ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa: l’effetto collaterale dell’interposizione illecita di manodopera. - 2. La configurabilità del reato di somministrazione fraudolenta di manodopera di cui all’art. 38 bis D.lgs 81/2015. - 3. La rilevanza della somministrazione fraudolenta di manodopera in relazione ai reati di natura fiscale. Analisi dei recenti orientamenti giurisprudenziali. - 4. Il “nuovo” reato di caporalato nel contrasto allo sfruttamento del lavoro: dalla ridefinizione della fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. all’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 Codice Antimafia. - 5. La rilevanza giudiziale dei comportamenti virtuosi dell’Ente nell’esperienza milanese. - 6. Il sistema di compliance preventivo nel sistema 231: un importante strumento di mitigazione del rischio per l’Ente.
1. Premessa: l’effetto collaterale dell’interposizione illecita di manodopera
Il mutare della realtà sociale, del sistema economico e delle modalità organizzative dell’impresa che, sempre più frequentemente, attua forme di decentramento produttivo determina inevitabili ripercussioni sulle tutele dei lavoratori.
Gli istituti giuridici di natura giuslavoristica hanno l’obiettivo di garantire la massima protezione del lavoratore regolando tutte le variegate situazioni in cui l’imprenditore economico, sotto l’egida della legalità, decida di esternalizzare interi processi produttivi o singole fasi lavorative o, di ricorrere a forme di codatorialità, ad esempio, attraverso contratti di rete, utilizzando forza lavoro proveniente da altri soggetti imprenditoriali.
La dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione è, pertanto, un fenomeno in crescita ma la patologia di cui può essere affetto il rapporto contrattuale che determina l’utilizzo di manodopera nella forma della somministrazione, dell’appalto o del distacco che travalichi, lo schema legale disciplinato dalla normativa di settore, può avere significative conseguenze, non soltanto sul piano giuslavoristico afferente più strettamente la tutela del lavoratore, ma anche di natura penale.
Oggi più che mai si sta sviluppando e consolidando una giurisprudenza penalistica sempre più rigorosa nel colpire i fenomeni di fraudolenza nella gestione della esternalizzazione di manodopera e le varie forme di somministrazione contra legem rappresentano, come verrà sviluppato nel presente contributo, il presupposto della sussistenza di fattispecie penali caratterizzate da particolare gravità e disvalore.
Sono fatti noti per il risalto mediatico che hanno avuto i casi relativi ad alcuni colossi imprenditoriali (ad es. del settore della logistica e distribuzione) per le pesanti misure ablative di natura patrimoniale che hanno subito.
Si tratta di vicende legate a società i cui esponenti sono indagati per il reato di “dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti” previsto dall’art. 2 D.lgs 74/2000 per avere mascherato acquisizioni illecite di forza lavoro attraverso contratti d’appalto non genuini stipulati con consorzi di cooperative.
La maggior parte delle inchieste sono state avviate dalla Procura della Repubblica di Milano, in prima linea nel combattere l’esternalizzazione illecita di manodopera e nel colpire il fenomeno dei c.d. “serbatoi di manodopera” costituiti, nella prevalenza dei casi, da società cooperative che nascono e muoiono in breve tempo quando la posizione debitoria nei confronti dell’erario diventa insostenibile per l’evasione dell’IVA. Talune volte le cooperative sono schermate da società filtro (consorzi) che di fatto sono mere cartiere di fatture false.
I lavoratori, in base al meccanismo fraudolento riscontrato in una pluralità di situazioni, sono fatti migrare da una cooperativa all’altra e sono privati delle tutele giuslavoristiche ad esclusivo interesse, da un lato, del committente che beneficia di un rapporto di lavoro a tutti gli effetti subordinato senza assumersi gli oneri e con un costo del lavoro ridotto esercitando un potere direttivo ed organizzativo incompatibile con l’appalto, oltre che del vantaggio fiscale che ne consegue e, dall’altro, dei fornitori di manodopera che non versano l’IVA dovuta sulle fatture emesse.
Alcune di queste vicende sono approdate, soprattutto in fase cautelare, in Corte di cassazione che, con una serie di pronunce di segno sostanzialmente convergente, negli ultimi anni ha sancito una stretta relazione tra interposizione illecita e reati tributari.
Un secondo fronte che si sta sviluppando nelle più recenti inchieste giudiziarie riguarda la contestazione del reato di cui all’art. 603 bis c.p. rubricato “Intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro” ma più conosciuto come “caporalato” che, forte delle modifiche apportate dal legislatore con la Legge 26.10.2016 n. 199, sta trovando spazio di contestazione anche fuori dal settore agricolo in cui tradizionalmente ha tipicamente trovato applicazione.
Il reato di frode fiscale ed il reato di caporalato sono, dunque, oggetto di due importanti filoni giudiziari che stanno a significare l’importanza anche del diritto penale nel contrasto allo sfruttamento del lavoro e la cui contestazione rischia di essere particolarmente pervasiva sull’impresa in ragione dei molteplici strumenti giuridici a disposizione dell’autorità giudiziaria per ricondurre l’attività criminale alla legalità.
Le potenziali ripercussioni di tali contestazioni sul soggetto imprenditoriale sono di tutta evidenza considerando che si tratta anche di “reati presupposto” ex D.lgs 231/01 e, pertanto, l’ente a cui venga ascritto l’illecito amministrativo rischia sanzioni interdittive e patrimoniali che possono essere caratterizzate da significativa afflittività.
Naturalmente, accanto a queste due tipologie di reato che sono connotate da particolare gravità sia sul piano sanzionatorio che per i risvolti di natura economica che ne conseguono, continuano a sussistere gli illeciti contravvenzionali tradizionali previsti dalla normativa giuslavoristica ed in particolare il reato di somministrazione fraudolenta di cui all’art. 38 bis D.lgs 81/2015.
Fatte queste generali considerazioni, la dimensione amplificata che sta assumendo il fenomeno della interposizione illecita di manodopera richiede, pertanto, un’analisi ad ampio spettro del contesto giurisprudenziale in cui aspetti giuslavoristi, penalistici e fiscali si stanno indissolubilmente intrecciando tra loro.
2. La configurabilità del reato di somministrazione fraudolenta di manodopera di cui all’art. 38 bis D.lgs 81/2015
Il reato di somministrazione fraudolenta previsto dall’art. 38 bis D.Lgs. n. 81/2015 si configura in tutti i casi in cui “la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”.
L’art. 30 D.lgs. n. 81/2015 circoscrive i limiti normativi della somministrazione lecita definendo il contratto di somministrazione di lavoro quella tipologia di contratto, a tempo indeterminato o determinato, con il quale un'agenzia di somministrazione autorizzata, ai sensi del decreto legislativo n. 276/2003, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore. Nel caso in cui la messa a disposizione di lavoratori avvenga da parte di soggetti privi delle autorizzazioni o al di fuori dei limiti e delle modalità previste dalla legge si corre il rischio di incorrere in una somministrazione illecita di manodopera.
L’art. 38 bis D.lgs n. 81/2015 prevede un illecito di natura contravvenzionale in cui somministratore ed utilizzatore sono puniti con l’ammenda di 20 euro per ogni lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di occupazione ma, per espressa previsione normativa, è fatta salva l’applicazione dell’art. 18 D.Lgs. n. 276/2003 che punisce con sanzione amministrativa le ipotesi di somministrazione abusiva.
È, pertanto, un reato plurisoggettivo proprio a concorso necessario in cui i due autori del reato sono puniti allo stesso modo e, quanto all’elemento soggettivo, in ragione della specifica finalità elusiva richiesta per la configurabilità del reato, si tratta di una ipotesi contravvenzionale necessariamente dolosa, diversamente da quanto ordinariamente richiesto per la maggior parte delle contravvenzioni per cui è sufficiente una rimproverabilità a titolo colposo.
La somministrazione fraudolenta era già prevista, con formulazione identica, dall’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003 (legge Biagi), successivamente abrogato, per una scelta poco comprensibile da parte del Legislatore, dall’art. 55 del D.Lgs. n. 81/2015 (Jobs act) e poi reintrodotto per l’appunto dal D.L. n. 87 del 2018, convertito dalla L. n. 96/2018 (c.d. Decreto dignità).
Invece, la somministrazione abusiva di cui all’art. 18 D.Lgs. n. 276/2003 che, in origine, aveva natura contravvenzionale ed era punita con l’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giorno di lavoro, è stata oggetto di depenalizzazione per opera del D.lgs 8/2016 che ha trasformato in illeciti amministrativi i reati in materia di lavoro e previdenza obbligatoria puniti con la sola pena della multa o dell’ammenda. Allo stato attuale, chi esercita attività di somministrazione in assenza di autorizzazione o fuori dalle ipotesi previste ed espressamente autorizzate, è passibile di sanzione amministrativa di importo analogo più grave di quella prevista dall’art. 38 bis. L’art. 18 conserva rilevanza penale soltanto nel caso in cui vi sia sfruttamento dei minori.
In virtù della clausola di salvezza prevista dall’art. 38 bis vi può essere una applicazione concorrente delle due norme che determina un duplice intervento sanzionatorio.
Il suddetto illecito è rimasto, pertanto, uno dei pochi ed ultimi baluardi di controllo penale della liceità della somministrazione nell’ambito della normativa giuslavoristica.
Il reato di somministrazione fraudolenta di manodopera è sempre stato additato dalla dottrina[1] come fattispecie dal contenuto troppo indeterminato in quanto il riferimento a “norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore” è parso troppo generico a scapito delle esigenze di tipizzazione dell’illecito.
Il recente intervento del Legislatore, che ha reintrodotto la fattispecie nella identica formulazione che aveva in precedenza, non ha risolto le perplessità sulla portata applicativa della norma.
Alcune importanti indicazioni interpretative sulla configurabilità del reato di somministrazione fraudolenta si rinvengono in alcune pronunce della Corte di Cassazione penale, per la verità non così numerose, e dalla circolare n. 3/2019 dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
Il fatto che in poche occasioni la contestazione del reato di somministrazione fraudolenta sia pervenuta all’attenzione dei Giudici di legittimità è dovuta al fatto che l’ordinamento prevede due modalità di definizione agevolata che conducono alla estinzione del reato.
In primis, per effetto del rinvio operato dall’art. 15 D.lgs 124/2004, l’illecito contravvenzionale è assoggettato al potere di prescrizione di cui all’art. 20 D.lgs 758/1994. L’Ispettorato del lavoro, in caso di somministrazione contra legem, potrà, dunque, adottare il provvedimento di prescrizione obbligatoria e di diffida accertativa per far cessare la condotta antigiuridica attraverso l’assunzione dei lavoratori alle dirette dipendenze dell’utilizzatore per tutta la durata del contratto.
Qualora risulti l’adempimento della prescrizione, l’organo di vigilanza ammette il contravventore a pagare una sanzione amministrativa che corrisponde al quarto del massimo dell’ammenda; in conseguenza del pagamento il reato si estingue.
Trattandosi di fattispecie contravvenzionale, inoltre, il reato di somministrazione fraudolenta è altrimenti definibile attraverso l’istituto dell’oblazione comune ex art. 162 c.p. che ne comporta l’estinzione a seguito del pagamento di una somma pari al terzo del massimo dell’ammenda. La peculiarità di questa forma di oblazione definita “obbligatoria”, prevista per le contravvenzioni punite con la sola ammenda, è che il Giudice non ha alcun potere discrezionale in ordine all’ammissibilità della stessa dovendo verificare, soltanto, che la richiesta avvenga entro i termini previsti dalla legge.
La giurisprudenza[2], unitamente alla dottrina, ritiene la somministrazione fraudolenta un reato permanente, atteso che la condotta risulta caratterizzata da un intento elusivo di norme contrattuali o imperative che trova ragione d’essere in una apprezzabile continuità dell’azione antigiuridica. La natura permanente dell’illecito comporta che l’offesa al bene giuridico si protrae per tutta la durata della somministrazione fraudolenta, coincidendo la sua consumazione con la cessazione della condotta, la quale assume rilevanza sia ai fini della individuazione della norma applicabile, sia ai fini della decorrenza del termine di prescrizione.
È stato osservato in dottrina che, in coerenza con la formulazione normativa che ancora l’irrogazione della sanzione ad ogni lavoratore e per ogni giorno di somministrazione, il reato si perfeziona al primo giorno di somministrazione e la condotta cessa quando termina la prestazione lavorativa dell’ultimo lavoratore somministrato[3].
Per quanto riguarda le questioni di diritto intertemporale riguardanti la successione di leggi nel tempo, la sentenza del Supremo Collegio n. 16831/2010 ha stabilito che, alla luce dei principi di cui agli articoli 1 (“nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”) e 2 comma 1, (“nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”), per le condotte di somministrazione fraudolenta che abbiano avuto inizio prima del 12 agosto 2018 (data di entrata in vigore della norma) e che si siano protratte successivamente a tale data, il reato di cui all’art. 38 bis del D.Lgs. n. 81/2015 si possa configurare solo a decorrere dal 12 agosto 2018, con conseguente commisurazione della relativa sanzione per le sole giornate successive a tale data.
La circolare n. 3/2019 citata ha precisato che per il periodo precedente al 12 agosto 2018, resta invece ferma l’applicazione in via esclusiva delle sanzioni di cui all’art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003 che sono per l’appunto concorrenti.
Di particolare interesse sono le indicazioni ministeriali relative all’ambito di applicazione della norma sia nelle ipotesi di appalto illecito, certamente più frequenti, sia in quelle che si possono configurare al di fuori dell’appalto.
La circolare n. 3/2019, richiamando la precedente circolare del Ministero del lavoro n. 5/2011, individua alcuni indici rivelatori della finalità fraudolenta dell’appalto.
Una prima considerazione che viene svolta è che il ricorso ad un appalto illecito – e quindi alla somministrazione di lavoro in assenza dei requisiti di legge – già costituisce, di per sé, elemento sintomatico di una finalità fraudolenta, che il Legislatore ha inteso individuare nella elusione di “norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”.
A titolo esemplificativo vengono indicate le norme che stabiliscono la determinazione degli imponibili contributivi (art. 1 comma 1 D.L. 338/1989) o, più direttamente, in quelle che introducono divieti alla somministrazione di lavoro (art. 32 D.Lgs. n. 81/2015) o prevedono determinati requisiti per la stipula del contratto (art. 32 D.Lgs. n. 81/2015) o, ancora, specifici limiti alla somministrazione (artt. 31 e 33 D.Lgs. n. 81/2015).
Il risparmio sul costo del lavoro da parte del committente, derivante dalla applicazione del trattamento retributivo previsto dal CCNL dall’appaltatore e dal connesso minore imponibile contributivo, è indicato come un ulteriore segnale rivelatore dell’intento fraudolento. Peraltro, in alcune vicende, è stato riscontrato che i corrispettivi delle commesse risultavano addirittura inferiori al costo della manodopera in base al CCLN applicabile.
Al riguardo, la circolare richiede che sia accertato che le circostanze sopra indicate siano suffragate anche dall’acquisizione di elementi istruttori ulteriori quali, ad esempio, la situazione finanziaria non positiva dell’impresa committente[4] desumibile anche dalla consultazione delle banche dati degli Istituti previdenziali (si pensi, ad esempio, alla correntezza dei versamenti o alla fruizione di ammortizzatori sociali) o dell’Ispettorato del lavoro (si pensi ad un pregresso ricorso al lavoro nero).
In questo senso, anche in assenza di una condizione di sofferenza dell’impresa, secondo l’INL può assumere rilevanza la considerazione della impossibilità, a fronte del fatturato annuo, di sostenere i costi del personale necessario per far fronte alla propria attività.
Alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione penale, pronunciate in giudizi cautelari aventi ad oggetto misure ablatorie di natura patrimoniale, sancendo la stretta connessione tra somministrazione illecita di manodopera e reati tributari, che sarà oggetto di successiva analisi, si sono soffermate sui requisiti dell’appalto genuino nel rispetto di quanto previsto dall’art. 29 D.lgs 276/2003 che contiene la distinzione tra contratto di appalto e contratto di somministrazione (lecita ed autorizzata). Il comma 1 stabilisce che “Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa”.
In particolare, nella pronuncia n. 16302/2022 la Suprema Corte[5] ha ribadito “come la consolidata giurisprudenza di legittimità abbia individuato nel potere di direzione e di organizzazione il discrimen tra appalto di servizi e mera somministrazione di manodopera, affermando che, in tema di interposizione di manodopera, affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi dell'art. 29, comma 1, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, è necessario verificare, specie nell'ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (cd. "labour intensive"), che all'appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d'impresa, dovendosi invece ravvisare un'interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente (ex multis, Cass. civ., Sez. 6 - L, n. 12551 del 25/06/2020, Rv. 658115 - 01; nello stesso senso la giurisprudenza europea, v. Corte Giustizia 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori, con riferimento al trasferimento di azienda o di ramo di azienda)”.
Nel caso specifico, che ha interessato la nota vicenda di DHL Supply Chain S.p.A., la Corte ha ravvisato una serie di indizi rivelatori della fittizietà del contratto di appalto: ad esempio, materiale utilizzato dai lavoratori dei fornitori di proprietà della committenza, potere organizzativo in capo alla committenza, ingerenza in ordine agli esuberi del personale, spostamento del personale da una società appaltatrice ad un’altra senza alcun potere di scelta nel personale.
In un’altra pronuncia che riguardava la fornitura di manodopera a società operanti nel settore turistico e della ristorazione, la Cassazione[6]ha ritenuto configurabile il concorso fra la contravvenzione di cui all’art. 18 D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti ai fini dell’IVA, nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera. Secondo i Giudici di legittimità la simulazione dei contratti di appalto emergeva dalla circostanza che la società appaltatrice si era limitata alla mera gestione amministrativa della posizione relativa ai lavoratori impiegati presso le società committenti senza svolgere una reale organizzazione della prestazione lavorativa, che, in realtà, veniva diretta totalmente dai vari committenti.
In altre vicende il Supremo Collegio, nel ritenere la mera somministrazione di manodopera in violazione delle previsioni normative sulla liceità dell’appalto, oltre al potere direttivo in capo alla committenza, ha valorizzato la tipologia di clausole contrattuali sulla determinazione del corrispettivo fissate in relazione alle ore di presenza nella sede lavorativa, il dato temporale di emissione delle fatture rilasciate con cadenza mensile in linea con la periodicità delle buste paga, la scarsa documentazione contabile relativa alle società subappaltatrici [7].
Per quanto riguarda, invece, la possibile sussistenza del reato al di fuori delle ipotesi di appalto contra legem, la circolare precisa che possa realizzarsi anche coinvolgendo agenzie di somministrazione autorizzate, nell’ambito di distacchi di personale che comportino una elusione della disciplina di cui all’art. 30 D.Lgs. n. 276/2003 ovvero in ipotesi di distacco transnazionale “non autentico” ai sensi dell’art. 3 D.Lgs. n. 136/2016.
L’ipotesi in cui possa essere coinvolta una agenzia autorizzata, e la circolare ne sottolinea la frequente ricorrenza, è ravvisabile ad esempio nei casi in cui un datore di lavoro licenzi un proprio dipendente per riutilizzarlo tramite agenzia di somministrazione, violando norme di legge o di contratto collettivo.
Molto correttamente l’indicazione data agli ispettori ministeriali è che, qualora la somministrazione fraudolenta si realizzi per il tramite di una agenzia autorizzata, la prova in ordine alla “specifica finalità” prevista dall’art. 38 bis debba essere accertata con maggior rigore.
In generale, il problema della verifica della finalità fraudolenta specifica richiesta dalla norma per l’integrazione della fattispecie è un aspetto problematico di non poco momento ed il personale ispettivo, nelle sue funzioni di ufficiali di polizia giudiziaria, dovrà raccogliere tutti gli elementi probatori volti a dimostrare la fraudolenza ma la verifica del coefficiente psicologico specifico di natura dolosa non potrà che essere appannaggio dell’autorità giudiziaria nell’eventuale sviluppo del procedimento penale.
Un’altra situazione che può celare una somministrazione illecita è quella del distacco di manodopera da un’azienda all’altra regolamentato dall’art. 30 comma 1 D.lgs. 276/2003. Il distacco, in base a tale norma, è valido soltanto quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.
Una specifica ipotesi di ammissibilità del distacco è quella prevista dal comma 4-ter art. 30 del D.lgs. 276/2003 che disciplina la possibilità di stipulare un contratto di rete tra più aziende. In tal caso, l'interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell'operare della rete, fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall'articolo 2103 c.c.. Inoltre, per le stesse imprese è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso.
La potenziale (e patologica) sovrapposizione tra distacco (anche in rete) e somministrazione è stata oggetto della Nota n. 274/2020 del medesimo INL.
L’automatismo normativo concernente l’interesse del distaccante non elimina la necessità di analizzare la complessiva operazione “volta ad escludere che il ricorso alla rete di imprese funzioni da mero strumento alternativo alla somministrazione di manodopera”. In tal senso l’Ispettorato richiede al proprio personale ispettivo di verificare comunque il requisito dell’interesse al distacco, in particolare in relazione alle ipotesi di lavoratori neoassunti ed immediatamente distaccati presso terzi.
La nota si sofferma poi sul requisito della temporaneità del distacco chiedendo al personale ispettivo di verificare: a) l’oggetto sociale del distaccante che, qualora sia esclusivamente quello di fornire manodopera, costituisce un forte elemento di criticità laddove il personale messo a “fattor comune” sia distaccato e non somministrato; b) l’eventuale esborso maggiorato da parte del distaccatario, rispetto a quanto dovuto al lavoratore dal distaccante, tale da suggerire la remunerazione di una fornitura di manodopera; c) la predisposizione da parte dell’impresa distaccante (anche se retista) di un formulario seriale, in cui l’interesse al distacco è indicato in maniera generica e standardizzata, come indizio di un’attitudine professionale del distaccante alla fornitura di manodopera a prescindere da un effettivo e specifico interesse produttivo; d) distacchi non occasionali ed individualizzati, cioè riferiti a uno o più lavoratori in riferimento a specifiche qualità professionali, ma massivi e generici; e) distacchi contestuali o di poco successivi all’assunzione da parte del distaccante, tali da poter ricostruire l’assunzione come esclusivamente preordinata al distacco; f) differenziali retributivi sistematici fra i minimi di CCNL, inferiori, applicati dal distaccante e quelli applicati dal distaccatario, che possono tradursi in un’indebita riduzione del costo del lavoro di quest’ultimo.
Un aspetto su cui si è soffermata la circolare n. 3/2019 è quello del distacco transnazionale “non autentico”. Secondo le indicazioni ministeriali, in tali evenienze, troverà applicazione l’art. 38 bis D.Lgs. n. 81/2015, nella misura in cui il distacco sia funzionale all’elusione delle disposizioni dell’ordinamento interno e/o del contratto collettivo applicato dal committente italiano.
Il distacco transnazionale di lavoratori è stato di recente oggetto di un arresto della Corte di Cassazione[8] che ha esaminato i rapporti tra il reato di somministrazione fraudolenta di cui all’art. 38 bis ed il reato di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 comma 1 n. 1 c.p. ed è stata l’occasione per puntualizzare l’ambito di applicazione dell’illecito contravvenzionale in rapporto ad altre fattispecie delittuose, come quello di truffa ai danni di un ente pubblico.
La vicenda in questione riguardava un distacco di lavoratori fatti fittiziamente figurare come abitualmente impiegati in Bulgaria e solo temporaneamente in Italia. La Corte ha rigettato il ricorso avverso il provvedimento di sequestro preventivo di somme di denaro in relazione al reato di truffa aggravata, ritenendo che la finalità della condotta di fittizio distacco transnazionale di lavoratori era stata quella di realizzare l'ingiusto profitto, con corrispondente danno per gli enti previdenziali, consistente nel risparmio contributivo derivante dalle differenze di aliquote tra il sistema previdenziale italiano e quello bulgaro, e non, invece, quella di violare gli obblighi in materia di condizioni di lavoro e di occupazione.
Secondo i giudici di legittimità il principio di diritto che giustifica il concorso tra i due reati è il seguente: “Il reato di somministrazione fraudolenta di lavoro di cui all' art. 38-bis D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, introdotto con l’art. 2, comma 1-bis, d.l. n. 87 del 2018, ha come obiettivo esclusivamente quello di tutelare il lavoratore sul piano delle condizioni di lavoro e di occupazione, escludendo dal suo ambito di applicazione quei comportamenti finalizzati alla elusione della contribuzione, che restano soggetti alla disciplina di cui all' art. 640, comma 2, n. 1, c.p.”.
In sintesi, disattendendo le doglianze difensive, il Supremo Collegio ha fondato tale convincimento sulla lettera della norma di cui all’art. 38 bis ed in particolare sull’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o” che renderebbe evidente che, sia le norme inderogabili di legge che di contratto collettivo siano solo quelle "applicate al lavoratore", altrimenti sarebbe stata usata la congiunzione “e”.
Il giudicante ricava, inoltre, tale conclusione anche dalla Circolare dell'INL n. 3/2019 che, riguardo al distacco transnazionale “non autentico”, precisa che "perché si possa configurare la violazione dell'art. 38 bis, non è sufficiente accertare che la condotta abbia prodotto effetti sotto il profilo della applicazione elusiva del regime previdenziale straniero, ma è necessario altresì accertare la violazione degli obblighi delle condizioni di lavoro ed occupazione di cui al D.Lgs. n. 136 del 2016, art. 4", senza alcun accenno a finalità elusive della contribuzione.
Tali ultime finalità, conclude la Corte, non possono che rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, in quanto lo scopo della fittizia interposizione transnazionale è proprio quella di procurarsi un ingiusto profitto (con corrispondente danno per gli enti previdenziali) consistente nel risparmio contributivo, del tutto differente da quella (eventuale) del mancato rispetto della normativa posta a tutela dei lavoratori.
3. La rilevanza della somministrazione fraudolenta di manodopera in relazione ai reati di natura fiscale. Analisi dei recenti orientamenti giurisprudenziali.
Quando l’illecita somministrazione di manodopera si cela dietro contratti fittizi di appalti di servizi o accordi di distacco privi dei requisiti di legge, le conseguenze penali del fatto possono assumere dimensioni ben più rilevanti.
Infatti, la giurisprudenza è stabilmente orientata, in questi casi, a ritenere configurati, a seconda della diversa prospettiva del somministratore e del committente, i reati, tra loro speculari, di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000[9], e di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, contemplato dall’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 [10].
I citati delitti tributari concorrono, quindi, con l’illecita somministrazione di manodopera, in quanto le fatture che originano da questi rapporti contrattuali fittizi ed illeciti vengono considerate come emesse per operazioni inesistenti, sia pure con varie sfumature che si andranno ad analizzare.
È necessario, in via preliminare, ricordare che la definizione di “operazione inesistente” è contenuta nell’art. 1, lett. a) del d.lgs 74/2000, ai sensi del quale: «per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi»”.
È subito evidente che l’inesistenza si configura tutte le volte che ci si trova di fronte ad una divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale[11].
Tale difformità può manifestarsi, innanzitutto, dal punto di vista oggettivo, laddove l’inesistenza può essere assoluta, quando l’operazione oggetto della fattura non sia stata mai eseguita, o relativa, quando la medesima operazione sia stata eseguita solo parzialmente. Le conseguenze della falsa fattura avranno in questo caso ricadute sulle imposte sia dirette che indirette. Allo stesso modo, l’operazione è considerata inesistente quando la prestazione sia stata eseguita ma il documento fiscale indichi il corrispettivo o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale: è il caso della sovrafatturazione (c.d. inesistenza qualitativa).
Ancora, l’inesistenza può essere soggettiva, in quei casi in cui la prestazione sia effettiva, ma sia intercorsa tra soggetti (anche solo uno) diversi da quelli reali. È, infatti, innegabile che una simile divergenza assuma rilevanza quantomeno con riferimento all’Iva; conseguentemente, la giurisprudenza è costante nell’affermare che il fatto che l’operazione sia oggettivamente esistente non incide sul perfezionamento del reato di dichiarazione fraudolenta, il quale, nel riferirsi all'uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo[12].
Più contrastata è, invece, la rilevanza dell’inesistenza giuridica ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 2 D.lgs 74/2000: quest’ultima si ha quando l’operazione è stata realmente effettuata, ma la divergenza tra realtà e rappresentazione riguarda la natura giuridica della prestazione oggetto della fattura. In particolare, a seguito della riforma del 2000, una parte della dottrina, valorizzando l’avverbio “realmente”, contenuto nell’art. 1, lett. a), ha ritenuto che il legislatore abbia voluto riservare l’applicazione delle fattispecie penal-tributarie ai soli casi di inesistenza dell’operazione in senso naturalistico[13].
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza ha, invece, sottolineato la necessità di estendere l’incriminazione alle ipotesi di inesistenza giuridica di un’operazione, poiché anche all’indicazione di un negozio giuridico diverso da quello effettivamente realizzato si può accompagnare una notevole capacità decettiva, ed essa può comportare una falsa rappresentazione di taluni aspetti economicamente significativi del negozio posto in essere, rilevanti anche sul piano fiscale[14].
Ma con riferimento al caso specifico, come anticipato, di fronte a fatture relative a contratti simulati di appalto, che nascondono illecite somministrazioni di manodopera, la giurisprudenza è unanime nel riconoscere l’integrazione delle fattispecie di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74/2000.
Purtuttavia, si possono individuare due diverse posizioni: l’orientamento maggioritario[15] limita la contestazione all’IVA, concretizzandosi il reato nell’uso di fatture per operazioni solo soggettivamente inesistenti; altre pronunce, invece, estendono il campo anche al recupero delle imposte dirette.
Il punto di partenza del ragionamento è costituito dal principio pacificamente affermato dalla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, secondo il quale, in presenza di un comportamento elusivo quale quello di cui stiamo parlando, l’IVA è applicata indebitamente e quindi non è detraibile[16].
L’invalidità del titolo giuridico su cui poggia la fattura, infatti, rende l’IVA indetraibile “ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, proprio per il fatto che l'alterazione del meccanismo di riscossione dell'imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell'ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell'imposta sulle operazioni passive dell'imprenditore o del professionista”[17].
Principio che non contrasta con il dato normativo, riferito all’emittente, che emerge dall’art. 21, comma 7, D.P.R. 633 del 1972, in base al quale “se il cedente o il prestatore emette fattura per operazioni inesistenti (...) l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato”.
Il tributo, pertanto, “viene ad essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente, “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. n. 633/1972, art. 19. E ciò per il rilievo che il versamento dell’Iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema IVA”[18].
Sul punto si è più volte pronunciata anche la Corte di Giustizia Europea che ha ribadito che la frode comporta una deroga al principio generale di neutralità dell’IVA, e che l'indetraibilità del tributo relativo ad operazioni inesistenti emerge dall'art. 168 della direttiva 2006/112/CE. La Corte europea ritiene che “quando un’operazione di acquisto di un bene o di un servizio è inesistente, essa non può avere alcun collegamento con le operazioni del soggetto passivo tassato a valle, sicché…è inerente al meccanismo dell’IVA il fatto che un’operazione fittizia non possa dare diritto ad alcuna detrazione di tale imposta” [19].
Sulla scorta di quanto affermato, la Cassazione penale, di fronte a contratti di appalto che mascherano una intermediazione di manodopera contra legem, talora richiamando la categoria dell’inesistenza giuridica del negozio simulato, talora parlando di nullità del contratto o di inefficacia dello stesso, ne afferma comunque, almeno, l’inesistenza soggettiva.
Infatti, le operazioni sottostanti “al più potrebbero riferirsi a prestazioni lavorative svolte direttamente dai singoli lavoratori, i quali avrebbero il diritto di chiedere al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo come prevede i l d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 38 e/o d.lgs. n. 276/2003, art. 29, comma 3-bis, stante l’invalidità dell’originario rapporto di somministrazione”[20].
L’interposizione soggettiva consente agli imputati di beneficiare di un diverso regime impositivo, facendo figurare elementi passivi fittizi e creando un credito IVA in capo all’utilizzatore che non si sarebbe generato se le parti avessero rappresentato la realtà del rapporto realmente intercorso tra di loro; l'esposizione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica, quindi, la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si avrebbe diritto in assenza dei contratti di appalto fittizi.
È bene sottolineare che, se nella maggior parte dei casi giunti a processo, gli emittenti fattura erano costituiti da “cartiere” che non versavano l’IVA a loro corrisposta dall’appaltante, ma la incameravano per garantire a quest’ultimo un costo della manodopera concorrenziale, tuttavia, la circostanza che l’IVA sia stata realmente corrisposta all’appaltatore e da questi versata all’Erario è stata ritenuta del tutto ininfluente ai fini dell’integrazione del reato, in virtù delle norme di diritto tributario e comunitario sopra richiamate.
Ma in alcune recenti sentenze sono stati affermati alcuni principi che si discostano dall’orientamento maggioritario assegnando rilevanza, nella prospettiva del delitto di cui all’art. 2 D.lgs 74/2000, anche alle imposte dirette.
Infatti, ciò che permette la deducibilità di tali imposte in base all’art. 109, comma 4, lett. b, T.U.I.R., è che si sia in presenza di costi effettivi, che, oltre ad essere inerenti, “risultino da elementi certi e precisi”.
Così, la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, n. 45114 del 28.10.22 relativa ad una fattispecie concreta in cui si era in presenza di operazione effettuate in regime di c.d. “reverse charge” o inversione contabile, in cui le fatture vengono emesse senza addebito di IVA, ritiene integrato il reato di cui all’art. 2 D.lgs 74/2000 anche in relazione alle imposte dirette (nel caso specifico Ires).
La conclusione si fonda sull’assunto che “il contratto di somministrazione irregolare di manodopera, in quanto affetto da nullità, determina costi non quantificabili e comunque diversi da quelli del contratto di appalto di servizi. A tal proposito, si consideri, ad esempio, che nella disciplina del D.Lgs. n. 276 del 2003, il lavoratore impiegato mediante il ricorso allo schema negoziale vietato potrebbe agire in giudizio per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore effettivo”.
Ancora, è stato sottolineato che “i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti ai fini delle imposte dirette dal committente/cessionario, che consapevolmente li abbia sostenuti, in quanto essi sono espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell'attività dell'impresa, comportando la cessazione dell'indefettibile requisito dell'inerenza tra i costi medesimi e l'attività imprenditoriale”[21].
Un'altra recentissima pronuncia[22] evidenzia che, con riguardo all’imposta sui redditi, l’utilizzo di fatture relative ad un negozio giuridico apparente “apre la strada alla detrazione di costi anch’essi fittizi perché non correlati alla prestazione reale essendo funzionale ad abbattere indebitamente il reddito di esercizio mediante imputazione del costo dei servizi, rappresentato dal costo del lavoro che altrimenti le società non avrebbero potuto detrarre”.
Il quadro che emerge dall’analisi della giurisprudenza, seppur con diverse impostazioni, mostra un rischio penal-tributario a fronte di una somministrazione illecita di manodopera, in violazione delle norme giuslavoristiche, estremamente alto.
Non bisogna dimenticare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla dottrina, la giurisprudenza considera queste fattispecie, che richiedono il dolo specifico di evasione, compatibili con il dolo eventuale. Si sostiene, con argomentazione assai discutibile, che “il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva, che deve aggiungersi alla volontà di realizzare l'evento tipico (la presentazione della dichiarazione), è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l'evasione delle imposte dirette o dell'Iva”[23].
Altra componente pesantemente punitiva deriva dal fatto che la contestazione della fattispecie di reato di cui all'art. 2 del D.lgs. 74/2000 può far scaturire un profilo di responsabilità penale anche in capo alle persone giuridiche. Infatti, la riforma del 2019 ha portato all'inserimento di molte delle fattispecie contemplate dal D.lgs. 74/2000 nel novero dei c.d. "reati presupposto" ai sensi del D.lgs. 231/2001 (art. 25 quinquiesdecies[24]).
Ne discende che le aziende possono essere soggette a sanzioni pecuniarie particolarmente afflittive o a sanzioni interdittive, tra cui il divieto di contrarre con la Pubblica Amministrazione o il divieto di ricevere agevolazioni da parte dello Stato.
Altrettanto gravi sono le previsioni in tema di confisca.
È bene ricordare che già in occasione della precedente riforma intervenuta con D.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, è stato inserito, all'interno del D.Lgs. n. 74/2000, l'art. 12-bis, il quale prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., per un qualunque reato tra quelli previsti dal D.lgs. n. 74 del 2000, sia sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato e salvo che appartengano a persona estranea al reato (c.d. confisca diretta) ovvero, in subordine, la confisca dei beni nella disponibilità del reo per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (c.d. confisca per equivalente).
L'art. 39, comma 1, lett. q), del D.l. n. 124/2019 ha, poi, inserito, nel D.lgs. n. 74/2000, l'art. 12-ter, affiancando alla citata confisca diretta o per equivalente, la confisca “in casi particolari” disciplinata dall'art. 240 bis c.p. (cd. per sproporzione).
La norma, che disciplina una ipotesi di misura di sicurezza, prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena per alcuni delitti tra quelli puniti ai sensi del D.lgs. n. 74/2000, si applica la confisca di denaro, beni o altre utilità dei quali il condannato non possa giustificare la provenienza e dei quali, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito.
Tale misura di sicurezza è applicabile solo in casi specifici, evidentemente ritenuti così gravi da meritare una risposta special-preventiva di tale portata, tuttavia, tra questi è inclusa la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000) quando l'ammontare degli elementi passivi fittizi sia superiore a 200.000 euro e, quindi, esclusi i casi attenuati di cui al comma 2 bis.
Le confische rappresentano il principale e, forse, più efficace strumento di contrasto della criminalità economica votata al profitto; un modo efficiente per ripristinare, sul piano patrimoniale, lo status quo ante la commissione di un reato, privando l’autore delle utilità economiche conseguite mediante l’illecito.
Va, infine, ricordato che, per quanto riguarda il rapporto tra confisca nei confronti della persona fisica e confisca nei confronti dell’ente, non vi è alcun «rapporto di sussidiarietà o di concorso apparente», ben potendo trovare entrambe applicazione concorrente e «fermo restando logicamente che l’espropriazione non potrà, in ogni caso, eccedere nel quantum l’entità complessiva del profitto».[25]
Al riguardo, onde evitare che il sequestro delle disponibilità finanziarie e dei beni di un ente possa –di fatto– impedirne in toto la prosecuzione dell’attività, l’art. 53 comma 1-bis D.Lgs. 231/01 contempla la eventualità che il custode-amministratore giudiziario, nominato dal giudice, ne consenta l’utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente per garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, vigilando e riferendo all’autorità giudiziaria.
4. Il “nuovo” reato di caporalato nel contrasto allo sfruttamento del lavoro: dalla ridefinizione della fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. all’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 Codice Antimafia.
Il “caporalato” è individuabile come il fenomeno per cui un “caporale” si occupa, per conto del datore di lavoro, di radunare manodopera giornaliera, di solito non specializzata, da condurre sui luoghi di lavoro, prendendo per quest’attività una percentuale della paga. Per mezzo di questo sistema, il datore di lavoro può eludere il versamento dei contributi obbligatori, ridurre fortemente il costo del lavoro e raggiungere ugualmente i fini produttivi prefissati.
Tutto ciò, in particolar modo nella prima metà del secolo scorso, ha riguardato soprattutto il contesto delle colture intensive del Meridione italiano e, in seguito al rilevante ingresso di persone extra-comunitarie nel Nostro Paese, ha vissuto negli ultimi decenni una preoccupante ripresa[26].
Dinanzi a un fenomeno così tanto presente in Italia, il legislatore si è mosso con estrema lentezza e solo in tempi recenti ha predisposto una disciplina volta a contrastare efficacemente e in maniera specifica queste situazioni.
Prima dell’introduzione dell’articolo 603 bis c.p. nel 2011, norma posta a tutela della dignità del lavorare[27] e del suo status libertatis[28], il caporalato veniva fronteggiato dal legislatore principalmente mediante la disciplina giuslavoristica volta a reprimere l’interposizione e la somministrazione di manodopera[29].
Come affermato dalla Corte di Cassazione, il reato di intermediazione illecita “è destinato a colmare l’esistenza di una vera e propria lacuna nel sistema repressivo delle distorsioni del mercato del lavoro, e in definitiva, è finalizzato a sanzionare quei comportamenti che non si risolvono nella mera violazione delle regole poste dal D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (cfr. in specie l’art. 18), senza peraltro raggiungere le vette dello sfruttamento estremo, di cui alla fattispecie prefigurata dall’art. 600 c.p., come confermato dalla clausola di sussidiarietà con la quale si apre la previsione de qua”[30].
Si parla, a riguardo, del c.d. “caporalato grigio” ovvero della situazione in cui i lavoratori si trovano obbligati a lavorare privi di tutele, spesso subendo soprusi sotto il profilo della retribuzione e del trattamento, e a vivere in un persistente stato d’ansia dovuto al timore di perdere il lavoro[31].
A questa forma di caporalato, caratterizzata dall’assenza di un totale assoggettamento del lavoratore, si contrappone il c.d. “caporalato nero” ove il potere dell’intermediario sulla vita del lavoratore è tale da privare quest’ultimo della possibilità di autodeterminarsi liberamente[32].
Con riguardo al c.d. “caporalato nero”, una prima tutela penale era già arrivata nel 2003 con la Legge n. 228 che, modificando il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, ha previsto una sanzione penale per chiunque riducesse o mantenesse una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative. Tuttavia, la norma, tutelando lo status libertatis, puniva quei comportamenti che portavano una persona ad essere considerata al pari di una res e lasciava sfornite di tutela tutte le situazioni in cui il soggetto non veniva completamente privato della capacità di autodeterminarsi. Inoltre, sovente, la condotta posta in essere dal caporale poteva, ove ne ricorressero i presupposti, essere inquadrata all’interno del delitto di estorsione o in quello di violenza privata.
Complessivamente, quindi, prima dell’introduzione dell’articolo 603 bis nel codice penale, vi erano alcune disposizioni che potevano, pur in maniera indiretta, andare a colpire lo sfruttamento del lavoro povero, ma è soltanto con l’introduzione di detta norma che è stata fornita una repressione specifica, pur con le sue enormi lacune.
Infatti, l’art. 603 bis c.p., nella sua versione originaria, pur perseguendo un nobile scopo, non ha sortito i risultati sperati e nei cinque anni successivi al suo ingresso all’interno del codice penale sono stati pochissimi, in proporzione alla vastità del fenomeno, i procedimenti penali avviati: circa 34 procedimenti contro centinaia di migliaia di lavoratori sfruttati[33].
Le lacune principali di questa norma, secondo la dottrina prevalente, erano date dall’assenza dello strumento della confisca e della mancata previsione della responsabilità degli enti che era invece prevista per i reati di riduzione o mantenimento in schiavitù[34].
Più di tutto però, a rendere trascurabile, sotto il profilo dell’applicazione pratica, l’ingresso di questa norma nell’ordinamento italiano, è stata l’assenza di una previsione volta a colpire i datori di lavoro. Questi ultimi potevano essere incriminati soltanto in ipotesi di concorso di persone nel reato commesso dal caporale, ai sensi dell’articolo 110 del codice penale. Infatti, l’art. 603 bis c.p., nella sua originaria formulazione, si limitava a reprimere la condotta di chi svolgeva un’attività organizzata di intermediazione, reclutando lavoratori con l’utilizzo di violenza, minaccia o intimidazione. La situazione in cui versavano i lavoratori sottoposti a condizioni di sfruttamento da parte del datore di lavoro era, pertanto, esclusa dall’applicazione di questa norma. A rendere ancora più infruttuoso l’utilizzo concreto di questa norma è stata la necessità, per la magistratura inquirente, di dover fornire la prova della gestione in forma organizzata dell’attività di intermediazione, adempimento molto complesso[35].
È dunque stata sollevata da più parti l’opportunità di riformare la fattispecie: tale riforma è intervenuta nel 2016[36].
La legge n. 199 del 2016 ha esteso il novero dei soggetti penalmente punibili ricomprendendo tra questi anche il datore di lavoro, così “spostando il baricentro dell’incriminazione dal terreno dell’organizzazione criminale a quello dell’impresa lecita”[37]. Per entrambi questi soggetti è stata prevista la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa da 500 a 1000 euro per ciascun lavoratore occupato.
Inoltre, sono stati eliminati i requisiti dell’organizzazione dell’attività, della violenza, minaccia e intimidazione, venendo così ampliata la sfera di operatività della norma[38]. Le condotte di violenza e minaccia rilevano attualmente soltanto quali circostanze aggravanti del reato e servono, pertanto, a regolare e inasprire il trattamento sanzionatorio.
Così riformulato, l’art. 603 bis c.p. ha consentito di avviare inchieste relative a casi di sfruttamento del lavoro meno evidenti e concernenti contesti diversi da quello agricolo, a cui originariamente era ricollegato lo sfruttamento.
La nuova formulazione della norma, differentemente dalla previgente, consente di perseguire situazioni in cui viene fatto fittiziamente ricorso al modello della prestazione occasionale di lavoro, in cui vengono stipulati contratti per un monte ore inferiore rispetto a quello reale o in cui i datori di lavoro pagano fittiziamente il compenso in busta paga chiedendone poi una parziale restituzione[39].
Il legislatore ha considerato la “condizione di sfruttamento” un elemento costitutivo del reato sia con riguardo all’attività di reclutamento, sia con riguardo a quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera. Tuttavia, non è stata fornita alcuna definizione di “sfruttamento”, concetto che risulta particolarmente ambiguo e fortemente influenzato dal contesto politico-culturale. Il termine “sfruttamento”, nel suo significato semantico, indica “l’utilizzazione ai fini di un rendimento funzionale di ciò che si ha a disposizione, ricavando il maggior utile o vantaggio possibile da una situazione”[40]. Trattandosi di un termine di per sé neutro, una definizione maggiormente precisa sarebbe stata più rispettosa del principio di determinatezza ma, ad ogni modo, in un’ottica di semplificazione dell’onere della prova per l’Accusa, è stata preferita l’enunciazione delle condotte rilevanti mediante l’impiego di indici di sfruttamento.
Questi indicatori non sono elementi costitutivi del reato e, di conseguenza, non sono direttamente soggetti al principio di legalità e ai suoi corollari, ma, agevolando l’interprete a individuare la condotta di sfruttamento, appaiono capaci di contribuire, in via indiretta, al rispetto dei principi di precisione e determinatezza.
Il primo di questi indici riguarda la “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
Non è quindi necessario che la retribuzione diverga sistematicamente, come era previsto nella disciplina previgente, dalla contrattazione collettiva ma è sufficiente che ciò avvenga in maniera reiterata. La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che “al fine di determinare quale sia il trattamento economico riservato al lavoratore, termine di riferimento per accertare se lo stesso sia sperequato rispetto a quanto previsto dalla contrattazione, deve essere indagato l’accordo intervenuto tra le parti”[41] e che “il riferimento alla corresponsione di una retribuzione inadeguata nel comma 3 n.1 dell’art. 603 bis, è evocativo del principio costituzionale che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione sufficiente ad assicurargli un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost)”[42].
Il secondo indicatore riguarda “la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie”. Anche con riguardo a questo indice è previsto il riferimento alla reiterazione delle violazioni e la norma deve essere interpretata con riguardo agli standard minimi di tutela, garantiti dalla Costituzione, da considerare secondo l’effettiva offesa al bene giuridico, pertanto non ogni violazione di tali normative costituisce indice di sfruttamento[43]. Coerentemente con questa ricostruzione, la Quarta Sezione della Corte di Cassazione ha affermato che la differenza di entità del monte ore effettivo rispetto a quello contrattuale, per avere rilevanza penale, deve essere tale da determinare una disparità di trattamento palese o eclatante nonché un’offesa alla dignità del lavoratore[44].
Il terzo indice attiene, in realtà in modo alquanto generico, alla “sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro”. Detta violazione non presenta il requisito della reiterazione e, tuttavia, la giurisprudenza ha recentemente ritenuto che “vale anche per la violazione di norme prevenzionistiche il principio che devono essere sistematiche, nel senso che devono essere plurime per ciascun lavoratore, non potendo sommarsi quelle relative a più lavoratori”[45]. Questa ricostruzione è stata fortemente criticata in quanto contrastante con il tenore letterale della norma[46]. A sostegno delle critiche, viene incontro la circostanza che la novella del 2016 ha eliminato l’inciso “tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale” e contemporaneamente ha introdotto una circostanza aggravante specifica del medesimo tenore al comma 4 n.3. Pertanto, lo scopo perseguito è stato chiaramente quello di estendere l’applicazione della norma anche nei casi in cui difetta un pericolo concreto per il lavoratore[47].
L’ultimo di questi indicatori concerne la “sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti”.
Si tratta di una elencazione di carattere meramente esemplificativo e non tassativo; pertanto, il giudice penale può individuare ulteriori situazioni suscettibili di dar luogo alla condotta di abuso del lavoratore[48]. Gli indici di sfruttamento sono considerati dalla giurisprudenza come “sintomi”, cioè indizi che devono essere valutati dal giudice ove suffragati dagli elementi di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno: “esemplificando, la violazione delle disposizioni in tema di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro non è di per sè capace di integrare la condotta del delitto, occorrendo comunque che il lavoratore risulti sfruttato e che del suo stato di bisogno il datore di lavoro abbia profittato. Il legislatore, con l'elencazione degli indici di sfruttamento, ha inteso agevolare i compiti ricostruttivi del giudice, orientando l'indagine e l'accertamento in quei settori (retribuzione, condizioni di lavoro, condizioni alloggiative, ecc.) che rappresentano gli ambiti privilegiati di emersione di condotte di sfruttamento e di approfittamento”[49].
Gli indici, come affermato nella relazione ministeriale di accompagnamento alla legge, non rientrano nel fatto tipico, e di conseguenza la loro genericità non lede il principio di legalità. Gli stessi non possono consentire ex se presunzioni, assolute o relative, dello sfruttamento perché, se così non fosse, si avrebbe effettivamente una lesione delle garanzie proprie del processo penale[50].
In sostanza, il delitto in questione può risultare integrato dalla presenza di anche soltanto uno di questi indici purché sussistano gli elementi costitutivi del reato quali lo sfruttamento del lavoratore e l’approfittamento dello stato di bisogno di quest’ultimo da parte del datore di lavoro o del caporale. Infatti, la prova di una delle situazioni descritte dagli indici non può sostituirsi al necessario accertamento degli elementi essenziali del reato: gli indici non coincidono ontologicamente con lo sfruttamento, ma sono massime d’esperienza funzionali alla verifica, in sede processuale, della presenza dello sfruttamento stesso[51].
Orbene, dovendo colmare le lacune legislative e fornire una definizione, la giurisprudenza di legittimità ha definito lo sfruttamento come una condotta abituale consistente in “qualsiasi comportamento, anche se posto in essere senza violenza o minaccia, che inibisca o limiti la libertà di autodeterminazione della vittima senza che si renda necessario realizzare quello stato di totale e continuativa soggezione che caratterizza il delitto di riduzione in schiavitù”[52] e che “si caratterizza per la violazione reiterata della normativa giuslavoristica posta a presidio dei diritti fondamentali del lavoratore, e prima ancora dell’offesa diretta alla libertà di autodeterminazione e alla dignità della persona, è rilevabile una lesione della sua libertà contrattuale, che si manifesta nella violazione di norma extrapenali poste a tutela della sua dignità, appunto, di lavoratore”[53].
Ad ogni modo, il legislatore ha optato per sanzionare non tanto lo sfruttamento in sé, quanto lo sfruttamento mediante approfittamento di una situazione di bisogno del lavoratore, condizione che rileva quale elemento costitutivo del reato. Quindi, per integrare il reato non è sufficiente la sola presenza di una condizione di sfruttamento, eventualmente corroborata dagli indici indicati dalla norma, ma è essenziale che vi sia l’approfittamento dello stato di necessità del lavoratore. La giurisprudenza è orientata a intendere lo stato di bisogno come “impellenza che non consente al lavoratore di percepire un’alternativa possibile per far fronte alle proprie necessità economiche e che si evolve in uno stato degradante della propria dignità”[54] che “non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose”[55].
L’articolo 603 bis c.p. prevede, poi, delle circostanze aggravanti ove il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre, ove i soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa e nel caso in cui i lavoratori sfruttati sono stati esposti a situazioni di grave pericolo.
Ai sensi dell’articolo 603 bis.1 c.p., di contro, è prevista una circostanza attenuante a effetto speciale volta a incentivare la collaborazione processuale mediante una diminuzione della pena da un terzo a due terzi. Detta circostanza è riconosciuta a chi, rendendo dichiarazioni su quanto a sua conoscenza “si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti o per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite”.
Come anticipato, la nuova formulazione della norma ha comportato un aumento esponenziale delle inchieste e ha consentito di far emergere lo sfruttamento lavorativo anche al di fuori del contesto agricolo.
Il “Quarto rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle vittime”, realizzato nel 2022 da “Altro Diritto” e dalla “Flai/CGIL”, ha fatto emergere come le inchieste concernenti lo sfruttamento sul lavoro siano arrivate, secondo i dati raccolti, a 458 nel 2021 mentre, prima della riforma del 2016, i procedimenti penali pendenti erano soltanto 34. Questo incremento ha anche comportato una modifica dell’ubicazione geografica delle inchieste: se l’assoluta maggioranza dei procedimenti penali inerenti il reato di cui all’art. 603 bis c.p., ante novella del 2016, erano instaurati nel Sud, attualmente la distribuzione è sostanzialmente omogenea. Alla data dell’indagine risultavano pendenti, infatti, 138 procedimenti nelle Procure del Nord Italia, 138 in quelle del Centro e 182 in quelle del Sud.
Il dato più rilevante emerso dal Rapporto riguarda, però, l’oggetto dei procedimenti penali instaurati. Le inchieste che si riferiscono al settore agricolo sono ancora quelle numericamente più consistenti, ma sono presenti sempre più procedimenti penali concernenti settori diversi quali la logistica e i trasporti (per cui alla conclusione del 2021 risultavano avviati 19 procedimenti), il volantinaggio, la cantieristica navale, l’industria tessile, l’edilizia, il turismo e l’attività di cura.
Ad esempio, in relazione alle contestazioni del reato di caporalato nel settore della logistica è spesso presente un soggetto, l’agenzia o l’appaltatore, che risulta titolare di molti dei poteri del datore di lavoro ed è pertanto complesso dimostrare in giudizio il dolo dell’utilizzatore effettivo. Infatti, a meno che esista un rapporto diretto tra l’utilizzatore della prestazione lavorativa e i soggetti occupati, non è semplice dimostrare la consapevolezza dello stato di bisogno delle vittime.
Per quanto riguarda le conseguenze di natura patrimoniale derivanti dalla commissione del reato riveste assoluta rilevanza la confisca obbligatoria prevista all’art. 603 bis.2 del codice penale a mente del quale, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per il delitto in questione, è sempre obbligatoria “la confisca delle cose che servirono o furono destinata a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato” fatti salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno.
Questa misura di sicurezza patrimoniale, che prima del 2016 era facoltativa in quanto possibile soltanto in virtù dei principi generali stabiliti dall’art. 240 c.p., è attualmente obbligatoria: il giudice è tenuto a disporla ed è privato di qualsivoglia discrezionalità a riguardo. Oltre a ciò, il legislatore ha previsto, ove non sia possibile disporre la confisca diretta, la confisca per equivalente e cioè la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, anche indirettamente o per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto del reato.
La riforma del 2016 ha inserito l’art. 603 bis c.p. all’interno delle ipotesi che legittimano la confisca allargata, attualmente disciplinata dall’art. 240 bis del codice penale. Pertanto, ai sensi di questo articolo, ove intervenga condanna o applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. per il delitto di caporalato o di sfruttamento del lavoro, “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica” e “quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui allo stesso comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità di legittima provenienza per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona”.
Il fondamento di questa disposizione viene rinvenuto nella presunzione che l’accumulo di ricchezza di un soggetto condannato per il delitto di caporalato sia conseguenza del reato stesso e pertanto illecito[56]. Si tratta di una presunzione relativa superabile ove venga fornita adeguata giustificazione in merito alla provenienza dei beni, del denaro o delle altre utilità.
Recentemente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ribadito l’ammissibilità della confisca anche di beni pervenuti successivamente alla sentenza di condanna ove i cespiti siano frutto dell’impiego di mezzi finanziari ottenuti in un momento antecedente, fatto salvo il criterio della “ragionevolezza temporale” [57].
In merito, il già menzionato “Quarto rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle vittime” segnala come pressoché tutti i provvedimenti conclusivi dei procedimenti penali concernenti il reato di cui all’art. 603 bis c.p. hanno disposto la confisca di taluni beni. Il report evidenzia come l’ablazione sia uno degli strumenti principali per contrastare i fenomeni di sfruttamento in quanto, potendo essere disposto anche per equivalente, riveste un importante ruolo in chiave deterrente e preventiva.
Solitamente, oggetto di confisca sono i mezzi utilizzati per portare al lavoro le persone offese, gli alloggi dati in uso ai lavoratori e le somme corrispondenti al risparmio di spesa conseguito dal datore di lavoro tramite lo sfruttamento. Difatti, la giurisprudenza ritiene che anche il risparmio di spesa sia una forma di profitto[58] e che tale nozione “non corrisponde soltanto alle differenze retributive non riconosciute ai lavoratori, ma è una nozione più ampia nella quale deve ricomprendersi ogni arricchimento o utilità patrimoniale conseguiti dall’indagato, che si pongano in rapporto di immediata e diretta derivazione causale con la condotta illecita contestata”[59]. Trattandosi di un “reato contratto”, riguardante un rapporto di lavoro intrinsecamente illecito, quindi nullo e non semplicemente annullabile, al profitto confiscabile non si possono detrarre i costi derivanti dal rapporto illecito[60].
Oltre alle confische, che rappresentano una tradizionale misura di natura ablativa prevista per i reati più gravi, il legislatore ha previsto ulteriori strumenti di contrasto volti a colpire direttamente l’ente giuridico coinvolto in attività criminali.
In primo luogo, la legge 199/2016 ha inserito il reato di cui all’art. 603 bis c.p. nel catalogo dei reati presupposto ex D.lgs 231/01 all’art. 25 quinquies, il quale prevede che la società, nel cui interesse o vantaggio, sia stato commesso il delitto di caporalato è soggetta alla sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote, alle sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, per la durata non inferiore ad 1 anno e, laddove si accerti che l’ente sia stato utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione del reato, all’interdizione definitiva dall’attività ai sensi dell’art. 16 comma 3.
Inoltre, la stessa legge 199/2016 ha previsto una specifica misura cautelare reale ovvero il possibile controllo giudiziario dell’azienda nel cui contesto è stato commesso il reato di cui all’art. 603 bis c.p.. L’art. 3 (“Controllo giudiziario dell’azienda e rimozione delle condizioni di sfruttamento”) dispone che nei procedimenti per i reati previsti dall'articolo 603 bis c.p., qualora ricorrano i presupposti indicati nel comma 1 dell'articolo 321 del codice di procedura penale, il giudice dispone, in luogo del sequestro[61], il controllo giudiziario dell'azienda presso cui è stato commesso il reato, “qualora l'interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale”.
Con il decreto con cui dispone il controllo giudiziario dell’azienda, il giudice che procede per il reato nomina un amministratore giudiziario che affianca l'imprenditore nella gestione dell'azienda ed autorizza lo svolgimento degli atti di amministrazione. La norma prevede che l'amministratore giudiziario, al fine di impedire che si verifichino situazioni di grave sfruttamento lavorativo, debba controllare il rispetto delle norme e delle condizioni lavorative la cui violazione costituisce indice di sfruttamento lavorativo, procedere alla regolarizzazione dei lavoratori che al momento dell'avvio del procedimento per i reati previsti dall'articolo 603 bis c.p. prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare contratto e, al fine di impedire che le violazioni si ripetano, adottare adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dall'imprenditore o dal gestore.
Ma il controllo giudiziario non è l’unica misura rimediale prevista dal Legislatore per arginare il fenomeno della criminalità di impresa connessa allo sfruttamento del lavoro.
Con la riforma del Codice antimafia del 2017, nell’ambito della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34 D.lgs 159/2011, norma oggetto di incisiva rimodulazione rispetto alla disciplina previgente, è stata inserita anche la fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. tra i reati che possono determinare l’applicazione della suddetta misura.
Ai sensi di tale norma, il Tribunale competente per l'applicazione delle misure di prevenzione può disporre l’amministrazione giudiziaria qualora ricorrano specifici e sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle imprenditoriali, abbia carattere ausiliario ed agevolatorio rispetto all'attività: delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione; ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei seguenti delitti: associazione di stampo mafioso; reati previsti dall'art. 51 c. 3-bis c.p.p. ovvero del delitto di cui all'art. 12-quinquies comma 1 del D.l. 8.6.1991, n. 306 conv., con modif., dalla 1. 7.8.1992, n. 356, delitto assistenza agli associati ex art. 418 c.p.; delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p.; delitto di associazione per delinquere ex art. 416 c.p. finalizzato alla commissione di taluno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione con esclusione del reato di abuso d'ufficio; delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex art. 603-bis c.p.; delitti di estorsione, usura, riciclaggio ed impiego di denaro, beni o utilità di illecita provenienza (artt. 629, 644, 648-bis e 648-ter c.p.).
La novella legislativa ha determinato nella pratica giudiziaria l’applicazione frequente di questa misura nei confronti di enti utilizzatori finali di manodopera - fornita da soggetti indagati del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (tipicamente cooperative e consorzi) -, spesso destinatari, in filoni di indagine paralleli, di specifiche contestazioni di frode fiscale per l’emissione di fatture per operazioni inesistenti.
Il Tribunale di Milano, sezione autonoma misure di prevenzione, in numerosi provvedimenti, emessi su richiesta della Procura della Repubblica di Milano in vicende aventi come presupposto della misura il reato di cui all’art. 603 bis c.p., (es. Ceva Logistics[62], UBER[63], BRT[64]), ha tracciato le linee applicative ed interpretative dell’istituto.
In particolare è stato precisato che “la finalità dell'istituto dell'amministrazione giudiziaria non è, infatti, tanto repressiva, quanto preventiva, volta, cioè, non a punire l'imprenditore che sia intraneo all'associazione criminale, quanto a contrastare la contaminazione antigiuridica di imprese sane, sottoponendole a controllo giudiziario con la finalità di sottrarle, il più rapidamente possibile, all'infiltrazione criminale e restituirle al libero mercato una volta depurate dagli elementi inquinanti”.
Il presupposto che distingue la misura di prevenzione di cui all’art. 34 Codice Antimafia dalla misura del controllo giudiziario di cui all’art. 3 legge 199/2016, che prevede la sottoposizione a controllo dell’azienda presso cui è stato commesso il reato ed a cui appartengono gli autori del reato, è che l’amministrazione giudiziaria può essere disposta nei confronti dell’imprenditore o di colui che esercita l’attività economica soltanto se è “terzo” rispetto all’agevolato. Nel caso in cui il soggetto per cui viene richiesta l’amministrazione giudiziaria fosse coinvolto nell’attività illecita dell’agevolato (ad esempio come prestanome, concorrente o favoreggiatore ex art. 378 c.p.) non potrebbe applicarsi la misura.
Al riguardo, proprio con lo scopo di distinguere le ipotesi di responsabilità penale da quella di agevolazione rilevante ex art. 34 Codice Antimafia, il Tribunale di Milano della prevenzione, ha elaborato un criterio discretivo imperniato sul titolo soggettivo della rimproverabilità della condotta dell’ente: la misura di prevenzione è applicabile ove il contributo agevolatore apportato ai soggetti indicati nella norma sia di natura colposa (intesa come violazione di normali regole di prudenza e buona amministrazione imprenditoriale esigibili sul paino della legalità da un soggetto che opera ad un livello medio-alto nel settore degli appalti di opere e servizi) senza che ci sia una piena consapevolezza della relazione di agevolazione mentre, ove tale consapevolezza sia presente, l’attività dell’ente sarà inquadrabile all’interno delle fattispecie concorsuali o di favoreggiamento all’attività criminale.
Pertanto, nell’ambito di vicende legate allo sfruttamento del lavoro, l’azienda destinataria della misura non concorre nel reato di caporalato commesso da soggetti fornitori di manodopera formalmente datori di lavoro dei lavoratori ma lo agevola colposamente nelle forme indicate dalla norma.
L’amministrazione giudiziaria può essere impiegata per un periodo massimo di un anno, con possibilità di proroga di ulteriori sei mesi, fino ad un totale complessivo di due anni qualora venga evidenziata la necessità di completare il programma di sostegno e di aiuto alle imprese amministrate e la rimozione delle situazioni di illegalità riscontrate.
Questa misura, essendo strutturata come uno strumento di prevenzione flessibile, permette dunque un intervento proporzionato ed adeguato, con un impatto graduato sulla realtà imprenditoriale e, di conseguenza, sugli aspetti occupazionali. La norma prevede, infatti, che all’amministratore giudiziario, che esercita tutte le facoltà spettanti ai titolari dei diritti sui beni e sulle aziende oggetto della misura, nel caso di società, possa esercitare i poteri spettanti agli organi di amministrazione ed agli altri organi sociali secondo le modalità stabilite dal Tribunale, “tenendo conto delle esigenze di prosecuzione dell’attività di impresa”.
Il paradigma adottato nei provvedimenti citati, come in molti altri, è stato quello di una collaborazione tra amministratore giudiziario e management della società al fine di consentire il risanamento della compagine societaria e il ripristino della legalità.
Tra le varie attività da svolgere congiuntamente agli amministratori della società è stata ricompresa anche la valutazione circa l’esistenza e l’idoneità del Modello Organizzativo di cui al Decreto Legislativo 231/2001 per prevenire fattispecie di reato della specie di quello di caporalato, con ciò confermando l’importante ruolo preventivo ad esso attribuito.
5. La rilevanza giudiziale dei comportamenti virtuosi dell’Ente nell’esperienza milanese
Nell’ambito delle misure di prevenzione il recente provvedimento del 25 luglio 2023 del Tribunale di Milano - Sezione Misure di prevenzione si distingue per un approccio totalmente inedito ed innovativo.
La Procura della Repubblica di Milano dopo avere eseguito un sequestro preventivo d'urgenza per molti milioni di euro nei confronti di Esselunga, importante società operante nel campo della distribuzione, in un'indagine per reati fiscali con al centro una presunta “somministrazione illecita di manodopera”, ha richiesto di applicare la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria exart. 34 D.lgs 159/2011 perché tale società risultava essersi avvalsa di altra società coinvolta in fenomeni di caporalato ed a sua volta sottoposta a controllo giudiziario. Vista la fattiva disponibilità della società ad attuare un’attività di risanamento l’organo inquirente chiedeva al Tribunale, prima di emettere la misura, di instaurare un contraddittorio partecipato con la società stessa al fine di monitorare i progressi in ottica di legalizzazione.
Il Tribunale ha accolto la richiesta osservando che l’applicazione di una misura di prevenzione, in una situazione in cui la società già nell’ambito del procedimento penale ha manifestato un comportamento virtuoso, “svolgerebbe nei confronti della società oggetto di richiesta soltanto un’efficacia afflittiva-sanzionatoria e non già, almeno fino all’esito delle verifiche delle azioni di (ri)legalizzazione poste in essere, quella preventiva tipica degli istituti richiamati che partono da una valutazione di censura nell’organizzazione societaria e trovano nell’intervento del Tribunale della Prevenzione un necessario momento di riqualificazione orientata alla prevenzione di eventi criminosi accertati al momento dell’adozione della misura medesima”.
Il Tribunale di Milano ha, pertanto, deciso di estendere l’istituto del contraddittorio anticipato, previsto soltanto per l’interdittiva antimafia ai sensi dell’art. 92 del Codice antimafia, anche alla misura di prevenzione giurisdizionale ex art. 34 D.lgs 159/2011 in quelle fattispecie in cui il Pubblico Ministero agisca su un doppio fronte giudiziario (penale e della prevenzione).
In conclusione, la decisione sull’applicazione della misura è stata differita, senza un limite temporale, all’esito dell’attività di risanamento aziendale.
Siamo al cospetto di un provvedimento giurisdizionale espressione della logica riparativa che dimostra di privilegiare un percorso negoziale attraverso un contraddittorio partecipato ed anticipato che consente di raggiungere più efficacemente l’obiettivo di risanamento aziendale, rispetto ad un iter giudiziario ordinario che può essere sproporzionato rispetto al fine perseguito.
In realtà si tratta di un approccio non nuovo da parte della Procura della repubblica di Milano che, in un procedimento analogo, in cui era stata mossa una imputazione ex d.lgs. 231/2001 ad una società in relazione a reati fiscali legati allo sfruttamento lavorativo, ha chiesto l’archiviazione del procedimento[65] per avere l’ente rimediato alla situazione di illegalità riscontrata, ai sensi dell’art. 17 D.lgs 231/01, tramite: - il versamento all’Agenzia delle Entrate, mediante ravvedimento operoso, dell’imposta complessivamente evasa, comprensiva di interessi e sanzioni previsti per l’illecito tributario;
- l’assunzione dei lavoratori precedentemente inquadrati come prestatori d’opera alle dipendenze delle cooperative che si erano aggiudicate gli appalti;
- l’implementazione di un Modello organizzativo ex D.lgs 231/01 volto a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Ravvisando l’idem factum contestato alla società, sia in sede amministrativo-tributaria che nel procedimento ex D.lgs 231/01, l’organo inquirente, sfruttando la peculiarità della disciplina sulla responsabilità degli enti che riserva direttamente al Pubblico Ministero il potere di disporre l’archiviazione, con un provvedimento condivisibile ed assolutamente innovativo, ha rinunciato ad esercitare l’azione penale in considerazione del conseguito risultato, oltre che del fatto che l’applicazione di ulteriori misure avrebbe comportato una duplicazione sanzionatoria nei confronti dell’ente, facendo pertanto corretta applicazione del principio del ne bis in idem elaborato dalla giurisprudenza delle Corti europee in materia.
Particolarmente pregevole è l’attenzione all’aspetto reputazionale ovvero agli effetti stigmatizzanti ed afflittivi che il coinvolgimento in un procedimento penale determinerebbe a carico dell’ente già colpito dalle sanzioni tributarie.
Logica riparativa e proporzionalità della pena dischiudono, dunque, scenari innovativi di grande interesse nell’ambito della risoluzione di vicende giudiziarie legate alla criminalità di impresa e devono essere stimolo per l’ente a dotarsi di un apparato organizzativo adeguato, non soltanto post factum, ma anche in ottica preventiva per evitare di essere avvinte nelle maglie della giustizia.
6. Il sistema di compliance preventivo nel sistema 231: un importante strumento di mitigazione del rischio per l’Ente
Come è stato illustrato nel presente contributo, il rischio di interposizione illecita di manodopera non è che la genesi di profili di rischio dalle conseguenze ben più gravi, non soltanto a carico dei soggetti autori dei reati fiscali o del reato di caporalato, ma anche per gli enti interessati dalla realizzazione di queste specifiche fattispecie criminose.
L’intervento giudiziario e la risposta sanzionatoria sull’attività di impresa, dalle misure ablative alle misure interdittive o a quelle di prevenzione, come si è visto, possono essere fortemente penalizzanti sia per le ripercussioni dirette di natura economica che per quelle che vanno ad incidere sulla stessa operatività aziendale. Senza dimenticare il rischio reputazionale che può manifestarsi in plurime relazioni nel mercato di riferimento, ad esempio nei rapporti con la clientela o con gli istituti bancari.
L’Ente è, pertanto, chiamato a svolgere un’attività di compliance particolarmente attenta e profonda per mappare e tracciare tutte le aree sensibili in chiave preventiva.
L'adozione e adeguata implementazione del Modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del D.lgs. 231/2001, funge da mitigantimportante ove l'ente abbia previsto all'interno del proprio Modello l'astratta configurazione dell'illecito commesso, e dunque, abbia adottato dei presidi di controllo per prevenire la commissione. Il Modello si pone, infatti, come misura di organizzazione primaria per la prevenzione dei reati in questione la cui funzione è ribadita anche nei provvedimenti che sono stati citati e di cui occorre tenere debitamente conto per individuare le corrette strategie di presidio del rischio di utilizzo illecito di forza lavoro.
La corretta gestione degli appalti, dei distacchi di lavoratori e della somministrazione di manodopera, in cui possono annidarsi i rischi penali e tributari di cui si è discorso, è dunque il primo step del risk assessment funzionale alla prevenzione a cui deve conseguire la definizione di regole e protocolli interni che individuino puntualmente i ruoli aziendali responsabili dei processi sensibili, le sfere di competenza e le fasi di controllo e monitoraggio.
Occorrerà, pertanto, prestare particolare attenzione alla scelta delle controparti contrattali individuando soggetti che rispondano ai più alti standard professionali, etici e di legalità. I meccanismi di qualificazione dei fornitori nonché la creazione di una anagrafica degli stessi sono strumenti efficaci per valutare la congruità della controparte sotto il profilo reputazionale, fiscale, contributivo e rispettoso della normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, mediante la richiesta di documentazione attestante tali requisiti.
Dopo avere scrupolosamente proceduto alla qualifica preliminare del fornitore è necessario redigere idonei contratti di appalto, accordi di distacco o contratti di somministrazione, a seconda dei casi, nel pieno rispetto della normativa di settore e dei principi elaborati dalla giurisprudenza giuslavoristica. Particolarmente interessante è l'adozione della certificazione dei contratti di appalto specificamente prevista dall'art. 84 del D.Lgs. n. 276/03 che, sul fronte penalistico può fungere da argomento difensivo con riferimento al criterio soggettivo, in quanto, risulterebbe più difficile dimostrare la conoscenza della diversa natura contrattuale dell'operazione a fronte della riscontrata verifica della genuinità del contratto.
Vi sono, poi, tutta un serie di presidi da adottare nella fase esecutiva scongiurando situazioni di ingerenza da parte del committente nelle attività oggetto di appalto che, come si è visto, sono un pericoloso campanello di allarme della esistenza di una interposizione illecita di manodopera.
Un secondo ambito di implementazione del Modello organizzativo afferisce più specificamente la gestione della fiscalità per prevenire il rischio penal-tributario. Dovranno essere adottati presidi di controllo specifici volti a verificare la reale natura della prestazione, la corretta applicazione dell’IVA e delle aliquote fiscali nelle fatture ricevute dai fornitori, oltre che il rispetto delle condizioni stabilite contrattualmente che debbono condurre alla risoluzione del contratto in caso di condotte illecite poste in essere dalle controparti con riferimento a criticità di natura fiscale.
Ovviamente questi processi dovranno essere inseriti in uno strutturato sistema di verifica e monitoraggio continuativi delle controparti, funzionali ad intercettare potenziali situazioni di criticità fonte di responsabilità del committente.
Per quanto riguarda, invece, il rischio di sfruttamento del lavoro della manodopera da parte del datore di lavoro dovranno essere sottoposte ad attenta valutazione le aree ed i processi relativi all’assunzione del personale, al rapporto contrattuale con i dipendenti, all’applicazione delle norme di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro.
Infine, posto che le peculiarità degli aspetti giuslavoristici e fiscali richiedono specifiche conoscenze professionali è di centrale importanza definire programmi di formazione mirati rivolti ai soggetti che operano in tali aree di rischio per responsabilizzarli ad una corretta gestione dei processi sensibili.
In conclusione, i vantaggi di una corretta compliance sono di tutta evidenza e la spinta giudiziaria ad adottare modelli imprenditoriali virtuosi è un forte segnale che, allo stato attuale, non può essere ignorato.
[1] A. ASNAGHI, “La somministrazione fraudolenta nel “Decreto dignità”: cronaca di una fattispecie” in www.lavoridirittieuropa.it
[2] Cfr. Cass. pen., sez. III, Sent. 27 aprile 2010 n. 16381; Cass. Pen. Sez. III, Sent. 17 giugno 2015 n. 25313.
[3] P. RAUSEI, “Somministrazione fraudolenta: accertamenti e sanzioni” in Diritto & Pratica del lavoro, n. 13, 2018, pag. 790. Dello stesso autore si segnala anche per un commento alla Circolare n. 3/2019 dell’INL: “Somministrazione di lavoro fraudolenta quando è configurabile il reato” in Diritto e Pratica del Lavoro n. 13/2019.
[4] Cfr. in proposito Cass. pen Sez. III, Sent. 30 ottobre 2015 n. 43813.
[5] Cass. Pen. Sez. III, Sent. 21 gennaio 2022 n. 16302. Negli stessi termini Cass. Pen. Sez.III, Sent. 26 giugno 2020, n.20901.
[6] Cass. Pen. Sez. III, Sent. 4 marzo 2021 n. 8809.
[7] Cass. Pen. Sez. III, Sent. 28 novembre 2022 n. 45114.
[8] Cass. pen. Sez. II, Sent. 11 marzo 2020 n. 9758
[9] Si riporta il testo dell’art. 8 d.lgs 74/2000: “1. È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
2. Ai fini dell'applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l'emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato.
2-bis. Se l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d'imposta, è inferiore a euro 100.000, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni”.
[10] Si riporta il testo dell’art. 2 D.Lgs 74/2000: “1. È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi.
2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria.
3. Se l'ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 100.000, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni”.
[11] Cass. Sez. III, Sent. 20 gennaio 2020 n. 1998.
[12] Cass. Sez. III, Sent. 15 luglio 2020, n. 20901; Id. Cass. Sez. III, Sent. 9 luglio 2018 n. 30874; Id., . Cass. Sez. III, Sent 29 gennaio 2019 n.4236.
[13] L. IMPERATO, “Art.1”, in Diritto e procedura penale tributaria a cura di Caraccioli, Giarda, Lanzi, pag.41. A. TADIOTTO, Reati tributari e fatture per operazioni “giuridicamente inesistenti”: tra inesistenza oggettiva e operazioni simulate, in Sistema Penale, 9/2023.
[14] V. NAPOLEONI, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cit, p. 57; U. NANNUCCI – A. D’AVIRRO, La riforma del diritto penale tributario (d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74), cit., pag. 59; A. TRAVERSI – S. GENNAI, I nuovi delitti tributari, Milano, 2000, p. 174; M. DI SIENA, La nuova disciplina dei reati tributari. Imposte dirette e IVA, Milano, pag. 110. Nello stesso senso v. anche A. LANZI – P. ALDROVANDI, L’illecito tributario, Padova, 2001, p. 119.
[15] In tal senso, cfr., Cass. pen., Sez. III, Sent. 28 aprile 2022 n. 16302; conf. Cass. pen., Sez. III, Sent. 15 luglio 2020 n. 20901; inoltre, Cass. Pen, Sez. III, Sent. 30 marzo 2022 n. 11633; Id, Cass. Pen, Sez. III, Sent. 6 settembre 2021 n. 32877; Id, Cass. Pen, Sez. III, Sent. 4 marzo 2020 n. 8809; Cass. Pen. Sez. IV Sent. 15 settembre 2022, n. 33994, tutte concernenti la medesima vicenda.
[16] Tra le tante, Cass. Civ, sez. V, Ord. 17 novembre 2021, n. 34876; Id., Cass. Civ. Sez. V, Ord. 26 giugno 2020, n. 12807; Id., Cass. Civ. Sez. V, Ord. 7 dicembre 2018, n. 31720; Id., Cass. Civ. Sez. V, Ord. 5 luglio 2013, n. 16852.
[17] Così Cass. pen., Sez. III, Sent. 28 aprile 2022 n. 16302, DHL, cit.
[18] Sempre Cass. pen., Sez. III, Sent. 28 aprile 2022 n. 16302, cit.
[19] Corte Giust., 8.5.2019, EN.SA. Srl, C -712/17; v. anche sentenza del 27 giugno 2018, SGI e Valeriane, C-459/17 e C-460/17; Corte Giust. 11.12.2014, Idexx Laboratories, causa C -590/13.
[20] Cass. pen., Sez. III, Sent. 28 aprile 2022 n. 16302, cit.
[21] Cass., sez. III, Sent. 12 dicembre 2019 n. 50362.
[22] Cass. Pen. sez. III, Sent. 10 maggio 2023 n. 19595.
[23] Cass. Pen. sez. III Sent. 21 novembre 2018, n. 52411; Id., Cass. Pen, Sez. III, Sent. 6 settembre 2021 n. 32877.
[24] “Art. 25 quinquiesdecies D.lgs 231/01: “1. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'articolo 2, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 2, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall'articolo 3, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 8, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 8, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, previsto dall'articolo 10, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall'articolo 11, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
1-bis. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, quando sono commessi al fine di evadere l'imposta sul valore aggiunto nell'ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri connessi al territorio di almeno un altro Stato membro dell'Unione europea, da cui consegua o possa conseguire un danno complessivo pari o superiore a dieci milioni di euro, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il delitto di dichiarazione infedele previsto dall'articolo 4, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote;
b) per il delitto di omessa dichiarazione previsto dall'articolo 5, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di indebita compensazione previsto dall'articolo 10 quater, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
2. Se, in seguito alla commissione dei delitti indicati ai commi 1 e 1-bis, l'ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.
3. Nei casi previsti dai commi 1, 1-bis e 2, si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, lettere c), d) ed e)”
[25] Così, Cass. pen., Sez. Un., Sent. n. 2 luglio 2008 n. 26654, Fisia Italimpianti S.p.A..
[26] M. LOMBARDO, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Dig. Disc. Pen., 2013, pag. 358 e ss.
[27] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 7 marzo 2023 n. 9473.
[28] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 1 febbraio 2022 n. 3554.
[29] P. PASSANITI, Il diritto al lavoro come antidoto al caporalato, in AA.VV. Agricoltura senza caporalato, a cura di F. DI MARZIO, ROMA, 2017, pag. 35 ss.
[30] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 1 febbraio 2019 n. 5081.
[31] E. TOMASINELLI, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: una recente pronuncia del Tribunale di Milano in tema di “caporalato grigio”, pag. 20 in Giurisprudenza Penale, Web, 2019, 12, Rivista Giuridica Registrata presso il Tribunale di Milano
[32] A. MERLO, Il Contrasto Allo Sfruttamento Del Lavoro e Al Caporalato Dai Braccianti Ai Riders – La Fattispecie Dell’art. 603 Bis C.P. E Il Ruolo Del Diritto Penale, Torino, 2020, Pag. 16 ss.
[33] A. MERLO, Il Contrasto Allo Sfruttamento Del Lavoro e Al Caporalato Dai Braccianti Ai Riders – La Fattispecie Dell’art. 603 Bis C.P. E Il Ruolo Del Diritto Penale, Torino, 2020, Pag. 52.
[34] P. BRAMBILLA, “Caporalato tradizionale” e “nuovo caporalato”: recenti riforme a contrasto del fenomeno in Rivista Trimestrale di Diritto Penale dell’Economia, n. 1-2, 1 gennaio 2017, pag. 188 ss.
[35] A. MERLO, Il Contrasto Allo Sfruttamento Del Lavoro E Al Caporalato Dai Braccianti Ai Riders – La Fattispecie Dell’art. 603 Bis C.P. E Il Ruolo Del Diritto Penale, Torino, pag. 53 ss.
[36] Si riporta il testo dell’art. 603 bis c.p. nell’attuale formulazione: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:
1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;
2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;
3) l´aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.
[37] S. BRASCHI, Il Reato di Intermediazione Illecita e sfruttamento del lavoro: elementi costitutivi e apparato sanzionatorio in Lavoro Diritti Europa, Rivista Nuova del Diritto del Lavoro, n. 2/2022, pag.7.
[38] V. TORRE, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, in Giornale di diritto del lavoro e di relazione industriale, 2018, n. 158, pag. 294.
[39] E. SANTORO, L’altro diritto centro interuniversitario di ricerca su carcere, devianza, marginalità e governo della migrazione: primi dati sul contrasto allo sfruttamento lavorativo, Firenze, 2018, pag. 1 ss.
[40] A. PECCIOLI, I profili di sospetta illegittimità costituzionale del c.d. caporalato: la ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e la determinatezza degli indici di sfruttamento, pag. 3 in Diritto Penale e Processo, n. 8, 1 agosto 2021, pag. 1043.
[41] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 22 dicembre 2021 n. 46842.
[42] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 1 febbraio 2022 n. 3554.
[43] S. ROSSI, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: gli incerti confini della fattispecie, pag. 3 in “Il lavoro nella giurisprudenza, n. 8-9, 1 agosto 2023, pag. 811.
[44] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 22 aprile 2022 n. 15684
[45] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 13 dicembre 2021 n. 45615
[46] R. GUARINIELLO, Caporalato, la sicurezza del lavoro tra gli indicatori di sfruttamento, pag. 3 in Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 3, 1 marzo 2023, pag. 131.
[47] A. MERLO, Il Contrasto Allo Sfruttamento Del Lavoro E Al Caporalato Dai Braccianti Ai Riders – La Fattispecie Dell’art. 603 Bis C.P. E Il Ruolo Del Diritto Penale, Torino, Pag. 85.
[48] Cass. Pen. Sez. IV. Sent. 4 marzo 2022 n. 7857.
[49] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 7 luglio 2021 n. 25756.
[50] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 13 dicembre 2021 n. 45615.
[51] A. PECCIOLI, I profili di sospetta illegittimità costituzionale del c.d. caporalato: la ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e la determinatezza degli indici di sfruttamento, pag. 3 in Diritto Penale e Processo, n. 8, 1 agosto 2021, pag. 1043
[52] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 7 luglio 2021 n. 25756.
[53] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 18 marzo 2021 n. 10554.
[54] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 2 settembre 2022 n. 32262.
[55] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 13 dicembre 2021 n. 45615.
[56] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 21 febbraio 2022 n. 5872.
[57] Cass. Pen. Sez. Un. Sent. 15 luglio 2021 n. 27421.
[58] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 25 luglio 2022 n. 29397.
[59] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 5 gennaio 2023 n. 106/2023.
[60] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 16 novembre 2022 n. 43470.
[61] Cass. Sez. IV Pen. 14 marzo 2022, n. 8545 (Conferma Trib. ries. Milano 29 marzo 2021) ha precisato che “in tema di reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in caso di sequestro dell’azienda funzionale alla confisca obbligatoria di cui all’art. 603-bis.2 c.p., non è applicabile il controllo giudiziario, essendo previsto dalla L. 29 ottobre 2016, n. 199, art. 3 come misura alternativa al solo sequestro "impeditivo" di cui all’art. 321 c.p.p., comma 1. Nel caso di sequestro finalizzato alla confisca, infatti, si nomina un amministratore giudiziario se si tratta di beni aziendali, ma la misura ablativa rimane in vigore. Nel caso, invece, di sequestro preventivo "impeditivo", la misura cautelare reale può essere sostituita da quella del controllo giudiziario, disciplinata secondo le regole previste dai primi tre commi della L. n. 199 del 2016, art. 3”.
[62] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, Decreto n. 11 del 6 maggio 2019.
[63] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, Decreto n. 9 del 27 maggio 2020, in merito A. Merlo, Sfruttamento dei riders: amministrazione giudiziaria ad Uber per contrastare il “caporalato digitale”, in Sist. pen., 2 giugno 2020; A. Quattrocchi, Le nuove manifestazioni della prevenzione patrimoniale: amministrazione giudiziaria e contrasto al “caporalato” nel caso Uber, in Giust. pen., 6, 2020.; M. Barberio - V. Camurri, L’amministrazione giudiziaria di Uber: un possibile cortocircuito tra il sistema giuslavoristico e le misure di prevenzione, in Giust. pen., 7, 2020.
[64] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, Decreto n. 6 del 23 marzo 2023.
[65] Procura della Repubblica Presso il Tribunale Ordinario di Milano, Decreto di Archiviazione del 9 novembre 2022 (dep. 11 novembre 2022).
L’ordinanza del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti del 14.11.2023, relativa all’astensione dal lavoro proclamata da CGIL e UIL per il giorno 17.11.2023, rappresenta un fattore di forte discontinuità nel quadro delle relazioni sindacali. L’esame degli elementi di antinomia del provvedimento rispetto alla tradizione giuridica fondata sull’elaborazione dottrinale e sulle decisioni della Corte costituzionale porta alla luce un risultato estremo: la messa in discussione, da parte dell’autorità governativa, della nozione stessa di sciopero all’interno del nostro ordinamento.
Sommario: 1. Premesse. 2. Il settore dei trasporti. 3. La precettazione prima dell’intervento legislativo. 4. La Commissione di Garanzia. 5. L’ordinanza di “precettazione” nella l. n. 146/1990. 6. Il caso concreto: l’ordinanza del Ministro dei Trasporti 7. Considerazioni conclusive.
1. Premesse
Come è noto, nei lavori dell’Assemblea costituente è stata sollevata la questione del riconoscimento o meno della titolarità del diritto di sciopero ai pubblici dipendenti. Il dubbio aveva la sua ragion d’essere, vista sia la natura giuridica della relazione di pubblico impiego, allora fondata sulla supremazia speciale della pubblica amministrazione nei confronti dei pubblici dipendenti, sia la ricostruzione teorica che giustificava tale supremazia.
L’interrogativo è stato risolto per mezzo della formula costituzionale che rinvia al legislatore ordinario il compito di disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero.
Tuttavia, le complesse vicende che non consentirono l’attuazione dell’art. 39 Cost, commi 2, 3 e 4 hanno comportato anche il mancato intervento del legislatore rispetto all’art. 40 Cost.
Ulteriore conseguenza dello scarto fra il disegno costituzionale e il diritto sindacale di fatto è stato l’intervento della Consulta nel rendere compatibile le disposizioni del Codice penale Rocco che qualificano lo sciopero come reato e la Costituzione.
Infatti, la Corte costituzionale ha progressivamente modificato – sostanzialmente montando e smontando – le disposizioni penali con una serie di rilevanti decisioni. In particolare, nell’ambito che in questa sede ci interessa, essa ha avuto l’indubbio pregio di distinguere nettamente la titolarità del diritto di sciopero dal suo esercizio.
La titolarità è riconosciuta a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori, salvo poche eccezioni, come nel caso dei corpi militari [[1]]. Opportunamente, l’asse della questione è stata spostata verso i c.d. limiti esterni, ovvero verso le esigenze di contemperamento fra l’esercizio del diritto di sciopero e la tutela dei diritti della persona costituzionalmente garantiti.
Come è stato osservato, la costruzione di un corpus giurisprudenziale in materia deve essere contestualizzato. Come è stato già ricordato, la Corte costituzionale si è mossa nell’ambito del diritto penale [[2]]. In questa prospettiva, essa ha elaborato alcune nozioni quali: il necessario contemperamento fra i diritti della persona costituzionalmente garantiti con l’esercizio del diritto di sciopero; i servizi essenziali e la garanzia delle prestazioni indispensabili. Tali nozioni sono rimaste fondamentali anche nell’impianto della legge n. 146/1990.
In particolare, è rimasta ferma la chiara distinzione fra i diritti tutelati dai servizi essenziali, ovvero quelle prestazioni che garantiscono «a regime» il godimento dei diritti della persona, dalle prestazioni indispensabili, cioè quelli che debbono essere garantiti in occasione di sciopero [[3]].
Tuttavia, poiché la conseguenza della scelta di legiferare in materia è stata quella di recidere il rapporto della disciplina normativa con il diritto penale, il Parlamento ha potuto essere meno rigoroso di quanto era stata la Consulta, includendo nell’ambito dei diritti tutelati non solo quelli di rango preminente rispetto al diritto di sciopero, ma un più ampio ventaglio.
Tali premesse sono fondamentali per il corretto inquadramento delle regole contenute nella legge sullo sciopero nei servizi essenziali nel settore dei trasporti.
2. Il settore dei trasporti
Per inquadrare specificatamente questo settore, è necessario partire dalla sentenza Corte Cost. n. 123/1962. Era ivi sollevata la questione di legittimità di uno sciopero svoltosi nell’ambito del settore del trasporto pubblico di Livorno. In quell’occasione, la Consulta affermava che, anche nell’ipotesi in cui fosse ancora vigente l’art. 330 del c.p., esso sarebbe applicabile “solo condizionatamente al rispetto del principio già enunciato, e cioè entro i limiti in cui la perseguibilità penale dello sciopero appaia necessitata dal bisogno di salvaguardare dal danno dal medesimo derivante il nucleo degli interessi generali assolutamente preminenti rispetto agli altri collegati all'autotutela di categoria”. A seguito di tale enunciazione di principio, prosegue “[o]ra la Corte ritiene che i servizi pubblici del genere di quelli di cui è discussione (…) non rivestono il grado di importanza sufficiente a provocare, con la lesione degli interessi predetti, la perdita dell'esercizio del potere garantito dall'art. 40 della Costituzione. Dal che consegue che ai lavoratori addetti ai servizi medesimi, ove si mettano in sciopero, non possano venire inflitte le sanzioni previste dall'art. 330 del Codice penale”.
Quindi, come si diceva, per la Corte costituzionale la libertà di circolazione di cui l’art. 16 della Carta fondamentale non si configura come un diritto della persona tale da impedire l’esercizio del diritto di sciopero.
Tuttavia, in una società sempre più integrata dal punto di vista territoriale, la questione degli effetti sull’utenza dello sciopero nel settore dei trasporti si è presentata in maniera sempre più intensa. Non è un caso che, in questo settore, nel periodo precedente all’emanazione della l. n. 146/1990, siano anche maturate esperienze di autoregolamentazione [[4]].
In effetti, quando le tre grandi Confederazioni sindacali hanno istituito il gruppo di saggi nel 1987 [[5]], attribuendoli il compito di elaborare una proposta di regolazione legislativa dell’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi essenziali, uno dei settori sul quale la legge avrebbe dovuto incidere era proprio quello del trasporto.
3. La precettazione prima dell’intervento legislativo
L’ordinanza di precettazione rinviene la sua disciplina originaria nell’art. 2 TULPS del 1931: era dunque un prodotto dell’ordinamento corporativo fascista. Di conseguenza, anche essa è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale. Con la sentenza n. 26/1961, da inquadrare oggi fra le decisioni interpretative di accoglimento, la Consulta ha ritenuto che non sia vietato che “una disposizione di legge ordinaria conferisca al Prefetto il potere di emettere ordinanze di necessità ed urgenza, ma occorre che risultino adeguati limiti all'esercizio di tale potere”. Tuttavia, dichiarando parzialmente incostituzionale l’art. 2, ha proseguito affermando che tale potere è limitato dal rispetto dell’ordinamento giuridico.
In effetti, in ambito giuslavoristico, si è sempre ritenuto che tale decisione fosse motivata dall’esigenza di aver uno strumentoamministrativo che, in situazioni particolarmente gravi, consentisse alla pubblica autorità di intervenire celermente. L’esempio classico, tramandato nelle aule universitarie, è quello di un terremoto o di un’inondazione che avvenga nell’eminenza o durante uno sciopero. Poiché tali circostanze esigono il regolare funzionamento di tutti i servizi, ove mai l’azione di autotutela non sia stata già sospesa, allora deve intervenire l’autorità competente.
In seguito alla manifestazione di disponibilità espressa dalle CGIL-CISL-UIL con la presentazione del citato documento dei saggi, sia l’Esecutivo che il Parlamento si attivavano, come anche la comunità scientifica [[6]]. Non va dimenticato che allora al Senato c’era Gino Giugni, e alla Camera dei deputati Giorgio Ghezzi.
La legge è entrata in vigore il 12 giugno 1990. Come è noto, si tratta di una normativa speciale, il cui titolo per esteso è Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge.
Gli interessi tutelati dalla legge in parola sono, da un lato, l’esercizio del diritto di sciopero e, dall’altro, “nel loro contenuto essenziale”, i diritti della persona costituzionalmente garantiti. Sebbene non sia questa la sede per una puntuale ricostruzione complessiva della legge, per inquadrare la precettazione nell’ambito della disciplina vigente, va rilevato che essa – perlomeno nella sua versione originaria – è stata concepita seguendo un disegno di pesi e contrappesi molto accurato.
In questo disegno, un ruolo importante assumeva la Commissione di garanzia.
4. La Commissione di Garanzia
Istituita dall’art. 12, la Commissione di garanzia dell'attuazione della legge, con il compito di valutare l'idoneità delle misure volte ad assicurare il contemperamento dell'esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, si configurava come un’autorità amministrativa indipendente.
Era composta da nove membri, scelti, su designazione dei Presidenti della Camera dei deputati e del Senato, tra esperti in materia di diritto costituzionale, di diritto del lavoro e di relazioni industriali, nominati con decreto del Presidente della Repubblica.
Forse il lettore attento si starà domandando perché si sta qui utilizzando il preterito, visto che, se è vero che qualche modifica è stata apportato all’articolo in questione, come è il caso della riduzione del numero di componenti a cinque, sostanzialmente il suo impianto è rimasto immutato.
Tuttavia, quello che è mutato è il contesto istituzionale in cui si inserisce questa norma. Di conseguenza, anche se per sommi capi, alcuni elementi di questo cambiamento vanno sottolineati. Per comprenderli è necessario tener conto che la novella di cui la l. n. 83/2000 ha introdotto una serie di requisiti che hanno proceduralizzato la proclamazione e l’esercizio del diritto di sciopero, come l’obbligo di avviare un tentativo di conciliazione, le procedure di raffreddamento e di rarefazione soggettiva e oggettiva delle azioni di autotutela [[7]]. Il risultato è quello di sbilanciare la normativa a favore dell’utenza [[8]], rendendo giuridicamente lo sciopero una ultima ratio [[9]]. Al rispetto di questo nuovo impianto sorveglia la Commissione di garanzia.
Non solo. La novella ha anche attribuito alla Commissione il potere di individuare le prestazioni indispensabili che debbono essere garantite in occasione di sciopero in due ipotesi: la prima, è quella per cui l’accordo raggiunto fra le parti non sia stato valutato idoneo dalla stessa Commissione e le parti si siano rifiutate di adeguare il contenuto alle osservazioni sollevate. La seconda ipotesi è quella in cui le parti non abbiano raggiunto nessun accordo. In questi casi, la Commissione adotta un provvedimento amministrativo, ovvero una provvisoria regolamentazione vincolante.
Tali modifiche implicano dunque il passaggio dal disegno originario, per cui la Commissione di garanzia poteva essere inquadrata fra le autorità amministrative indipendenti, ad un nuovo assetto ordinamentale per cui è una autorità amministrativa [[10]].
Inoltre, vi è un altro profilo di carattere sistematico da non sottovalutare. Come già riportato, la nomina degli esperti è di competenza del Presidente della Repubblica su designazione dei Presidenti della Camera dei deputati e del Senato. Quando la legge 146 è stata elaborata, in Italia eravamo sotto la c.d. “prima Repubblica”. In quella fase, era prassi consolidata che i due rami del Parlamento fossero presieduti uno da un rappresentante della maggioranza parlamentare che esprimeva l’Esecutivo, l’altro, da un rappresentante dell’opposizione. In tale prospettiva, la designazione dei membri dell’autorità garante doveva essere necessariamente frutto di mediazione e compromesso. Ora che le prassi sono altre, c’è il rischio di uno sbilanciamento che rispecchi le contingenze politiche immediate. Circostanza questa che non giova all’autorevolezza di un organo con compiti così fondamentali per la salute della democrazia italiana.
5. L’ordinanza di “precettazione” nella l. n. 146/1990
In merito allo specifico profilo che qui ci interessa, è necessario esaminare l’art. 8 della l. n. 146/1990, così come modificato dalla l. n. 83/2000.
Infatti, l’articolo pone, come requisito per l’emanazione dell’ordinanza, la sussistenza di “fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati (…) conseguente all'esercizio dello sciopero o a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori”.
In altre parole, la pubblica autorità può esercitare il potere se da uno sciopero, esercitato in un dato particolare contesto, ne deriva un rischio concreto di lesione di un diritto della persona costituzionalmente garantito. Non si tratta di uno strumento di fisiologica gestione del conflitto. Anche se, come segnalato dalla dottrina, la tendenza a interpretalo in questa chiave è ricorrente [[11]], in particolare nel settore dei trasporti.
Tutto ciò non concerne né il disagio che lo sciopero può provocare all’utenza, né i costi dell’azione di lotta, né il numero dei soggetti che subiscono il disagio. Sono queste circostanze che non giustificano l’intervento amministrativo. Anzi, ad essere ancora più puntuale, tali circostanze non giustificano alcuna limitazione all’esercizio del diritto di sciopero.
Inoltre, per completezza, va ricordato che la novella del 2000 ha introdotto un art. 20-bis che richiama “per gli aspetti ivi diversamente disciplinati, quanto già previsto in materia (…) dall'articolo 2 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”. A mio avviso, tale richiamo è un’ulteriore conferma che l’intervento legislativo è caratterizzato da uno sbilanciamento della legge verso la tutela degli utenti, con il sacrificio del diritto di sciopero. Tuttavia, nel caso che qui ci interessa, questa modifica non rileva visto che l’ordinanza di cui si dirà nel prossimo paragrafo è stata emessa sulla base dell’art. 8.
6. Il caso concreto: l’ordinanza del Ministro dei Trasporti
È in questa cornice che si inserisce l’ordinanza del Ministro del 14.11.2023 relativa allo sciopero proclamato da CGIL e UIL per il giorno 17.11.2023.
L’ordinanza in parola contiene un eterogeneo elenco di ragioni che giustificherebbe l’intervento dell’autorità governativa. Esso prende in considerazione gli effetti che lo svolgimento dello sciopero nell’arco temporale di 24 ore potrebbero produrre nei confronti dell’utenza, ma anche alcune conseguenze di carattere più generale.
In sintesi, l’ordinanza, sostiene di tenere conto del disagio per l’utenza che l’astensione provocherebbe; dell’esigenza di considerare “il grado di interconnessione tra le varie tipologie di traffico su strada ferrata, (…) comprendenti le direttrici internazionali, nonché gli assi di collegamento tra le principali città italiane, sia da linee minori che si collocano nell’ambito dei bacini regionali, ma che connettono tra loro anche le direttrici principali”; di considerare anche il “trend positivo del turismo, che torna ad essere un settore trainante per la nostra economia e che si caratterizza con una forte intensificazione dei flussi turistici in entrata e in uscita dal territorio nazionale, prevalentemente nei weekend, in aggiunta alla persistenza degli spostamenti dei lavoratori pendolari”; degli effetti che l’intensificazione del traffico stradale potrebbero produrre sulla sicurezza e sull’inquinamento atmosferico, “anche tenuto conto della sua fissazione nell’ultimo giorno lavorativo della settimana, connotata da maggiori flussi di traffico”.
A questi motivi, si aggiungono l’opinione dell’associazione datoriale ASSTRA, la quale osserva che “il comparto del trasporto pubblico locale muove circa 15 milioni di persone al giorno con inevitabili ripercussioni e danni per imprese e cittadini” e le stime di Trenitalia s.p.a., sulla cancellazione dei treni [[12]]. E dulcis in fondo, dato che lo sciopero è promosso “da Organizzazioni Sindacali altamente rappresentative nel settore dei trasporti, si prevede che la partecipazione ai richiamati scioperi sarà consistente”.
In definitiva, il provvedimento assume che siano rispettati i presupposti di legge, e quindi determina la riduzione – articolata per sottosettore: trasporto locale, marittimo, merci su rotaia, ecc. – dello sciopero indetto da CGIL e UIL.
Tale impostazione, invero un po’ logorroica, è tesa a dimostrare quello che non solo non è dimostrabile, ma neanche verosimile, ovvero che lo sciopero indetto da CGIL e UIL si sarebbe inserito in un contesto tale da provocare o aggravare una situazione dove si potesse verificare un grave e imminente pericolo ai diritti della persona costituzionalmente garantiti.
Infatti, lo sciopero provoca disagio. Esso è una sua naturale conseguenza. È intrinseco al suo essere un mezzo di autotutela. Altrimenti, dovremmo affermare – con grande sprezzo del ridicolo – che le madri e i padri costituenti non sapessero che lo sciopero possa provocare fastidi a chi lo subisce sia come controparte, ma anche come utente. Forse ritenevano che fosse in gioco qualcosa di più, qualcosa chiamata democrazia.
Analogo discorso vale per eventuali danni economici derivanti dallo sciopero. Su questo profili, è d’obbligo citare Cass. 711/1980 [[13]] e la nota distinzione fra danno alla produttività e danno alla produzione: solo la prima tipologia di pregiudizio può condurre alla qualificazione di uno sciopero – qualsiasi sciopero, e quindi non solo quello nell’ambito dei servizi essenziali – come illegittimo. Anche il danno economico è una conseguenza normale dello sciopero. Anzi, per definizione, è il potenziale danno che lo rende uno strumento atto a costringere la controparte a tener conto delle rivendicazioni dei lavoratori e delle lavoratrici.
Inoltre, si dovrebbe anche tenere presente Corte Cost. n. 317/1992, laddove la Consulta rigetta la questione di incostituzionalità sollevata in relazione alla l. n. 146/1990. La Corte, infatti, ribadisce che quest’ultima si riferisce “esclusivamente ai rapporti tra l'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici ed i diritti della persona propri degli utenti di tali servizi o dei cittadini in generale. Esula invece dagli scopi e dal contenuto della legge in esame la disciplina dei rapporti tra l'esercizio del diritto di sciopero e gli interessi dell'impresa in quanto tale, pur se costituzionalmente tutelati”.
Se non sono tutelati dalla legge nemmeno gli interessi economici-patrimoniali delle imprese che operano nel settore dei servizi essenziali, come si può conferire un valore giuridico al “trend positivo del turismo”, tale da limitare l’esercizio del diritto di sciopero costituzionalmente garantito? Lo sciopero è uno strumento di parte. La Costituzione, come è noto, è stata elaborata da un’eterogenea Assemblea ove, però, alcuni elementi comuni hanno costituito una solida base per recidere i legami con l’ideologia corporativo-fascista che espressamente disprezzava l’ordine democratico. Fra questi, il netto superamento di assiomi come quello dell’esigenza di tutelare l’interesse superiore della nazione, in conseguenza del quale – coerentemente – lo sciopero era penalmente punito.
Ancora, quando negli anni 2007-2008, la CGUE con le note sentenze Laval, Viking e Rüffert ha affermato l’equivalenza, se non la primazia, delle libertà economiche nei confronti del diritto di sciopero, le critiche della dottrina sono state particolarmente severe, richiamando il valore costituzionale del riconoscimento del diritto al conflitto [[14]].
7. Considerazioni conclusive
La concezione che l’attuale Ministro sembra avere dello sciopero non corrisponde all’ordinamento giuridico fondato sulla Costituzione. In essa l’Assemblea costituente ha incluso il diritto al conflitto, consapevole che la sfida per una società complessa, necessariamente attraversata da interessi parziali, è quello di trovare principi e regole comuni che garantiscano il pluralismo sociale, politico, economico e ideologico. Tali regole comportano una mediazione fra le parti, e non è detto che essa non comporti disagi e sacrifici ai diversi componenti della società.
Certamente, si potrebbe obiettare che, sebbene il conflitto abbia un valore positivo, andrebbe comunque fatto ogni sforzo per evitare lo sciopero, che rappresenta indubbiamente un danno per tutti, in primo luogo per le stesse lavoratrici e gli stessi lavoratori che lo praticano. Tuttavia, quello che va criticato è l’azione repressiva, non certamente la creazione di canali che riescano a governare il conflitto.
In altri tempi, quando la concertazione sociale spiegava tutte le sue potenzialità – ben inteso, all’interno del sistema di relazioni industriali italiano – chi scrive aveva attribuito la scarsa attenzione del sindacalismo confederale alla difesa del valore positivo del conflitto proprio all’opzione per il metodo concertativo [[15]].
A questi rilievi aggiungo oggi che, nonostante la critica mi sembri ancora fondata, quel periodo, in relazione ai giorni nostri, era comunque caratterizzato da una disponibilità governativa a negoziare con le organizzazioni sindacali. Si formavano tavoli trilaterali e tutte le parti erano impegnate a trattare.
Una dimensione operativa-istituzionale molto diversa da quanto praticato oggi. Quest’affermazione è meramente descrittiva. È perfettamente legittima la scelta dell’attuale Governo di non dare seguito a percorsi analoghi. Quello che non è legittimo è la reazione autoritaria alla posizione assunta da parte di CGIL e UIL come risposta alla politica sindacale/lavoristica praticata dall’Esecutivo. Non è legittimo pretendere di piegare uno strumento concepito come garanzia di diritti fondamentali all’ordinaria gestione del conflitto. Tanto più che lo sciopero in questione era stato proclamato per protestare contro le scelte politico-economico dello stesso Governo.
[1] Art. n. 1475, comma 4 d.lgs. n. 66/2010; v. anche C. Cost. n. 449/1999.
[2] v. P. Curzio, Autonomia collettiva e sciopero nei servizi essenziali, Bari, Cacucci, 1992, 27 ss.
[3] Nelle parole della sentenza n. 222/1976: “La interdipendenza e la correlazione tra i servizi costituiscono l’espressione di un fatto organizzatorio caratteristico di ogni tipo di comunità, da cui, tuttavia, non può trarsi la conclusione che tutti i servizi abbiano uguale grado di importanza e di indispensabilità. Certo, tutti sono necessari e tra loro in qualche modo complementari, quando la complessa attività cui dà luogo la vita della comunità si svolge in regime di normalità.
Ma, quando ragioni di necessità, impongono di ridurre, eventualmente anche al minimo, l'appagamento delle esigenze della collettività o di una più ristretta comunità sociale, è sempre possibile individuare tra i servizi quelli che debbono conservare la necessaria efficienza - e che sono poi quelli essenziali - e quelli suscettibili di essere sospesi o ridotti”.
[4] P. Curzio, op. cit., 34 ss.
[5] Per una ricostruzione dell’iter si v., fra tanti, M. Rusciano – G. Santoro Passarelli (a cura di), Lo sciopero nei servizi essenziali, Giuffrè, Milano, 1991; U. Romagnoli – M. V. Ballestrero, Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servi pubblici essenziali,Zanichelli – Foro It., Bologna – Roma, 1994.
[6] Basti ricordare, il IX Congresso AIDLLASS, tenutosi a Fiuggi, 8-10 aprile 1988: gli atti sono raccolti in Lo sciopero: disciplina convenzionale e autoregolamentazione nel settore privato e pubblico, Giuffrè, Milano, 1989.
[7] La l. n.146/1990 è stata novellata nel 2000, sia a causa delle sentenze della Corte costituzionale nn. 114/1994 e 171/1996 concernenti l’astensione collettiva dei lavoratori autonomi operanti nell’ambito dei servizi essenziali, sia perché i primi 10 anni di vigenza avevano messo in luce alcune questioni irrisolte, come quid iuris nel caso in cui non ci fosse un accordo sulle prestazioni essenziali. Comunque, per il profilo che stiamo trattando, le modifiche sono marginali e non attengono ai nodi che qui ci interessano. Per un approfondimento v. M. D’Onghia – M. Ricci (a cura di), Lo sciopero nei servizi essenziali, Giuffrè, Milano, 2003
[8] La novella si caratterizza per un maggiore tasso di eteronomia: G. Ghezzi, La Commissione di garanzia nella legge di riforma tra profili funzionali e dinamica delle istituzioni, in ADL 1, 2001, p.2. V. anche G. Orlandini, Sciopero e servizi pubblici essenziali nel processo di integrazione europea, Giappichelli, Torino, 2003, p. 102; E. Ales, Sciopero ultima ratio e principio di libertà sindacale: spunti di riflessioni sulle conseguenze dell’introduzione delle procedure obbligatorie di raffreddamento e conciliazione nei servizi essenziali in Rappresentanza, rappresentatività, sindacato in azienda e altri studi. Studi in onore di Mario Grandi, Cedam, Padova, 2005, p.3.
[9] Sebbene possa sembrare superfluo ribadirlo, è opportuno tener presente che, dal punto di vista materiale, per ogni singola lavoratrice o singolo lavoratore, lo sciopero è sempre ultima ratio, poiché comporta il sacrificio della perdita della retribuzione.
[10] Sulle difficoltà di inquadrare la Commissione di garanzia, v. in una prospettiva giuslavoristica V. Pasquarella, La regolazione amministrativa nel diritto del lavoro tra Authorities e Agencies, Cacucci, Bari, 2018; per una valutazione dell’originario operato della Commissione, si v., volendo, M. McBritton, Sciopero e diritti degli utenti, F. Angeli, Milano, 1995.
[11] M. D’Onghia, Precettazione e sciopero: il rapporto con le tradizionali ordinanze di necessità e urgenze in M. D’Onghia – M. Ricci (a cura di), Lo sciopero nei servizi essenziali, cit. p. 253 ss., a cui si rinvia anche per l’ulteriore bibliografia.
[12] La stima è che “lo sciopero può determinare fino al 25% delle cancellazioni per i treni Freccia, 20% intercity e 15% per i treni internazionali, nonché tra il 20% ed il 40% dei treni regionali, e che sono presumibili effetti anche per il giorno seguente lo sciopero, visti i turni degli equipaggi e del materiale rotabile, con possibili cancellazioni e forti ritardi di circa il 15% dell’offerta in fascia mattutina fino alle ore 12.00.”
[13] V. M. G. Garofalo, Forme anomale di sciopero, in digesto disc. Priv. – sez. comm. V.VI, p. 278. Ora anche in M. Barbieri – R. Voza (a cura di), Gianni Garofalo. Il pane del sapere, Ediesse, Roma, 2013.
[14] V. U. Carabelli, Europa dei mercati e conflitto sociale, Cacucci, Bari, 2009; A. Vimercati (a cura di), Il conflitto sbilanciato: libertà economiche e autonomia collettiva tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali, Cacucci, Bari, 2009; M. Rusciano, Diritto di sciopero e assetto costituzionale, in RIDL,2009, I, p. 49 ss.
[15] V. M. McBritton, Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali: tendenze giurisprudenziali, in Serta iuridica – Scritti dedicati dalla Facoltà di Giurisprudenza a Francesco Grelle, ESI, 2011, I, p. 365 ss. Sul metodo concertativo v. L. Bellardi, Concertazione e contrattazione. Soggetti, poteri e dinamiche regolatrici, Cacucci, Bari, 1999.
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È un bel dire che gli uomini si differenziano dagli altri animali per le capacità logiche.
Molti e importanti studiosi attribuiscono anche ai nostri parenti stretti la facoltà di apprendere e generalizzare sulla base dell’esperienza. Il fatto è che l’uomo intanto è tale in quanto non solo apprende, codifica ed elabora, ma anche conserva, modifica ed è in grado di recuperare pure quello che pensava di aver dimenticato.
Grande miracolo la memoria! Se uno riflette, si rende conto che l’uomo è l’unico essere a potersi definire historicus, proprio perché solo lui, e non gli altri animali, è in grado di recuperare il suo passato, di attingerlo, aprendo quello scrigno con chiavi del tutto originali che ne rendono possibile la lettura.
È necessario, infatti, distinguere la memoria individuale da quella collettiva.
Sul piano soggettivo essa è alimentata da esperienze e stati d’animo, da rappresentazioni acquisite o in via di acquisizione; sul piano sociale la memoria collettiva diventa necessariamente storia.
Il pestaggio e la morte di G. Matteotti sono storia dolorosa e presente come non mai nel vissuto del nostro Paese.
Fin da giovane egli aveva aderito al socialismo e nel 1922, espulso dal partito socialista italiano, con i riformisti ancora vicini al pensiero di Filippo Turati, contribuì alla fondazione del partito socialista unitario e ne divenne segretario. Nel periodo della sua formazione culturale e politica aveva sicuramente individuato i limiti delle costruzioni teoriche del socialismo ottocentesco e condiviso la critica marxiana alle astrattezze ideologiche di quei socialisti utopisti del tutto incapaci di un’analisi scientifica delle condizioni reali delle società esistenti e perciò incapaci di individuare gli strumenti idonei a modificarle.
Già nel 1921 Matteotti aveva pubblicato una “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia” pienamente consapevole che l’ordine e la ripresa economica e sociale dell’Italia dopo la guerra non potevano realizzarsi con l’arma dello squadrismo e della repressione di ogni forma di dissenso. Sicuramente una risposta a tutti coloro che giustificavano squadrismo e repressione dopo il biennio rosso che tra il 1919 e il 1920 aveva coinvolto nella lotta politica masse di operai e contadini fino all’occupazione delle fabbriche dall’agosto al settembre del 1920 che ne segnò, insieme, l’apice e la fallimentare conclusione. Tanto che Giorgio Amendola nella sua Intervista sull’antifascismo comparsa nel 1976 definisce biennio rosso-nero quel periodo perché in esso si ebbe un processo di radicalizzazione a sinistra e di corrispondente reazione a destra.
Certo, è ormai opinione quasi del tutto condivisa che non vi era mai stato il pericolo reale di una rivoluzione proletaria: nessuno l’aveva promessa e nessun partito avrebbe potuto guidarla.
La classe operaia ne uscì sconfitta e le classi padronali avevano ricevuto “la scossa di chi è stato rasentato dalla morte”.
Così il fascismo diventò un partito e il partito dell’ordine che, per dirla con Benedetto Croce, una volta “normalizzato” avrebbe garantito il ritorno ad un forte e rinnovato stato liberale. Il grande filosofo dei “distinti” mantenne una posizione di attesa e di fiducia anche quando nel 1923 fu votata la legge Acerbo che attribuiva i due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa e in vista delle elezioni del maggio 1924 nacque il Listone, ovvero un’alleanza larga che si poneva al di sopra dei partiti: ne fecero parte liberali come Salandra, nazionalisti, monarchici, ex popolari.
I fascisti ottennero il 65% dei voti e tra le opposizioni solo i popolari ebbero una tenuta elettorale.
Il 30 maggio G. Matteotti denuncia i brogli elettorali e nel suo famoso discorso (che i giovani dovrebbero leggere e commentare a scuola e in famiglia), chiede formalmente alla Camera di non convalidare le elezioni avvenute.
Il 10 giugno viene rapito, pestato a sangue e ucciso da cinque squadristi al comando di Amerigo Dumini.
Sepolto in un bosco a pochi chilometri da Roma, il corpo fu ritrovato circa due mesi dopo il 16 agosto 1924.
La risposta delle opposizioni all’assassinio di Matteotti fu l’abbandono dei lavori parlamentari, la cosiddetta secessione dell’Aventino, con la speranza che la protesta potesse suscitare la reazione morale del Paese. Gramsci e i comunisti ritennero del tutto improbabile sul piano politico una protesta morale senza la mobilitazione delle masse.
Non ci fu né l’una né l’altra e col discorso del 3 gennaio del 1925 il fascismo, per dirla con Renzo de Felice, diventò un vero e proprio regime.
Tutto il percorso verso il consolidamento del regime con le leggi fascistissime, parte da quel pestaggio, da quel supplizio, da quel corpo sfigurato e restituito ormai decomposto come un Cristo privo di sudario.
Nell’attuale temperie storica è possibile che si instaurino sistemi autoritari attraverso il pestaggio, la repressione violenta del dissenso, perfino l’assassinio politico?
È davvero morta la bella utopia, quella che ogni cittadino della polis deve coltivare per trasformare e migliorare il mondo in cui vive?
I sistemi democratici sono in grado di arginare la spinta delle destre autoritarie?
Ritorna la lezione di K. Popper contenuta ne “La società aperta e i suoi nemici”, un testo scritto tra il 1944/ 45 mai come oggi tanto attuale proprio perché l’autore rifiutava gli schemi rigidi, i sistemi pre-costruiti, in una parola gli archetipi. Quelli che si sono nutriti di tali pensieri guardano con dolore alla società contemporanea aperta solo in apparenza, un mondo in cui si afferma la legge del più forte come se fosse la più naturale delle soluzioni, in cui la sopraffazione e l’ingiustizia producono guerre e lutti senza fine. H. Marcuse negli anni ’60 rifletteva sulla “fine dell’utopia”. Si trattava. allora, per il filosofo francofortese di dare forza e concretezza ai movimenti giovanili.
Oggi, forse, si tratta di trasformare in azione politica concreta le istanze che provengono non solo dai giovani consapevoli, ma da tutti quei movimenti che pongono al centro delle rivendicazioni i problemi reali del sottosviluppo, delle emarginazioni, delle ingiustizie sociali.
I sistemi democratici non nascono una volta e per sempre, vanno costruiti e ricostruiti ogni giorno.
E ciò vale ancor più quando assistiamo a manifestazioni di intolleranza e di conflittualità tra istituzioni e società civile.
M. Weber ne “La politica come professione” scrive che c’è una differenza assoluta tra l’agire secondo convinzione e l’agire secondo responsabilità. Nel primo caso chi opera si preoccupa appunto dei principi in base ai quali agisce e non si cura allo stesso modo delle conseguenze del suo agire; nel secondo caso chi agisce guarda contemporaneamente agli effetti prevedibili dell’azione e se ne assume la responsabilità. Dunque i politici in modo particolare dovrebbero informare le proprie scelte e le azioni conseguenti ai principi costituzionali e all’etica della responsabilità. Non che sia pacifica e semplice questa sintesi.
S. Hampshire in “Non c’è giustizia senza conflitto” partendo dall’assunto di Eraclito: "[…] occorre sapere che la giustizia è conflitto[…]” sostiene che la conflittualità, cioè l’ambivalenza è propria dell’anima umana ed è propria della città. Posto che la giustizia è l’armonia delle parti e degli elementi ed essa è imposta dalla ragione, si tratta di vedere come operativamente si possa superare il conflitto. Il filosofo invoca per il superamento di ogni controversia procedure concordate e istituzionalizzate che sostituiscano la forza bruta, il dominio, la tirannia. Secondo il filosofo analitico inglese il problema irrisolto del nostro tempo è la relazione tra due tipi di società: da un lato la società e i governi consapevolmente tradizionali in cui preti, rabbini, imam o mullah ed altri esperti del volere divino mantengono e impongono un unico pensiero e le società e i governi democratici che permettono la pluralità dei pensieri e dei punti di vista.
Ora proprio i paesi democratici possono pretendere che debba esistere un’unica concezione “buona” dei valori, cioè la propria?
L’articolo 17 della nostra Costituzione recita che i cittadini hanno il diritto di riunirsi pacificamente e senza armi; l’articolo 21 aggiunge che tutti i cittadini hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
In una democrazia matura non sarebbe dovuto accadere quello che è accaduto ultimamente nelle strade di Pisa e Firenze dove giovani liceali a volto scoperto, con lo zaino in spalla e le belle utopie nel cuore manifestavano liberamente, sicuri di essere protetti e non barbaramente manganellati. È intervenuto, sdegnato, il Presidente della Repubblica rivolgendosi al Ministro degli Interni: "con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”. E il Ministro: "cortei non autorizzati. Abbiamo difeso il Consolato Usa e la Sinagoga".
Da chi? Si domanda il cittadino italiano, da chi dobbiamo difenderci?
Dalla partecipazione alla vita pubblica, dall’entusiasmo in parte ritrovato dei nostri giovani, dobbiamo forse difenderci dal dissenso?
Il pestaggio e il sangue sul viso di quei ragazzi sono il vecchio-nuovo segno del nostro tempo?
Il fenomeno degli infortuni sul lavoro è da lungo tempo un’emergenza, silente ma drammatica, del nostro Paese.
Secondo dati pubblicati dall’INAIL, negli ultimi cinque anni ci sono stati in media in Italia circa 645.000 infortuni sul lavoro ogni anno.
Di questi, 1072 sono infortuni mortali. Il nostro paese paga un tributo di oltre mille morti l’anno sul luogo di lavoro. Quasi 50 l’anno (217 nei cinque anni) degli infortuni mortali riguarda ultrasettantenni.
La nostra rivista inizia con questo articolo una serie di riflessioni che riguarderanno gli aspetti più problematici della attuale normativa penale antinfortunistica e alcune linee di tendenza della legislazione più recente, oltre a dei fenomeni attuali – quali il caporalato e la precarietà del posto di lavoro – che sembrano avere alterato il sinallagma del rapporto di lavoro in senso (ulteriormente) sfavorevole al lavoratore con conseguenti ricadute sulla sicurezza del luogo di lavoro.
Si esamineranno le problematiche specifiche delle indagini in questo delicato settore ed alcuni dei processi più sintomatici, l’importanza della prevenzione e la particolare declinazione della tutela della salute dei lavoratori nella Pubblica amministrazione, la tematica della corretta individuazione del garante del rischio lavorativo e la sicurezza del lavoro nelle società cooperative.
La legislazione in materia antinfortunistica: uno sguardo alle recenti modifiche ed all’efficacia complessiva del sistema
di Maria Laura Paesano
Sommario: 1. I numeri della prevenzione e sicurezza. – 2. L’impianto normativo della prevenzione e sicurezza. – 3. Le recenti modifiche al TU sulla Sicurezza. Edifici scolastici e studenti in alternanza scuola-lavoro. – 4. Segue - Lavoratori autonomi e fornitori di macchinari. Datore di lavoro. Medico competente. - 5. La resa complessiva del sistema di tutele.
1. I numeri della prevenzione e sicurezza.
Sempre di grande impatto è la lettura annuale dei numeri degli incidenti sul lavoro, delle morti e delle malattie professionali.
Le denunce di infortunio presentate all’Inail entro il mese di agosto 2023 sono state 383.242, in calo rispetto alle 484.561 dei primi otto mesi del 2022 (-20,9%), in aumento rispetto alle 349.449 del 2021 (+9,7%) e alle 322.132 del 2020 (+19,0%), e in diminuzione rispetto alle 416.894 del 2019 (-8,1%).
Quelle con esito mortale presentate nei primi otto mesi del 2023 sono state 657, ossia 20 in meno rispetto alle 677 registrate nel periodo gennaio-agosto 2022, 115 in meno rispetto al 2021, 166 in meno rispetto al 2020 e 28 in meno rispetto al 2019[1].
Se si entra nel dettaglio statistico, il calo rilevato nel confronto tra i primi otto mesi del 2022 e il 2023 è legato solo alla componente femminile, i cui casi mortali denunciati sono passati da 69 a 48, mentre per quella maschile si registra un aumento, da 608 a 609. In calo risultano le denunce dei lavoratori italiani (da 549 a 531) e dei comunitari (da 37 a 32), in aumento quelle degli extracomunitari (da 91 a 94).
Dall’analisi per classi di età, si registrano aumenti tra gli under 25 (da 32 a 49 casi) e tra i 60-74enni (da 137 a 147) e diminuzioni nella fascia 30-59 anni (da 462 a 419).
Da questo quadro emerge con chiarezza come, nonostante qualche riduzione complessiva, le categorie più a rischio infortuni restino - anzi siano le uniche ad aumentare - quelle dei lavoratori extracomunitari, dei lavoratori molto giovani e dei lavoratori molto anziani.
Aumentano invece drasticamente per tutte le categorie le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail: nei primi otto mesi del 2023 sono state 48.514, oltre novemila in più rispetto allo stesso periodo del 2022 (+23,2%). L’incremento è del 32,9% rispetto al 2021, del 74,8% sul 2020 e del 18,2% rispetto 2019[2].
Per quanto si registrino oscillazioni talvolta positive, i risultati complessivi assicurati dal sistema di prevenzione e tutele sono ben lontani dall’essere soddisfacenti in un Paese che ha una legislazione nazionale adeguata agli standard europei e saperi avanzati in materia di sicurezza sul lavoro.
A cadenza periodica, spesso in coincidenza con incidenti o vicende che scuotono l’opinione pubblica, il legislatore interviene a disciplinare aspetti specifici e settoriali che vanno ad incidere sul sistema di prevenzione e sicurezza garantito dal TU in materia di sicurezza, nel tentativo di rafforzarne l’effetto complessivo.
Infatti “il vero nodo” nei percorsi di incremento della tutela della salute dei lavoratori sui luoghi di lavoro è nella garanzia di effettività di quelle tutele, ossia sul piano dell’efficacia più su quello della astratta previsione normativa.
Il fulcro del sistema di tutela approntato dal legislatore risiede nella validità del modello di organizzazione adottato che diviene anche elemento essenziale ai fini della individuazione dei soggetti passivi (lavoratori) ed attivi (datori di lavoro) dell’obbligo di sicurezza [3].
2. L’impianto normativo della prevenzione e sicurezza.
Nell’impianto normativo del TU sulla Sicurezza D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e ss.modd, il primo soggetto al quale spetta una posizione originaria di garanzia in materia di prevenzione e sicurezza è il datore di lavoro secondo un’accezione non solo formale, che lo identifica nel titolare del rapporto di lavoro, ma soprattutto in termini di effettività[4] ossia quel soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione (anche nelle pubbliche amministrazioni), ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva, in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (criterio funzionale o sostanziale).
Il datore di lavoro resta la figura centrale di riferimento della tutela della sicurezza secondo un’accezione di natura contrattuale che trova la sua origine e, al contempo, la sua funzione di norma di chiusura generale, nell’art. 2087 c.c., interpretata come obbligo accessorio di protezione discendente dai doveri generali di correttezza e buona fede[5].
Ma la prospettiva a cui si riferisce il TU è quella di un datore di lavoro organizzato, che gestisce, è inserito e si avvale a sua volta di una rete di collaboratori e di un sistema di valutazioni, controlli e vigilanza che, una volta validamente approntato, non solo dovrebbe scongiurare il rischio per l’incolumità e salute dei lavoratori ma dovrebbe anche essere idoneo a tenerlo indenne dalle responsabilità conseguenti agli eventi lesivi o nocivi, in primis di carattere penale.
Il datore di lavoro previsto dal TU, quindi, non è soltanto tenuto al rispetto delle norme sulla prevenzione e sulla sicurezza ma deve anche dotarsi di un apparato organizzativo per la gestione dell’attività, i cui caratteri sono stabiliti a monte dal legislatore in maniera rigida ma che possono anzi debbono variare a seconda della complessità della struttura di riferimento e del tipo di attività o lavorazioni che si svolgono nel luogo di lavoro.
Compiti fondamentali del datore di lavoro, come tali non delegabili secondo l’impianto normativo (art. 17), sono la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori con la conseguente elaborazione del relativo documento e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione una volta che sia stato obbligatoriamente istituito.
Il datore di lavoro, questa volta anche tramite l’eventuale delegato alla sicurezza, deve fornire ai lavoratori una preventiva e adeguata formazione ed una completa informazione su tutti i rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi all’attività dell’impresa.
Il modello di organizzazione e di gestione idoneo deve essere adottato ed efficacemente attuato assicurando un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi a: attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione; emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, etc.; sorveglianza sanitaria; informazione e formazione dei lavoratori; rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro; acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; verifiche dell'applicazione e dell'efficacia delle procedure adottate. Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sulla sua attuazione.
La ricostruzione dell’organizzazione, delle concrete attività che si svolgono in un luogo di lavoro, dei rischi che esse comportano, dello studio preventivo e delle ricadute sull’assetto complessivo delle competenze, dell’assolvimento degli obblighi di formazione ed informazione, sono aspetti imprescindibili di qualunque istruttoria che, principalmente in ambito penale, intenda risalire ai concreti ed effettivi comportamenti (per lo più) colposi del soggetto a cui essi siano riconducibili per rimanere ancorati al principio costituzionale della responsabilità personale.
Il datore di lavoro, peraltro, non ha discrezionalità nella gestione della sicurezza sul lavoro secondo modelli organizzativi che gli siano più congeniali: gli articoli 28 e 29 del TU gli impongono di procedere preventivamente alla individuazione e valutazione di tutti i rischi aziendali, che verranno poi riprodotti nella redazione del “Documento di valutazione”, che contiene le misure di prevenzione che è necessario adottare sulla base dei rischi rilevati.
La redazione del documento di valutazione dei rischi e l'adozione di misure di prevenzione non escludono peraltro la responsabilità del datore di lavoro quando, per un errore nell'analisi dei rischi o nell'identificazione di misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione[6].
Recentemente, il D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2021, n. 215, dimostrando come sia stata compresa la fondamentale importanza per la prevenzione della effettiva conoscenza, “sul campo” delle condizioni di lavoro e della sicurezza, ha rafforzato il ruolo ed i poteri del “preposto” attribuendogli facoltà di segnalazione e financo di interruzione temporanea delle attività nel caso di mancato rispetto o di ravvisato rischio per l’incolumità dei lavoratori.
Il TU Sicurezza, oltre ad avere individuato i soggetti originariamente provvisti di una posizione di garanzia per così dire assimilabile a quella datoriale (dirigente e preposto), ha anche enucleato altri protagonisti della prevenzione e sicurezza.
Uno dei pilastri del sistema della sicurezza è costituito infatti dall’istituzione del servizio di prevenzione e protezione, interno o esterno all’azienda, che ha funzioni di consulenza del datore di lavoro, il cui responsabile è in generale esonerato da responsabilità diretta a meno che non emerga che la falla al sistema di sicurezza sia da ricondurre ad un suo difetto di valutazione e di comunicazione[7].
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ambientale, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e, ove previsto, il medico competente, hanno quindi tutti funzione di collaborazione con il datore di lavoro, per garantire un sistema articolato e composto di tutele.
Recenti modifiche normative al TU sono intervenute nell’anno appena passato.
Tra le disposizioni di maggior interesse vi sono quelle che integrano i doveri previsti a carico del datore di lavoro, attraverso l’inserimento di alcuni nuovi adempimenti: nominare il medico competente (per il quale sono stati introdotti, a sua volta, nuovi obblighi); provvedere alla propria formazione ed addestramento specifico ai fini dell'utilizzo di attrezzature che richiedono conoscenze particolari. Ancora, sono stabiliti obblighi di sicurezza a carico del noleggiatore di macchinari. Infine, sono inserite norme in materia di sicurezza degli edifici scolastici e di sicurezza per gli studenti che siano in attività di alternanza scuola-lavoro, queste ultime individuate come risposta alle recentissime vicende che hanno annoverato fra i morti sul lavoro anche giovanissimi studenti.
3. Le recenti modifiche al TU sulla Sicurezza. Edifici scolastici e studenti in alternanza scuola-lavoro.
L’art. 14 del D.L. 4 maggio 2023, n. 48 “Decreto Lavoro”, convertito con modificazioni con legge 3 luglio 2023, n. 85 (GU 3 luglio 2023, n. 153), interviene direttamente su alcune norme del D.Lgs. n. 81/2008 e ss.modd.
Si tratta di un intervento legislativo che non ha nessuna pretesa di organicità e mira a correggere alcuni profili specifici della sicurezza.
Per quanto concerne la sicurezza degli edifici scolastici, l’art. 14, D.L. n. 48/2023, nel modificare l’art. 18, D.Lgs. n. 81/2008 e ss.modd., ha inserito il comma 3.3, che dispone che gli obblighi di sicurezza – che sono già previsti a carico delle amministrazioni tenute alla fornitura e alla manutenzione degli edifici scolastici statali - si intendono assolti con la valutazione congiunta dei rischi connessi a tali edifici e con l’individuazione delle misure necessarie a prevenirli di cui al precedente comma 3.2, alla quale sia seguita la programmazione degli interventi necessari nel limite delle risorse disponibili.
Un correttivo che appare più volto ad esonerare e liminare le responsabilità che ad aumentare la sicurezza delle strutture scolastiche.
Sembra di poter dire, infatti, che l’adempimento degli obblighi imposti da parte delle amministrazioni che hanno redatto la valutazione congiunta, individuato le misure e programmato gli interventi nel limite delle risorse, ossia “a costo zero”, non dia alcuna certezza che quanto sia necessario per la sicurezza delle scuole venga effettivamente e tempestivamente realizzato.
L’efficacia della tutela non potrebbe che basarsi, al contrario, su un investimento di risorse specificamente finalizzate a rendere effettivi e pronti gli interventi strutturali che si dovessero rendere necessari.
Diversa è la questione delle tutele approntate per gli studenti in quanto inseriti in percorsi di scuola-lavoro a partire dal dato che, in questo caso, sono previsti nuovi stanziamenti economici.
L’art. 17, D.L. n. 48/2023 istituisce un Fondo per i familiari degli studenti vittime di infortuni in occasione delle attività formative, al fine di assicurare un contributo economico ai familiari degli studenti delle scuole o istituti di istruzione di ogni ordine e grado, anche privati, e delle Università, deceduti a seguito di infortuni occorsi, successivamente al 1° gennaio 2018, durante le attività formative. La dotazione del Fondo sarà pari a 10 milioni di euro per l’anno 2023 e 2 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2024.
Lo stesso art. 17 interviene a revisionare, integrandola, la normativa vigente sui percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (PCTO), con obiettivi di maggiore coerenza dell’offerta formativa rispetto all’indirizzo scolastico scelto dallo studente, di migliore informazione sui dispositivi di sicurezza adottati e sulle specifiche misure di prevenzione necessarie, anche per la identificazione immediata dello studente e di maggiore trasparenza e conoscibilità dei PCTO e dei percorsi formativi da svolgersi presso le imprese che aderiscono ai progetti di inserimento scuola-lavoro. Il registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro, istituito presso le Camere di commercio, e la piattaforma dell’alternanza scuola-lavoro, istituita presso il Ministero dell’istruzione e del merito, ridenominata “Piattaforma per i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, dovranno assicurare, infatti, l’interazione e lo scambio di informazioni e di dati per l’individuazione degli enti e delle imprese, le modalità di svolgimento dei percorsi lavorativi e formativi, i periodi di tempo previsti, il numero massimo di studenti occupabili, etc.
Resta, sotto il profilo della sicurezza, il grande vulnus della estemporaneità e velocità della formazione, dell’inserimento necessariamente precario e non strutturato, di un duplice ruolo del soggetto destinato alle attività che pare difficilmente conciliabile con quella assunzione di responsabilità, anche in proprio, del lavoratore che informa il sistema generale della sicurezza come previsto nel TU in funzione della organizzazione complessiva delle attività che si svolgono all’interno di un determinato luogo di lavoro[8].
4. Segue - Lavoratori autonomi e fornitori di macchinari. Datore di lavoro. Medico competente.
Anche per i lavoratori autonomi sono state introdotte nuove norme in materia di sicurezza con l’intento di avvicinare sempre più la prevenzione per queste categorie che si “auto organizzano” a quella dei lavoratori etero organizzati. In base all’art. 21 del TU Sicurezza su di essi gravavano già due specifici obblighi di sicurezza, ossia l’utilizzo di attrezzature idonee e conformi alle prescrizioni in materia di sicurezza e la dotazione ed impiego regolare dei dispositivi di protezione individuale.
Al fine di prevenire gli infortuni nei cantieri temporanei e mobili e soprattutto nei lavori in quota, è stato ora inserito, con l’art. 14 del D.L. n. 48/2023, l’obbligo di utilizzare idonee opere provvisionali quando si lavora nei cantieri edili e nei lavori in quota, ovunque essi si svolgano.
Questo specifico obbligo di sicurezza è attratto nell’orbita del penalmente rilevante in quanto la sua violazione ha come sanzione l’arresto fino a un mese o l’ammenda da 245,70 a 737,10 euro.
L’art. 72, comma 3 secondo periodo, a proposito degli obblighi già a carico dei fornitori (venditori, noleggiatori o concessionari in uso o locazione finanziaria), di macchinari e attrezzature, impone loro che d’ora in avanti dovranno acquisire e conservare agli atti, per tutta la durata del noleggio o della concessione in uso, una dichiarazione autocertificativa del soggetto che le riceve, che attesti l’avvenuta formazione e addestramento specifico, erogati conformemente alle disposizioni del TU.
La violazione di tali disposizioni costituisce illecito amministrativo, fermo restando che l’eventuale falsità della autodichiarazione integra il reato di cui all’art. 76 DPR n.445/2000.
Con riferimento agli obblighi del datore di lavoro che opera personalmente su attrezzature di lavoro che richiedono conoscenze particolari (art. 71, comma 7), l’art. 14, D.L. n. 48/2023 aggiunge il comma 4-bis all’art. 73, D.Lgs. n. 81/2008 e ss.modd. Anche il datore di lavoro, se fa uso di tali attrezzature per svolgere attività lavorativa, dovrà provvedere alla propria formazione e al proprio addestramento specifico, al fine di garantire l’utilizzo delle stesse in modo idoneo e sicuro, anche ottenendo le eventuali necessarie abilitazioni (es. “patentino”). In caso contrario, verrà penalmente sanzionato (con l’aggiunta fatta all’art. 87, comma 2, lett. c) con l’arresto da tre a sei mesi o con l’ammenda da 3.071,27 a 7.862,44 euro.
L’art. 15, D.L. n. 48/2023 dispone infine che, allo scopo di orientare l’azione ispettiva nei confronti delle imprese che evidenziano fattori di rischio in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, di lavoro irregolare ovvero di evasione od omissione contributiva, nonché di poter disporre con immediatezza di tutti gli elementi utili alla predisposizione e definizione delle pratiche ispettive, gli enti pubblici e privati condividano gratuitamente, anche attraverso cooperazione applicativa, le informazioni di cui dispongono con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro e le rendano altresì disponibili alla Guardia di Finanza.
L’articolo 14 comma 1, lettera a), amplia infine casi in cui il datore di lavoro e il dirigente sono obbligati alla nomina del medico competente in materia di sicurezza dei lavoratori; si introduce infatti l’ipotesi in cui la richiesta della nomina avvenga da parte dello stesso documento di valutazione dei rischi, fattispecie che si aggiunge alle ipotesi in cui essa sia richiesta dalla disciplina la sorveglianza sanitaria (la quale presuppone la nomina del medico). La violazione dell’obbligo in oggetto rientra nell’ambito delle sanzioni penali di cui all’articolo 55, comma 5, lettera d), del D.Lgs. n. 81 del 2008 e s.modd. - sanzioni costituite dall'arresto da due a quattro mesi o dall'ammenda da 1.691,99 euro a 6.767,95 euro.
La lettera c) integra la disciplina degli obblighi del medico competente, inserendo norme inerenti alla cartella sanitaria e di rischio rilasciata al lavoratore al momento di risoluzione del precedente rapporto di lavoro e all’esigenza di sostituzione provvisoria del medesimo medico.
5. La resa complessiva del sistema di tutele.
L’approccio al TU della Sicurezza, specialmente nelle sue disposizioni di dettaglio, determina sempre un certo senso di sperdimento per la puntigliosità delle previsioni e dei dettagli del “sistema finalizzato di organizzazione” che il datore di lavoro e i suoi omologhi o collaboratori sono tenuti ad assicurare.
Ancor più alla luce delle recenti modifiche normative, si presenta evidente lo scarto fra il rispetto rigoroso delle regole e la concreta prevenzione del rischio che richiede uno sforzo di responsabilità individuale e collettiva, in una rete di connessioni e di adempimenti che deve essere concepita come unitaria e condivisa da tutti coloro i quali, a diverso titolo, prendono parte al sistema.
Le recenti modifiche ed integrazioni sinteticamente innanzi descritte non fanno che aumentare e moltiplicare gli obblighi, non solo in maniera per nulla organica, ma riproponendo lo stesso schema di fondo che si è rilevato disfunzionale, ossia ponendo l’attenzione sul rispetto formale degli stessi piuttosto che sull’effettività del sistema di tutele, nell’illusione che il primo possa avere ricadute significative sul secondo.
Se da un lato si amplia per così dire la dimensione pubblicistica del sistema di prevenzione e sicurezza, che interviene finanche sullo stesso datore di lavoro imponendo obblighi “autotutelanti”, l’impressione che se ne ricava è che ancora una volta l’effetto che sembra voler perseguire il legislatore è quello di esonerare da responsabilità più che di prevenire con efficacia gli eventi lesivi.
Ma anche sulla responsabilità formale il difetto di armonizzazione, la sovrapposizione delle incombenze, la farraginosità degli adempimenti scevri da una necessaria operazione organica di aggiornamento che segua in maniera adeguata le novità tecniche degli strumenti di lavoro adottati[9], fa permanere un rischio di inadeguatezza, di un difetto ultimo di attenzione e di sforzo adattivo che incombe gravosamente sulla organizzazione datoriale.
A quest’ultima allora spetta – come ben sanno le realtà organizzative complesse che si dotano volontariamente di sistemi di sicurezza in termini di soft law ispirati agi standard europei della cd. “responsabilità sociale di impresa” (RSI) [10]– non tanto di recepire e farsi calare dall’alto il complesso farraginoso di adempimenti previsti dal legislatore, bensì di adattare il proprio sistema interno in maniera tale da conformare fin dall’inizio le attività lavorative in un complesso integrato e virtuoso di buone prassi – squadra di lavoro, interrelazioni fra lavoratori, inferenze fra imprese, interrelazione con l’ambiente (in termini anche di sostenibilità), rispetto dei diritti fondamentali etc.- che abbiano già inserito la sicurezza, ampiamente intesa, fra gli obiettivi prioritari.
La sicurezza e la prevenzione in tal modo non entrano come fattori esterni rallentanti - quando non paralizzanti - delle attività lavorative, ma come modalità intrinseche delle lavorazioni con efficacia modellante delle stesse anche nella direzione di una maggiore sostenibilità, di un maggiore benessere organizzativo, di una migliore produttività e, in finale, anche di un più alto livello di rendimento.
Solo un sistema di sicurezza integrato può consentire che le regole e le loro concrete applicazioni non vengano percepite come corpo estraneo e ostile ma virtuosamente conglobate nella organizzazione di impresa in termini qualitativi, laddove “rischio ed opportunità” diventano facce della stessa medaglia per assicurare che il sistema raggiunga i risultati preventivati, possa ridurre gli effetti indesiderati e possa garantire il suo costante miglioramento.
[1] Fonte Open data dal sito Inail al 12.12.2023.
[2] Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, quelle del sistema nervoso e dell’orecchio continuano a rappresentare, anche nei primi otto mesi del 2023, le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dai tumori e dalle patologie del sistema respiratorio.
[3] G. Natullo, Il quadro normativo in Salute e Sicurezza sul lavoro, Utet, 2015, p. 16 ss.
[4] “La previsione dell'art. 299 del TU (principio di effettività), elevando a garante colui che di fatto assume ed esercita i poteri del datore di lavoro, amplia il novero dei soggetti investiti della posizione di garanzia, senza tuttavia escludere, in assenza di delega dei poteri relativi agli obblighi prevenzionistici in favore di un soggetto specifico, la responsabilità del datore di lavoro, che di tali poteri è investito ex lege” (Cass. Sez. 4, 23/11/2021, Baccalini; Sez. 4, 6/4/2023, Di Rosa).
[5] S. Giubboni, Infortuni sul lavoro e responsabilità civile, in Infortuni sul lavoro e malattie professionali, 3^ ed., Cedam, 2023, P. 362 ss.
[6] (così, per tutte, Cass. Sez. 4, 05/10/2021, Mara).
[7] “Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in quanto consulente del datore di lavoro privo di potere decisionale, risponde dell'evento in concorso con il datore di lavoro solo se abbia commesso un errore tecnico nella valutazione dei rischi, dando un suggerimento sbagliato od omettendo di segnalare situazioni di rischio colposamente non considerate” (Cass. Sez. 4, 17/10/2019, Moi)
[8] Da un’indagine dell’Osservatorio sui PCTO, pubblicata il 28.4.2023 nel portale Skuola.net, proprio nella Giornata dedicata alla Sicurezza sul Lavoro e costruito interpellando 2.500 alunni dell’ultimo triennio delle scuole superiori, è emerso che “un quinto degli studenti (19%) si è presentato sul luogo di lavoro senza aver svolto il corso apposito - erogato online dal Ministero dell'Istruzione e del Merito - e senza indicazioni, da parte delle realtà di approdo, sulle procedure da osservare. Solamente 1 su 3 ha potuto beneficiare di entrambi i percorsi formativi (corso online e approfondimento in loco), quasi la metà (47%) solo del corso ministeriale. E, tra chi si è trovato a svolgere mansioni "manuali", con l'utilizzo di macchinari o strumentazioni, il 17% ha temuto in almeno un'occasione per la propria incolumità e il 4% per buona parte della sua presenza in azienda”.
[9] G.M. Monda, La valutazione dei rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori, in L. Zoppoli, P. Pascucci, G. Natullo (a cura di), Le nuove regole per la salute e sicurezza dei lavoratori, Commentario al D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81. Aggiornato al D.Lgs. agosto 2009 m. 106, Ipsoa, 2010, p. 397 ss.
[10] V. S. Battistelli, Hard law e soft law alla prova della sicurezza sul lavoro negli appalti, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, 2019, 2, p. 29 ss. la quale, per definire il concetto di RSI richiama le definizioni che sono state formulate in sede comunitaria a partire dal “Libro Verde della Commissione del 18 luglio 2021” il cui punto 20 descrive la RSI come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”.
Sillogismi, inferenze e illogicità argomentative, nella prospettiva di sviluppo della discrezionalità tecnica nell’epoca dell’intelligenza artificiale. Nota a T.A.R. Lazio, sez. Quarta Ter, Ordinanza 27 luglio 2023, n. 4567
di Luca Gili e Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti
Con l’ordinanza 27 luglio 2023, n. 4567, emessa nel giudizio distinto con n. 9566/2023 reg. ric., il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Sezione Quarta Ter) ha respinto la domanda cautelare presentata dal partecipante ad un concorso bandito dal Ministero della Cultura nel giudizio per l’annullamento di una prova scritta concorsuale.
Il ricorrente agiva per l’annullamento degli atti con cui era stato disposto il mancato superamento, da parte sua, della prova scritta, derivato dal mancato raggiungimento nella valutazione, per un solo punto, della soglia di sbarramento.
La doglianza del ricorrente verteva specificamente su un quesito di “capacità logico deduttiva e di ragionamento critico-verbale”, per il quale la risposta fornita dal concorrente era stata considerata errata. L’Amministrazione chiedeva di identificare, tra una serie di risposte, quella che seguirebbe logicamente dall’enunciato: “se dici la verità, andrà tutto bene”. L’unica risposta corretta, secondo l’Amministrazione, era la seguente: “non è andato tutto bene, quindi non hai detto la verità”. Il ricorrente sosteneva invece che tale risposta fosse sbagliata e che fosse corretta invece quella da lui prescelta: “se non dici la verità le cose potrebbero andare male ma non necessariamente”.
Il caso permette di svolgere alcune considerazioni in ordine alla formulazione del quesito ed alla sua interpretazione da parte del concorrente, sia sotto il profilo logico-inferenziale, sia per quanto attiene i profili giuridici sottostanti alla formazione delle prove concorsuali che vengono somministrate ai concorrenti. I due aspetti vengono affrontati separatamente dai due autori, per i rispettivi profili di competenza.
Una analisi logica di un quesito a risposta multipla e di una ordinanza
Luca Gili
Prescindendo dalla validità della risposta prescelta dal ricorrente[i] (essa, infatti, all’interno della logica modale aristotelica, appare compatibile con l’affermazione contenuta nel quesito proposto dall’Amministrazione, e quindi seguirebbe logicamente da essa),[ii] l’ordinanza ha correttamente respinto il ricorso, entrando nel merito del quesito e argomentando che la risposta prescelta dall’Amministrazione era corretta. Ma se l’ordinanza è impeccabile nelle sue conclusioni e nel dispositivo che da esse dipende, ci sembra che l’argomentazione contenga più di una confusione di ordine logico, che questa nota si propone di dissipare.
Dopo aver correttamente sostenuto che il giudice amministrativo non può entrare nel merito della correttezza delle risposte selezionate da un gruppo di esperti, come più volte ribadito dalla Giurisprudenza (l’ordinanza richiama le sentenze n. 2296 e n. 2302 del 29 marzo 2022, e n. 531 del 16 gennaio 2022 della sesta sezione del Consiglio di Stato), il giudice prosegue chiarendo che in casi di manifesta illogicità il tribunale può intervenire. Non essendo presente alcuna irragionevolezza o incongruità nella risposta considerata corretta dalla Amministrazione, contrariamente a quanto sostenuto nella doglianza, il ricorso avrebbe senz’altro dovuto essere respinto, come effettivamente previsto dal dispositivo.
A questo proposito, tuttavia, occorre rilevare che l’argomentazione seguita dal TAR risulta assai difettosa dal punto di vista delle distinzioni e dei concetti logici richiamati.
Nell’ordinanza si legge quanto segue:
“la risposta considerata corretta dall’Amministrazione identifica, invero, l’esito di un ragionamento logico aristotelico, completando un sillogismo categorico o perfetto, ovverosia un discorso consequenziale che parte da due premesse, una maggiore – “se dici la verità” -ed una minore – “andrà tutto bene” – per arrivare all’unica conclusione logicamente necessaria: “non è andato tutto bene, quindi sicuramente non hai detto la verità”. Le due premesse, nel sillogismo perfetto qual è quello proposto al candidato dal quiz in contestazione, sono date per certe e portano deduttivamente ad una conclusione che è logica e necessaria. Tanto a differenza del sillogismo retorico (detto anche “dialettico”), diverso da quello categorico e perfetto somministrato al ricorrente, rispetto al quale, essendo le “premesse” date per probabili (e non per certe come nella fattispecie), avrebbe potuto essere valutata corretta, quale conseguenza deduttiva, una risposta probabilistica (“se non dici la verità le cose potrebbero andare male ma non necessariamente”) qual [sic] è quella prescelta dal ricorrente”.
In questo brano si riscontrano numerosi errori.
Innanzi tutto, il quesito proposto dalla Amministrazione non è un sillogismo aristotelico, perché l’argomento non rientra in nessuna delle tre figure del sillogismo descritte dallo Stagirita nei capitoli 4-7 del primo libro dei suoi Analitici Primi, ossia nel testo in cui viene esposta la dottrina del sillogismo categorico. Siamo piuttosto di fronte a un ragionamento di logica proposizionale ed è noto che Aristotele non ha sviluppato un calcolo proposizionale,[iii] che fu piuttosto il contributo che dopo di lui gli Stoici diedero alla storia della logica.[iv] In gergo tecnico, il quesito proposto dalla Amministrazione è una contrapositio e la sua validità riposa sulle tavole di verità dei connettivi logici (in particolare della negazione e della implicazione materiale). Dati due valori di verità per le variabili proposizionali (il Vero e il Falso) e una variabile proposizionale “p”, l’operatore di negazione (“non…”) è definito come segue:
p | Non p |
Vero | Falso |
Falso | Vero |
Date due variabili proposizionali “p” e “q”, l’implicazione materiale (“se…, allora…”) sarà invece definita come segue:
p | q | Se p, allora q |
Vero | Vero | Vero |
Vero | Falso | Falso |
Falso | Vero | Vero |
Falso | Falso | Vero |
Date queste definizioni, comunemente accettate nel calcolo delle proposizioni, e assegnata la lettera p all’enunciato “dici la verità” e la lettera q all’enunciato “andrà tutto bene”, il quesito e la risposta corretta scelti dall’Amministrazione formano il seguente enunciato:
Questo enunciato, noto come contrapositio, è vero in virtù delle definizioni dei connettivi logici (“non…” e “se…, allora…”) che in esso occorrono.
L’ordinanza fa riferimento erroneamente al sillogismo categorico che è identificato col sillogismo perfetto. Aristotele invece chiama “perfetti” o “completi” (teleioi) i sillogismi che non abbisognano di procedimenti ulteriori per mostrare la loro correttezza (si veda in proposito Aristotele, Analitici Primi, A 1, 24b23-24b26): tali sono, secondo lo Stagirita, i sillogismi di prima figura, ossia, secondo la nomenclatura tradizionale, Barbara, Celarent, Darii e Ferio. Il quesito proposto dall’Amministrazione non si configura come alcuno di questi sillogismi, anzitutto perché non è un sillogismo categorico. Se anche è vero che nella letteratura secondaria più datata il sillogismo categorico è stato presentato anche come una implicazione materiale,[v] le premesse figuravano nella protasi, laddove la apodosi conteneva soltanto la conclusione.
L’ordinanza oppone poi il sillogismo perfetto o categorico a quello retorico o dialettico. Anche in questo caso siamo di fronte a una serie di confusioni. Come si è detto, il sillogismo perfetto si oppone, al più, ai sillogismi imperfetti, cioè ai sillogismi che hanno bisogno di elementi ulteriori (ad esempio, di riduzioni alla prima figura) per dimostrare il carattere necessario del nesso inferenziale. Il sillogismo categorico, invece, si oppone ai sillogismi modali, che Aristotele tratta in Analitici Primi A, 8-22. Il sillogismo retorico secondo Aristotele è un entimema, ossia un sillogismo con una premessa implicita (cfr. Aristotele, Retorica, A, 1, 1354a12-1354a31), e non è sinonimo di sillogismo dialettico: la dialettica è anzi il “corrispettivo” della retorica nell’ottica di Aristotele e non si confonde con quest’ultima (cfr. Aristotele, Retorica, A, 1, 1354a1-1354a11). Se invece si guarda al contenuto delle premesse, come sembra voler fare l’ordinanza, abbiamo infine una opposizione tra sillogismo dimostrativo (con premesse vere e necessarie e conclusione necessaria) e sillogismo dialettico (con premesse “probabili” ovvero “endossali” – anche in questo caso la distinzione è tracciata da Aristotele in Analitici Primi, A, 1).
A questo punto però l’ordinanza commette un ulteriore errore che, se non pregiudica la correttezza della decisione di respingere il ricorso, ci appare però foriero di possibili decisioni sbagliate anche in sede giurisprudenziale, qualora il contendere vertesse non tanto sulla presunta scorrettezza della risposta scelta dall’Amministrazione, quanto sulla necessità di determinare se anche la risposta selezionata dal ricorrente sia corretta. L’errore dell’ordinanza, nel gergo logico, consiste nella confusione tra forma e materia dell’inferenza, ovvero tra la validità dell’argomento e la verità delle premesse e della sua conclusione. Un argomento probabile, se logicamente corretto, inferisce necessariamente una conclusione probabile, tanto quanto un argomento corretto con premesse necessarie e conclusione necessaria inferisce necessariamente la conclusione necessaria. Nel lessico medievale, si sarebbe detto che altra cosa è la necessitas consequentiae (ovvero la necessità dell’inferenza) e altra la necessitas consequentis (ossia la qualificazione della conclusione di un argomento come necessaria). In quest’ottica, anche se la conclusione “se non dici la verità le cose potrebbero andare male ma non necessariamente” è probabile, essa può comunque seguire necessariamentedall’enunciato proposto dall’Amministrazione nel quesito. Evitando il lessico fuorviante della probabilità scelto nell’ordinanza, potremmo piuttosto qualificare con un operatore modale di possibilità la conclusione considerata scorretta dalla Amministrazione ma prescelta dal ricorrente. L’intero enunciato, che includa il quesito dell’Amministrazione e la risposta prescelta dal ricorrente, sarebbe quindi il seguente:
L’inserzione dell’operatore di possibilità, come intravede la stessa ordinanza (“avrebbe potuto essere valutata corretta, quale conseguenza deduttiva, una risposta probabilistica”), complica le cose. Se l’Amministrazione avesse formulato il quesito senza di esso, la risposta prescelta dal ricorrente si qualificherebbe come una falsa contrapositio e sarebbe quindi scorretta nel calcolo classico delle proposizioni:
L’enunciato (iii) è falso in virtù delle definizioni date nelle tavole di verità già menzionate per i connettivi logici impiegati. Ma l’enunciato (ii), a ben vedere, potrebbe essere corretto in alcune logiche[vi]. E se l’enunciato (ii) è corretto in un modello di interpretazione del linguaggio adottato (come noi riteniamo che sia), l’intera consequentia sarà necessaria.
Ciò ovviamente non inficia il dispositivo dell’ordinanza, che rimane corretto nella sostanza. Ma come talvolta accade in una connessione sillogistica invalida, la conclusione è vera, ma non segue necessariamente dalle premesse, né le premesse assunte sono vere[vii].
Discrezionalità tecnica, prove concorsuali e uno sguardo sul contributo dell’Intelligenza artificiale.
Edgardo Marco Bartolazzi Menchetti
1. Il caso esaminato dal T.A.R. del Lazio offre spunti di riflessione sul procedimento di ragionamento sotteso alla predisposizione dei quesiti concorsuali. La fattispecie è già stata oggetto delle considerazioni compiute, sotto il profilo logico-critico, da Luca Gili, sicché pare interessante approfondire anche le prospettive che si delineano dal punto di vista giuridico, tanto più sotto una veste di attualità, data dall’incombente contributo che l’intelligenza artificiale potrà essere in grado di fornire in materia.
La predisposizione dei quesiti di cui si compone una prova concorsuale è un’attività che richiede il possesso di competenze qualificate, così come l’esame dei candidati che redigano un elaborato scritto, o che siano sottoposti ad una prova orale. Tali incombenti sono disciplinati dal D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, che nel testo come da ultimo modificato, in esito al D.P.R. 16 giugno 2023, n. 82, prevede, per quanto qui di rilievo, che le prove siano valutate da commissioni composte “da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti tra dipendenti di ruolo delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime” e che alle stesse commissioni sia demandata la preparazione delle tracce di ciascuna prova scritta, in numero di tre e che siano “elaborate con modalità digitale”.
La fase, eventuale, della “preselezione” viene adottata nelle prove concorsuali ove si preveda un significativo afflusso di candidati, al fine di rendere possibile alla commissione di procedere con gli esami, scritti o orali che siano, con adeguato tempo e approfondimento[viii]. Le indicazioni ministeriali mostrano che anche tali prove preselettive devono essere tuttavia costruite con criterio, dunque senza privilegiare coloro che abbiano “il tempo di svolgere uno studio mnemonico, che non necessariamente corrispondono a quelli più preparati e più capaci”, e includendo, al fine di valutare “non solo la preparazione, ma anche le capacità e le competenze” dei candidati, “sia quesiti basati sulla preparazione (generale e nelle materie indicate dal bando), sia quesiti basati sulla soluzione di problemi, in base ai diversi tipi di ragionamento (logico, deduttivo, numerico)”[ix]. I quesiti, sia nel caso di prova scritta o orale, che di preselezione scritta, vengono poi sottoposti ai singoli candidati mediante estrazione a sorte[x], con predisposizione casuale delle singole schede contenenti i quesiti a risposta multipla, e tramite sorteggio, da parte di almeno due candidati, delle tracce delle prove scritte.
2. Coerentemente con il quadro normativo delineato, dal quale emerge in particolare il necessario possesso, da parte dei membri della commissione, di specifiche competenze tecniche, l’operato del gruppo degli esaminatori, sia nella predisposizione dei quesiti, che nella correzione dell’elaborato con cui il candidato risponda ad essi, rientra, secondo quanto indicato dal T.A.R. del Lazio con l’ordinanza in commento, nell’esercizio della discrezionalità tecnica. Caratteristica principale di tale categoria è quella di essere, per definizione, sottratta al sindacato giurisdizionale in quanto avente ad oggetto valutazioni tese non ad apprezzare il pubblico interesse, ma soltanto un fatto, sotto i profili della tecnica, e inoltre non verificabile in modo indubbio[xi].
Va quindi evidenziato che il T.A.R. dapprima, riferendosi alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, rammenta che “rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione la corretta formulazione dei quesiti, con conseguente impossibilità per il giudice amministrativo di compiere un sindacato sulla esattezza delle risposte ritenute corrette dalla commissione di esperti che li ha elaborati”, facendone discendere che “in relazione alla elaborazione dei quesiti oggetto di prova concorsuale, sono rilevabili vizi di legittimità solo in presenza di veri e propri errori, che possano ritenersi accertati in modo inequivocabile in base alle conoscenze proprie del settore di riferimento e ferma restando la non erroneità di scelte discrezionalmente compiute, in rapporto alle peculiari finalità delle prove da espletare”. Successivamente, lo stesso Giudice, pur formalmente limitando la propria valutazione ad una disamina circa la possibile sussistenza di “manifesta irragionevolezza, illogicità e incongruità del quesito contestato”, afferma, nel merito, che “la risposta considerata giusta dall’Amministrazione appare, in effetti, come l’unica corretta e completa, costituendo, invece, le altre risposte dei meri “distrattori””.
3. La decisione si muove quindi sul sottilissimo confine tra discrezionalità tecnica nell’individuazione della risposta corretta di un quesito concorsuale, e possibilità di individuare con certezza, in applicazione delle semplici conoscenze proprie del settore, la soluzione. Nel caso considerato, il T.A.R. ritiene di poter individuare, in quella prescelta dall’Amministrazione, la risposta oggettivamente corretta, e così perviene al rigetto del ricorso.
Presupposto di tale operato è che il Tribunale abbia considerato l’individuazione della risposta corretta come possibile in maniera oggettiva, senza dunque “sconfinare nel merito amministrativo, ambito precluso al giudice amministrativo, il quale non può sostituirsi ad una valutazione rientrante nelle competenze valutative specifiche degli organi dell’Amministrazione a ciò preposti, e titolari della discrezionalità di decidere quale sia la risposta esatta ad un quiz formulato”[xii]. Spiega infatti la decisione in commento che “in relazione alla elaborazione dei quesiti oggetto di prova concorsuale, sono rilevabili vizi di legittimità solo in presenza di veri e propri errori, che possano ritenersi accertati in modo inequivocabile in base alle conoscenze proprie del settore di riferimento e ferma restando la non erroneità di scelte discrezionalmente compiute, in rapporto alle peculiari finalità delle prove da espletare”. La prospettiva corretta da assumere non è pertanto nel senso che il Giudice amministrativo può ritenere corretta una risposta ove essa sia oggettivamente individuabile, bensì che esso può censurare come illegittima l’attività di predisposizione della prova concorsuale ove la risposta individuata dall’amministrazione risulti, in maniera oggettivamente accertabile, errata.
Nel caso considerato, dunque, la risposta che l’amministrazione aveva individuato come corretta viene confermata dal T.A.R. in quanto inattaccabile. Infatti, dovendosi assumere, nel contesto del quesito, come vere le due premesse (se dici la verità / tutto andrà bene) risulta con esse logicamente compatibile, far discendere la conseguenza “non è andato tutto bene” dall’assunto “sicuramente non hai detto la verità”. Ciò è ritenuto sufficiente per considerare immune da censure l’operato della commissione.
4. La fattispecie esaminata, però, oltre a quelle propriamente logiche e giuridiche viste sopra, suscita riflessioni in prospettiva futura. In particolare, nell’epoca del digitale, ci si chiede se le stesse considerazioni potrebbero valere laddove i quesiti di una prova concorsuale vengano predisposti mediante strumenti “ad intelligenza artificiale”.
Nel caso in commento, infatti, il Tribunale Amministrativo è stato interessato della verifica circa la correttezza del ragionamento svolto da una commissione esaminatrice “umana”, per appurare che la risposta ad un quesito presentata come corretta dall’Amministrazione non potesse essere messa in discussione, ma analoga indagine potrebbe essere richiesta nel caso in cui un quesito fosse predisposto da un computer, a maggior ragione se vertente su quegli ambiti di ragionamento che, come indicato sopra, devono essere esaminati al fine di valutare non solo la stretta preparazione del candidato per la prova, ma anche le sue capacità e competenze parimenti “umane”.
4.1. Sul punto, va presupposto il richiamo a tutte le indicazioni già fornite dalla giurisprudenza amministrativa in tema di motivazione della decisione fondata su algoritmi, e pertanto la necessità che il criterio di “ragionamento” della macchina sia reso noto a chi debba subirne le conseguenze. La giurisprudenza del Consiglio di Stato[xiii] ha infatti ritenuto che “il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico” e che, conseguentemente, “il giudice deve poter sindacare la stessa logicità e ragionevolezza della decisione amministrativa robotizzata, ovvero della “regola” che governa l’algoritmo, di cui si è ampiamente detto”. Tale regola sembra infine poter essere specificata, secondo gli indirizzi espressi in tema di chiara e specifica individuazione del trattamento di dati personali compiuto da strumenti ad intelligenza artificiale, nel senso per cui a dover essere resi conoscibili “in chiaro” sono i dati di partenza considerati dalla macchina, e il procedimento con cui da essi si pervenga ad un risultato o si risolva un determinato problema[xiv].
4.2. A fronte della descritta situazione, la predisposizione di quesiti di prove concorsuali, a maggior ragione se “di logica”, da parte di sistemi ad intelligenza artificiale pone rilevanti interrogativi, fondati essenzialmente sulle modalità proprie di funzionamento di tali macchine.
Infatti, senza poterci addentrare più nello specifico data la profonda tecnicità del tema, da più parti si è osservato che quello che appare un “ragionamento” del software è in realtà la mera applicazione di criteri statistici, e il risultato di prove comparative che esso compie tra numerosissimi risultati, per individuare quale maggiormente si avvicini a quello che, sempre secondo statistica, e secondo le “nozioni” inserite ed eventualmente apprese, il sistema riconosca come più prossimo a quello individuabile come ottimale[xv], senza tuttavia comprendere effettivamente il significato dei dati oggetto di valutazione.
Studi molto noti hanno messo in luce che a questi sistemi manca ancora, ad esempio, la capacità di compiere valutazioni etiche, limiti che precludono – ancora – di assimilare il loro operato a quello della mente umana[xvi].
Deve quindi ritenersi, in una prospettiva tecnica ancor prima che giuridica, che la predisposizione di quesiti in particolari ambiti, ove possano assumere un rilievo maggiore le valutazioni più strettamente logiche e causali, e non meramente nozionistiche, i quali dovrebbero essere comunque presenti secondo le vedute indicazioni ministeriali, potrebbe suscitare problemi ove demandata a meccanismi di intelligenza artificiale.
4.3. In tale prospettiva, risultano pienamente condivisibili e attuali, nonostante la velocità con cui il mondo della tecnologia evolve, gli indirizzi che emergono dalla giurisprudenza amministrativa, ma anche dalla produzione normativa, in fieri, interna e dell’Unione Europea.
Sotto il primo aspetto, può citarsi l’orientamento tracciato dal T.A.R. del Lazio[xvii], secondo cui l’utilizzo di procedure informatiche, rispetto ai procedimenti amministrativi, deve sempre collocarsi “in una posizione necessariamente servente rispetto agli stessi”. La stessa giurisprudenza, con notevole lungimiranza, ha infatti posto in rilievo l’importanza de “l’attività dianoetica[xviii] dell’uomo” nell’ambito dei procedimenti che richiedono, per l’adozione del provvedimento finale, un’attività “talora ponderativa e comparativa di interessi e conseguentemente necessariamente motivazionale”. Sembra di poter cogliere, in questo passaggio, un rinvio proprio a quegli studi, citati poco sopra, che sul presupposto del riscontro di una carenza razionale nel meccanismo di funzionamento delle attuali Intelligenze Artificiali[xix], si concentrano sulla ricerca di strumenti per dotare gli stessi software di capacità di inferenza causale.
Nello stesso senso si sviluppano le riflessioni contenute nel “Libro Bianco sull’Intelligenza artificiale” in corso di sviluppo da parte dell’Agenzia per l’Italia Digitale[xx], ove la soluzione etica per i problemi che l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale pone alla Pubblica amministrazione è rinvenuta nell’adozione di un approccio “antropocentrico, secondo cui l’Intelligenza Artificiale deve essere sempre messa al servizio delle persone e non viceversa”[xxi]. In senso analogo depongono le indicazioni provenienti dall’Unione Europea, che menziona tra i requisiti fondamentali delle applicazioni ad Intelligenza Artificiale, a maggior ragione se destinate all’impiego in procedure pubbliche, la presenza di “intervento e sorveglianza umani”, volti in particolare ad “aiutare le persone a compiere scelte migliori e più consapevoli nel perseguimento dei loro obiettivi”[xxii].
5. Sulle premesse esposte risulta, allo stato, che l’intervento e il controllo umano restano imprescindibili, sia nella predisposizione dei procedimenti che portano l’Intelligenza Artificiale agli esiti deduttivo-statistici suoi propri, che nella finale valutazione di tale risultato[xxiii].
Il che, tornando ai quesiti concorsuali oggetto della decisione in commento, porta a concludere che non sarebbe possibile, tantomeno con riguardo ad un quesito di logica, delegare interamente ad una macchina “non senziente” la predisposizione di un elaborato destinato a fungere da prova concorsuale. Sotto tutti i profili, dunque tecnico, giuridico e, infine, etico, morale e di dignità della persona umana, quest’ultima garantita da norme fondamentali[xxiv] e comunque considerata valore universale[xxv] - emergendo sotto tale aspetto il diritto dell’uomo ad essere giudicato da un suo pari[xxvi] - tutti gli indirizzi appaiono concordanti nel rendere necessario che il quesito sia predisposto dal pubblico incaricato, o comunque da esso validato mediante propria personale valutazione, compiuta alla luce delle specifiche conoscenze possedute, e dunque suscettibile di conferma e validazione nel sistema di riferimento.
La competenza umana, richiesta attualmente in capo all’esaminatore nella individuazione dei quesiti e delle risposte, e in futuro nella validazione di quelli eventualmente predisposti dall’intelligenza artificiale, resta pertanto, almeno allo stato, imprescindibile.
[i] Il punto, però, non è secondario. Il giudice ritiene che esista un’unica risposta corretta, ossia quella individuata dall’Amministrazione: “la risposta considerata giusta dall’Amministrazione appare, in effetti, come l’unica corretta e completa, costituendo, invece, le altre risposte dei meri “distrattori”, la cui funzione è proprio quella di “distrarre” il candidato dall’individuazione dell’unica risposta corretta”. A noi sembra che questa affermazione, che pure non inficia il dispositivo, sia contestabile.
[ii] L’argomento per validare la risposta scelta dal ricorrente, alla luce delle definizioni che saranno date nel seguito di questa nota, potrebbe essere il seguente:
1. Se (se p, allora q), allora (se non-p, allora o q o non-q). Tautologia
2. Se (se p, allora q), allora (se non-p, allora è necessario che sia possibile che [o q o non-q]). Da 1, sistema B di logica modale proposizionale
3. Se (se p, allora q), allora (se non-p, allora è possibile che [o q o non-q]). Da 2, per assioma modale T (eliminazione del necessario)
4. Se (se p, allora q), allora (se non-p, allora è possibile che [non-q]). Da 3, per la definizione aristotelica di “possibile”, in virtù della quale “è possibile x” se e solo se “è possibile x ed è possibile non-x”.
[iii] Si consultino, per questa affermazione, le classiche storie della logica di Jozef Bocheński (Formale Logik, Freiburg [CH] - Munich, K. Alber, 1956), di Martha e William Kneale (The Development of Logic, Oxford, Clarendon Press, 1962) e il manuale collettivo curato da Dov Gabbay e James Woods (Handbook of the History of Logic. Volume 1. Greek, Indian and Arabic Logic, Amsterdam, Elsevier, 2004).
[iv] Aristotele argomenta in Analitici Primi A, 23 che tutte le inferenze corrette possano essere ricondotte ad uno dei modi che rientrano nelle tre figure del sillogismo. Prout verba sonant, ciò significa che anche una inferenza di calcolo proposizionale debba in linea di principio essere ricondotta al sillogismo categorico, ma il ragionamento di Aristotele si muove soltanto all’interno della logica dei termini e non contempla affatto il calcolo proposizionale. Quando i commentatori di Aristotele si trovarono a discutere il teorema proposto in Analitici Primi A, 23 dopo l’introduzione del calcolo proposizionale da parte degli Stoici ebbero più di un problema a giustificare l’assunto dello Stagirita, tanto che Alessandro di Afrodisia (III sec. d.C.), ad esempio, sostenne che gli argomenti degli Stoici erano “superflui”, né potevano rientrare tra le inferenze definite da Aristotele in Analitici Primi A, 1, 24b19-24b22, perché non inferivano nulla di “nuovo” rispetto a quanto già contenuto nelle premesse (e la novità, per Alessandro che in questo è un fedele seguace dello Stagirita e della sua impostazione terministica, consiste in una nuova connessione predicativa tra termini). In questo modo non era negata l’affermazione che tutte le inferenze non superflue possono essere ricondotte alla forma sillogistica proposta in Analitici Primi A, 4-7. Intorno a tale problema ci sia permesso rimandare a L. Gili, La sillogistica di Alessandro di Afrodisia, Olms, Hildesheim, 2011.
[v] Si veda in particolare J. Łukasiewicz, Aristotle’s Syllogistic from the Standpoint of Modern Formal Logic, Oxford, Clarendon, 1957. L’impostazione di Łukasiewicz, che qui si richiama, in virtù del cosiddetto principle of charity, per segnalare l’approccio storiografico che più somiglia a ciò cui l’ordinanza sembra alludere, è oggi in larga parte abbandonata e la maggior parte dei tentativi di ricostruire il sillogismo aristotelico adottando i formalismi contemporanei ricorre alla deduzione naturale, presentando quindi il sillogismo categorico come una regola deduttiva in cui, date due premesse di una certa struttura, segue una conclusione di una certa struttura.
[vi] Si veda in proposito l’argomento esposto nella nota 2.
[vii] Si consideri il seguente argomento invalido.
Premessa maggiore: Qualche essere umano è un sasso
Premessa minore: Qualche sasso è razionale.
Conclusione: Tutti gli esseri umani sono razionali.
Il modo è invalido (in virtù della regola: nihil sequitur geminis ex particularibus unquam) e le premesse sono scorrette, ma la conclusione è vera. Il dispositivo dell’ordinanza non differisce molto dalla conclusione di questo esempio.
[viii] Secondo la direttiva n. 3 del 24 aprile 2018 del Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione, “La preselezione dovrebbe essere rivolta a selezionare un numero di candidati non talmente grande da rendere il concorso difficile da gestire e la preselezione inutile, né talmente piccolo da rendere poco competitivo lo svolgimento successivo del concorso”.
[ix] Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione, direttiva n. 3/2018, cit.
[x] Art. 12, D.P.R. n. 487/1997.
[xi] Cfr. A. Pubusa, (voce) Merito e discrezionalità amministrativa, in Dig. Disc. Pubb., IX, 1994, 411. Viene peraltro osservato che ove oggetto della valutazione fossero fatti semplici, verificabili in modo indubbio secondo le conoscenze tecniche e scientifiche, la tecnica diverrebbe fonte di regole obiettivamente verificate e comunemente accettabile, aprendo la possibilità del sindacato giurisdizionale (C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985, 1).
[xii] Cons. di Stato, sez. VI, sent. 29 marzo 2022, n. 2302, richiamata nella decisione qui commentata.
[xiii] Cons. di Stato, sentenza 8 aprile 2019, n. 2270.
[xiv] Cass., ord. 10 ottobre 2023, n. 28358, secondo cui “Ciò che rileva, invece, è che sia possibile tradurre in linguaggio matematico/informatico i dati di partenza, cosicché il tutto divenga opportunamente comprensibile alla macchina, grazie ai soggetti esperti programmatori, secondo le sequenze e le istruzioni tratte dai dati "in chiaro"”, e ancora, risulta necessario che il soggetto interessato “sia in grado di conoscere l'algoritmo, inteso come procedimento affidabile per ottenere un certo risultato o risolvere un certo problema, che venga descritto all'utente in modo non ambiguo ed in maniera dettagliata, come capace di condurre al risultato in un tempo finito”.
[xv] Interessanti, in merito, gli spunti forniti da A. D. Signorelli, Sarà mai realizzata un’intelligenza artificiale che pensa come una persona?, in Il Tascabile, 2021, che spiega, ad esempio, che quella che appare come intelligenza dei sistemi quali ad esempio GPT-3 è allo stato piuttosto il risultato “di un immenso taglia e cuci statistico”. Ulteriori indicazioni tecniche in questo senso in B. Bergstein, What AI still can’t do, in MIT Technology Review, 2020, che spiega che l’utilizzo tradizionale dell’IA è riconducibile alle tecniche di deep learning, con le quali, partendo da un enorme ammontare di dati relativi a situazioni familiari, si può pervenire a previsioni molto accurate, e che le sfide di questa tecnologia risiedono, ora nell’evoluzione della capacità di affrontare in maniera più approfondita i rapporti di causalità, divenendo in grado di comprendere l’evoluzione di situazioni molto più caotiche e imprevedibili, quali quelle riscontrabili nel mondo reale, e di formulare ipotesi sugli esiti dei differenti andamenti che una medesima situazione avrebbe potuto assumere. L’autore da ultimo citato pone altresì in luce la differenza nel procedimento di individuazione delle risposte mediante meccanismi correlativi e causativi, questi ultimi, inerenti la capacità di comprendere compiutamente meccanismi di causa ed effetto, approfonditi da J. Pearl, An introduction to causal inference, in The international Journal of Biostatistics, 2010 e ancora non suscettibili di efficace e concreta implementazione nei software ad intelligenza artificiale, pure oggetto di intensi studi, quali quelli rappresentati in E. Bareinboim-J. Pearl, Causal inference and the data-fusion problem, in PNAS, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 2016 o E. Bareinboim – J.D. Correa - D. Ibeling, On Pearl’s hierarchy and the foundations of causal inference, in Aa. Vv., Probabilistic and Causal Inference: The Works of Judea Pearl, New York, 2022, 507.
[xvi] G. Tamburrini, Etica delle macchine. Dilemmi morali per robotica e intelligenza artificiale, Roma, 2020.
[xvii] In particolare, T.A.R. Lazio - Roma, sentenza n. 9224 del 10.09.2018, che ha applicato principi già espressi in precedenti decisioni (T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III bis, sent. 20 luglio 2016, n. 8312; Cons. di Stato, Sez. VI, sent. 7 novembre 2017 n. 5136; T.A.R. Lazio – Roma, Sez. III bis, sent. 8 agosto 2018, n. 8902)
[xviii] Formula con evidente rinvio a quelle virtù proprie dell’intelletto umano secondo la dottrina morale aristotelica, che ne enumera cinque, ovvero: l’arte (τέχνη), la scienza (ἐπιστήµη), la saggezza pratica o prudenza (φρόνησις), l’intelletto (νοῦς) e la sapienza (σοφὶα).
[xix] Eloquente il passaggio in cui il TAR del Lazio indica che “Il Collegio è del parere che le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere” (sent. n. 9224/2018, cit.).
[xx] Reso disponibile per pubblica consultazione all’indirizzo https://whitepaper-ia.readthedocs.io/.
[xxi] AgID, Libro Bianco sull’Intelligenza artificiale, Cap. III, “Sfida 1: Etica”.
[xxii] Comunicato della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al comitato delle Regioni: Creare fiducia nell’intelligenza artificiale antropocentrica, COM/2019/168 final adottato il 08.04.2019, che prosegue specificando il requisito nei seguenti termini: “I sistemi di IA dovrebbero [..] promuovere lo sviluppo di una società fiorente ed equa sostenendo l'intervento umano e i diritti fondamentali e non ridurre, limitare o fuorviare l'autonomia umana”.
[xxiii] Anche su questo punto, sono particolarmente significative le osservazioni della giurisprudenza amministrativa, secondo cui il funzionario “deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso, all’uopo dominando le stesse procedure informatiche predisposte in funzione servente e alle quali va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo” (T.A.R. Lazio, sent. n. 9224/2018).
[xxiv] Quali l’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea,
[xxv] Così nella CEDU, come si desume dalla necessità di protezione del diritto alla vita “per il pieno riconoscimento della dignità inerente a tutti gli esseri umani” (Premessa al Protocollo n. 13 adottato a Vilnius il 3 maggio 2002), ma come è pure accettato dalla nostra giurisprudenza costituzionale (tra le ultime, Corte Cost., sent. 21 luglio 2023, n. 159, ove i più gravi crimini internazionali vengono indicati come “lesivi di valori universali come il rispetto della dignità umana e dei diritti umani”).
[xxvi] Può essere a questo proposito richiamato l’insegnamento di Montesquieu, che interrogandosi sulla legittimità della previsione per cui i Lords inglesi avrebbero potuto essere giudicati solo da una commissione di loro pari osservava che “I grandi sono sempre esposti all’invidia; e se fossero giudicati dal popolo, potrebbero correre pericolo e non godrebbero del vantaggio che ha il più piccolo dei cittadini di un paese libero, quello di essere giudicato dai suoi pari. Bisogna dunque che i nobili siano chiamati non davanti ai tribunali ordinari della nazione, ma davanti a quella parte del Corpo legislativo che è composto di nobili (lib. II, e. 6)” (così P.O. Vigliani, Questioni sulla giurisdizione penale del Senato del Regno, in Annali di giurisprudenza italiana, I, 1866/67, nt. 4).
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