qualitativo -doverosamente - elevato.
Allora, un’impugnazione “necessaria”, nel senso appena chiarito, non potrebbe che riguardare tutte le sentenze rese dalle Corti di seconda istanza, indipendentemente dal valore e dall’oggetto delle cause.
2.2 Quale impugnazione
Ciò posto, occorre affrontare il tema decisivo: quello della natura e dei limiti del mezzo di impugnazione.
Al riguardo, è inevitabile riferirsi all’esperienza processuale antecedente alla riforma sfociata nei vigenti D.L.vo nn. 545 e 546 del 1992. E, dunque, al giudizio che si svolgeva innanzi alla Commissione tributaria centrale in alternativa a quello proponibile di fronte alla Corte di appello[3].
A quest’ultimo proposito, non pensiamo che sia oggi prospettabile impugnare, ancorché in via sussidiaria e alternativa come accadeva prima della menzionata riforma, una pronuncia del giudice speciale tributario dinanzi al giudice ordinario. La giurisdizione tributaria ormai ha irrinunciabili tratti di pienezza ed esclusività e non appare sinceramente immaginabile, dopo oltre un ventennio, ripristinare una funzione giurisdizionale del giudice ordinario di merito in materia tributaria. Sarebbe comunque un’ipotesi completamente avulsa ed estranea al nuovo assetto della giurisdizione tributaria di merito, quale disegnato dalla legge 130/2022.
Pertanto, posto l’assunto per cui tutte le sentenze di appello siano esclusivamente impugnabili di fronte alla sola Corte tributaria centrale, si potrebbe tuttora comunque in qualche modo attingere alla ricordata esperienza del giudizio alla Commissione tributaria centrale?
Prima di pronunciarci al riguardo, val la pena rammentare che il ricorso alla Commissione centrale poteva proporsi, in base all’art. 26 del D.P.R. n. 636/1972, “per violazione di legge e per questioni di fatto escluse quelle relative a valutazione estimativa ed alla misura delle pene pecuniarie”[4].
Un’ipotesi sensata per il nuovo giudizio di fronte alla Corte centrale potrebbe essere quella di limitare -sulla scorta dell’esperienza del processo dinanzi alla Commissione centrale- i motivi di impugnazione e, per l’effetto, l’ambito di cognizione di tale nuovo organo giurisdizionale. Ciò onde evitare che il processo dinanzi alla Corte centrale si traduca in un secondo appello, del tutto privo di senso.
Ed è allora inevitabile accedere all’idea di un’impugnazione a “critica vincolata”, di tipo “cassatorio”, “a specchio” dell’ordinario ricorso per cassazione, che nella sostanza rappresenti un vero e proprio giudizio di legittimità (in senso lato) sulla sentenza di appello, appunto in forte analogia con quello tipico avanti alla Corte di Cassazione[5].
Per semplificare e chiarire, si potrebbe dunque pensare ad un ricorso limitato alla violazione di legge e al vizio motivazionale, nella prima tipologia di censura naturalmente ricomprendendo sia gli errores in procedendo (vizi di attività processuale) sia gli errores in judicando (violazione/falsa applicazione di norme di diritto); nella seconda una possibilità mediata di “accesso” ai fatti della causa, sia pure in forma di verifica della correttezza della motivazione di appello com’è appunto connaturale ad un giudizio di tipo “cassatorio/rescindente”.
E mentre per la deduzione degli errores juris non vi sarebbe ragione per differenziare la disciplina normativa e l’intendimento ermeneutico corrente nella giurisprudenza di legittimità di questa impugnazione da quella ordinaria per cassazione, in relazione al controllo dell’argomentazione in fatto del giudice tributario di appello sarebbe di contro opportuno dare alla CGTC margini più ampi di quelli attualmente consentiti alla Cassazione dalla vigente versione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., formulando la previsione relativa secondo il modello di quella previgente (motivazione omessa, contraddittoria ovvero insufficiente su di un punto -di fatto- decisivo e controverso).
Una maggiore “penetrabilità” nel giudizio di fatto risulterebbe infatti coerente con la specialità dell’organo di terza istanza, quindi con la sua omogeneità ordinamentale alle Corti territoriali e costituirebbe per i litiganti una garanzia di “revisione rafforzata” del meritum causae.
Così congegnata, l’impugnazione potrebbe legittimamente ambire al conseguimento del suo obiettivo primario: filtrare il giudizio di legittimità presso la Cassazione, come imposto dall’art. 111, settimo comma, Cost., davvero limitandolo alle previsioni istitutive primigenie dell’art. 65, R.D. 12/1941 ossia pur sempre un giudizio sulla lite in concreto, ma al netto delle questioni di merito/di fatto, troppo spesso artatamente proposte nella casistica del contenzioso avanti alla Suprema Corte, mascherate da violazione di legge ex art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ..
In sostanza la CGTC assumerebbe dunque una funzione di “anticamera” della Cassazione, sollevandola -in prima battuta- dalle migliaia di ricorsi che, anche a seguito delle recenti riforme del rito, vengono attualmente definite al di fuori dell’udienza pubblica “nomofilattica”. Si tratta di magna pars del lavoro della Corte, che tuttavia l’ha portata ben al di fuori del modello calamandreiano originario e se vogliamo anche costituzionale.
2.3. Quali effetti delle pronunce e quale rito
Se -come in tesi- si ipotizza dunque di attribuire alla CGCT una funzione, nella sostanza, omologa e complementare a quella istituzionale della Cassazione, non vi è ragione per differenziarne gli effetti delle pronunce rispetto a quelli codificati nel giudizio di legittimità, seguendone i collaudati schemi e formule terminative (inammissibilità, rigetto, annullamento con o senza rinvio).
Ciò vale ovviamente anche per le pronunce sul merito della lite, secondo la previsione di cui all’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., qualora non siano occorrenti ulteriori accertamenti di fatto. In questo caso è evidente che la decisione della CGCT sarà sostitutiva di quella di appello.
Esemplificando.
Si faccia l’ipotesi in cui il giudice di appello abbia omesso di motivare la propria decisione sul maggior valore attribuito a un terreno edificabile o abbia addotto in proposito una motivazione contraddittoria oppure, in caso di accertamento induttivo del reddito, abbia avallato l’impiego di dati e parametri in alcun modo riferibili all’impresa interessata o abbia affermato la carenza di motivazione dell’atto impositivo formante oggetto del contendere o abbia statuito l’inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio.
In questi casi o in altri analoghi, la decisione della Corte centrale non potrebbe che limitarsi a riscontrare la sussistenza o meno dell’error in procedendo o del vizio procedimentale o processuale interessato dall’impugnazione.
Laddove lo riscontrasse, la pronuncia non potrebbe che essere di annullamento della sentenza impugnata, come del resto accadeva quando la “vecchia” Commissione centrale accoglieva i ricorsi concernenti le controversie estimative e afferenti la misura delle sanzioni pecuniarie[6]. Di modo che, in sede di rinvio e per riprendere gli esempi che precedono, il giudice di appello sarebbe chiamato a motivare adeguatamente in ordine al valore del terreno, a valutare correttamente i dati e parametri utilizzati per accertare induttivamente il reddito ed esaminare il merito della lite, stante l’erronea affermazione del difetto di motivazione dell’atto impositivo e la riscontrata ammissibilità del ricorso introduttivo.
In tal caso, si potrebbe pensare che -se la sentenza della Corte centrale non venisse impugnata per cassazione- l’accoglimento dell’impugnazione comporti l’automatico rinvio della causa dinanzi ad altra sezione della Corte di giustizia tributaria di secondo grado. In sostanza, per accelerare i tempi, si potrebbe introdurre la previsione -analoga a quella disciplinata dall’art. 29 del D.P.R. n. 636/1972 per le ipotesi nelle quali “in conseguenza dell’accoglimento del ricorso si rende[va] necessario rinnovare il giudizio su questioni di valutazione estimativa e su quelle relative alla misura delle pene pecuniarie”- per cui, appurata la mancata proposizione del ricorso per cassazione, la segreteria della Corte centrale sia tenuta a trasmettere il fascicolo della causa alla Corte di secondo grado per lo svolgimento del giudizio di rinvio, senza necessità di riassunzione ad opera delle parti.
Andrebbe altresì considerato il caso in cui la pronuncia della Corte centrale contempli capi che non postulano il rinvio, poiché la decisione risulterebbe sostitutiva nel senso sopra chiarito, e altri che invece lo richiedano. Se venissero impugnati per cassazione i soli capi aventi portata sostitutiva, si potrebbe immaginare che il giudizio di rinvio si svolga al termine del processo di legittimità.
Quanto al rito, si potrebbe modellarlo in termini analoghi a quelli della disciplina del processo di avanti alla Cassazione, con gli opportuni adattamenti.
Poi, immaginando che il ricorso alla Corte centrale si proponga negli ordinari termini “breve” di sessanta giorni decorrente dalla notifica della sentenza di appello e “lungo” di sei mesi dal deposito di quest’ultima, prevedendo che il contraddittorio si costituisca attraverso la presentazione di un ricorso incidentale o di controdeduzioni entro un termine perentorio di sessanta giorni dalla notifica del ricorso e stabilendo altresì che, in difetto di tali difese, la parte intimata avrebbe solo titolo per partecipare all’eventuale discussione in pubblica udienza della causa, non è azzardato postulare che il nuovo organo -se, ovviamente, dotato di un adeguato numero di magistrati- potrebbe decidere le impugnazioni ad esso affidate sollecitamente.
2.4 L’impugnabilità delle decisioni; il rinvio pregiudiziale
Stante la previsione di cui all’art. 111, settimo comma, Cost., dovrebbe in ogni caso ammettersi la possibilità di impugnare per Cassazione le sentenze della Corte centrale e, quanto ai mezzi proponibili, la via più semplice sarebbe senz’altro quella di fare riferimento all’art. 360, cod. proc. civ.
Tuttavia, essendo ipotizzabile/auspicabile che la CGTC effettui un controllo “a fondo” sulla motivazione del giudice tributario di appello, sarebbe opportuno prevedere l’improponibilità della censura di cui al n. 5 di detta disposizione processuale, analogamente che nel caso della “doppia conforme” di merito e quindi limitare la possibilità di aggredire la decisione della Corte centrale soltanto al vizio motivazionale assoluto ossia quello che si pone, quale anomalia costituzionalmente rilevante, nell’area della previsione di cui al n. 4, della disposizione medesima.
Con la conseguenza, allo stesso tempo giuridico-processuale e pratica, che le pronunce della Corte centrale che disponessero l’annullamento con rinvio delle sentenze di appello per vizio motivazionale potrebbero certo in astratto essere impugnate per cassazione, essendone un divieto legislativo ordinario non consentito dall’art. 111, settimo comma, Cost., ma tali impugnazioni andrebbero a sbattere contro il muro dell’inammissibilità riscontrabile in limine, mediante formulazione di una proposta di definizione del giudizio ex art. 380 bis, cod. proc. civ.
Ed altresì le analoghe pronunce di annullamento con rinvio per violazione di legge, processuale o sostanziale, potrebbero essere definite ai sensi dell’art. 360, bis, cod. proc. civ., qualora ne ricorressero i presupposti applicativi, sempre con lo strumento processuale di cui all’art. 380 bis, cod. proc. civ. o al più con il semplificato rito camerale. Il che peraltro mette in evidenza sistematica il valore delle “due nomofilachie”, nel senso che la loro “sintonia” eliderebbe di molto il “rischio del doppione”, mentre la loro “distonia” troverebbe la sua ragione appunto con l’intervento della “nomofilachia sovraordinata” ossia quella che per Costituzione spetta alla Suprema Corte.
Tali specifici rimedi endoprocessuali bilancerebbero adeguatamente la possibile “contorsione” derivante dall’eventuale annullamento di dette pronunce da parte della Cassazione e potrebbero dare ragionevolezza anche sotto tale profilo all’impugnazione proposta. Infatti, essi possono attenuare in misura rilevante il rischio che un annullamento con rinvio al giudice tributario di appello disposto dalla Corte centrale venga a sua volta cassato con rinvio dalla Corte di Cassazione, creando un corto circuito nel processo e comunque allungando irragionevolmente i tempi di giudizio. Questa, che potrebbe essere l’unica vera e propria controindicazione, sarebbe così sostanzialmente elisa.
Infine, è ovvio che, come è per le Corti territoriali, la CGTC potrebbe investire la Corte di Cassazione di un rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis, cod. proc. civ.[7], ma con tutto il -maggior- “peso specifico” di un organo giudiziario di livello nazionale.
Anzi, meglio ancora, si potrebbe ipotizzare di renderlo obbligatorio per la Corte centrale, non solo sulla base dei presupposti attualmente previsti, ma anche qualora il giudice speciale apicale non intendesse uniformarsi alla giurisprudenza della Suprema Corte o ne chiedesse chiarimenti interpretativi, in analogia con quanto attualmente previsto dall’art. 374, terzo comma, cod. proc. civ., a disciplina dei rapporti tra le sezioni semplici e le sezioni unite della Cassazione ovvero dall’art. 267, terzo comma, TFUE per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. In tal modo il rischio di detta “contorsione” sarebbe addirittura azzerato.
3. Profili ordinamentali ed organizzativi: struttura dell'organo; previsioni sul fabbisogno di personale giudicante; la fase di start up
Quale Corte centrale?
La cosa più semplice e logica è ipotizzarne una struttura ed un’organizzazione anch’essa “a specchio” della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, appunto perché si pensa ad un ruolo funzionalmente omologo.
Dunque, a fabbisogno invariato di giudizi sulle sentenze tributarie di appello, apparirebbero necessari almeno 50 giudici e 6 presidenti. Senz’altro utile sarebbe anche replicare la collaudata ed efficace organizzazione per aree tematiche (imposte dirette, imposte armonizzate, imposta di registro/tributi locali).
Le dotazioni materiali e il personale ausiliario ovviamente competerebbero al Ministero dell’economia e delle finanze.
Il problema è però come reperire il “personale giudicante”, non nella prospettiva, essendo chiaro che sarebbero i magistrati tributari a doversi impegnare in questa funzione, previo aumento dell’organico previsto dalla legge di riforma, ma nell’immediato e per quel periodo di tempo ancora lungo che necessita per mandare a regime la riforma ordinamentale della giustizia tributaria.
Il numero esiguo dei magistrati professionali che hanno esercitato il diritto di opzione ex legge 130/2022 non consente la soluzione al problema. Nemmeno è pensabile che si possa attingere dai successivi contingenti dei magistrati tributari reclutati con i concorsi, se non appunto dopo anni di esperienza e formazione nelle Corti di primo e secondo grado.
È allora chiaro che i giudici della CGTC nel breve/medio periodo non potrebbero che essere attinti primariamente dai giudici tributari del ruolo unico, i magistrati professionali, mediante opzione come già nella legge 130, gli altri, con una selezione ad hoc per titoli ed esami.
Peraltro, si potrebbe anche prevedere una quota riservata agli avvocati/dottori commercialisti e professori universitari in materia tributaria secondo un meccanismo analogo a quello previsto per i c.d. “meriti insigni” dall’art. 106, terzo comma, Cost., e dalla relativa legge attuativa.
Stante il principio, sancito dalla Corte costituzionale, di “revisionabilità perpetua” degli organi speciali di giustizia tributaria (ai sensi della Sesta disposizione transitoria della Costituzione), questa soluzione non incontrerebbe limiti costituzionali specifici e, tutto sommato, si modellerebbe sul principio di cui all’art. 102, terzo comma, Cost., per i giudici onorari ordinari. Ne potrebbe uscire un organo giurisdizionale a “composizione mista” innovativa e feconda, per la “fusione” delle competenze, delle esperienze e delle culture.
4. Giustificazioni e conclusioni
Inutile nascondere che la proposta evidenzia un potenziale bug: la “ragionevole durata” del processo ex art. 111, secondo comma, Cost. Certo un grado processuale in più, con la causidicità tributaria italiana, induce al timore e limita l’ottimismo.
Bisogna però “fare due conti”. Ed a “conti fatti” in realtà questo bug è solo apparente.
In termini di fatto.
La grande maggioranza numerica delle liti fiscali ha valori non elevati. Le statistiche dicono che il 50% di quelle di primo grado sono sotto il valore di 3.000 euro, mentre in Corte di Cassazione a fronte di un valore medio di 750 mila euro circa, il 23,3 % delle cause si pone sotto la soglia dei 20 mila euro, il 41,3 % sotto quella dei 50 mila euro, il 55,9% sotto quella dei 100 mila euro[8].
Il contenzioso, anche tributario, è anzitutto ed essenzialmente alimentato dall’ interesse economico delle parti, private o pubbliche che siano. Un terzo grado di giudizio speciale, congegnato come verifica di legittimità delle sentenze di appello nei termini dianzi indicati, potrebbe di per sé bastare al soddisfacimento del bisogno di “giustizia apicale” relativo alle liti di non elevata importanza economica e non è irragionevole ipotizzare che dunque una parte rilevante delle liti tributarie possa trovare in quella sede quiescenza. Le percentuali, non elevate, di appello e financo di ricorso per cassazione attuali inducono all’ottimismo al riguardo. In altri termini, se molte sentenze di primo e secondo grado vanno in giudicato per mancata impugnazione, ciò dovrebbe valere anche più per quelle di terza istanza, a partire proprio dalla correlazione impugnazione/valore economico della lite.
In termini di diritto.
Un giudizio di legittimità speciale configurato, come detto, “a specchio” di quello di legittimità ordinario, potrebbe comunque anch’esso essere una barriera efficace, non solo verso l’interno del sistema della giurisdizione speciale, ma anche in rapporto alla funzione -costituzionalmente sovraordinata- di nomofilachia, specializzata e generale, della Corte di Cassazione.
Infatti, spettando per Costituzione a quest’ultima l’“ultima parola” (di ordinamento interno) sulle questioni di diritto e sulle relative controversie, questa “parola” dovrebbe essere ragionevolmente richiesta ove vi fosse un’aperta o comunque una significativa discordanza tra la giurisprudenza della CGTC e quella della Cassazione.
Giacchè altrimenti, in caso di concordanza -auspicabile e ben possibile- piena e costante delle due nomofilachie, come detto sopra, ci sarebbe il firewall endoprocessuale dell’inammissibilità ex art. 360 bis, cod. proc. civ., qualora la Corte Suprema non intenda confermare o mutare il proprio indirizzo, quale recepito nella sentenza della CGTC.
Le considerazioni, in fatto ed in diritto, appena fatte inducono perciò a formulare una ragionevole prognosi favorevole sul disposition time complessivo del sotto sistema CGTC/Corte di Cassazione, posto che il prevedibile deflusso dei ricorsi proposti alla seconda e la “barriera giurisprudenziale” costituita dalle conformità interpretative delle due Corti, dovrebbe appunto consentire tempi di definizione processuale di questo giudizio di legittimità “allargato”, globalmente e significativamente, migliori.
Quindi il principio di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. non dovrebbe essere leso da questo, solo apparente, “appesantimento” processuale, anzi dovrebbe esserne meglio attuato. Del resto, l’esperienza dell’accesso diretto alla Suprema Corte conseguente alla abolizione della CTC evidenzia che è proprio questo principio costituzionale ad esserne violato, essendovi una forte discrasia tra i tempi abbastanza celeri dei due gradi di merito e quelli non altrettanto solleciti del giudizio di legittimità.
Passando ad un ragionamento di sistema ossia alla “virtuosità istituzionale” della proposta che presentiamo con questo scritto, appare necessario partire dalla strutturazione della giurisdizione tributaria italiana.
Con la riforma del 2022 (legge 130) si è mantenuta la dicotomia tra giurisdizione di merito speciale e giurisdizione di legittimità ordinaria. Questo è indubbiamente un vulnus funzionale che l’esperienza ha messo bene in evidenza.
Peraltro, la creazione di un “circuito autonomo” di giustizia tributaria, sul modello della giurisdizione amministrativa e di quella contabile, è inibito dalla Costituzione, che appunto lo prevede per questi ultimi plessi giudiziari, ma non per altri, che sono tutti quindi, ex art. 111, settimo comma, Cost., sotto l’“ombrello” della Corte di Cassazione.
Per autonomizzare integralmente (salve le questioni di giurisdizione) la giurisdizione tributaria speciale servirebbe una modifica dell’ottavo comma di detta disposizione costituzionale. Ma è ben noto che le revisioni costituzionali sono “merce rara” e molto difficile da trovare nel mercato politico legislativo.
Quindi i rimedi a detto vulnus non possono che essere trovati sul piano della normazione ordinaria. Quello proposto, la cui compatibilità costituzionale appare indubbia, lo è e non solo sul piano, appena affrontato, della durata, complessiva, dei giudizi tributari.
La legge 130/2022 ha infatti istituito la “quinta magistratura” professionale, configurando un nuovo ordinamento di giustizia analogo a quello delle altre giurisdizioni speciali. Ma questo sistema è acefalo, ha venti Corti di appello (più un buon numero di sezioni staccate), ma non una Corte centrale. L’idea di istituirla ha quindi una notevole valenza di (sotto)sistema, posto che si tratterebbe di un organo che, per primo ed in modo uniforme, può coordinare la giurisprudenza tributaria, nell’attività di verifica della legittimità delle sentenze di secondo grado, in rito e nel merito giuridico/fattuale (secondo quanto si è sopra ipotizzato).
È perciò indubbio che questo sarebbe un fatto altamente positivo, valorizzando appieno la scelta riformatrice come dire dal suo “interno”.
Fra l’altro, questa nuova istituzione si porrebbe come, unica e di per sé quindi autorevole, interlocutrice della Corte di Cassazione, rispetto alla sua funzione ex artt. 65, legge di ordinamento giudiziario, 111, Cost.
Nella logica costituzionale della “leale collaborazione” e secondo il -tendenziale- principio di unitarietà della giurisdizione, si tratterebbe di una chance di dialogo ermeneutico notevolmente più efficace e gestibile rispetto a quello attuale, frazionato tra le Corti territoriali. A Costituzione invariata (e difficilmente variabile), l’istituzione di una Corte tributaria centrale risulta essere pertanto un potente strumento, se non per eliminare, quantomeno per attenuare di tanto gli effetti negativi della “cesura organica” merito/legittimità.
Ed appare come l’unico modo realmente efficace per abbattere il flusso dei ricorsi per cassazione, la cui quantità “storica” ha danneggiato in misura rilevante sotto il profilo dei tempi di giustizia lo jus litigatoris e fortemente limitato l’efficacia della funzione nomofilattica in materia fiscale (jus constitutionis).
Ma del resto, è possibile una nomofilachia veloce e di qualità elevata ad un ritmo di oltre 10.000 decisioni all’anno, com’è stato negli ultimi 10 anni almeno?
Assegnandole la tipologia di impugnazione proposta, in sostanza la CGTC verrebbe “associata” alla Corte di Cassazione e concorrerebbe con quest’ultima nella funzione di assicurare «l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità, del diritto oggettivo nazionale» (art. 65, r.d. 12/1941), sia pure nella posizione subordinata imposta dalle regole costituzionali (art. 111, settimo comma, Cost.).
La funzione di nomofilachia è prerogativa costituzionalmente imposta alla Cassazione (il più volte citato settimo comma dell’art. 111), ma non le è riservata in via esclusiva, anzi, per le giurisdizioni speciali amministrativa e contabile è la stessa Costituzione a prevedere che sia esercitata dai rispettivi organi centrali. Quindi la proposta compartecipazione in tale funzione di un (re)istituendo apice della giurisdizione speciale tributaria di certo non incontra, per questo profilo “funzionale”, un divieto costituzionale espresso e nemmeno risulta collidere con la giurisprudenza della Corte costituzionale. Come già sopra rammentato, questa infatti, facendo leva sull’interpretazione della Sesta disposizione transitoria e finale della Costituzione, ha ormai in via risalente e consolidata fissato il principio della “revisionabilità perpetua” degli organi speciali di giustizia tributaria, sicchè è più che fondato ritenere che non avrebbe che dire in ordine alla proposta che si sostiene.
Per non considerare semplicemente “eretica” quest’idea, al di là di ogni giudizio sulla fecondità delle eresie, basti del resto pensare al rapporto, cui si è già fatto cenno sopra, che in materia di diritto unionale vi è tra la Corte di Cassazione e la Corte di giustizia UE, che è sicuramente un rapporto “dialogante”, ma altrettanto chiaramente basato sul principio di primazia della giurisprudenza della seconda, in quanto “diritto vivente” dell’Unione.
Nulla di male e nulla di particolarmente eccentrico quindi ad ipotizzarne uno analogo di diritto interno nella materia tributaria.
[1] Sull’ argomento, v. E. Manzon, L’istituzione per legge della sezione tributaria: presupposti e profili organizzativi, processuali ed ordinamentali, in La Cassazione civile riformata, Bari, 2023, 189 ss.
[2] Qui sviluppiamo le idee già esposte nel nostro intervento su Il SOLE 24 ORE dell’ 8 gennaio 2024, Alla Corte serve un filtro (ben fatto).
[3] Sul tema, senza alcuna pretesa di completezza, v. E. Capaccioli, Esclusività e pienezza della competenza delle Commissioni Tributarie, in Diritto e processo. Scritti vari di diritto pubblico, Padova, 1978, 774 ss.; C. Bafile, Il processo di terzo grado nel processo tributario, Milano, 1982; C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, Padova, 1984, 559 ss.; P. Russo, Processo tributario, in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 99 ss. (dell’estratto); F. Tesauro, Lineamenti del processo tributario, Rimini, 1991, 199 ss.
[4] Sull’interpretazione di questa norma, v., in particolare, C. Glendi, Sui limiti di cognizione della Corte d’appello e della Commissione centrale dopo la riforma, in Dir. prat. trib., 1976, II, 788 ss.; P. Russo, op. cit., 100 ss.; F. Tesauro, op. cit., 201 ss.
[5] Con riferimento al giudizio dinanzi alla Commissione tributaria centrale, F. Tesauro, op. cit., 207 escludeva, invece, l’opportunità di un “doppio giudizio di tipo cassatorio”. Peraltro, tale convincimento traeva origine dalla considerazione per cui “un doppio giudizio di appello (e quindi un triplo giudizio di merito)” dinanzi alla Commissione centrale fosse “cosa anomala, ma giustificabile considerando che, data la composizione ed il funzionamento delle commissioni di primo e secondo grado, il legislatore ha voluto assicurare un grado «serio» di giudizio sul merito”. In altri termini, l’esclusione di un generalizzato giudizio “cassatorio” di fronte alla Commissione centrale trovava la propria peculiare ragion d’essere, secondo l’Autore, nelle carenze all’epoca ascrivibili ai precedenti gradi di merito.
[6] Al riguardo, v., per tutti, P. Russo, op. cit., 104 ss.
[7] Sul punto, cfr. Cass., sez. un., 13 dicembre 2023, n. 34851, che ha affermato l’applicabilità del rinvio pregiudiziale nel giudizio tributario di merito e anche su questioni di diritto incidenti sulla giurisdizione del giudice adito.
[8] Dati al 31 dicembre 2023; fonte, Corte di Cassazione-Ufficio di statistica.
Immagine: Lawrence W. Ladd, Hampton County Courthouse, ca. 1880, acquerello e matita su carta, Smithsonian American Art Museum, Gift of Bates and Isabel Lowry.
La riforma Cartabia ha aggiunto, a innovazioni normative esplicitamente dirette a decongestionare il dibattimento monocratico, una nuova regola che, in modo assai netto ed energico, indica ai magistrati inquirenti i presupposti per l’esercizio dell’azione penale (art. 408 c.p.p.): il pubblico ministero potrà procedere solo quando gli esiti delle indagini preliminari consentano di formulare “una ragionevole previsione di condanna”. Una mossa forse inaspettata, ma più che opportuna: l’esperienza degli operatori ed i dati statistici sugli esiti dei giudizi monocratici segnalano che uno degli snodi per razionalizzare e contenere i flussi in arrivo è quello di sorvegliare la ‘qualità’ dell’esercizio dell’azione penale. I numeri dicono infatti che, da più lustri, sono in aumento le assoluzioni nel merito nei procedimenti instaurati a seguito di citazione diretta e di opposizione a decreto penale e che, parallelamente, diminuiscono le richieste di archiviazione: si tratta anomalie statistiche che è bene analizzare. Il problema trova principalmente origine nelle strutture interne per lo “smaltimento degli affari semplici”, e quindi in scelte organizzative fatte per gestire la quantità di lavoro; non è ovviamente realistico ipotizzare uno smantellamento di tale sistema, ma occorre acquisire consapevolezza della questione ed approntare accorgimenti per evitare gli attuali sprechi di risorse dibattimentali. Il cambiamento necessario interpella non soltanto le Procure presso i Tribunali, ma anche il Consiglio Superiore e tutto il sistema di vigilanza sul ‘corretto esercizio dell’azione penale’ (Procure generali della Cassazione e dei distretti): tutti dovranno fare la loro parte, le norme primarie e secondarie necessarie già esistono.
Sommario: 1. La riforma Cartabia ed il nuovo art. 408 c.p.p.: un monito per le Procure? - 2. La qualità delle azioni penali promosse tramite decreto di citazione diretta a giudizio e decreto penale - 3. Gli esiti delle diverse tipologie di giudizio: un tema che non interessa a nessuno - 4. Conoscere i dati per migliorare. Il ruolo del DGSIA, del CSM e delle Procure Generali - 5. L’utilità delle interlocuzioni tra uffici requirenti e giudicanti - 6. Organizzazione del lavoro delle Procure e monitoraggio della qualità.
1. La riforma Cartabia ed il nuovo art. 408 c.p.p.: un monito per le Procure?
La c.d. riforma Cartabia indica, tra i suoi obiettivi, quello di accelerare i tempi di durata del processo penale, mediante la diminuzione delle pendenze degli uffici giudicanti. I dati statistici segnalano un progressivo aumento delle pendenze in particolare nei Tribunali monocratici: secondo una rilevazione del Ministero dell’agosto 2023 sono passate da 334.649 nel 2003 a 522.286 nel 2013 a 624.461 nel 2021, per poi attestarsi a 597.080 nel 2022: numeri che evidenziano un ‘eccesso’ di produzione da parte delle Procure a fronte di una limitata potenzialità di smaltimento di quegli uffici.
È noto che gli uffici di Procura hanno visto nel passato una forte diminuzione delle loro sopravvenienze, grazie a ripetute depenalizzazioni[1] e che, negli ultimi anni, possono contare su un trend di iscrizioni al registro mod. 21 sostanzialmente stabile o talora in lieve diminuzione[2]. È altresì rilevabile che questi uffici, anche in virtù di una efficiente organizzazione, hanno da tempo aumentato la loro capacità di definizione delle indagini preliminari, raggiungendo un buon equilibrio tra ‘entrate’ ed ‘uscite’: da dati del Ministero risulta a livello nazionale, nel 2009, un sopravvenuto pari a 1.603.600 ed un definito pari a 1.609.362 (dati di dettaglio segnalano, per esempio, che la Procura della Repubblica di Genova già nel 2005 riceveva 56.121 segnalazioni e ne definiva 59.628): sostanzialmente un bilancio che si mantiene costante nel tempo e che – fatte salve criticità specifiche, dovute in alcuni casi a pesanti scoperture di organici o alla pendenza di indagini preliminari particolarmente impegnative – consente di considerare gli uffici inquirenti, nel loro complesso, sufficientemente efficienti dal punto di vista della gestione dei flussi di lavoro. Ma questa prima valutazione positiva, e limitata al piano di una analisi puramente quantitativa, va approfondita.
Se si apre il confronto a livello europeo, si nota per esempio un dato suggestivo, che concerne il rapporto tra sopravvenienze degli uffici inquirenti e definizioni in termini di esercizio dell’azione penale: rispetto alle consorelle europee le Procure italiane ricevono meno segnalazioni di reato, ma trasmettono più procedimenti a giudizio. Dal data base CEPEJ emerge che nel 2018 in Italia sono pervenute ai pubblici ministeri 4,2 notizie di reato ogni 100 abitanti, cifra assai inferiore rispetto ad esempio a quella francese (6,12 ogni 100 abitanti) e tedesca (5,99 ogni 100 abitanti); mentre nel 2018 ai giudici dibattimentali italiani sono sopraggiunti 1.332 processi a testa, a fronte di una media europea di 398[3].
C’è un ulteriore dato (nazionale, e quindi più significativo) che induce ad approfondire le modalità di definizione ad opera delle nostre Procure: almeno dal 2007 la percentuale di richieste di archiviazione “noti” è in diminuzione: nel 2019 è stata del 37%, mentre nel 2005 era del 39,80 e nel 2001 addirittura del 59,52%[4]. Insomma, può essere utile affrontare il tema delle ‘eccessive’ pendenze davanti ai Tribunali anche ponendo una attenzione critica alla qualità delle azioni penali esercitate dagli uffici inquirenti.
Tanto più utile risulta questa prospettiva, se si pone attenzione che, accanto ai molteplici strumenti deflattivi messi in campo dalla riforma Cartabia (ampiamento del numero dei reati punibili a querela, allargamento delle ipotesi di messa alla prova, potenziamento dell’archiviazione per tenuità del fatto), compare un tassello forse inaspettato: la ridefinizione dei presupposti necessari per l’esercizio dell’azione penale; è significativo notare che, prima della modifica, non si era discusso specificatamente sulla necessità di intervenire sul tema.
Ci riferiamo al nuovo art. 408 cpp e alla soppressione dell’art. 125 disp. att. cpp: un duplice intervento che chiarisce, sottolinea ed enfatizza la soglia, in termini di risultati dell’attività investigativa, che deve presidiare la scelta dell’azione penale; la nuova norma impone la richiesta di archiviazione, quando gli elementi probatori acquisiti “non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca”. Viene quindi eliminata la preesistente duplicazione della regola per la scelta tra azione ed archiviazione (la generica ed ambigua “infondatezza della notizia di reato” dell’art. 408 cpp e la “inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio” dell’art. 125 disp. att. cpp), con una formulazione perentoria: il pubblico ministero potrà esercitare l’azione penale solo se l’esito delle indagini preliminari gli consente di formulare una ragionevole prognosi di condanna.
In realtà, il nuovo art. 408 cpp, pur distinguendosi per la chiarezza e la forza della formulazione, a nostro parere non ‘rivoluziona’ la definizione del criterio selettivo (tra azione ed archiviazione) previsto per il magistrato inquirente: essendo ragionevole pensare che la necessaria “idoneità degli elementi probatori raccolti per sostenere l’accusa al dibattimento” sia molto vicina alla (e comunque non possa essere troppo distante dalla) ragionevole previsione della condanna; sicché il passaggio dall’uno all’altro criterio dovrebbe, astrattamente, ‘spostare pochi numeri’. Astrattamente, scriviamo, perché la decisione di intervenire con questa inusuale nettezza (“ragionevole previsione di condanna”: una formula scelta per farsi ben capire) a nostro parere è motivata dalla necessità di indicare alle Procure, una volta per tutte, il criterio da seguire: ‘l’azione penale si esercita solo in questi casi’.
Non è nostra intenzione approfondire in questa sede l’interpretazione del nuovo art. 408 cpp, o disegnarne i confini con il previgente art. 125 disp. att. cpp: ci pare importante però sottolineare che la prescrizione attiene al “corretto esercizio dell’azione penale” da parte dei Procuratori della Repubblica (art. 1 d.lgs. n. 106 del 2006) ed è affidato alla vigilanza dei Procuratori Generali, essendo diretta ad evitare azioni penali superflue, gravose per i cittadini e per tutta l’organizzazione giudiziaria; e che, sul piano della ‘politica del diritto’, richiedendo al pubblico ministero una prognosi sulla valutazione che il giudice farà del compendio probatorio, presuppone una attitudine che motiva fortemente l’ appartenenza dell’inquirente, insieme ai giudici, ad un unico ordine.
L’analisi che interessa proporre è quella che collega questa scelta normativa con l’obiettivo primario della riforma Cartabia, e quindi con l’intento di ridurre i tempi dei dibattimenti penali: non a caso la modifica normativa accompagna il potenziamento di istituti a valenza deflattiva, il che consente di ipotizzare ragionevolmente che il nuovo art. 408 cpp intenda (anche) intervenire sui numeri di procedimenti che le Procure riversano sui Tribunali.
2. La qualità delle azioni penali promosse tramite decreto di citazione diretta a giudizio e decreto penale.
È sufficiente esaminare i dati statistici sulle assoluzioni nel merito, nei procedimenti trasmessi dagli uffici inquirenti ai Tribunali monocratici per rilevare un problema: sono dati, infatti, che devono destare allarme (e che risultano in sostanziale costante crescita: dal 23% nel 2012 e 2013, al 39% nel 2019[5]), e speculari alla contestuale flessione delle percentuali di richiesta di archiviazione: occorre chiedersi se sia ormai ineludibile procedere ad una realistica valutazione della qualità della ‘produzione’ di azioni penali, soprattutto ex art. 550 c.p.p., ad opera delle Procure, e se il legislatore abbia inteso fare un ultimo sforzo per indicare ai pubblici ministeri la regola da rispettare[6].
È doverosa una premessa, e cioè che si sta ragionando sul piano di macro-dati, e che l’anomalia statistica che stiamo approfondendo concerne non il singolo magistrato, ma in generale l’organizzazione del lavoro nelle Procure: questa, infatti, compare solo negli esiti dei procedimenti a competenza monocratica, e non collegiale: il confronto ci pare percorribile, stante la marginalità delle declaratorie di non doversi procedere in udienza preliminare; e la modifica dell’art. 425 c.p.p., coerente con quella dell’art. 408 c.p.p., appare più che opportuna.
Occorre essere schietti e ragionare, nel commentare la portata della nuova norma, sulle troppo elevate percentuali delle assoluzioni nel merito nei procedimenti segnalati: un dato di fatto che pone domande e sollecita un approfondimento; un dato, si ripete, che non trova una convincente spiegazione in una ipotetica insufficienza della previgente disciplina: considerato che, come si è detto, già l’art. 125 disp. att. cpp imponeva comunque una valutazione razionale circa la sufficienza del materiale accusatorio per motivare una richiesta di condanna.
È esperienza diffusa tra i magistrati giudicanti che un numero significativo di procedimenti mandati al giudizio monocratico è sprovvisto di qualsiasi indagine; ne è prova l’applicazione massiccia (diremmo anomala) dell’art 507 c.p.p., norma che dovrebbe avere un impiego eccezionale e che troppo spesso il giudicante si è trovato costretto a utilizzare al fine di colmare lacune dell’impianto accusatorio: tra le più gravi e ricorrenti, la mancata indicazione di testimoni chiave e la mancata produzione di documenti essenziali, la cui esistenza era nota all’inquirente[7].
Anche dati statistici scorporati confermano ciò. Un’analisi dettagliata delle sentenze assolutorie, effettuata presso il Tribunale di Genova negli anni 2020 e 2021 con l’ausilio indispensabile di alcuni addetti all’Ufficio per il processo e di tirocinanti (è infatti impossibile estrarli direttamente tramite SICP), ha fatto emergere come oltre il 50% del totale delle assoluzioni fosse motivato da ragioni di merito[8]: tutte per carenza di prove, numerosissime quelle conseguenti ad opposizione a decreti penali (che sovente vengono emessi senza alcun vaglio preventivo); molte relative a reati formali, laddove una semplice più attenta analisi dei documenti avrebbe evitato il dibattimento[9]: in definitiva, una quota del lavoro della Procura che si è risolta in gravi disagi per gli imputati assolti ed in un evidente spreco di tempo e di risorse; si pensi ai costi di difesa, all’immenso lavoro delle cancellerie per le notifiche e gli scarichi sui registri, al numero delle udienze dibattimentali, alle liquidazioni per patrocini a spese dello Stato; e, paradossalmente, a fronte del massiccio numero di assoluzioni, le impugnazioni da parte della Procura sono praticamente inesistenti, a conferma del totale disinteresse per la sorte di questi procedimenti. Ma allora, perché non cambiare la rotta?
La descrizione che abbiamo appena proposto può sembrare impietosa: ma consideriamo che lo stesso legislatore, con la recente introduzione dell’art. 544-bis c.p.p. e con la previsione, nei giudizi a citazione diretta, di un’udienza predibattimentale all’esito della quale il giudice dovrà pronunziare sentenza di non doversi procedere quando “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”, ha preso atto della gravità del problema e ne ha valutato così necessario il ridimensionamento da prevedere un meccanismo specifico per eliminare dal carico del dibattimento i procedimenti impropriamente proposti dagli uffici inquirenti: un rimedio oneroso, in termini organizzativi (soprattutto per i Tribunali medio-piccoli) ed in termini per così dire ‘culturali’, perché comporta la necessità di uno specifico ‘giudice predibattimentale’ che si ‘contamini’ con la lettura integrale del fascicolo del pubblico ministero, al fine di eliminare una ‘zavorra’ evidentemente ritenuta non più tollerabile.
3. Gli esiti delle diverse tipologie di giudizio: un tema che non interessa a nessuno
La scarsa qualità delle azioni penali di cui si tratta costituisce un problema diffuso, risalente nel tempo e noto agli operatori del settore; ma, nonostante questo, praticamente nessuno discute o scrive su questo tema. I progetti organizzativi dei Procuratori della Repubblica si confrontano con i flussi in entrata, le pendenze e le definizioni dei loro uffici, ma mai con gli esiti dei procedimenti.
Neppure il Consiglio Superiore ritiene rilevante, per valutare sia i progetti dei Procuratori, sia le proposte organizzative formulate dai candidati ai posti direttivi, il tema dei risultati: nella relazione riassuntiva degli esiti di una approfondita verifica esperita dal Consiglio sui progetti di tutte le Procure italiane per il triennio 2020/2022 (la si legge nel “L’albero dei progetti”, pubblicato sul sito Cosmag) non compare neppure un accenno al tema: dalla lettura delle 190 pagine di dettagliatissime osservazioni risulta, da un lato, che nessun progetto organizzativo riferisce, seppure sommariamente, degli esiti dei procedimenti; e, d’altro canto, che il Consiglio non dedica neppure una riga all’omissione; viene rilevato, tra i molteplici appunti critici, che nel progetto manca una analisi sullo stato delle pendenze, che non vengono indicati i flussi dei singoli gruppi di lavoro, che è carente il dettaglio dei flussi del triennio precedente ed altro: ma non una parola sulla questione dei risultati.
Eppure, proprio il Consiglio, già nella sua circolare sulle Procure del 16 novembre 2017 (confermata sul punto nella riedizione del 16 giugno 2022), aveva previsto (art. 3, co. 1) che “allo scopo di garantire la ragionevole durata dei processi, il Procuratore della Repubblica assicura un’attenta e particolareggiata analisi dei flussi e delle pendenze dei procedimenti ed il loro costante monitoraggio, anche avvalendosi della Commissione Flussi(…), nonché dei dati acquisiti dai Presidenti dei Tribunali sul ricorso ai riti speciali e sugli esiti delle diverse tipologie di giudizio”. Una previsione, questa, che richiedeva una ricerca di dati e una valutazione dei risultati delle azioni penali promosse, distinte per rito: nessun procuratore, a quanto risulta, vi ha provveduto e nessun componente del CSM se ne è lamentato.
La reticenza è stupefacente, quasi l’argomento fosse un tabu, come dimostra il fatto che statistiche affidabili sugli esiti neppure esistono: le molteplici tabelle elaborate dal Ministero o utilizzate dal Consiglio espongono soltanto dati spuri, inidonei ad evidenziare le assoluzioni nel merito (l’unico indicatore significativo – a livello statistico di ‘grandi numeri’ – per valutare la qualità del lavoro delle Procure): sono disponibili soltanto dati comprensivi talora delle improcedibilità per motivi processuali, talaltra dell’estinzione del reato per esito favorevole della messa alla prova o altro. Ma forse è ingenuo stupirsi di questo: è ovvio che nessuno si dolga per la mancanza di un dato che non interessa a nessuno.
Quali le ragioni di un così evidente ‘strabismo’?
In realtà, le origini di questa ‘finalizzazione’ delle Procure a produrre numeri sono evidenti: l’organizzazione degli uffici inquirenti da molti anni (almeno dalla soppressione delle Procure presso le Preture) è stata centrata sulla necessità di gestire più agilmente la quantità, al fine di evitare prescrizioni nel corso delle indagini preliminari, e di consentire lo svolgimento di attività di indagini complesse ad opera di gruppi di lavoro specializzati, alleggeriti dal carico della gestione di molteplici procedimenti semplici, ripetitivi e di minore rilievo. Un obiettivo benemerito, che oggi si può considerare grosso modo raggiunto: ora è il momento di prendere atto del problema che stiamo segnalando, innanzitutto acquisendo i dati necessari per esserne consapevoli.
L’obiettivo della gestione delle quantità è stato realizzato attraverso la creazione di strutture interne dedicate alla trattazione di “affari semplici”; ciò non raramente ha dato vita ad una sorta di sub-appalto permanente ad ufficiali di polizia giudiziaria e a vice Procuratori onorari, forniti di moduli per la produzione in serie di decreti di citazione a giudizio e di decreti penali, poi firmati da un magistrato, il quale, oberato da altri gravosi impegni, non è in grado di controllare le enormi quantità di atti prodotti; queste strutture ‘di smaltimento’ sono state non di rado affidate a collaboratori non specificamente preparati ad affrontare il nuovo ruolo, e motivati (i magistrati onorari talvolta anche sulla base dei criteri retributivi applicati dalle Procure) soprattutto a proporre azioni penali in massa.
A ciò si aggiunga, come si è detto, che normalmente solo i p.m. onorari gestiscono in udienza (con turni che prescindono dall’avere trattato l’uno o l’altro fascicolo) questi processi e che nessun pubblico ministero togato si informa dell’esito dei decreti di citazione sottoscritti: insomma, nessuno ‘ci mette la faccia’, e quindi nessuno si sente responsabile.
È poi da sottolineare un ulteriore importante profilo negativo: questa organizzazione produce non solo scarsa qualità, ma anche una costante, massiccia e parrebbe inconsapevole violazione dei criteri di priorità: anche nel caso in cui il Procuratore abbia indicato nel proprio progetto organizzativo criteri di priorità coerenti con quelli previsti dall’art. 132 disp. att. cpp, ne abbia proficuamente discusso col Presidente del Tribunale e ne abbia infine preteso il rispetto da parte dei sostituti, questi gruppi di lavoro ‘a smaltimento rapido’ continueranno a sfornare, sotto forma di decreti di citazione a giudizio e di decreti penali (massicciamente opposti), azioni penali ‘a prescindere’ da qualsiasi razionalità, che andranno a impattare su calendari di udienza già fittissimi e che dovrebbero lasciare spazio alle priorità indicate dal legislatore.
4. Conoscere i dati per migliorare. Il ruolo del DGSIA, del CSM e delle Procure Generali
Le nostre osservazioni non intendono proporre un ‘ritorno al passato’ né uno smantellamento di alcune scelte organizzative che hanno dimostrato efficienza: vogliono però suggerire la necessità di una maggiore consapevolezza dei problemi che possono derivare (ed oggi derivano) da alcune soluzioni organizzative adottate in passato, ed i cui effetti non sono mai stati monitorati.
È ormai necessario un cambiamento di prospettiva: primariamente nel Consiglio Superiore, che deve utilizzare in tutta la loro potenzialità gli strumenti che pure si è già dato con il riferimento agli ‘esiti dei procedimenti’ contenuto nelle circolari sulle Procure; poi nel sistema di vigilanza delle Procure Generali; e infine nelle Procure presso i Tribunali: l’orizzonte organizzativo del sistema degli uffici inquirenti e requirenti pare oggi fermarsi allo smaltimento ai numeri ‘in uscita’ dall’ufficio, e non valuta i suoi risultati avendo di mira l’intero procedimento e i suoi effetti, in termini di giustizia e riparazione; la cultura della giurisdizione (cui il P.M. ‘non separato’ vuole continuare ad appartenere) impone un profondo mutamento.
Ma è difficile porre rimedio a un problema, se non lo si vuole conoscere: il primo passo indispensabile è quindi quello di voler, finalmente, acquisire, elaborare e conoscere i dati sugli esiti: ragionarci sopra sarà poi inevitabile.
Spetterà al Consiglio Superiore, prima di tutto, pretendere dalle elefantiache strutture ministeriali a ciò deputate (v. DGSIA) applicativi che permettano di estrarre tutti i dati necessari. È infatti indispensabile che sia gli inquirenti che i giudicanti abbiano a disposizione strumenti informatici e statistici snelli e veloci, che permettano di scorporare e incrociare i dati per materie, per fasi, per tipologie di reati, di riti, di formule assolutorie, senza essere costretti ad elaborarli “manualmente”[10].
Senza queste conoscenze nessun proficuo colloquio tra inquirenti e giudicanti può aver luogo.
Il C.S.M. dovrà poi valutare i progetti organizzativi dei Procuratori richiedendo una adeguata analisi degli esiti (si noti al proposito che la riforma Cartabia, nel modificare sul punto il d.lgs. 106 del 2006, ha indubbiamente messo a disposizione dell’organo di governo autonomo poteri ben più incisivi rispetto al passato); dovrà inserire tra i parametri, in base ai quali valutare i dirigenti in sede di conferma o scegliere i futuri dirigenti, quelli idonei a premiare l’attenzione per la qualità delle azioni penali, e non solo per le quantità.
Il ruolo del Consiglio Superiore, rispetto al tema di cui stiamo discutendo, è essenziale: è banale ricordare che i valori che si affermano in una organizzazione sono (anche) quelli che risultano significativi ai fini della ‘valutazione professionale’ dei suoi componenti, e per converso che valori magari fortemente proclamati, ma di fatto insignificanti nella vita lavorativa degli operatori, restano totalmente marginali.
Anche il complessivo ‘sistema’ di vigilanza affidato alle Procure Generali nei distretti e coordinato dalla Procura Generale della Cassazione dovrà fare la sua parte; l’art. 6 del d. l.gs. 106 cit. affida al Procuratore Generale presso la Corte di appello la verifica del “corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale” e gli attribuisce a tal fine il potere di richiedere “dati e notizie” ai Procuratori della Repubblica, relazionandone al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione: e correttezza ed uniformità non possono che consistere nel rispetto del ‘nuovo’ art. 408 c.p.p., che detta la regola fondamentale per l’esercizio dell’azione punitiva. Anche in questo caso ha senso una agevole previsione: se il Procuratore Generale chiederà ai Procuratori della Repubblica, tra mille tabelle e statistiche, anche i numeri sugli esiti dei procedimenti, se studierà questi dati, se ne discuterà con i dirigenti delle Procure, l’attenzione dei dirigenti di costoro per i risultati dei giudizi non mancherà.
Ma saranno in particolare le Procure che potranno attivare strumenti utili per migliorare i risultati della loro attuale organizzazione.
Sul punto è da ribadire che occorre, prima di tutto, conoscere il problema: gli uffici inquirenti sono già in grado, con un limitato impegno aggiuntivo, di acquisire e fornire ai magistrati togati e onorari coinvolti i dati sui risultati delle azioni promosse; e siamo certe che questa consapevolezza costituirà una motivazione forte per intervenire al fine di limitare sprechi di risorse preziose ed irrazionalità.
5. L’utilità delle interlocuzioni tra uffici requirenti e giudicanti
L’esperienza di qualche ufficio giudiziario ha dimostrato che già la sola conoscenza del problema può portare ad una razionalizzazione delle prassi e ad un miglioramento.
Numerose sono state negli anni le circolari consiliari sui rapporti tra uffici requirenti e giudicanti, soprattutto in materia di criteri di priorità (delibere del 9.7.2014, del 11.5.2016 ed altre); eppure le interlocuzioni tra gli uffici sono rimaste per lo più a livello formale: la Procura esprime un parere preventivo sulle tabelle del Tribunale, spesso senza approfondirle. Dove invece questi confronti sono stati reali e costanti, hanno dimostrato la loro massima utilità; un’esperienza in tal senso è stata sperimentata in Liguria negli anni 2016-2020 presso il Tribunale di Imperia.
Qui, supportati dalle circolari del CSM e a fronte dell’abnorme pendenza che in quel momento il Tribunale si trovava a gestire sul versante monocratico (concausa l’accorpamento del Tribunale di Sanremo a quello di Imperia), dopo un’attenta analisi dei tempi medi di definizione e una valutazione degli esiti dei procedimenti da citazione diretta, Tribunale e Procura concordarono alcuni passaggi:
Nell’arco di neppure un anno i tempi medi di definizione per reati prioritari (ad esempio da c.d. codice rosso, colpe professionali e infortuni sul lavoro) si dimezzarono, fino a raggiungere, negli anni successivi, un tempo di definizione di circa un anno, a fronte dei quattro o cinque anni precedenti.
I risultati positivi si concretizzarono, in sostanza, in una maggiore efficienza e celerità nei processi per i reati monocratici più importanti, che ebbe come effetto benefico anche l’aumento di riti alternativi per quella stessa tipologia di reati presso l’ufficio GIP- GUP (non potendo più l’imputato sperare nella prescrizione) e quindi una deflazione dibattimentale.
Un secondo risultato positivo fu l’abbattimento delle assoluzioni nel merito, grazie, in parte, alla presenza del p.m. togato alle udienze prioritarie e in parte a una selezione più accurata sugli ‘affari semplici’ da parte della Procura, consapevole che, più era elevato il numero degli invii a dibattimento e più sarebbe stata elevata la probabilità di prescrizione.
Questi risultati portarono il CSM ad inserire il progetto nelle ‘best practices’.
6. Organizzazione del lavoro delle Procure e monitoraggio della qualità
Non si propone, ovviamente, di rinunziare alla ormai consolidata scelta organizzativa di costituire gruppi di lavoro per la trattazione in serie dei fascicoli meno complessi e più ripetitivi; ma è necessario accompagnare questa opzione con una serie di cautele che ne minimizzino le controindicazioni: tutti accorgimenti che andranno misurati sulle dimensioni e sulle risorse disponibili nei singoli uffici, e che -seppur (non molto) impegnativi per la singola Procura- produrranno risparmi per il sistema complessivo: d’altra parte, non appare razionale che l’organizzazione che si dà l’ufficio inquirente penalizzi l’intero sistema della giurisdizione.
Sono possibili correttivi molteplici.
Negli uffici più strutturati potrebbero prevedersi più magistrati togati a coordinare le diverse équipes di smaltimento, a seconda del settore loro assegnato (es.: furti in supermercato, violazioni del codice della strada, violazioni dell’art. 650 c.p. ed altro), in modo da contenere il numero dei fascicoli seriali su cui dover mantenere, per così dire, un ‘controllo’. In ogni caso, il magistrato incaricato di sopraintendere al gruppo di lavoro dovrà dare vita a prassi o a protocolli adeguati; dovrà conoscere i dati sugli esiti dei procedimenti e la giurisprudenza del Tribunale nelle singole materie; dovrà monitorare le udienze predibattimentali che, ai sensi del nuovo art. 544-bis c.p.p., pronunzieranno sentenze di non doversi procedere quando “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”. Questa verifica, in particolare, sarà utile per conoscere le diverse valutazioni del Tribunale in ordine alla quantificazione di determinate ‘soglie’ rilevanti ai fini della punibilità (per esempio nel caso di irrilevanza del fatto), in modo da risolvere la diversità di valutazione (di cui sovente la Procura non si cura) o con una impugnazione o con un motivato adeguamento alla giurisprudenza del giudicante.
È poi possibile un’attività di formazione specifica degli addetti alla trattazione di questi ‘affari semplici’: la Scuola Superiore della Magistratura e in particolare la formazione decentrata a livello distrettuale hanno strutture apposite dedicate ai magistrati onorari; e gli uffici di Procura sono da sempre disponibili a partecipare ad azioni formative dedicate alla polizia giudiziaria: in queste ipotesi sarà utile privilegiare il metodo casistico, per dare concretezza alle iniziative. Ovviamente, anche il corrispettivo (in termini di modalità di calcolo dei compensi per i vice Procuratori onorari, e di valutazioni professionali per gli operatori di polizia giudiziaria) dovrà valorizzare il ‘lavoro ben fatto’, e non la scelta dell’azione penale ‘a prescindere’: è evidente che una richiesta di archiviazione in linea con ‘nuovo’ art. 408 c.p.p. merita assai più di una richiesta di decreto penale o di una citazione diretta a giudizio non adeguatamente vagliate.
Ma soprattutto: presupposto essenziale di ogni miglioramento è la disponibilità delle Procure a conoscere e valutare, anche confrontandosi con i colleghi giudicanti, i dati sugli esiti delle azioni penali promosse; è augurabile che ogni ufficio, anche prima di avere a disposizione statistiche ministeriali affidabili (che è presumibile si faranno attendere), voglia dedicare una qualche attenzione ai risultati del proprio lavoro. Non sarà facile superare questa antica reticenza: ma, se il Consiglio Superiore e le Procure Generali della Cassazione e dei distretti daranno il dovuto rilievo al tema, questo cambiamento di prospettiva diventerà meno difficile, meno urticante, e si diffonderà.
[1] Da fonti ISTAT e del Ministero della Giustizia risulta che si è passati da 4.770.653 sopravvenienze totali (noti ed ignoti) del 1990 a 2.620.542 (noti ed ignoti) nel 2019.
[2] Per esempio, da dati del Ministero della Giustizia risultano 1.603.600 iscrizioni nel 2009 e 1.588.379 nel 2012.
[3] Dato estratto da “Giustizia per nessuno” di M. Gialuz e J. Della Torre, Giappichelli 2022 p. 57.
[4] Dato estratto da “Giustizia per nessuno” di M. Gialuz e J. Della Torre, Giappichelli 2022 p. 94.
[5] Dato estratto da “Giustizia per nessuno”, cit., p. 149.
[6] La Procura di Genova da molti anni ormai provvede ad una analisi molto dettagliata delle modalità di definizione dell’ufficio e degli esiti, consapevole della insufficienza delle tabelle ministeriali e della non immediata confrontabilità tra le statistiche elaborate dai diversi uffici giudiziari: un lavoro ponderoso, che potrebbe costituire un’utile base di discussione non solo all’interno dell’ufficio, ma anche con i magistrati che operano nel settore penale del Tribunale. Sulla base dei dati contenuti in tale analisi, da noi rielaborati, risultano, tra gli altri, i seguenti dati: percentuali di richieste di archiviazione sul totale delle definizioni della Procura: 40% per gli anni 2013 e 2014, 39% nel 2019, 46% nel 2020 e 45% nel 2021; esiti dei procedimenti collegiali 2021: assoluzioni 20%; ndr e prescrizioni 4%; condanne totali o parziali: 76%; percentuale di assoluzioni nei giudizi monocratici (comprendendo tra le ‘assoluzioni’ anche le sentenze conseguenti all’esito favorevole della messa alla prova e tra il ‘totale delle sentenze’ quelle di condanna, di assoluzione, di abbreviato e di patteggiamento, di ndp e di prescrizione): nel 2017 assoluzioni pari al 35,3% delle sentenze totali; nel 2019: 37,62%; nel 2021: 38,81%.
[7] Cfr. Cass. 26/6/2014, n. 27879, in cui si parlò di “deriva applicativa” dell’art 507 c.p.p.
[8] Nel primo semestre del 2021 si sono avute 739 assoluzioni nel merito su 1.461 totali e nel primo semestre 2020 486 assoluzioni nel merito su 828.
[9] Quali: mancate analisi di sanatorie urbanistiche già concesse, di documenti che avrebbero attestato che la violazioni alla autorizzazioni amministrative contestata era inesistente, in quanto la stessa era stata rettificata e ampliata prima dell’accertamento; di documenti contabili prodotti dall’indagato già in sede di memoria ex art 415-bis c.p.p.
[10] Si noti inoltre che la mancanza di elaborazioni attendibili di dati impedisce una corretta valutazione dell’effetto di riforme importanti: ricordiamo come, a seguito di ogni modifica normativa, lo stesso Ministero e spesso il Parlamento sollecitino report semestrali sugli esiti, chiedendo dati che SICP non permette di estrarre e che pure sono contenuti nelle sentenze; ad esempio quando, a seguito della riforma sui reati da c.d. codice rosso, sono state sollecitate informazioni sull’età delle vittime, sulla maturazione o meno della violenza in ambito familiare, sulla presenza di minori: insomma, ricerche che con l’inserimento di parole chiave, in presenza di strumenti informatici minimamente adeguati, si potrebbero estrarre in un lampo, mentre è necessario chiedere uno sforzo “manuale” enorme alle cancellerie già oberate da mille impegni e stremate dalle carenze di organico. Nel 2023 questo è inaccettabile!
(Immagine via Smithsonian Institution)
Ernesto Aghina, con Carlo Citterio, ha fondato questa rivista nell'ottobre del 2009.
Il titolo “Giustizia Insieme” è creazione del suo ingegno, plastica descrizione dell’originale obiettivo: diffondere il modello di magistrato non autoreferenziale, ma capace di ascoltare e confrontarsi con la società e che, nella rivista cartacea, trovava massima espressione comunicativa nella “doppia voce” del togato a confronto, sul medesimo tema, con il non togato.
«La giustizia è una questione troppo importante perché se ne occupino solo i giudici», questa la considerazione scritta nella prefazione del primo numero, che offre l’idea dell’importanza del confronto e del dialogo che caratterizza anche il modo di essere di Ernesto.
Capacità di ascolto e confronto che ha declinato nella sua attività professionale, nell’attività associativa come movimentista - il più giovane firmatario del documento verde fondativo del Movimento - nella formazione sin dalle sue origini, al Consiglio superiore della Magistratura, presso la Scuola superiore, nell’esercizio della giurisdizione e nella dirigenza.
Non solo perché è stato il primo Direttore della Rivista, ma anche perché ciascuno di noi, in qualche misura, si è formato con lui, non potevamo esimerci da auguri corali per questo compleanno importante.
La Redazione
Sono certo che nessuno, nel nostro vasto ambiente professionale, abbia la sapienza e la saggezza di Ernesto in tema di formazione (e selezione) dei magistrati ordinari ed onorari: della sua scienza avremo tutti ancora bisogno. Il suo percorso in magistratura, al di là dei prestigiosi ed onerosi incarichi giudiziari con generale apprezzamento ricoperti, si è infatti sempre caratterizzato per la tensione e l’impegno verso la crescita e diffusione del sapere giuridico, insieme alla sensibilità verso la cultura della deontologia, per la costruzione di una figura di magistrato che trovi la sua legittimazione a jus dicere nella indiscussa professionalità e nella consapevolezza vissuta della funzione di arbitro terzo ed imparziale. Con lui ho condiviso varie esperienze e sono testimone diretto, anche e soprattutto per gli anni passati insieme alla Scuola superiore, del suo costante, riservato ma oltremodo coinvolgente dinamismo intellettuale: peccato sia astemio e milanista, ma oggi lo perdono. (Giacomo Fumu)
Per i colleghi, per gli avvocati, per le parti private una garanzia di competenza, di correttezza e di umanità; per la scienza processualpenalistica, un autore intelligente, documentato e costruttivo; per il dibattito culturale, una voce elegante, equilibrata e di grande onestà intellettuale; per gli amici, quorum ego, una persona sincera, arguta e dal profondo sentire; per i pescatori un competitor accanito; per i pesci, una iattura. (Glauco Giostra)
Caro Ernesto, non so immaginarti triste perché il tempo ti costringe a lasciare. Non solo perché non avresti motivo per non essere ampiamente soddisfatto di quello che hai fatto e dato, e neppure perché hai Daniela, Giulia e la pesca, ma perché la tristezza sarebbe…banale. E la banalità t’è sempre stata, grazie al cielo, del tutto estranea. Non ti renderei dunque giustizia se di te ricordassi intelligenza, capacità e dedizione. Sarei anzi, appunto, insopportabilmente banale a fronte di chi è stato sempre, invece, magnificamente originale: nel pensiero, nell’organizzazione, nella capacità di aggregazione.
Tu sei stato un leader ed un esempio, senza la presunzione di esserlo. Ti abbraccio. (Alfonso Amatucci)
«Uomo libero, amerai sempre il mare.» Sta in questo verso di Baudelaire la prima, fulminea e decisiva associazione mentale che Ernesto evoca in me. Nella sterminata galleria fotografica custodita nel mio smartphone conservo una sua foto. Vi campeggia Ernesto, marinaio e pescatore, che esibisce, con malcelato orgoglio, il frutto di una battuta di pesca subacquea: una grossa murena, saraghi, dentici. Magari pescati a Diafani, finis terrae dell’isola di Karpatos, sotto il monte Olympos, nella quale si recava spesso e che io, viaggiatore inquieto, avevo raggiunto in un’estate di vagabondaggio per isole greche. Tutto il resto di lui è noto ed è perfino vero: è un eccellente magistrato, un uomo intellettualmente curioso, che ha inventato parecchie cose negli uffici e nella Scuola della magistratura. Sempre senza spocchia, con una ironia che non sconfina mai nel sarcasmo. Perfetto per la libertà che lo attende. (Nello Rossi)
Qualcosa meno di una decina d’anni fa, ricevetti l’invito a svolgere, per i m.o.t. impegnati presso la scuola di Castelpulci, una riflessione sull’esercizio dell’azione civile nel processo penale. Si trattava di un invito (rivolto con un garbo raramente sperimentato in altre occasioni) da cui trapelava una tale passione per l’organizzazione del lavoro dei colleghi più giovani (e dunque un entusiasmo così contagioso) da rendere impossibile (non si dice un rifiuto, bensì) qualsivoglia forma di titubanza. Arrivai a Firenze con un po’ di anticipo, rispetto all’ora dell’incontro, e fui condotto dal mio ‘garbato’ interlocutore a visitare la “nostra casa”, la casa dei magistrati, alle cui cure il ‘garbato’ stava dedicando tutto il proprio tempo, la sua vita (fino ad allora pigramente affacciata sul golfo di Napoli), il senso del proprio impegno. Ne ricavai una lezione, che ancora stento a dimenticare: il valore di tutto ciò che impariamo si misura solo con la ricchezza che trasmettiamo (tanto siamo di passaggio) a coloro che seguiranno. So che il ‘garbato’ è tornato, negli anni, a riaffacciarsi al suo golfo e a trarne frutti carnosi da condividere ancora. Cercare e donare è dunque il senso ultimo e l’importante pregio del mio ‘garbato’. È l’importanza, infatti, di chiamarsi Ernesto. (Marco Dell’Utri)
Ernesto Aghina è stato per me, come per tanti giovani che erano appena entrati in magistratura, un punto di riferimento irrinunciabile ed insostituibile. Sono stato suo uditore quando era pretore a Napoli e si occupava dei reati ambientali e da quel momento si è creato un rapporto che non è mai cambiato, anzi si è rafforzato. Grazie a lui mi sono avvicinato all’attività associativa e grazie a lui ho aderito al Movimento per la Giustizia, impegnandomi anche in prima persona. A lui sempre ho fatto capo nei tanti momenti di difficoltà lavorativi e ho sempre trovato un “porto sicuro”. Anche da pensionato, sono certo che, accanto all’impegno di padre, non smetterà di occuparsi della sua amata magistratura e per tanti come me resterà sempre disponibile quando ne avremo bisogno. (Raffaele Cantone)
Divertirsi, dal latino divértere, volgere altrove. Il segreto che mi ha regalato Ernesto è che il modo più efficace di dirigere un ufficio, di partecipare alla vita della comunità in cui si lavora, di organizzare la formazione dei nuovi magistrati è sapere “tenere lo sguardo altrove”. Lo spirito con cui ha danzato tra queste responsabilità, tenendovi testa con un'efficacia che nessuno può dimenticare, è stato quello di sapersi “divertire”. È stato una guida, perché ha saputo sempre guardare fuori dal suo perimetro, mantenere il ruolo senza farsene imprigionare, esserci gustando ogni passaggio. (Gabriella Ambrosino)
Ho conosciuto Ernesto 20 anni fa, e l'ho sempre ammirato per il suo entusiasmo, l'enorme professionalità, la rara capacità di vedere in prospettiva le dinamiche giurisdizionali e associative. Mi sembra assurdo che la magistratura debba privarsi del suo apporto, ma purtroppo Kronos non ammette patti in deroga. Anche per chi 70 anni proprio non li dimostra. (Mino Castaldo)
Caro Ernesto, 70 anni e stai iniziando una nuova vita. Avrai tanto da fare, ne sono sicuro. Forse trascurerai in parte i tuoi impegni marinari e le tue pesche miracolose (che i maligni spesso dubitano siano frutto delle tue abilità); ma sono certo - e sicuramente lo spero - che continuerai a non farci mancare, in quest’epoca così travagliata e problematica, la tua passione e il tuo modo mai corporativo di intendere la nostra professione. (Mario Suriano)
Lo vidi per la prima volta quand’ero poco più che uditrice. Paola Filippi mi disse di lui ciò che lo avrebbe identificato poi per sempre: è Ernesto Aghina, magistrato napoletano, intelligentissimo ed elegante, dal quale puoi imparare il mestiere del magistrato. Fu così negli anni. Poche parole, le sue, spesso taglienti ed ironiche, talvolta definitive, erano capaci di rappresentare fenomeni complessi, con la puntuale ed unica capacità tipica di quelli che osservano e poi dicono. Negli occhi veloci e sinceri la sua consuetudine a dire il vero. Uomo della formazione, proteso verso i giovani colleghi. Ha creduto nella nascente Scuola, avvolta di polemiche e mistificanti teorie, con quella passione unica che lo ha portato ovunque, a spiegarne l’essenza ed il rinnovato progetto. Fantastici i suoi aforismi giuridici e le immagini (vere?) dei suoi bottini di pesca. (Anna Rita Mantini)
Ho conosciuto Ernesto quando era pretore, è stato il mio affidatario, ed era il riferimento di un numero esorbitante di uditori giudiziari e soprattutto giudici di prima nomina, che lo chiamavano dalle camere di consiglio di tutt’Italia per le questioni più disparate. Praticamente gestiva una decina di udienze in contemporanea. Devo a lui la conoscenza del Movimento, è stato il primo che me lo ha nominato, fiero di farne parte e di avere contribuito a costruirlo. Lui che la battuta salace non l’ha risparmiata a nessuno, quando parlava del Movimento invece si illuminava, ti faceva venire la voglia di esserci e di fare la tua parte. Insomma, me ne ha fatto innamorare. (Maria Teresa Orlando, Molly)
Conobbi Ernesto tanti, tanti anni fa, in occasione delle esperienze associative di fine millennio (l’epoca delle riforme del Governo Prodi, in quella parentesi di un certo ventennio …) e di quelle degli Osservatori sulla Giustizia civile. Si dimostrò un amico e, nei tempi associativi e professionali meno sereni, un conforto. Ma fu pure un esempio: di come, con arguzia ed umanità rimaste ineguagliate, si potesse coniugare rigore e sensibilità, empatia e tensione agli ideali di una giustizia rispettosa dei nostri condivisi valori ed al servizio dei cittadini. (Franco De Stefano)
La passione lucida e controllata di Ernesto per il nostro lavoro si traduce in un modo pensare del quale nel corso di un’amicizia ormai pluriennale, ho sempre apprezzato l’esattezza. Ernesto sa pescare i termini giusti per comporre i suoi ragionamenti in un modo che sembrerebbe non lasciare alternative, le quali, invece, proprio così intanto svela. La sua conoscenza dell’ambiente giudiziario mi ha aperto finestre, gliene sono grato. (Angelo Costanzo)
Ernesto Aghina ha rappresentato, nella fervida immaginazione creativa di Mario Almerighi, la “faccia giovane” del Movimento, il ponte attrattivo che si voleva creare con le ultime leve della magistratura. Egli ha costituito, poi, il principale asset nel difficilissimo (ma centrale) distretto di Napoli, dove è stato il motore di un gruppetto di coraggiosi, che è passato – nei perigliosi anni delle “truppe cammellate” di Umberto Marconi – da una trentina di aderenti alla capacità di esprimere in poco tempo una serie di Consiglieri superiori napoletani (a partire, nel 1994, dal più giovane Gerardo Arcese rispetto a Saverio Mannino). Ernesto, infine, è stato il principale artefice di un antico “sogno” del Movimento, quello di avere un organo stabile di riflessione scientifica con cui fare conoscere ed approfondire, nel confronto con la società civile, le nostre idee (chi non ricorda le tematiche “a due voci”?). Per tutto questo, e per molto altro ancora, un sentito grazie, caro “moderno” Presidente! (Gioacchino Natoli)
Ernesto Aghina è uno degli esempi più significativi di quella che io chiamavo “la capacità socratica di Mario Almerighi”. Mario scopriva e avvicinava giovanissimi colleghi (e colleghe), che poi affascinava e riusciva a tenere in collegamento con le varie forme associative che trovava, o inventava, nella sua fatica tutoriale. Basti ricordare, oltre ad Ernesto, anche Ippolito Parziale e Mario Fresa per capire subito quello che voglio dire. Ernesto in particolare, il “pretorino” di S.Angelo dei Lombardi al tempo del terremoto del 1980, è cresciuto bene e in fretta, senza mai perdere i suoi stretti legami politici ed associativi con la tribù almerighiana. E via via crescendo ha fatto il cammino umano e professionale al CSM e nell’ANM, testimone eccellente di che cosa sia stata capace di “inventarsi” una magistratura attenta, per svolgere un ruolo spesso trainante e mai autoreferenziale, nelle varie epoche vissute dalla società italiana. Ciao, Ernesto, nell'abbracciare te mi sento anche come se stessi abbracciando il “nostro” Mario. (Vito D’Ambrosio)
Sono passati più o meno vent’anni ma quell’espressione di Virginio Rognoni resta per me indelebile. Ti vorrei presentare mio figlio – gli aveva chiesto Ernesto sporgendo il capo alla porta della più importante stanza del C.S.M..
Tuo figlio? ma hai un figlio? - avrà pensato il Vice presidente con espressione di divertita incredulità: quante sorprese questo giovane e brillante consigliere, un napoletano milanista che portava, in consiglio, le sfogliatelle ed in plenum arguzia, simpatia ed un eloquio forbito e graffiante!
Entra, entra pure caro Aghina, con vero piacere – e si alza, mentre il suo sguardo si apre ad un ampio sorriso di sorpresa, senza scomporsi però, nel vedere Murat, sorridente anche lui, il golden retriever di Ernesto, quella settimana in trasferta a Roma con il suo padrone.
Con Ernesto i miei quattro anni al Consiglio, anni penosi, sono stati meno penosi; un amico, un sostegno, spesso uno spasso.
Ero a casa sua a Napoli il 18 giugno 2002 – eravamo in piena campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio – ed alla tv abbiamo assistito all’eliminazione dell’Italia dai mondiali in Corea: conosco allora il frasario di un napoletano colto, in quell’occasione riservato al signor Moreno, arbitro disonesto.
Di arbitri disonesti ne ho, poi, conosciuti tantissimi in quei quattro anni di consiliatura ed Ernesto è stato molto più bravo di me ad incassare i colpi ed a replicare con eleganza diplomatica.
È stata sua l’idea di intitolare “Non ci posso credere!” (ricordate Aldo, di Aldo Giovanni e Giacomo?) una nostra rubrica telematica settimanale, con la quale raccontavamo le vicende di plenum, che andavano oltre il tollerabile e che contribuivano a picconare la credibilità del Consiglio e dell’intera magistratura.
Ed era una rubrica temuta, molto temuta mi piace immaginare, che ci è costata parecchio in quegli anni e credo anche negli anni a venire. Una volta eravamo stati piuttosto pesanti e la settimana successiva un roboante consigliere laico di centro destra aveva il piacere, ad ogni passaggio dietro le nostre porte, di gridare (con tono divertito, piuttosto scherzoso, devo ammettere) “Fici, Aghina, Arbasino, fate schifo”, più volte, scandendo i nomi e la sua opinione sul nostro conto a voce alta, perché in tanti sentissero. C’era anche Ernesto, infine, in quegli ultimi giorni di un quadriennio di delusioni, nella buvette del Consiglio il 5 luglio 2006 ed al secondo gola dell’Italia alla Germania (Cannavaro, Cannavaro, Totti, Gilardino, Del Piero, Del Piero, goal, goal, andiamo a Berlino) mentre io abbracciavo Rognoni, Ernesto stringeva un consigliere dell’opposizione di centro destra; confermando che per lui, tifoso del Milan di Silvio Berlusconi, il tifo calcistico cancellava ogni passione politica. (Giuseppe Fici)
Webinar, incontri a distanza, Teams, meet: termini che sono entrati nel nostro patrimonio linguistico quotidiano, e seguire un corso di aggiornamento da casa è diventata la normalità. Se incontrarsi in presenza, con scambio di sguardi unito alla percezione del tono delle parole del relatore continuano a essere elementi imprescindibili, però l’utilità di questi nuovi strumenti è ormai innegabile. Se ne erano resi conto un gruppo di pionieri della formazione diversi lustri fa, quando nel 2006 (se non ricordo male) il Consiglio Superiore della Magistratura con l’apposita commissione guidata da Ernesto Aghina, in quell’occasione visionario determinato e convinto della necessità di dare nuova linfa alla formazione dei magistrati, diede il via alla sperimentazione dei corsi denominati “e-learning”. Mediante un software, che oggi pare preistorico, si consentiva di interloquire in forma scritta a distanza tra un gruppo di persone. Ernesto ci mise estrema professionalità e soprattutto tanta passione, coinvolgendo diversi colleghi e non solo. Con un incontro in presenza finale che, fondendo i due metodi, consentiva di offrire un prodotto formativo nuovo senza stravolgimenti: esempio di quella lungimiranza tratto tipico di Ernesto Agnina, a cui oggi va il nostro saluto con un sincero ringraziamento. (Giuseppe De Gregorio)
Leggo sulla chat del Movimento che Ernesto va in pensione e mi rendo conto che, pur conoscendolo ormai da una trentina di anni ed avendolo incontrato in tantissime occasioni, non l’ho mai visto in toga fare il giudice. Mi sono però sempre fidato di quelli che lo indicavano come tale ed, effettivamente, qualche anno addietro, in un incontro pubblico a Torre Annunziata, tutti lo chiamavano “presidente”. Per quattro anni so che ha anche bazzicato dalle parti di Piazza Indipendenza. Io però l’ho visto molte volte in muta e con un fucile subacqueo in mano, spesso attorniato da quantità esagerate di pesci (morti). Ma se la pesca è stata finora soltanto un passatempo, mi chiedo - per deformazione professionale - quale incidenza sull’equilibrio dell’ecosistema marino determinerà la maggiore quantità di tempo a sua disposizione... (Luca Ramacci)
Fatico molto a pensare alla Magistratura istituzionale e associata senza Ernesto Aghina. Per me un esempio ammirato, sempre. A conoscenza pre-tempestiva di ciò che avveniva, stava avvenendo, sarebbe avvenuto, nella nostra istituzione, nelle associazioni, al ministero (e probabilmente prima degli interessati...), sempre sul pezzo, è, è stato, maestro di equilibrio, saggezza, azione, idee, senza mai approfittarsene, sempre con il pensiero orientato al bene della Magistratura, all'agire correttamente, al dire con nettezza ma elegante contenimento quel che pensava. Il suo eloquio una meraviglia, esempio del perché un partenopeo colto preparato e con generoso senso del dovere ti sarà sempre qualche passo (se ti va bene) avanti. Un magistrato, un Uomo delle Istituzioni che non ha predicato bene, richiamando astri e firmamenti europei e mondiali, per poi giungere all'interesse contingente personale. Un servitore dello Stato. Un Uomo di mondo (anche marino), oltre le sue qualità professionali. Per me, un riferimento che ho sempre sentito interlocutore necessario consultare per chiarirmi le idee o trovare conferme. Generoso nel sostentamento dei partecipanti alle varie riunioni romane, dove alla fine le sue pastarelle napoletane erano molto attese. Raramente arrabbiato (ma sempre con moderazione), ospite signorile nella sua bellissima abitazione napoletana. Ecco, penso a Ernesto e trovo conferma della saggezza della scelta che ha fatto il Movimento art.3: ora, fuori dall'agone della politica associativa inevitabilmente di parte, dalle esigenze di strategie e compromessi, ora, lo spero davvero, con Ernesto (a me manca poco), Dino e le altre e gli altri, spero in una strada nuova, bellissima: promuovere il senso della funzione giurisdizionale nella società, aprendosi alla società civile e in particolare ai giovani, confutando le stupidaggini e le ipocrisie, parlando con competenza ma, soprattutto, con tanta tanta tanta libertà.
Anche per continuare a camminare insieme, in modo diverso.
Sono certo che il momento particolare e straordinario che vivi nella tua Famiglia non farà che darti ulteriori stimoli, anche di intenso impegno civile. D'altra parte, vogliamo davvero lasciare il peggio dell'oggi ai figli? (Carlo Citterio)
Praticamente ci siamo conosciuti litigando. Durante un pranzo a Villa Adriana a Frascati, dove all'epoca si tenevano gli incontri di formazione. Non ricordo ora bene qual era la questione: uno di quei temi che all'epoca accaloravano il dibattito tra PM della procurina, quale io ero, e Gip presso la Pretura. Ricordo bene però che nonostante ti fossi messo d'impegno non riuscisti a sembrarmi antipatico quanto si diceva tu fossi. C'era quell'arguzia e quell'ironia nel portare i tuoi argomenti che mi era rimasta persino simpatica.
Ci siamo ritrovati al CSM, tu il consigliere della rubrica “Non ci posso credere”, che già imperversava sulle mailing list, io magistrato segretario appena arrivato e catapultato in Nona Commissione.
Era il periodo delle prime convergenze tra i nostri gruppi associativi. Convergenze nate sulla condivisione di alcuni temi politici e cresciute, a mio parere, soprattutto grazie alle convergenze umane, così importanti per rimuovere pregiudizi ed iniziali diffidenze.
Era il periodo nel quale il Consiglio era governato da una maggioranza bloccata (mi ricorda qualcosa...), Unicost, MI (all'epoca erano solo in due) e laici della destra Berlusconiana. Quella delle leggi ad personam e contra personam (per esempio al fine di sbarrare la strada di Giancarlo Caselli verso la direzione della DNA). Una stagione di battaglie combattute con gli argomenti politici ma anche con quella tua velenosa ironia che era più tagliente di tanti ragionamenti e che mi è rimasta dentro e nel tempo ho provato ad imitare e fare mia.
Ma non solo di politica e di ordinamento si viveva in quegli anni nei quali è nata la nostra amicizia, fatta di ospitate nella tua casa di Napoli tra i soldatini di piombo e le pescate con il gommone (tra l'altro l'unica volta che ho tirato su qualcosa è stato venendo a pesca con te), passeggiate alla scoperta di Napoli sotterranea e delle statuine per il presepe a San Gregorio Armeno.
Poi è venuta la stagione pioneristica della Scuola di Scandicci, della tua Presidenza, del mio impegno in ANM e poi in AreaDG, degli scambi di opinioni, dei commenti salaci sulle notizie della rassegna stampa, delle immancabili fotografie delle due pescate.
Ora sono soltanto curioso di vedere quale sarà la prossima stagione, ma già l'attendo con il sorriso a fior di labbra pregustando le piccole, gustose cattiverie che ne trarrai. (Eugenio Albamonte)
Caro Ernesto, inutile che ci provi: se…tanta strada abbiamo fatto insieme, non la possiamo certo lasciare ora. Ti/Ci aspettano ancora magistrature, togate e onorarie, riflessioni di vita, calcio (sicuro sempre il Milan? bah, questo è l’unico dato stonato) e …pesca; occasioni di incontro e rinnovato impegno da vivere insieme. Con la lucidità, la forza e l’ironia che ci hai sempre dimostrato. Un abbraccio di affetto vero. (Carlo Sabatini)
E ci siamo. Già mi sento più sola, un senso di vuoto alle mie spalle tipico di quando si allontana chi ti ha seguito nel tuo percorso, ti ha consigliato anche nei momenti difficili, ti ha ispirato nelle decisioni. Però Ernesto che uomo fortunato sei, poteva essere un momento complicato, per un super professionista come te, che è stato la magistratura progressista, che è stato la Scuola della magistratura, chi è stato il Movimento, che è un riferimento di noi tutti sempre e invece lo hai saputo riempire di gioia...di Giulia. E allora l'altra parte della vita ti sarà lieve e ne siamo felici. (Alessandra Camassa)
E dunque anche Ernesto Aghina va in pensione…anzi viene “collocato a riposo per raggiunti limiti di età”, definizione più lunga ma meno malinconica! Sono certo che sarà tra coloro che, arrivati a quel punto della vita, saranno ancora impegnati in mille cose, tra cui almeno 999 cariche di leggerezza calviniana!
I 70 anni, secondo molti, rischiano di dar luogo ad una fase di mera passività, che invece deve essere una fase di trasmissione delle esperienze vissute, dei successi ma anche degli errori del tempo passato.
Io, ad esempio, mi rimprovero ancora un errore imperdonabile: in un mio libro, pubblicato nel 2010, nel narrare la storia del Movimento per la Giustizia, ne elencai i fondatori storici omettendo il nome di Ernesto Aghina. Tentai di rimediare nell’ottobre del 2002 in un articolo pubblicato su Giustizia Insieme, ma il “peccato rimane”! Come ho potuto non citare quella firma nel nostro manifesto fondativo approvato il 17.4.1988? Era la firma di uno dei più giovani sottoscrittori, di un giovane napoletano che già in quei tempi – come poi nel corso dei difficili decenni successivi e fino ad oggi - mostrava classe, senza lasciarci tentare dalla supponenza o anche soltanto dalla presunzione di avere ragione, offrendo tanto alla magistratura, alla sua organizzazione ed al Movimento per la Giustizia. Quando penso a Napoli, con passione incessante nonostante tutto, Ernesto mi viene subito in mente, non con la toga, ma sulla sua barca, mentre pesca, o mentre approda al molo.
Ecco caro Ernesto, continua pure, ma ora mi auguro che approdi anche al prezioso molo dell’Essepierre (“S.P.R.”), cioè “Settore Pensionati Rompipalle”! Non perdiamoci di vista! (Armando Spataro)
La Sapienza partenopea; cioè la capacità di coniugare intelligenza emotiva, spessore culturale e spirito pratico. Questa è la cifra di Ernesto. Insieme a una straordinaria umanità. Non potrò mai dimenticare una telefonata in un momento drammatico della mia vita. Con leggerezza e ironia mi confortò. Gli devo molto e molto gli deve la magistratura. Sono sicuro che non farà mancare nel futuro a noi tutti il suo sostegno e la sua sapienza. (Roberto Rossi)
Caro Ernesto è impossibile per me immaginarti fuori dalla magistratura. Eppure è stato un viaggio affascinante, accidentato, bellissimo. È stato incredibile essere sempre dalla stessa parte pur stando comunque in luoghi diversi. Abbiamo combattuto le stesse battaglie perdendo e vincendo sempre dallo stesso lato. Mi mancherà il collega/amico con il quale sfogarmi, ma anche quello al quale chiedere un confronto o un consiglio. Quello con il quale meravigliarsi delle assurdità che vivevamo o vedevamo. Tutto bello dunque nel rapporto con te? No, sei rimasto ... milanista, ma ti perdono.(Pierluigi Picardi)
Ernesto rientra nella ristretta cerchia di magistrati che non andranno in pensione mai. Perché ne è tale l’impronta culturale, che a loro si guarderà sempre.
Ernesto era “grande” da giovanissimo e giovanissimo ora che scavalla i settanta: stessa geometria nel ragionamento, stessa finezza politica, stessa conoscenza unica dei temi più cari, stessa voce aristocratica e ferma. Del Movimento è stato colonna e coscienza critica, portatore di storia e costruttore di novità. A molti tra noi è bastato seguirlo. I personalmente continuerò a farlo. (Marcello Basilio)
Essere grande vuol dire avere la capacità di occuparsi di tutte le cose, le grandi e le piccole, con la stessa passione, la stessa competenza, lo stesso amore. È una delle cose che ammiro da sempre in Ernesto: la sua capacità di riuscire ad accendersi per le questioni di diritto e delle aiuole da piantare intorno alla villa di Scandicci in quella Scuola della Magistratura che lui come nessuno ha contribuito a creare dal nulla come “casa” dei magistrati; il sorriso e la garbata ironia che riserva ai colleghi blasonati come ai suoi amati MOT e ai magistrati onorari; la capacità di non far pesare la propria grandezza e l’amore per le cose (apparentemente) piccole sono i suoi insostituibili lasciti. (Costantino De Robbio)
Ho conosciuto Ernesto alla fine degli anni ‘90, quando venne a Pescara per un’iniziativa dal titolo I giudici nella rete, insieme a Luca Ramacci e Federico Mazza. Girava per i Tribunali d’Italia a insegnare a navigare (no, non per pescare … che avete capito?), a navigare in internet. Faceva omaggio di floppy disk che contenevano l’elenco cliccabile di link utili. Da allora non ci siamo più persi di vista. Estroso, generoso, talentuoso, sin da piccolo - lo raccontava la mamma -, ha mostrato una spiccata attitudine alla formazione (e pure all’addestramento dei golden retriever). Ha idee, capacità progettuali e visioni che se non fosse stato un giurista – categoria notoriamente refrattaria alle invenzioni - avrebbe ideato, già alla fine del ‘900, un AI in formato microchip. Rara la sua capacità di ascoltare, la sua sensibilità, la sua ironia e la sua ospitalità. Per non sforare - avevamo assegnato massimo cinque righe - mi consento solo un’ultima osservazione -personale - è una fortuna rara avere Ernesto come amico. (Paola Filippi)
Ernesto Aghina va in pensione:
che ne sarà della giurisdizione?
Il “dottor sottile”, un po’ sornione,
era preparato su ogni questione.
Una ragione ce ne facciamo
e per quanto ha fatto lo ringraziamo.
Via dal Tribunale, ora di altro si occuperà,
godendo delle gioie che Giulia gli darà.
(Antonella Magaraggia)
Angelo Costanzo: Questa Rivista ha ripubblicato di recente un articolo di qualche anno fa sulle motivazioni dei test psicoattitudinali ai magistrati. In questi giorni la questione è stata riproposta con diverse posizioni (alcune dai toni polemici). Fra gli altri, è stato pubblicato un articolo sui test che potrebbero essere usati per i magistrati, con riferimento specifico al test MMPI. Nella sua qualità di docente di psicometria e di past-president della Associazione Italiana di Psicologia, che ne pensa?
Santo Di Nuovo: Cominciamo col precisare che il test MMPI di cui tanto si parla non è un test psicoattitudinale (come detto fin dal titolo dell’articolo citato), ma appartiene alla categoria dei test di personalità.
Attitudinali sono i test che valutano specifiche capacità in settori delle competenze cognitive, potenzialità che favoriscono gli apprendimenti in quei settori. Le attitudini riguardano capacità verbali (di comprensione e uso del linguaggio), di applicare la logica induttiva o deduttiva, di ragionare usando calcoli numerici o immagini, di rispondere accuratamente agli stimoli presentati, ecc.
Invece il test MMPI riguarda caratteristiche di personalità, dunque emotive, motivazionali, con riferimento a potenziali patologie psichiche. Le scale di base misurano tendenze a deviazioni patologiche quali ad esempio ipocondria, depressione, paranoia, spunti psicotici, introversione sociale. Oltre il profilo di base, con le scale di patologia e quelle di controllo dell’attendibilità delle risposte, la versione più recente contiene altri due differenti profili (non citati nell’articolo) che quantificano diverse condizioni e disagi psichici, come ansia, debolezza dell’Io, ostilità latente, responsabilità sociale, incertezza nei ruoli sessuali, stress post-traumatico, tossicodipendenza, disagio sociale, difficoltà familiari e lavorativi, e tanto altro.
Nell’articolo precedente ho discusso gli aspetti tecnici e i presupposti teorici di questo tipo di valutazione psicometrica, e i limiti che gli esperti in queste tecniche da tempo hanno ribadito: l’inquadramento diagnostico dei “tratti” di personalità su base auto-valutativa (come avviene nel test) è una condizione necessaria ma non sufficiente, e va integrato con altri criteri e strumenti diversi di analisi miranti a “comprendere” globalmente e in modo dinamico il funzionamento della persona, che può essere predittivo del comportamento in ambito lavorativo. Questi strumenti psicodiagnostici implicano modalità di uso molto più complesse e articolate rispetto ad un questionario con domande a risposte prefissate e valutate con scoring algoritmico (la formulazione dei profili MMPI-2 e di altri test di personalità avviene adesso in modo completamente automatizzato).
Inoltre, il fatto che - come dice l’articolo - “in rete ci sono tanti siti che forniscono consigli per come effettuare il test” non gioca certo a favore della attendibilità dello strumento per un uso generalizzato finalizzato a scopi selettivi, favorendo i tentativi di falsificazione delle risposte a scopo “difensivo”.
Non sta a me ovviamente valutare se la diagnosi della personalità sia opportuna o no per selezionare i magistrati. Ricordo che le caratteristiche della personalità non vengono esaminate di norma nella selezione del personale, mentre si usano i test psicoattitudinali.
In generale, la legislazione italiana, per quanto riguarda gli adulti, è molto cauta sulla valutazione della personalità.
Come è noto, l’art. 220 del c.p.p. esclude che si possano valutare “il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”: è proprio al fine di valutare le potenziali componenti di patologia psichica che – come dice l’articolo citato - vengono utilizzati test come il MMPI. Ma si tratta di fattispecie comparabile con la valutazione delle persone aspiranti a diventare magistrati, o di accedere a qualunque altra categoria di lavoratori?
L’art. 473-bis.25 del codice procedura civile, recentemente modificato dalla legge Cartabia, circa la CTU sui genitori precisa che “nella consulenza psicologica le indagini e le valutazioni su caratteristiche e profili di personalità delle parti sono consentite nei limiti in cui hanno ad oggetto aspetti tali da incidere direttamente sulle capacità genitoriali”. Però, mentre la psicologia e la pedagogia hanno chiarito quali caratteristiche influiscono sulle capacità di essere buoni genitori, non è stato definito esattamente dalla letteratura scientifica quali aspetti emotivi e di personalità incidono direttamente sull’esercizio della professione di un magistrato (mentre è stato fatto per le competenze cognitive attinenti al ragionamento giuridico).
Dunque, prima di discutere se la valutazione della personalità è opportuna o no per l’immissione in una certa categoria professionale, bisognerebbe ragionare su quale personalità è la più adatta per esercitare quella professione. A meno di non voler limitare la valutazione all’accertamento che nell’aspirante professionista non ci siano componenti patologiche attuali o potenziali: ma questa logica andrebbe allora estesa ad altre professioni altrettanto delicate per le conseguenze sugli utenti, come quelle di insegnamento, educative e sanitarie (e, perché no, gli stessi psichiatri e psicologi…). Questa logica di ispezione generalizzata sulla salute mentale di chi sostiene dei concorsi è sostenibile sul piano dei diritti delle persone, giuridicamente garantiti? Peraltro, nel lungo periodo, nulla garantisce che, cambiando le condizioni di vita e del contesto ambientale del lavoratore, la diagnosi iniziale su certe caratteristiche di personalità non possa cambiare, in positivo o in negativo, escludendo a priori chi attraversa un periodo – magari transitorio – di disagio e includendo invece chi poi si rivelerà più fragile rispetto a quanto inizialmente prognosticato.
Angelo Costanzo: Nei paesi dell’Unione Europea vi sono posizioni e soluzioni diversificate (che sarebbe utile approfondire e valutare senza pregiudizi) su questo tema. Fra le pratiche basate sulla somministrazione di test, o su colloqui con psicologi, o sulla partecipazione di questi professionisti a commissioni miste (composte prevalentemente da magistrati), per le valutazioni attitudinali degli aspiranti magistrati, quali reputa metodologicamente corrette e scientificamente attendibili?
Santo Di Nuovo: Prescindendo dal problema se l’esame psicologico debba riguardare anche la personalità, e limitandoci all’esame strettamente psicoattitudinale per l’immissione nella carriera – dunque in fase “selettiva” per diventare magistrati – la pratica psicodiagnostica deve considerare la validità degli strumenti tecnici, intendendo per validità la capacità dello strumento di raggiungere lo scopo per cui viene usato. Gli esempi olandesi e francesi spesso citati mostrano esiti diversi rispetto all’efficacia (fortemente contestata nel caso francese).
È sul piano tecnico che dunque il problema va spostato, a partire dalla chiara e univoca definizione di test psicoattitudinali di cui ho detto in precedenza. Ammesso che le attitudini possono essere legittimamente valutate per l’accesso ad una professione, resta da stabilire accuratamente quali “attitudini” psichiche servono per fare il magistrato.
Definire delle attitudini necessarie è più facile per professioni tecniche (attenzione, memoria, prontezza di riflessi, ecc.), mentre meno agevole è capire quali competenze cognitive sono specificamente utili per assumere funzioni inquirenti o giudicanti, oltre le conoscenze della materia e le capacità generali di comprensione ed espressione verbale e di ragionamento logico-deduttivo, che peraltro sono elementi utili per far bene tutte le professioni, e che proficuamente possono essere valutate per accedere ad esse.
Esistono strumenti psicometrici adeguati per valutare queste caratteristiche (ben diversi dal test MMPI impropriamente citato al riguardo!) e le società scientifiche di psicologia potrebbero contribuire a definire delle linee-guida al riguardo se si decidesse di inserire test psicoattitudinali nella valutazione concorsuale per l’accesso alle professioni giuridiche. Inoltre si dovrebbe valutare empiricamente – con attendibili studi scientifici longitudinali - l’efficacia a lungo termine di queste modalità di selezione, come proposto in altri Paesi, e come è stato fatto per altri profili professionali.
Angelo Costanzo: Oltre la fase di selezione iniziale, per cui usare i test attitudinali, cosa pensa dell’opportunità di verificare periodicamente la sussistenza di una idoneità psicologica, applicando a chi già esercita le funzioni giurisdizionali verifiche sulla “tenuta psichica”?
Santo Di Nuovo: Valutare la “tenuta psichica” di chi è già magistrato implica sottoporre periodicamente ad esame psicodiagnostico tutto il personale in servizio (non solo chi ha evidenziato rilevanti problemi comportamentali, come attualmente avviene per tutte le professioni, magistrati compresi).
E la valutazione deve avvenire su aspetti non legati al mantenimento delle competenze attitudinali ─ come avviene per piloti di aerei o macchinisti ferroviari, valutati periodicamente ─ ma alla sussistenza di “equilibrio mentale”. Aspetto certamente utile per esercitare bene una (qualunque) professione, ma dai confini talmente labili e indefinibili in generale, da rendere poco valida la valutazione, ai fini di eventuali decisioni pratiche in caso di esito negativo.
Nel caso della selezione ex ante, la conseguenza sarebbe l’esclusione dalla professione. Nel caso di una verifica periodica in servizio, quali sarebbero le sanzioni oltre il discredito dell’immagine personale del magistrato definito “psichicamente poco equilibrato”? Una censura che peserebbe sulla carriera? Il trasferimento ad altri uffici? Un trattamento psicoterapeutico obbligatorio? la sospensione dal servizio in attesa di una “rivedibilità” del giudizio? Ma le sentenze emesse da questo giudice “psichicamente squilibrato” resterebbero valide o potrebbero essere impugnate?
Non è mia competenza valutare la legittimità giuridica di tali valutazioni (e delle loro conseguenze) quando vengono effettuate con un sintetico screening di massa e non per specifici motivi di un disagio già conclamato, come nei casi di stress e “burnout” lavorativo su cui già si interviene. Segnalo però che i controlli generalizzati di “tenuta psichica” sono stati contestati quando si è provato a proporli per altre professioni come insegnanti o personale sanitario; e che pure l’aspetto tecnico è in questo caso molto più problematico.
Come già detto, i tratti di personalità che si dovrebbero valutare non sono statici, ma su di essi incidono dinamiche contestuali, continuamente variabili e in evoluzione. Dinamiche attinenti alla sfera di vita personale del soggetto da valutare, su cui difficilmente si potrebbe indagare ed eventualmente intervenire.
L’uso di test come il MMPI o altri analoghi non assicurano da soli l’affidabilità di una valutazione complessa per l’incidenza di tanti fattori dinamici interni ed esterni alla psiche del valutato, quando l’obiettivo della valutazione non è comprendere i problemi di una persona per eventualmente curarla, ma valutarne l’incidenza sull’efficienza professionale.
Aggiungo una ulteriore considerazione: in questo complesso contesto valutativo molte persone sottoposte a giudizio tenderebbero ad assumere un atteggiamento difensivo che inficerebbe l’esecuzione stessa del test. Esistono dei metodi di controllo della attendibilità delle risposte, ma nel caso in cui questi metodi evidenziassero problematicità, il test dovrebbe essere dichiarato non valido (e con quali alternative, se in uno screening di massa non è possibile prevederne?)
Va ribadito che il test psicometrico dovrebbe sempre essere inserito all’interno di una valutazione collegiale ampia ed articolata, in cui i confini dell’aspetto psicologico vanno definiti più chiaramente di quanto non avvenga nelle dichiarazioni e nei dibattiti che ascoltiamo quotidianamente. E questa definizione andrebbe fatta in base a criteri scientifici più che astrattamente ideologici o, peggio, politici.
(Immagine: Gustave Caillebotte, Ritratto di un uomo che scrive nel suo ufficio, olio su tela, 1885)
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