ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Parecchio tempo fa Paolo Murialdi ha scritto un bel libro per l’editore Laterza che si intitolava: “Come si legge un giornale”, in cui oltre a fornire una dettagliata spiegazione di cosa sia un quotidiano dalla prima all’ultima pagina, egli indicava pure una serie di regole da seguire per una corretta e ragionevole lettura di esso. Lo scopo era quello di diffondere la lettura del quotidiano nelle scuole sulla scia e in continuità con l’impegno di altri intellettuali orientati in tal senso. Per tutti Roberto Berardi, (“Insegnare a leggere il giornale” nel volume Didattica della Storia, Giappichelli, Torino) il quale riconosceva nel giornale un potente strumento di conoscenze dell’oggi, ma anche un documento insostituibile per lo storico di domani che in esso cercherà le testimonianze dei fatti e dei costumi che si appresta a ricostruire. I testi di cui sopra sono comparsi negli anni ’70 del secolo scorso, eppure mantengono una significativa attualità specie se si tiene conto della crisi dei giornali in carta stampata e della proliferazione di giornali online non sempre di buona qualità. Quelli che si appassionano alla lettura in genere sono spinti dalla curiosità, dalla coscienza critica, dal bisogno di confrontare opinioni, commenti, chiavi di lettura, posizioni ideali, filosofie di pensiero. Un giornale si legge e si consuma in un giorno, in poche ore. Può essere questo un argomento per convincere le persone a distogliere un po' lo sguardo dal cellulare? A quanto risulta dalle statistiche i lettori di giornali diminuiscono e molte edicole chiudono anche nei luoghi storici delle grandi città dove si era abituati a comprarli e, nel passato, a leggere titoloni in bella vista sulle loro pareti esterne. Se si passa dai giornali ai libri sicuramente il discorso è più complesso. C’è chi fin da giovane ha capito che la lettura, nelle sue varie forme, oltre che un impegno è un piacere, un divertimento, un’avventura. Sei tu che scegli, non c’è qualcuno sopra di te che ti assegna un compito. In libreria, tra le varie sezioni, ti muovi come fossi in viaggio: devi prendere una direzione, qualche volta guidato dall’umore del momento, più spesso da una serie di esperienze, di stati d’animo, di bisogni, comunque e sempre dalla curiosità. Ma chi può leggere e che cosa? A mio avviso tutti possono leggere di tutto, tranne le idiozie. Nella prefazione ad un testo di Kant, l’autore si chiedeva: "può leggere Kant chi è ancora inesperto di problemi di filosofia? Crediamo di sì. Può smettere di leggere Kant chi è ormai molto esperto di filosofia? Crediamo di no”. Già Schopenhauer diceva che la lettura di Kant è come l’operazione della cataratta: dà la vista a chi non ci vede. D’altra parte, questa convinzione suffragata da così illustri pareri è avvalorata anche dal fatto che non c’è lettura più ardua di quella dei libri sacri e non per questo ogni volta che una persona apre la Bibbia deve avere accanto a sé un maestro che ne fa una dotta esegesi. Certo, ben venga l’esegesi, ma è anche avvincente misurarsi col testo, ricavarne suggestioni, provare a intenderne il contenuto senza mediazione. Non nego, con questo, la difficoltà oggettiva di districarsi, oggi, in una produzione vastissima dove spesso nei vari generi predomina la moda, il conformismo, la falsa novità, la babele delle lingue. Non sempre è chiaro il rapporto funzione-produzione-circolazione perciò bisogna mantenersi vigili, non seguire l’onda, quell’effetto alone che di solito nasconde la fregatura. Molti titoli mi hanno disturbata, incuriosita o intrigata negli ultimi anni specialmente nella saggistica e nella letteratura. Di tutti vorrei raccontare una briciola, ovvero l’impatto che ebbe e continua ad avere su di me un piccolo grande libro di Gustavo Zagrebelsky, noto professore di diritto costituzionale e presidente della Corte Costituzionale nel 2004. Si tratta di: Il “Crucifige!” e la democrazia, Einaudi Contemporanea. Il contenuto è di una attualità sconcertante, direi che esso è frutto di una visione profetica della società in cui adesso viviamo. Attraverso l’analisi del processo a Gesù, l’autore esemplifica le varie, possibili forme della democrazia. È affascinante la descrizione di quel mondo in cui si muoveva Gesù Cristo, quel mondo dove i poteri erano chiari e gli strumenti dell’affermazione erano deboli. Il Sinedrio e Caifa sono espressioni di una democrazia “dogmatica” tutta risolta nella legge, nell’inoppugnabilità dei principi che vengono opportunisticamente riproposti come litanie: “Il dogmatico può accettare la democrazia solo se e fino a quando serve come forza, una forza indirizzata ad imporre la verità. Lo scettico a sua volta poiché non crede in nulla, può tanto accettarla che ripudiarla”. Pilato è il campione della “democrazia scettica”; a lui che, come narra Matteo, si rimette alla folla per la scelta tra Gesù e Barabba, importa solo il potere, il suo e quello di Roma. “Blandire la folla, allora, può essere in certe circostanze, non un cedimento ma un accorgimento prudente di quanti hanno a cuore prima di tutto la salvezza del governo…La vicenda di Gesù dimostra come possa esserci un’alleanza, apparentemente impossibile tra l’assolutismo del dogma e il nichilismo della scepsi, e come questa alleanza possa assumere esteriormente un aspetto democratico”. C’è dunque la folla, il popolo che urla “crucifige”: è la massa manovrata, è la parte per il tutto; essa ha un valore rappresentativo. L’autore si riferisce senza mezzi termini a ciò che avviene anche oggi (mentre scrivo queste modeste riflessioni), in modi solo apparentemente diversi, quando si ricorre alla piazza, quando si fanno i sondaggi come campioni rappresentativi, quando la parte sta per il tutto. Dalla democrazia dogmatica, alla democrazia scettica, alla democrazia dispotica (la chiamano adesso democratura): quante parvenze di democrazia! Oggi è possibile una democrazia critica? Qui è la pars construens di questo lessico civile, il luogo in cui l’autore analizza la possibilità di una democrazia in cui il popolo non diviene dispotico, non ha poteri illimitati, non è divinizzato, ma riesce a vivere nel rispetto delle singole individualità, nella “reciproca mitezza”. Un libro così me lo porterei sulla famosa isola deserta e anche lassù…davanti agli occhi di Dio. Perché spesso mi chiedo come fossi bambina: ma lassù si potrà leggere? Tutti quelli che amo li rivedrò secondo la fede e secondo la kantiana ragionevole speranza, ma i libri? Se non li avessi…me ne morrei di nostalgia!
(In foto la biblioteca privata del professor Richard Macksey, Baltimora, fonte New York Times)
La responsabilità dell’hosting provider nella vendita on line di biglietti sui mercati secondari (nota a Sentenza Consiglio di Stato, Sez. VI, 05/12/2023, n. 10510).
di Francesco Di Iorio
Sommario: 1. Premessa. 2. I fatti per cui è causa. 3. (Segue) Il giudizio di primo grado. 4. Il giudizio di appello. La sentenza n. 10510/2023 del Consiglio di Stato. 5. La differenza tra hosting provider “passivo” e hosting provider “attivo” delineata dal Consiglio di Stato e il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers”. 6. (Segue) Vendita telematica dei titoli di accesso ad attività di spettacolo nei mercati secondari: ratio del divieto (introdotto dal d. lgs. 232/2016) e responsabilità dell’hosting provider. 7. (Segue) La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016. 8. Profili sanzionatori a carico dell’hosting provider: presupposti per la determinazione della sanzione e principio di proporzionalità. 9. Conclusioni.
1. Premessa
La pronuncia in commento risulta particolarmente interessante perché ripercorre in maniera puntuale gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa dei c.d. “Internet Service Providers”, delineando altresì le condotte astrattamente contra legem e idonee a violare (tra gli altri) il divieto di vendita sancito dall’art. 1, c. 545 della l. 11 dicembre 2016, n. 232.
La sentenza, inoltre, approfondisce e individua la ratio sottesa all’introduzione del divieto di vendita di biglietti sui mercati secondari e conferma la conformità al dettame costituzionale di tale divieto nonché la ragionevolezza dell’apparato sanzionatorio introdotto in materia dal legislatore.
Ulteriori profili di interesse sono infine rinvenibili nell’ultima parte della pronuncia, dove il Giudice Amministrativo perimetra e individua gli elementi che l’amministrazione deve valutare ai fini della determinazione della sanzione di cui all’art. 1, c. 545 della l. 232/2016.
2. I fatti per cui è causa.
A seguito della ricezione di esposti da parte di associazioni di categoria, di soggetti operanti nel settore dell’organizzazione di eventi musicali e di società di vendita nel mercato primario di titoli ad eventi musicali, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni avvia un’attività di controllo sul sito dell’operatore segnalato.
In esito all’espletamento di tale attività, l’Autorità accerta che, nel periodo marzo – maggio 2009, tramite il sito dell’operatore sono stati venduti biglietti relativi a trentasette eventi (concerti e spettacoli) a prezzi maggiorati rispetto ai prezzi nominali presenti sui siti di vendita primari autorizzati.
Sulla base di tale presupposto, l’Autorità contesta all’operatore di non essersi limitato “…a consentire la connessione dei potenziali venditori e acquirenti tramite modalità puramente tecniche, passive ed automatiche…”, ma di aver (attivamente) agevolato la vendita dei biglietti a prezzo maggiorato, fornendo una “…complessa attività di assistenza ai potenziali venditori e acquirenti .. attraverso una “massiccia operazione di promozione” effettuata tramite una strategia “multi-piattaforma”…”; attività di assistenza questa interessante “…tutte le varie fasi della compravendita fino alla relativa esecuzione, compresa la riscossione del pagamento…”.
Il tutto, per fini lucrativi e allo specifico scopo di “…trattenere le somme ad essa dovute a titoli di commissione .. oltre al rimborso delle spese di spedizione…”.
Per tali motivi, l’Autorità – ritenendo integrata da parte dell’operatore una violazione dell’art. 1, c. 545 della l. 232/2016[1] - adotta nei confronti di quest’ultimo una sanzione pecuniaria di € 3.700.000,00.
3. (Segue) Il giudizio di primo grado.
L’operatore impugna la sanzione innanzi al Tar Lazio, Roma, chiedendone il relativo annullamento.
A sostegno della richiesta di annullamento formulata, l’operatore denuncia l’illegittimità del provvedimento (anche) nella parte in cui ha qualificato in termini di “vendita” l’attività svolta dallo stesso per il tramite del proprio sito, non avvedendosi invece che tale attività avrebbe “…ad oggetto esclusivamente l’intermediazione tra le parti della compravendita, anche tramite la fornitura di servizi di supporto “logistico”, senza tuttavia alcun potere decisionale sugli elementi che determinano la eventuale illiceità della transazione…”; nonché nella parte in cui ha omesso di rilevare che l’attività dell’operatore “…consisterebbe nella gestione di una “bacheca virtuale” e dovrebbe .. essere qualificata in termini di hosting provider “neutrale” o “passivo” ai sensi della direttiva e-commerce, con applicazione del regime di esenzione della responsabilità previsto da quest’ultima e dalla normativa nazionale di recepimento…”.
Con il medesimo ricorso, il ricorrente denuncia altresì:
- il contrasto tra l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 (in attuazione del quale è stata comminata la sanzione da parte dell’Autorità) e gli artt. 41 e 117, c. 1 della Costituzione;
- l’abnormità della sanzione, avendo a suo dire l’Autorità erroneamente ritenuto integrate una “…pluralità di azioni ripetute nel tempo (dal ricorrente) in relazione ai diversi eventi…” e (conseguentemente) applicato, in sede di determinazione della sanzione, il c.d. regime del “…cumulo materiale delle violazioni…”. A dire dell’operatore, la condotta contestata sarebbe connotata da “violazioni” “…commesse in tempi ravvicinati…” e “… riconducibili ad una programmazione unitaria…”, talché le stesse dovrebbero “…considerarsi unitariamente…” (con conseguente, doverosa, applicazione - ai fini de computo della sanzione - del “…più mite regime del cumulo giuridico…”).
Con la sentenza n. 3955/2021, il Tar Lazio, Roma rigetta il ricorso proposto dall’operatore.
Nella pronuncia il Giudice di primo grado sottolinea innanzitutto che l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 vieta l’attività di rivendita di titoli di accesso ad attività di spettacolo da parte di soggetti distinti dai titolari dei sistemi di emissione[2] al fine di contrastare l'elusione e l'evasione fiscale, nonché di assicurare la tutela dei consumatori e garantire l'ordine pubblico.
La condotta vietata – chiarisce il Tar - è delineata dalla norma in termini volutamente ampi (“vendita” e “qualsiasi altra forma di collocamento”), tali da ricomprendere ogni attività contrastante e/o elusiva del divieto ivi sancito.
Fatta tale premessa, il Tar Lazio, Roma ritiene che l’attività dell’operatore – concretizzandosi nella “…gestione di un sito web che fornisce in via esclusiva, tramite un’articolata gestione imprenditoriale .. servizi finalizzati a favorire la conclusione di negozi giuridici…” e ad “…agevola(re) .. la conclusione di vendite illecite in ragione del pagamento di un prezzo superiore a quello nominale…” – sia violativa del richiamato art. 1, c. 545 della l. 232/2016, non potendo tale condotta “…essere assimilata a quella di un “trasportatore” ignaro del contenuto della merce trasportata…”
Nella medesima pronuncia il Giudice amministrativo ritiene non applicabile all’operatore il regime di esonero dalla responsabilità previsto per il c.d. “hosting passivo” dall’art. 16 del d.lgs. 70/2003[3] (“Attuazione della direttiva 2000/31/CE inerente i servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico”).
A dire del Tar, infatti, la condotta dell’operatore – essendo connotata da “…articolate attività di ottimizzazione e promozione pubblicitaria dei titoli in vendita, definizione dei parametri giuridici ed economici della transazione, inclusi i termini di consegna e il prezzo…” nonché “…nella gestione operativa e nella riscossione di quest’ultimo…” - non è qualificabile in termini di “hosting passivo” (ma in termini di “hosting attivo”[4]), con conseguente inapplicabilità dell’anzidetto regime di esonero (previsto dall’art. 16 d. lgs 70/2003).
Nella pronuncia di primo grado viene inoltre:
- rigettata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016 sollevata dal ricorrente. La disposizione risulta infatti coerente con il principio europeo di libera circolazione dei servizi (che ammette deroghe funzionali a garantire la tutela dei consumatori e l’ordine pubblico nonché ad evitare fenomeni di elusione/evasione fiscale) e con l’art. 106 TFUE[5] (non attribuendo la norma “diritti esclusivi” nei confronti di nessun soggetto e risultando la stessa proporzionata e adeguata rispetto alle finalità perseguite), con conseguente rispetto dell’art. 117, c. 1 Cost.[6] e dei “vincoli derivanti dall’ordinamento UE”. La disposizione risulta inoltre rispettosa della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.[7], in quanto “…gli obiettivi perseguiti con l’introduzione della disciplina sanzionatoria all’esame (contrasto evasione /elusione fiscale, tutela dei consumatori) costituisc(o)no interessi di rilievo tale da integrare la deroga prevista dall’art. 41 comma II della Costituzione alla libertà di iniziativa economica…”
- ritenuta congrua e proporzionata la sanzione comminata dall’amministrazione, avendo l’autorità correttamente ritenuto che la condotta dell’operatore abbia integrato “…plurime violazioni della stessa norma (art. 1, c. 545 l. 232/2016)poste in essere in tempi e con riferimento ad eventi diversi…”.
4. Il giudizio di appello. La sentenza n. 10510/2023 del Consiglio di Stato.
L’operatore impugna innanzi al Consiglio di Stato la sentenza (n. 3955/2021) del Tar Lazio, Roma, contestando la sentenza nella parte in cui ha qualificato l’attività dell’appellante in termini di “hosting provider attivo”, in violazione degli artt. 3, 14 e 15 della direttiva 2000/31/ce e degli artt. 16 e 17[8] del d.lgs. di n. 70/2013 e sulla base di presupposti erronei e travisanti.
Con il medesimo appello, l’appellante censura la pronuncia di primo grado (anche) nella parte in cui ha ritenuto – sulla base di una motivazione asseritamente “carente” – compatibile l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 con l’art. 41 cost. nonché laddove ha ritenuto proporzionata e congrua la sanzione comminata dall’Autorità in suo danno.
L’appello proposto pone quindi all’attenzione del Consiglio di Stato la soluzione di tre macro questioni, ovvero:
a) quali sono gli elementi tipici dell’attività dell’hosting provider “attivo” (e di quello “passivo”) e quali sono le condotte del “provider” astrattamente idonee ad integrare una responsabilità amministrativa dello stesso;
b)in quali casi e/o a quali condizioni l’attività di hosting provider “attivo” può determinare una violazione del divieto di vendita di cui all’art. 1, c. 545 d. lgs. 232/2006;
c) se, in linea generale, il divieto di vendita sancito dall’art. 1, c. 545 del d. lgs. 232/2006 sia costituzionalmente legittimo e rispettoso dell’art. 41 della Costituzione.
5. La differenza tra hosting provider “passivo” e hosting provider “attivo” delineata dal Consiglio di Stato e il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers”.
Nella pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ripercorre innanzitutto il quadro normativo di riferimento e la disciplina recata dal d. lgs. 9.4.2003, n. 70 in materia di “hosting provider”.
In tale prospettiva, il giudice – dopo aver ricordato che per “provider” si intende il “…soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa…”[9] - rimarca l’ontologica differenza (delineata a livello giurisprudenziale) intercorrente tra la figura dell’hosting provider “passivo” e quella dell’hosting provider “attivo”.
Il primo (hosting provider “passivo”) è il soggetto che “…pone in essere un’attività di prestazione di servizi di ordine meramente tecnico e automatico…”, senza conoscere le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono il servizio; laddove il secondo (hosting provider “attivo”) è invece il soggetto la cui attività ha “…ad oggetto anche i contenuti della prestazione resa…”.
Fatta la suvvista premessa, la pronuncia delinea il regime di responsabilità degli “Internet service providers”, chiarendo che – con riferimento a tali soggetti – l’ordinamento ha affiancato alla “…disciplina generale sulla responsabilità da fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c…” alcune “…norme speciali, ad alto contenuto tecnico…”, disciplinanti una tipica ipotesi di responsabilità (amministrativa) per colpa.
Si chiarisce quindi che, in linea generale, è esclusa la responsabilità del provider in tutti casi in cui non vi è una “manipolazione dei dati memorizzati”, rilevando quindi (in punto di responsabilità) solo le condotte che hanno “…in sostanza l’effetto di completare e arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte degli utenti…”.
Il regime di responsabilità degli “Internet Service Providers” passa quindi dall’accertamento di una condotta attiva dell’operatore, che può estrinsecarsi, ad esempio, nell’attività di “selezione”, “indicizzazione”, “organizzazione”, “catalogazione”, “aggregazione”, “valutazione”, “uso”, “modifica”, “estrazione” o “promozione” dei contenuti pubblicati dagli utenti[10].
6. (Segue) Vendita telematica dei titoli di accesso ad attività di spettacolo nei mercati secondari: ratio del divieto (introdotto dal d. lgs. 232/2016) e responsabilità dell’hosting provider.
Dopo aver ricostruito il regime di responsabilità in materia di “Internet Service Providers”, il Consiglio di Stato sottolinea che l’art. 1, comma 545 della l. 11.12.2016, n. 232 vieta, in linea generale, “…la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuato da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione…”; e sottolinea altresì che l’unica eccezione a tale regola (rectius: divieto) si ha nell’ipotesi in cui ad effettuare la vendita del biglietto sia “…una persona fisica in modo occasionale (e) senza finalità commerciali…”, fermo restando che in tal caso la vendita deve comunque essere effettuata “…ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale di titoli di accesso ad attività di spettacolo…”.
Le anzidette previsioni – precisa il Giudice Amministrativo – hanno chiara matrice “fiscale” e sono dirette a reprimere il c.d. bagarinaggio ovvero la vendita secondaria di biglietti da parte dei soggetti che non risultino titolari dei relativi sistemi di emissione. Il tutto, al fine di tutelare gli interessi del fisco e la disciplina in materia di diritto d’autore.
Richiamate le suvviste coordinate normative, il Giudice ritiene la sentenza impugnata immune da vizi: secondo il Consiglio di Stato, infatti, il Tar (e, prima ancora, l’AGCOM) ha correttamente qualificato l’attività dell’appellante in termini di “hosting provider attivo” (e ritenuto conseguentemente sussistenti a suo carico una responsabilità ex art. 1, c. 545 l. 232/2016).
Il contegno serbato dall’operatore è infatti rilevatore di “..una serie di elementi indicativi dello svolgimento di un’attività connotata in termini di non mera passività…”. Depongono in tal senso, ad esempio, la “predisposizione grafica dell’offerta, organizzata per ogni singolo evento (indicizzazione)”, la “predisposizione e messa a disposizione delle piante degli impianti (organizzazione)”, il “suggerimento dei prezzi (catalogazione e valutazione)” e l’ “aggregazione dei contenuti per singolo evento (aggregazione)”.
Secondo il Consiglio di Stato, dunque, l’adozione da parte dell’operatore di una serie di misure “attive” - indicizzazione, organizzazione, aggregazione, catalogazione e valutazione dei prodotti - funzionali ad agevolare la vendita online di biglietti (ad un prezzo superiore al loro valore nominale) unitamente alle finalità commerciali/lucrative sottese all’adozione di tali misure consuma una violazione dell’art.1, comma 545 della l. 11.12.2016, n. 232 da parte dell’operatore, con conseguente legittimità del provvedimento sanzionatorio adottato in suo danno.
7. (Segue) La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, c. 545 l. 232/2016.
Nel prosieguo della pronuncia, il Consiglio di Stato chiarisce poi che l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 si sottrae a possibili profili e censure di incostituzionalità.
Tale disposizione – a dire del Consiglio di Stato – risulta infatti del tutto ragionevole, ben potendo “…il legislatore fiscale (..) decidere di vietare fenomeni che siano per la loro dimensione o per il loro impatto contrari all’ordine economico…” (fenomeni tra questi tra i quali rientra il c.d. “…bagarinaggio informatico…”, vietato dalla disposizione de qua e che costituisce un vero e proprio “rischio” per l’ordine economico).
In siffatte ipotesi, il divieto non determina alcuna violazione della libertà d’impresa degli operatori, non potendosi tale libertà svolgersi “…in contrasto con l’utilità sociale…”.
Sempre secondo il Consiglio di Stato, la costituzionalità della sopra richiamata disposizione è confermata anche dal fatto che:
a) la stessa non vieta in modo assoluto la “vendita secondaria”, ammettendo tale vendita a certe condizioni di prezzo e in condizioni di “occasionalità”;
b) la Corte Costituzionale ritiene legittime le limitazioni alla libertà contrattuale (in materia commerciale) introdotte per scopi previsti o consentiti dalla costituzione o al fine di evitare che apparecchi di svago fossero utilizzabili come gioco o scommessa[11]. Tali ragioni sarebbero “…ancora attuali a fronte di un fenomeno di nuova portata come il c.d. bagarinaggio informatico…”;
c)l’art. 1, c. 545 della l. 232/2016 “…sceglie la via dell’illecito amministrativo…” per punire il soggetto sanzionato e non già quella “…penale…”. Sul punto, la norma appare quindi del tutto “…proporzionata…” in quanto – pur non integrando il c.d. bagarinaggio una fattispecie di rilevanza penale (poiché non lesivo dell’ordine e della sicurezza pubblica) - il fenomeno della “…rivendita massiva di biglietti a prezzi maggiorati…” è comunque “…in grado di produrre effetti negativi sia per i privati che vogliono partecipare a concerti o a partite di calcio, sia per gli organizzatori di eventi e gli artisti, che vedono lucrare sconosciuti sul proprio lavoro…”[12].
8. Profili sanzionatori a carico dell’hosting provider: presupposti per la determinazione della sanzione e principio di proporzionalità.
Da ultimo, la pronuncia si concentra sulla proporzionalità della sanzione applicata dall’AGCOM nei confronti dell’operatore.
Il Consiglio di Stato principia sul punto affermando che la circostanza che l’operatore abbia venduto sulla propria piattaforma “…diversi biglietti…” in relazione a “…diversi eventi…” integra una “…pluralità e generalità di operazioni, tali da dare vita ad una vera e propria ulteriore piattaforma di vendita…”; ciò concorrerebbe a “…definire la gravità del fatto…”[13] e ad escludere la possibilità di applicare (ai fini del computo della sanzione) l’istituto del c.d. cumulo giuridico di cui all’art. 8 l. 689/1981 (applicabile solo nell’ipotesi in cui la pluralità di violazioni discenda da un’unica condotta e non già in presenza di distinte condotte, anche se identiche o analoghe[14]).
Sulla scorta di tali presupposti concettuali, il Consiglio di Stato conclude quindi affermando che, nella vicenda all’attenzione, “…l’Autorità ha fatto corretto utilizzo dei parametri di quantificazione di cui alla normativa di principio, valorizzando i seguenti elementi: la gravità della condotta anche per la rilevante diffusione della stessa attraverso i più diffusi social media; l’assenza di qualsiasi comportamento, nel corso del procedimento, finalizzato a eliminare o attenuare le conseguenze della violazione e anzi, all’opposto, l’aver dato vita a comportamenti omissivi alla richiesta di elementi; la personalità dell’agente, dotato di una struttura adeguata e qualificata, e le condizioni economiche dello stesso…”.
Sulla scorta delle sopra riportate considerazioni, il Consiglio di Stato rigetta l’appello proposto dall’appellante e conferma la sentenza di primo grado (che aveva, a sua volta, ritenuto legittima la sanzione adottata dall’AGCOM).
9. Conclusioni.
La pronuncia in esame risulta particolarmente interessante poiché adottata su una materia - quella della vendita online di prodotti sui mercati secondari e della responsabilità amministrativa del “provider” – nuova e particolarmente “attuale”, in considerazione, tra le altre cose, dell’elevato numero di transazioni/vendite effettuate in rete dai consociati e del “ruolo” svolto ad oggi dal fenomeno della digitalizzazione delle operazioni commerciali.
La sentenza pone alcuni punti fermi su quelli che sono i profili e/o le tipologie di attività del provider giuridicamente rilevanti (anche in punto di responsabilità amministrativa del provider stesso), individuando altresì alcune ipotesi/casistiche specifiche che andranno sicuramente ad “arricchirsi” con l’evolversi del fenomeno della digitalizzazione (e della vendita online) e con il registrarsi di nuove pronunce giurisprudenziali in materia.
Il dato di particolare rilievo che emerge dalla pronuncia è che, sotto un profilo strettamente giuridico, il provider – in tutte quelle ipotesi in cui non si limiti ad adottare misure meramente “passive” (ad esempio, raccogliendo e memorizzando dati di terzi) - dovrà assicurarsi che le misure adottate sulla propria piattaforma/sito (al fine di “arricchire” la fruizione dei contenuti da parte dell’utenza) non violino interessi protetti e/o comunque non siano funzionali ad eludere divieti introdotti dal legislatore per la tutela di diritti tutelati a livello nazionale o comunitario (es. ordine pubblico; salute; concorrenza; libera iniziativa economica).
[1] L’art. 1, comma 545 della legge 11 dicembre 2016, n. 232 stabilisce che “…Al fine di contrastare l'elusione e l'evasione fiscale, nonché di assicurare la tutela dei consumatori e garantire l'ordine pubblico, la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da soggetto diverso dai titolari, anche sulla base di apposito contratto o convenzione, dei sistemi per la loro emissione è punita, salvo che il fatto non costituisca reato, con l'inibizione della condotta e con sanzioni amministrative pecuniarie da 5.000 euro a 180.000 euro, nonché, ove la condotta sia effettuata attraverso le reti di comunicazione elettronica, secondo le modalità stabilite dal comma 546, con la rimozione dei contenuti, o, nei casi più gravi, con l'oscuramento del sito internet attraverso il quale la violazione è stata posta in essere, fatte salve le azioni risarcitorie. L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di concerto con l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, effettua i necessari accertamenti e interventi, agendo d'ufficio ovvero su segnalazione degli interessati e comminando, se del caso, le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente comma. Non è comunque sanzionata la vendita ad un prezzo uguale o inferiore a quello nominale di titoli di accesso ad attività di spettacolo effettuata da una persona fisica in modo occasionale, purché senza finalità commerciali…”.
[2] Nella sentenza Tar Lazio, Roma n. 3955/2021 si chiarisce che “…Per “titolari di sistemi di emissione” dei titoli si intendono i soggetti cui è stata conferita specifica autorizzazione dall’Agenzia delle Entrate, ai sensi del provvedimento della stessa Agenzia del 22 ottobre 2002 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 258 del 4 novembre 2002) recante “Autorizzazione al rilascio delle carte di attivazione relative a sistemi di emissione di titoli di accesso e di riconoscimento di idoneità di apparecchiature”, che presuppone la conformità dei sistemi di emissione dei titoli di accesso al decreto del Ministero delle Finanze del 13 luglio 2000, riguardante le caratteristiche degli apparecchi misuratori fiscali, il contenuto e le modalità di emissione dei titoli di accesso per gli intrattenimenti e le attività spettacolistiche. Le misure tecniche di dettaglio sono, inoltre, contenute nel provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 27 giugno 2019 che, al capo III, punti 6.3 e 6.4, indica i parametri tecnici della procedura di cambio nominale dei titoli di accesso e della procedura di intermediazione per la rivendita, e che, come evidenziato dall’Avvocatura dello Stato, è stato oggetto di notifica alla Commissione Europea ai sensi della Direttiva (UE) 2015/1535…”.
[3] L’art. 16 del d. lgs. 9 aprile 2003, n. 70 prevede che “…1. Nella prestazione di un servizio della società dell'informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso. 2. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano se il destinatario del servizio agisce sotto l'autorità o il controllo del prestatore. 3. L'autorità giudiziaria o quella amministrativa competente può esigere, anche in via d'urgenza, che il prestatore, nell'esercizio delle attività di cui al comma 1, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse…”.
[4] Secondo la Corte di Cassazione ricorre la figura dell’ “…hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato (di cui all’art. 16 del d. lgs. 70/2003), quando sia ravvisabile una condotta di azione (..) gli elementi idonei a delineare la figura o “indici di interferenza”, da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono - a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti - le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati…” (Cass. Civ., Sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708).
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che “…allorché il prestatore del servizio, anziché limitarsi ad una fornitura neutra di quest'ultimo, mediante un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti, svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo di tali dati…”, in particolare consistente “…nell'ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra tra il cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all'art. 14 della direttiva 2000/31…” (Corte UE, Grande Sezione, 12 luglio 2011, C-324/09, L’Orèal c. eBay, punti 112 – 117; in termini analoghi, id., 23 marzo 2010, C-236/08, Google c. Louis Vuitton, punti 109 e seguenti).
[5] L’art. 106 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea stabilisce che “…1. Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme dei trattati, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 18 e da 101 a 109 inclusi. 2. Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell'Unione. 3. La Commissione vigila sull'applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni…”.
[6] Ai sensi dell’art. 117, comma 1 della Costituzione “…La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali…”.
[7] Ai sensi dell’art. 41 della Costituzione “…1. L'iniziativa economica privata è libera. 2. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. 3. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali…”.
[8] L’art. 17 del d. lgs. 9 aprile 2003, n. 70 prevede che “…1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. Fatte salve le disposizioni di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore è comunque tenuto: a) ad informare senza indugio l'autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell'informazione; b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l'identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite. 3. Il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall'autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l'accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l'accesso, non ha provveduto ad informarne l'autorità competente…”.
[9] Nella pronuncia n. 10510/2023, il Consiglio di Stato chiarisce, nello specifico, che “…Il provider è il soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa. Si distinguono, ai sensi del decreto in esame (d. lgs. 70/2003), tre figure di soggetti che operano nel presente mercato, articolate in ragione della tipologia di prestazione resa a cui corrisponde una specifica forma di responsabilità: i) attività di semplice trasporto – mere conduit (art. 14); ii) attività di memorizzazione temporanea – caching (art. 15); iii) attività di memorizzazione di informazione – hosting (art. 16)…”.
[10] La pronuncia in esame ribadisce i principi affermati dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 7708/2019, nella quale la Suprema Corte ha riconosciuto che “…La distinzione tra hosting provider attivo e passivo può, a ben vedere, agevolmente inquadrarsi nella tradizionale teoria della condotta illecita, la quale può consistere in un'azione o in un'omissione, in tale ultimo caso con illecito omissivo in senso proprio, in mancanza dell'evento, oppure, qualora ne derivi un evento, in senso improprio; a sua volta, ove l'evento sia costituito dal fatto illecito altrui, si configura l'illecito commissivo mediante omissione in concorso con l'autore principale. La figura dell'hosting provider attivo va ricondotta alla fattispecie della condotta illecita attiva di concorso. Al riguardo, vale la pena di ricordare l'osservazione della dottrina, secondo cui il diritto privato Europeo è pragmatico e non si cura delle architetture concettuali, avendo il legislatore comunitario il difficile compito di ottenere effettività con il "minimo investimento assiologico" ed un "minimo tasso di riconcettualizzazione"; ed il rilievo, secondo cui le norme di derivazione Europea provengono da sistemi giuridici segnati da una "tendenziale sottoteorizzazione". Dal suo canto, le pronunce della Corte di giustizia sono delimitate dai quesiti sottoposti dai giudici a quibus. Eppure, come del pari si osserva, nell'esigenza di trovare una nuova dogmatica universalmente fruibile, oltre le dogmatiche municipali, gli esponenti dell'accademia e delle corti, nei rispettivi ruoli, sono chiamati a preservare il valore della certezza del diritto: il che passa anche attraverso la riconduzione ad un sistema concettuale efficiente delle norme di derivazione Europea. Dunque, si può parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, nel senso ora richiamato. Gli elementi idonei a delineare la figura o "indici di interferenza", da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono - a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti - le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l'adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l'effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati…” (Cass. Civ., Sez. I, 19/03/2019, n. 7708).
[11] Si fa riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale nn. 125/1963, 30/1965 e 12/1970.
[12] Nella sentenza in esame si riconosce che “…La norma poi sceglie la via dell’illecito amministrativo e non penale ed in ciò appare proporzionata. Va ricordato che l’illecito penale in tempi risalenti era stato ravvisato ipoteticamente per “la violazione del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 115, (Tulps) per attività di vendita di biglietti di ingresso ad una manifestazione, costituendo tale attività un’operazione riconducibile all’apertura di un’agenzia d’affari in assenza della prescritta licenza” e per l’art. 665 codice penale ( poi depenalizzato ). Tale inquadramento non ha retto nemmeno al vaglio della giurisprudenza civile. Per Cass. Civ. n. 10881 del 2008 “chi acquista per poi rivendere a proprio rischio e pericolo biglietti per spettacoli e manifestazioni in genere non è tenuto a chiedere alcuna licenza al questore. L’attività in esame, detta volgarmente di “bagarinaggio”, non è riconducibile, infatti, all’esercizio di un’agenzia d’affari per la quale il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza all’art. 155 prevede il permesso dell’autorità locale competente, poiché il bagarino, che rivende biglietti nel proprio esclusivo interesse ed al fine di lucrare un prezzo maggiore di quello d’acquisto, non esercita alcuna intermediazione - neppure atipica – riconducibile all’agenzia d’affari. Per lo svolgimento di questa attività, dunque, non sussistono le ragioni di specifica vigilanza per motivi d’ordine pubblico e sicurezza da cui sorge la necessità della licenza ( in senso analogo Cass. Civ. n. 12826 del 2007 si tratta di sentenze relative al bagarinaggio dei c.d. ambulanti). A fronte dell’esplosione del “bagarinaggio” c.d. informatico, invero molto impattante sull’economia del settore dei pubblici spettacoli, il legislatore fiscale è intervenuto con norma limitativa, ma compatibile con l’orientamento della giurisprudenza civile perché introduttiva di un mero illecito amministrativo. La rivendita massiva di biglietti a prezzi maggiorati, unitamente all’incetta dei biglietti che si può fare alla fonte mediante programmi informatici, è un fenomeno che ha attratto l’attenzione del legislatore intervenuto con la norma di cui si eccepisce l’incostituzionalità. Il fenomeno si è ritenuto in grado di produrre effetti negativi sia per i privati che vogliono partecipare a concerti o a partite di calcio, sia per gli organizzatori degli eventi e gli artisti, che vedono lucrare sconosciuti sul proprio lavoro…”.
[13] Nella pronuncia in esame il Consiglio di Stato sottolinea che “…In linea generale, i criteri generali di cui fare applicazione in sede di commisurazione delle sanzioni pecuniarie sono rinvenibili nell'ambito dell'art. 11 della l. 689 del 1981, per il quale, "nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche" (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. VI, 24 agosto 2011, n. 4799)…”.
[14] Sui presupposti ai fini dell’applicabilità del principio del cumulo giuridico di cui all’art. 8 l. 689/1981 si veda anche Cass. civ., Sez. II, 22 giugno 2022, n. 20129.
Detenzione domiciliare al detenuto condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso: possibili aperture della Corte di cassazione (nota a Cass. Pen., Sez. I, 8 gennaio 2024, n. 510)
di Francesco Martin
Sommario: 1. Premessa - 2. Sulla detenzione domiciliare: brevi cenni - 2.1. La detenzione domiciliare speciale - 3. La detenzione domiciliare al condannato per reati di mafia - 4. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Il tema inerente alla situazione carceraria italiana, intesa non solo come sovraffollamento, ma più in generale come qualità della vita dei detenuti, è ritornato all’attenzione del mondo politico e sociale complici, purtroppo, i gravi fatti inerenti all’elevato numero di suicidi avvenuti all’interno degli istituti penitenziari[1].
Ad una situazione già complessa, negli ultimi anni si è aggiunto il difficile rapporto tra tutela della collettività e assistenza e cura ai soggetti detenuti, affetti da malattie psichiche, che ha interessato tanto il legislatore quanto la giurisprudenza.
Difatti, a seguito della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari si era posto il problema di dove curare i soggetti socialmente pericolosi affetti da disturbo psichico; questione che non è stata ancora risolta definitivamente in quanto le attuali strutture non riescono a far fronte al numero di soggetti che ne abbisognano[2].
Per questo motivo, nel diritto vivente si è progressivamente affacciata la valorizzazione dell’istituto del differimentodella pena, quale ulteriore valvola di sfogo.
Prima di procedere oltre, quindi, è opportuno prendere le mosse dall’attuale stato dell’arte della giurisprudenza in materia di differimento della pena, avente perlopiù a riguardo infermità di natura fisica.
Più in particolare, di recente, la Suprema Corte[3] è tornata sul differimento dell’esecuzione della pena, nella forma della detenzione domiciliare, per motivi di salute con argomentazioni di particolare interesse.
A seguito del rigetto da parte del Tribunale di sorveglianza, la Corte rilevava che, in caso di una richiesta di differimento dell'esecuzione della pena – o di sua esecuzione nelle forme della detenzione domiciliare – per grave infermità fisica, il Tribunale è tenuto a valutare se le condizioni di salute del condannato, oggetto di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell'istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari e se esse siano o meno compatibili con le finalità rieducative della pena, con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto conto anche della durata del trattamento e dell’età del detenuto, a loro volta soggette ad un’analisi comparativa con la pericolosità sociale del condannato.
Proprio su questo punto, peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha più volte stabilito che: «In tema di differimento facoltativo della pena detentiva, ai sensi dell’art. 147 cod. pen., comma primo, n. 2), è necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando unbilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza dellacollettività»[4].
Tale decisione deve quindi fondarsi sull’equilibrato contemperamento di interessi tra le esigenze di certezza ed indefettibilità della pena e la salvaguardia del diritto alla salute e ad un’esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, che non consente il mantenimento della restrizione carceraria che finisca con il rappresentare una sofferenza aggiuntiva intollerabile da vivere in condizioni umane degradanti, dovendosi tenere conto tanto dell’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili quanto della concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nellasituazione.
Ancora, la Corte di cassazione ha stabilito che: «(...) in tema di differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica, ai fini della valutazione sull’incompatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute del condannato,ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione costituisca trattamento inumano o degradante, il giudice deve verificare, non soltanto se le con- dizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di untrattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell’età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale»[5].
Si deve, in definitiva, effettuare un bilanciamento ed una valutazione che tenga conto delle esigenze di tutela della collettività e della possibilità per il detenuto di accedere a delle strutture sanitarie ove poter ricevere le migliori cure.
2. Sulla detenzione domiciliare: brevi cenni
Pare opportuno, al fine di inquadrare meglio la questione affrontata dalla sentenza in commento, evidenziare le principali caratteristiche di tale misura.
La detenzione domiciliare ordinaria è disciplinata dall’art. 47-ter O.P., introdotto con la L. 10 ottobre 1986, n. 663, e permette al condannato di espiare la pena detentiva, o residuo della stessa, non più nell’istituto penitenziario, bensì presso la propria abitazione, in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.
L’art. 47-ter O.P. individua tassativamente i soggetti a che possono richiedere, al Tribunale di sorveglianza competente per territorio, l’accesso a tale beneficio, cioè coloro che abbiano compiuto i 70 anni di età, purché non siano stati condannati per reati previsti dagli artt. 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p., i delinquenti abituali, professionali o recidivi ai sensi dell’art. 99 c.p.-
Su quest’ultimo punto è opportuno evidenziare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 56 del 9 marzo 2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, O.P., limitatamente alle parole «né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale».
La Consulta, rimuovendo la preclusione assoluta alla concessione della misura domiciliare in favore dei condannati recidivi ultrasettantenni, ha in tal modo sottoposto alla valutazione del giudice di sorveglianza la possibilità di applicare in beneficio domiciliare nei confronti di quei soggetti di età avanzata, nei cui confronti ragioni umanitarie fanno ritenere sussistente una presunzione di incompatibilità con la restrizione carceraria[6].
Inoltre la detenzione domiciliare può essere concessa ai condannati alla pena della reclusione non superiore a quattro anni qualora si tratti di donne incinta o madri di prole di età non superiore a 10 anni con esse conviventi, persone che versano in uno stato di salute particolarmente grave da necessitare di costanti contatti con i presidi sanitari del territorio, soggetti che abbiano compiuto i 60 anni di età e affetti da patologie gravi o parzialmente invalidanti, ovvero che non abbiano compiuto i ventun anni di età, per motivi di lavoro, famiglia, salute e studio.
Il comma 1-bis, dell’art. 47-ter O.P., prevede l’applicazione della misura alternativa anche nei confronti dei condannati alla pena detentiva non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena.
Il successivo comma 1-ter, che qui riveste particolare interesse, prevede che in caso di rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 c.p., il Tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre la applicazione della detenzione domiciliare.
Tale misura, infine, non si applica per i soggetti condannati per uno dei reati di cui all’art. 4-bis O.P.-
La natura giuridica della detenzione domiciliare ha suscitato notevole dibattito, soprattutto in dottrina.
Ad attenta analisi, infatti, si evince che il legislatore ha introdotto la misura in esame con finalità umanitarie e assistenziali e ne ha in seguito ampliato l’ambito di operatività per perseguire esigenze di politica deflattiva, senza però mai preoccuparsi di prevedere prescrizioni a contenuto rieducativo o risocializzante[7].
La dottrina maggioritaria[8] ha per lungo tempo classificato solo l’affidamento in prova al servizio sociale e la liberazione condizionale come misure alternative in senso proprio, mentre ha ritenuto la detenzione domiciliare ed il regime di semilibertà strumenti di diversificazione alternativa all’esecuzione delle sanzioni penali.
Tuttavia, nell’applicazione pratica, la detenzione domiciliare ha sempre più di contenuti di natura risocializzante mediante l’imposizione di prescrizioni, non solo a carattere negativo, ma anche positivo, finalizzate alla rieducazione del condannato.
Il Tribunale di sorveglianza, infatti, può stabilire anche disposizioni di natura risocializzante, non limitandosi ad una regolamentazione in negativo, elencando solamente i divieti; costituisce inoltre una misura intermedia, applicata in ragione dei progressi conseguiti nel corso del trattamento, prima dell’applicazione della misura più ampia dell’affidamento in prova.
La concedibilità della liberazione anticipata anche al detenuto domiciliare, inoltre, conferma ulteriormente la natura di misura alternativa, in quanto beneficio che ha come presupposto proprio la partecipazione all’opera di rieducazione.
L’indirizzo interpretativo seguito infatti dalla giurisprudenza, sia della Corte costituzionale[9] sia della Corte di cassazione[10], è costante nel riconoscere alla detenzione domiciliare una componente rieducativa, proprio in virtù del carattere impresso alla pena dall’art. 27 Cost.-
Orbene è allora possibile affermare che la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter O.P. si ponga come strumento volto a garantire, anche a quei soggetti a cui non potrebbe essere concessa la più ampia misura dell’affidamento in prova ai servizi sociali, la possibilità di reinserirsi all’interno del tessuto sociale, effettuando altresì un percorso volto a comprendere il disvalore delle condotte poste in essere per le quali hanno riportato la condanna.
2.1. La detenzione domiciliare speciale
L’ordinamento penitenziario disciplina anche una particolare ipotesi de detenzione domiciliare, prevista dall’art. 47-quinquies O.P.-
L’art. 3, comma 1, L. 8 marzo 2001, n. 40 ha introdotto, tra le altre disposizioni, l’art. 47-quinquies che è stato poi successivamente innovato dalla L. 21 aprile 2011, n. 62.
La detenzione domiciliare speciale si applica nell’ipotesi in cui non ricorrono le condizioni di cui all’art. 47-terO.P., cioè quando non sia possibile disporre la detenzione domiciliare ordinaria, prevista per le madri di prole di età inferiore ai dieci anni, purché la pena detentiva da eseguire non superi la durata di quattro anni.
La norma in esame prevede dunque un’ipotesi di detenzione domiciliare speciale ed in particolare che, qualora la condannata sia una madre di prole non superiore ad anni dieci – in assenza di pericolo di commissione di ulteriori reati e dopo aver espiato un terzo della pena, ovvero almeno quindici anni in caso di condanna all’ergastolo – la pena possa essere espiata attraverso tale misura alternativa alla detenzione[11].
La ratio della norma è quella di consentire alle madri la cura e l’assistenza ai figli, evitando che l’esecuzione della pena possa influire in maniera nocumentale e negativa sul rapporto madre-figlio, ovvero condizionare lo sviluppo psicologico e sociale del minore.
La misura è dunque finalizzata, in presenza di determinati presupposti e circostanze, sia al reinserimento sociale del condannato (finalità propria di tutte le misure alternative alla detenzione) sia a garantire ai figli l’assistenza necessaria.
Come noto sul punto è intervenuta la Corte costituzionale[12] che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 1, O.P., limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis»[13].
Con una successiva pronuncia, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 47-quinquies, comma 1,O.P., nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri difigli affetti da handicap grave, ai sensi dell’art. 3, comma 3, L. 104/1992[14].
3. La detenzione domiciliare al condannato per reati di mafia
Come evidenziato sub.1, la Corte di cassazione si è recentemente pronunciata circa la concessione della detenzione domiciliare, nelle forme previste dall’art. 47-ter, comma 1-ter, O.P., al detenuto condannato per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e affetto da diverse patologie fisiche.
Il Tribunale di sorveglianza aveva respinto l’istanza sulla base dell'alto indice di pericolosità sociale, attuale anche alla luce dell'evasione commessa nel 2018, nonché delle informazioni provenienti dai competenti organi dello Stato.
Tuttavia, l’ordinanza, secondo la tesi difensiva, si sarebbe soffermata sul profilo personologico e sui titoli di reato in espiazione, mentre non avrebbe reso alcuna valutazione sui presupposti giuridici dell'invocato differimento dell'esecuzione della pena, con motivazione apparente e con argomentazioni extra petitum, che non si ricollegano alle condizioni di salute del detenuto.
Costituisce ormai principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui il giudice chiamato a decidere sul differimento dell'esecuzione della pena o, in subordine, sull'applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute, deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest'ultimo con riguardo sia all'astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza del livello di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto, valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico.
Ai fini del differimento facoltativo dell'esecuzione della pena per infermità fisica, il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria, neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell'art. 11 O.P.-
La valutazione della gravità dell'infermità si deve dunque riferire al combinato disposto dei referenti di rango costituzionale ai quali la norma si richiama, cioè l'esigenza di certezza dell'esecuzione della pena e l'eguaglianza di fronte alla legge (art. 3 Cost.), il divieto di trattamenti disumani (art. 27 Cost.), il principio di legalità della pena (art. 25 Cost.) e il diritto alla salute (art. 32 Cost.), in ordine ai quali si impone un'opera di bilanciamento affidata al giudice.
Tuttavia non ogni patologia, fisica o psichica, rileva ai fini della valutazione.
Deve infatti intendersi solo una grave infermità fisica tale da comportare un'intollerabile sofferenza aggiuntiva nello stato di detenzione.
Ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell'art. 147, comma 1, n. 2, c.p. non è necessaria un'incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario.
L'infermità fisica non deve menomare in maniera anche rilevante la salute del soggetto e sia suscettibile di generico miglioramento mediante il ritorno alla libertà, ma è necessario invece che sia di tale gravità da far apparire l'espiazione della pena detentiva in contrasto con il senso di umanità cui si ispira la norma costituzionale, anche in considerazione dell'art. 3 Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, che afferma che la protrazione dello stato detentivo deve evitare di costituire un fattore di probabile aggravamento delle patologie in atto, con valutazione da operarsi in concreto.
Nella motivazione del potere di rinvio di esecuzione della pena, il giudice di merito deve dare ragione delle sue scelte, bilanciando il principio costituzionale di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.) con quelli della tutela della salute (art. 32 Cost.) e del senso di umanità (art. 27 Cost.) che deve caratterizzare l'esecuzione della pena, per modo che in sede di legittimità se ne possa valutare la correttezza e la completezza.
In tale valutazione, è necessario verificare non soltanto se le condizioni di salute del condannato, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all'interno dell'istituto di pena o comunque in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di un trattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell'età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale.
In conclusione, la Corte ha ritenuto che l'ordinanza impugnata dovesse essere annullata onde effettuare i necessari approfondimenti sulle condizioni di salute del condannato, eventualmente attraverso l'espletamento di una perizia, affinché il Tribunale di sorveglianza competente possa effettuare le conseguenti rivalutazioni in tema di bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti.
4. Considerazioni conclusive
Come evidenziato la porta applicativa della detenzione domiciliare si presta ad ampie e variegate ipotesi.
Se da un lato infatti tale istituto può trovare applicazione anche nei confronti dei detenuti affetti da patologia psichica, dall’altro consente a colui che è affetto da una grave ed invalidante patologia fisica di poter scontare la pena fuori dall’istituto penitenziario.
Nel caso di specie poi è di particolare interesse la questione circa i titoli di reato oggetto di espiazione che concernono alcuni reati di cui all’art. 4-bis O.P.
A ben vedere non si tratta della prima decisione in tal senso in quando, già nel 2020, il Magistrato di Sorveglianza, pronunciandosi circa l’istanza avanzata da un soggetto ristretto in regime di cui all’art. 41-bis O.P., tenuto conto del quadro clinico descritto dai sanitari, con particolare riferimento alle patologie di natura oncologica e cardiaca ed in considerazione dell’età avanzata del soggetto, aveva riscontrato la sussistenza dei presupposti per il rinvio facoltativo della esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147, co. 1, n. 2 c.p.-
Tale scelta era stata presa anche in considerazione anche dell’emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio – indubitabilmente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere – che esponeva a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani affetti da serie patologie pregresse.
Tuttavia, tenuto conto della gravità dei reati commessi e della caratura criminale del condannato, il Giudice aveva disposto che il suddetto rinvio avvenisse nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-ter, O.P. al fine di salvaguardare, nel contempo, le esigenze di cura del soggetto e le esigenze di tutela della collettività[15].
La potestà punitiva dello Stato, che l'esecuzione della pena attua con la costrizione del condannato, incontra infatti un limite costituito dalla tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo (art. 32 Cost.), che neppure la generale inderogabilità dell'esecuzione della condanna può sopravanzare allorquando la pena, per le condizioni di grave infermità fisica del soggetto (art. 147, comma primo n. 2, c.p.), finisca col costituire un trattamento contrario al senso di umanità, così perdendo la tendenza e la finalità rieducativa.
La Corte, con la sentenza in commento, ha inteso rimarcare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell'accoglimento di un'istanza di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell'art. 147, comma 1, n. 2, c.p., non è necessaria un'incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l'infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario.
[1] Si veda il report inerente ai suicidi in carcere disponibile all’indirizzo http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/.
[2] B. SECCHI, La Corte EDU e le due misure emesse per sollecitare la cura. Servono davvero nuove Rems, in Sist. pen., 14.11.2022.
[3] Cass. Pen., Sez. I, 8 gennaio 2024, n. 510, in Dejure.
[4] Ex multis Cass. Pen., Sez. I, 13 novembre 2020, n. 2337, in Dejure.
[5] Cass. Pen., Sez. I, 20 ottobre 2022, n. 38917, in Dejure.
[6] F. FIORENTIN, Illegittima la preclusione in tema di detenzione domiciliare per condannati recidivi ultrasettantenni, in Il Penalista, 06.04.2021
[7] M. GASPARI, M. LEONARDI, La detenzione domiciliare, Torino, 2017
[8] M. CANEPA, S. MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2010; C. FIORIO, F. FIORENTIN, Manuale dell’ordinamento penitenziario, Piacenza, 2023.
[9] Cort. cost., 31 marzo 2021, n. 56.
[10] Cass. Pen., Sez. I, 4 marzo 2021, n. 24099, in Dejure.
[11] M.G. PAVARIN, Le ipotesi di detenzione domiciliare, in F. FIORENTIN (a cura di), Misure alternative alla detenzione, Torino, 2012.
[12] Cort. cost., 12 aprile 2017, n. 76.
[13] Secondo la Consulta nella disposizione in esame il legislatore ha escluso in assoluto dall’accesso ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto con il minore in tenera età le madri accomunate dall’aver subito una condanna per taluno dei delitti indicati in una disposizione (l’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975) che contiene, oltretutto, un elenco di reati complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità (sentenza n. 32 del 2016). Ne deriva quindi che vengono del tutto pretermessi l’interesse del minore ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre, nonché la stessa finalità di reinserimento sociale della condannata, non estranea, come si è già detto, alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa alla detenzione. Questa sorta di esemplarità della sanzione – la madre deve inevitabilmente espiare in carcere la prima frazione di pena – non può essere giustificata da finalità di prevenzione generale o di difesa sociale (sentenza n. 313 del 1990). Infatti, le esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica criminale non possono essere perseguiti attraverso l’assoluto sacrificio della condizione della madre e del suo rapporto con la prole.
[14] Cort. cost., 18 febbraio 2020, n. 18.
[15] S. RAFFAELE, Dal 41-bis ai domiciliari: l’ordinanza “Bonura”, in DPU, 29.04.2020.
Immagine: Sula Bermudez Silverman, “Sighs and Leers and Crocodile Tears”, 2021.
Questo contributo è parte dell'approfondimento in tema di infortuni inaugurato su questa Rivista il 1° marzo 2024 (v. L'emergenza nazionale degli infortuni sul lavoro e la risposta delle istituzioni: uno sguardo di insieme di Maria Laura Paesano, Le indagini in materia antinfortunistica e la sensibilità del pubblico ministero di Giuseppe De Falco, Controlli amministrativi e sanitari. Il contrasto agli infortuni in via preventiva di Francesco Agnino).
Sommario: 1. Il sistema prevenzionistico dei garanti del rischio - 2. L’ineludibile attualità degli infortuni sul lavoro: i numeri di un’emergenza - 3. L’impresa individuale: numeri, vantaggi e rischi del “modello gestorio” statisticamente prevalente - 4. Il principio di effettività datoriale come “contromisura” al ricorso all’impresa individuale per finalità illecite - 5. Gli strumenti di ricerca della prova della posizione datoriale di fatto nell’impresa individuale: fonti dichiarative, perquisizioni e sequestri, acquisizioni documentali, intercettazioni telefoniche e tabulati
1. Il sistema prevenzionistico dei garanti del rischio
La tematica dell’individuazione delle posizioni di garanzia rappresenta da sempre non solo una della più interessanti questioni di interesse teorico del diritto penale della sicurezza sul lavoro, ma rileva anche sotto il profilo pratico, ai fini dell’applicazione concreta delle sanzioni previste dalle violazioni poste a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro. Nella vigente normativa prevenzionistica, caratterizzata per essere orientata verso la tutela del lavoratore, interesse costituzionalmente protetto ai sensi del combinato disposto degli artt. 32, 35, 41 Cost., il datore di lavoro e più in generale il titolare della posizione di garanzia, diventa il principale debitore del sistema di sicurezza, colui che deve realizzare in concreto le condizioni volte ad eliminare, o quanto meno ridurre al minimo, il rischio lavorativo, da cui possono originarsi eventi lesivi per il lavoratore impiegato nel sistema produttivo. L’individuazione del soggetto attivo del reato proprio, quale quello produttivo di eventi infortunistici per violazioni alla disciplina prevenzionistica sul lavoro, diventa pertanto un passaggio indispensabile per la corretta applicazione delle fattispecie poste a tutela penale del lavoro, tenuto conto che queste ultime sono fondate proprio sullo specifico rapporto e legame fra il bene tutelato e il soggetto qualificato a tutelarle, appunto il titolare della posizione di garanzia. Al fine di apprestare massima estensione alla tutela dei debitori di sicurezza, la normativa vigente prevede che accanto al garante di diritto del rischio lavorativo, secondo quanto previsto dall’art. 2 del Tusl, la riferibilità soggettiva della responsabilità per danno da evento lesivo sul lavoro possa estendersi anche nei confronti di coloro che di fatto si accollano e svolgono i poteri dei garanti di diritto, ossia i garanti di fatto, in forza del disposto di cui all’art. 299 del citato testo unico. Ebbene, nonostante tali premesse, la prassi applicativa quotidiana dei procedimenti penali in materia di sicurezza sul lavoro, ed in particolare quelli più complessi per infortuni e malattie professionali, fornisce sempre più spesso occasione per riflettere sulla difficoltà concreta di cogliere la reale figura del garante del rischio, a causa da un lato, di un’elevata domanda di giustizia che continua ad interessare a tutte le latitudini del territorio nazionale i procedimenti per infortunio sul lavoro, anche mortali, così riducendo i tempi fisiologici da dedicare all’approfondimento investigativo del singolo caso e, dall’altro, per il ricorso sempre più diffuso da parte dei responsabili delle attività produttive, e nei più svariati comparti, al modello gestorio dell’impresa individuale che, più di ogni altro, mediante l’impiego illecito del prestanome, consente di realizzare una clandestinizzazione della figura del reale datore di lavoro, ossia dell’effettivo soggetto responsabile. D’altra parte, la sfida che si pone agli operatori del diritto, ed in primo luogo a pubblici ministeri e giudici chiamati a risolvere le questioni sulla riferibilità soggettiva della responsabilità per infortunio sul lavoro e malattie professionali non pare rinviabile, tenuto conto del monito specifico che sul punto è venuto dalle Sezioni unite della Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. Un., 18 settembre 2014 n. 38343 sul noto caso Thyssenkrupp), le quali hanno ricordato che, anche nello specifico settore della sicurezza del lavoro, “…lo scopo del diritto penale, tuttavia, è proprio quello di tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori”. Da qui la scelta di proporre stimoli e riflessioni per indirizzare in concreto l’azione degli investigatori prima, e dei giudici poi, nelle indagini e nel processo penale sul lavoro, alla ricerca del reale garante del rischio lavorativo, con particolare riferimento ai contesti lavorativi gestiti da imprese individuali le quali, come detto, più di altre si possono prestare ad occultare il garante effettivo del rischio, con l’effetto ultimo di scaricare il giudizio di responsabilità soggettiva su un mero capro espiatorio.
2. L’ineludibile attualità degli infortuni sul lavoro: i numeri di un’emergenza
I numeri degli infortuni sul lavoro in genere, e degli eventi mortali più in particolare, dimostrano all’attualità come il tema della sicurezza sul lavoro rischi di diventare un fenomeno patologico ormai cronicizzato del sistema economico imprenditoriale nazionale, capace di coinvolgere svariati comparti produttivi. Un rapido sguardo ai numeri, ufficiali, non può che corroborare tale considerazione. Alla fine di ottobre 2023 l’Inail ha pubblicato i dati consolidati degli infortuni sul lavoro e malattie professionali relativi all’anno 2022[1]. Ebbene, i dati evidenziano in primo luogo che in detta annualità sono state effettate 703.432 “denunce di infortunio”, con un aumento del 24,6% rispetto al 2021 (+139mila casi), dovuto sostanzialmente in ugual misura sia al più elevato numero di denunce di infortunio da Covid-19 (dai circa 49mila del 2021 ai 120mila del 2022, pari a +71mila casi), sia alla crescita degli infortuni “tradizionali”. Ne consegue che l’aumento delle denunce non risulta essere stato condizionato in via assoluta dal fenomeno contingente della pandemia, anche se è vero che tale aumento si riduce, al netto dei contagi, a livello nazionale, dal +24,6% al +13,2%[2]. Laddove poi si passa ad analizzare all’interno della macroarea degli infortuni quelli che hanno prodotto un esito mortale, e come tali rappresentano un indice di massimo allarme per la valutazione delle condizioni di rischio cui sono esposti i lavoratori, emerge che con l’ultima rilevazione al 30.04.2023 le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Inail nell’intero anno 2022 sono state 1.208, ossia 118 casi in più (+10,8%) rispetto alle 1.090 rilevate quattro mesi prima, al 31.12.2022[3]. Anche in tal caso, scorporando le denunce mortali connesse a casi di Covid-19, ossia le denunce con esito mortale “tradizionale”, nel 2022 risulta un aumento dello 0,8% rispetto al 2021, e più decisamente rispetto al 2020 (+14,2%), dove però il blocco di molte attività e il massiccio ricorso al lavoro agile per la pandemia aveva contenuto il numero degli infortuni sul lavoro e in itinere “tradizionali” non letali. Tra i settori di attività economica con il più elevato numero di decessi in occasione di lavoro nel 2022 si segnalano le Costruzioni (143 casi, -23,1% rispetto al 2021), il Trasporto e magazzinaggio (126, -19,2%) e il comparto Manifatturiero (114, -23,5%). Dal punto di vista dei lavoratori, sono diminuite le denunce di infortunio mortale per i lavoratori italiani (da 1.205 a 970, -19,5%), e sono invece aumentate quelle degli extracomunitari (da 164 a 178, +8,5%) e comunitari (da 56 a 60, +7,1%). A livello territoriale emerge infine un decremento diffuso in tutte le aree ma con diversa intensità: al notevole calo del 29,7% registrato nel Sud (109 denunce mortali in meno), segue, in termini percentuali, quello delle Isole (-14,0%, 16 casi in meno), del Nord-est (-11,5%, -36 casi), del Nord-ovest (-10,5%, - 38 casi) e del Centro (-6,6%, -18 casi). La sintesi appare impietosa: di lavoro si continua a morire, lo si fa ad ogni latitudine del territorio nazionale, e nei più svariati comparti produttivi. Il tema degli infortuni sul lavoro costituisce pertanto, ancora, un’attualità ineludibile, rispetto al quale il pubblico ministero e il giudice sono chiamati a svolgere nel processo penale per infortunio sul lavoro la loro parte attiva con professionalità, scrupolo e rigore, al fine della compiuta ricostruzione dell’evento lesivo e dell’accertamento delle cause che l’hanno determinato in concreto, nella prospettiva ultima anche di individuare il reale soggetto responsabile.
3. L’impresa individuale: numeri, vantaggi e rischi del “modello gestorio” statisticamente prevalente
La seconda realtà statisticamente comprovata dai numeri, che potenzialmente rischia di impattare sul complesso percorso di ricerca dell’individuazione del garante del rischio lavorativo è connessa al modello gestorio. Secondo i dati di Unioncamere alla fine del 2022 in Italia risultano iscritte oltre 6 milioni di imprese nel Registro delle imprese[4]. Rispetto al dato complessivo, per la precisione 6.019.276 - che ricomprende il numero complessivo di imprese senza tener conto dello stato attivo, inattivo, sospeso, in liquidazione - sono 5.129.335 le unità di “imprese attive”, ossia le imprese che oltre ad essere iscritte al Registro delle imprese hanno effettuato la comunicazione di inizio (o ripresa di) attività alla Camera di commercio. In questo numero sono ricomprese realtà molto diverse, dalle ditte individuali, alle imprese agricole e familiari, fino alle società di persone e di capitali. Il dato delle imprese individuali è però il più alto, pari al 50,8%, ben più elevato del valore delle imprese collettive “complesse”, avuto riguardo al dato del 30,8% costituito dalle società di capitale. Se si rivolge lo sguardo alla distribuzione territoriale emerge che la maggior parte delle aziende italiane si trova nelle regioni del Nord, il 45%, di cui il 26% nel Nord-Ovest e il 19% nel Nord-Est. A seguire ci sono Sud e Isole, dove risultano registrate oltre due milioni di imprese (il 35%) e infine il Centro (20%). Quanto alla distribuzione delle imprese nei vari comparti produttivi, il primato è quello del commercio (25,7%), seguito dalle costruzioni (14,9%), agricoltura (12,8%) e la manifattura (9,4%). Significativo elemento di novità rispetto al passato è il trend di crescita delle imprese straniere, pari a 650 mila. La crescita si è verificata soprattutto negli ultimi cinque anni (+7,6%), mentre nello stesso periodo le imprese avviate da persone nate in Italia sono diminuite del 2,3%. Parlando in termini assoluti, dal 2018 al 2020 le imprese avviate da cittadini stranieri sono aumentate di 45.617 unità, mentre le realtà imprenditoriali avviate da persone nate in Italia sono diminuite di oltre 126 mila unità. Il settore più rappresentativo delle imprese avviate da cittadini stranieri è quello delle costruzioni (18,4%), seguito dai servizi alle imprese (16,8%), dal commercio (14,3%) e da alloggio e ristorazione (11,9%). La regione con la maggior concentrazione di imprese straniere è la Liguria (15,2% del totale); a seguire Toscana (15,1%) ed Emilia-Romagna (13,5%). Dunque, il modello gestorio privilegiato della nostra economica è quello dell’impresa individuale, uno schema a cui si ricorre nei più svariati settori produttivi. Le ragioni sono plurime e riconducibili ad opzioni sia perfettamente lecite, che illecite. Sotto il primo profilo si segnalano, ad esempio, quelle economiche. La costituzione di una ditta individuale, infatti, rispetto al ricorso all’impresa collettiva, consente di ottenere indubbi benefici economici sia in fase di apertura - contenendo i costi, che saranno limitati all’iscrizione alla Camera di Commercio, Industria e Artigianato, anziché notarili, richiesti per la costituzione in forma di atto pubblico necessaria per le imprese collettive (societarie) -, che nel corso della vita dell’impresa, in ragione della semplificazione generalizzata delle obbligazioni fiscali, e del ricorso al regime di contabilità semplificata. A ciò si aggiungano ragioni connesse all’opzione operativa gestionale, che nel caso di impresa individuale assicura maggiore garanzia di autonomia e rapidità delle decisioni, che prescindono dal confronto con altre persone, come avviene invece anche per le imprese societarie più semplici. Quanto, invece, alla motivazione che sottende a scelte illecite, rileva prevalentemente la motivazione economica. L’imprenditore individuale, infatti, nel caso di debiti contratti dalla sua azienda assume personalmente il rischio di dovervi fare fronte con il proprio patrimonio. Ecco allora che per evitare un simile rischio, l’imprenditore - ossia il datore di lavoro effettivo, soggetto su cui dovrebbe gravare l’obbligo di garante del rischio - può optare per intestare l’attività ad un mero prestanome, che gli potrà garantire non solo di andare esente dalla responsabilità economica connessa alla gestione dell’impresa, ma anche, più in generale, l’ impunità per i reati commessi nell’esercizio dell’attività di impresa, fra cui anche eventualmente la responsabilità penale per il caso di eventi infortunistici o malattie professionali connesse alla violazione della normativa prevenzionistica.
4. Il principio di effettività datoriale come “contromisura” al ricorso all’impresa individuale per finalità illecite
Svolte le predette considerazioni sui potenziali rischi che in punto di individuazione del reale garante del rischio lavorativo possono derivare, da un lato, dai numeri emergenziali complessivi degli infortuni sul lavoro e, dall’altro, dalla scelta sorretta da finalità illecite di ricorrere al modello gestorio dell’impresa individuale, rileva riflettere sulle possibili contromisure che il sistema normativo prevenzionistico, anche per come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, offre al pubblico ministero e al giudice chiamati a risolvere la questione della riferibilità soggettiva della responsabilità penale nei casi di infortunio sul lavoro e malattie professionali. In via di principio, si può osservare come nei casi di impresa esercitata in forma individuale dovrebbe essere pacifica la soluzione offerta alla questione dell’individuazione del garante del rischio datoriale, tenuto conto del fatto che il datore di lavoro in senso penalistico coincide con quello avente rilievo giuslavoristico. Nell’impresa individuale, infatti, vi è identità soggettiva fra chi esercita il ruolo e l’attività di impresa. L’imprenditore individuale è pertanto necessariamente anche il datore di lavoro, e come tale il principale debitore di sicurezza, in quanto soggetto che proprio in ragione della qualifica ricoperta ha il compito di organizzatore del sistema produttivo, essendo chiamato ad assicurare tutela a quei beni che potrebbero essere potenzialmente lesi in conseguenza dello svolgimento del processo produttivo di impresa. Laddove invece il datore di lavoro di diritto, ossia quello individuato in base al criterio formale di cui all’articolo 2 lettera b) del Tusl, non risulti minimamente coinvolto nella gestione, ossia proprio nel caso patologico di attività intestata ad un mero “prestanome”, può soccorrere il principio di effettività. Il vigente sistema prevenzionistico, infatti, disciplina, accanto alle posizioni di garanzia originarie legali, fra cui in primis quella datoriale (art. 2 d.lgs. 81/2008), anche le corrispondenti figure che di fatto, ossia coloro che nell’ambito dell’organizzazione di lavoro, esercitano il ruolo, i poteri e la funzione, che la legge prevede normativamente per le posizioni di garanzia di diritto (datore di lavoro, nonché dirigente e preposto). Il disposto normativo che in tal caso viene in rilievo è l’articolo 299 del Tusl, significativamente rubricato “Esercizio di fatto dei poteri direttivi”. Tale norma prevede che “…le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e) [rispettivamente, appunto, il datore di lavoro, il dirigente e il preposto, N.d.A.] gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”. Dunque, l’articolo 299 del Tusl fissa in via normativa l’equiparazione tra l’esercizio di fatto dei poteri giuridici riferiti alla qualifica datoriale e l’acquisto della corrispondente posizione di garanzia penalmente rilevante. In altre parole, al pari di una valida ed efficace investitura civilistica, può essere altresì rilevante lo svolgimento, in concreto, delle funzioni o mansioni tipiche del datore di lavoro. In definitiva, volendo delineare un quadro di sintesi dei rapporti tra l’art. 2 e art. 299 Tusl si può osservare che mentre la nozione legislativa di datore di lavoro (art. 2 lett. b) ha come referente operativo un contesto di lavoro “fisiologico”, ossia quello in cui, in particolare proprio per l’impresa individuale alla qualifica formale segue l’effettivo esercizio dei poteri gestori, la clausola di equiparazione espressa (art. 299), ha la funzione di estendere la responsabilità a carico della posizione di garanzia originaria che opera in una realtà imprenditoriale caratterizzata da profili “patologici”, nella quale non vi è coincidenza tra il soggetto ritualmente investito della qualifica, e il soggetto in concreto impegnato nella gestione dell’impresa, come nel caso di imprese individuali intestate dal reale imprenditore ad un prestanome, con l’obiettivo ultimo di garantirsi l’impunità dalle responsabilità connesse agli obblighi discendenti dalla normativa prevenzionistica. Ecco allora che, proprio per superare lo schermo del prestanome nelle imprese individuali, riferendo la responsabilità soggettiva al reale imprenditore, il principio di effettività che opera come “clausola di equivalenza” nella estensione della posizione di garanzia datoriale, rappresenta lo strumento normativo cui ancorare il procedimento probatorio di riferibilità soggettiva, al fine di colpire il garante effettivo del rischio, assicurando lo scopo ultimo del diritto penale, ossia la ricerca delle reali responsabilità e non meri “capri espiatori”.
5. Gli strumenti di ricerca della prova della posizione datoriale di fatto nell’impresa individuale: fonti dichiarative, perquisizioni e sequestri, acquisizioni documentali, intercettazioni telefoniche e tabulati
Le considerazioni svolte sulla funzione assegnata dal legislatore al principio di effettività costituiscono la premessa indispensabile per comprendere gli spunti di riflessione, e i suggerimenti pratici, volti ad operare in concreto, nel procedimento penale per infortunio sul lavoro, maturato in un contesto di impresa individuale, alla ricerca di elementi di prova in grado di sostanziare la riferibilità soggettiva al garante di fatto, ossia all’imprenditore occulto, che per scelta mirata, quella di perseguire un’impunità generalizzata dalle conseguenze del rischio lavorativo non adeguatamente gestito, si è clandestinizzato dietro lo schermo del titolare formale prestanome dell’impresa individuale. In primo luogo, un contributo essenziale a tal fine può venire dalle fonti di natura dichiarativa. Il ruolo dei possibili testimoni nelle indagini per infortuni sul lavoro, infatti, può assumere rilevanza decisiva non solo per ricostruire l’evento lesivo, riferendo elementi relativi alla materialità del fatto, ma anche in punto di organizzazione del lavoro, e quindi di individuazione del soggetto responsabile. L’ascolto dei dichiaranti, però, impone di distinguere da un lato, le fonti di prova dichiarative interne all’organizzazione di lavoro investigata e, dall’altro, quelle esterne ad essa. Le fonti dichiarative interne sono rappresentate da coloro che con diverso ruolo, compito e funzione, operano stabilmente nel contesto lavorativo in cui ha avuto luogo l’infortunio. Esse, pertanto, proprio perché intranee all’organizzazione imprenditoriale - e quindi a conoscenza delle dinamiche operative del processo produttivo e degli indirizzi decisionali sulla vita di impresa -, rappresentano un sicuro bacino di conoscenza della posizione soggettiva datoriale, e dunque il loro ascolto può rivelarsi essenziale per l’individuazione del soggetto responsabile, anche laddove lo stesso assuma la veste del garante di fatto. Con riferimento al tempo dell’audizione delle fonti dichiarative interne, la prassi dimostra l’importanza di un’acquisizione “a caldo” di informazioni rispetto all’evento infortunio, per evitare di condizionarne la genuinità dell’apporto dichiarativo, in conseguenza dei rischi di inquinamento connessi al contesto di lavoro, soprattutto quando detti possibili testimoni sono rappresentati dai lavoratori subordinati, al contempo colleghi dell’infortunato e dipendenti del potenziale responsabile dell’infortunio. Quanto invece all’oggetto specifico dell’esame, sarà importante concentrare l’ascolto della fonte dichiarativa su tutto quanto risulta funzionale ad individuare la figura che di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro di diritto - secondo il costante insegnamento della giurisprudenza della Suprema Corte, per affermare la responsabilità del garante di fatto (vedasi da ultimo anche Cass. Sez. 4, 6.2.2018, n. 12643, Sez. 4., 10.10.2017, n. 50037, Sez. 4, 4.4.2017, n. 22606) -, con l’obiettivo di verificare, se accanto o anche oltre alla figura formale, vi sia qualcuno che “…ha la responsabilità dell’organizzazione…in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa”, in quanto in grado di decidere, ad esempio, l’assunzione dei lavoratori, o come ripartire le mansioni agli stessi, o come corresponsione gli stipendi, sulle modalità con cui relazionarsi sempre a fini di spesa con i fornitori, i manutentori, e la rete commerciale di rivendita. Altrettanto utili possono poi essere le informazioni acquisibili da soggetti terzi estraneiall’attività di lavoro. Per essi, innanzitutto, risulta generalmente minore le difficoltà connesse all’assunzione, in quanto l’estraneità al contesto lavorativo li preserva da rischi di condizionamento ed inquinamento. Tendenzialmente l’assunzione come fonti dichiarative ne disvelerà genuinità quanto alla ricostruzione del fatto conosciuto ed ai soggetti coinvolti, potendosi in contrario evidenziare un difetto di specificità nella rappresentazione dell’organizzazione del lavoro. Per questa ragione appare opportuno che il pubblico ministero riesca ad operare a monte una corretta selezione delle fonti dichiarative esterne, in modo da procedere in concreto all’esame soltanto di quelle che possano essere potenzialmente in grado di fornire un contributo utile alle indagini. La soluzione al problema dell’individuazione delle fonti dichiarative esterne al contesto di lavoro investigato utili può venire dal ricorso anche ad altri mezzi di ricerca della prova, fra cui in primo luogo le perquisizioni, i sequestri, gli ordini di esibizione, strumenti tutti connotati dall’invasività come un minimo comune denominatore, poiché consentono di entrare nella vita dell’organizzazione di impresa prescindendo da una disponibilità e collaborazione spontanea offerta dai responsabili della stessa. Il pubblico ministero nel decidere cosa ricercare all’interno del luogo di lavoro in cui si è verificato l’infortunio non può dimenticare che l’attività di impresa, in qualunque forma essa venga esercitata, si caratterizza per essere “…un’attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi” (art. 2082 c.c.). Se dunque “fare impresa” significa organizzare in modo professionale il lavoro con lo scopo di produrre beni e servizi da destinare a terzi, esterni all’impresa, al fine di conseguimento di profitto, il pubblico ministero potrà individuare potenziali fonti di prova dichiarative utili per ricostruire l’organizzazione del processo produttivo ed il gestore reale di esso, attraverso il confronto con: coloro che hanno rapporti di fornitura della materia prima lavorata nel processo produttivo oggetto di accertamento; coloro che forniscono periodicamente supporto tecnico esterno al processo produttivo; coloro che svolgono attività ausiliarie, come quelle connesse alla rappresentanza funzionale alla commercializzazione dei prodotti realizzati; coloro che costituiscono il vasto e variegato mondo della clientela dei beni prodotti dall’impresa, quali i soggetti intermedi (si pensi ai grossisti), o i rivenditori al dettaglio (ultimo segmento della commercializzazione). Tutti questi soggetti possono rappresentare una “potenziale fonte dichiarativa” - che seppur esterna al contesto lavorativo - sia in grado di riferire circostanze utili per addivenire ad una compiuta ricostruzione dell’organizzazione del lavoro e, attraverso di essa, per l’individuazione del reale soggetto responsabile, il garante di fatto. É evidente che nel fare ricorso ai predetti strumenti di ricerca della prova, la perquisizione ed il sequestro, sarà necessario per il pubblico ministero abbia cura di rispettare i limiti imposti dalla disciplina processualpenalistica, per come interpretata ormai dalla giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, in particolare facendo attenzione a motivare sul vincolo di pertinenzialità esistente fra l’ipotesi criminosa per cui procede - l’infortunio sul lavoro - e il bene che viene dapprima ricercato, e poi assoggettato a vincolo. In tal senso, si osserva, tutto ciò che risulta espressione dell’organizzazione del processo lavorativo in cui si ipotizza essere maturata la violazione in materia di sicurezza, risulta ragionevolmente rientrare nel concetto di pertinenzialità. Così sarà, ad esempio, adeguatamente motivabile il vincolo su una pluralità di documenti quali: i documenti di trasporto (che potranno consentire di acquisire informazioni su soggetti che hanno trasportato beni da o verso l’impresa, sui destinatari o sui fornitori); gli atti di contabilità (che potranno consentite di risalire al fornitore della merce o al destinatario della stessa); i documenti relativi alle manutenzioni periodiche cui sono sottoposte solitamente le macchine utilizzate nei sistemi produttivi (per facilitare l’individuazione dei referenti della manutenzione stessa). In terzo luogo, oltre alle fonti dichiarative e ai mezzi di ricerca della prova invasivi, ulteriori informazioni utili nel percorso di ricerca del reale garante del rischio lavorativo, celatosi dietro lo schermo del prestanome, potranno venire dalle acquisizioni documentali, le quali oltre che all’interno dell’impresa, possono essere ricercate attraverso una mirata analisi delle banche dati, cui hanno solitamente accesso le forze di polizia giudiziaria. All’attualità, infatti, esistono una pluralità di enti pubblici, o di enti privati di diritto pubblico, che possono costituire una potenziale fonte di conoscenza per le indagini penali interessate ad acquisire informazioni, o anche soltanto meri spunti investigativi, utili per individuare il reale titolare della posizione di garanzia all’interno dell’organizzazione di lavoro. Si pensi a quanto accade per le banche dati gestite dall’Inps, l’Inail, l’Agenzia delle Entrate o le Camere di Commercio, tutte caratterizzate da un minimo comune denominatore, ossia l’essere alimentate da informazioni che vengono trasmesse da soggetti terzi, solitamente per via telematica. I dati trasmessi, una volta acquisiti dall’ente destinatario, vengono elaborati e catalogati secondo le specifiche finalità dell’ente stesso. Ebbene, proprio l’acquisizione di informazioni in merito al soggetto che ha trasmesso il dato di interesse per l’ente può diventare il primo passaggio per risalire al reale titolare dell’informazione che è stata comunicata. Le informazioni sono quelle che attengono alla vita d’impresa, e riguardano diversi contenuti a seconda dell’ente cui l’informazione viene comunicata[5]. É proprio dall’acquisizione delle informazioni sul “soggetto trasmittente il dato”, che solitamente potrà avvenire, ad esempio, attraverso l’emissione da parte del PM di un ordine di esibizione ex art. 256 c.p.p., che sarà possibile o individuare il soggetto che direttamente è titolare di quelle informazioni - e come tale inevitabilmente soggetto o personalmente coinvolto nella gestione dell’impresa, o a conoscenza diretta di dati fondamentali della vita di impresa e del soggetto che la dirige, anche sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro - oppure, in alternativa, risalire ad un soggetto “intermedio” rispetto al reale titolare del dato comunicato, tenuto conto che nella prassi sovente si verifica che siano i professionisti (commercialisti, consulenti contabili, consulenti del lavoro…) a curare, per conto dei loro clienti, le fasi della trasmissione delle comunicazioni aventi ad oggetto la vita dell’attività d’impresa; anche in tale ultima ipotesi si sarà comunque raggiunto l’obiettivo di acquisire informazioni di interesse investigativo su colui che, nel quotidiano svolgersi della vita di impresa, si incarica di curarne i rapporti e di perseguirne gli interessi, nella delicata fase della relazione con i propri professionisti, siano essi commercialisti, consulenti del lavoro o studi di elaborazione dati, e pertanto sarà possibile verificare se accanto al rappresentante legale dell’attività di impresa si muova un soggetto che in forma occulta agisce e decide per l’organizzazione di impresa che, come tale, potrà assumere la veste di datore di lavoro di fatto. In via conclusiva, un breve riferimento ai mezzi di ricerca della prova di natura tecnica, quali le intercettazioni e i tabulati telefonici. Le prime, in ragione dei limiti di ammissibilità disciplinati dall’art. 266 c.p.p., che ne limitano il ricorso ai delitti dolosi, risultano generalmente precluse nelle investigazioni in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro, tenuto conto che la maggior parte degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali sono collegate ad ipotesi di colpevolezza colposa. Residua però la possibilità di fare ricorso all’utilizzo delle captazioni telefoniche, telematiche ed ambientali, nel caso in cui si proceda per il delitto di all’art. 437 c.p., in forma aggravata, che, come noto per la giurisprudenza di legittimità, può essere integrato anche nel caso di un “singolo infortunio”, sia esso con esito mortale che di mera lesione per il lavoratore subordinato, e che ben può concorrere anche con ipotesi di responsabilità colposa per lesioni o morte del lavoratore. In termini di utilità investigativa, invece, deve sottolinearsi il potenziale contributo utile che potrebbe venire dall’acquisizione (ed analisi) delle risultanze dei tabulati telefonici; soltanto a titolo esemplificativo, infatti, si pensi che da una mirata analisi delle celle telefoniche relative all’utenza in uso al soggetto che si ipotizza svolgere una funzione di datore di lavoro di fatto nel contesto di lavoro in cui è maturato l’infortunio, potrebbero emergere importanti elementi di prova a suo carico, quale la dimostrazione della sua costante presenza sul luogo di lavoro nel tempo, anche prima del verificarsi dell’evento illecito, così di fatto ancorandolo ad un contesto produttivo rispetto al quale, invece, almeno formalmente, dovrebbe apparire del tutto estraneo. Da ultimo, un contributo che può venire dalle annotazioni di polizia giudiziaria ex art. 357 c.p.p. redatte in sede di primo sopralluogo, e diverse dal verbale di accertamenti e rilievi ex art. 354 c.p.p., che deve svolgere la funzione essenziale di “fotografare” il luogo in cui si è verificato materialmente l’evento lesivo dell’infortunio. La prassi investigativa consente di affermare che sin dal “primo accesso” sul luogo di lavoro possono talvolta emergere elementi sintomatici di una non corrispondenza fra la titolarità formale della posizione di garanzia di datore di lavoro, e l’esercizio in concreto dei poteri di organizzazione del lavoro. Una simile situazione si verifica solitamente proprio in contesti lavorativi non complessi, come quelli delle imprese individuali. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui a fronte di tale accesso il datore di lavoro formale non sia immediatamente presente e non sia rintracciabile, oppure se presente non appaia ictu oculi il gestore dell’attività, per le modalità con cui si relaziona con il personale di polizia giudiziaria specializzata. Ebbene, in tal caso risulta importante che il pubblico ministero sensibilizzi la polizia giudiziaria del primo sopralluogo a redigere un’apposita annotazione in cui venga dato conto proprio dell’anomalia fra quanto emerso in concreto, e quanto invece ci si sarebbe potuti attendere in astratto, avuto riguardo alla titolarità formale dell’impresa controllata, così acquisendo al procedimento, seppur in fase embrionale, uno spunto utile per approfondire nel corso della successiva investigazione se sussiste o meno una posizione datoriale di fatto.
[1] Per un’analisi di dettaglio vedasi i contenuti della pubblicazione Inail, ottobre 2023 dal titolo: “Andamento degli infortuni sul lavoro e malattie professionali”, dati consolidati 2022.
[2] L’analisi disaggregata dell’aumento delle denunce tra il 2021 e 2022 è legato sia alla componente femminile che sale del 40,5% (da 206mila a 289mila) sia a quella maschile con +15,6% (da 359mila a 415mila), ed ha interessato sia i lavoratori italiani (+25,8%) che quelli extracomunitari (+20,6%) e comunitari (+15,6%). A livello di distribuzione territoriale oltre il 60% dei casi del 2022 sono stati denunciati al Nord, circa il 20% sia al Centro, che al Meridione.
[3] La rilevazione più aggiornata ha consentito di conteggiare anche i casi di infortunio mortale denunciati tardivamente rispetto al 31.12.2022 e di registrare come mortali quei casi di infortunio che pur avvenuti entro il 2022 ma non immediatamente letali, hanno visto sopraggiungere il decesso successivamente alla rilevazione di fine anno.
[4] Vedasi per informazioni di dettagli il sito https://www.unioncamere.gov.it.
[5] Ad esempio: all’INPS e all’INAIL vengono comunicati i dati relativi all’assunzione dei lavoratori, al loro inquadramento, ai tempi di lavoro e alla retribuzione dovuta; all’Agenzia dell’Entrate le dichiarazioni rese in adempimento degli obblighi fiscali; alle Camere di Commercio le comunicazioni relative ai momenti fondamentali della vita dell’impresa, quali l’inizio e la cessazione dell’attività, la tipologia dell’attività, la forma giuridica di gestione della stessa.
Il diritto di andarsene. Filosofia e diritto del fine vita tra presente e futuro. Dialogando con Giovanni Fornero
di Ugo Adamo
“una libertà che nega la vita non è libertà...
una vita che nega la libertà non è vita”[1]
Sommario: 1. Un testo imprescindibile – 2. Dialogando con Giovanni Fornero – 3. C’è ancora domani ‒ 4. La vita non è un valore.
1. Un testo imprescindibile
In tema di decisioni sul fine vita, fra i libri più importanti pubblicati nell’anno 2023 vi è senza alcun dubbio il testo di Giovanni Fornero, Il diritto di andarsene. Filosofia e diritto del fine vita tra presente e futuro, che ‒ anche alla luce della recente ordinanza di rinvio del GIP di Firenze[2] al giudice costituzionale al quale si rimette la questione sul ‘novellato’[3] art. 580 c.p. in tema di aiuto al suicidio ‒ sarà in medias res fra i testi più letti del 2024.
Il filosofo Giovanni Fornero offre un’analisi approfondita del concetto di libertà individuale, esaminato attraverso diverse prospettive (filosofica e giuridica, bioetica e biogiuridica) e diversi contesti ordinamentali (statali, internazionali e sovranazionale).
L’autore – troppo noto per richiamarne anche solo alcuni elementi biografici – si mostra al lettore, ancora una volta, nelle vesti di giusfilosofo, non solo offrendo una panoramica completa su un tema tanto cruciale quanto attuale, ma anche proponendo una vera e propria teoria sulla disponibilità della vita. Teoria che ha iniziato a sviluppare con la pubblicazione[4] ‒ nel 2020, sempre per i tipi della UTET ‒ del monumentale Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria.
Diverse, dunque, sono le letture che si possono fare del Volume e, quindi, pure le riflessioni da proporre; qui, ci si limita solo a due, strettamente correlate fra di loro: l’infondatezza teorica e pratica della teoria del pendio scivoloso e la parzialità della giurisprudenza costituzionale (di legittimità e di ammissibilità) in tema di decisioni di fine vita (pp. 301 ss.).
Con la chiarezza che contraddistingue l’allievo di Nicola Abbagnano in tutti i suoi scritti, anche in questo caso Fornero esprime le sue idee, complesse e articolate, in modo chiaro e intellegibile anche per chi non è cultore della materia; il testo è quindi rivolto anche ai non esperti nel campo del diritto e/o della filosofia. Un pubblico di lettori che in merito alle questioni del processo del fine vita è sempre più disorientato, non solo perché la morte continua a essere un tabù massmediatico[5] e legislativo, ma anche perché, quando se ne discute, è difficile per gli interlocutori non scivolare nel ‘conflitto’ anche quando non è nelle loro intenzioni[6].
Il merito del libro recensito è allora quello di (ri)portare il dibattito, al di là delle recinzioni dottrinali e/o giurisprudenziali, su un terreno aperto e plurale offrendo una tesi argomentata in modo mite ma deciso, che può contribuire allo sviluppo del dibattito medesimo per chi ne avrà interesse.
Per Fornero, all’individuo deve essere riconosciuta la legittima facoltà di disporre della propria vita così come il conseguente diritto di congedarsi da essa. All’individuo, quindi, deve essere riconosciuta la piena e libera disponibilità della propria vita.
Fornero arriva a questa conclusione criticando due opposte ‘incoerenze’ filosofiche: quella di credere che la vita solo in certuni casi sia disponibile pur essendo strutturalmente indisponibile; e ancora, quella di credere in una disponibilità solo “ridotta della vita”, id est in una disponibilità consentita solo in una casistica prefissata di situazioni (pp. 31 ss.).
Se nell’ordinamento non vige un dovere di vivere, allora è necessario ‘prendere sul serio’ il principio autonomistico della disponibilità della vita senza porsi in una situazione di chiara incoerenza logica. La determinazione di fissare dall’esterno dei limiti alla morte autoinflitta significa ‒ sempre per l’A. ‒ scadere nel più classico dei paternalismi. Detto in altro modo, non ci si dovrebbe sostituire al singolo in valutazioni che dovrebbero essere riservate a lui e solo a lui. Se si può disporre della propria vita, si può anche ritenere che l’individuo possa lecitamente farlo non solo in solitaria ma anche con la cooperazione di altri (p. 39) purché ‒ questo il non possumus posto da Fornero ‒ sia salvaguardata la libertà di scegliere e di decidere del soggetto interessato così come dei terzi disposti ad aiutarlo o comunque a garantire che la sua determinazione (esercitata in modo libero e consapevole) abbia un seguito[7].
Al fine di corroborare la sua tesi, l’A. cita (e critica per la sua parzialità) ampi passi di una rilevante giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca che ha avuto modo di affermare[8], nel 2020, che il diritto al suicidio discende dal libero sviluppo della personalità e quindi dallo stesso principio della dignità umana, così come positivizzato nella Legge Fondamentale di Bonn.
Fornero non esita a condurre a logiche conclusioni il suo ragionare, giungendo a concettualizzare il diritto di morire[9]. La conseguenza è quella di sottoporre a serrata critica tutti coloro che in modo ‘acrobatico’ cercano di legittimare le differenze che intercorrono tra lasciarsi morire e diritto all’aiuto a morire medicalmente assistito, … L’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente per l’A. sono da considerarsi fattispecie che rientrano nel diritto di morire (p. 75) e che, quindi, pur differenziandosi nella modalità di esecuzione, rimangono strutturalmente simili nel loro significato esistenziale ed etico (p. 81). Differentemente da quanto opinato da alcuni, e fra questi anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[10], il diritto di morire non è l’opposto del diritto di vivere in quanto il suo profilo negativo è il dovere di vivere; non esiste dunque alcun obbligo o dovere di vivere, e di vivere a tutti i costi. E allora, prendendo sul serio il diritto di morire (che dovrebbe essere concepito come articolazione interna del diritto di vivere, p. 85) si dovrebbe finalmente dar corso all’emersione di un nuovo paradigma[11] che superi quello tradizionale e che faccia ‘vedere’ le cose diversamente: è necessario che ci si approcci al proprio fine vita nei termini di diritto di morire per far sì che la precomprensione paradigmatica dell’interprete possa leggere nel modo corretto ciò che si chiede e ciò che si fa per dare seguito a una richiesta legittima: la vita è disponibile o è indisponibile, tertium non datur. Non dovrebbe quindi sussistere il paradigma misto ovverosia quello che si pone in una fase intermedia o, secondo l’autore, in una di passaggio tra i due paradigmi.
Nel tempo attuale, saremmo proprio in tale fase di transizione, che è di compromesso perché imperniata acrobaticamente intorno alla logica dell’et-et, teleologicamente orientata, in un prossimo futuro, a una fase in cui vigerà, secondo la logica dell’aut-aut, il paradigma disponibilista che si porrà in termini antitetici rispetto a quello indisponibilista (p. 100).
2. Dialogando con Giovanni Fornero
Si è d’accordo con l’A. sul fatto che attualmente il paradigma sia quello misto (p. 101), forse un po’ meno sulla circostanza che questo rappresenti naturaliter un periodo di transizione verso un paradigma pienamente disponibilista.
Chi scrive pensa ‒ per come finora ha avuto modo di argomentare[12] ‒ che non esista un diritto di morire, perché (costituzionalmente parlando) esiste(rebbe) un diritto a disporre della propria vita (ma solo) in un contesto eutanasico. Certo, i limiti (“la cintura protettiva” per impiegare una felice espressione della Corte[13]) che oggi esistono per richiedere l’aiuto al suicidio[14] e ancor più per l’omicidio del consenziente[15] sono troppo stretti, tanto che sia all’A. che allo scrivente paiono irragionevoli, e quindi incostituzionali.
In sede di recensione, pare interessante provare a dialogare (seppur retoricamente) con l’A. (p. 161, pp. 286 ss.) su quali basi teoriche poter limitare la via autonoma di tipo autoeutanasico (p. 295). Detto in altro modo, come poter non dar seguito a decisioni suicide adottate da soggetto capace in assenza dei presupposti applicativi della pratica eutanasica? Con quali motivazioni giustificare il paternalismo in presenza di persona capace che vuole cagionare un danno a sé e solo a sé e vuole farlo in modo del tutto volontario?
La questione, dopo aver letto il libro di Fornero, appare tutto tranne che infondata, perché riguarda gli spazi che devono essere riconosciuti all’ordinamento giuridico, legittimato a intervenire per tutelare il ‘valore’ della vita.
Analizziamone le ragioni.
Per chi scrive, i limiti all’evoluzione moderna dell’eutanasia[16] devono essere inquadrati – e, quindi, legittimati – in un ordinamento in cui, seppure non esiste il dovere di vivere, l’interesse primario da tutelare è non solo il rispetto del principio di autodeterminazione, ma anche lo stesso diritto alla vita[17] e la funzione generalpreventiva c.d. positiva del diritto penale (che deve essere evidentemente laico e secolarizzato) che è posto a protezione proprio del bene primario della vita.
Quindi, “l’idea di legittimare l’uccisione di taluno deve trovare riscontro esterno basato sulla minore meritevolezza del bene-vita”[18], che viene oggettivato sulla base di criteri tassativi concernenti le condizioni in cui il soggetto cosciente deve trovarsi affinché la sua domanda possa essere presa in considerazione, non bastando, appunto, la sua mera richiesta[19], seppur priva di qualsiasi costrizione esterna o interna. I limiti a una richiesta eutanasica devono comunque essere motivati da esigenze che non si pongano in violazione irrimediabile della stessa dignità. Limiti che, quindi, a loro volta devono essere ragionevoli oltre che non assoluti.
Il bilanciamento non è da intendersi come impossibilità di sacrificare un diritto dinanzi a un altro[20], ma come valutazione simultanea delle situazioni che solo poi permettono la prevalenza di una tutela su un’altra. Solo così, del resto, si permette che la tutela non si trasformi in una tirannia preordinata e assoluta, id est, a prescindere. E infatti, divieti assoluti a una espressione di autonomia negano in radice[21] la richiesta di un soggetto di porre fine alla sua vita ritenuta non più degna di essere vissuta, determinano la ‘trasformazione’ del diritto alla vita in un dovere di vivere – non imposto dalla carta costituzionale – e non seguono la più ampia interpretazione dei valori di libertà, eguaglianza, solidarietà e dignità.
Che quella odierna sia una fase di transizione dal paradigma indisponibilista a quello disponibilista ovvero di assestamento del paradigma misto (intorno alla ragionevolezza della normativa o della giurisprudenza che a oggi nega o non tutela in modo pieno il principio di eguaglianza per condizioni personali) rimane la questione dibattuta insieme a quella che deve occuparsi non tanto dell’an quanto piuttosto del quomodo possano permettersi limiti al diritto di autodeterminazione.
Facendo nostre le tesi di Fornero, si afferma che l’ampliamento delle possibilità sulla decisione del proprio fine vita ‒ e quindi la riduzione dei limiti da prevedere come condizioni per poter richiedere l’aiuto medicalmente assistito a porre fine alle proprie sofferenze ‒ non sia in alcun modo riconducibile all’argomentazione del pendio scivoloso[22], ma sia piuttosto dovuto all’inveramento della vis espansiva del principio di eguaglianza declinato in termini di ragionevolezza (p. 141). E allora le norme penali che dettano divieti assoluti (si pensi alla fattispecie dell’omicidio del consenziente), basandosi sui rischi della china scivolosa, non risultano essere proporzionali al fine perseguito: la tutela della vita dei soggetti deboli (rectius vulnerabili)[23]. Fornero nel Capitolo IV sostiene in modo mirabile l’impossibilità di continuare ad argomentare sulla incompetenza del soggetto che decide in modo libero e lucido di scegliere di porre fine alle proprie sofferenze e sgombra il campo da aprioristiche e da acritiche generalizzazioni (p. 131).
Soffermiamoci, allora, su tale ultimo punto.
3. C’è ancora domani
Secondo l’A., se la tutela della vita propria non impedisce di rifiutare un trattamento sanitario salva vita o di interromperlo, lo stesso (analogamente) deve valere per chi chiede aiuto a morire, nella misura in cui la richiesta viene da persona che cerca la medesima morte dignitosa. Come si sa la Corte ha sposato questo orientamento nella discussa doppia pronuncia (207/2018 e 242/2019).
Il ragionamento alla base delle decisioni, però, non persuade del tutto. Chi recensisce ‒ anche se ora valuta tale dato come acquisito giurisprudenzialmente ‒ non può che sottolineare che le due fattispecie (il rifiuto delle cure e l’aiuto medicalizzato al suicidio e, a maggior ragione, l’omicidio medicalizzato del consenziente) sono distinte in ragione dell’azione compiuta dal medico (contra p. 141). Nel primo caso (il solo perfettamente rientrante nell’art. 32, c. 2, Cost.), il rifiuto delle cure non è causale per l’evento morte, ma per l’andamento naturale e incontrastato della patologia che, questa sì, condurrà inesorabilmente alla morte del paziente; al contrario, nel secondo caso l’aiuto al suicidio è ‘direttamente’ causale per l’evento morte. La differenza si fonda, quindi, sul ruolo del medico (il terzo) e non sulla richiesta del paziente, che, in effetti, chiede sempre la stessa cosa, ovverosia terminare la propria vita e con essa la condizione di sofferenza in cui il corpo lo ha imprigionato. L’impostazione metodologica assunta dalla Corte (in ord. n. 207/2018) le ha imposto di estendere all’aiuto medicalizzato al suicidio quanto l’ordinamento permette(va) solo per l’interruzione di cure salva vita con tutte le difficoltà interpretative e pratiche rilevate dallo stesso Fornero (pp. 166 ss.).
Ma ora, il principio di eguaglianza deve potersi esprimere in modo forte sia in tema di eutanasia che in tema di aiuto al suicidio. Inizierei col primo per poi specificare perché parlare anche del secondo, conformemente a quanto esposto nel Volume recensito.
Con una decisione (la n. 242/2019) che ha impiegato come tertium comparationis la l. n. 219 del 2017 (Norme in materia di consenso informato) e che si è piegata sul caso concreto, l’intervento giurisprudenziale prodotto è apparso subito parziale in special modo per il fatto che alcune gravi patologie non rendono sempre possibile che l’aiuto al suicidio possa concretizzarsi nel massimo atto autolesionistico (nel caso in cui, per esempio, si è costretti da paralisi totale), tanto che l’eutanasia si prospetterebbe come l’unica pratica in grado di dare seguito alla volontà del paziente di porre fine alle proprie sofferenze quando questi si trovi in una condizione di assoluto impedimento fisico. Non prendere in considerazione questa ipotesi ha significato (ancora oggi) non dare una risposta ‒ creando una discriminazione per motivi irrilevanti ‒ a chi è affetto da malattie gravemente invalidanti, non colmando in modo pieno la lacuna costituzionale sovente richiamata dalla Corte. Per lo ius superveniens prodotto dalla stessa Corte, la sentenza n. 242/2019 ha generato un moto di richiesta di riconoscimento di diritti per tutelare casi simili ma non uguali e per inverare il principio di eguaglianza e di non discriminazione per ‘condizioni personali’ ex art. 3, c. 1, Cost., proprio per i casi maggiormente meritevoli di considerazione.
Ma i problemi sono anche quelli inerenti all’aiuto al suicidio, e qui si è pienamente d’accordo con Giovanni Fornero.
Il fatto da cui partire sono le difficoltà operative per la mancata ottemperanza al giudicato costituzionale da parte del Parlamento. E allora, la sentenza numero 242/2019 costituisce un elemento fondamentale da cui muovere per comprendere oggi come può essere regolato l’accesso al suicidio medicalmente assistito (o ‒ come dovrebbe essere più correttamente definito ‒ aiuto medicalizzato a morire). Se questo è il punto di partenza, bisogna sottolineare che la sentenza del giudice costituzionale costituisce qualcosa di inoppugnabile che fa parte del nostro ordinamento giuridico; l’art. 137, c. 3, della Costituzione stabilisce, infatti, che le sentenze della Corte costituzionale non possono essere impugnate, tanto che l’aiuto al suicidio ha fatto ingresso in modo definitivo nel nostro ordinamento inserendo una procedura che non è parte della Costituzione, ma che la Corte costituzionale ha inserito nell’ordinamento ritenendo che fosse possibile ricorrere a questa procedura.
Quindi questa sentenza non può essere impugnata, ma ciò non significa che il Parlamento non possa disciplinare in altro modo la materia. Finché il Parlamento non interviene, però, tale sentenza costituisce la regola a cui bisogna fare riferimento.
Il dispositivo è quello per cui si dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della l. n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona (1) tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e (2) affetta da una patologia irreversibile, che è (3) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma (4) pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da (I) una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, (II) previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Dato questo formante normativo, che cosa sta accadendo?
Partiamo dal caso di Federico Carboni (detto Mario) in cui i tribunali sono intervenuti e hanno ordinato alle strutture sanitarie competenti e al comitato etico di intervenire dando vita per la prima volta in Italia all’accesso al suicidio medicalmente assistito.
Perché è interessante ricordare tale caso? Come ciò è stato possibile? Perché, dopo quasi due anni dalla richiesta di accesso al suicidio assistito, è stato presentato un ricorso in via d’urgenza al giudice civile e poi un reclamo rispetto alla sua decisione. Quindi abbiamo avuto due pronunce[24].
Nella prima è stato messo in discussione dal giudice di Ancona addirittura che la sentenza della Corte costituzionale fosse immediatamente applicativa. Ma la 242/2019, al di là delle oggettive difficoltà applicative[25], è auto-applicativa e lo è per definizione, come tutte le decisioni della Corte costituzionale.
Quindi, cosa sta accadendo ora rispetto a uno dei requisiti richiesti dalla Corte, ovverosia quello del trattamento sanitario vitale? Quello che per Fornero ‒ e a ragione ‒ costituisce un limite irragionevole.
Si contano almeno tre recentissime richieste di archiviazione di diverse procure della Repubblica che esprimono tre diverse sfumature interpretative sulla portata del requisito del trattamento vitale nei giudizi penali nei confronti di chi ha aiutato a morire persone che non possedevano i requisiti per scriminare il reato di cui all’art. 580 c.p.: Bologna[26], Milano[27] e Firenze[28].
Prima di richiamare l’ordinanza di rimessione del giudice per le indagini preliminare di Firenze dello scorso 17 gennaio, pare opportuno interrogarsi su cosa ci consegnano tutti questi casi; che la strada tracciata da Giovanni Fornero è quella giusta, dal momento che i casi pressano la giurisprudenza perché si pongono sempre fuori dall’angusto perimetro tracciato dalla sentenza n. 242, come se questa non fosse mai stata depositata. L’A. non a caso criticando la più recente giurisprudenza costituzionale parla più volte di rischio di petita principii.
Il convitato di pietra continua a essere il Legislatore, la cui assenza favorisce l’incidenza della giurisdizione[29] nella determinazione della tutela effettiva dei diritti fondamentali.
4. La vita non è un valore
L’assenza cronica del Legislativo ha comportato che la Corte costituzionale sia da poco stata chiamata a sciogliere il dubbio sollevato dal GIP di Firenze con riguardo alla incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui prevede il requisito del trattamento sanitario salva vita. La questione, quindi, è tutto tranne che chiusa. Infatti, alla Corte è ora affidata la decisione su una questione spinosa e ancora più complessa perché arriverà dopo la sentenza n. 50/2022 (che però, si ricorda, è una pronuncia resa in un giudizio di ammissibilità) in cui si è scritto che la vita[30] è un ‘valore’ posto a presupposto di tutti gli altri diritti dei quali costituisce il germe ovvero il nucleo, tanto da costituire ‒ sempre per la Corte ‒ un prius logico e ontologico per l’esistenza e la specificazione di tutti gli altri diritti. Che senza la vita non vi sia persona a cui riconoscere diritti e che senza di essa nessuno possa esercitarli è evidente, oltre che tautologico, anche se il ripetersi di espressioni che vogliono la vita umana come un valore superiore, fondamentale o centrale dell’ordinamento può essere alla base di pericolose gerarchizzazioni assiologiche, estranee al testo della Costituzione. Dal diritto alla vita non può discendere un dovere di vivere, un obbligo coercibile di vivere (e questo Fornero lo spiega benissimo). Inoltre, il diritto alla vita è un diritto fondamentale che è tale perché è riconosciuto (implicitamente) in Costituzione e, come per tutti gli altri diritti fondamentali, deve essere bilanciato con gli altri diritti costituzionali; in caso contrario, ci troveremmo dinanzi alla manifestazione di una tirannia dei valori (anzi, del valore). Il richiamo ai valori è un rinvio al meta-normativo, diversamente da quanto accade quando il loro impiego parametrico è a valle della loro positivizzazione in principi e in diritti retti non in solipsismo ma in continuo e vicendevole bilanciamento nella misura in cui, rifuggendo qualsiasi gerarchizzazione assiologica, riescono a non essere tirannici gli uni sugli altri e a garantire una logica di relatività tale che i beni costituzionali in rilievo (autodeterminazione e vita) vengano tutelati entrambi e secondo ragionevolezza.
La Corte, comunque, nella stessa sent. n. 50/2022, riesce a mitigare la premessa sul ‘valore’ apicale del bene vita, nella misura in cui per il giudice referendario l’art. 579 c.p. è una legge costituzionalmente necessaria e non già vincolata; essa è, dunque, modificabile, nel solco del bilanciamento operato nella sent. n. 242/2019, dal Parlamento e a maggior ragione dalla stessa Corte. Allora, va valorizzata l’affermazione secondo cui quella in discussione non è “l’unica disciplina della materia compatibile con il rilievo costituzionale del bene della vita umana”.
Questo è l’unico passaggio condivisibile di una decisione che, a distanza di due anni dal suo deposito, continua a non convincere[31].
Come si vede da queste ultime annotazioni, pare che il tema più che concluso si sia solo ora realmente aperto, tanto che gli studi non possono che riprendere e partire dal testo qui recensito. In conclusione, non si può prescindere da Il diritto di andarsene di Giovanni Fornero e soprattutto dalla sua trattazione di tematiche avveniristiche (p. 241) con la consapevolezza che è delle scienze filosofiche l’attitudine a proporre una anticipazione dell’avvenire (p. 234). Chi vorrà avvicinarsi a questa lettura stimolante che affronta una questione fondamentale della libertà individuale troverà un’analisi approfondita, che, unita a un linguaggio accessibile, rende il Volume indispensabile per chiunque voglia approcciarsi al tema del fine vita ovvero per chi voglia continuare nello studio e nella riflessione su di esso.
Il testo, quindi, rappresenta un’interessantissima sfida per il giurista sia nella parte in cui si limita a constatare (rendendo noto al pubblico italiano il dibattito che si è già sviluppato in altri ordinamenti ‘avanguardisti’) che in quella in cui giunge a teorizzare ipotesi che oggi appaiono ‘audaci’.
[1] Sono passati ventisei anni dalla morte del cittadino spagnolo R. Sampedro procurata con l’aiuto di chi è rimasto ignoto, e ancor di più da quando egli stesso scriveva che “solo il tempo e lo sviluppo delle coscienze qualificheranno la mia richiesta come ragionevole o meno” e rispondeva nel modo riportato in epigrafe a un parroco che voleva convincerlo a desistere dal proposito suicidario. In italiano il libro di R. Sampedro è edito da Mondadori con il titolo di Mare dentro; da questo è stato tratto il film diretto da Alejandro Amenábar).
[2] Annotata criticamente da F. Piergentili, A. Ruggeri, F. Vari, Verso una “liberalizzazione” del suicidio assistito? (Note critiche ad una questione di costituzionalità sollevata dal Gip di Firenze), in Diritti fondamentali (https://dirittifondamentali.it/). Per gli AA., infatti, la questione si pone in violazione del giudicato costituzionale. Fondamentale sarà, quindi, la ricostruzione che la Corte costituzionale farà della richiesta da parte del paziente non sottoposto a trattamento di sostegno vitale (così come previsto da Corte cost., sent. n. 242/2019) e se quest’ultimo costituisca o meno un requisitoessenziale per l’applicazione della scriminante penale.
[3] Dalla stessa Corte cost., sent. n. 242/2019.
[4] Fondamentale è, altresì, G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, 2005 e 2009; Id., Laicità debole e laicità forte, Milano 2008; Id., M. Mori, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto, Firenze 2012.
[5] Ma non più giurisprudenziale: C. Tripodina, Le non trascurabili conseguenze del riconoscimento del diritto a morire ‘nel modo più corrispondente alla propria visione di dignità nel morire’, in Forum di Quaderni costituzionali, 19.06.2019.
[6] Si richiama il ‘conflitto’ tra il Presidente emerito Giuliano Amato e l’Associazione Luca Coscioni, il 16.02.2022, all’indomani della conferenza stampa in cui si ‘spiegavano’ le sentenze sulle richieste referendarie nella tornata del 2022 e, fra queste, quella che sarebbe stata la sentenza n. 50/2022? Da p. 253, l’A. propone una delle più interessanti e analitiche note a sentenza della decisione appena richiamata. In tema, si rinvia comunque ad A. Pugiotto, Eutanasia referendaria. Dall’ammissibilità del quesito all’incostituzionalità dei suoi effetti: metodo e merito nella sent. n. 50/2022, in Riv. Aic, 2/2022, p. 83 ss. (https://www.rivistaaic.it/it/). Cfr., altresì, N. Zanon, Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionali. Dieci casi, Bologna, 2024, pp. 45-53.
[7] Rinviando al § successivo il dialogo con l’A., ora ci si limita a rilevare che se dinanzi a una richiesta di aiuto al suicidio (in un paradigma che è misto) non si può avanzare una obiezione di coscienza da parte dell’amministrazione pubblica, nella misura in cui si sarebbe dinanzi a un dovere di intervenire, lo stesso obbligo di facere non si potrebbe configurare nel diritto di morire tout court. Chiosa lo stesso Fornero che “questa futuristica ipotesi di ampliamento dell’area di legittimità delle pratiche eutanasiche – implicando che ogni persona responsabile possa accedere alla morte assistita – accorci le distanze fra la assisted dying e la via autonoma è un fatto. Ma che essa sia destinata ad essere di non facile configurazione normativa e a suscitare inevitabili interrogativi giuridici circa la sua concreta codificazione legislativa, appare altrettanto evidente”, p. 312.
[8] Trattata ampiamente nel Capitolo V, soprattutto nella parte in cui si sostiene che il diritto di morire “lungi dall’essere circoscritto a situazioni patologiche gravi o insanabili o a determinate fasi della vita e della malattia copre l’intera esistenza”, p. 155. Per l’A., comunque, “alcune delle affermazioni più avanzate della sentenza non solo finiscono per essere operative solo in riferimento all’ambito ristretto delle problematiche di fine vita, ma rischiano pure in certi casi di ridursi ad affermazioni di principio prive di indicazioni giuridiche concrete”, p. 165.
[9] “Con il sintagma ‘diritto di morire’ intendo la facoltà di fatto e di diritto, basata sul principio di autodeterminazione della persona, di rinunciare liberamente alla propria vita, ossia il diritto ‒ di fronte a determinate circostanze e sofferenze che agli occhi di chi le esperisce appaiono ‘invivibili’ e lesive della propria dignità ‒ di congelarsi volontariamente dalla propria vita, sia per mano propria sia con l’intervento di altri”.
[10] La cui giurisprudenza è ampiamente trattata nel Capitolo VI.
[11] Il riferimento va subito a di T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 2009, p. 213. Per paradigma si intende ciò che è “condiviso dai membri di una comunità scientifica, e, inversamente una comunità scientifica consiste di coloro che condividono un certo paradigma”.
[12] U. Adamo, Costituzione e fine vita. Disposizioni anticipate di trattamento ed eutanasia, Milano, Wolters Kluwer, Cedam, 2018; Id., Eutanasia. Ragioni di una legalizzazione (con limiti), in G. Moschella (cur.), Costituzione, diritti, Europa. Giornate in onore di Silvio Gambino, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019, pp. 3-28; Id., Sulla tenuta di uno dei limiti all’aiuto al suicidio definiti dalla Corte costituzionale. “Senza distinzione di ... condizioni personali”, in Critica del Diritto, 2/2019, pp. 19-38.
[13] Corte cost., ord. n. 207/2018, p.to 4 cons. in dir., ma non esplicitamente richiamata in Corte cost, sent. n. 242/2019.
[14] Da parte di chi è “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, così Corte cost., ord. n. 207/2018, sent. n. 242/2019.
[15] Pratica che è pienamente (in modo assoluto) esecrata dall’ordinamento ex art. 579 c.p.
[16] G.D. Borasio, Saper morire. Cosa possiamo fare, come possiamo prepararci, Torino, 2015; U. Curi, Via di qua. Imparare a morire, Torino, 2012; M. Cavina, Andarsene al momento giusto. Culture dell’eutanasia nella storia europea, Bologna, 2015; E. Morin, L’uomo e la morte, Roma, 2002; M. Barbagli, Alla fine della vita. Morire in Italia, Bologna, 2018.
[17] In tal senso, la legittimità di vincoli sulle decisioni prese da persone pienamente capaci di intendere e di volere è conforme all’art. 2 CEDU. Secondo il parametro convenzionale, infatti, sugli Stati (quelli che nel proprio ordinamento disciplinano proceduralmente il diritto a morire dignitosamente) grava l’obbligo di tutelare il diritto alla vita, assicurando che la decisione di suicidarsi derivi da una libera volontà dell’interessato e risponda allo scopo legittimo di impedire gli abusi dell’utilizzo di sostanze letali.
[18] S. Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 695 s.
[19] Si prescinde, quindi, dall’età del richiedente, non valendo l’anzianità o meno di chi chiede aiuto a morire.
[20] Questa è la tesi sposata da Fornero, p. 284.
[21] Ciò che si nega è la responsabilità di prendere una vera e propria “decisione fondazionale”, vale a dire una scelta altamente intima e personale, centrale per la dignità e l’autonomia della persona; in tal senso G. Dworkin, Giustizia per ricci, Milano, 2013, p. 420. Il divieto assoluto dell’eutanasia palesa il mancato sforzo dell’apparato pubblico di “implementare tale responsabilità, [e, quindi, ...] la negazione completa della responsabilità personale”. p. 382.
[22] “Una volta che si sia concesso qualcosa, che in ipotesi è una situazione desiderabile o moralmente accettabile, vi sono buone ragioni per temere che si scivolerà verso qualcos’altro, che è invece unanimemente considerato come una situazione indesiderabile o moralmente inaccettabile. Se ciò è vero, nulla deve essere concesso”, così C. Tripodina, Il diritto nell’età della tecnica. Il caso dell’eutanasia, Napoli, 2004, p. 112.
[23] Fornero con invidiabile accuratezza supera tutte le questioni legate alla salute mentale (Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione III), 29 aprile 2002, caso Mortier c. Belgique). Quando il libro era già in stampa è intervenuta la conformativa giurisprudenza convenzionale. Si v., solo se si vuole, U. Adamo, La prima volta della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sull’eutanasia, in La cittadinanza europea, 1/2023, p. 25 ss. La giurisprudenza convenzionale segue in tutto la tesi di Fornero. Ancora una volta nessun piano inclinato, se e nella misura in cui non si sottovaluti – e quindi opportunamente si consideri – che l’atto propedeutico alla richiesta di aiuto a morire deve essere sempre quello che riguarda la capacità di una persona di formulare in modo valido il consenso, sulla base degli stessi criteri della validità del consenso informato a qualunque atto medico. Tutto ciò, anche senza prendere in adeguata considerazione la circostanza per cui il consenso e la capacità di decidere liberamente devono essere riconosciuti sempre a chi chieda l’eutanasia, ovverosia a chi è colpito da una malattia somatica grave e invalidante, fonte di intensa e cronica sofferenza, che può pur comportare il rischio, molto elevato, di insorgenza di condizioni depressive. Anche in tali circostanze non si può prescindere da una valutazione del caso concreto che sgombri la possibilità che la forma depressiva sia in grado in qualche modo di influenzare negativamente la capacità di esprimere un valido consenso. Non si può affermare aprioristicamente (cioè eludendo il dato medico-scientifico) che la depressione (grave, anzi gravissima) possa compromettere la capacità del paziente di esprimere un consenso valido a qualunque atto medico, incluso naturalmente il suicidio assistito.
[24] https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Tribunale-di-Ancona-Ordinanza-9-giugno-2021-imposta-all-azienda-sanitaria-la-verifica-dei-presupposti-per-l-aiuto-al-suicidio.
[25] U. Adamo, In mancanza di risposte da parte del Legislatore e in attesa di quelle che potrà comunque darne, la Corte decide sui profili della regolazione dell’aiuto al suicidio medicalizzato, in Liber Amicorum Per Pasquale Costanzo. Nuovi scenari per la giustizia costituzionale e sovranazionale, III, Genova, 2022, pubblicato in Consulta on line Indice Volume III, p. 161 ss. (https://giurcost.org/).
[26] Che disapplica o, meglio, non applica il requisito del sostegno vitale anche a fronte di una giurisprudenza – già prodotta come quella per Davide Trentini (Tribunale di Massa del 27 luglio 2020) – che aveva incluso anche il trattamento farmacologico o l’assistenza terapeutica fra i trattamenti sanitari salvavita. La procura di Bologna è come se dicesse che il requisito del trattamento sanitario vitale comporta una discriminazione tale per cui non lo si può richiedere (!), tanto che la procura giunge per l’appunto a una richiesta di archiviazione.
[27] Che stabilisce che c’è una irrazionalità nella richiesta di trattamento sanitario vitale perché, se si richiede che sussista tale trattamento, sostanzialmente si impone di effettuarlo anche quando esso costituirebbe accanimento terapeutico, ponendosi, quindi, in contrasto con gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione. Richiedere che ci sia un trattamento di sostegno vitale e solo in seguito poter accedere alle richieste di aiuto al suicidio sarebbe quindi irragionevole, tanto che la procura propone un’interpretazione conforme a Costituzione. Non lo afferma in modo così esplicito, ma ciò che si intuisce è che la sentenza della Corte sia da considerarsi quasi inutile: il richiedente dovrebbe trovarsi in una condizione in cui il suicidio assistito è sostanzialmente inutile, serve solo ad accelerare e rendere meno doloroso il tratto ultimo del processo del fine vita.
[28] Che propone una richiesta principale e una in subordine. Quella principale è sempre di archiviazione. L’aiuto fornito attiene alla parte preparatoria del suicidio assistito e il caso di accompagnamento in auto in Svizzera non integra il reato, tanto che è come se l’accompagnamento fosse un fatto penalmente irrilevante, perché troppo anticipato rispetto all’aiuto medicalmente assistito. Questa è una tesi che viene suffragata da un precedente del Tribunale di Vicenza (Trib. Vicenza-G.u.p., sent. n. 14 ottobre 2015, depositata il 2 marzo 2016) e della Corte di appello di Venezia del 10 maggio 2017. In subordine però, dicevamo, che si chiede di sollevare una questione di legittimità costituzionale perché la richiesta del trattamento di sostegno vitale viene ritenuta incostituzionale per difformità con gli articoli innanzi richiamati e lo è perché si pone in distonia col principio di eguaglianza inteso come principio di non discriminazione per “condizioni personali” ex art. 3, c. 1. Cost.
[29] Anche di quelli regionali, che cercano di colmare a livello periferico la mancanza della normazione statale. La situazione delle singole iniziative legislative con relativi procedimenti di approvazione (o meno) è riportata in https://liberisubito.it/. Le problematiche di tale intervento ineriscono la sistematica delle fonti del diritto e la stessa competenza del legislatore regionale a normare in modo ampio su tale materia, di cui persino la definizione materiale non è unanimemente accettata dalla dottrina, potendo rientrare nell’ordinamento civile, nei livelli essenziali delle prestazioni (potestà esclusiva dello Stato) ovvero nella tutela della salute (potestà concorrente). A favore P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita. Uno studio su autonomia regionale e prestazioni sanitarie eticamente sensibili, in Corti supreme e salute, 1/2024. Contra, invece, M.G. Nacci, Il contributo delle Regioni alla garanzia di una morte dignitosa. Note a margine di due iniziative legislative regionali in tema di suicidio medicalmente assistito, in La Rivista del Gruppo di Pisa, 1/2023, pp. 93-120 (https://gruppodipisa.it); G. Razzano, Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura Generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominata dall’azienda sanitaria, in Consulta online, 1/2024 (https://giurcost.org/).
[30] Non si può che rinviare ad A. Alberti, La vita nella Costituzione, Napoli, 2021, e, se si v., alla nostra Recensione in questa stessa Rivista (https://www.lceonline.eu/).
[31] Se si vuole ci si permette di rinviare a v. U. Adamo, Corte cost., sent. n. 50/2022: dal giudizio di ammissibilità a quello di legittimità, ma nessuna decisione definitiva in tema di eutanasia, in S. Canestrari, C. Faralli, M. Lanzillotta, L. Risicato (cur.), L’eutanasia nel prisma multidisciplinare: diritto, medicina, bioetica, filosofia, letteratura, linguistica, Pisa, 2024, p. 19 ss.
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