ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Domanda di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma - 2. La procedura accelerata innanzi alla Corte di giustizia e i rischi applicativi - 3. L’ordinanza del Presidente della Corte di giustizia e la trattazione urgente del procedimento - 4. La posizione espressa dalla Corte di cassazione: Cass. n. 33398/2024 – su rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c.- e Cass. (ord. inter.) n. 34898/2024 di “rinvio a nuovo ruolo” della trattazione del procedimento in attesa della decisione sul rinvio pregiudiziale da parte della Corte di giustizia - 5. Le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di giustizia nella causa C‑758/24 - 6. La sentenza della Corte di giustizia dell’1 agosto 2025 - 7.La comparazione tra la sentenza della Corte di giustizia del 1° agosto 2025 e le Conclusioni dell’Avvocato Generale De La Tour - 8. La comparazione fra Corte di giustizia, 1° agosto 2025 (cause riunite C‑758/24 e C‑759/24), e Cass. n. 33398/2024 - 9. La comparazione fra le Conclusioni dell’Avvocato generale e l’ordinanza n. 34898/2024 della Corte di cassazione.
1. Domanda di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma
Le (speculari) domande di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale ordinario di Roma nelle cause C-758/24 e 759/24 si inseriscono nel contesto dell’applicazione, da parte delle autorità italiane della procedura accelerata di frontiera per i richiedenti asilo provenienti da Paesi designati come “di origine sicura” con atto legislativo primario. In particolare, i due casi riguardavano due cittadino bengalese i cui ricorsi contro il diniego di protezione erano stati valutati alla luce della nuova disciplina italiana, introdotta nel 2024, che qualifica il Bangladesh come Paese sicuro senza fondare tale designazione su una procedura istruttoria trasparente.
Dinanzi a tale quadro normativo, il Tribunale di Roma, in due separati procedimenti, ha sollevato quattro quesiti pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFUE. Con il primo si chiedeva se il diritto dell’Unione, e in particolare gli articoli 36, 37 e 38 della Direttiva 2013/32/UE, letti in combinazione con i considerando 42, 46 e 48 e interpretati alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e degli articoli 6 e 13 della CEDU, osti a che un legislatore nazionale, competente a consentire la formazione di elenchi di Paesi di origine sicuri e a disciplinare i criteri da seguire e le fonti da utilizzare, proceda anche a designare direttamente, con atto legislativo primario, uno Stato terzo come Paese sicuro. Il secondo quesito domandava se gli articoli 36 e 37 e l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta, vanno interpretati nel senso che essi ostano a una prassi in forza della quale uno Stato membro procede alla designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro mediante atto legislativo senza che, a causa della mancata divulgazione delle fonti di informazione sulle quali detta designazione si fonda, il richiedente proveniente dal paese interessato e il giudice nazionale investito del ricorso proposto avverso la decisione di rigetto adottata nei confronti di detto richiedente siano messi in condizione, rispettivamente, di contestare e controllare la legittimità di una siffatta designazione alla luce delle condizioni enunciate all’allegato I alla direttiva sopra ricordata. Inoltre, il giudice del rinvio chiedeva alla Corte se, in tali circostanze, il giudice nazionale possa controllare la legittimità di una siffatta designazione alla luce delle condizioni enunciate in detto allegato sulla base delle fonti di informazione che esso stesso ha raccolto tra quelle menzionate all’articolo 37, paragrafo 3, di detta direttiva. Il quarto quesito concerneva la possibilità o meno che un Paese sia considerato “di origine sicuro” anche laddove vi siano, al suo interno, categorie di persone per le quali tale qualificazione non risulta rispettata: in tal caso, si chiedeva se il diritto dell’Unione osti a una designazione generalizzata che non tenga conto di dette situazioni differenziate.
2. La procedura accelerata innanzi alla Corte di giustizia e i rischi applicativi
È soprattutto in relazione a quest’ultimo quesito che il Tribunale di Roma evidenzia le gravi criticità sistemiche e l’assenza di orientamenti consolidati sul piano nazionale. Il giudice richiama, infatti, il contesto controverso generato da una serie di decisioni di merito – tra le quali in particolare quelle dei Tribunali di Catania, Firenze e Bologna – che, nell’autunno 2024, non avevano convalidato i provvedimenti di trattenimento adottati nei confronti dei richiedenti asilo sottoposti alla procedura di frontiera. Tali pronunce avevano indotto il Governo ad adottare il d.l. n. 158/2024, volto a rafforzare normativamente la presunzione di sicurezza per determinati Paesi. Nella motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Roma, il Tribunale segnalava il rischio di un’applicazione indiscriminata della nozione di “Paese sicuro”, anche a soggetti appartenenti a categorie strutturalmente vulnerabili (come donne, minoranze religiose, oppositori politici o soggetti LGBT), per i quali – anche secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo – la protezione offerta nel Paese d’origine potrebbe risultare illusoria. Il giudice remittente osservava, ancora, come tale rischio fosse aggravato dall’impossibilità per il richiedente di contrastare efficacemente la presunzione di sicurezza, data la mancanza di trasparenza sulle fonti ed il rischio di un ineffettivo sindacato giurisdizionale. È dunque in questo quadro che il Tribunale ravvisava la necessità di un intervento chiarificatore da parte della Corte di giustizia, capace di offrire un orientamento vincolante sui limiti e le condizioni che devono circondare l’uso della nozione di Paese di origine sicuro, con particolare attenzione al profilo della non applicabilità della designazione a intere categorie soggettive.
3. L’ordinanza del Presidente della Corte di giustizia e la trattazione urgente del procedimento
Con ordinanza del 29 novembre 2024, il Presidente della Corte di giustizia UE, riuniti i due procedimenti pregiudiziali, ha accolto la richiesta del Tribunale di Roma di un esame con trattazione accelerata ai sensi dell’art. 105 del Regolamento di procedura della Corte di giustizia. Ciò in ragione della rilevanza delle questioni sollevate, che toccano non solo il corretto recepimento della direttiva 2013/32/UE, ma anche il bilanciamento tra prerogative legislative nazionali e obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, in un contesto di crescente tensione interpretativa. Il Tribunale di Roma aveva infatti segnalato che alcune pronunce di giudici di merito – nonché lo stesso contenzioso in esame – avevano generato una crisi istituzionale legata alla non convalida dei provvedimenti di trattenimento fondati sull’applicazione automatica della presunzione normativa. La Corte di giustizia ha ritenuto che simili questioni, toccando tematiche di primario rilievo in ragione del tono delle stesse meritavano una trattazione urgente, anche per prevenire decisioni giurisdizionali difformi e garantire uniformità nell’applicazione della normativa europea in tema di asilo e diritti fondamentali. Peraltro, numerose richieste di rinvio pregiudiziale erano state proposte da altri giudici in vicende simili a quella del rinvio sollevato dal Tribunale di Roma.
4. La posizione espressa dalla Corte di cassazione: Cass. n. 33398/2024 – su rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c.- e Cass. (ord. inter.) n. 34898/2024 di “rinvio a nuovo ruolo” della trattazione del procedimento in attesa della decisione sul rinvio pregiudiziale da parte della Corte di giustizia
Il tema paese sicuro era stato in precedenza già intercettato dalla Corte di cassazione almeno in due occasioni.
Dapprima, Cass. n.33398/2024 in questa Rivista, 9 gennaio 2025, con commento di M. Serio e R. Conti, Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art.363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro -intervenne in sede di rinvio pregiudiziale ex art.363 bis, c.p.c., per dare risposta al quesito sollevato dal Tribunale di Roma all’interno di un ricorso per l’ottenimento della protezione internazionale presentato da un cittadino di un paese (Tunisia) inserito nell’elenco dei paesi di origine sicuri all’epoca determinati in Italia con d.m. ministeriale. Il giudice di merito aveva chiesto alla Corte di cassazione di chiarire se il giudice ordinario avesse titolo per disattendere il decreto ministeriale nella parte in cui stabiliva la designazione di paese sicuro e dunque valutare, anche in ragione del dovere di cooperazione istruttoria ed eventualmente anche in caso di mancanza di contestazione, sulla base di informazioni sui paesi di origine (COI) aggiornate al momento della decisione, se il paese incluso nell'elenco fosse da considerare tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia.
Il dubbio venne risolto da Cass.n.33398/2024, chiarendo che nell'ambiente normativo anteriore al d.l. n. 158 del 2024, conv. nella l. n. 187 del 2024, se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di richiedente proveniente da paese designato come sicuro il giudice ordinario, nell'ambito dell'esame completo ed ex nunc può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all'art. 37 della direttiva 2013/32/UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione ed eventualmente disapplicare in via incidentale il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri, allorché la designazione operata dall'autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale; inoltre, a garanzia dell'effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l'istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l'insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova e, pertanto, in quest'ultimo caso la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale.
Non meno rilevante risulta l’ordinanza interlocutoria n. 34898/2024 della Corte di cassazione, intervenuta su un caso distinto rispetto a quelli oggetto del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, sebbene affine per oggetto e contesto normativo.
La vicenda nasceva da un ricorso presentato dal Ministero dell’interno contro una decisione del Tribunale di Roma con cui era stata disposta la liberazione di un cittadino bengalese trattenuto in frontiera dopo il rigetto della sua domanda d’asilo. Il Tribunale, pur riconoscendo che il Bangladesh fosse incluso nell’elenco dei Paesi sicuri, aveva evidenziato la necessità di un vaglio effettivo delle condizioni individuali del richiedente, ritenendo il trattenimento illegittimo. Il Ministero impugnò tale decisione, sostenendo che essa comportava una disapplicazione della normativa primaria senza che fosse stata previamente sollevata una questione di legittimità costituzionale o attivato il rinvio pregiudiziale alla Corte UE.
Cass.n.34898/2024 decise di rinviare la causa a nuovo ruolo, ritenendo che la decisione dipendeva dall’esito del rinvio pregiudiziale già pendente davanti alla Corte di giustizia UE e così evitando di decidere nel merito un caso che avrebbe potuto essere risolto in modo difforme rispetto ai principi eurounitari in via di definizione. Ciononostante, la Corte di cassazione ebbe a sviluppare un’ampia ed argomentata riflessione ricostruttiva distinguendo tra eccezioni di carattere territoriale (oggetto della sentenza della Corte di giustizia UE del 4 ottobre 2024) ed eccezioni di natura personale (oggetto del ricorso pendente innanzi alla stessa), riconoscendo che solo queste ultime siano rilevanti nella fattispecie. La Cassazione sottolineava che la presunzione di sicurezza poteva essere superata mediante elementi individuali dedotti dal richiedente e che il giudice non era esonerato dal vaglio personalizzato anche nei procedimenti accelerati. Tuttavia, concludeva affermando che «la valutazione definitiva sul punto non può prescindere dalla prossima pronuncia della Corte di giustizia», il cui esito è ritenuto decisivo per chiarire la compatibilità tra diritto dell’Unione e designazioni legislative non accompagnate da adeguate garanzie procedurali individuali.
5. Le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte di giustizia nella causa C‑758/24
Nelle sue conclusioni presentate nelle cause C‑758/24 e C-759/24 l’Avvocato Generale Richard de la Tour propone che la Corte di giustizia risponda in senso restrittivo rispetto alla legittimità della designazione legislativa di un Paese di origine sicuro, suggerendo un’interpretazione rigorosa delle garanzie previste dalla Direttiva 2013/32/UE. In merito al primo quesito, si afferma che gli Stati membri godono di un ampio margine di discrezionalità quanto alla scelta degli strumenti e delle modalità procedurali destinate a garantire la designazione, nel loro diritto nazionale, di paesi terzi come paesi di origine sicuri. Nulla osta a che tale designazione risulti da un atto di rango legislativo, rientrando una siffatta scelta in realtà nell’autonomia istituzionale e procedurale loro riconosciuta.Tuttavia, dall’articolo 288, terzo comma, TFUE si evince che tale libertà lascia inalterato l’obbligo, per gli Stati membri, di adottare tutti i provvedimenti necessari per garantire il primato del diritto dell’Unione e per assicurare la piena efficacia della direttiva di cui trattasi, conformemente all’obiettivo che essa persegue e agli obblighi da essa sanciti (20). Ne consegue che l’atto con cui uno Stato membro procede alla designazione di paesi terzi come paesi di origine sicuri non deve incidere in alcun modo sugli obblighi ad esso incombenti, sotto il profilo del rispetto dei principi basilari e delle garanzie fondamentali di cui al capo II della direttiva 2013/32 e, in particolare, quanto al rispetto del diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo riconosciuto ai richiedenti protezione internazionale in forza dell’articolo 46 di detta direttiva. In relazione al secondo ed al terzo quesito l’Avvocato Generale Richard de la Tour evidenzia che la designazione di un Paese come “di origine sicuro” tramite atto legislativo nazionale non è, in astratto, incompatibile con il diritto dell’Unione. Tuttavia, una tale designazione non può sottrarsi al controllo giurisdizionale di legittimità, poiché ciò priverebbe l’art. 46, par. 3, della direttiva 2013/32, e l’art. 47 della Carta, della loro efficacia pratica. È in questa prospettiva che viene richiamata la giurisprudenza della Corte di giustizia (Samba Diouf e CV), la quale impone che il giudice nazionale sia in grado di esercitare un controllo pieno, ex nunc e completo su tutte le condizioni sostanziali della designazione e sulla procedura che ne deriva, anche in assenza di specifiche contestazioni da parte del richiedente. In tale contesto, la presunzione di sicurezza deve rimanere confutabile, ed è per questo che l’Avvocato Generale insiste sulla necessità che il legislatore assicuri la pubblicità delle fonti di informazione su cui si fonda la presunzione. Tali fonti, pubbliche e qualificate ai sensi dell’art. 37, par. 3, della direttiva 2013/32, sono essenziali affinché il richiedente possa esercitare il proprio diritto a un ricorso effettivo, distinguendo la propria situazione individuale da quella generale. Particolarmente significativo è il passaggio in cui de la Tour afferma testualmente che: «l’effettività del controllo giurisdizionale impone all’autorità giudiziaria competente, che dispone di tutta l’esperienza richiesta in tale materia, di fondare il suo giudizio sulle fonti di informazione che essa reputi maggiormente pertinenti per valutare la legittimità di detta designazione» (punto 63). Questo richiamo all’esperienza del giudice non è meramente descrittivo laddove sottolinea il fatto che il diritto dell’Unione attribuisce al giudice nazionale un ruolo attivo e responsabile, anche nel caso in cui le fonti non siano divulgate dall’autorità amministrativa o dal legislatore. Tale ruolo implica il potere/dovere di procedere autonomamente a una personalizzazione della valutazione del Paese di origine, anche sulla base di fonti raccolte in proprio tra quelle ammesse dalla direttiva.
In sintesi, le conclusioni dell’Avvocato Generale ribadivano che l’atto legislativo nazionale non può trasformare la presunzione di sicurezza in una presunzione assoluta. Al contrario, è il giudice – forte della propria competenza, autonomia e delle fonti a disposizione – a garantire che tale presunzione resti compatibile con i diritti fondamentali e l’evoluzione concreta delle situazioni individuali, secondo i principi del diritto dell’Unione.
Il passaggio più rilevante era quello dedicato al quarto quesito, con il quale il giudice del rinvio chiedeva, come ricordato, se il quadro UE andavano interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro designi un paese terzo come paese di origine sicuro ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale, benché talune categorie di persone possano non beneficiare in tale paese di una protezione sufficiente contro il rischio di persecuzioni o violazioni gravi. Il dibattito interno sul tema aveva preso le mosse dal ruolo avuto dalla sentenza della Grande sezione del 4 ottobre 2024, CV.
L’Avvocato Generale, nell’esordio delle sue conclusioni, aveva sottolineato che “Le presenti cause sollevano giustamente la questione della portata del potere e delle competenze degli Stati membri nell’ambito della designazione dei paesi di origine sicuri e si inseriscono nel solco della sentenza del 4 ottobre 2024, Ministerstvo vnitra České republiky, Odbor azylové a migrační politiky”- p.3 Concl.
Il nodo circa la rilevanza di tale decisione ai fini della soluzione del quesito pregiudiziale è stato esaminato nelle Conclusioni ricordando, per un verso, che “nella sua sentenza CV, la Corte ha dichiarato che il diritto a un ricorso giurisdizionale effettivo garantito dall’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 impone all’autorità giudiziaria competente di rilevare, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc imposto dal legislatore dell’Unione e sulla base degli elementi del fascicolo nonché di quelli portati a sua conoscenza nel corso del procedimento dinanzi ad essa, una violazione delle condizioni sostanziali della designazione di un paese terzo come paese di origine sicuro, enunciate all’allegato I a detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso (24). Secondo la Corte, compete quindi agli Stati membri adattare il loro diritto nazionale in modo che il trattamento dei ricorsi in questione comporti un esame, da parte di detta autorità giudiziaria competente, di tutti gli elementi di fatto e di diritto che le consentano di procedere a una valutazione aggiornata del caso di specie, tra cui rientra la legittimità di una siffatta designazione -p.47 Concl.Avv. gen.
L’Avvocato generale Richard de la Tour prospettava, in astratto, due possibili risposte entrambe giuridicamente sostenibili. La prima orientava nel senso che tale designazione non era compatibile con il diritto UE, richiedendo che il Paese garantisca un regime democratico e protezione uniforme a tutta la popolazione, a prescindere dalle caratteristiche soggettive; tale soluzione, osservava l’Avvocato generale, “si muoverebbe nel solco della sentenza CV del 4 ottobre 2024”, che però affrontava solo le eccezioni di carattere territoriale. Tuttavia, tale orientamento, pur teoricamente coerente, rischierebbe di compromettere l’efficacia pratica della designazione in un contesto di forte pressione migratoria. Per questo motivo, l’Avvocato generale propende per una seconda opzione interpretativa, più pragmatica, che ammette la possibilità di designare un paese come sicuro pur in presenza di una o più categorie di persone chiaramente identificate come a rischio, a condizione che queste siano espressamente escluse dalla presunzione di sicurezza. In questa prospettiva, la nozione di paese sicuro si fonderebbe su un principio di generalizzazione, in base al quale uno Stato può essere ritenuto generalmente sicuro, fermo restando che alcune eccezioni personali devono essere gestite attraverso una procedura ordinaria individualizzata. A fondamento di tale posizione, de la Tour richiamava l’allegato I alla direttiva 2013/32, in cui si prevede che un paese sia considerato sicuro se, “sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni [...] né tortura [...] né pericolo a causa di violenza indiscriminata”. Secondo l’Avvocato generale, la presenza dell’avverbio “generalmente” implica che la protezione non debba essere assoluta o uniforme, ma possa fondarsi su una valutazione di carattere medio-statistico. Da qui la possibilità per uno Stato membro di escludere ex ante alcune categorie vulnerabili dalla presunzione di sicurezza, così come già avviene ex post nell’esame individuale. Tale interpretazione, prosegue de la Tour, risultava conforme anche al nuovo Regolamento 2024/1348, che all’articolo 61, paragrafo 2, autorizza espressamente gli Stati membri a prevedere eccezioni alla designazione in favore di “categorie chiaramente identificabili”. L’Avvocato generale sottolineava però che, se tali eccezioni fossero diventate eccessivamente ampie o indefinite, il concetto stesso di paese sicuro era destinato a diventare fittizio, rendendo la designazione non più né proporzionata né ragionevole.
6. La sentenza della Corte di giustizia dell’1 agosto 2025
La Corte di giustizia dell’Unione europea, nella sentenza del 30 luglio 2025 (causa C‑758/24), ha fornito un’articolata risposta ai quattro quesiti pregiudiziali sollevati dal Tribunale di Roma in merito alla designazione dei paesi di origine sicuri ai sensi della direttiva 2013/32/UE, letta alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali. In relazione al primo quesito, la Corte ha chiarito che nulla osta, in linea di principio, a che uno Stato membro proceda alla designazione di paesi terzi come paesi di origine sicuri mediante un atto legislativo, dal momento che il diritto dell’Unione non impone uno specifico strumento giuridico per tale designazione, lasciando agli Stati membri un margine di discrezionalità quanto alla forma e alla scelta dell’autorità competente, in virtù dell’articolo 288, terzo comma, TFUE; tuttavia, tale discrezionalità è condizionata dall’obbligo di garantire un controllo giurisdizionale effettivo sulla legittimità della designazione, ossia la possibilità per qualsiasi giudice nazionale investito di un ricorso contro una decisione individuale di respingimento di una domanda di protezione internazionale di verificare, anche incidentalmente, se la designazione legislativa rispetti le condizioni sostanziali fissate nell’allegato I alla direttiva. Quanto alle seconde e terze questioni, la Corte ha affermato che l’effettività del ricorso giurisdizionale – quale garanzia fondamentale prevista dall’articolo 47 della Carta e concretizzata nell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva – impone che tanto il richiedente quanto il giudice abbiano accesso alle fonti di informazione su cui si fonda la designazione del paese di origine sicuro, anche se la direttiva non prevede espressamente tale obbligo: l’accesso alle fonti è infatti necessario per consentire al richiedente di comprendere le ragioni del rigetto e valutare se presentare ricorso, e al giudice di esercitare un controllo effettivo e aggiornato (ex nunc) sui presupposti della designazione; inoltre, il giudice può basarsi su informazioni raccolte autonomamente, purché ne verifichi l’affidabilità e garantisca il rispetto del contraddittorio tra le parti. Infine, con riferimento al quarto quesito, la Corte ha stabilito che l’articolo 37 della direttiva 2013/32, in combinato disposto con l’allegato I, osta a che uno Stato membro designi come paese di origine sicuro un paese terzo che non soddisfi le condizioni sostanziali della direttiva per talune categorie di persone: l’interpretazione letterale, sistematica e teleologica della norma impone che i requisiti di sicurezza siano rispettati in modo costante e generalizzato con riferimento all’intera popolazione del paese, senza esclusioni per gruppi specifici, giacché consentire una designazione selettiva equivarrebbe ad ampliare indebitamente l’ambito applicativo di un regime procedurale derogatorio che deve invece essere interpretato restrittivamente; la facoltà di prevedere eccezioni per categorie particolari sarà ammessa solo con il futuro regolamento 2024/1348, che entrerà in vigore dal 12 giugno 2026, ma non può applicarsi ai procedimenti ancora regolati dalla direttiva. Pertanto, spetta al giudice del rinvio verificare, alla luce dell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 e dell’articolo 47 della Carta, se la designazione del Bangladesh come paese di origine sicuro – prevista dall’articolo 2-bis del d.lgs. n. 25/2008 come modificato dal d.l. n. 158/2024 – soddisfi le condizioni sostanziali previste dalla direttiva, con riferimento a tutta la popolazione del paese e non solo ad alcune categorie, assicurando in tal modo il pieno rispetto del diritto dell’Unione e delle garanzie che essa attribuisce al richiedente protezione internazionale.
7. La comparazione tra la sentenza della Corte di giustizia del 1° agosto 2025 e le Conclusioni dell’Avvocato Generale De La Tour
Si rileva una sostanziale convergenza sugli aspetti centrali dell’interpretazione della direttiva 2013/32/UE fra le Conclusioni dell’Avv. Gen. De la Tour e la Corte di giustizia, ma anche una divergenza significativa sul punto decisivo relativo alla possibilità per gli Stati membri di designare come “paese di origine sicuro” un paese che non garantisca protezione a determinate categorie di persone. Entrambi concordano nel ritenere legittima, in linea di principio, la designazione legislativa dei paesi sicuri, purché essa non comprometta il diritto a un ricorso effettivo. La Corte, richiamandosi alla giurisprudenza consolidata sul primato del diritto UE, ribadisce che anche atti legislativi interni devono poter essere disapplicati dal giudice nazionale se ostano all’efficacia della direttiva. In questo quadro, i giudici di Lussemburgo sottolineano che la designazione deve essere soggetta a un sindacato giurisdizionale sostanziale, volto a verificare la conformità ai criteri dell’allegato I della dir. ult.cit., garantendo accesso alle fonti informative da parte del richiedente e del giudice. Su questi profili, le Conclusioni risultano pienamente coerenti con la decisione della Corte di giustizia.
Il nodo critico emerge, piuttosto, con evidenza nella risposta al quarto quesito pregiudiziale offerta dalla Corte di giustizia in merito alla possibilità di designare come “paese di origine sicuro” un paese terzo che non offra garanzie di protezione a determinate categorie di persone. L’Avvocato Generale, si è visto, aveva proposto un’interpretazione orientata alla futura evoluzione normativa, sostenendo che “non si deve escludere in via assoluta” la legittimità di una designazione selettiva, purché “categorie vulnerabili siano chiaramente identificate e escluse” dalla presunzione di sicurezza. A suo avviso, questa flessibilità era compatibile con lo spirito della direttiva 2013/32/UE, trovando conferma nel nuovo Regolamento UE 2024/1348, il cui articolo 61, paragrafo 2, consente esplicitamente – a partire dal 12 giugno 2026 – la designazione differenziata dei paesi sicuri, con eccezioni per gruppi specifici. In tal senso, De La Tour invocava, dunque, il regolamento come parametro interpretativo utile già allo stato.
La Corte di giustizia ha disatteso questa prospettiva, che pure era stata valorizzata dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n.34898/2024. Richiamando espressamente la propria sentenza del 4 ottobre 2024 (C‑406/22), la Corte di Lussemburgo ha ribadito che il bilanciamento tra rapidità delle procedure e garanzie effettive è stato già compiuto dal legislatore europeo e non può essere rideterminato in sede giudiziaria. L’articolo 37 della direttiva 2013/32/UE, interpretato secondo il suo “tenore letterale”, non consente – secondo la Corte – che la designazione riguardi solo una parte della popolazione di un paese terzo: “nulla nel testo […] indica che […] tali termini possano essere intesi nel senso che riguardino soltanto una parte” (§92). Inoltre secondo la Corte i criteri dell’allegato I devono essere rispettati “con riferimento a tutta la popolazione del paese terzo interessato” (§96), e anche se “non esiste alcuna garanzia assoluta di sicurezza per ciascun individuo” (§97), ciò non giustifica un abbassamento dei requisiti richiesti per la designazione. L’accoglimento della tesi dell’Avvocato Generale equivarrebbe, secondo la Corte, a “estendere l’ambito di applicazione del regime speciale d’esame” (§100) in modo non conforme al principio secondo cui “le disposizioni derogatorie devono essere oggetto di interpretazione restrittiva”.
Quanto al nuovo Patto sull’asilo, la Corte riconosce che il regolamento 2024/1348 prevede, ma solo per il futuro, la possibilità di designazioni selettive. Tuttavia, afferma chiaramente che “nella misura in cui ai procedimenti principali si applica l’articolo 37 della direttiva 2013/32 e non già l’articolo 61, paragrafo 2, del regolamento 2024/1348” (§108), il nuovo regime normativo non è in atto giuridicamente rilevante. Il richiamo al nuovo regolamento, dunque, non può giustificare una lettura anticipata della direttiva attualmente in vigore, ben potendo comunque il legislatore europeo, nell’esercizio della sua discrezionalità, decidere di anticiparne l’entrata in vigore o addirittura di modificare il bilanciamento individuato in precedenza fra esigenze di trattazione rapida di procedimenti per richiedenti provenienti da paesi sicuri ed esame adeguato e completo e un accesso effettivo del richiedente ai principi fondamentali e alle garanzie previsti dalla medesima direttiva 2013/32. In sintesi, se per l’Avvocato Generale- e Cass.n.34898/2024 - il regolamento del 2024 funge già oggi da criterio ermeneutico da utilizzare nell’interpretazione della normativa dell’Unione vigente, per la Corte esso rappresenta una volontà legislativa futura, non ancora efficace, e pertanto inidonea a incidere sull’interpretazione del diritto vigente.
8. La comparazione fra Corte di giustizia, 1° agosto 2025 (cause riunite C‑758/24 e C‑759/24), e Cass. n. 33398/2024
Tanto la Corte di giustizia quanto la Corte di cassazione riconoscono al giudice nazionale un ruolo essenziale nella verifica della conformità sostanziale della designazione di un Paese di origine sicuro ai criteri europei. La Corte di giustizia afferma che “quando un giudice è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale, esaminata nell’ambito del regime speciale applicabile alle domande presentate dai richiedenti provenienti da paesi terzi designati come paese di origine sicuro”, egli deve svolgere “un esame completo ed ex nunc imposto dal suddetto art. 46, par. 3” e, soprattutto, che tale esame deve includere “una violazione delle condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I di detta direttiva, anche se tale violazione non è espressamente fatta valere a sostegno di tale ricorso” (§85). Questa posizione è pienamente in linea con quanto affermato dalla Cassazione, la quale ha chiarito che “il giudice, a fronte del corretto adempimento degli oneri di allegazione, mantiene il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili ad indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale, anche in relazione alla situazione generale del paese di origine” (Cass. n. 33398/2024, p. 23).
Sotto il profilo delle fonti informative e della trasparenza istruttoria, la Corte di giustizia ha ribadito che “il diritto a un ricorso effettivo richiede che il giudice abbia accesso e possa valutare il contenuto delle fonti di informazione utilizzate per la designazione” (§78), sottolineando che la procedura di designazione nazionale deve fondarsi su “fonti affidabili e verificabili” (§70). Su questo punto, la Cassazione afferma che “la presunzione che vi si ricollega non è dunque una fictio, ma deve essere fondata su fonti certe che consentano di dimostrare la sicurezza del Paese designato” (p. 11), esprimendo una convergente attenzione al controllo effettivo delle basi fattuali della presunzione.
Decisiva è poi la convergenza circa il primato del diritto dell’Unione e la disapplicazione della normativa interna in contrasto. La Corte di giustizia precisa che “spetta al giudice nazionale disapplicare, se del caso, qualsiasi disposizione nazionale, anche legislativa, che osti all’effettività del controllo previsto dall’articolo 46 della direttiva” (§63). In parallelo, la Cassazione ribadisce che “il giudice ordinario, anche dinanzi a designazione ex lege, deve comunque assicurare l’effettività del controllo, senza che l’elevazione di rango della fonte possa esonerarlo da tale dovere” (p. 23), riaffermando l'obbligo di disapplicazione in caso di contrasto con il diritto dell’Unione.
Infine, sul terreno della tutela giurisdizionale effettiva, la Corte di giustizia richiama l’art. 47 della Carta, chiarendo che “l’effettività della tutela giurisdizionale impone che il giudice possa sindacare la designazione, anche legislativa, del paese di origine sicuro” (§87). La Cassazione, con perfetta coerenza, osserva che “il giudice ordinario è il garante dell’effettività, nel singolo caso concreto al suo esame, dei diritti fondamentali del richiedente asilo” (p. 10), evidenziando che la giurisdizione civile ordinaria ha la responsabilità di dare attuazione ai diritti fondamentali anche in presenza di presunzioni normative.
In conclusione, il parallelismo tra le due decisioni è evidente poiché le due Corti riconoscono che il giudice nazionale è chiamato ad esercitare un sindacato pieno, attuale e concreto sulla designazione dei paesi sicuri, anche se operata con legge, garantendo l’effettività dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione e il primato del diritto dell’Unione.
9. La comparazione fra le Conclusioni dell’Avvocato generale e l’ordinanza n. 34898/2024 della Corte di cassazione
Può essere parimenti utile operare una analoga comparazione fra l’ordinanza della Cassazione n.34898/2024 e le conclusioni dell’Avvocato generale De la Tour, evidenziando che le stesse convergevano in più punti ed anche sulla soluzione del quarto quesito che, come si è visto, è stato deciso in modo difforme dalla Corte di giustizia.
In particolare, quanto al primo quesito pregiudiziale, la Cassazione sottolineava che «la presunzione che il Paese d’origine sia sicuro non esonera il giudice dal dovere di valutare, se del caso, eventuali elementi individuali dedotti dal ricorrente e idonei a inficiare, nel caso specifico, l’attendibilità della designazione». Tale dovere si affianca alla possibilità riconosciuta allo Stato di «escludere, nella fase della designazione, alcune categorie soggettive dalla presunzione, ove identificate come strutturalmente a rischio di persecuzione o trattamenti inumani».
Una simile impostazione era fatta propria anche dall’Avvocato generale De la Tour, secondo il quale «gli Stati membri dispongono di un margine di discrezionalità che consente loro di designare un paese terzo come paese di origine sicuro, benché siano state individuate una o più categorie limitate, ma chiaramente identificabili, di persone a rischio in tale paese, e di escludere correlativamente ed espressamente tali categorie dalla presunzione di sicurezza» (§70 Concl.). A sostegno di questa lettura, de la Tour evidenziava che «il legislatore dell’Unione ammette chiaramente che il concetto di paese di origine sicuro e la presunzione di sicurezza che ne consegue derivano da una generalizzazione» (§79), e che «non ravviso alcuna valida ragione che osti a che uno Stato membro decida, in esito alla valutazione generale di tale paese, di escludere (ex ante) dall’ambito di applicazione di detta presunzione la categoria o le categorie di persone che esso ha già identificato come a rischio» (§81).
Nelle rispettive motivazioni, sia l’Avvocato generale de la Tour che la Corte di Cassazione insistevano poi sulla necessità di mantenere aperta la possibilità di contestare la presunzione di sicurezza, soprattutto in presenza di eccezioni personali. Entrambi i provvedimenti ribadivano l’obbligo del giudice di verificare in concreto la fondatezza della presunzione, anche in assenza di informazioni ufficiali. La Cassazione ricordava che «la presunzione che il Paese d’origine sia sicuro non esonera il giudice dal dovere di valutare, se del caso, eventuali elementi individuali dedotti dal ricorrente»,
Inoltre, quanto al quarto quesito pregiudiziale in sintonia con le Conclusioni dell’Avvocato generale, la Cassazione richiamava espressamente anche il nuovo Regolamento 2024/1348, in particolare l’art. 61, co. 2, che autorizza espressamente gli Stati membri a designare un Paese terzo come sicuro, escludendo tuttavia determinate categorie chiaramente identificabili di persone dalla presunzione di sicurezza che tale designazione comporta. La Cassazione osservava che questa disposizione, “pur non ancora applicabile ratione temporis, è indicativa dell’evoluzione del sistema normativo e può orientare l’interpretazione della normativa attuale” (p. 27), sottolineando così la funzione interpretativa di norme future già formalmente adottate, in coerenza con il principio di unità dell’ordinamento dell’Unione. Di analogo tenore era il passo delle conclusioni dell’Avvocato generale, che ricordava come l’art. 61 consente agli Stati “di prepararsi adeguatamente all’applicazione di detto regolamento” e ne deduce che risulterebbe paradossale “imporre agli Stati membri […](di) abrogare una siffatta modalità di applicazione” (§94 Concl.).
Qui le Conclusioni dell'Avvocato Generale De La Tour concl.Avv.-gen
Qui la Sentenza del 1 agosto 2025 corte-giut-1-agosto-2025
Sul tema si vedano anche Corte di giustizia: l’Egitto non è un paese sicuro, Paesi sicuri e categorie di persone “insicure”: un binomio possibile? Il Tribunale di Firenze propone rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE di Cecilia Siccardi, Il Tribunale di Bologna chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul DL paesi sicuri, La sentenza della Corte di Giustizia del 4 ottobre 2024, causa C-406/22, secondo una prospettiva “interna” e di diritto dell’Unione Europea di Marcella Cometti, Un giudice a Roma. Gli immigrati, il governo e la protezione dello stato di diritto di Cataldo Intrieri, Immigrazione, rimpatri e incolumità del richiedente asilo. Intervista a Rita Russo di Paola Filippi, Brevi note sul rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c. e su limiti e controlimiti giurisprudenziali alla definizione normativa di paese sicuro di Roberto Giovanni Conti e Mario Serio.
Il 18 luglio 1990 su Palazzo Baciocchi, a Bologna, scese un silenzio innaturale.
La Corte d’Assise d’Appello aveva pronunciato la sua sentenza: annullate tutte le condanne pronunciate dai giudici di primo grado per la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, condanne che avevano riguardato sia gli autori materiali che alcuni imputati per i numerosi depistaggi inscenati fin dai primi passi delle indagini.
Nessun colpevole, nessun terrorista associato, nessun depistaggio.
Immediatamente partirono, a più livelli, le richieste di eliminare dalla lapide della Stazione l’aggettivo “fascista” accanto alla parola strage; si giunse addirittura, in quei giorni, alla presentazione di un ricorso d’urgenza al Pretore di Bologna per la cancellazione di quell’aggettivo.
Quella sentenza, che di lì a breve sarebbe stata annullata dalla Cassazione e definita “illogica, priva di coerenza, immotivata o scarsamente motivata, punteggiata di tesi inverosimili”, aveva in poco tempo fornito l’occasione e le parole a quella parte di opinionisti e politici che per decenni hanno cercato di indirizzare altrove indagini e processi. Altrove, in un luogo diverso da quell’ambiente neofascista, sostenuto ed alimentato da personaggi come il capo della Loggia P2 e appartenenti ai servizi segreti, nel quale, lo dicono uno dopo l’altro i processi fin qui celebrati e conclusi, venne programmata e realizzata la più grave strage di civili in un tempo di pace nel nostro paese: 85 morti, 200 feriti.
Le richieste di cancellare quella parola vennero respinte, mentre il lavoro giudiziario andava avanti, anno per anno, decennio per decennio, un processo dopo l'altro.
Ricordiamoli, i processi:
Il 12 febbraio 1992 la Corte di Cassazione a Sezioni unite annullò le assoluzioni rinviando il processo ad un nuovo giudizio d’appello celebrato nel 1994. La sentenza divenne definitiva nel 1995, con la condanna all'ergastolo, quali esecutori dell'attentato, dei neofascisti dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, mentre l'ex capo della P2 Licio Gelli, l'ex agente del SISMI Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte venivano condannati per il depistaggio delle indagini.
Un secondo processo vide imputato Luigi Ciavardini, anche lui appartenente ai NAR, giudicato dal Tribunale per i Minorenni perché, nell’agosto del 1980, aveva solo 17 anni. La sua condanna divenne definitiva l’11 aprile 2007.
Nel 2017 venne rinviato a giudizio, per concorso nella strage di Bologna, Gilberto Cavallini, anch’egli componente dei NAR. Il suo nome compariva, ripetutamente, nelle motivazioni delle precedenti sentenze a carico di Mambro, Fioravanti e Ciavardini. La Corte d’assise di Bologna pronunciò la sentenza di condanna all’ergastolo il 9 gennaio 2020; la sentenza viene confermata, in appello, nel 2023 ed è divenuta definitiva nel gennaio di quest’anno.
Il 6 aprile 2022 la Corte di Assise di Bologna, al termine di in un nuovo processo scaturito da indagini riguardanti anche l’individuazione dei mandanti, condannava all'ergastolo Paolo Bellini quale esecutore materiale, mentre l'ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel, per depistaggio, veniva condannato alla pena di sei anni di reclusione e Domenico Catracchia, ex amministratore di condomini in via Gradoli a Roma, accusato di false informazioni al PM al fine di sviare le indagini, alla pena di quattro anni di reclusione.
La sentenza venne confermata l'8 luglio 2024 dalla Corte di Assise di Appello di Bologna ed il processo si è concluso solo pochi giorni fa, il 1° luglio 2025, quando la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso degli imputati.
Decisioni, le più recenti a carico di Cavallini e di Bellini, che non solo consolidano quanto affermato dalle precedenti sentenze, cioè l’attribuzione a terroristi dell'estrema destra del ruolo di esecutori, ma ricostruendo l’intricata, oscura opera di chi depistava le indagini, aprono il nostro sguardo sul quadro dei mandanti e questo anche in ragione della figura di Paolo Bellini, già esponente dell’organizzazione neofascista Avanguardia Nazionale.
Ricordare il cammino giudiziario che ci porta al 45° anniversario della strage del 2 agosto 1980 è oggi, più che mai, importante, direi necessario. La storia della ricerca della verità giudiziaria sulla strage del 2 agosto 1980 è solo una parte di un necessario lavoro di ricostruzione su quanto accadde in Italia in quegli anni, quando la libertà e la democrazia nel nostro Paese furono gravemente attaccate da chi, anche con importanti finanziamenti esteri, fornì mezzi, obiettivi e garanzie di copertura, fino alle più alte sedi istituzionali, agli esecutori materiali di gravissimi atti terroristici.
La chiamarono “strategia della tensione”, e di questi strateghi di morte furono vittime gli 85 innocenti di Bologna: anche questo ricaviamo dalle sentenze Cavallini e Bellini, quest’ultima in particolare rivelatrice del ruolo svolto, per anni, da appartenenti, ai più alti livelli, ai “nostri” servizi segreti.
Al lavoro dei magistrati bolognesi, portati a misurarsi con segreti di Stato, documenti non rivelati, carte venute allo scoperto a distanza di decenni, si è sempre affiancata, con tenacia e con la sua ostinata domanda di verità e giustizia, l’“Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980”, costituitasi a Bologna il 1° giugno 1981 e da allora sempre presente, ad ogni processo, ad ogni udienza.
Ogni anno a Bologna, la mattina del 2 agosto, si snoda un lungo corteo di cittadini che attraversa la città, partendo da Piazza Maggiore, il luogo della democrazia cittadina, per giungere davanti alla stazione di Bologna. Lì, alle 10:25, l’ora in cui è rimasto congelato nel tempo l'orologio della stazione sovrastante la parte di edificio spazzato via dalla bomba, cala il silenzio, per un minuto.
Non è il silenzio che, allora appena entrata in magistratura, sentii nel cortile di Palazzo Baciocchi quel 19 luglio 1990. È un silenzio vivo e vibrante, una pausa a cui seguono gli applausi e la commozione di tutti. Ogni anno, quel corteo, con l’appello dei famigliari delle vittime ad ottenere verità e giustizia ripetuto dal palco di Piazza Medaglie d’Oro è stata la risposta a quanti, cercando altrove, o spingendo a cercare altrove, negavano la serietà dell’aggettivo “fascista” accanto alla parola “strage”.
Una risposta talora passionale, talora rabbiosa, ma ferma e collettiva che oggi, a distanza di 45 anni dalla strage, trova nelle verità processuali conferme e nuove sollecitazioni, rendendo giustizia alla forza con cui questa comunità reagì, fin dal primo momento, all’attentato contro ogni valore democratico.
Ricordiamoli, questi processi. Parliamone con i nostri figli, con i nostri amici.
“BOLOGNA NON DIMENTICA” sta scritto su uno striscione che ogni anno apre il corteo del 2 agosto. Bologna non dimentica e tutta l’Italia non deve dimenticare. Deve sapere!
A questo link possono essere consultate tutte le sentenze citate:https://memoria.cultura.gov.it/documenti-online/-/doc/detail/287/Strage+di+Bologna%2C+documenti+processuali+%28Bologna%2C+2+agosto+1980%29?keyword=.
Le Sezioni Unite tornano sul riparto di giurisdizione in materia di edilizia residenziale pubblica (nota a margine della Cass. civ., Sez. Un., 26 dicembre 2024, n. 34502)
di Carolina Cappabianca
Sommario: 1. Introduzione; 2. L’inquadramento della vicenda; 2.1. La ricostruzione del Tribunale di Locri n. 703/2019; 2.2. Le motivazioni del T.A.R. Reggio Calabria, ord. n. 284/2024; 3. Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione; 4. Rilievi conclusivi.
1. Introduzione
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla giurisdizione nell’ipotesi di controversia sulla legittimità dei provvedimenti di rilascio e di sgombero dell’alloggio occupato sine titulo, in materia di edilizia residenziale pubblica[i] (d’ora in avanti anche solo e.r.p.).
Va rilevato, sin da subito, che - a fronte di un oramai consolidato criterio generale di riparto fra giurisdizioni[ii] - in materia di e.r.p. appare tutt’oggi complicata l’individuazione della giurisdizione[iii], considerando la natura complessa del rapporto fra gli assegnatari degli alloggi e l’amministrazione titolare del bene[iv], che si articola in due distinte fasi: l’una tipicamente pubblicistica, volta all’individuazione mediante pubblico concorso del soggetto legittimato, che si conclude con il provvedimento di assegnazione dell’alloggio; l’altra di tipo privatistico, che ha origine a seguito della stipulazione del contratto di locazione con l’assegnatario e attiene alla gestione del rapporto instaurato fra quest’ultimo e l’amministrazione[v].
La Corte di cassazione, in più occasioni[vi], così come anche nella pronuncia in commento, ha affermato che «nella materia degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo ed ordinario trova il suo criterio distintivo nell’essere la controversia relativa alla fase antecedente o successiva al provvedimento di assegnazione dell’alloggio, che segna il momento a partire dal quale l’operare della pubblica amministrazione non è più riconducibile all’esercizio di pubblici poteri, ma ricade invece nell’ambito di un rapporto paritetico»[vii].
Tuttavia, la difficoltà nell’individuare con esattezza la fase, pubblicistica o privatistica, alla quale si riferisce la questione controversa continua a porre problemi di certezza in merito alla giurisdizione.
Infatti, nella stessa vicenda esaminata dalle Sezioni Unite, il Tribunale di Locri, inizialmente adito, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, ritenendo che la questione dedotta in giudizio riguardasse la fase antecedente al provvedimento di assegnazione dell’alloggio, quindi quella tipicamente pubblicistica in cui la posizione del richiedente assume natura di interesse legittimo.
Senonchè, riassunta la questione dinanzi al T.A.R. Reggio Calabria, quest’ultimo ha a sua volta declinato la sua giurisdizione, ritenendo invece che la posizione soggettiva tutelata dal ricorrente fosse di diritto soggettivo e pertanto spettasse al giudice ordinario[viii]. Nella fattispecie, infatti, i provvedimenti contestati dal ricorrente riguardavano la diffida al rilascio dell’alloggio occupato e un’ordinanza esecutiva di sgombero che, secondo il giudice amministrativo, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.
Le Sezioni Unite, adite a seguito dell’ordinanza del T.A.R. Reggio Calabria, nella sentenza in commento, si sono pronunciate a favore della giurisdizione del giudice ordinario con una motivazione che, pur condivisibile in punto di giurisdizione, non pare dipanare del tutto le incertezze, già evocate, esistenti in materia.
2. L’inquadramento della vicenda
Prima di analizzare la pronuncia in commento è opportuno procedere ad una breve ricostruzione della vicenda ad essa sottostante.
Quest’ultima trae origine dal ricorso proposto dinanzi al Tribunale di Locri dagli occupanti di un alloggio popolare avverso: a) il provvedimento con il quale l’ATERP della Provincia di Reggio Calabria, proprietaria dell’immobile, li diffidava al rilascio dello stesso, in quanto da loro occupato illegittimamente; b) l’ordinanza del Sindaco del Comune di Locri che intimava ai ricorrenti l’immediato sgombero dell’immobile.
In particolare, gli occupanti contestavano l’ordine di immediato rilascio dell’alloggio, evidenziando la sussistenza di tutti i presupposti per la regolarizzazione del rapporto ai sensi dell’art. 1, co. 1, l. r. 30 marzo 1995, n. 8, nonché la legittimità dell’ordinanza sindacale di sgombero sotto più profili.
In buona sostanza, i ricorrenti adivano l’autorità giudiziaria affinchè venisse accertato il loro diritto soggettivo al godimento dell’alloggio popolare, in quanto subentranti nel rapporto locativo alla legittima assegnataria.
Questi, infatti, avevano occupato l’alloggio, dopo che gli era stato ceduto gratuitamente dalla assegnataria, provvedendo oltretutto anche al pagamento delle utenze e della tassa sui rifiuti. Inoltre, sostenevano di aver anche presentato una richiesta di regolarizzazione del rapporto di locazione all’ATERP della Provincia di Reggio Calabria che, dopo una iniziale richiesta di integrazione documentale, li aveva diffidati al rilascio dell’immobile occupato, così inducendoli ad agire per l’accertamento del proprio diritto soggettivo al mantenimento della situazione di vantaggio acquisita.
2.1. La ricostruzione del Tribunale di Locri n. 703/2019
Il Tribunale di Locri, ritenendo prevalente il profilo relativo alla pendenza di una domanda di regolarizzazione della occupazione senza titolo dell’alloggio di e.r.p, ha inquadrato la controversia nell’ambito della fase tipicamente pubblicista del rapporto, spettante, come si è visto, alla giurisdizione del giudice amministrativo.
In particolare, muovendosi nel solco del petitum formale, individuato in base all’oggetto del dispositivo che i ricorrenti invocavano, il Tribunale ha ricondotto erroneamente il caso di specie in una controversia afferente ad un’istanza di assegnazione in sanatoria dell’alloggio, sebbene mediante regolarizzazione e ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in favore del giudice amministrativo.
2.2. Le motivazioni del T.A.R. Reggio Calabria, ord. n. 284/2024
Dal canto suo, il T.A.R. Reggio Calabria, dinanzi al quale è stata riassunta la controversia, ritenendo che la stessa andasse inquadrata nell’ambito di un rapporto di tipo paritetico e che, pertanto, spettasse al giudice ordinario, ha sollevato conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell’art. 11, co.3, c.p.a.
Ad avviso del Collegio, infatti, la situazione giuridica soggettiva fatta valere dai ricorrenti era di diritto soggettivo «essendo contestato il diritto di agire esecutivamente» dell’amministrazione «e configurandosi l’ordine di rilascio come un atto imposto dalla legge e non come esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione»[ix].
Inoltre, ad ulteriore sostegno delle sue conclusioni, ritenendo che i ricorrenti avessero opposto alla pretesa di rilascio dell’amministrazione un diritto a subentrare nel rapporto - già costituito con l’originaria assegnataria dell’alloggio - il Collegio evoca un’altra pronuncia delle Sezioni Unite[x], secondo cui l’accertamento dei requisiti richiesti per l’esercizio del diritto al subentro negli alloggi di e.r.p. spetterebbe al giudice ordinario.
Tuttavia, quanto a quest’ultimo profilo, la pronuncia del T.A.R. non appare pienamente condivisibile, in quanto la fattispecie oggetto della sentenza delle Sezioni Unite richiamata riguardava effettivamente un’opposizione al provvedimento di rilascio della P.A., fondata sull’asserita esistenza di un diritto al subentro nell’alloggio di e.r.p.; mentre - nel caso di specie - la situazione soggettiva opposta dai ricorrenti riguardava il presunto diritto alla regolarizzazione in sanatoria del rapporto di cui all’art. 1, co. 1, della l.r. 30 marzo 1995, n. 8[xi].
La differenza fra i due istituti, quello di assegnazione mediante regolarizzazione del rapporto e quello del diritto al subentro, non è irrilevante.
Infatti, il diritto a subentrare nell’assegnazione è previsto e disciplinato, nella fattispecie, dall’art. 32 l.r. 25 novembre 1996, n. 32[xii], ed è riconosciuto, in caso di morte dell’assegnatario o dell’aspirante assegnatario, soltanto ad alcune categorie di soggetti - fra i quali, peraltro, non rientrano i ricorrenti - a seguito di voltura del contratto di locazione e dell’esito positivo della verifica, da parte dell’ente gestore, dell’assenza di condizioni ostative alla permanenza nell’alloggio degli aspiranti subentranti nel rapporto locativo.
Si tratta, invero, di componenti del nucleo familiare dell’assegnatario o di persone che, pur essendo prive di vincoli di parentela o affinità con quest’ultimo, vi abbiano convissuto stabilmente e per le quali, comunque, ai fini del riconoscimento del diritto al subentro, deve essere stato riconosciuto il c.d. ampliamento stabile del nucleo familiare[xiii].
Diverse, invece, sembrerebbero essere le finalità, i presupposti e la procedura previste per la regolarizzazione dell’assegnazione di cui all’art. 1, co. 1, della l.r. 30 marzo 1995, n. 8, richiamato espressamente dai ricorrenti per paralizzare la pretesa di rilascio dell’alloggio dell’amministrazione.
Questa, infatti, è una misura straordinaria - come desumibile anche dalla circostanza che la sua operatività è espressamente limitata a tutti coloro che presentino l’istanza entro una specifica data - che consente di regolarizzare l’occupazione abusiva all’esito di una valutazione amministrativa in ordine al possesso di tutti i requisiti richiesti per l’assegnazione e che può trovare applicazione anche nelle ipotesi, come quella in esame, in cui gli alloggi sono stati assegnati a terzi e poi ceduti da questi agli occupati senta titolo[xiv].
Alla luce di tali considerazioni, si ritiene che, nel caso di specie, avendo i ricorrenti richiamato la normativa per la regolarizzazione delle occupazioni sine titulo, il Collegio sia incorso in errore qualificando la posizione soggettiva vantata dai ricorrenti come diritto al subentro, laddove, invece, come si è detto, i ricorrenti avevano contestato i provvedimenti impugnati sul presupposto della pendenza di una domanda di regolarizzazione del rapporto in sanatoria.
Di conseguenza, pur condividendosi la pronuncia sotto il profilo della giurisdizione, ci si discosta dalle conclusioni del T.A.R. con riferimento all’assimilazione apparentemente svolta dallo stesso fra le ipotesi di diritto al subentro in senso stretto e quelle di assegnazione dell’alloggio mediante regolarizzazione del rapporto di fatto, sorto a seguito dell’illegittima occupazione del bene.
Infatti, diversamente da quanto sostenuto dal Collegio, si ritiene che, in assenza di un provvedimento di rilascio, quale quello impugnato nel caso di specie, ove oggetto della controversia fosse stata l’accertamento dei requisiti per assegnazione dell’alloggio mediante regolarizzazione, la giurisdizione avrebbe dovuto essere del giudice amministrativo.
3. Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo secondo le Sezioni Unite della Corte di cassazione
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, al fine di dipanare i dubbi sorti, richiamano il generale criterio di riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, fondato non sul parametro del petitumformale individuato in base all’oggetto del dispositivo che si invoca, bensì su quello del petitum sostanziale, da individuarsi con riguardo alla causa petendi e al rapporto dedotto in giudizio[xv].
Alla luce di tale premessa, le Sezioni Unite asseriscono che nella vicenda in esame «è evidente che la situazione giuridica dei ricorrenti (…) è di diritto soggettivo, perché la pretesa di conservare la disponibilità dell’immobile si oppone ad un provvedimento dell’amministrazione comunale, di rilascio dell’immobile ad uso abitativo occupato senza titolo, che non è esito della valutazione dell’interesse pubblico nell’esercizio del potere discrezionale, ma è atto imposto dalla legge come forma esecutiva per il recupero dell’immobile alla mano pubblica».
In particolare, in continuità con il suo precedente indirizzo, la Corte sottolinea che: a) in termini generali, il criterio di riparto di giurisdizione in materia di edilizia residenziale pubblica è dato dall’essere la controversia relativa alla fase antecedente o successiva al provvedimento di assegnazione dell’alloggio, atteso che a seguito di tale atto il rapporto instaurato fra le parti è di tipo paritetico; b) in ogni caso, ove si riscontrino difficoltà nel comprendere la natura del rapporto instaurato, il criterio guida è quello tradizionale del petitumsostanziale, che va identificato soprattutto sulla base dei soli fatti dedotti a fondamento della pretesa fatta valere con l’atto introduttivo della lite.
Pertanto, in tale ottica, ad assumere rilevanza in punto di giurisdizione è la natura sostanziale della situazione giuridica fatta valere che, tornando al caso di specie, non cambia in ragione del motivo che gli occupanti possono avere addotto per opporsi al rilascio dell’alloggio. Si è, infatti, dinanzi ad un’azione esecutiva avverso la quale i ricorrenti avrebbero potuto dedurre efficacemente il solo diritto a permanere nell’immobile in virtù di pregresso titolo legittimante.
In definitiva, secondo la Corte di cassazione, qualora la controversia verta sulla legittimità dei provvedimenti di rilascio e di sgombero dell’alloggio occupato sine titulo, va affermata la giurisdizione del giudice ordinario, atteso che la situazione giuridica azionata è il diritto soggettivo di resistere all’attività esecutiva che si ritiene, per qualsiasi motivo, illegittimamente posta in essere dall’amministrazione; un diritto, dunque, non diverso da quello da cui è connotata la situazione di chiunque proponga opposizione ad un titolo esecutivo.
4. Rilievi conclusivi.
Sono possibili alcune brevi osservazioni in chiave conclusiva.
Si è già anticipato, invero, delle perplessità sorte dalla lettura dell’ordinanza del T.A.R. adito nella parte in cui, sembrerebbe valorizzare, ai fini del riparto di giurisdizione, anche l’asserita esistenza da parte dei ricorrenti di un diritto al subentro in senso stretto nell’alloggio.
Orbene, al riguardo, ulteriori riflessioni possono svolgersi in relazione alla posizione assunta dalla Corte di cassazione che - contrariamente a quanto sostenuto dal T.A.R. - ritiene condivisibilmente che i ricorrenti abbiano opposto al provvedimento di rilascio dell’alloggio la titolarità delle condizioni per ottenere l’assegnazione in sanatoria dello stesso.
Dalle affermazioni della Corte, però, sembrerebbe potersi desumere anche che, per essa, non vi è un’effettiva differenza, in punto di giurisdizione, fra la situazione giuridica azionata da chi aspira all’assegnazione mediante regolarizzazione del rapporto e chi, invece, assume di essere titolare di un diritto al subentro in senso stretto.
In particolare, secondo la Corte «l’istanza di regolarizzazione del rapporto locativo non radica diversamente la giurisdizione nella controversia, giacché, ancora una volta, si è al di fuori dell’ambito della discrezionalità dell’amministrazione». Ciò in quanto «la dedotta regolarizzazione discenderebbe direttamente dalla previsione legislativa di fonte regionale in presenza di precise condizioni».
È pur vero che tale differenza, nel caso di specie, è irrilevante ai fini del riparto di giurisdizione poiché, come si è visto, si è in presenza di un giudizio di opposizione ad atti esecutivi, ove ad assumere rilevanza, in un’ottica difensiva, è il solo eventuale possesso di un titolo che legittimi l’occupazione e quindi di un diritto soggettivo al godimento del bene, oggetto di cognizione del giudice ordinario.
Ciononostante, volendo ampliare la riflessione al di fuori della fattispecie concreta, non pare pienamente convincente la tesi sostenuta dalla Corte di cassazione, quanto all’assimilazione fra i due istituti sotto il profilo della giurisdizione.
In particolare, ad avviso di chi scrive, le controversie relative all’assegnazione degli alloggi mediante regolarizzazione andrebbero devolute al giudice amministrativo. Ciò sarebbe desumibile sia dall’oramai consolidato criterio di riparto di giurisdizione retto dalla distinzione fra fase pubblicistica e fase privatistica del rapporto, sia da una lettura sistematica, in funzione applicativa della disciplina dell’istituto, coerente anche con i principi a cui è informata la materia dell’e.r.p.
A ben vedere, l’assegnazione mediante regolarizzazione presuppone l’instaurazione di un nuovo rapporto con l’amministrazione e andrebbe inquadrata nella fase antecedente all’adozione del provvedimento di assegnazione. L’assenza, in tali casi, di un tradizionale procedimento amministrativo volto alla formazione di una graduatoria tra più aspiranti all’assegnazione, non dovrebbe escludere automaticamente in capo al privato una posizione di interesse legittimo pretensivo all’ottenimento dell’alloggio.
Dalla lettura della norma[xvi] che regola l’attribuzione del bene mediante regolarizzazione del rapporto, infatti, sembrerebbe potersi desumere una sorta di parallelismo fra assegnazione in sanatoria e assegnazione ordinaria, che trova giustificazione – ad avviso di chi scrive - nel fatto che la materia dell’e.r.p. è informata al principio concorsuale che prevede, in via assolutamente prioritaria, l’esperimento di una procedura comparativa. Orbene, eventuali deroghe a siffatta procedura sono ammesse ma in casi eccezionali, che impongono comunque all’amministrazione una valutazione e ponderazione degli interessi coinvolti.
Si tratta, infatti, di conferire un’utilità a soggetti, detentori illegittimi del bene, in pregiudizio ad altri che, invece, hanno partecipato alla formazione della graduatoria e che magari sono anche più svantaggiati degli occupanti sine titulo dell’alloggio.
Peralto, la maggiore coerenza sistematica di tale ricostruzione troverebbe conferma anche nell’orientamento giurisprudenziale[xvii], che rimette al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la legittimità di un’eventuale reiezione dell’istanza di assegnazione di un alloggio, a titolo di regolarizzazione, da parte degli occupanti. Secondo tale indirizzo, infatti, si tratta di questioni attinenti alla fase iniziale del procedimento riconducibile all’esercizio di poteri pubblici.
Diversamente, la discussione sorta in ordine alla legittimità di un diniego di un’istanza di subentro viene ricondotta alla giurisdizione del giudice ordinario. In tale ipotesi, infatti, la domanda dell’occupante non inciderebbe sul procedimento pubblicistico di assegnazione, perché il privato richiederebbe solo di subentrare in un rapporto già costituito, in base alla disciplina di settore, per cui non vi sarebbe alcuna discrezionalità valutativa della pubblica amministrazione[xviii].
Pertanto, a questo punto della riflessione, tornando al caso di specie, nasce spontaneo il dubbio se non sarebbe stato più opportuno, in una prospettiva di maggiore chiarezza, affermare la giurisdizione del giudice ordinario per il solo fatto che ad essere contestato era il diritto di agire esecutivamente dell’amministrazione, senza soffermarsi più di tanto sui motivi sottesi all’opposizione dei ricorrenti, di fatto privi di alcun titolo legittimante la loro occupazione.
Infatti, l’espressa natura di titolo esecutivo del provvedimento di rilascio di un immobile occupato sine titulo[xix], quale atto non discrezionale ma dovuto a tutela del patrimonio comunale, sarebbe stato, a parere di chi scrive, di per sé un elemento sufficiente ai fini del riparto di giurisdizione.
Invece, l’esserci pronunciati anche sulla questione delle condizioni soggettive vantate dai ricorrenti, rischia di ingenerare ulteriori incertezze su profili che avrebbero potuto trovare adeguate risposte nei tradizionali principi in materia di riparto di giurisdizione.
[i] Con l’espressione “edilizia residenziale pubblica” ci si riferisce a quell’attività, svolta con il contributo totale o parziale dello Stato o di enti pubblici, diretta all’acquisizione, alla costruzione o al recupero di fabbricati da adibire ad abitazione per coloro che non sono in condizione di reperire un alloggio ai prezzi di mercato, sul presupposto che l’abitazione è un bene essenziale per appagare le necessità primarie individuali e familiari di ogni persona e per avere complessivamente una vita dignitosa. In tal ultimo senso si è, infatti, espressa già da tempo la giurisprudenza costituzionale, secondo cui fra i «compiti cui uno Stato non può abdicare in nessun caso» vi è quello di «concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione», dimodoché «la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana» (Corte Cost. n. 217/1988).
Più nel dettaglio, va rilevato che esistono tipologie differenti di edilizia residenziale pubblica, bisogna infatti distinguere tra edilizia agevolata, convenzionata, sovvenzionata e, da ultimo, ancora diversa è la fattispecie dell’edilizia sociale, ove l’intervento pubblico si concretizza nella realizzazione di infrastrutture che consentono l’attuazione di programmi edilizi. Per un maggiore approfondimento sulla nascita e l’evoluzione del settore, v. M. NIGRO, L’edilizia popolare come servizio pubblico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1957, pag.118 s.s.; V. DOMENICHELLI, Dall'’edilizia popolare ed economica all’edilizia residenziale pubblica. Profili giuridici dell’intervento pubblico, Padova,1984; A. R. MINELLI, Politiche della casa. Ottiche adottate, aspetti inevasi e spunti prospettici, in Riv. delle politiche sociali, n. 3/2006; S. CIVITARESE MATTEUCCI, L’evoluzione della politica della casa in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., n.1/2010; P. URBANI, L’edilizia residenziale pubblica tra Stato e autonomie locali, in Istituzioni del federalismo, n. 3-4/2010, pag. 249 ss; G.M. ANTONELLI, L’edilizia residenziale pubblica. Schemi e soluzioni operative, Napoli, 2020; C. FRANCHINI, L’intervento pubblico di contrasto alla povertà, Napoli, 2021, pag. 125 ss.
[ii] La bibliografia in tema di giurisdizione del giudice amministrativo e, in particolare, di riparto di giurisdizione con il giudice ordinario è vastissima. Pertanto, ci si limita a rinviare a M.S. GIANNINI e A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. Dir., XIX, Milano, 1970; F.G. SCOCA, Riflessioni sui criteri di riparto delle giurisdizioni, in Dir. proc. amm., 1989; A. LAMORGESE, La giurisdizione contesa. Cittadini e pubblica amministrazione, Torino, 2004; Fra le ricostruzioni più recenti, cfr.: M.C. CAVALLARO, Determinazione amministrativa e riparto di giurisdizione, in P.A. Persona e amministrazione, n. 1/2018; M.A SANDULLI (a cura di), Il giudizio amministrativo. Principi e regole, 2024, pag. 47 ss.; A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2024.
[iii] In realtà, è la stessa materia dell’edilizia residenziale pubblica a non essere di agevole collocazione sotto il profilo della giurisdizione. Questa, infatti, può essere ricompresa quantomeno nella materia edilizia, dal punto di vista dell’attività necessaria alla realizzazione e al recupero delle abitazioni da assegnare, nonché nell’ambito della nozione di pubblico servizio, quanto alla finalità di interesse generale perseguita con l’assegnazione e gestione degli alloggi; attività da svolgersi in attuazione degli artt. 3, co. 2, e 42, co. 2, Cost.
[iv] A ben vedere, originariamente, il D.P.R. 30 dicembre 1972, n. 1035 - rubricato “Norme per l’assegnazione e la revoca nonché per la determinazione e la revisione dei canoni di locazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica” – quale dettato legislativo di riferimento in materia, prevedeva che all’assegnazione degli alloggi di e.r.p. dovesse procedere l’istituto autonomo delle case popolari. È, invece, dall’adozione del D.P.R., 24 luglio 1977, n. 616, e dalla successiva entrata in vigore della legge 5 agosto 1978, n. 457, che le funzioni amministrative concernenti l’assegnazione sono state attribuite ai comuni
[v] Quanto al procedimento di assegnazione e alla determinazione dei canoni, nel caso di specie, la disciplina di riferimento è dettata dal Capo II, Titolo II, della vigente l.r. Calabria 25 novembre 1996, n. 32
[vi] In argomento, a ben vedere, la Corte di cassazione non ha più mutato il proprio orientamento formatosi a seguito della nota sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 33 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a), della legge 21 luglio 2000, n. 205. Tale norma devolveva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo interi blocchi di materie, tra i quali i rapporti di concessione aventi ad oggetto servizi pubblici, nel cui ambito veniva ricompresa l’edilizia residenziale pubblica, quale forma di manifestazione di un servizio pubblico sociale.
Per un inquadramento, invece, delle tesi in contrapposizione fra loro, in dottrina e giurisprudenza, in fase antecedente alla citata pronuncia della Corte costituzionale, si rinvia a R. GAROFOLI, in I servizi pubblici, in Trattato di Giustizia Amministrativa, F. CARINGELLA- R. GAROFOLI (a cura di), Parte II, cap. 1, pag. 471 ss.; FALCONE- MELE (a cura di), in Urbanistica e appalti nella giurisprudenza, voce Edilizia residenziale pubblica, Torino, 2000, I, pag. 940 ss.; G. POLI, La giurisdizione in materia di alloggi pubblici non può che essere esclusiva e del G.A.: la natura concessoria del rapporto di assegnazione (di un bene pubblico) e l’indole pubblicistica del relativo atto di decadenza, in Dir. proc. amm., n. 3/2015, pag. 1065 ss; F. MIDIRI, Le ultime indicazioni della Corte di cassazione sui rapporti individuali di utenza prima della sentenza n. 204 come categorie ricostruttive per delineare il nuovo assetto della giurisdizione esclusiva in materia di servizio pubblico, in Foro amm. CDS, n. 11/2004, pag. 3110 ss.
[vii] Cass. civ., Sez. Un., 26 dicembre 2024, n. 34502. Nel medesimo senso, ex multis, cfr.: Cass., Sez. un., 8 marzo 2012, n. 3623; Cass., Sez. un., 20 aprile 2018, n. 9918; Cass., Sez. un., 26 febbraio 2020, n. 5252; Cass., Sez. un., 26 febbraio 2020, n. 5253. Tuttavia, per completezza, va evidenziato che, nonostante l’orientamento dei giudici della giurisdizione si sia consolidato sul generale criterio distintivo tra frase antecedente o successiva al provvedimento di assegnazione, vi è parte della giurisprudenza amministrativa che resta di diverso avviso. Secondo questo indirizzo, infatti, vanno tenute distinte le controversie sorte in seguito all’impugnazione dei provvedimenti di revoca e decadenza dall’assegnazione degli alloggi di e.r.p., atteso che tali ipotesi rientrerebbero nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, co.1, lett. b), che riguarda le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici. In tal senso, cfr.: Cons. St., sez. V, 17 maggio 2018, n. 2954; Cons. St., 16 aprile 2014, n. 1892; Cons. St. 21 agosto 2014, n. 4270; T.A.R. Abruzzo, sez. I, 14 luglio 2020, n. 223.
[viii] Lungi dal voler approfondire in questa sede la distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi, in argomento e, in particolare, in ordine ai profili di maggiore rilevanza per il riparto di giurisdizioni, ci si limita a rinviare a G. SCOCA, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, Giappichelli, 2017; A. ROMANO TASSONE, Situazioni giuridiche soggettive, in Enc. Dir., vol. II, Milano, 1998; M. NIGRO, Rileggendo Giovanni Miele, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 17/1988, pag. 279 ss.; E. CASETTA; Diritto soggettivo ed interesse legittimo: problemi della loro tutela giurisdizionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, 610 ss.; B. SORDI, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale. La formazione della nozione di interesse legittimo, Milano, Giuffrè, 1985, pag. 361 ss.; A.M. SANDULLI, Collegamenti e conseguenzialità tra diritti e interessi e relativa rilevanza ai fini delle competenze giurisdizionali, in Scritti giuridici, vol. V, Napoli, 1990, pag. 251 ss.
[ix] Nel medesimo senso, v. Cass., sez. un., 7 luglio 2011, n. 14956, ove i giudici affermano che, qualora ad essere contestato dai ricorrenti sia il mero diritto di agire esecutivamente dell’amministrazione, la controversia spetta al giudice ordinario anche nel caso in cui «sia dedotta l’illegittimità dei provvedimenti amministrativi (diffida a rilasciare l’alloggio e successivo ordine di sgombero), dei quali è eventualmente possibile la disapplicazione da parte del giudice (…)».
[x] Cass., sez. un., 15 gennaio 2021, n. 621
[xi] In particolare, la legge regionale Calabria, rubricata «Norme per la regolarizzazione delle occupazioni senza titolo degli alloggi di edilizia residenziale pubblica», più volte modificata e integrata, da ultimo con la l.r. 24 febbraio 2023, n. 8, nella sua norma di apertura, al comma 1, statuisce che «Per tutti gli alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica, così come definiti dall’articolo unico, 1° comma della legge 24 dicembre 1993, n. 560, che alla data del 30 giugno 2013 risultino occupati senza titolo nonché quelli oggetto di provvedimenti di sistemazione in forma provvisoria e/o precaria (con concessione documentata o desumibile da atti o provvedimenti assunti dall'Amministrazione Comunale), che siano scaduti senza dar luogo a procedure di rilascio, gli Enti gestori procedono con provvedimento emesso secondo i propri ordinamenti, alla regolarizzazione dei rapporti locativi, previo accertamento effettuato dagli Enti medesimi del possesso da parte degli occupanti dei requisiti previsti dalla vigente normativa per l’assegnazione degli alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica».
[xii] Si riporta parte del testo della norma per una sua più agevole consultazione: «1. In caso di decesso dell’aspirante assegnatario o dell’assegnatario, subentrano rispettivamente nella domanda e nell’assegnazione i componenti del nucleo familiare come definito al precedente articolo 7 e secondo l’ordine indicato nello stesso articolo. 2. In caso di separazione, di scioglimento del matrimonio, di cessazione degli effetti civili del medesimo, l’Ente gestore provvede all’eventuale voltura del contratto di locazione uniformandosi alla decisione del giudice. 3. Al momento della voltura del contratto, l’Ente gestore verifica che non sussistano per il subentrante e gli altri componenti del nucleo familiare condizioni ostative alla permanenza nell’alloggio. (…)»
[xiii] Al riguardo, la disciplina di riferimento è dettata dagli artt. 7 e 32 della l.r. 25 novembre 1996, n. 32. In particolare, il primo definisce che cosa si intende, ai fini di tale legge, per nucleo familiare, ricomprendendovi anzitutto: «(…) la famiglia costituita dai coniugi e dai figli legittimi, legittimati, naturali, riconosciuti, adottivi e dagli affiliati, purché tutti conviventi con il richiedente, ovvero costituita da una persona sola.»; e, in secondo luogo, «purché (…) convivano stabilmente con il richiedente da almeno due anni alla data di pubblicazione del bando di concorso e certifichino tale situazione nelle forme di legge, il convivente more uxorio, gli ascendenti, i discendenti, i collaterali fino al 3° grado.» Inoltre, la norma, al comma 3, stabilisce che «L’organo preposto alla formazione della graduatoria ovvero gli enti competenti per l’assegnazione o la gestione degli alloggi possono considerare componenti del nucleo familiare anche persone non legate da vincoli di parentela o affinità, qualora la convivenza istituita abbia carattere di stabilità, sia finalizzata alla reciproca assistenza morale e materiale, sia stata instaurata da almeno due anni alla data di pubblicazione del bando di concorso ovvero a quella di variazione anagrafica nel caso di ampliamento del nucleo familiare e sia dichiarata in forma pubblica con atto di notorietà e certificato anagrafico sia da parte del richiedente sia da parte dei conviventi.». L’art. 32, dopo aver richiamato l’art. 7, chiarisce che «L’ampliamento stabile del nucleo familiare costituisce per il nuovo componente autorizzato il diritto al subentro con relativa applicazione della normativa di gestione.» (co. 3).
[xiv] Art. 2 l.r. 30 marzo 1995, n. 8.
[xv] In tal senso, ex multis, cfr.: Cass., sez. un, ord. 16 maggio 2008 n. 12378; Cass., sez. un., ord. 25 giugno 2010, n. 15323. In dottrina, v. nota n. 2 del presente contributo, nonché – con particolare riguardo all’affermazione del criterio della causa petendi da individuarsi sul piano sostanziale – F. CARINGELLA, in Il riparto in base al criterio della causa petendi, in Trattato di Giustizia Amministrativa, F. CARINGELLA- R. GAROFOLI (a cura di), Parte I, Cap. 2, pag. 58 ss.
[xvi] Art. 1, co. 1, l. r. 30 marzo 1995, n. 8.
[xvii] Al riguardo, cfr. Cass., sez. un., ord. 22 aprile 2013, n. 9694; Cass., sez. un., 21 marzo 2013, n. 7045.
[xviii] Da ultimo, cfr.: Cass., sez. un., 15 gennaio 2021, n. 621; T.A.R. Sicilia, sez. II, 28 ottobre 2024, n. 2951, ove si afferma che per il «costante orientamento della Giurisprudenza Amministrativa (…) la competenza è del Giudice Ordinario, qualora si “contesti il potere dell’ente assegnante di pronunciare l’estinzione del già sorto diritto soggettivo dell’assegnatario al godimento dell’alloggio popolare, ovvero questioni afferenti alle vicende del rapporto (quali subentro, la risoluzione, la decadenza, il rilascio dell’alloggio); anche in considerazione del fatto che i relativi atti adottati, variamente definiti di revoca, decadenza o risoluzione, non costituiscono espressione di una ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato” (…)».
[xix] Sul punto, l’art. 52, co, 3, l.r. 25 novembre 1996, n. 32, è chiaro. Si riporta parte del testo della norma per facilità di consultazione: «1. L’Ente gestore competente per territorio dispone, con proprio atto, il rilascio degli alloggi occupati senza titolo. 2. A tal fine diffida preventivamente con lettera raccomandata l’occupante senza titolo a rilasciare l’alloggio entro quindici giorni e gli assegna lo stesso termine per la presentazione di deduzioni scritte e documentate. 3. L’atto dell’Ente gestore, che deve contenere il termine per il rilascio non eccedente i trenta giorni, costituisce titolo esecutivo nei confronti dei soggetti di cui al precedente comma e non è soggetto a graduazioni o proroghe. (…)»
Sommario: 1. L’Executive Order voluto da Trump contro la Relatrice speciale ONU Francesca Albanese – 2. Le funzioni dei Relatori speciali nominati dal Consiglio per i diritti umani all’interno del sistema ONU: prerogative e immunità - 3. La comunità internazionale tra sostegno, dichiarazioni di facciata e “rumorosi” silenzi.
1. L’Executive Order voluto da Trump contro la Relatrice speciale ONU Francesca Albanese
Una sicura violazione del diritto internazionale, una delle tante, ma di una particolare gravità perché colpisce le Nazioni Unite e le poche voci ancora rimaste in grado di mettere la comunità internazionale di fronte alle proprie responsabilità. L’Executive Order 14203[1] del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump con il quale sono state decise sanzioni unilaterali nei confronti della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese[2], non è solo una delle tante e sicuramente non è l'ultima azione in contrasto con le regole del diritto internazionale del Presidente Trump, ma un colpo all’essenza stessa dell’ordinamento perché mina il principio dell’immunità, in questo caso di esperti indipendenti dell’Onu, che sono centrali per il funzionamento delle Nazioni Unite (alla base del multilateralismo) e per l’accertamento delle violazioni dei diritti umani. E talvolta anche l’unico strumento per accendere i riflettori su catastrofi umanitarie in corso e sulle repressioni di diritti e di libertà fondamentali. A sostegno delle vittime, per impedire che la comunità internazionale le releghi in zone d’ombra, sommerse da parole ma mai accompagnate da fatti che facciano cessare situazioni, come quella della Striscia di Gaza che ha portato all’uccisione di migliaia di civili, inclusi bambini, uccisi anche dalla fame a causa del blocco degli aiuti umanitari imposto dal Governo israeliano.
È evidente che gli Stati Uniti e Israele perseguono lo stesso obiettivo: screditare ogni attività di accertamento dei fatti e fare calare il silenzio, anche impedendo, tra le altre misure, ai giornalisti di accedere a Gaza e colpendo il lavoro della Relatrice speciale. Una campagna iniziata da tempo e che ha visto il suo culmine a seguito dell’adozione dell’ultimo rapporto della Relatrice speciale presentato il 16 giugno 2025 e intitolato “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”[3], in cui vi sono nomi e cognomi delle aziende che ricevono vantaggi ad ampio raggio supportando le attività militari direttamente o indirettamente di Israele. Questo ha portato all’esplosione delle reazioni di Stati Uniti e Israele (che già a febbraio 2024 aveva dichiarato Albanese come persona non grata) che non hanno tollerato quanto scritto nel documento nel quale si denunciano, tra l’altro, “i meccanismi delle aziende che sostengono il progetto coloniale israeliano di trasferimento e sostituzione dei palestinesi”, indicando 60 aziende come possibili complici degli atti genocidari in Palestina.
Come detto non si tratta delle prime sanzioni contro persone che svolgono un ruolo indipendente sul piano internazionale. Con l’aggiunta di un ulteriore elemento di gravità rispetto alle altre misure imposte da Trump perché se già in passato erano state disposte sanzioni nei confronti di funzionari della Corte penale internazionale è la prima volta che gli Stati Uniti colpiscono direttamente funzionari dell’organizzazione che hanno contribuito, in modo determinante, a fondare.
Prima di passare ad analizzare le norme violate, appare opportuno inquadrare il ruolo e il fondamento giuridico delle attività dei Relatori speciali.
2. Le funzioni dei Relatori speciali nominati dal Consiglio per i diritti umani all’interno del sistema ONU: prerogative e immunità
I Relatori speciali nominati dal Consiglio per i diritti umani, all’interno dell’ONU, sono incaricati di monitorare specifiche situazioni relative alla tutela dei diritti dell’uomo e comprendono numerosi settori, con un mandato che non può superare i 6 anni[4]. La loro istituzione è stata decisa nel 1979 e ha avuto subito la caratteristica di individuare queste figure per lo svolgimento di funzioni di monitoraggio di specifiche situazioni in soggetti esperti non dipendenti dell’Onu, ma indipendenti, che operano a titolo personale, senza ricevere alcuna retribuzione[5]. La nomina è del Consiglio per i diritti umani al quale i Relatori speciali sottopongono studi e documenti frutto delle proprie attività svolte in modo indipendente. Sono poi tenuti a presentare una relazione annuale al Consiglio per i diritti umani e a illustrare i propri risultati all’Assemblea generale ONU. Attualmente sono in attività 60 Relatori speciali: 46 hanno mandati tematici e 14 si occupano delle situazioni in specifici Paesi come la Corea del Nord, la Bielorussia, l’Iran, la Russia e l’Afghanistan[6].
Naturalmente, è apparso subito necessario istituire un Relatore speciale per la Palestina e, infatti, il Consiglio ha deciso l’istituzione di questo ruolo nel 1993 con un mandato chiaro: seguire e preparare rapporti sulle violazioni dei diritti umani nei territori occupati e lavorare con governi, società civile e altri soggetti per rafforzare la cooperazione internazionale. Per attuare in modo concreto questo compito è prevista la possibilità per l’incaricato di svolgere visite nei territori, attività che è stata del tutto preclusa alla Relatrice speciale Francesca Albanese dal Governo israeliano. In primo piano, in quest’attività di monitoraggio, le indagini sulle violazioni del diritto internazionale umanitario e della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili in tempo di guerra del 12 agosto 1949, la raccolta di testimonianze e documenti al fine di indicare raccomandazioni al Consiglio per i diritti umani.
La Relatrice Francesca Albanese (l’ottava relatrice), nominata a marzo 2022 dal Consiglio per i diritti umani, ha preso servizio dal 1° maggio 2022.
Se le campagne contro la Relatrice sono state da tempo svolte ad ampio raggio, con vere e proprie iniziative d’odio e contenuti diffamatori, un salto di livello in negativo si è avuto con le misure contenute nell’Executive Order “Imposing Sanctions on the International Criminal Court”. Tali misure erano state preannunciate, il 9 luglio, dal Segretario di Stato statunitense Marco Rubio il quale, senza tema del ridicolo, ha dichiarato che le sanzioni erano necessarie per tutelare la sovranità di Israele e Stati Uniti perché la collaborazione con la Corte penale internazionale nelle indagini nei confronti di cittadini degli Stati Uniti e di Israele “senza il consenso di questi due Paesi”, che non sono parti allo Statuto di Roma, sarebbe una sostanziale minaccia all’integrità dei due Stati. E, in questa direzione, Rubio ha scritto che “The United States has repeatedly condemned and objected to the biased and malicious activities of Albanese that have long made her unfit for service as a Special Rapporteur”, accusandola di spargere antisemitismo e finanche di supportare il terrorismo. Poi Rubio ha colpito l’ultimo rapporto presentato da Francesca Albanese accusata di aver “puntato il dito” verso alcune società americane e di aver raccomandato alla Corte penale internazionale indagini nei confronti degli amministratori di queste aziende, definendo queste accuse come atti che fanno parte di una campagna di guerra politica ed economica che minaccia gli interessi nazionali e la sovranità degli Stati Uniti.
Le sanzioni contro Albanese seguono quelle indirizzate ai giudici della Corte penale internazionale Reine Adelaide Sophie Alapini Gansou, Solomy Balungi Bossa, Luz del Carmen Ibáñez Carranza e Beti Hohler, in aggiunta a quelle che avevano già colpito il Procuratore Karim A.A. Khan, con l’applicazione del divieto di ingresso sul territorio Usa – che vuol dire anche impedire ai destinatari di recarsi nella sede principale dell’Onu a New York nonché il congelamento di conti e beni che si trovano sul territorio statunitense.
Al di là dell’evidente messaggio di odio politico che tra l’altro rischia di additare la Relatrice speciale come bersaglio dei milioni di sostenitori di Trump e Netanyahu, l’Executive Order è adottato in aperta violazione degli obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite, in particolare con riguardo al rispetto dell’immunità.
Il quadro normativo non dà adito ad alcun dubbio. Accanto ad alcune norme della Carta che garantiscono all’ONU l’esercizio delle proprie funzioni per il conseguimento dei fini fissati nello Statuto (articolo 104) e che assicurano all’Organizzazione, nel territorio degli Stati membri, i privilegi e le immunità “necessari per il conseguimento dei suoi fini” (con la previsione dell’immunità ai funzionari ONU, articolo 105), la Convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite del 13 febbraio 1946[7], pur non contenendo, come è ovvio, una specifica disciplina per i Relatori speciali, all’articolo VI, sezione 22 dedicata agli esperti in missione per l’organizzazione, dispone che “gli esperti (diversi dai funzionari elencati nell’articolo V) in missione per l’Organizzazione godono dei privilegi e delle immunità necessari per esercitare in piena indipendenza le loro funzioni durante tutta la durata della missione, incluso il tempo del viaggio. Essi godono in particolare dei privilegi e delle immunità seguenti: a) immunità da arresto o da detenzione e sequestro dei loro bagagli personali; b) immunità da qualsiasi giurisdizione per quanto concerne gli atti da essi compiuti durante le loro missioni (parole e scritti compresi)”; c) inviolabilità di qualsiasi pratica e documento; d) diritto di fare uso di codici e di ricevere documenti o corrispondenza per corriere o valigie sigillate per le loro comunicazioni con l’Organizzazione; e) stesse agevolazioni concesse ai rappresentanti dei Governi stranieri in missione ufficiale temporanea, in materia monetaria o di cambio; f) stesse immunità e agevolazioni concesse agli agenti diplomatici per i loro bagagli personali”. La norma è chiara e vincolante per gli Stati Uniti, che hanno aderito alla Convenzione il 29 aprile 1970, ed è funzionale a proteggere i Relatori speciali da attacchi di Governi e altri che, proprio con la previsione di sanzioni o azioni giurisdizionali, possono mettere a rischio le funzioni loro attribuite.
Come detto, l’immunità copre gli atti compiuti nell’esercizio delle proprie funzioni: è proprio il caso di Francesca Albanese che ha svolto il compito attribuito dalle Nazioni Unite.
Inoltre, la norma stabilisce che l’immunità “continua a essere loro concessa anche dopo la conclusione delle loro missioni per l’Organizzazione” e solo il Segretario generale può revocare “l’immunità concessa a un esperto in tutti i casi in cui ritenga che essa ostacoli l’azione della giustizia e qualora possa essere revocata senza pregiudicare gli interessi dell’Organizzazione”.
A ulteriore conferma di quanto affermato nella Convenzione, è intervenuta, in passato, la Corte internazionale di giustizia nel parere del 29 aprile 1999 nel caso “Divergenza in tema di immunità processuale di un Relatore speciale della Commissione dei diritti umani”[8]. La richiesta di parere era arrivata dal Consiglio economico e sociale e riguardava proprio l’applicazione dell’articolo VI, sezione 22 al Relatore speciale Param Cumaraswamy, nominato dall’allora Commissione sui diritti umani per monitorare la situazione dell’indipendenza di giudici e avvocati. Il Relatore speciale era stato oggetto di azioni giudiziarie vessatorie e abusive in Malesia per alcune interviste rilasciate a giornali di quel Paese proprio sulla mancata indipendenza del sistema giudiziario ed era stato destinatario di richieste di risarcimento pari a 112 milioni di dollari. Dal canto suo, il Segretario generale aveva chiarito che il Relatore speciale parlava nelle sue funzioni ufficiali ed era così tutelato dall’immunità. Nel parere, la Corte ha riconosciuto l’immunità del Relatore speciale in base all’articolo VI della Convenzione, precisando che spettava unicamente al Segretario generale privarlo dell’immunità diplomatica. Ancora prima, nel parere del 15 dicembre 1989, nel caso dell’ “Applicabilità della sezione 22 dell’articolo VI della Convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite” (nota anche come Mazilu case, dal nome del cittadino rumeno membro della Sottocommissione per la lotta contro le discriminazioni e la tutela delle minoranze al quale il Governo di Bucarest impediva di lasciare il Paese e di ricevere documenti delle Nazioni Unite[9]), la Corte ha precisato che l’indicata sezione 22 comprende anche l’invio di esperti così come coloro ai quali è stato affidato l’incarico di preparare rapporti, svolgere inchieste e attività di analogo tenore per consentire lo svolgimento delle funzioni affidate a esperti che non hanno lo status di funzionari dell’Organizzazione. Sul punto, in un’ottica di ampliamento dell’attribuzione di tali immunità a esperti nominati dall’Organizzazione, la Corte ha precisato che “The essence of the matter lies not in their administrative position but in the nature of their mission (par. 47)[10].
3. La comunità internazionale tra sostegno, dichiarazioni di facciata e “rumorosi” silenzi
Dal quadro descritto è evidente che l’Executive Order è stato adottato in violazione degli obblighi internazionali assunti dagli Stati Uniti che, come detto, hanno ratificato la Convenzione del 1946. Né gli Stati Uniti possono sostenere di poter agire svincolati da regole internazionali sul proprio territorio perché sono ancora parte del sistema ONU.
Le sanzioni imposte nei confronti della Relatrice speciale, che ha agito nel pieno rispetto del mandato assegnatole dal Consiglio per i diritti umani e del codice di condotta adottato il 6 dicembre 2007 con risoluzione 5/2 del Consiglio per i diritti umani, hanno un mero fine politico, con gli Stati Uniti che usano tali misure al solo fine di impedire lo svolgimento di attività che oggi sono più che mai essenziali in ragione dei crimini in corso da lungo tempo, ben sapendo, per di più, che ogni azione giudiziaria volta ad impugnare l’Executive Order risulterà inutile.
Ma c’è di più perché è innegabile che le sanzioni unilaterali di così ampia portata non colpiscono il singolo relatore ma hanno un sicuro chilling effect sull’intero operato di altri esperti che, oggi più che in passato, svolgono un ruolo fondamentale nel monitorare le violazioni e nel mostrare la situazione all’intera comunità internazionale, in modo che nessuno, tra Stati, imprese e privati, possa dire di non sapere.
Le Nazioni Unite hanno reagito: il Presidente del Consiglio per i diritti umani, Jürg Lauber, ha protestato immediatamente, presentando, il 10 luglio, una dichiarazione con la quale ha ricordato gli obblighi di tutti gli Stati membri dell’ONU di cooperare con i relatori speciali e di astenersi da ogni atto di intimidazione o rappresaglia[11]. Così, il supporto è arrivato dal Segretario generale António Guterres il quale ha dichiarato che “The use of unilateral sanctions against Special Rapporteurs, or any other UN expert or official is unacceptable”[12] e dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, che è intervenuto chiedendo l’immediata cessazione delle misure che costituiscono un attacco alle Nazioni Unite[13].
Anche altre organizzazioni hanno espresso supporto alla Relatrice speciale Francesca Albanese, ben consapevoli dell’importanza di sostenere il lavoro di chi è impegnato a far luce sulle gravissime violazioni dei diritti umani in Palestina a nome dell’intera comunità internazionale, a rischio anche della propria incolumità. Così, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, l’11 luglio[14], ha espresso una forte condanna nei confronti dell’amministrazione americana e forti preoccupazioni per misure che minano l’indipendenza e l’integrità del sistema ONU. In particolare, oltre a sostenere il lavoro della Relatrice speciale, è stato sottolineato che i tentativi di intimidire o punire i funzionari dell’ONU che svolgono il proprio dovere tra numerose difficoltà è un attacco ai principi del multilateralismo e all’ordine giuridico internazionale al quale gli Stati sono vincolati.
Colpisce il sostanziale silenzio dell’Unione europea perché non bastano le dichiarazioni di facciata e questo in particolare quando vengono colpiti cittadini europei. È nota solo una dichiarazione del portavoce del Consiglio Anouar El Anouni, il quale ha affermato: “We deeply regret the decision to impose sanctions on Francesca Albanese", e che l’Unione europea "strongly supports the United Nations human rights system”[15]. Totale silenzio dall’Alta rappresentante per gli affari esteri e per la politica di sicurezza Kalia Kallas, dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dal Parlamento europeo.
E arriviamo al grande assente, il Paese del quale Francesca Albanese ha la cittadinanza. Il ministro degli esteri Tajani, con una dichiarazione singolare resa nel corso di un’intervista, ha affermato che non è necessario occuparsi di ciò che riguarda cittadini italiani, colpiti in modo unilaterale da uno Stato straniero, nell’esercizio delle funzioni in qualità di soggetti che hanno un incarico dell’ONU e non in quanto cittadini italiani[16]. Inutile, quindi, sperare, anche in futuro, in un’azione in protezione diplomatica.
Eppure, qualora fosse necessario, bisogna ricordare che il relatore speciale non perde naturalmente la sua nazionalità e, quindi, a fronte di misure illegittime nei confronti di un proprio cittadino lo Stato dovrebbe intervenire a suo supporto non fosse altro per impedire che analoghe situazioni si riproducano in futuro. Basterebbe prendere l’esempio da altri Stati e da quanto affermato dalla Corte internazionale di giustizia: proprio all’inizio dell’attività dell’Onu nel caso Bernadotte, inviato dell’Onu come mediatore tra arabi e israeliani e ucciso a Gerusalemme il 17 settembre 1948, la Corte internazionale di giustizia, nel parere dell’11 aprile 1949 relativo “alla riparazione per danni subiti al servizio delle Nazioni Unite”, ha chiarito che le azioni di risarcimento avviate dall’ONU concorrevano con quelle dello Stato di cittadinanza, in quel caso la Svezia che, infatti, era intervenuta a supporto dei familiari del proprio cittadino[17]. C’è poco da aggiungere se non che se gli esperti, funzionari o giudici hanno la nazionalità italiana e sono colpiti da sanzioni illegittime, Trump può dormire sonni tranquilli.
[1] Il testo è reperibile nel sito https://www.govinfo.gov/content/pkg/DCPD-202500234/pdf/DCPD-202500234.pdf.
[2] Si veda il sito https://www.ohchr.org/en/special-procedures/sr-palestine.
[3] Il documento “From economy of occupation to economy of genocide” (A/HRC/59/239) è reperibile nel sito https://www.un.org/unispal/document/a-hrc-59-23-from-economy-of-occupation-to-economy-of-genocide-report-special-rapporteur-francesca-albanese-palestine-2025/.
[4] Qui la pagina dedicata https://www.ohchr.org/en/special-procedures-human-rights-council.
[5] Per un approfondimento generale sui rappresentanti speciali, nominati anche da altri organi dell’Onu, si veda M. Fröhlich, The Special Representatives of the United Nations Secretary-General, in Routledge Handbook of International Organization, London and New York, 2 ed., 2025, p. 303 ss.; H. Keller, Special Representative, in Max Planck Encyclopedias of International Law, 2021, nel sito http://opil.ouplaw.com.
[6] Si veda il sito internet https://spinternet.ohchr.org/ViewAllCountryMandates.aspx.
[7] Il testo con le ratifiche e adesioni è nel sito https://treaties.un.org/pages/ViewDetails.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=III-1&chapter=3&clang=_en#EndDec.
[8] Il parere consultivo è nel sito https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/100/100-19990429-ADV-01-00-EN.pdf.
[9] Si veda, per tutti, B. Conforti, C. Focarelli, Le Nazioni Unite, 10 ed., Padova, 2015 p. 147 s.
[10] https://www.icj-cij.org/sites/default/files/case-related/81/081-19891215-ADV-01-00-EN.pdf.
[11] Qui il testohttps://www.un.org/unispal/document/statement-by-hrc-10jul25/.
[12] Nel sito https://press.un.org/en/2025/db250710.doc.htm.
[13] Nel sitohttps://www.un.org/unispal/document/comment-by-ohchr-10jul25/.
[14] Cfr. https://pace.coe.int/en/news/9971/pace-rapporteur-concerned-by-us-sanctions-against-un-rapporteur?fbclid=IwY2xjawL2d4tleHRuA2FlbQIxMABicmlkETE3Q3pvaXlXVlg4MnZsc3JWAR6iz65WqD1JFquXyRA48IRaz7s5wzrC5pQ42PUTgBsMjrabMNORI_U9W4W81w_aem_YnuwDDPDdlYQeAbVkX06Rw.
[15] Si veda quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters https://www.reuters.com/world/middle-east/eu-deeply-regrets-us-sanctions-un-expert-palestinians-says-eu-spokesperson-2025-07-11/.
[17] Il testo nel sito https://www.icj-cij.org/case/4/advisory-opinions.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il caso di specie – 3. La questione della illegittimità delle universal injuctions – 4. Conclusioni.
1. Premessa
In questi mesi, l’esame del laboratorio politico – costituzionale statunitense sta facendo emergere un tema ormai troppo evidente per non essere colto, nonostante le difficoltà di governare il deliberato disordine provocato per occultarlo[1]: il rapporto tra istituzioni democratiche e principio di maggioranza e, in particolare, tra organi direttamente espressi da quest’ultima e istituzioni di controllo che, per struttura e/o per funzione, sono deputate a garantire la tenuta del sistema di una comunità plurale, attraverso la tutela dei diritti dell’individuo e della sua dignità, indipendentemente dal variare delle maggioranze[2].
Si tratta di una questione ormai non più recentissima[3], che ha trovato, in una dimensione all’apparenza meramente processuale, ma dal rilievo squisitamente costituzionale, ulteriore emersione nella decisione della Corte suprema degli Stati Uniti del 27 giugno 2025, Trump e altri c. Casa, Inc. e altri[4].
2. Il caso di specie
La specifica problematica processuale era rappresentata dalla possibilità per le corti federali inferiori di emanare ordini validi nei confronti della generalità dei consociati su tutto il territorio nazionale (universal injunctions): si tratta, quindi, di provvedimenti che producono effetti anche in favore di quanti non abbiamo esercitato il diritto di azione giurisdizionale e che sono idonei a paralizzare l’efficacia di decisioni dell’esecutivo ritenute prima facie illegittime.
Sostanzialmente recependo le critiche a siffatta tipologia di rimedi processuali, la Corte suprema ha ritenuto di dare una risposta negativa al quesito, posto che la contraria conclusione finirebbe per squilibrare i rapporti tra esecutivo e giudiziario e per incentivare pratiche di forum shopping.
Nel caso di specie, l’ordine presidenziale paralizzato da alcune Corti federali minori (Maryland, Massachussets e Washington) – ciò che provocato il ricorso alla Corte suprema - dispone che la cittadinanza statunitense non si estenda alle persone nate – a partire dal trentunesimo giorno successivo all’emanazione dell’ordine - da una madre illegalmente presente negli Stati Uniti, o legalmente presente su base temporanea, e da un padre che non è né cittadino né residente permanente legale, con le conseguenti ricadute in tema di rilascio dei documenti relativi agli interessati.
3. La questione della illegittimità delle universal injuctions
La Corte suprema si è concentrata sulla generale questione dell’esistenza del potere delle corti federali inferiori, nel sistema di equity, di emettere universal injunctions, senza affrontare il tema – non casualmente posto con forza nell’incipit della dissenting opinion della giudice Sotomayor – della patente illegittimità costituzionale dell’ordine presidenziale per contrasto con il Quattordicesimo emendamento in tema di cittadinanza che ruota attorno ai principi dello jus soli e della sottoposizione alla giurisdizione statunitense come criterio attributivo della cittadinanza.
Non è questa la sede per affrontare le complesse questioni politiche e, in ampia prospettiva, filosofiche, legate ai significati delle scelte dei criteri attributivi della cittadinanza[5].
Il tema cruciale, colto nella dissenting opinion appena menzionata, all’esito di una articolata disamina storica dei termini concettuali di riconoscimento del diritto di cittadinanza (par. I, lett. A) e del suo significato (successiva lett. B), è costituito dai criteri di esercizio della discrezionalità sottesa all’esercizio del potere di equity della Corte suprema di inibizione delle decisioni urgenti delle corti federali: criteri di bilanciamento che ruotano attorno alla esatta identificazione del diritto esposto a pregiudizio dall’ordine presidenziale (soprattutto quando il fondamento della posizione soggettiva si radichi nella Costituzione) e all’irreparabilità del pregiudizio al quale l’Esecutivo sarebbe esposto in assenza di inibizione.
Proprio muovendosi nella prospettiva processuale sollecitata dal rimedio degli “emergency (o shadow) docket”, con i quali la Corte suprema interviene interlocutoriamente in via d’urgenza su casi che restano aperti nel merito presso le corti inferiori[6], la dissenting opinion si concentra sui presupposti del potere inibitorio degli effetti delle decisioni urgenti adottate dalle corti distrettuali federali e osserva, con estrema lucidità, che ben difficilmente può essere individuato un irreparabile pregiudizio per l’Esecutivo nell’impossibilità di dare esecuzione, nei confronti di quanti non abbiamo agito in giudizio, a un ordine presidenziale manifestamente contrario alla Costituzione (par. III, lett. A della dissenting opinion) e dissonante rispetto ad una prassi operativa ormai ferma da secoli[7].
E appare arduo superare l’obiezione logica che valorizza l’impossibilità di cogliere l’irreparabile pregiudizio per il Governo, ad es., in un ordine proveniente da qualunque corte federale inferiore che paralizzasse una decisione esecutiva avente ad oggetto il blocco nei confronti delle sole donne dei sussidi per la disoccupazione o nei confronti dei cittadini neri (“black citizens”) del diritto di voto.
Pur concettualmente distinguibili, il fondamento giuridico della decisione (e, in ultima analisi, della posizione soggettiva tutelata) e il pericolo di danno irreparabile, sottesi logicamente all’esercizio di ogni potere cautelare, non sono aree valoriali incomunicanti, in quanto la consistenza delle posizioni giuridiche incide sulla valutazione della entità dell’esposizione a pericolo.
E la garanzia dei diritti fondamentali – qui sorretti da un non equivoco richiamo alla Costituzione, oltre che alle leggi e alla prassi amministrativa – rappresenta un macigno valoriale rispetto a pretese aree di immunità dei pubblici agenti, fossero pure investiti dell’autorità presidenziale[8].
4. Conclusioni
Si tratta di un tema che esattamente la giudice Sotomayor lamenta essere stato eluso da un confronto in termini astratti (ossia, va detto con nettezza, in modo non casualmente incompleto) congelato sul piano meramente formale dei criteri di esercizio del potere senza considerare la concreta realtà del caso che i giudici della Corte suprema erano chiamati a giudicare.
E qui prendono le mosse due direttrici di sviluppo della riflessione che il senso dello scritto impone di accennare soltanto.
La prima, sul quale indugia la dissenting opinion in esame nella lett. C del par. III, è quello della effettività della tutela assicurata dall’ordinamento in genere e da quello costituzionale in particolare[9].
La seconda (v. in particolare, il par. IV della dissenting opinion) è che la tutela dei diritti – ossia una tutela effettiva e, in una prospettiva di tenuta del sistema costituzionale, non limitata a chi abbia i mezzi per una reazione giurisdizionale - è coessenziale ad un sistema democratico, anche quando, ovviamente muovendosi nel quadro del sistema delle fonti che vincolano l’operato del giudice, entra in rotta di collisione con le scelte dei decisori politici espressione della maggioranza[10].
Su quest’ultimo punto, si sta registrando, negli ultimi tempi, un innalzamento del livello del confronto, ma non un suo approfondimento, nel senso che la reiterazione della critica avente ad oggetto l’interferenza del potere giudiziario nelle scelte politiche non si accompagna ad una riflessione sul fondamento del potere democratico, sul ruolo dei diritti fondamentali negli ordinamenti che sono costruiti attorno alla persona e non attorno alle mutevoli maggioranze e, in definitiva, sulla necessità di recuperare una prospettiva dialogico-argomentativa e non genericamente conflittuale in una dimensione comunitaria dell’ordinamento.
In questa cornice, la necessità di una continua vigilanza rispetto al ruolo della legge nei nostri sistemi, con la quale si chiude la dissenting opinion della giudice Sotomayor[11], e sulla necessaria delimitazione di senso e di confini della funzione politica[12], nel quadro della Costituzione, appare un caveat sul quale continuare a meditare operosamente.
[1] Nell’editoriale di Internazionale del 11 luglio 2025, G. De Mauro ricorda, attraverso il resoconto di E. Klein, quanto dichiarato da S. Bannon nel 2019: «I mezzi d’informazione sono l’opposizione. E siccome sono stupidi e pigri, riescono a concentrarsi solo su una cosa alla volta. Tutto quello che dobbiamo fare è inondarli. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Loro abboccano a una e noi abbiamo fatto il nostro lavoro. Bang, bang, bang. Resteranno tramortiti. Ma dobbiamo essere veloci come un proiettile, dobbiamo martellare». Esiste, peraltro, una complessità della trama dei rapporti che rende difficile mantenere ferma la visione di insieme e la capacità di affrontare le sfide di conoscenza e di analisi.
[2] Ciò che poi si traduce, secondo una risalente puntualizzazione, nella protezione costituzionale della libertà dell’individuo rispetto al potere pubblico e nella strutturata divisione dei poteri (v., ad es., C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Milano, 1984, 173; per alcune recenti riflessioni, v. O. Chessa, La Costituzione e il diritto costituzionale, in M. Benvenuti – R. Bifulco, Trattato di diritto costituzionale, I, Torino, 2022, 37).
[3] In ambito statunitense, per la sua significatività va ricordata la decisione della Corte suprema degli Stati Uniti del 1° luglio 2024, Trump c. Stati Uniti (https://www.supremecourt.gov/opinions/23pdf/23-939_e2pg.pdf), a proposito della quale v. E. Grande, Un diabolico circolo vizioso, in
[4] In https://www.supremecourt.gov/opinions/24pdf/24a884_8n59.pdf, a proposito della quale v. E. Grande, I “guardiani del potere”: nel senso che lo limitano o che ne tutelano l’espansione?, in
[5] Per alcune recenti riflessioni, v. L. Ypi, Confini di classe, Milano, 2025.
[6] V. E. Grande, I guardiani del potere cit.
[7] Con amara ironia (che suona sottintesa accusa di ipocrisia), all’inizio della lett. B del par. III della dissenting opinion in esame, la giudice Sotomayor sottolinea la singolarità degli esiti della pronuncia della Corte suprema adottata da una maggioranza che si è sempre dichiarata fedele rispetto alla storia e alla tradizione.
[8] Al termine della lett. A del par. III della dissenting opinion, si legge appunto, pur rammentando in senso contrario, la decisione della Corte suprema del 1° luglio 2024, Trump c. Stati Uniti di cui alla nota 3 di questo scritto, che “Tutti i funzionari del governo, dal più alto al più basso, sono creature della legge e sono tenuti a rispettarla”.
[9] Con riferimento a quest’ultima prospettiva, in sede dottrinaria, ex multis, v. D. Bifulco, L’ordinamento giuridico, lo Stato e i suoi elementi costitutivi, in M. Benvenuti – R. Bifulco, Trattato di diritto costituzionale, I, Torino, 2022 cit., 177; di recente – ma si tratta di un cenno assolutamente inidoneo a rappresentare la pervasività del principio nel nostro ordinamento – v., Corte cost. 18 luglio 2025, n. 111, par. 5.6 del Considerato in diritto.
[10] Si tratta di un tema complesso che verrà approfondito altrove e che investe la sostanza dei poteri di interpretazione e applicazione del diritto, oggi oggetto di una riflessione poco nitida nei suoi presupposti concettuali, ma chiarissima nei suoi fini proprio sul tema delicato della tutela dei diritti fondamentali. Solo per cenni, si rileva, ad es., con riguardo alla missiva del 22 maggio 2025, firmata dalla Presidente del consiglio dei ministri italiano e da rappresentanti di altri Stati europei (https://governo.it/sites/governo.it/files/Lettera_aperta_22052025.pdf), che, per un verso, sottolinea – e con ragione – i cambiamenti epocali che il fenomeno migratorio ha registrato negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e, per altro verso, denuncia, in termini generali, l’evoluzione che nella giurisprudenza della Corte europea sono intervenuti, quanto alla interpretazione della Convenzione e della sua portata, al punto da spingersi, secondo gli autori, troppo in là rispetto alle originali intenzioni dei compilatori, in tal modo spostando il punto di equilibrio del giudizio di bilanciamento degli interessi sottesi alle controversie. Per altre riflessioni, sia consentito rinviare a G. De Marzo, Recensione a Il nuovo diritto penale tributario, in www.questionegiustizia.it, 17 maggio 2025.
[11] Nell’epilogo, la giudice richiama la necessità di una lotta per la sopravvivenza del principio della rule of law, che evoca l’antico monito verso una democrazia militante di K. Loewenstein, Democrazia militante e diritti fondamentali, Macerata, 2024. E, in questo contesto, si colloca la finale dichiarazione esplicita di dissenso della giudice Sotomayor.
[12] Per alcune recenti riflessioni su atto politico e funzione giurisdizionale, v., di recente, in coerenza con la propria giurisprudenza, Cass., sez. un. civ., 21 luglio 2025, n. 23081; 6 marzo 2025, n. 5992; in dottrina, si rinvia a G. Montedoro, L’atto politico, in www.giustiziainsieme, 11 ottobre 2023; L. Diotallevi, Atto politico e sindacato giurisdizionale, Napoli, 2024; V. Giomi, L'atto politico e il suo giudice: tra qualificazioni sostanziali e prospettive di tutela, 2022. Sui nodi che la nozione di atto politico impone di affrontare, v. R. Conti, Atto politico vs giustizia "politica". Quale bilanciamento con i diritti fondamentali? in www.giustiziainsieme, 2 novembre 2023, che, nel ricostruire l’evoluzione giurisprudenziale, puntuale sottolinea la necessità avvertita dalle corti di circoscrivere la nozione di atto politico «in ragione della nuova sensibilità verso la tutela dei diritti della persona che nasce non solo dal contesto e dall’evoluzione sociale, ma a monte da una sempre più consapevole considerazione del ruolo della Costituzione e delle Carte dei diritti, nell’interpretazione che i diritti viventi ne danno».
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