ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Verso la positivizzazione di un nuovo diritto umano al clima stabile e sicuro? Prime riflessioni a caldo sulla sentenza della Corte CEDU del 9 aprile 2024[1].
di Antonietta Lupo
Sommario: 1. La prospettiva dei diritti umani nel contrasto al cambiamento: notazioni introduttive. – 2. La vicenda all’origine della sentenza. – 3. La rivoluzionaria decisione della Corte EDU: la protezione del clima è un diritto umano. – 4. Qualche riflessione conclusiva.
1. La prospettiva dei diritti umani nel contrasto al cambiamento climatico: notazioni introduttive.
A partire dalla pubblicazione del report dell’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite del 2009[2], la prospettiva dei diritti nel contrasto al cambiamento climatico ha acquisito una pregnanza tale da assurgere a principale e irrinunciabile ragione giustificativa di un processo bottom-up, promosso da numerose associazioni ambientaliste, Ong e comuni cittadini, di riconoscimento della “pretesa-diritto” ad un clima stabile e sicuro.
Si tratta, a ben vedere, di una richiesta ormai ampiamente radicata nella società civile, che, soprattutto nell’ultimo decennio, sembra aver acquisito – attraverso le tecniche ermeneutiche della giurisprudenza di molte Corti (per lo più domestiche) – un suo proprio crisma di legittimità, per via della riconosciuta rilevanza della ragione che la supporta, ovvero l’eliminazione di qualsiasi pericolosa interferenza delle attività antropogeniche sul sistema climatico, in quanto lesiva di diritti umani e/o fondamentali già convenzionalmente garantiti e riconosciuti sul piano etico-normativo.
V’è, tuttavia, da rimarcare che, nonostante un sempre più diffuso[3] “attivismo climatico giudiziario”[4] basato su un human rights approach, nel corpus juris del diritto oggettivo climatico, l’argomento dei diritti non trova, ancor oggi, alcun esplicito ancoraggio, con l’unica eccezione rappresentata da un passaggio nel Preambolo introduttivo dell’Accordo di Parigi del 2015, il quale prevede che le Parti, al momento di intraprendere azioni volte a contrastare i cambiamenti climatici antropogenici, dovrebbero «promuovere e prendere in considerazione i loro obblighi rispettivi nei confronti dei diritti umani, del diritto alla salute, dei diritti delle popolazioni indigene, delle comunità locali dei migranti, dei minori, delle persone con disabilità e delle persone in situazioni di vulnerabilità, nonché del diritto allo sviluppo, dell’uguaglianza di genere, all’emancipazione delle donne e all’equità intergenerazionale».
Considerata la mancanza di una effettiva cogenza dell’Accordo, ad oggi, il riferimento alla tutela dei diritti umani viene interpretato come una sorta di debole impegno indiretto degli Stati firmatari per indurli a consolidare il rispetto di tali diritti nella concretizzazione dell’obiettivo principale di mantenere entro i 2°C (e possibilmente entro i 1,5°C) l’aumento medio della temperatura terrestre[5].
Nello scenario, solo abbozzato in questa sede, si colloca la sentenza annotata, con la quale la Corte europea per i diritti dell’uomo (d’ora in avanti, Corte EDU), nel confermare la sussistenza di una stretta correlazione tra diritti umani e diritto oggettivo climatico, inaugura un innovativo approccio all’azione climatica, che potrebbe riorientare le future politiche (se non globali, quantomeno europee) di contrasto ai cambiamenti climatici.
2. La vicenda all’origine della sentenza.
Il caso affrontato dalla Grande Camera della Corte EDU origina dall’azione promossa da quattro anziane donne e da un’associazione ambientalista no profit, Verein KlimaSeniorinnen Schweiz, diretta all’accertamento della condotta omissiva della Confederazione svizzera nell’adozione delle misure necessarie alla progressiva riduzione delle emissioni climalteranti di origine antropica, in difformità agli obblighi dalla medesima assunti sia con l’Accordo di Parigi del 2015 (confermato dal successivo Glasgow Climate Pact del 2021), sia con le corrispondenti statuizioni normative adottate dall’Unione europea.
I ricorrenti sostenevano, in particolare, che lo Stato elvetico non avesse recepito, nel diritto nazionale, le Nationally Determined Contributions (NDCs), né avesse mai effettuato un’analisi del proprio bilancio di carbonio, in spregio alla normativa internazionale ed europea ed ai principi costituzionali di sostenibilità (art. 73 Cost.) e di precauzione (art. 74, § 2, Cost.) e al diritto alla vita (art. 10 Cost.).
Argomentando sulla base della giurisprudenza della stessa Corte EDU in materia di danni all’ambiente e disastri naturali[6], applicata in via analogica ai rischi derivanti dai cambiamenti climatici, i ricorrenti invocavano, dunque, l’applicabilità degli artt. 2 e 8 CEDU, come parametro di giudizio per l’individuazione di uno specifico obbligo di tutela (“duty of care”) dello Stato resistente dai pericoli connessi alla innaturale variabilità climatica.
3. La rivoluzionaria decisione della Corte EDU: la protezione del clima è un diritto umano.
Al fine di dirimere la controversia sottopostale, la Corte EDU richiama, preliminarmente, le previsioni contenute nella Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) e nell’Accordo di Parigi, laddove dispongono che le Parti adottino – a livello domestico e su base volontaria – misure di contenimento e di mitigazione per «stabilizzare […] le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico» (art. 2 UNFCCC), «raggiungere il picco mondiale di emissioni di gas a effetto serra al più presto possibile […] e intraprendere rapide riduzioni, in linea con le migliori conoscenze scientifiche a disposizione, così da raggiungere un equilibrio tra le fonti di emissione e gli assorbimenti antropogenici di gas a effetto serra nella seconda metà del corrente secolo» (art. 4, n. 1, Accordo di Parigi).
La necessità di adottare efficaci misure mitigative rappresenta, secondo i giudici di Strasburgo, il quid unici di un esplicito dovere giuridico di contrasto al cambiamento climatico che lo Stato resistente avrebbe sistematicamente violato, concependo le obbligazioni climatiche, assunte in seno alla comunità internazionale, come un mero obbligo di due diligence e non di risultato.
Pur riconoscendo che il sistema delineato dall’Accordo di Parigi privilegia un approccio c.d. bottom-up, nel quale ciascuno Stato è libero di individuare “domestic mitigation measures”, da attuare secondo scadenze prefissate e in funzione del principio delle “common but differentiated responsibilities”, la Corte rileva, infatti, che la Confederazione svizzera avrebbe, in più occasioni, ecceduto il proprio margine di apprezzamento, adottando azioni climatiche inadeguate al raggiungimento dei propri prefissati obiettivi di riduzione di gas climalteranti (peraltro sensibilmente difformi dalle indicazioni contenute nei numerosi report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change) e, soprattutto, omettendo di predisporre, sviluppare ed attuare – in tempo utile – un efficace quadro normativo nazionale di contrasto al cambiamento climatico.
Accertata, dunque, l’esistenza di tali evidenti inadempimenti rispetto al dovere di lotta al cambiamento climatico, i giudici di Strasburgo dichiarano l’inerzia dello Stato svizzero nell’adozione delle misure necessarie a proteggere il diritto alla vita privata e familiare dei ricorrenti (art. 8 CEDU), dal quale deducono il basilare diritto di ogni singolo individuo «a una protezione effettiva da parte delle autorità statali contro i gravi effetti negativi, causati dal cambiamento climatico, sulla loro vita, la salute, il benessere e la qualità della vita».
La CEDU, argomenta la Corte, impone agli Stati parti di proteggere i diritti e le libertà stabiliti nella Convenzione e di adottare misure adeguate per la vita e il benessere dei propri cittadini, qualora sussista un “real and imminent threat” di cui i medesimi abbiano (o avrebbero dovuto avere) conoscenza. Sebbene non possa comportare l’imposizione di oneri impossibili o sproporzionati, l’art. 8 CEDU obbliga, comunque, ciascuno Stato ad implementare misure effettivamente idonee a prevenire un aumento delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera terrestre e della temperatura media globale oltre livelli indicati nei report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change,sì da scongiurare eventuali effetti negativi irreversibili sui diritti umani.
4. Qualche riflessione conclusiva.
La rivoluzionaria decisione della Corte EDU inaugura un nuovo approccio globale all’azione climatica, consolidando l’idea (sposata anche da chi scrive) che, per affrontare efficacemente i problemi che hanno natura e struttura transgenerazionale, quali sono certamente le emergenze derivanti dalla questione climatica, la strategia più solida sul piano giuridico e più coerentemente percorribile sia quella dei diritti umani.
A fronte dell’insufficiente livello di vincolatività delle obbligazioni climatiche attualmente previste in ambito internazionale ed europeo e del conseguente approccio “lassista” adottato dagli Stati nella lotta al cambiamento climatico, che – secondo l’Emissions Gap Report 2023: Broken Record – Temperatures hit new highs, yet world fails to cut emissions (again) del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) – avrebbe comportato un incremento delle emissioni globali di gas serra dell’1,2% dal 2021 al 2022, raggiungendo un nuovo primato di 57,4 gigatonnellate di anidride carbonica equivalente (GtCO₂e), pare, infatti, che la prospettiva dei diritti possa fornire un valore aggiunto, consentendo di superare la logica della reciprocità che sottende al diritto internazionale dell’ambiente (e che invece, nel contesto della tutela dei diritti umani, risulta marginale, se non addirittura inesistente[7]), nonché lo scarso livello prescrittivo degli obblighi climatici.
L’aspetto più innovativo della decisione è, tuttavia, rappresentato dall’individuazione esplicita di una correlazione tra l’innaturale variabilità climatica e il diritto umano (desunto da un’interpretazione estensiva dell’art. 8 CEDU) a fruire di una protezione effettiva contro i gravi effetti negativi che il cambiamento climatico costituisce per il godimento dei diritti umani, quali la salute, il benessere, la qualità della vita e la vita stessa.
In sintesi, secondo il percorso logico-argomentativo della Corte, obbligo primario di ogni Stato contraente è di adottare ed implementare norme efficaci e misure concrete in grado di mitigare gli attuali (e potenzialmente irreversibili) effetti del cambiamento climatico. Detto obbligo, derivante dalla relazione causale intercorrente tra il fenomeno del cambiamento climatico e il godimento dei diritti enunciati nella CEDU, impone che ogni Stato garantisca, in modo tempestivo ed efficace, «rights that are practical and effective, not theoretical and illusory».
Ricorrendo all’argomento dei diritti umani, i giudici di Strasburgo deducono, dunque, l’esistenza di un duty of care dello Stato elvetico, ravvisabile nella concreta adozione di provvedimenti idonei a mitigare gli effetti potenzialmente irreversibili del cambiamento climatico e interferenti negativamente con il godimento dei diritti umani, la cui protezione richiede che le disposizioni della CEDU (come pure, a parere di chi scrive, quelle contenute nel Preambolo dell’Accordo di Parigi) siano interpretate e applicate in modo da garantirne un concreto ed effettivo esercizio.
Considerato che le pronunce della Corte EDU hanno efficacia esecutiva indiretta per gli Stati europei, è probabile che la sentenza annotata influenzi le centinaia climate litigations attualmente pendenti in Europa.
Quel che, comunque, si auspica è che essa possa riorientare le future politiche di contrasto ai cambiamenti climatici, contribuendo all’ormai improcrastinabile positivizzazione di un autonomo diritto umano al clima stabile e sicuro, sì da rafforzare «il percorso già delineato dalla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, dal Protocollo di Kyoto e, da ultimo, dall’Accordo di Parigi»[8] e consentire agli organi internazionali preposti alla tutela dei diritti umani e al decisore politico-giudiziario di appurare il rispetto da parte degli Stati dei rispettivi obblighi in materia di cambiamenti climatici e, conseguentemente, di censurare l’eventuale inadeguatezza delle misure di adattamento e di mitigazione adottate.
[1] Il contributo è il frutto di riflessioni contenute in un più ampio lavoro monografico in corso di pubblicazione.
[2] OHCHR, Report of the Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights on the Relationship between Climate Change and Human Rights, U.N. Doc. A/HRC/10/61, 15 gennaio 2009. Il nesso tra climate change e diritti umani è stato esplicitamente riconosciuto anche dal Comitato Onu per i diritti umani, nel General Comment n. 36/2018 (UNHRC, General Comment n. 36 (2018) on Article 6 of the International Covenant on Civil and Political Rights, on the Right to life, U.N. Doc. CCPR/C/GC/36, 30 October 2018, par. 62), laddove ammette che il cambiamento climatico e uno sviluppo non sostenibile costituiscono i principali pericoli per il godimento del diritto alla vita da parte delle generazioni presenti e future.
[3] Secondo il Global Climate Litigation Report: 2023 Status Review dell’United Nations Environment Programme (UNEP), «the 2020 Litigation Report identified 1,550 cases brought in 39 jurisdictions, including international or regional courts, tribunals, quasi- judicial bodies or other adjudicatory bodies, such as special procedures of HRC, arbitration tribunals, international adjudicatory bodies and the European Union. As at 31 December 2022, the cumulative number of cases tracked in the Sabin Center’s databases has increased, with 2,180 climate change cases filed in 65 jurisdictions».
[4] L’espressione è di P.L. PETRILLO, Il costituzionalismo climatico. Note introduttive, in DPCEonline, 2023, 245.
[5] In argomento cfr. A. BOYLE, Climate Change, the Paris Agreement and Human Rights, in Int. and Comparative Law Quarterly, 2018, 759 ss.; A. SAVARESI, Climate change and human rights: Fragmentation, interplay and institutional linkages, in S. DUYCK, S. JODOIN, A. JOHL, The Routledge Handbook of Human Rights and Climate Governance, New York, 2018, 31 ss.. Contra, J. KNOX, Special Rapporteur on the Environment and Human Rights, UNHRC, Report of the Special Rapporteur on the Issue of Human Rights Obligations Relating to the Enjoyment of a Safe, Clean, Healthy and Sustainable Environment: Climate Change Report, UN Doc A/HRC/31/52 (2016).
[6] Cfr., ad es., Guerra e al. c. Italia, ric. n. 116/1996/735/932, sent. 19 febbraio 1998; Öneryldiz c. Turchia, ric. n. 48939/99, sent. 30 novembre 2004; Tătar c. Romania, ric. n. 67021/01, sent. 27 gennaio 2009; Budayeva e al. c. Russia, ricc. nn. 15339/02, 21166/02, 20058/02, 11673/02 e 15343/02, sent. 20 marzo 2008; Kolyadenko e al. c. Russia, ricc. nn. 17423/05, 20534/05, 20678/05, 23263/05, 24283/05 e 35673/05, sent. 28 febbraio 2012.
[7] E. CORCIONE, Diritti umani, cambiamento climatico e definizione dello standard di condotta, in Diritti umani e diritto internazionale, 2019, 200.
[8] A. PISANÒ, Il diritto al clima. Una prima concettualizzazione, in L’ircocervo, 2021, 283.
Sommario: 1. Premessa – 2. Esperienze in Italia prima della cd. riforma Cartabia – 3. Prime applicazioni della nuova disciplina – 4. Necessità di criteri interpretativi condivisi – 5. Attuabilità della giustizia riparativa e prassi del tribunale di Roma.
1. Premessa
Quando parliamo di giustizia riparativa parliamo di una pratica lunga, faticosa, volta a prevenire conflitti, costruire relazione e riparare fratture in un processo di dialogo che coinvolge le parti interessate facendo del crimine “un’occasione positiva di rafforzamento dei legami sociali”[1].
La giustizia riparativa ha una dimensione relazionale e un approccio inclusivo e affonda le sue radici nella comunità, terreno privilegiato che consente di non inaridire i legami e permette di costruirne di nuovi.
La comunità si identifica nella vittima. Mettere al centro la persona offesa e la sua dignità è un modo nuovo di guardare al processo, non limitato al profilo risarcitorio.
L’applicazione della giustizia riparativa in ambito penale consente quindi di inserire questo istituto tra le risorse a disposizione per incidere sulla recidiva[2] e di affrontare i limiti e le contraddizioni del sistema carcere dove, larga parte della popolazione detenuta “rappresenta una marginalità sociale che avrebbe dovuto trovare altre risposte” perché “altre forme di supporto e riduzione dei conflitti e delle difficoltà che abitano la collettività hanno fallito”[3].
Come si ricava dalle premesse della Raccomandazione CM/Rec(2018)8 del Consiglio d’Europa agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale, la finalità è quella di “incoraggiare il senso di responsabilità degli autori dell’illecito e offrire loro l’opportunità di riconoscere i propri torti così da favorire il loro ravvedimento e consentire la riparazione e la comprensione reciproca e incoraggiare la rinuncia a delinquere” [4].
Principi chiave della giustizia riparativa sono: “volontarietà; dialogo deliberativo e rispettoso; eguale attenzione ai bisogni e agli interessi delle persone coinvolte; correttezza procedurale; dimensione collettiva e consensuale degli accordi; accento su riparazione, reintegrazione e raggiungimento di una comprensione reciproca; e assenza il dominio” (punto 14 della Raccomandazione).
“La giustizia riparativa è volontaria” e “Le parti devono poter revocare il loro consenso in ogni momento del percorso” (punto 16 della Raccomandazione)
Centrale è l’ascolto e precondizione la possibilità di narrare la propria esperienza in un contesto extraprocessuale che consenta di fruire di un tempo non contingentato o inappropriato.
La mediazione penale, il percorso di giustizia riparativa più utilizzato, è molto diversa dalla mediazione civile: non implica reciproche concessioni; è insuscettibile di essere imposta; cerca di favorire il “riconoscimento” dell’altro, della sua umanità, della sua dignità, non necessariamente richiesto nell’ambito civilistico.
Presupposto è il riconoscimento del fatto e quindi il riconoscimento dell’altro. A questo proposito la Direttiva 2012/29/UE adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio recante “norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato” condiziona l’accesso ai servizi di giustizia riparativa al “riconoscimento dei fatti essenziali da parte dell’autore del reato”, ma aggiunge che ove si tratti di “persona indagata o imputata” sia fatta “salva la presunzione d’innocenza”. La formula è prudente e la partecipazione ad un programma di giustizia riparativa non deve essere utilizzata come prova dell’ammissione della colpevolezza nel prosieguo del procedimento penale.
La giustizia riparativa è stata definita “un affare faticoso, costoso e per nulla rapido; non deflaziona in modo sensibile i carichi giudiziari (o almeno, non lo fa se non in una prospettiva a lungo raggio, in chiave di abbattimento dei tassi di recidiva), e tuttavia non c’è dubbio che – affiancata alla giustizia con la spada – questa giustizia “relazionale” e dialogica assicuri un miglioramento netto della performance complessiva … L’importante è creare i servizi e formare gli operatori, curare gli aspetti organizzativi anche negli uffici giudiziari (es. la trasmissione ai Centri dei recapiti delle persone offese), armonizzare i tempi rispetto a quelli della giustizia ordinaria”[5].
Vorrei ricordare anche quello che della giustizia riparativa hanno scritto[6] Luigi Ciotti (Non parliamo, beninteso, di un cammino facile, perché la giustizia riparativa è, prima di un sistema giuridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributiva” (incentrata sul rapporto tra il reato e la pena) e della giustizia “riabilitativa” (più attenta al “recupero” del detenuto)… Percorsi delicati, quasi mai lineari, connessi alle parti più intime dell’essere umano e dunque da gestire con attenzione ed equilibrio, perché il ricostruire le relazioni umane e il tessuto sociale non può andare a discapito dell’equità, della certezza e della funzione riabilitativa della pena) e Gian Maria Flick (È una tendenza che va al di là del dovere di giustizia e di solidarietà di ricordare la vittima; di rispettarla e considerarla; di ascoltarla e aiutarla essendole vicini; di consentirle una rappresentanza adeguata. Non bastano le leggi di riforma. Occorrono prima di tutto società e cultura; occorre quella legalità sostanziale di cui oggi si tratta anche quando si parla di prevenzione della corruzione; occorre che finalmente recepiamo la cultura della reputazione e la cultura della vergogna. Vale per la corruzione, per l’evasione fiscale; ma vale anche e soprattutto per il carcere).
2. Esperienze in Italia prima della cd. riforma Cartabia
I percorsi di Giustizia Riparativa sono considerati e largamente utilizzati fin dagli anni ’90 del secolo scorso in molti Paesi in cui si è passati dalla reclusione quale sola o principale forma di risposta al crimine, a più complesse modalità di inclusione gestite dai Servizi di Probation.
In Italia già nel 1997 il Cardinale Carlo Maria Martini[7] riteneva “più produttiva, anche in termini di prevenzione generale, una politica criminale che investa sulle capacità dell’uomo di tornare a scegliere il bene che non una politica criminale fondata sul solo fattore della forza e della deterrenza” e scriveva “ho sentito più volte esprimere da detenuti colpevoli di gravi crimini e avviati a un cammino di conversione sincera il loro desiderio di non scontare una pena qualunque rispetto ad una collettività generica, pagando in maniera astratta il loro debito verso una società di cui conoscono dal di dentro le malefatte e le ingiustizie, ma piuttosto di riparare il male fatto o rispetto alle persone offese o rispetto a gruppi da loro lesi almeno con azioni positive di servizio gratuito in favore di ideali simili a quelli da loro violati. Mi pare di cogliere in questi desideri ciò che corrisponde a quella personalizzazione dell’atto riparatorio che affiora nelle pagine bibliche e che potrebbe servire come uno degli elementi per un ripensamento di un sistema penale atto a restituire l’equilibrio dei rapporti rotti dalla delinquenza, corrispondendo così sia all’intento di restaurare l’ordine violato sia contemporaneamente a quello di farlo in maniera personalizzata e ricca di motivazioni umanizzanti”. E riteneva “più produttiva, anche in termini di prevenzione generale, una politica criminale che investa sulle capacità dell’uomo di tornare a scegliere il bene che non una politica criminale fondata sul solo fattore della forza e della deterrenza”.
Al funerale di Vittorio Bachelet il figlio Giovanni riconobbe con chiarezza l’impegno dello Stato[8] e invece di chiedere maggiore fermezza e pene più severe espresse parole di perdono (“Senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”).
Dopo aver ascoltato quelle parole, tre anni dopo, diciotto brigatisti scrissero ad Adolfo Bachelet, fratello gesuita di Vittorio: “sappiamo che esiste la possibilità di invitarla qui nel nostro carcere. Di tutto cuore, desideriamo che lei venga, e vogliamo ascoltare le sue parole [...]. Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante i funerali del padre. Oggi quelle parole tornano a noi, e ci riportano là, a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato della morte, e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo ed irrevocabile”.
Adolfo Bachelet prese a girare per le carceri e Anna Laura Braghetti, che lo incontrò tante volte, nel suo libro[9] scrive “Da lui ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia umanità, e di aver travolto per questo quella degli altri”.
Negli scorsi decenni fatti il cui accertamento giudiziario è stato lungo e tortuoso, sono stati affrontati anche ponendo di fronte vittime e responsabili della lotta armata e un esperimento seguito per sette anni portò ad oltre cento incontri tra cui quello di Agnese Moro con i terroristi Adriana Faranda e Franco Bonisoli[10].
Si è parlato molto dei percorsi che hanno avvicinato terroristi protagonisti di fatti atroci del nostro passato e le loro vittime. Se ne è parlato soprattutto per la dimensione pubblica che hanno assunto questi incontri, criticata molto spesso anche da talune delle vittime[11].
Queste esperienze di giustizia riparativa hanno però alimentato il dibattito sull’importanza della riparazione del conflitto e forme nuove e parallele di giustizia.
La Commissione Verità e Riconciliazione[12] creata da Nelson Mandela in Sudafrica per promuovere l’unità nazionale e la riconciliazione, indicò forme di giustizia che possiamo definire riparativa, incoraggiando un percorso di “verità” e di “riparazione” quale condizione per la concessione dell’amnistia (avanzata dal National Party, artefice del regime dell’apartheid), cercando un punto di equilibrio con l'esigenza che i colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani fossero puniti (fatta valere dall'African National Congress, oggetto di persecuzioni).
La giustizia riparativa può promuovere istanze di pacificazione sociale anche in conflitti e dimensioni locali più ristretti.
A Hull, cittadina britannica molto degradata, la diffusione di pratiche di giustizia riparativa per la riparazione delle dinamiche conflittuali in una scuola, attraverso la formazione dei docenti, portò ad una sostanziale riduzione di sospensioni e espulsioni e delle assenze dal lavoro e fu poi estesa alle altre scuole, alle amministrazioni comunali e ad altri luoghi di lavoro. Anche nella grande città inglese di Leeds, le pratiche riparative sono state introdotte nei servizi per l'infanzia lavorando insieme alle famiglie e al personale e da lì estese in tutta la città attraverso la formazione.
Il modello delle due città anglosassoni è stato seguito a Tempio Pausania quando nel 2013 a seguito della dismissione del vecchio carcere ne fu costruito uno nuovo di massima sicurezza destinato a ospitare condannati per reati di mafia provenienti da Sicilia, Calabria e Puglia. Occorreva ricomporre il conflitto che vedeva da un lato il timore di infiltrazioni mafiose da parte della popolazione e dall’altro la sofferenza per la lontananza dalla famiglia da parte dei detenuti (la citta non voleva i detenuti, i detenuti avrebbero preferito stare nelle loro città)[13]. Così, nel 2014 é iniziata la collaborazione tra il carcere, l’Università di Sassari[14], la Magistratura di sorveglianza e l’Amministrazione comunale. La cittadinanza è stata coinvolta in un percorso di incontri e conferenze con l’obiettivo di individuare soluzioni ed è stato realizzato un modello di comunità riparativa.
L’assenza di regolamentazione non ha in sostanza impedito in Italia numerosi esperimenti di giustizia riparativa, alcuni divenuti nel tempo stabili servizi locali di mediazione penale e di giustizia riparativa.
All’interno del carcere di Padova il primo caso ebbe origine da una lettera spedita in carcere da Alberto, un cittadino la cui abitazione era stata più volte visitata dai ladri: “Egregio signor ladro…”. Ne iniziò un carteggio con i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, giornale della Casa di Reclusione di Padova. Queste esperienze portate avanti dall’Associazione Granello di Senape fin dal 2004 sono confluite nella istituzione del “Centro per la Mediazione sociale e dei conflitti” del Comune di Padova.
Il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (CIPM) fin dal 2012 ha lavorato sulla conflittualità familiare e sui programmi di recupero per gli autori di reati violenti in ambito familiare.
Anche il Centro per la Giustizia Riparativa e la Mediazione Penale del Comune di Milano è una realtà importante, come lo Sportello di Giustizia Riparativa del Comune di Monza (gestiti dai mediatori della Cooperativa DIKE di Milano) e l’Associazione In Opera che opera negli istituti penitenziari di Milano.
Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria già nel 2005 istituì la Commissione di studio "Mediazione penale e giustizia riparativa" che concluse i suoi lavori adottando le “Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti di modelli di giustizia ripartiva conformi alle Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa”. Il 21.1.2009, in seno alla Direzione generale dell’Esecuzione Penale Esterna, fu quindi istituito l’Osservatorio nazionale permanente per il coordinamento e il monitoraggio delle esperienze in ambito riparativo.
In ambito minorile la giustizia riparativa è sperimentata da tempo. Il DPCM 84/2015 unificò i due mondi, per facilitare, anche nel campo della giustizia riparativa, l’integrazione dei due contesti operativi “che si fondano entrambi sull’azione coordinata di enti e associazioni sul territorio quale presupposto per il rientro dell’autore di reato nella legalità nel contesto di appartenenza”.
Si diede quindi vita al Dipartimento della giustizia minorile e di comunità presso il quale la soppressa Direzione Generale dell’esecuzione penale esterna del Dap divenne Direzione Generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova.
Il 17.5.2019 il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità emanò le Linee di indirizzo per la giustizia riparativa definite “un primo sforzo per definire le peculiarità e ordinare aggiornare e integrare le migliori esperienze maturate in materia nel settore degli adulti e in quello minorile”[15].
Nel mese di maggio del 2015 presso il Ministero della giustizia fu nominato il Comitato di esperti per lo svolgimento della consultazione pubblica sulla esecuzione della pena denominata "Stati Generali sulla esecuzione penale". I lavori furono avviati sulla base della documentazione messa a disposizione dell’Ufficio Studi del Dap e vi presero parte operatori penitenziari, magistrati, avvocati, professori, esperti, rappresentanti della cultura e dell'associazionismo civile riuniti in diciotto Tavoli tematici di lavoro con lo scopo di definire un nuovo modello di esecuzione penale.
All’esito dei lavori, il 18 aprile 2016, il Tavolo n. 13 sulla Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime di reato, formulò una proposta per una “più intensa compenetrazione tra modalità rieducativo-trattamentale e giustizia riparativa” volta ad introdurre la praticabilità di percorsi di giustizia riparativa per tutti i detenuti, indipendentemente dal titolo di reato e dalla misura della pena da scontare.
Il documento finale prodotto dagli Stati Generali avrebbe dovuto condurre all’elaborazione di decreti di riforma dell’Ordinamento penitenziario ma la richiesta di introdurre strumenti normativi rimase inevasa e irrisolto rimase, oltre al problema delle condizioni di accesso ai servizi di giustizia riparativa, quello della formazione dei mediatori, dell’istituzione di un albo dei mediatori e dei requisiti indispensabili per il loro accreditamento.
La riforma Cartabia[16] ha fatto tesoro di tutto questo e, anche per adempiere all’obbligo di attuazione delle Direttiva del Parlamento europeo 2012/29/UE che imponeva agli Stati membri, entro il termine ampiamente scaduto del 16 novembre 2015, di creare le condizioni perché le vittime possano giovarsi di servizi di giustizia riparativa, ha introdotto quella che è stata denominata una Disciplina organica della giustizia riparativa in cui sono richiamati definizioni e principi disponendo il suo innesto nel processo penale e disciplinandone gli effetti sulla pena.
Della disciplina organica della giustizia riparativa e del suo innesto nel processo si è già scritto[17], prendendo spunto dalla ordinanza della Corte di Assise di Busto Arsizio del 19.9.2023.
3. Prime applicazioni della nuova disciplina
La Corte di Assise di Busto Arsizio, dopo la sentenza di condanna di primo grado e in pendenza dei termini per presentare l’appello, ha disposto l’invio dell’imputato condannato al Centro per la Giustizia Riparativa del Comune di Milano con l’opposizione del pubblico ministero e delle parti civili, le quali, tutte, avevano manifestato l’assoluta indisponibilità ad incontrare l’imputato.
Il provvedimento è stato analizzato sia sotto il profilo del ruolo della vittima aspecifica (“Un freddo provvedimento giudiziale che si limiti a prendere atto dell’indisponibilità dei familiari a partecipare a un percorso riparativo e contempli de plano, come equivalente funzionale, la rapida sostituzione delle vittime dirette con quelle aspecifiche brucia i tempi del dialogo, e probabilmente la disponibilità futura dei familiari della vittima a riporre fiducia nel sistema di giustizia”), sia sotto quello del potere valutativo dell’autorità giudiziaria che, in assenza di una motivazione sull’effettiva utilità del programma nel caso concreto, potrebbe “determinare iniziative giudiziarie prevaricatrici delle strategie difensive dell’imputato oppure poco attente alle ragioni della vittima diretta” [18].
In un altro caso recente la Corte di Assise di Appello di Bolzano non ha disposto l’invio dell’imputato che uccise i genitori occultandone i cadaveri, evidenziando la gravità dei fatti contestati, il “breve” lasso di tempo intercorso (meno di tre anni) dall’omicidio, i rapporti “fortemente dolorosi ed emotivamente contrastanti” con le persone offese, e il fatto che l’istanza era stata avanzata solo quattro giorni prima dell’inizio del processo d’appello. Anche in questo caso la sorella e le zie dell’imputato avevano fatto sapere di non sentirsi pronte ad un incontro.
In materia di sostanze stupefacenti la Corte di Appello di Milano[19] non ha disposto l’invio richiesto dall’imputato con il parere favorevole del procuratore generale in assenza di una vittima, anche aspecifica, con cui intrattenere il dialogo.
Al riguardo il Centro per la Giustizia Riparativa e la Mediazione Penale del Comune di Milano ha già sperimentato un programma fra un gruppo di persone condannate per detenzione e spaccio di stupefacenti e un gruppo di familiari di persone tossicodipendenti e anche lo Sportello di Giustizia Riparativa del Comune di Monza ha sperimentato il dialogo tra un gruppo di persone condannate anche per spaccio di sostanze stupefacenti e un gruppo di abitanti di un quartiere della città ove questa tipologia di reati è frequente.
Proprio nei reati di spaccio di stupefacenti il programma può quindi efficacemente svolgersi con il coinvolgimento la comunità (nella forma della community group conferencing).
Nel commentare l’ordinanza della Corte di Appello di Milano[20] si è ricordato anche l’esperienza di “un’insegnante di scuola superiore che volle portare nel dialogo mediativo un’esperienza di vittimizzazione subita, vale a dire l’irruzione delle forze dell’ordine in classe, la perquisizione e il sequestro di sostanze stupefacenti in possesso di alcuni suoi studenti e il successivo suo ingresso in commissariato per rendere dichiarazioni sull’accaduto. Pur non trattandosi dello studente della professoressa ma di un autore di reato di una vicenda analoga, e viceversa, pur non trattandosi di una persona della comunità di appartenenza del condannato, ma di una professoressa di un altro territorio, l’incontro ha rappresentato un’opportunità per entrambi. Per l’autore del reato la possibilità di una diversa consapevolezza circa l’assunzione di responsabilità connessa alla scelta di trafficare e spacciare, per l’insegnante la possibilità di un riconoscimento degli effetti negativi che discendono dalla diffusione delle attività di traffico e spaccio nel territorio. A partire da questo incontro e dal dialogo fra i partecipanti è stato possibile progettare delle azioni di riparazione condivise, nello specifico “un esito riparativo con accordo simbolico” (ex art. 56 del decreto). Un valore aggiunto che la giustizia penale non avrebbe potuto offrire né all’uno né all’altra”.
Numerosi sono attualmente i provvedimenti in cui il giudice non dispone l’invio richiesto ritenendo di non poter applicare l’art. 129-bis c.p.p. in assenza di individuazione dei Centri di giustizia riparativa previsti all’art. 42 del decreto.
4. Necessità di criteri interpretativi condivisi
L’innesto di pratiche di giustizia riparativa nel processo, anche nella fase di cognizione, ha posto le basi per un mutamento culturale, ma l’ingresso di questi istituti deve avvenire con cautela, tenendo in considerazione la pluralità degli interessi delle parti, valutando la fase processuale, il percorso già fatto dall’imputato, il rischio di esporre le vittime ad una amplificazione del trauma ed evitando soprattutto qualsiasi automatismo specie in fasi precoci di processo per reati gravi.
Le prime applicazioni, oltre a porre con forza l’esigenza di un controllo e una verifica sulla qualità dei programmi e sulla professionalità del mediatore, mettono in luce la necessità di criteri interpretativi condivisi.
Al riguardo presso la Corte di Appello di Milano il 1° agosto 2023 è stato sottoscritto uno Schema operativo per la giustizia riparativa ed è interessante ripercorrerne il contenuto sotto alcuni profili.
Si stabilisce che l’accesso ai programmi sia consentito per qualsiasi tipo di reato a prescindere dall’individuazione in concreto di una vittima ovvero dall’assenso del consenso della vittima individuata.
Che le parti siano sentite, in udienza o con contraddittorio cartolare, sui presupposti del rinvio (utilità del programma riparativo alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato e assenza di pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti) e che l’accertamento in ordine al consenso dell’autore e della vittima sia demandato in via esclusiva al Centro (in caso di diniego della vittima se ne farà menzione nell’ordinanza di invio, perché gli operatori del Centro ne siano informati e ne tengano conto).
Che il giudice possa indicare al Centro per la giustizia riparativa un arco temporale, di norma ricompreso tra i 3 e i 6 mesi ritenuto congruo per l’elaborazione e lo svolgimento del programma.
Che la graduazione delle riduzioni di pena in caso di esito riparativo può variare in funzione della valutazione da parte dell’autorità giudiziaria della ragionevolezza e della proporzionalità dell’esito riparativo raggiunto.
Che in caso di proscioglimento l’imputato possa presentarsi autonomamente presso il Centro di Giustizia Riparativa, producendo la sentenza, senza alcuna richiesta preventiva all’autorità giudiziaria.
Che nella fase dell’esecuzione, in cui l’esito riparativo può essere valutato ai fini dell’affidamento in prova al servizio sociale, l’invio sia disposto con provvedimento informale del magistrato di sorveglianza e non del direttore dell’istituto. Che in questa fase l’accesso sia “ampio e indiscriminato” ma “con valutazione dei presupposti solo in capo al magistrato di sorveglianza.
Lo Schema individua il giudice competente nel passaggio da una fase all’altra del processo e dà atto che le linee guida sono state elaborate grazie alla collaborazione del Centro per la Giustizia riparativa del Comune di Milano al quale possono essere inviati i casi in attesa dell’attuazione della ricognizione dei centri esistenti ad opera della Conferenza Locale (art. 92 D. Lgs. 150/22).
La redazione tempestiva dello Schema testimonia un proficuo metodo di discussione e condivisione tra Avvocatura e Uffici giudiziari di linee guida in questa materia.
5. Attuabilità della giustizia riparativa e prassi del Tribunale di Roma
Allo stato la giurisprudenza della Corte di Cassazione[21] nell’affermare che le nuove previsioni contenute negli artt. 129-bis e 419, comma 3-bis, c.p.p. “non contemplano alcuna ipotesi di nullità nel caso di mancata applicazione“ e che in particolare, l’art. 129-bis c.p.p. “nel prevedere la possibilità che il giudice disponga d’ufficio l’invio delle parti ad un centro per la mediazione, si limita a disciplinare un potere – essenzialmente discrezionale – riconosciuto al giudice, senza introdurre espressamente un obbligo di attivarsi“, ha analizzato il contenuto della valutazione del giudice affermando che “l’opzione circa la sollecitazione del procedimento riparativo è dettata da una serie di valutazioni che attengono alla tipologia del reato, ai rapporti tra l’autore e la persona offesa, all’idoneità del percorso ripartivo a risolvere le questioni che hanno determinato la commissione del fatto”, e che l’avviso “ha solo una finalità informativa e, peraltro, si inserisce in una fase in cui l’imputato beneficia dell’assistenza difensiva, con la conseguenza che dispone già del necessario presidio tecnico finalizzato alla migliore valutazione delle molteplici alternative processuali previste dal codice, ivi compresa quella di richiedere l’accesso al programma di giustizia riparativa“.
La Corte di Cassazione, chiarendo che l’invio del giudice integra una mera modalità aggiuntiva, sembra quindi aver riaffermato il principio dell’accesso incondizionato agli strumenti della giustizia riparativa, previsto dalla legge delega (l. n. 134/2021).
Al di là della valutazione del giudice ex art. 129-bis c.p.p. l’imputato può quindi prendere parte autonomamente ad un programma di giustizia riparativa e può farlo, evidentemente, anche su suggerimento di terzi o del suo difensore, in qualunque fase del processo.
Lo stesso giudice, come anche in passato, può quindi suggerire all’imputato di rivolgersi ad uno dei centri per la giustizia riparativa esistenti ed operanti in molte Regioni e può altresì valutare l’eventuale percorso effettuato dall’imputato in precedenza nel determinare l’entità della pena ai sensi dell’art. 133 c.p., sempre che l’affidabilità del centro glielo consenta.
In sostanza l’approccio indicato dalla giustizia riparativa dovrebbe permeare in generale il mondo dei rapporti interpersonali e, al di là del suo innesto nel processo e degli effetti sulla pena, dovrebbe connotare l’area penale rientrando a pieno titolo nel modello della giustizia di comunità che ricomprende ogni istituto che preveda la presa in carico dell’autore di reato e della vittima e l’organizzazione dei relativi servizi.
In particolare la Raccomandazione del Consiglio d’Europa Rec(2018)8 sulla giustizia riparativa recita:
punto 60. I principi e gli approcci riparativi possono anche essere applicati nell’ambito del sistema della giustizia penale, ma al di fuori della procedura penale.
punto 61. I principi e gli approcci riparativi possono essere utilizzati proattivamente dalle autorità giudiziarie ….OMISSIS…. nel prendere decisioni gestionali e nel consultare il personale, nonché in altre aree della gestione del personale e dei processi decisionali organizzativi. Ciò può aiutare a costruire una cultura riparativa all’interno di tali organizzazioni.
punto 62. Ferma restando la necessità che i percorsi di giustizia riparativa siano erogati in autonomia dal procedimento penale, le agenzie di giustizia riparativa, le autorità giudiziarie, le agenzie della giustizia penale e altri servizi pubblici competenti dovrebbero collaborare a livello locale al fine di promuovere e coordinare l’utilizzo e lo sviluppo della giustizia riparativa nei loro territori.
Nel Tribunale di Roma si è cercato di attuare questi principi.
In sinergia con le altre istituzioni operanti sul territorio, sono stati valorizzati gli strumenti a disposizione del giudice che prevedono percorsi di responsabilizzazione nell’ambito della comunità.
Dopo un iniziale Accordo di collaborazione del 4.3.2020, seguito dall’Accordo di Rete del 4.5.2022, è stato sottoscritto (tra aprile e giugno 2023) un Protocollo operativo per la Map e le pene sostitutive e più recentemente, il 29 novembre 2023, un Protocollo con il quale è stato concordato un modello di intervento per il sostegno e la cura dei soggetti accusati di violenza nelle relazioni affettive[22].
In tema di giustizia riparativa, già ben prima dell’entrata in vigore della cd. riforma Cartabia, sono stati previsti interventi in favore delle vittime di reato e percorsi di giustizia riparativa, valorizzando le azioni già intraprese dalla Regione Lazio per la ricognizione e la mappatura dei servizi finalizzate alla costruzione di un modello operativo condiviso per una omogeneità di intervento su tutto il territorio regionale.
Da ultimo, all’interno dell’Osservatorio permanente per la Giustizia di comunità istituito presso la Presidenza, è stata avviata la discussione in ordine al contenuto di una bozza di Protocollo operativo per la giustizia riparativa fondato sui principi contenuti nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa Rec(2018)8.
[1] Cfr. Francesco Palazzo “Crisi del carcere e culture di riforma”. Diritto Penale Contemporaneo n. 4/2017
[2] Joan Durnescu- Università di Bucarest-, Prague, September 2015
[3] Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; Relazione al Parlamento 2023
[4] Cfr. anche le precedenti Raccomandazioni del Consiglio d’Europa R(1985)11, R(1987)21, R(1999)19 che incoraggiano le esperienze di mediazione tra il reo e vittima con particolare attenzione agli interessi delle vittime e la R(2010)1 che fa riferimento a prassi di giustizia riparativa. L’elaborazione delle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa è curata da esperti nazionali e da esperti scelti dal Consiglio d’Europa all’interno degli organismi ove il testo prende vita (Comitato Europeo dei Problemi Criminali – CDPC – e Consiglio della Cooperazione penologica – PC-CP-). I principi enunciati sono perlopiù frutto dell’apporto italiano, e io stessa ho toccato con mano l’autorevolezza di cui gode l’Italia grazie al lavoro fatto in anni lontani da colleghi quali Luigi Daga e Giovanni Tamburino.
Cfr. altresì le Risoluzioni dell’Economic and Social Council (ECOSOC) delle Nazioni Unite n. 1998/23, n. 1999/26 e n. 15/2002; la Dichiarazione di Vienna, adottata a conclusione dei lavori del Decimo Congresso Internazionale delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e sul Trattamento dei Rei, svoltosi a Vienna dal 10 al 17 aprile 2000; il Manuale delle Nazioni Unite sui Programmi di Giustizia Riparativa del 2020; le pubblicazioni dell’European Forum for Restorative Justice (EFRJ).
[5] Pasquale Bronzo “Devianza minorile e giustizia riparativa” in Cassazione penale – 1(2022), pp. 334-345 e in “Il disagio giovanile oggi: Report del Consiglio Nazionale dei Giovani”, Sapienza Università Editrice, luglio 2022
[6] Prefazione e postfazione al libro “La giustizia capovolta” di Francesco Occhetta, Casa editrice Paoline
[7] Cardinale Carlo Maria Martini, Relazione fatta pervenire al Convegno “Colpa e Pena? La teologia di fronte alla questione criminale”, Milano, 17-18 aprile 1997
[8] “Preghiamo per i nostri governanti: per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga. Preghiamo per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità, nella società, nel Parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e amore”.
[9] Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, “Il prigioniero”, Universale economica Feltrinelli, giugno 2008
[10] “Il libro dell’incontro – Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato il Saggiatore, Milano 2015
[11] Cfr. intervento di Luca Tarantelli alla presentazione, il 19 gennaio 2017 presso la sala Zuccari del Senato de “Il libro dell’incontro”.
[12] Truth and Reconciliation Commission istituita con la legge denominata Promotion of National Unity and Reconciliation Act entrata in vigore il 15 dicembre 1995, che ha operato tra il gennaio 1996 e l’ottobre 1998.
[13] La direttrice del carcere di allora, Carla Ciaravella, scriveva: “La popolazione locale aveva mostrato fin da subito molta diffidenza nei confronti della nuova costruzione e si era molto incupita quando aveva saputo della destinazione d’uso stabilita dall’amministrazione penitenziaria. L’idea di avere i mafiosi alle porte di casa impensieriva e turbava la monotona ma serena e tranquilla vita degli abitanti di Tempio. Una casa di reclusione per detenuti definitivi con lunga pena deve incentrare necessariamente i propri obiettivi sui percorsi trattamentali e riabilitativi. I detenuti tutti giunti da fuori regione, non erano affatto contenti di essere stati trasferiti in Sardegna, soprattutto per le distanze geografiche che li separavano dai propri famigliari. Tutti loro sapevano bene che dall’arrivo in Sardegna in poi, i rapporti con le proprie mogli, figli, genitori si sarebbero diradati. Sapevano anche che, in ragione delle situazioni di ostatività, per via della natura dei reati commessi, avrebbero avuto poche e limitate possibilità di accedere ai benefici premiali ed alle misure alternative”
[14] “Studio e analisi delle pratiche riparative per la creazione di un modello di città riparativa”, parte di un progetto regionale più ampio dal titolo “Sistema Informativo e governance delle politiche di intervento e contrasto del crimine” - Legge regionale 7 agosto 2007 n. 7 Regione Autonoma della Sardegna
[15] Cfr. nota n. 7348 in data 20.5.2019 diffusa dal Capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità
[16] Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 e decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162.
[17] Cfr. Flavia Costantini: “L’omicidio di Carol Maltesi e l’attuale disciplina della giustizia riparativa” in Giustizia Insieme, 17 novembre 2023.
[18] Cfr. Paola Maggio e Francesco Parisi: “Giustizia riparativa con vittima surrogata o aspecifica: il caso Maltesi-Fontana continua a far discutere”, in Sistema Penale, scheda del 19 ottobre 2023.
[19] Corte di Appello penale di Milano Sez. V, 12 luglio 2023
[20] Cfr. Federica Brunelli: “La giustizia riparativa nei reati senza vittime”, in Giurisprudenza penale Web, 7-8 2023
[21] Cass. Sez. IV n. 32360 del 9.5.2023; Sez. VI n. 25367 del 13.6.2023.
[22] Il materiale è reperibile sul sito del Tribunale di Roma all’indirizzo: https://www.fallcoweb.it/prenotazioni/roma/map/index.
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Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon.
A cento anni esatti dal rapimento e dal brutale assassinio sappiamo molto dell’intransigenza di Giacomo Matteotti, delle tante battaglie per la giustizia e la libertà, nel suo Polesine, negli enti locali e in Parlamento. Sappiamo del coraggio senza pari e della sua strenua opposizione al fascismo, di cui aveva visto e denunciato la pericolosità ben prima di molti osservatori del suo tempo. Sappiamo della sua tragica fine, per mano dei sicari del dittatore, e di quanto egli impensierisse il loro mandante, per la precisione nella denuncia delle sue malefatte e per l’audacia nel metterne alla berlina le sparate demagogiche.
Sappiamo anche che Matteotti ha dedicato la prima parte della sua vita allo studio del diritto penale e dei sistemi carcerari e criminali, in Italia e all’estero, e che avrebbe avuto la strada spianata per la libera docenza universitaria, ma che vi rinunciò per rispondere al richiamo della politica. Non fu un impegno vano, va detto subito, quello dedicato da Matteotti al diritto penale: lascerà un segno indelebile nella sua formazione, nella sua visione del diritto e sulla sua concezione della forma e dei limiti del potere e gli consentirà di acquisire un metodo scientifico, che egli applicherà efficacemente anche alla prassi politica, con frutti straordinari sul piano della ricchezza e della profondità delle sue proposte.
È molto meno noto il grande impegno di Matteotti nella materia tributaria, il suo profondo convincimento della funzione di redistribuzione del prelievo fiscale a fini di giustizia sociale, la sua aspirazione ad un sistema impositivo unitario e coerente e, ancor di più, le sue proposte organiche di riforma in una materia che, anche al suo tempo, era terreno e strumento di iniziative tanto frammentarie quanto demagogiche.
Giacomo Matteotti si è dedicato con intensità e passione alla questione tributaria, anzi si può dire che essa costituisce una componente centrale del suo impegno. Vi si è rivolto con un approccio rigoroso, frutto di studi incessanti e meticolosi e affrontando, in un crescendo per vastità e profondità, tutti i temi più rilevanti della scienza delle finanze e dell’imposizione, il che gli ha consentito di propugnare un inedito riformismo, dagli approdi talora inattesi e sorprendentemente moderni.
L’impegno di Giacomo Matteotti nella materia tributaria si differenzia da quello nel diritto penale per approccio e contenuti. Il secondo, sebbene affrontato con rigore di metodo, non è diretto all’analisi di sistema bensì ad aspetti circoscritti, seppur non di minor rilevanza. Ciò, verosimilmente, perché avviene agli inizi di un percorso universitario, che implica un avvicinamento graduale ai grandi temi istituzionali.
In materia fiscale, invece, l’analisi è da subito a tutto campo, si correla all’attività amministrativa e politica e non è volta alla speculazione scientifica. Per Matteotti la questione fiscale, a partire dalla funzione redistributiva e perequativa, si colloca insomma al centro di un’iniziativa concreta che vuole segnare una netta discontinuità rispetto alla condizione dello Stato liberale, connotata dal rinvio costante delle riforme tributarie. Matteotti, rigoroso e profondo, prova una grande avversione per i programmi vaghi, la superficialità, l’imprecisione, gli opportunismi, il privilegio garantito sempre agli stessi. Diffida dei populismi e della demagogia: a poco più di vent'anni scrive già che è dannoso incitare all' odio contro le tasse: "noi dobbiamo limitarci a dimostrare che le imposte sono mal distribuite, ma diffondere nel tempo stesso la persuasione che sono assolutamente necessarie".
Matteotti studia, studia costantemente, letteralmente sino all’ultimo dei suoi giorni. I suoi testi, le sue relazioni sono sempre preceduti ed arricchiti da una preparazione scrupolosissima, quasi maniacale: lo riferisce chi lo conosce e lo frequenta, ma si intuisce agevolmente alla lettura dei suoi testi o dei suoi interventi. Negli anni Matteotti acquisirà così una straordinaria padronanza della materia tributaria, che gli consentirà di confutare, con grande severità di giudizio, le tante proposte che venivano avanzate in maniera spesso disorganica e frammentaria. Si può dire che Giacomo Matteotti sia il primo politico socialista dotato di una profonda competenza giuridico-economica. Meglio: egli costituisce una nuova figura di politico, che mette al centro della sua azione una solida conoscenza, un profondo sapere, ma non è tutto. Matteotti introduce un paradigma del tutto nuovo, che gli consente di tenere “sotto osservazione” la questione fiscale con piena consapevolezza politica e, ad un tempo, di dare profondità politica alla sua proposta fiscale. La dimensione politica della sua azione si avvantaggia della grande competenza tecnica, e quest’ultima rimane sempre al servizio della prima di cui è, anzi, la leva, il punto di forza, dotandola di uno spessore senza precedenti. Non è dunque un tecnocrate, tutt’altro. Matteotti, piuttosto, diffida dei tecnocrati, delle alte burocrazie e del loro potere invisibile e avversa fermamente le loro “riforme”, così come i politici che non dichiarano apertamente gli obiettivi che intendono perseguire e ne denuncia severamente la mancanza di visione e di orientamento.
Già a partire dai primi scritti l’approccio di Matteotti alla vicenda fiscale non è mai frammentario né isolato in sé stesso. Si dispiega, con grande consapevolezza, nel più ampio contesto economico e sociale che a Matteotti sta a cuore criticare e che gli interessa riformare, e costituisce occasione per enucleare i principi di riferimento, che costituiscono veri e propri pilastri del suo discorso riformista. Matteotti affronta subito, quando è ancora giovanissimo, e vi ritorna metodicamente negli anni, i temi dell’equità, dell’uguaglianza, della perequazione, della parità di trattamento, ai quali attinge dalle scienze sociali per immetterli nella vicenda fiscale. Principi, coltivati in prospettiva non accademica o per mera speculazione intellettuale, che sono piuttosto capisaldi di un programma politico pragmatico, elementi costitutivi del suo progetto riformatore, concretamente ancorato alle urgenze della società del suo tempo e, ad un tempo, profeticamente proiettato nel futuro.
Nei suoi discorsi parlamentari, così come negli scritti, si cimenta in confronti spesso anche duri e non privi di vervepolemica, tenendo testa ai più grandi studiosi e statisti del tempo, da Antonio Salandra a Francesco Saverio Nitti, a Filippo Meda a Giovanni Giolitti e Luigi Einaudi, il quale al di là dell'aspro confronto politico nutre per Matteotti una grande considerazione.
L'impegno di Matteotti nella materia fiscale tuttavia non è mai incline alla polemica sterile o circoscritto alla critica, pur argomentata e documentatissima, dell'approccio spesso populistico dei suoi avversari politici. Tutt’altro: il connotato più rilevante del suo impegno nella materia risiede anzi in una grande capacità di elaborazione e proposizione sistematica,che gli consente di giungere ad una proposta di riforma tanto innovativa per i suoi tempi quanto straordinariamente attuale ai nostri.
Matteotti fa riferimento, nei discorsi cruciali, al sistema tributario: una chiara scelta di metodo, che conferisce profondità alla sua azione politica. Le questioni affrontate sono, così, sempre tasselli di un grande mosaico in costruzione che, con il passare del tempo, assume forma e consistenza, metodicamente, nella visione di sistema. Matteotti costruisce così trama e ordito del sistema tributario che ha in mente, dal quale non esige una generica equità. Matteotti pretende infatti giustizia, con una determinazione straordinaria. Si tratta di un approccio alto, di una visione densa di grande contenuto politico.
Il punto di svolta nel suo impegno è costituito dall’elezione alla Camera, a novembre del 1919. L'approdo in Parlamento lo spinge, se possibile, ad un impegno ancora più incisivo. Nella primavera precedente pubblica “La Riforma tributaria”, volumetto che raccoglie una serie di articoli su Critica sociale, la rivista socialista più autorevole. Si tratta di un vero e proprio manifesto politico che segna un cambio di passo rispetto alle proposte del tempo, anche degli stessi socialisti, caratterizzate da un approccio ridondante e frammentario, del tutto inefficace ad incidere su una società in profonda evoluzione come quella del primo dopoguerra.
Centrale nella proposta matteottiana è l'imposta generale progressiva sul reddito. Questione della quale si discuteva da tempo ma in relazione alla quale nessun politico, sino ad allora, aveva elaborato una proposta organica finalizzata a conseguire, grazie ad essa, l'obiettivo di giustizia sociale che Matteotti aveva in mente.
Del resto, si tratta di un tema nevralgico che segna anche il nostro presente perché, se al tempo non esisteva ancora, oggi la progressività si è in gran parte smarrita.
Nella Riforma di Matteotti l’imposta progressiva è un prelievo destinato inizialmente a cumularsi con le imposte reali in vigore (sui terreni, sui fabbricati, sulla ricchezza mobile) per poi gradualmente assorbirle, diventando imposta personale generale e progressiva sul reddito. La tassazione a mezzo di imposte reali e proporzionali è espressione di una concezione statica, e impone la focalizzazione su un elemento di reddito isolato, poco significativo a indicare effettivamente la forza economica complessiva e determinano ulteriori disuguaglianze. Nella visione di Matteotti i tradizionali prelievi reali sul reddito devono perciò essere superati e possono solo assumere una funzione ancillare e strumentale, quello che egli definisce il “fondamento ricognitivo”, mediante il censimento dei cespiti tassabili. Anche questo è un elemento peculiare della sua proposta di Riforma e la distingue decisamente dalle altre iniziative del tempo. Per Matteotti una razionalizzazione del sistema che introduca un prelievo incentrato sull’imposizione personale progressiva è la sola che consente di perseguire un reale obiettivo di equità, poiché è in grado colpire una capacità contributiva effettiva e complessiva, e si accompagna a una minore suscettibilità a determinare effetti di traslazione occulta del prelievo, fenomeno che si verifica con le imposte reali, particolarmente con quella sui fabbricati.
Né, precisa Matteotti, il prelievo in forma progressiva dovrà crescere indefinitamente fino al punto che l’imposta assorba tutto il reddito: occorre, perché i contribuenti si inducano a più sincere dichiarazioni, ribassare, semplificare e unificare le aliquote di imposta perché oltre un certo limite il contribuente potrebbe sentire l’ostilità del prelievo e cercare di sottrarsi al dovere fiscale.
È una visione modernissima, che lo spinge a cogliere nella semplificazione dei meccanismi impositivi una via per indurre il contribuente a pagare il dovuto. Inoltre, Matteotti critica gli accordi personalizzati sulle imposte sul reddito (con una certa semplificazione, quelli che oggi chiamiamo “concordato fiscale”), ai quali l’amministrazione fiscale del tempo era costretta a far ricorso anche per l’incapacità di perseguire i grandi evasori. Sono opzioni che Matteotti vede carichi di effetti incontrollabili di distribuzione ineguale del prelievo.
Negli anni successivi Matteotti affina ulteriormente la sua proposta, la discute in tutte le sedi, a partire dal Parlamento, nella cui centralità per la difesa delle prerogative democratiche e dello Stato di diritto crede fermamente e con grande coraggio ne difende le prerogative.
Al cuore della sua proposta rivoluzionaria e ancor oggi attualissima resta tuttavia una domanda che attiene più al metodo che al merito: possiamo chiedere che la questione fiscale sia affrontata alla luce del sole, nel luogo istituzionale preposto al dibattito pubblico, o dobbiamo rassegnarci alle leggi scritte dalle alte burocrazie nell’ombra dei corridoi ministeriali, ai decreti-legge convertiti frettolosamente senza dibattito parlamentare?
Siamo ormai al 1922. Il precipitare degli eventi, la marcia su Roma, la presa di potere formale dei fascisti e del loro duce non gli impediscono di continuare la sua lotta, che anzi si fa più serrata. Non pensa di abbandonare il Paese per trovare rifugio all’estero, dove amici e compagni lo accoglierebbero e gli assicurerebbero quella protezione che in Italia non è più possibile.
Il culmine dell’impegno di Matteotti nella materia fiscale è costituito dall’attenzione dedicata ai “pieni poteri”, nel momento più drammatico dell’insediamento del regime fascista nel cuore delle istituzioni democratiche, che verranno chiesti e conseguiti proprio con una legge fiscale. La legge sui pieni poteri è la prima legge portata in Parlamento da Benito Mussolini. E si tratta proprio di una legge fiscale, anzi di una legge per la riforma fiscale. Anche qui il tema dell’imposizione è centrale, ma la prospettiva si fa ancora più alta, istituzionale, e viene affrontata da Matteotti nel segno della coraggiosa difesa delle regole democratiche e dello Stato di diritto al cospetto di avversari che pur di metterlo a tacere non smetteranno di tormentarlo con tutti i mezzi e con la violenza, sino al tragico epilogo.
Nel ruolo della legge come strumento di garanzia in senso formale e sostanziale, Matteotti trova l’elemento che arricchisce in modo decisivo la sua azione in campo tributario. La legge vuol dire rappresentanza, l’irrinunciabile legame con il Parlamento, espressione di quel mondo reale nel quale è necessario che ciascun tributo trovi la propria funzione.
Non occorre certamente attendere gli ultimi mesi della sua vita per rendersi conto della visione costituzionale di Matteotti, perché la tensione verso le garanzie dello Stato di diritto è costante, a partire dall’epoca giovanile. Tuttavia, nel momento della conquista del potere da parte dei fascisti diventa più nitida e vibrante, come le parole scandite nella relazione di minoranza nella “Commissione dei nove”, che sollevano il velo sull’inconsistenza della relazione di Antonio Salandra e ne mettono a nudo una pochezza che non dipende certo dall’incapacità dell’estensore, tutt’altro. Salandra infatti è un grande accademico, autore di sterminate pubblicazioni in materia economico-finanziaria, di scienza dell’amministrazione e di diritto amministrativo, uno statista di provata esperienza che è stato a capo di dicasteri economici e anche Presidente del Consiglio. Tuttavia è lì per assecondare un disegno che porterà all’esautorazione del Parlamento e a conculcare le libertà democratiche, e tutta la sua scienza non gli basterà per renderlo credibile.
Le minacce, la persecuzione, i tormenti subìti negli ultimi anni, negli ultimi mesi di vita, non inducono Matteotti alla prudenza, o ad un cambio di registro.
La sua intransigenza si fa ancora più ferma, irremovibile, come del resto sino all’ultimo articolo pubblicato, pochissimi giorni prima del rapimento e dell’uccisione, ancora una volta sulla legge sui pieni poteri fiscali.
Le parole di Matteotti sono un volo altissimo, che purtroppo, non basterà a salvare il Parlamento che rimarrà, per vent’anni e più, solo uno “scenario dipinto”, come preconizza Filippo Turati nel corso del dibattito in Aula. Seppur vane in quel momento, produrranno un risultato straordinario. Sopravviveranno per oltre un secolo e saranno attuali ogni volta che, nell’esercizio della potestà normativa tributaria, si assiste a invasioni di campo tra poteri dello Stato e il Parlamento non esercita in pieno le sue prerogative.
Francesco Tundo, La Riforma tributaria. Il metodo Matteotti, Bologna University Press, 2024.
Nell'immagine il murales recentemente inaugurato sulla facciata del Liceo Copernico di Bologna per ricordare Giacomo Matteotti.
Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo.
Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me. Giacomo Matteotti, 30 maggio 1924, dopo aver pronunciato il suo ultimo, appassionato, coraggioso, discorso alla Camera dei Deputati, ormai divenuta un bivacco di manipoli. Il 10 giugno successivo Matteotti è stato rapito ed ucciso. Questo è il martire dell’antifascismo, quindi tout court della democrazia e della libertà, che è conosciuto da tutti.
Francesco Tundo, con La riforma tributaria. Il metodo Matteotti, Bologna, 2024 e con questo scritto per Giustizia Insieme illumina una parte dell’attività politica di Giacomo Matteotti che è molto meno noto, ma per nulla meno importante.
La “questione fiscale” infatti è da sempre al centro del discorso pubblico degli aggregati umani, dall’evangelico dare a Cesare quello che è di Cesare al no taxation without representation della rivoluzione americana.
Perciò non può affatto sorprendere che un politico fine e profondo come Matteotti -in una convulsa fase di transizione che ha portato la Nazione nel baratro del ventennio fascista ed al suo tragico epilogo bellico, poi a quello catartico, ma ugualmente drammatico, della Liberazione- non sentisse l’importanza di tale nodo strategico e non lo vivesse da protagonista.
Tundo lo spiega in modo molto puntuale ed approfondito, mettendo in risalto i passaggi fondamentali del pensiero di politica fiscale di Matteotti, dall’esperienza nel governo degli Enti locali a quella parlamentare, conclusasi con il suo barbaro assassinio.
Ed è al crepuscolo di questa esperienza umana e politica che si coglie la grandezza dello statista socialista. Come ricorda Tundo, per nulla a caso, «La prima legge presentata in Aula dal Governo fascista è una legge tributaria, anzi una legge per la riforma tributaria, che determina l’esautorazione del Parlamento a beneficio del Governo e, di fatto, apre il varco alla dittatura» (F. TUNDO, op. cit., 105).
Matteotti è sulla barricata, come non poteva non essere. Perché è con questa legge che Mussolini chiede i “pieni poteri” di triste memoria. Ai tempi del premierato un monito chiaro. E il parlamentare socialista, senza paura, in Aula dichiara «In nessun Parlamento d’Europa sono stati dati al Governo i pieni poteri in materia di tributi. I parlamenti traggono anzi la loro origine proprio dal concetto di limitare i poteri del Principe o del potere esecutivo nel prelevamento delle imposte» (F. TUNDO, op. cit.,110).
Vero, verissimo: questa è la storia dell’evoluzione dei sistemi politici, dalle monarchie assolute a quelle parlamentari ed infine ai moderni sistemi democratici occidentali.
Come Tundo ci spiega, le idee di politica tributaria di Giacomo Matteotti risentono inevitabilmente del tempo storico nelle quali vengono sostenute e vanno pertanto contestualizzate, storicizzate. Tuttavia non possono aversi dubbi che all’Assemblea costituente, nella Commissione dei ’75, Matteotti sarebbe stato uno dei padri degli artt. 23, 53 della Costituzione della Repubblica italiana e degli artt. 2, 3 della stessa, principi supremi sui quali si fondano.
La ferocia fascista ha impedito che ciò accadesse, ma è stato lo stesso Matteotti a dire «Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai». Con questo contributo di Francesco Tundo la Rivista vuole dunque farne vivere le idee e onorarne una volta di più la memoria.
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