"Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924)
di Andrea Apollonio
"Il delitto Matteotti", pellicola del 1973 diretta dal poco noto Florestano Vancini, è anzitutto un film fedelmente ricostruttivo: oggi, verrebbe definito un docu-film. Si apre con le esatte parole pronunciate da Matteotti in Parlamento nel maggio 1924, ripercorre con precisione cronachistica le fasi del rapimento, quelle successive delle campagne di stampa, delle mobilitazioni popolari stroncate a colpi di manganelli, delle contro-mosse del nascente regime fascista. I personaggi, poi, riproducono con cura le fattezze delle corrispondenti figure storiche: ritroviamo allora non solo un Franco Nero clamorosamente simile a Matteotti, tanto che per assomigliarvi il più possibile furono imposti all'attore ritocchi plastici del viso, ma anche un Turati, un Gramsci, un Mussolini, pressocché identici - ed è stato detto che questo è il miglior Duce cinematografico di sempre. L'unico personaggio del "delitto Matteotti" per cui non ci si è preoccupati troppo di raggiungere la rassomiglianza col modello reale è Mauro Del Giudice, il magistrato che inizialmente istruì il processo: è probabile che nessuno, oggi come allora, se ne sia accorto, essendo egli rimasto una personalità secondaria e ben poco conosciuta, di quel cruciale momento della storia italiana.
Ma al di là della raffigurazione filmica, Florestano Vancini restituisce per intero al giudice istruttore la dirittura morale e la dignità storica che gli pertiene, anzitutto facendolo interpretare da uno straordinario Vittorio De Sica - straordinario nel farsi carico degli scrupoli, dei pensieri preoccupati ma fermi di un anziano giudice: una vera e propria compenetrazione di piani, tra vicenda storica, recitazione e vita dell'attore: quella del "delitto" è una delle sue ultime apparizioni, De Sica morirà due anni dopo - e poi, il regista lo fa avendo semplicemente riportato su pellicola - con metodo quasi storiografico - il modo in cui Del Giudice condusse le indagini, fino a che poté.
Una condotta indissolubilmente legata all'indipendenza di giudizio, che è poi garanzia di imparzialità, mantenuta idealmente fino all'ultimo. Una storia, la sua, che oggi apparirebbe ordinaria o addirittura scontata, se non fosse che siamo nel 1924: per le strade imperversano le squadracce fasciste, che pestano a sangue, uccidono, inquinano e condizionano fortemente i meccanismi di una democrazia liberale che sta via via spegnendosi. Nel film, per contro, il De Sica - Del Giudice istruisce il "delitto" con rigore e arriva ai responsabili; non si lascia influenzare dagli "avvertimenti" istituzionali; non si lascia intimidire, neppure dalle manifestazioni fasciste organizzate fuori la sua abitazione: e in quegli anni, il rischio di finire accoppati era elevatissimo, e tanto valeva anche per un anziano giudice quasi settantenne.
Egli avrebbe confidato, a chi in quei momenti gli stava attorno: "le carte dell'inchiesta passeranno, ma dovrà rimanere integra l'onorabilità e l'indipendenza della magistratura romana". Queste le fonti. Certo è che sapeva bene come quella partita l'avrebbe persa (Del Giudice sarà subito rimosso dal suo ufficio con una "promozione" pilotata, mentre le carte del delitto Matteotti finiranno, impantanate, a Chieti), e proprio per questo la conduceva non per sé, ma per l'intero corpo dei magistrati: per assicurarne lo strumento primo ed imprescindibile dell'indipendenza, nonostante tutto; per assicurarlo pro futuro, almeno.
Eppure, a dispetto del secolo trascorso da quei fatti, e nonostante Giacomo Matteotti sia (doverosamente) entrato fin da subito - fin dal 26 luglio 1943 - nel Pantheon della Nazione prima, della Repubblica poi, non si è voluto incidere nella memoria collettiva il profilo di quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924), che col suo essere fedele ai principi "naturali" - nel senso di principi di diritto naturale - di indipendenza e imparzialità del magistrato, e di pervicace opposizione alle ingerenze del potere politico, ha indicato una via: percorsa senza indugio né deviazioni venti anni dopo, dai Padri costituenti.
Perchè è vero, come disse Calamandrei, che se si vuole andare in pellegrinaggio nei luoghi in cui è nata la Costituzione, occorre salire sulle montagne dove i partigiani persero la vita, ma non bisogna neppure dimenticare che l'elaborazione di molti dei principi della Carta sgorga, zampilla anche dall'esempio fornito da tutti coloro - ciascuno nel proprio ruolo - che seppero tenere dritta la schiena durante il ventennio, senza scendere a compromessi con aberrazioni politiche e legislative: tra questi, ed è un dato storicamente accertato, la gran parte dei magistrati ordinari che con ogni mezzo difesero il perimetro della propria indipendenza (il primato, quindi, del diritto "naturale", avverso il diritto "innaturale" di stampo fascista), quasi sempre, infine, soccombendo.
Al pari dei partigiani, Padri della Costituzione sono anche loro: lo è anche Mauro Del Giudice, a cui però è stata concessa, in quasi cento anni, giusto una fulgida interpretazione di De Sica e l'intitolazione di una scuola a Rodi Garganico, suo paese d'origine.