ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La requisitoria del pubblico ministero.
Esplicazione della sua natura giurisdizionale, momento di attuazione del principio di oralità del processo
Relazione tenuta presso la Scuola Superiore della Magistratura di Scandicci ai magistrati ordinari in tirocinio nella loro prima settimana di formazione (“tirocinio generico penale”) il 21.2.2025
Sommario: 1. Introduzione: una prospettiva inedita – 2. La libertà del pubblico ministero – 3. La scatola vuota del processo accusatorio – 4. La struttura della requisitoria (ed emersione della natura giurisdizionale della funzione) – 5. La requisitoria quale momento di attuazione del principio di oralità del processo – 6. Post scriptum
La requisitoria esplica mirabilmente la natura giurisdizionale della funzione del pubblico ministero, ove egli trova quello spazio di libertà di cui non ha potuto godere nel corso dell'intero procedimento. Nella fase della discussione il pubblico ministero, finalmente autonomo, veramente autonomo, se saprà sfruttare bene, con rigore e onestà intellettuale, la sua libertà, avrà la possibilità di mostrarsi quale vero organo giurisdizionale.
E se tale è il contenuto della requisitoria – un contenuto giurisdizionale, appunto – essa non può che assumere un ruolo di sistema, e contribuire in maniera determinante alla realizzazione del principio di oralità del processo penale.
1. Introduzione: una prospettiva inedita
Ringrazio la Scuola Superiore della Magistratura, perché con questo confronto che mi si offre con voi, giudici di domani, mi viene data la preziosa possibilità di riflettere sul ruolo del pubblico ministero; in un momento storico in cui tanto se ne discute.
Vorrei quindi affrontare il momento della requisitoria, nella fase della discussione, muovendomi in una cornice teorico-generale. Partendo da questo frammento della sua complessiva e molto più ampia attività, vorrei portare voi, giudici di domani, a comprendere i contenuti della funzione giurisdizionale del pubblico ministero, che vengono esaltati proprio nella fase della discussione; e se tale è il contenuto della requisitoria – un contenuto giurisdizionale, appunto – essa non può che assumere un ruolo di sistema, e contribuire in maniera determinante alla realizzazione del principio di oralità del processo penale.
Me ne rendo conto: è una prospettiva inedita. La requisitoria è spesso vista come l'esaltazione del versante protagonistico della funzione requirente: fatalmente, è così. Di solito le notizie di stampa sui grossi processi si disinteressano dell'istruttoria, mentre la requisitoria arriva ad occupare sui giornali lo stesso spazio della lettura del dispositivo. Alle posizioni delle difese non si dà risalto, perché fa più notizia chiedere l'ergastolo che una assoluzione o, "in via gradata", il minimo della pena: il crucifige! dei tempi di Gesù Cristo non è mai passato di moda, anzi – come ha rilevato Gustavo Zagrebelsky – è parte integrante del sistema democratico.
Vi ho appena rappresentato una stortura, certo riconducibile a quella che viene definita "giustizia mediatica", e che nondimeno rischia di mettere in ombra il carattere epistemologico della requisitoria del pubblico ministero. Questa mi sembra allora l'occasione migliore per svolgere una riflessione più approfondita sul punto.
2. La libertà del pubblico ministero
La fase della discussione, se ci pensate bene, costituisce un buco nero procedimentale. Il codice, all'art. 523, afferma laconicamente che le parti «formulano e illustrano le rispettive conclusioni». L'unica regola astrattamente riconducibile alla requisitoria del pubblico ministero, e cioè alle sue «conclusioni», è l'art. 53: «nell'udienza, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia». Queste due regole esauriscono la disciplina delle discussioni: eppure non dicono nulla. La requisitoria non dipende da regole scritte, il requirere è di per sé, e in ogni ambito, impossibile da imbrigliare.
La fase della discussione, proprio perché non regolamentata in alcun modo, inaugura un tempo sospeso, in cui il pubblico ministero gode di una libertà assoluta. Una libertà che, come vedremo, deve essere ben utilizzata e di cui, per ampiezza, non gode nessun altro attore del processo: non l'avvocato, che deve sempre tenere conto degli interessi del suo assistito (ha un preciso dovere deontologico, al riguardo), e neppure il giudice, il quale solo dopo, e nella solitudine della camera di consiglio, si dovrà muovere nello stretto spazio degli elementi probatori acquisiti ed utilizzabili.
Il giudice prende in mano il processo solo alla fine, in camera di consiglio, e tira le fila; il pubblico ministero invece prende in mano il processo nella requisitoria e qui vi trova, finalmente, quello spazio di libertà di cui non ha potuto godere nel corso dell'intero procedimento.
Il pubblico ministero infatti nel corso del procedimento non è pienamente libero di determinarsi. E non mi riferisco tanto ai pesi e contrappesi, ai meccanismi interni dell'ufficio di Procura di verifica dell'oculatezza dell'azione penale, e delle azioni penali: il sostituto non può esercitare l'azione penale senza il visto del procuratore, tantomeno il procuratore può obbligare il sostituto a richiedere una misura cautelare; salvo ovviamente incorrere in sanzioni disciplinari.
Mi riferisco, ragionando in una prospettiva più sistematica, al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sancito in Costituzione quale precipitato, in sede giudiziaria, del principio di uguaglianza, che appunto indica al pubblico ministero una strada "obbligata"; e per questa via, però, lo imbriglia sul piano interpretativo, perché l'ermeneusi del giudice sulla fondatezza della notizia di reato – o di una notizia di reato – è prevalente rispetto a quella del pubblico ministero.
Tale principio è garantito durante le indagini dal giudice per le indagini preliminari, che può ordinare iscrizioni, indagini suppletive o addirittura l'esercizio dell'azione penale mediante l'imputazione coatta. Ma anche nella fase preliminare e predibattimentale il controllo sull'obbligatorietà dell'azione penale è serrato: pensate alle modifiche dell'imputazione che il giudice può richiedere, pena l'improcedibilità.
Questa obbligatorietà per il pubblico ministero comincia – finalmente – a nebulizzarsi nel corso del dibattimento, così come è definito nel modello accusatorio, in cui il giudice è "vergine", e nulla conosce del procedimento. È un'asimmetria informativa che carica sulle spalle del pubblico ministero – sgravato ormai dai controlli legati all'esercizio (o al mancato esercizio) dell'azione penale – il thema probandum.
3. La scatola vuota del processo accusatorio
Se ci pensate il processo, nel modello accusatorio puro, è una scatola vuota, che può essere riempita solo dall'attività istruttoria condotta dal pubblico ministero, il quale all'apertura del dibattimento chiede provarsi l'ipotesi accusatoria di cui all'imputazione, che è l'unico dato misto – di fatto e di diritto – di cui il giudice dispone.
L'attività istruttoria è per sua natura corale: come prescrive l'art. 111 della Costituzione, «si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»; ma è nella vita processuale concretamente trainata dal pubblico ministero, semplicemente perché è stato lui ad avere chiesto il processo. Lui o chi per lui. Quest'attività è ben più importante di quella d'indagine, ed anche più onerosa e responsabilizzante: da un lato, perché non è supportata dalla polizia giudiziaria, necessaria propaggine operativa del pubblico ministero alla ricerca delle prove di un reato; dall'altro perché egli, finalmente solo ai banchi dell'accusa, avverte l'euforia per una libertà fin lì mai pienamente goduta. E l'euforia è un sentimento che va governato, soprattutto in un'aula d'udienza.
Ragionando in astratto, il pubblico ministero può anche essere deciso a far naufragare il processo; quel processo che, magari, lui non ha voluto e gli è stato imposto da un giudice per una diversa valutazione sulla fondatezza del fatto di reato. Può scegliere che quella scatola rimanga vuota, boicottando le richieste di prova; o addirittura può chiedere fin dall'apertura del dibattimento una declaratoria favorevole all'imputato ai sensi dell'art. 129. Ma al di là di queste ipotesi estreme, e certo non auspicabili per la tenuta complessiva dell'ordinamento processuale, il pubblico ministero è libero di riempire la scatola vuota del processo come vuole, entro i limiti ovviamente del materiale probatorio raccolto e utilizzabile.
Ebbene, questo il punto: nella requisitoria il pubblico ministero deve dare conto di come ha speso la libertà che l'ordinamento, in sede processuale, gli ha conferito.
4. La struttura della requisitoria (ed emersione della natura giurisdizionale della funzione)
La requisitoria dovrebbe dunque, preliminarmente, avere un carattere ricostruttivo (dell'istruttoria) ed esplicativo (del materiale probatorio). Intendo dire che è una fase logicamente preliminare, perché solo dopo aver spiegato come è stata riempita quella scatola si può spiegare perché la si è riempita.
Quella scatola è stata riempita perché si voleva comprovare un fatto, e la sua sussunzione in una norma di legge. Quella scatola si è riempita per comprovare quell'unico dato "misto" – di fatto e di diritto – di cui il giudice disponeva fin dall'origine del processo: l'imputazione, la quale però è, in sé considerata, una mera elucubrazione del pubblico accusatore (o, più elegantemente, una ipotesi di lavoro). E se così è, dopo la ricostruzione dell'istruttoria e l'etichettamento, la catalogazione del materiale probatorio, per cui ogni elemento dell'imputazione, di ogni imputazione, deve trovare il suo riscontro, il fatto deve essere narrato e il diritto deve essere, infine, affermato.
Il fatto, ovverosia la narrazione del fatto, in cui il pubblico ministero sceglie sempre il suo punto di vista, il suo angolo prospettico, e lo fa anche quando non se ne accorge. Può scegliere di essere narratore onniscente, di essere narratore storico o addirittura sociologico, oppure di utilizzare la prima persona e adottare il punto di vista della persona offesa o dell'imputato; e può farlo per stigmatizzare, o per giustificare una determinata condotta. Può quindi modulare la sua narrazione affinché risulti funzionale alle sue richieste.
Ma la narrazione del fatto può essere – come spesso è – intrisa di soggettiva riprovevolezza, di considerazioni moralistiche, di giudizi di valore che invece il dato di legge non considera. L'indignazione morale è alla base del diritto penale, ma è accortamente tenuta fuori dalla sintassi del diritto penale.
Il pubblico ministero, quando affronta questo punto "narrativo" della requisitoria, è quindi un libero interprete delle vicende umane, ma non un libero giurista. Non è questa l'espressione di massima libertà del pubblico ministero a cui mi riferivo.
La massima espressione di libertà il pubblico ministero la trova nell'esercitare la sua vera natura giurisdizionale, e quindi nell'affrontare il diritto. La sussunzione del fatto nel diritto è il compimento della giurisdizione, cioè dello ius dicere. È a quel punto che si abbraccia la "fede nel diritto", per utilizzare una nota espressione di Calamandrei: è in base al diritto che si sta chiedendo la punizione dell'imputato oppure il suo proscioglimento (sulla scorta in questo caso del diritto processuale che verte sulle prove e sulle condizioni di procedibilità; mentre la condanna si fonda sulla fattispecie sostanziale indicata nella imputazione); e del diritto, il giurista nella veste di quell'attore del processo che formula le sue conclusioni, diventa sacerdote.
I "considerando" in diritto costituiscono quindi il momento più intenso dell'attività giurisdizionale del pubblico ministero, proprio perché egli ci arriva nel corso del procedimento gradualmente, affrancandosi prima dall'obbligatorietà dell'azione penale, che si tramuta – questo il punto – in un'obbligatorietà di ermeneusi, tanto che egli in udienza si presenta «con piena autonomia»; poi, dopo l'istruttoria, e dopo la narrazione del fatto, arriva alla quaestio iuris affrancandosi, il pubblico ministero, dalle scorie della soggettività che questa comporta. È in una tale libertà mai goduta che egli affronta – o dovrebbe affrontare – la parte in diritto; la sublimazione della scienza giuridica nella vicenda concreta. E questa libertà, finalmente anche ermeneutica, si esplica proprio davanti a voi, giudici di domani.
Anche se in molti processi la parte in diritto della requisitoria può apparire scontata, diffidate da quei pubblici ministeri che la omettono, perché le valutazioni giuridiche, di integrazione della norma nel fatto, distinguono la figura del poliziotto o del super-poliziotto, dello storico, del sociologo o del narratore, da quella del pubblico ministero. Almeno, così come emerge dall'attuale assetto costituzionale, in cui pubblico ministero e giudice sono parte di un'unica giurisdizione, di un unico ius dicere.
5. La requisitoria quale momento di attuazione del principio di oralità del processo
La requisitoria esplica dunque mirabilmente la natura giurisdizionale della funzione del pubblico ministero; ma al tempo stesso contribuisce alla realizzazione del principio di oralità del processo penale; e non solo per l'ovvia ragione che la requisitoria – così come l'arringa difensiva – è la quintessenza della retorica forense e giudiziaria, che di sola oralità può vivere.
Tutto ciò che nel corso dell'istruttoria non è stato "parlato", nella requisitoria deve parlare; si sopperisce così alla lettura processuale, che rende gli atti utilizzabili ai fini della decisione ma che, se ci pensate bene, collide con il principio di oralità del processo. Le dichiarazioni confluite nel fascicolo del dibattimento devono essere lette, o meglio recitate, almeno nelle loro parti salienti, perché quelle parole trovino adesso voce nel pubblico ministero, in procinto di formulare le sue richieste.
L'oralità crea un impatto emotivo ben diverso dalla scrittura: e poiché il penale è spesso sinonimo di umanità dolente, spetta al pubblico ministero chiudere il cerchio dell'oralità del processo, con la sua stessa voce. E talvolta essere l'unico artefice dell'oralità: pensate al processo abbreviato "secco", in cui tutto confluisce senza filtri nel fascicolo del giudice. La rinuncia all'oralità è una scelta dell'imputato, direte voi; ma l'adozione di una precisa strategia processuale non può mai intaccare il compendio di principi posto a garanza della genuinità della decisione del giudice; e di cui il pubblico ministero è ultimo garante. Garante, come parte pubblica, che il giudice entri in camera di consiglio con l'eco delle parole di accusa e difesa, nonché dello stesso imputato, cui è sempre riservata l'ultima parola (art. 523, co. 5).
Ma il pubblico ministero – tornando al dibattimento – ha anche il compito di dare voce non solo a ciò che è rimasto scritto per strategia processuale delle parti (si pensi alle acquisizioni di verbali previo consenso) o per necessità (si pensi al decesso di un testimone prima della sua audizione), ma anche – e forse soprattutto – a ciò che sempre, in un processo, rimane scritto; e senza alcuna specificazione, scripta manent: nel senso che non sempre il giudice dispone di quel contesto conoscitivo utile ad interpretare il dato asetticamente acquisito. Ci deve pensare, per l'appunto, il pubblico ministero; lo può fare con una memoria scritta, che il giudice porterà con sé nell'invalicabilità della camera di consiglio; lo deve fare nella sua requisitoria, che avrà quale canovaccio la stessa memoria.
Mi riferisco ai compendi documentali e alle intercettazioni.
In un processo in cui molta documentazione, anche tecnicamente complessa (si pensi a quella di tipo bancario o societario), è stata depositata e acquisita, non si può lasciare alla buona volontà del giudice la ricostruzione della vicenda; e anche laddove vi fossero delle consulenze, che rappresentano l'ausilio principale al giudizio attraverso altre discipline, è al pubblico ministero che spetta dare voce alla trama documentale che egli stesso ha tessuto. Il giudice, si dice, è peritus peritorum; più di lui, e prima di lui, però, deve esserlo il pubblico ministero.
Così come in un processo in cui sono state riversate le risultanze di una intensa attività tecnica, quelle conversazioni, almeno le più significative, dovrebbero essere fonte di prova nel senso proprio: dovrebbero cioè essere ascoltate in aula. Questo, mi rendo conto, non è quasi mai possibile: e allora sia il pubblico ministero a farsi filtro, ad ascoltare (o ri-ascoltare) quelle più rilevanti per afferrarne i toni e le sfumature (che sono a volte essenziali) e a dare conto nella requisitoria di questo ascolto. Mi è capitato più di una volta, e più di una volta ho chiesto l'assoluzione, perché l'ascolto mi ha convinto di una conversazione fraintesa, o male interpretata.
L'oralità nel processo è, per quanto riguarda il pubblico ministero, espressione della sua libertà, che si esalta nel corso della requisitoria. In questa fase egli, finalmente autonomo, veramente autonomo, se saprà sfruttare bene, con rigore e onestà intellettuale, la sua libertà, avrà la possibilità di mostrarsi a voi, giudici di domani, come vero organo giurisdizionale.
Un pubblico ministero capace di questo nel corso della requisitoria – capace quindi di ricostruire l'istruttoria e mettere in fila il materiale probatorio acquisito, distribuendolo nella topografia della imputazione, al fine di potere prima narrare il fatto per come è stato accertato e poi affermarne i suoi contenuti giuridici, sempre tenendo fede al canone di oralità, che è un canone di garanzia – compie un buon lavoro processuale ma soprattutto, in una prospettiva di sistema, si allinea perfettamente alla sua natura giurisdizionale, che è la stessa del giudice, senza che per questo egli ne sia influenzato rispetto alla decisione da prendere; ma voi giudici di domani avrete a quel punto – nella solitudine della vostra camera di consiglio – tutti gli elementi per rendere, senza il timore dell'incompletezza, lo ius dicere che vi è richiesto.
6. Post Scriptum.
Avevo appena chiuso questa mia relazione, che l’altro giorno, in udienza, venivo verbalmente aggredito da un imputato: si verificava uno spiacevole momento di turbolenza processuale. Non dovrebbe capitare, ma capita. Questo episodio mi consente di aggiungere una postilla al mio intervento.
Il processo, come ho detto, è un rito, e tutti gli attori (pubblico ministero, avvocato, giudice) ne sono i sacerdoti. Ogni fase di questo rito, specialmente le battute finali (requisitoria, arringa, camera di consiglio, che oggi stiamo esaminando), sono funzionali al compimento di quell’atto di giustizia che è il processo: e, badate bene, non può esserci democrazia senza giustizia.
A voi, giudici di domani, che di questo rito sarete i primi sacerdoti, rivolgo una preghiera: prendetevi cura di questo rito, e non consentite a nessuno di profanarlo, di dissacrarlo. Prendetevene cura come se fosse un pezzettino della nostra democrazia, e quindi un pezzettino della vostra vita.
Sommario: 1. Come per Sacco e Vanzetti – 2. Il primo maggio in Italia – 3. L’ultimo primo maggio di guerra – 4. Dopoguerra, un primo maggio in Sicilia – 5. Primo maggio, oggi.
Si dice bonariamente che la mamma va festeggiata tutto l’anno, non in un giorno solo di maggio. Con meno trasporto sentimentale, ma più raziocinio, dovremmo dire la stessa cosa per la categoria dei lavoratori. Magari in questo modo sarebbe più difficile dimenticare le questioni irrisolte della loro precarietà, della povertà dei salari (in Italia vantiamo il record europeo), delle morti sul lavoro (1.090 i decessi denunciati all’INAIL nel 2024, 4,7% in più dell’anno precedente; 138 nei primi due mesi del 2025, 16% in più dello stesso bimestre del 2024).
Col suo carico simbolico, in un Paese in cui la progressiva polarizzazione si nutre dell’indifferenza e dell’inettitudine all’indignazione e alla vergogna, il primo maggio è divenuta nel tempo festa sempre più divisiva, come se la parola “lavoro” non ricorresse in tutti i testi costituzionali d’Europa e, tra questi, nell’art. 1 del nostro.
Proviamo almeno a fare un po’ di storia, dunque, per ricordare le radici della festa.
1. Come per Sacco e Vanzetti
Negli Stati Uniti la festa dei lavoratori cade il primo lunedì di settembre. Eppure, la scelta invece della ricorrenza il primo maggio, da parte di 26 Paesi europei e numerose altre nazioni mondiali, risale a un evento verificatosi a Chicago, al culmine di uno sciopero generale, con lo scoppio di una bomba ad Haymarket square, di cui furono accusati quattro anarchici.
Nella seconda metà dell’Ottocento, nel pieno della rivoluzione industriale americana, si stavano susseguendo le manifestazioni per i diritti degli operai delle fabbriche, indette dai “Knights of Labor”, i Cavalieri del lavoro. Nel 1866 fu approvata in Illinois, la prima legge delle otto ore lavorative giornaliere, che entrò in vigore l’1 maggio dell’anno successivo. Per lo stesso giorno del 1866 venne proclamato uno sciopero, poiché le organizzazioni sindacali ritenevano che, dopo diciannove anni, fossero ormai maturati i tempi per estendere a tutti gli Stati uniti la legge sulle otto ore. Negli anni precedenti altre grandi manifestazioni si erano tenute in diversi centri, con alcuni episodi violenti.
L’epicentro delle manifestazioni del primo maggio 1886 fu ancora Chicago, Illinois, dove ben presto la polizia intervenne a reprimere la protesta, sparando sui dimostranti radunatisi intorno alla fabbrica di macchine agricole Mc Cormick e uccidendo due persone.
Nei giorni seguenti gli scontri proseguirono ininterrotti, finché il 4 maggio gli anarchici si sostituirono alla federazione sindacale con un’adunanza di protesta contro la violenza della polizia nella piazza del mercato di Chicago. Da una traversa fu lanciata una bomba – si accerterà poi che si trattava di dinamite – che provocò la morte di sei poliziotti e il ferimento di decine di presenti.
Le forze dell’ordine reagirono sparando sui manifestanti. Il numero complessivo delle vittime della giornata resterà per sempre ignoto. Quali autori dell’attentato, dopo un rapido processo, il 20 agosto 1987 furono condannati otto anarchici, sette dei quali alla pena capitale. Per due di loro, di origine germanica, l’intervento di cancellerie europee indurrà il Governo americano a commutare la pena nell’ergastolo. Gli altri cinque saranno invece impiccati a Chicago l’11 novembre.
Quarant’anni dopo, toccherà ad altri due anarchici, Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, acquisire fama universale per la condanna a morte inflitta dalla giustizia americana.
Non c’era internet e le notizie arrivavano oltreoceano giorni, se non settimane dopo. Ciò nonostante i fatti di Haymarket square ebbero in breve una tale risonanza da indurre i Governi europei ad adottare misure preventive per l’ordine pubblico. Il cancelliere Otto Von Bismarck vietò in tutta la Germania manifestazioni di sostegno agli anarchici e al socialismo.
L’eco internazionale e le pressioni sindacali spinsero lo stesso presidente USA Grover Cleveland a proclamare già nel 1987 il primo maggio come festa nazionale. Per scongiurare il rischio che l’iniziativa consolidasse la credibilità delle forze socialiste, dopo l’iniziale commemorazione dei tragici eventi di Chicago il presidente pensò di dedicare la festa per gli anni seguenti ai Cavalieri del lavoro.
Il 14 luglio del 1889 l’assemblea dei partiti laburisti e socialisti europei, fondando a Parigi la Seconda internazionale, come suo primo atto proclamò il primo maggio giornata internazionale dei lavoratori.
2. Il primo maggio in Italia
La prima reazione per i fatti di Chicago nel nostro Paese si registra a Livorno, dove la cittadinanza si mobilita scendendo nelle strade: prima si dirige verso il porto, dove sono ancorate le navi statunitensi, tentando di darvi l’assalto, poi alla Questura, dove si diceva si fosse rifugiato il console.
Nel 1890 si hanno le prime manifestazioni per il primo maggio[1], ma solo l’anno dopo l’evento viene ufficializzato.
La festa si celebrerà per trentadue anni. Nel 1923 il fascismo la anticipa al 21 aprile, in coincidenza con il “Natale di Roma”. Con regio decreto-legge n. 833/23 si stabilisce infatti che tutti gli accordi tra industriali e operai per la “giornata di vacanza” del primo maggio avrebbero trovato applicazione il 21 aprile, vale a dire due giorni dopo la pubblicazione del decreto (!).
Scatta di conseguenza la repressione contro i tentativi delle organizzazioni dei lavoratori di celebrare la festività originaria. Vengono eseguite decine di arresti di manifestanti. Ancora l’anno dopo, però, molti operai continueranno ad astenersi dal lavoro il primo maggio. Mettendo a repentaglio la propria libertà in tanti cercano così di salvare una ricorrenza gravida di significati[2].
Nel 1946 il Governo De Gasperi ripristinerà la celebrazione che tre anni dopo verrà inserita tra le festività nazionali.
3. L’ultimo primo maggio di guerra
Per molti lavoratori dell’industria del nord Italia il primo maggio 1944 sarebbe stato l’ultimo. Il Natale di Roma non si festeggiava già più, ma la mera condizione di operai specializzati stava per mettere in pericolo la loro esistenza.
Il 16 giugno, infatti, a Genova gli occupanti tedeschi, coadiuvati dai fascisti della RSI, compiono una retata inattesa, che coinvolge circa 1.500 uomini, lavoratori di Siac, San Giorgio, Piaggio e Cantiere navale Ansaldo. Il rastrellamento si estende ad altri operai liguri e del triangolo industriale. Da tempo essi stavano boicottando, con scioperi, proteste o azioni di danneggiamento, la produzione destinata a favorire la causa tedesca. Il nazifascismo trova dunque un facile pretesto per porre in essere un atto repressivo che ha però una finalità essenzialmente economica: reperire manodopera per il Reich che vada a rimpiazzare i vuoti determinati nel sistema produttivo tedesco soprattutto dal fabbisogno di crescenti contingenti di uomini da inviare sul fronte orientale della guerra.
Nei lager della Germania, come ad esempio il famigerato Mauthausen, gli operai trovano condizioni di vita simili, anche se meno assassine, di quelle dei deportati per ragioni razziali. Essi sono divenuti schiavi degli aguzzini tedeschi, votati solo al servizio del Fuhrer.
Ricorda in proposito Francesco Rossi: “Lavoravo nello stabilimento Stejer di Linz ed ero detenuto nel lager di Haid. La sveglia ogni mattina era alle tre. Nel tempo di quindici minuti occorreva essere pronti e veniva distribuita una gamella con un po’ di acqua calda ed una fettina di pane nero, circa 15 grammi per tutta la giornata. Quindi venivamo incolonnati e condotti sotto scorta ad attendere l’arrivo del treno che ci trasportava a Linz. A volte l’attesa del treno durava ore in un freddo glaciale, perché quello adibito per i deportati doveva dare la precedenza al trasporto delle truppe o dei civili. Alla stazione di Linz sempre incolonnati raggiungevamo la fabbrica, riorganizzata e sistemata in un gran numero di gallerie sotterranee. Nei vari reparti si lavorava dodici ore con un intervallo di mezz’ora in cui veniva consumata una brodaglia di rape. A sera tra le 18 e le 19 veniva ripetuto il tragitto contrario. Per lo più accadeva che il treno dei deportati non venisse neppure formato, per cui il ritorno al lager doveva essere fatto a piedi lungo il terrapieno della ferrovia. Ci si trascinava per oltre due ore e talvolta per le nevicate si giungeva alle baracche oltre la mezzanotte”[3].
Per alcuni deportati non ci sarà ritorno in Italia. Chi di loro sopravviverà rientrerà tra fine maggio e agosto 1945, non di rado in condizioni tali da renderlo inabile al lavoro. Ad alcuni, quali i dipendenti della San Giorgio, l’azienda riconoscerà una specie di cassa integrazione. Altri resteranno disoccupati.
La storia di quanti fecero Resistenza militante nelle fabbriche del Nord italiano, pagando per questo, è ancora misconosciuta. Anche per loro è la festa del primo di maggio.
4. Dopoguerra, un primo maggio in Sicilia
Sono circa 2.000 i lavoratori, per la gran parte contadini, che nel 1947 si riuniscono nella piana di Portella della Ginestra, a Piana degli Albanesi, per celebrare la festa dei lavoratori del primo maggio. V’è da festeggiare anche la vittoria alle elezioni regionali del 20 aprile del Fronte Popolare, l’alleanza PCI-PSI, che ha nel suo programma l’abolizione del latifondismo e la distribuzione delle terre ai braccianti.
Un calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, è il segretario della locale sezione socialista. Sta intrattenendo la folla, in attesa degli oratori ufficiali, quando un gruppo di persone armate sopraggiunte inizia a sparare sulla folla dei presenti. La fuga non è immediata, perché i manifestanti scambiano per qualche secondo i colpi di arma da fuoco con quelli dei mortaretti. Si accerterà tempo dopo che in realtà gli autori avevano utilizzato armi da guerra; erano attrezzati, dunque, per una vera azione militare, avviata con un lancio iniziale di granate volto a disperdere le frange dell’adunanza più esterne.
La strage di Portella della Ginestra è cruenta: muoiono dodici persone; ventotto restano ferite, alcune mortalmente.
Il 2 ottobre 1948 Salvatore Giuliano, con una lettera inviata a L’Unità, attribuisce la responsabilità a sé e alla sua banda, dandole uno scopo politico e alludendo a propri rapporti con noti esponenti politici, tra cui Mario Scelba. La lettera ha uno scopo evidente: è l’avviso dell’esecutore ai mandanti che non lo si sarebbe potuto mettere a tacere facilmente.
Nel frattempo Giuliano alza il livello della tensione, con nuovi attentati compiuti nel territorio palermitano. Il culmine si registra a Bellolampo il 19 agosto 1949: mentre una quindicina di uomini della banda assedia la caserma locale dei Carabinieri, allora alle porte del capoluogo, una camionetta che sta accorrendo a rinforzo, con diciotto militi a bordo, salta su una mina che era stata piazzata in contrada Passo di Rigano: ne muoiono sette, mentre gli altri undici rimangono feriti.
Il tempo per il bandito Giuliano, però, sta ormai scadendo. Diversi suoi uomini defezionano; altri vengono arrestati.
Il 5 luglio Giuliano viene ritrovato morto nel cortile dello studio di un avvocato a Castelvetrano, vittima – dirà il Ministero dell’interno – di uno scontro a fuoco coi Carabinieri. La versione ufficiale, piena di incongruenze, cozza con quella ufficiosa, secondo cui sarebbe stato il suo luogotenente Gaspare Pisciotta a ucciderlo, una volta passato dalla parte dello Stato. Pisciotta non arriverà mai rendere una testimonianza definitiva sull’accaduto, poiché il 9 febbraio 1954 viene avvelenato, bevendo un caffè con la stricnina.
La strage del primo maggio a Portella della Ginestra s’inserisce pertanto tra i misteri d’Italia, non tanto sulla dinamica e gli autori materiali, quanto sull’identità dei veri mandanti.
5. Primo maggio, oggi
Portella della Ginestra è l’ultimo evento drammatico di rilievo nella giornata della festa dei lavoratori non si hanno in Italia e in Europa. Il primo maggio assurge davvero a occasione per esaltare pubblicamente il significato del lavoro, un momento breve, ma significativo di sospensione della vita quotidiana.
Così come per il 25 aprile, questa giornata rappresenta non solo la celebrazione di un rituale che ha un significato proprio, ma anche la commemorazione degli eventi e delle persone che s’identificano con la lotta per la tutela della dignità del lavoro.
Nel 1990 la “triplice” (CGIL, CISL e UIL) istituisce il concertone in collaborazione col Comune di Roma. Nell’ultimo decennio altre civiche amministrazioni riproducono l’evento a dimensioni ridotte. Dal 2013 a Taranto c’è il festival musicale “Libero e pensante”, altrimenti detto controconcerto, organizzato dall’associazione Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Taranto è diventata a sua volta un luogo simbolo del disagio sociale causato dal ricatto insito nel conflitto tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro, dalla traiettoria disastrosa del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, dagli illeciti di chi ha perseguito il profitto sulla pelle dei lavoratori e della cittadinanza.
Tra le finalità dell’associazione organizzatrice il suo statuto annovera la tutela di alcuni diritti fondamentali connessi al lavoro: all’assistenza sanitaria pubblica; alla salubrità ambientale; alla stabilità occupazionale. C’è, inoltre, “la promozione della cultura della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro, come garanzia di effettività del diritto, normativamente riconosciuto, ad un ambiente lavorativo sicuro e salubre”.
La sociologia del nuovo millennio prefigura un futuro di cambiamenti talmente radicali, legati alla tecnica avanzata, da rendere il bisogno dell’apporto umano alla produzione pressoché inesistente. È un fenomeno non irrealistico, che tuttavia oggi contrasta con la realtà delle perduranti questioni radicatesi nell’Ottocento e rimaste irrisolte. In più ci troviamo ad affrontarle nel corso del tentativo, da tempo in atto e di portata disgregante, teso a marginalizzare le organizzazioni dei lavoratori nella loro capacità rappresentativa e nella loro unitarietà.
Fintanto che il futuro non sarà tra noi, coi nuovi problemi che porrà per l’individuo, non potremo quindi dismettere le categorie tradizionali nelle riflessioni sul mondo del lavoro, se vogliamo davvero attuare con pienezza, qui come altrove, la Costituzione.
[1] A Forlì la rivista La Rivendicazione pubblica il 26 aprile 1890 un articolo, intitolato Per primo maggio, che così esordisce: “Il primo maggio è come parola magica che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti i lavoratori del mondo, è parola d'ordine che si scambia fra quanti si interessano al proprio miglioramento”.
[2] Il primo maggio a Roma e nel mezzogiorno, in La giustizia, 2 maggio 1924.
[3] 16 giugno 1944: la razzia dei lavoratori genovesi, in Storia e memoria, n. 1/2024, ILSREC - Istituto ligure per la storia della resistenza e dell’età contemporanea “Raimondo Ricci”.
Immagine: la partigiana Anna Marengo, nome di battaglia "Fiamma" a Vercelli il 1° maggio 1945.
Legge 31.3.2025 n° 47 in materia di limite massimo di durata delle intercettazioni. Alcuni problemi applicativi… nel “silenzio della legge”
La legge 31 Marzo 2025 n° 47 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 Aprile 2025, entrata pertanto in vigore il 24.4, interviene modificando l'articolo 267 comma terzo c.p.p. e prevedendo che le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore al 45 giorni salvo che l'assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall'emergere di elementi specifici e concreti che devono essere oggetto di espressa motivazione.
In sostanza per effetto di tale disposizione, salve le deroghe che verranno di seguito esposte, per le intercettazioni di qualsiasi tipologia a partire da tale data sono consentite in via ordinaria, dopo il primo periodo di 15 giorni di captazione, soltanto due proroghe di 15 giorni ciascuna al fine di rispettare il termine massimo di durata sopra indicato.
A) I reati esclusi dalla nuova disciplina e dalla conseguente previsione del limite di durata complessiva dei 45 giorni
Si deve in primo luogo evidenziare che determinati reati, alcuni di particolare rilievo e in parte di competenza distrettuale, non sono soggetti alla nuova disciplina e quindi alla previsione del termine massimo di durata di 45 giorni.
Per effetto di una correlata modifica introdotta dalla citata legge dell'articolo 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152 e della specifica deroga introdotta per tali reati rispetto a quanto disposto dall'articolo 267 comma tre CPP, come appunto modificato dalla legge 47/2025, le intercettazioni non risultano sottoposte a tale termine di durata massima quando sono necessarie per le indagini sui seguenti reati:
delitti di criminalità organizzata ( art.13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152) Al riguardo appare utile ricordare che la disciplina dell’art. 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in punto di interpretazione della nozione di delitti di criminalità organizzata risulta estensibile anche ai procedimenti comunque aventi ad oggetto un’associazione per delinquere “comune” diversa da quelle richiamate all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p;
reati comuni commessi col metodo mafioso o col fine di agevolazione di un’associazione mafiosa (ex art. 1, comma 1 d.l. n. 105/2023 che richiama l’art 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
delitto ex art art. 452 quaterdecies CP attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (ex art. 1, comma 1 d.l. n. 105/2023 che richiama l’art 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
reati commessi con finalità di terrorismo (ex art. 1, comma 1 d.l. n. 105/2023 che richiama l’art 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
delitti ex art.630 CP di sequestro di persona a scopo di estorsione (ex art. 1, comma 1 d.l. n. 105/2023 che richiama l’art 13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
delitto di minaccia col mezzo del telefono (art.13 del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
reati informatici e contro la inviolabilità dei segreti indicati dall’art. 371 bis comma 4 bis c.p.p (art.13 comma 3 bis del D.L 13 maggio 1991 n° 152);
delitti dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 del codice di procedura penale. (ex art. 6, co. 1 del d.lgs. 9 dicembre 2017, n. 216 che richiama l'art. 13 d.l. n. 152/199)
delitti contro la personalità individuale previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del codice penale (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione o accesso a materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di persone, traffico di organi umani, acquisto e alienazione di schiavi, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) (ex art. 9 l. 11 agosto 2003, n. 228 che richiama l'art. 13 d.l. n. 152/1991)
reati in materia di prostituzione previsti dall'art. 3 l. 20 febbraio 1958, n. 75 (ex art. 9 l. 11 agosto 2003, n. 228 che richiama l'art. 13 d.l. n. 152/1991)
B) Il regime temporale applicabile alle attività di intercettazione disposte anteriormente all’entrata in vigore della legge
In assenza di una specifica previsione transitoria da parte del legislatore si ritiene che la modifica in oggetto intervenendo su normativa di natura processuale trovi immediata applicazione, con le specificazioni di seguito indicate, anche per i procedimenti iscritti anteriormente all'entrata in vigore della legge.
Si pone peraltro il problema di valutare se la disposizione sia immediatamente efficace, quanto alla operatività dell’indicato limite temporale massimo e conseguentemente sul numero ammissibile delle proroghe richiedibili, anche per le intercettazioni autorizzate e disposte (ed eventualmente già prorogate) anteriormente alla entrata in vigore della stessa.
L'applicazione immediata alle intercettazioni avviate anteriormente all’entrata in vigore della legge 47/2025 del limite di durata massima previsto dalla stessa verrebbe a interessare in tal caso intercettazioni validamente disposte anteriormente all’entrata in vigore della legge sulla base dell’originario disposto dell’art.267 comma 3 CPP ed eventualmente più volte prorogate in precedenza , in alcuni casi anche ben oltre il termine ora introdotto di 45 giorni, con conseguenti profili problematici in quest’ultimo caso anche in tema di utilizzabilità del contenuto delle stesse.
E in ogni caso, anche fuori di tale ipotesi, si determinerebbe l'operatività di un regime processuale misto per effetto del quale intercettazioni autorizzate ed avviate prima dell'entrata in vigore della legge 47/2025 per una parte verrebbero sottoposte alla disciplina della precedente normativa dell’art.267 comma 3 CPP – e come tali ad esempio già validamente oggetto di 2 proroghe di 15 giorni ciascuna per un una durata totale di 45 giorni e con la prospettiva normativamente ammessa di ulteriori proroghe entro i termini massimi di durata delle indagini preliminari – e per altra parte non sarebbero più prorogabili oltre tale limite temporale per effetto di una modifica introdotta dalla Legge 47/2025 all'articolo 267 comma 3 CPP successivamente rispetto all’ avvio e alle proroghe della attività di intercettazione su uno specifico “target”.
Tale commistione di diverse discipline processuali applicate alla medesima attività di intercettazione su uno specifico “bersaglio” non appare coerente con il sistema: ne consegue che la norma risulta interpretabile nel senso che le intercettazioni validamente disposte e eventualmente prorogate in base alla precedente disciplina , quale attività di indagine avviata in base alle allora vigenti disposizioni processuali, continuano ad essere soggette alla precedente disciplina e per le stesse potrà essere pertanto richiesta al GIP l’autorizzazione alla proroga anche oltre il limite di 45 giorni.
Il termine massimo di durata delle intercettazioni introdotto dalla Legge 47/2025 con il correlato limite temporale dei 45 giorni implicante la possibilità di richiedere due sole proroghe avrà efficacia invece, pur all’interno del medesimo procedimento, solo per le intercettazioni richieste e conseguentemente disposte ex novo dopo l'entrata in vigore della predetta legge e quindi dopo il 24.4.2025.
C) L’applicabilità del termine massimo di 45 giorni con riferimento al singolo bersaglio di intercettazione
La novella legislativa prevede per le intercettazioni un termine di durata complessiva non superiore ai 45 giorni senza ulteriore specificazione.
Va subito detto che la disposizione modificatrice non può essere in alcun modo interpretata, anche per la sua collocazione specifica all’interno del comma 3 dell’articolo 267 cpp che disciplina la parte relativa alla proroga della singola attività di intercettazione, come introduttiva di un limite temporale riferito alla singola persona fisica destinataria del provvedimento di intercettazione.
Ove venisse letta in tal modo si determinerebbero tra l’altro effetti distorti e in sostanza contra legem: intercettazioni ad esempio inizialmente disposte con riferimento al primo IMEI/SIM telefonico/ambiente/supporto informatico indicato dalle indagini come riferibile a un determinato indagato sarebbero soggette al termine massimo di intercettazione di 45 giorni. Nel caso in cui nell’arco temporale di 45 giorni dall’avvio di tale captazione dalla stessa attività di intercettazione o comunque dalle indagini ulteriori risultassero ulteriori numeri telefonici o ambienti o apparati informatici riferibili allo stesso indagato una siffatta interpretazione del termine massimo di durata per target persona indagata comporterebbe che le successive intercettazioni avviate avrebbero durata necessariamente inferiore ai 45 giorni.
E qualora poi gli ulteriori “bersagli” (telefoni, ambienti, supporti informatici) riferibili al medesimo indagato emergessero ormai decorso il termine di 45 giorni dall’avvio della prima captazione seguendo tale lettura in modo paradossale non sarebbe attivabile alcuna attività di intercettazione riguardando un ulteriore utenza/ambiente riferibile al medesimo indagato e in questo modo precludendo ogni ulteriore attività di indagine in tale direzione.
Allo stesso modo e per le stesse ragioni il limite temporale non può essere inteso come riferito alla durata complessiva dell'attività di intercettazione nell'ambito del medesimo procedimento ( come una sorta di “finestra” massima dell’attività di intercettazione nell’ambito del singolo procedimento) nel senso di ritenere che quale sia il momento di avvio della singola intercettazione il termine massimo di 45 giorni deve essere calcolato a partire dalla prima intercettazione disposta nell’ambito del singolo procedimento.
È superfluo rilevare come anche questa lettura non è in alcun modo desumibile dal tenore letterale della modifica normativa e dalla sua stessa collocazione nell’ambito dell’art.267 comma 3 CPP oltre a determinare effetti devastanti sui mezzi di ricerca della prova e sulla stessa effettività delle indagini preliminari.
La disposizione, stante il tenore letterale, deve essere interpretata nel senso che tale limite temporale opera con riferimento alla prorogabilità di ogni singola intercettazione ed alla relativa tipologia (telefonica fissa- mobile/ambientale/ telematica attiva-passiva) naturalmente calcolato dalla data di effettivo inizio della captazione di uno specifico “bersaglio” come indicato all'interno dei provvedimenti di intercettazione.
Tali provvedimenti anche quando fanno riferimento a più bersagli del resto contengono l’attribuzione di un distinto numero di RIT identificativo per ciascuno degli stessi.
Questo vale anche nell’ipotesi di installazione di successive SIM sul medesimo apparato mobile in quanto le stesse sono di regola oggetto di richieste con attribuzione di autonomi numeri di RIT.
Nel caso di intercettazione anche di IMEI opererà il limite temporale riferito a tale specifica intercettazione ma con distinti limiti temporali massimi in caso di intercettazione di plurime relative SIM riferibili al medesimo apparato mobile.
Identiche valutazioni valgono sia con riferimento alle intercettazioni ambientali ove i singoli ambienti/locali oggetto di intercettazione ( o nell’ipotesi di ambientale mediante captatore informatico in ogni caso il supporto inoculato) sono indicati all'interno di provvedimenti di intercettazione che, come detto, quando fanno anche riferimento a più bersagli contengono l’attribuzione di un distinto un numero di RIT per ciascun apparato/sonda di intercettazione sia con riferimento alle intercettazioni di comunicazioni informatiche e telematiche ex art.266 bis CPP in relazione ai singoli “bersagli” individuati.
D) Il requisito derogatorio della “assoluta indispensabilità” delle operazioni per una durata superiore giustificabile con l’emersione di elementi specifici e concreti espressamente motivati
La disposizione di legge prevede un obbligo motivazionale particolarmente accurato da parte del Pubblico Ministero ( e conseguentemente nelle indicazioni da parte della PG delegata alle indagini al PM ove assuma l’iniziativa di prospettare al PM ulteriori proroghe oltre il termine ordinario massimo di 45 giorni) per derogare al termine massimo di durata dell'intercettazione, obbligo motivazionale che deve essere collegato alla emersione di elementi specifici e concreti che giustifichino l’assoluta indispensabilità della prosecuzione dell'attività di intercettazione.
Il requisito della “assoluta indispensabilità” risulta dettato dal legislatore in termini oggettivamente rigorosi ma che devono essere parametrati ad una fase non decisoria ma tipicamente dinamica ed in evoluzione di ricerca degli elementi probatori quale è la fase di indagine. Tale requisito deve essere pertanto ritenuto in concreto sussistente ogniqualvolta sulla base degli elementi specifici indicati e allo stato desumibili dalla complessiva attività di indagine la rinuncia alla prosecuzione dell'intercettazione potrebbe determinare un pericolo concreto e rilevante in termini di perdita/deficit nella raccolta di elementi indiziari necessari al fine di accertare i reati oggetto di indagine e/o al fine di impedire la prosecuzione dell'attività criminosa.
La disposizione di legge non indica come visto la fonte di indagine da cui devono emergere gli elementi specifici e concreti che legittimano la deroga all'ordinario termine temporale di 45 giorni.
Si ritiene, come anticipato, che la disposizione vada interpretata nel senso che in assenza di indicazione o specificazione normativa tali elementi possono essere validamente desunti sia dalle risultanze della stessa attività di intercettazione per cui dovrebbe operare la deroga al termine temporale sia in alternativa dalle risultanze di qualsiasi ulteriore attività di indagine svolta dal Pm o dalla PG delegata (quali rilievi/accertamenti di PG, contenuto di fonti dichiarative , comprese le attività di intercettazione svolte su diversi bersagli etc).
Tali elementi di indagine devono essere ritenuti parimenti idonei, anche singolarmente considerati, a legittimare la richiesta al GIP di prosecuzione dell'attività di intercettazione su quel determinato specifico bersaglio oltre il limite di legge ove adeguatamente e specificamente motivata quanto ai requisiti indicati normativamente.
È inoltre sufficiente che tali elementi specifici e concreti emergano in un qualsiasi momento dell’indagine nel corso dell’arco temporale di svolgimento della intercettazione di cui si richiede la proroga oltre il limite massimo di 45 giorni.
Non si richiede pertanto per legittimare la richiesta in tal senso al GIP che tali elementi emergano necessariamente nell’arco temporale di indagine di 15 giorni immediatamente precedente e ricompreso nell’ ultima proroga in precedenza richiesta.
Si rileva da ultimo che la previsione normativa comporta in primo luogo che la Polizia Giudiziaria delegata nel momento in cui prospetterà al Pm assegnatario del procedimento la proroga dell'intercettazione oltre il limite massimo ordinario di 45 giorni dovrà indicare in modo dettagliato gli elementi di indagine specifici e concreti, nel senso sopra indicato, che rendono “assolutamente indispensabile” la prosecuzione della singola attività di intercettazione.
A sua volta il PM dovrà a sua volta svolgere un’attenta funzione di direzione sulla attività della PG delegata al fine di verificare in tale prospettiva che la stessa nella richiesta di proroga dell'intercettazione oltre tali termini massimi di durata evidenzi in modo completo ed esaustivo gli elementi di indagine, se emergenti dalla attività comunque svolta dalla PG, che legittimano la prosecuzione oltre i 45 giorni della attività di intercettazione sullo specifico bersaglio.
Tali elementi dovranno essere naturalmente indicati o comunque richiamati ed oggetto di specifica ed esaustiva motivazione da parte del PM in sede di richiesta di proroga indirizzata al GIP.
Ove tali elementi siano stati invece acquisiti sulla base di attività di indagine direttamente svolta dal Pubblico Ministero sarà onere dello stesso indicare allo stesso modo nella richiesta al GIP di proroga delle intercettazioni gli elementi di indagine ulteriori che legittimano la prosecuzione dell'attività di intercettazione per il suo carattere di indispensabilità nel senso sopra indicato.
Immagine: particolare da Jeff Koons, Telefono, 1979, telefono con specchio.
Il nuovo DDL n.1146 approvato dal Senato va oltre la disciplina già adottata a livello europeo con l’AI ACT ed è improntata ad uno spirito conservativo più attento ai pur esistenti rischi e problemi etici che alle enormi potenzialità. Vengono dettate disposizioni specifiche per la giustizia, in particolare relative ai professionisti e quindi anche agli avvocati, alla pubblica amministrazione e all’attività giudiziaria. Principi generali sono la prevalenza del lavoro intellettuale umano, l’utilizzo dei sistemi di IA solo per attività strumentali e di supporto e di efficienza, la trasparenza. L’utilizzo di IA per i professionisti e per la Pubblica Amministrazione incontra forti limiti ed è consentita solo quando finalizzata al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale. Mentre per l’attività giudiziaria deve essere sempre riservata al magistrato la decisione, ivi comprese interpretazione e valutazione delle prove. Vengono affidate al Ministero della Giustizia la disciplina degli impieghi di sistemi di intelligenza artificiale per l'organizzazione dei servizi, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie oltre che l'autorizzazione alla sperimentazione e all'impiego dei sistemi di intelligenza artificiale negli uffici giudiziari, dando un monopolio ed un enorme potere a una struttura che già oggi carente di risorse e con evidenti criticità. Sono poi previste moltissime deleghe, generiche, al Governo tra cui in tema di attività di polizia e di indagini preliminari. Quanto oggi manca è un’iniziativa in positivo per sottolineare e far emergere le grandi potenzialità dell’IA, per personalizzare e valorizzare le possibili applicazioni per le professioni giuridiche, per supportare il lavoro degli operatori e per realizzare una loro formazione a tappeto.
Sommario: 1. Il nuovo DDL e l’AI ACT – 2. Principi generali e disposizioni che riguardano la giustizia – 2.1. L’utilizzo di IA per gli avvocati – 2.2. L’utilizzo di IA per la Pubblica Amministrazione – 2.3. L’utilizzo di IA per l’attività giudiziaria – 2.4. Le altre norme che riguardano la giustizia – 3. Limiti di efficacia della normativa e prospettive in positivo.
1. Il nuovo DDL e l’AI ACT
Dopo quasi un anno dalla sua presentazione, che risale al 23 aprile 2024, il 20 marzo 2025 è stato approvato dal Senato il DDL n.1146 “Disegno di legge delega sull’intelligenza artificiale” che disciplina l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale in tutti i settori della nostra vita, tra cui anche per la giustizia.
Va rammentato che l’AI Act, il Regolamento europeo che stabilisce le regole per l’uso dell’intelligenza artificiale (approvato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio il 13 giugno 2024), classifica la materia della giustizia come ad alto rischio. Testualmenteil comma 8 dell’Allegato III indica come ad alto rischio «i sistemi di IA destinati a essere usati da un’autorità giudiziaria o per suo conto per assistere un’autorità giudiziaria nella ricerca e nell’interpretazione dei fatti e del diritto e nell’applicazione della legge a una serie concreta di fatti, o a essere utilizzati in modo analogo nella risoluzione alternativa delle controversie». Ma nel contempo il “considerando” 61 precisa che «Non è tuttavia opportuno estendere la classificazione dei sistemi di IA come ad alto rischio ai sistemi di IA destinati ad attività amministrative puramente accessorie che non incidono sull’effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi» e l’art. 6 §3 introduce limitazioni alla stessa classificazione come uso ad alto rischio: «In deroga al paragrafo 2, un sistema di IA di cui all’allegato III non è considerato ad alto rischio se non presenta un rischio significativo di danno per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali delle persone fisiche, anche nel senso di non influenzare materialmente il risultato del processo decisionale».[1]
Un sistema che cerca di tenere un equilibrio tra la tutela dai rischi e dagli abusi dell’IA e le immense potenzialità e possibilità di migliorare la nostra attività quotidiana che potrebbe darci l’IA.
Questo era il riferimento per il legislatore italiano che poteva tener conto della nuova normativa europea, approvata dopo la presentazione del DDL, ma in tempo per confrontarsi con la stessa dato anche l’ampio lasso di tempo (quasi un anno) preso per la discussione parlamentare. Tra l’altro si tratta di argomenti, anche se solo apparentemente, molto tecnici che come tali consentirebbero l’utilizzo di competenze ed idee provenienti da ogni parte politica evitando divisioni partigiane.
Il risultato dal mio punto di vista è deludente in quanto improntato ad uno spirito conservativo, più attento ai rischi e ai problemi etici indotti dall’IA, di sicuro esistenti, che a cercare di governare e di implementare un fenomeno che caratterizzerà i nostri prossimi anni, dando il proprio segno a sistemi che inevitabilmente si affermeranno. Con l’ulteriore risultato di accrescere il divario già oggi esistente tra l’Italia (ma riguarda anche l’Europa) e Stati Uniti e Cina nello sviluppo di sistemi di IA che nel prossimo periodo saranno sempre più dominanti e sempre più pervasivi nelle nostre società.
Abbiamo già visto come atteggiamenti che cercano di tirare il freno e di limitare innovazioni epocali, quali l’IA generativa, si rivelino inevitabilmente perdenti perchè rinunciano a gestire e a cavalcare, pur regolamentando, novità che, nella misura in cui eliminano lavoro umano a basso valore aggiunto e ci danno prodotti ed elaborazioni prima neppure ipotizzabili, diventano ineluttabili ed irrinunciabili.
Si tratta quindi di regolare per governare (come opportunamente ha cercato di fare l’Europa con l’AI Act), ma anche di incoraggiare e promuovere lo sviluppo di sistemi personalizzati ed adatti ai diversi settori.
Questo riguarda tutti i campi, anche la giurisdizione.
2. Principi generali e disposizioni che riguardano la giustizia
I principi generali relativi a tutti i settori enunciati nel DDL n.1146 all’art. 3 sono del tutto condivisibili: - tutela dei diritti, - correttezza, attendibilità, sicurezza, qualità, appropriatezza, trasparenza, - autonomia e potere decisionale dell’uomo e prevenzione del danno, - assenza di pregiudizi e condizionamenti per il metodo democratico e per il funzionamento delle istituzioni, - garanzie delle persone con disabilità.
Le norme che possono interessare la giustizia si limitano a pochi articoli: l’art.13 in materia di professioni intellettuali e quindi rilevante anche per gli avvocati, l’art.14 sull’uso nella pubblica amministrazione, l’art.15 sull’impiego nell’attività giudiziaria, l’art.17 sulla competenza per il contenzioso relativo al funzionamento dell’IA, l’art.26 contenente modifiche al codice penale.
Le norme sull’utilizzo dell’IA da parte dei tutti i soggetti che operano nella giustizia paiono ispirarsi a tre principi generali: - prevalenza del lavoro intellettuale umano, - utilizzo dei sistemi di IA solo per attività strumentali e di supporto e di incremento dell’efficienza della propria attività, - trasparenza sull’utilizzo di IA.
2.1. L’utilizzo di IA per gli avvocati
Per i professionisti l’utilizzo dei sistemi di IA è «finalizzato al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’ opera» con l’obbligo di comunicare al cliente i sistemi di IA utilizzati. Obbligo che era già previsto in alcune linee guida già adottate da diversi Ordini professionali (vedi ad esempio il punto 3 della Carta dei Principi per un uso consapevole di strumenti di intelligenza artificiale in ambito forense dell’Ordine degli Avvocati di Milano[2]). Per il resto i concetti di finalizzazione alle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e la prevalenza del lavoro intellettuale umano sono estremamente ambigui e tali da non essere determinanti. Dove si ferma l’attività strumentale e di supporto e dove comincia il nucleo forte dell’attività defensionale? E non è forse attività intellettuale umana la creazione di archivi giurisprudenziali a livello di studio o di settore o territoriale e la capacità di formulare prompting adeguati e efficaci?
Manca invece una regolamentazione dell’ampio campo che può davvero rappresentare un rischio per la professione di avvocato, ma ancor più per l’informazione ed i diritti dei cittadini, delle consulenze legali on line nelle quali occorrerebbe vietare quelle selvagge ed imporre una certificazione ed una trasparenza sulla provenienza e completezza dei dati sulle quali si basano.
La sensazione generale è che stiamo cercando di regolare con logiche vecchie strumenti del tutto nuovi nei cui confronti occorre certo cautela, ma anche flessibilità anche alla luce delle continue e rapidissime trasformazioni cui stiamo assistendo.
2.2. L’utilizzo di IA per la Pubblica Amministrazione
Per la pubblica amministrazione l’uso dell’intelligenza artificiale viene limitato a fini di incrementare l’efficienza sia come tempi che come qualità, assicurando agli interessati la conoscibilità del suo funzionamento. Quanto all’utilizzo nell’adozione di provvedimenti viene limitato a «funzione strumentale e di supporto» «nel rispetto dell’autonomia e del potere decisionale della persona che resta l’unica responsabile dei provvedimenti». Infine devono essere adottate «misure tecniche, organizzative e formative finalizzate a garantire un utilizzo dell’intelligenza artificiale responsabile e a sviluppare le capacità trasversali degli utilizzatori». Il tutto con la solita formula dell’invarianza di spesa.
In realtà le possibilità di utilizzo dell’intelligenza artificiale per le pubbliche amministrazioni e più specificamente per i servizi ai cittadini può davvero essere enorme, consentendo un rapporto più immediato e una costante interrelazione con i cittadini. I limiti posti in realtà sono estremamente stringenti e forse non consentirebbero più neppure l'applicazione di algoritmi già correnti. A meno di voler interpretare il concetto di sistemi di intelligenza artificiale, anch'esso estremamente vago data la difficoltà generale di identificare con esattezza cosa sia l'intelligenza artificiale, differenziandolo dagli algoritmi. La previsione sull'invarianza di spesa è una clausola di stile inevitabile perchè altrimenti scatterebbe l'obbligo di prevedere coperture, ma quanto sarebbe invece necessario proprio per la Pubblica Amministrazione è un grande piano di investimenti per adottare sistemi personalizzati di IA in tutti i settori, che porterebbe ad enormi risparmi di spese potendo eliminare almeno tutte le attività a basso valore aggiunto. Piano di investimenti su cui si è sempre in tempo, al di là di questo disegno di legge, ma che dovrebbe comportare stanziamenti più congrui del miliardo di euro che accompagna il presente DDL[3]. Basti pensare che la sola Microsoft ha investito ottanta volte tanto[4].
2.3. L’utilizzo di IA per l’attività giudiziaria
Quanto invece all'attività giudiziaria viene «sempre riservata al magistrato ogni decisione sull'interpretazione e sull'applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull'adozione dei provvedimenti». Principio su cui non si può che essere d'accordo, che comunque lascia aperto l'utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale come ricerca giurisprudenziale, supporto, costruzione di documenti. È sicuramente positivo che si siano abbandonate le disposizioni molto più restrittive previste nell'originario disegno di legge secondo cui l’utilizzo dell’IA era consentito «esclusivamente per l’organizzazione e la semplificazione del lavoro giudiziario, nonché per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale». L'utilizzo alla luce della normativa approvata è quindi ampiamente consentito, ma la decisione spetta sempre al magistrato.
Con altro comma «la disciplina degli impieghi di sistemi di intelligenza artificiale per l'organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie» viene affidata al Ministero della Giustizia. Ciò riguarda un ampio spettro di attività laterali rispetto alla giurisdizione. Sempre al Ministero spetterebbe, almeno fino alla compiuta attuazione del Regolamento UE 2024/1689 l'autorizzazione alla «sperimentazione e l'impiego dei sistemi di intelligenza artificiale negli uffici giudiziari». Ciò comporta che negli uffici giudiziari non si potrebbero utilizzare sistemi di IA, se non autorizzati. Previsione che onestamente preoccupa, perchè se è corretto evitare che vengano immessi sistemi che possono procurare problemi sulla rete protetta degli uffici, sarebbe allarmante se ciò comportasse un limite alla possibilità di utilizzo di Chat GPT, piuttosto che di Perplexity o di altri sistemi, perchè in tal modo si cercherebbe di limitare enormemente le stesse possibilità di utilizzo e di personalizzazione di sistemi utilizzati. Tra l'altro ci troviamo in una fase in cui il monopolio ministeriale dell'informatica è in evidente crisi sia per motivi istituzionali che di efficienza. L'informatica, ancor più dopo l'avvento dell'IA generativa, non è più un servizio della giustizia (art. 110 Costituzione), ma è un vero e proprio formante della giurisdizione e come tale continuare ad affidarlo solo al Ministero, senza alcun coinvolgimento reale del C.S.M. e dell'avvocatura è una violazione della Costituzione e della sua volontà. D'altro canto si è visto anche da recenti esperienze (gli uffici minorili e l’applicazione APP che sarebbe l’inizio del Processo Penale Telematico) come il Ministero non sia in grado per carenza di risorse tecniche di garantire un intervento ed una gestione efficace e come risulti sempre più lontano dalle esigenze e realtà degli uffici giudiziari e dell’avvocatura. Dare nuovi compiti, ovviamente a risorse invariate, significa condannarci all'immobilismo e all'inefficienza. Con l'ultimo comma dell'art. 14 viene poi prevista una competenza ministeriale per la formazione del personale e dei magistrati sull'intelligenza artificiale. La formulazione è in parte ambigua: per i magistrati parla di elaborazione delle linee programmatiche che il Ministero per legge ogni anno rassegna alla Scuola Superiore della Magistratura, per promuovere attività didattiche finalizzate alla formazione digitale di base e avanzata e all'acquisizione e alla condivisione di competenze digitali. La formazione in merito è fondamentale ed è una delle grandi sfide del prossimo periodo. Quanto deve essere chiaro è che ciò non può comportare una modifica di competenze acquisendo nuovi spazi per il Ministero ai danni della SSM, ma unicamente un forte stimolo perchè la Scuola si prenda carico di questi fondamentali compiti. Altra questione sarebbe la necessità di un raccordo costante tra Scuola e Ministero per consentire ed anzi incoraggiare momenti di formazione comune per magistrati, dirigenti amministrativi e personale, da auspicare e realizzare.
2.4. Le altre norme che riguardano la giustizia
Vi sono poi alcune ulteriori norme che interessano la giustizia. In primo luogo l'esplicita previsione che le cause aventi ad oggetto il funzionamento di sistemi di intelligenza artificiale rientrino nella competenza per materia del Tribunale e quindi una serie di previsioni penali tra cui spicca l'introduzione di una nuova aggravante, l'art. 61 n. 11 decies C.P. che punisce per «avere commesso il fatto mediante l'impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando gli stessi per la loro natura o per le modalità di utilizzo, abbiano costituito mezzo insidioso, ovvero quando il loro impiego abbia comunque ostacolato la pubblica o la privata difesa, ovvero aggravato le conseguenze del reato».
Lasciano poi perplesse le amplissime deleghe, molto generiche che vengono rilasciate al Governo, che sono di sicuro impatto anche per il mondo della giustizia. In primis l’art.16 che delega il Governo di adottare una disciplina organica relativo all’utilizzo di dati, algoritmi e metodi matematici per l’addestramento di sistemi di intelligenza artificiale. Quindi l’art. 24 che attribuisce deleghe ad intervenire o coordinare con le nuove norme in tema di IA in molti settori tra cui «la previsione di un’apposita disciplina per l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale per l’attività di polizia» (comma 2 lettera h) e la «regolazione dell’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale nelle indagini preliminari nel rispetto delle garanzie inerenti al diritto di difesa e ai dati personali dei terzi, nonché dei principi di proporzionalità, non discriminazione e trasparenza.» (comma 3 lettera e). Delega ampia e generale che appare carente di principi e criteri direttivi.
3. Limiti di efficacia della normativa e prospettive in positivo
Per quanto concerne in particolare magistrati e avvocati alla luce di queste disposizioni due domande vengono spontanee: come sarà possibile controllare se viene fatto un uso dell’intelligenza artificiale fuori dai canoni previsti ed autorizzati e quali saranno le conseguenze in caso di violazioni.
In realtà sarà ben difficile verificare se un operatore del diritto abbia utilizzato l’intelligenza artificiale generativa, essendo pacifico che la responsabilità dell’atto creato o cui ha collaborato l’IA è sempre di chi l’ha utilizzata e ha sottoscritto lo stesso. Probabilmente emergerà solo in caso di errori e “allucinazioni”, come del resto è già avvenuto sia all’estero che recentemente in Italia[5].
D’altra parte un atto creato in violazione delle previsioni di legge e quindi sostanzialmente automatizzato non avrà alcuna conseguenza giuridica circa la sua validità, stante la sottoscrizione e la responsabilità dell’autore umano. Conseguenze ci saranno, ma potranno essere sul piano etico o su quello disciplinare, non certo su quello processuale.
C’è da auspicare che il passaggio alla Camera serva anche per approfondire i vari temi che sono stati accennati e per aprire un grande dibattito tra gli operatori, che sinora sono stati silenziosi spettatori.
Ma poi c’è da sperare che, parallelamente alle pur indispensabili regolamentazioni, venga presa un’iniziativa in positivo per sottolineare e far emergere le grandi potenzialità delle varie intelligenze artificiali, per valorizzare le possibili applicazioni per le professioni giuridiche e supportare il lavoro degli operatori, per realizzare una loro formazione a tappeto. Occorrerebbe un laboratorio nazionale sull’utilizzo dell’IA generativa nella giustizia chiamando i migliori cervelli dall’università, dalla magistratura, dall’avvocatura, dalla dirigenza e dal personale giudiziario. Senza questo saremo sempre ad arrancare dietro i progressi tecnologici che o vengono governati o, al di là dei divieti formali, prevarranno.
[1] Vedi Amedeo Santosuosso Giudici potenziati dall’IA: le tutele dell’AI Act in Agenza digitale 11.2.2025
[2] https://www.ordineavvocatimilano.it/media/news/DICEMBRE2024/CartadeiPrincipi_OrdinediMilano.pdf
[3] https://www.irpa.eu/intelligenza-artificiale-la-sfida-del-governo/
[4] Microsoft e intelligenza artificiale, piano da 80 miliardi per i data center Redazione Finanza in Il sole 24 ore 04.01.2025 https://www.ilsole24ore.com/art/microsoft-e-intelligenza-artificiale-piano-80-miliardi-i-data-center-AGn0Ua7B
[5] Il Tribunale di Firenze sezione imprese con sentenza 13 marzo 2025 ha ritenuto che l’uso improprio da parte di un difensore dell’utilizzo di Chat GPT non possa configurare responsabilità aggravata per lite temeraria https://i2.res.24o.it/pdf2010/S24/Documenti/2025/03/27/AllegatiPDF/Trib_Firenze_14_03_25.pdf
Sommario: 1. Premessa - 2. La disciplina delle SSPL, con particolare riferimento alla governance di queste strutture formative - 3. Segue: equivoci del richiamo alla “legge Gelmini” ai fini della individuazione dei casi di “incompatibilità” ostativi all’assunzione di “cariche accademiche” - 4. Conclusioni.
1. Premessa
Una recentissima pronuncia del Consiglio di Stato getta (in articulo mortis) un’(ingiusta e sorprendente) ombra di “illegittimità” sulla conduzione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali (d’ora in poi: SSPL) nel corso del quarto di secolo (o poco più) in cui queste Scuole hanno (sin qui) operato nel nostro ordinamento, dal momento della loro istituzione[1].
L’esperienza maturata in questo periodo (tutto sommato, non breve, considerata la rapida “obsolescenza”, alla quale ci siamo ormai assuefatti, come destino di molti istituti, che il legislatore introduce per finalità a volte contingenti, o in vista del conseguimento di risultati diversi, e comunque “secondari” rispetto a quelli che si dovrebbero invece considerare come “propri” e “primari” dell’istituto di cui trattasi[2]), è fatta di luci e di ombre.
Le prime sono rappresentate dal fatto che le Scuole di specializzazione per le professioni legali hanno costituito un “laboratorio” che ha messo insieme (forse per la prima volta) – in confronto (e dialogo) tra loro – competenze ed esperienze di “professionisti legali” diversi (giudici, avvocati, notai, che si sono affiancati alla tradizionale figura dei docenti universitari), confronto che si è rivelato generalmente assai proficuo, dando modo agli “specializzandi” non solo di integrare la conoscenza teorico-concettuale degli istituti (acquisita nelle aule universitarie) con la vita concreta degli stessi nella dinamica evolutiva degli ordinamenti (il c.d. “diritto vivente”), ma anche di percepire le diverse “prospettive” dalle quali il singolo fenomeno giuridico può essere riguardato.
Le seconde sono (state), invece, la conseguenza di quel vizio di origine cui si accennava, e dal quale non è stata immune neanche l’introduzione delle SSPL: ossia, il fatto che l’istituzione delle Scuole sia stata concepita non solo (e non tanto) per l’importanza intrinseca del progetto (che esse avrebbero dovuto essere chiamate a realizzare), quanto piuttosto per conseguire (nell’immediato, e perciò nel contingente) altre finalità, rispetto alle quali le Scuole hanno finito per apparire come uno “strumento” (piuttosto che come un fine, in sé meritevole di essere perseguito), con la conseguenza – come vedremo subito – che, venuta meno questa funzione (meramente) “strumentale”, ha finito per essere travolto anche il “progetto” di fondo.
Queste “altre finalità” (cui si è or ora accennato) risultavano enunciate sin dalla Legge che, per prima, ha previsto l’istituzione delle Scuole (rinviando poi ad un regolamento la disciplina delle stesse). Si tratta della L. 15 maggio 1997, n. 127, il cui lunghissimo art. 17 conteneva due commi (il 113 e il 114) con i quali il Governo veniva delegato ad emanare (entro sei mesi) uno o più decreti legislativi, per modificare la disciplina del concorso per l'accesso alla magistratura ordinaria, prevedendo (fra l’altro) “l’introduzione graduale, come condizione per l'ammissione al concorso, dell'obbligo di conseguire un diploma esclusivamente presso scuole di specializzazione istituite nelle università, sedi delle facoltà di giurisprudenza» (comma 113), mentre il comma successivo prevedeva altresì, quanto all’accesso alle professioni di avvocato e di notaio, che il diploma di specializzazione di cui al comma precedente diventasse “titolo valutabile ai fini del compimento del relativo periodo di pratica”, concludendosi con la delega al Governo a definire “i criteri per la istituzione ed organizzazione delle scuole di specializzazione di cui al comma 113, anche prevedendo l'affidamento annuale degli insegnamenti a contenuto professionale a magistrati, notai ed avvocati” (comma 114).
Dunque, l’istituzione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali è stata esplicitamente “agganciata” (anzitutto) ad una ipotizzata riforma della disciplina del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria, e, in secondo luogo, a (minori, ma anch’esse significative) modifiche incidenti sul requisito della “pratica professionale” richiesta per l’accesso agli esami di avvocato e al concorso notarile[3].
Il che è stato realizzato, negli anni successivi, attraverso una serie di disposizioni. E, così, si è previsto che il conseguimento del titolo di specializzazione avrebbe consentito l’accesso all’esame per l’ingresso in Magistratura, senza dover superare la prova c.d. “preselettiva” all’epoca contemplata (primo passo in vista dell’ipotizzata configurazione del diploma di specializzazione come “filtro unico” per l’accesso al concorso per uditore giudiziario)[4], e si è stabilito, altresì, che “il diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali … è valutato ai fini del compimento del tirocinio per l'accesso alla professione di avvocato per il periodo di un anno”[5], e analoga previsione è stata dettata ai fini dello svolgimento della pratica notarile come requisito per l’accesso al relativo concorso [6].
Nel frattempo era stato emanato (sulla base della delega contenuta nel già citato comma 114 della L. 127/1997) il D.lgs. 7.11.1997, n. 398, cui ha fatto seguito (a distanza di quasi 2 anni !) il D. min. 21.12.1999 n. 537 (Regolamento recante norme per l’istituzione e l’organizzazione delle scuole di specializzazione per le professioni legali): e sono queste le due fonti “nazionali”, che hanno – ab initio e sin qui – disciplinato le Scuole di specializzazione, istituite presso le varie università italiane.
Rinviando al prossimo paragrafo l’esame di alcuni aspetti di tale disciplina (con particolare riferimento al profilo toccato dalla sentenza, al cui commento sono dedicate queste Note), concludiamo questa breve introduzione solo aggiungendo che la parabola delle SSPL (un istituto ormai in articulo mortis – come si detto in esordio) era, in un certo senso, già iscritta nelle “premesse” a cui era stata “collegata” la nascita delle SSPL: (premesse) venute meno le quali (cosa che è accaduta quando si è deciso di modificare i requisiti di accesso al concorso per uditore giudiziario, non già nel senso – come si era inizialmente pensato – di irrobustire il “filtro” di accesso a tale concorso, bensì nel senso di porre come requisito il semplice possesso della laurea in Giurisprudenza) si è registrato un vertiginoso calo delle domande di ammissione alle SSPL (il cui numero è ormai notevolmente inferiore ai posti che vengono annualmente banditi, sulla base delle determinazioni ministeriali), tanto da far pronosticare la scomparsa (de facto, prima ancora che de iure) dell’istituto, a meno che non intervenga una riconsiderazione normativa della funzione e dei compiti di queste Scuole.
2. La disciplina delle SSPL, con particolare riferimento alla governance di queste strutture formative
Le Scuole di specializzazione per le professioni legali – secondo la normativa che le regola – sono istituite presso le Università che siano sedi di Facoltà di Giurisprudenza (art. 2 Decr. n. 537/1999) e sono rette da un Consiglio direttivo presieduto da un direttore, e composto di 12 membri (di cui sei professori universitari di discipline giuridiche ed economiche, designati dal Consiglio della Facoltà di Giurisprudenza; due magistrati ordinari, due avvocati e due notai, scelti nell’ambito di tre rose di quattro nominativi formulate rispettivamente dal C.S.M., dal C.N.F. e dal C.N.N.). Il Direttore, come recita il 4° comma dell’art. 5 del Decr. n. 537/1999, «è eletto dal Consiglio stesso nel proprio seno tra i professori universitari di ruolo».
Quest’ultima formula – che, come si vede, fa generico riferimento ai “professori universitari di ruolo” (senza distinguere tra professori a tempo pieno e professori a tempo definito) – è ripetuta tal quale praticamente in tutti i Regolamenti delle Scuole di specializzazione per le professioni legali (che la riproducono fedelmente, al più specificando se debba trattarsi di professori ordinari o anche di professori associati)[7].
E sulla base di essa (che – si ripete – non distingue tra professori a tempo pieno e professori a tempo definito), in moltissime (quasi tutte le) Scuole di specializzazione esistenti nelle Università italiane, risultano essere stati, o essere attualmente, Direttori (della Scuola) professori a tempo definito (ossia dei «prof. avv.», vale a dire dei professori che, essendo anche avvocati, hanno fatto l’opzione per il c.d. “tempo definito”).
E, sulla base di tali previsioni dei regolamenti universitari (riproduttive – si ripete – della norma generale, nazionale), in tutte le Università sedi di Scuole di specializzazione per le professioni legali, l’incarico di Direttore della Scuola è stato attribuito e ricoperto (nel corso degli anni) sia da professori (di ruolo) “a tempo pieno”, sia – e in maniera nettamente prevalente – da professori “a tempo definito”, cioè da professori che svolgevano anche la professione di avvocato[8].
D’altronde sarebbe ben strano che la Direzione di una Scuola di specializzazione, finalizzata a consentire e favorire l’accesso alle “professioni legali”, fosse preclusa proprio a quei docenti universitari che, esercitando una professione legale (nella specie quella di avvocato), sono meglio in grado di comprendere le problematiche – non solo teoriche, ma anche “pratiche” – che si riconnettono all’esercizio della professione, e sono meglio in grado altresì di interloquire con gli altri componenti “extra-accademici” del Consiglio direttivo, che sono anch’essi dei professionisti (avvocati, notai, magistrati).
E, del resto, le materie che costituiscono l’ossatura fondamentale dell’ordinamento didattico delle Scuole di specializzazione per le professioni legali (e cioè il Diritto privato, il Diritto Amministrativo, il Diritto penale, cui si aggiungono il Diritto del Lavoro, il Diritto Commerciale, la Procedura civile, la procedura penale) sono materie che, nelle università, sono per lo più (o, comunque, assai spesso) insegnate da docenti che esercitano anche la professione; e sarebbe del tutto irrazionale che la carica di Direttore delle Scuole di specializzazione fosse (esclusivamente) “riservata” a professori che non siano anche dei “professionisti”, bensì docenti di materie c.d. “culturali” (come Diritto romano, Filosofia del diritto, Diritto costituzionale, etc.), sebbene anche tra questi ultimi si trovino spesso dei valentissimi avvocati.
Vi è dunque una ratio (una “ragionevolezza”, come si amerebbe dire oggi), abbastanza intuitiva (e che affianca e rafforza il dato testuale), della previsione normativa sopra ricordata, che dichiara che il Direttore della Scuola deve essere (semplicemente) “un professore di ruolo”, senza aggiungere altro (e in particolare, senza aggiungere che deve trattarsi di un professore “a tempo pieno”). Ratio pienamente rispettata ed attuata dalla prassi (del tutto conforme alla norma di legge e di regolamento) che ha visto (e vede ancora oggi) l’attribuzione dei compiti di Direzione delle Scuole di specializzazione per le professioni legali quasi sempre (e. comunque, in un grandissimo e prevalente numero di casi) a dei «prof. avv.», ossia professori a tempo definito.
Non può non sorprendere – allora – che, nella sentenza che si annota, queste elementari considerazioni (che si basano – si ripete – su una piana interpretazione, inequivocamente corroborata dal dato testuale, ma anche da quello desumibile dalla ratio legis), siano state completamente pretermesse dal Consiglio di Stato, nella sentenza in commento.
Il “caso” riguardava l’impugnazione davanti al giudice amministrativo del provvedimento adottato dal Rettore di una Università, che aveva decretato la “revoca” dall’incarico di Direttore della Scuola di specializzazione per le professioni legali istituita presso quell’Università, di un docente (che svolgeva tale incarico da circa dieci anni), sulla base di una asserita “incompatibilità” della assunzione e dello svolgimento di tale incarico, essendo il docente in questione un docente “a tempo definito” (ossia un “prof. avv.”).
Ecco cosa si legge nei passaggi più significativi (pur nel contesto di una motivazione alquanto scarna, e sostanzialmente apodittica) della sentenza in questione. Scrivono i giudici, affermando l’assenza di alcun profilo di illegittimità dell’atto (di “revoca”):
(Omissis)
5.6 – In primo luogo, la già inequivoca previsione dello Statuto universitario deve essere necessariamente letta alla luce della sopravvenuta disposizione dell’art. 6, comma 12, della legge n. 240/2010, che prevede una diretta ed oggettiva incompatibilità tra lo svolgimento delle funzioni di professore a tempo definito e le cariche accademiche, tra le quali non si comprende perché non potrebbe essere fatta rientrare, come sostenuto, quella di Direttore della Scuola di Specializzazione della medesima Università, trattandosi di un incarico in ambito universitario limitato ai soli docenti universitari ai sensi del dm 537/1999, art. 5.
5.7 – Il provvedimento di revoca si configurava dunque come un atto non solo legittimo, ma dovuto ed a contenuto vincolato ex lege a causa di una oggettiva condizione, da valutare in astratto, di incompatibilità fra la figura professionale dell’appellante e l’incarico da esso rivestito.
Il brano citato configura, dunque, la “revoca” (nella fattispecie in esame) come “un atto non solo legittimo, ma dovuto ed a contenuto vincolato ex lege”, a ragione di “una oggettiva condizione, da valutare in astratto, di incompatibilità” tra l’incarico rivestito e lo “status” professionale di docente “ a tempo definito”.
3. Segue: equivoci del richiamo alla “legge Gelmini” ai fini della individuazione dei casi di “incompatibilità” ostativi all’assunzione di “cariche accademiche”
Come risulta dal brano (della sentenza) citato nel paragrafo precedente, la legittimità dell’atto di “revoca” impugnato viene ravvisata dai giudici di palazzo Spada nell’art. 6, comma 12, della “Legge Gelmini” (legge 30 dicembre 2010, n. 240), ai sensi del quale “la condizione di professore a tempo definito è incompatibile con l’esercizio di cariche accademiche”.
Orbene – ammesso pure (ma non concesso: v. subito infra) che la disposizione in esame sia, nella specie, invocata pertinentemente – i giudici avrebbero dovuto quanto meno porsi il dubbio se essa sia idonea a prevalere sulle formule contenute nei testi normativi specificamente concernenti la Scuola di specializzazione (e sopra richiamati).
Questi testi sono bensì anteriori alla “legge Gelmini”, la quale sembrerebbe pertanto prevalere in virtù del principio lex posterior derogat priori. Sennonché, tra i criteri di risoluzione delle c.d. “antinomie normative” vi è anche il diverso principio, secondo il quale “lex specialis derogat generali” (anche se la legge generale è una legge successiva).
Orbene, quella che ci riguarda sarebbe certamente (sempreché – si ripete – si assuma che la legge Gelmini sia astrattamente applicabile anche al caso di specie) un’ipotesi “da manuale” di applicazione di quest’ultimo criterio. Non v’è dubbio, infatti, che sulla legge Gelmini (legge generale sopravvenuta, e dunque prevalente in base ad un criterio meramente “temporale”) prevale (ancorché anteriore) – in quanto lex specialis − la normativa specifica che regola le Scuole di specializzazione, e che in particolare non utilizza (ai fini dell’incarico di Direttore della Scuola) la distinzione tra docenti a tempo pieno e docenti “a tempo definito”. Il che – come abbiamo visto – è confermato dalla “prassi” (del tutto secundum legem) che vede, in quasi tutte le Scuole di specializzazione per le professioni legali istituite presso le università italiane, l’incarico di Direttore (della Scuola) attribuito anche (e, anzi, in misura assolutamente prevalente) a professori (di ruolo) “a tempo definito”.
Ma c’è di più. Come già anticipato, può fondatamente contestarsi la stessa riferibilità del cit. art. 6, co. 12, della Legge Gelmini (e delle sue “riproduzioni” negli Statuti universitari) anche alla figura di Direttore della Scuola di specializzazione per le professioni legali, che non può essere considerata una “carica accademica” in senso stretto.
Sebbene, infatti, le Scuole di specializzazione siano “strutture didattiche” delle Università che le ospitano e che ne hanno la gestione, esse non sono, in senso stretto, “organi” delle Università presso le quali operano, e quindi anche l’appartenenza al Consiglio direttivo delle Scuole da parte dei docenti universitari non può considerarsi una “carica accademica” (come dimostra il fatto che i Consigli direttivi delle SSPL sono pieni di professori “a tempo definito”). Né – in particolare – può considerarsi una “carica accademica” quella (specifica) di “Direttore” della Scuola, posto che la nomina a questo ruolo non proviene da un organo universitario (Consiglio di Facoltà, e, oggi, Consiglio di Dipartimento; Senato accademico, Consiglio di amministrazione, etc.), bensì da un Collegio (il Consiglio direttivo della Scuola) che è composto non solo da sei docenti universitari ma altresì – come visto – dai sei rappresentati dell’Avvocatura, della Magistratura e del Notariato). La circostanza che la nomina del Direttore (eletto dal Consiglio direttivo della Scuola) avvenga con decreto rettorale non modifica questo dato, perché il decreto rettorale di nomina non è che una mera presa d’atto di una deliberazione adottata da un collegio del quale fanno parte anche componenti non accademiche.
La sentenza del Consiglio di Stato, che qui si è voluto prendere in esame, non si pone alcuno dei problemi sopra indicati, e si risolve in affermazioni puramente apodittiche (quale quella secondo cui “non si comprende perché [tra le cariche accademiche] non potrebbe rientrare anche quella di Direttore della Scuola») ed autoreferenziali. Se a ciò si aggiunge la totale pretermissione del dato normativo relativo alla disciplina “specifica” delle Scuole di specializzazione (una disciplina – come visto – chiara nel suo tenore testuale, coonestato dalla ratio legis), non può che concludersi nel senso di trovarsi di fronte ad una pronuncia (quanto meno) superficiale, attesa anche la sostanziale assenza di una (vera) motivazione.
4. Conclusioni
Le considerazioni sopra svolte potrebbero indurre a “derubricare” la vicenda al rango di una tra le tante ipotesi di pronunce giudiziali “erronee” (o, quanto meno, discutibili). La cosa non meriterebbe di destare meraviglia, pur essendo indicativa di una preoccupante tendenza a svalutare i dati normativi (o, almeno, a non considerarli nella loro interezza), anche quando essi sono chiari. I “cancelli delle parole” – per usare una suggestiva immagine[9] – che dovrebbero circoscrivere il terreno entro il quale può dispiegarsi la interpretatio legis, sembrano aver perso ormai la funzione di “limite” (nel duplice senso di “soglia” che bisogna varcare se ci si vuole collocare sul terreno della interpretazione ed applicazione della legge, e non della “creazione” di regole da parte del giudice; ma anche di “recinzione” dalla quale – per la stessa ragione – non si può sfuggire). Sono diventati - insomma – dei cancelli … aperti.
Ma c’è un altro aspetto, nella vicenda in esame, che non può non destare preoccupazione. Si tratta – come accennavamo all’inizio di queste pagine – dell’ombra (ingiustificata ed ingiusta) che la sentenza in esame finisce per gettare (forse, senza neanche rendersene conto) sulla vita e sul funzionamento delle Scuole di specializzazione per le professioni legali nei venticinque anni (sino a questo momento) della loro presenza nel nostro ordinamento. È come dire che queste Scuole sono vissute (per lo meno dopo l’entrata in vigore della legge Gelmini) nella “illegalità”, essendo state dirette (e continuando ad esserlo, ancora oggi), in larga (o larghissima) misura, da professori “a tempo definito”, e dunque da soggetti che avrebbero dovuto essere (e dovrebbero, se ancora in carica) ritenersi “incompatibili” a rivestire la “carica” suddetta.
E come è possibile – viene da chiedersi – che i Rettori di tante Università italiane abbiano emesso (inconsapevolmente ?) tanti decreti di nomina “illegittimi” ? Questi decreti dovrebbero tutti essere “revocati” ? E perché è mancato un controllo del Ministero sul funzionamento (da questo punto di vista) delle Scuole ?
Sono domande che, forse, anche i giudici di Palazzo Spada avrebbero potuto (e dovuto) porsi, valutando le conseguenze della loro pronuncia (sia pure relativa ad un singolo caso, che però solleva un problema generale).
Quest’ “ombra” è – probabilmente – destinata ad accompagnare il (probabile) epilogo dell’esperimento delle Scuole di specializzazione per le professioni legali, aggiungendosi ad altri errori (questa volta imputabili al legislatore) che hanno costellato la vita di questo istituto.
Un rimedio sarebbe – forse – l’emanazione di una legge di interpretazione autentica, che chiarisca in modo inequivocabile che la “prassi” di attribuire (anche) a “professori a tempo definito” la funzione di Direttore delle Scuole di specializzazione per le professioni legali non era (e non è) una prassi “illegittima”, ma anzi corrispondeva (e corrisponde) alla lettera e alla ratio delle norme che hanno introdotto e disciplinato l’istituto in esame.
[1] CdS, sez. VII, sent. 24-2-2025 n. 1538 (Pres. Contessa, est. Sestini).
[2] Nel caso delle Scuole di specializzazione per le professioni legali l’obiettivo prioritario da conseguire era (recte: avrebbe dovuto essere) quello di creare un canale di formazione “post-universitaria”, strettamente collegato e finalizzato ad organizzare un accesso alle professioni legali solidamente fondato sul piano culturale, alla luce di almeno due considerazioni: la rilevanza (anche costituzionale) che l’esercizio di tali professioni ha nel nostro ordinamento; la consapevolezza che la formazione del “giurista” (al di là del ruolo specifico che egli rivesta) richiede sempre di più una “integrazione” di “visuali” diverse (quali possono essere, ad es., quelle del giudice e dell’avvocato), tutte necessarie per comprendere appieno i fenomeni oggetto di analisi.
[3] Non si trattava soltanto di “ridurre” la durata della “pratica professionale” (da svolgere, rispettivamente, presso lo studio di un avvocato ovvero di un notaio), ma – ancora una volta – di concepire una “pratica professionale” più articolata e completa, in virtù della partecipazione alla formazione dell’aspirante avvocato o dell’aspirante notaio (anche) di figure professionali diverse da quella di destinazione.
[4] Vedi art. 1, comma del d.lgs. 17.11.1997, n. 398 – recante “Modifica alla disciplina del concorso per uditore giudiziario e norme sulle scuole di specializzazione per le professioni legali, a norma dell'articolo 17, commi 113 e 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127” – che, modificando l'articolo 123 del R.D. 30.1.1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario – stabiliva che il concorso per uditore giudiziario prevedesse una “prova preliminare”, disciplinata dall'articolo 123-bis, per i candidati che non sono in possesso del diploma di specializzazione di cui all'articolo 17, comma 113, della legge 15 maggio 1997, n. 127)
[5] Così l’art. 41, co. 9, della L. 31.12.2012, n. 247, recante Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense.
[6] Cfr. art. 1 d. min. Giustizia, 11.12.2001, n. 475, che così recita: “Il diploma di specializzazione, conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali di cui all'articolo 16 del decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, e successive modificazioni, è valutato ai fini del compimento del periodo di pratica per l'accesso alla professione di notaio per il periodo di un anno».
[7] Cfr. – exempli gratia – i Regolamenti delle Scuole di specializzazione per le professioni legali adottati nelle Università di Roma-Tre (art. 2 reg.), di Roma-Tor Vergata, di Siena (art. 3 reg.), di Pisa (art. 4 reg.), di Parma (art. 5 reg.), di Genova (art. 4 reg.), di Trento e Verona (art. 5 reg.), di Sassari (art. 4 reg.), di Palermo (art. 4 reg.), di Catania, di Napoli-Parthenope, di Catanzaro; e così via elencando
[8] Ciò è accaduto nella maggior parte delle Scuole di specializzazione istituite presso le Università elencate (a titolo esemplificativo) nella nota precedente.
[9] Cfr. Irti, I “cancelli delle parole” (Intorno a regole, principi, norme), Napoli, 2016, (ricompreso anche nella raccolta di saggi dello stesso autore, apparsa lo stesso anno con il titolo Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, 57 ss.).
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