ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Leggere Giovanni Tarello
Sommario: 1. Introduzione - 2. Filosofia del diritto - 3. Interpretazione - 4. Scienza giuridica - 5. Tarello su Tarello.
1. Introduzione
Giovanni Tarello è stato un maestro della filosofia analitica del diritto. Come Norberto Bobbio (si parva licet), Uberto Scarpelli, Luigi Ferrajoli… Ma bisogna precisare che quella di Tarello è una filosofia del diritto alquanto peculiare.
Scorro rapidamente le sue opere maggiori. Il primo studio italiano su Il realismo giuridico americano (1962). Il memorabile (per i giuslavoristi) Teorie e ideologie del diritto sindacale (1967). Una lunga serie di “studi di teoria e metateoria del diritto” raccolti con il titolo Diritto, enunciati, usi (1974). Una Storia della cultura giuridica moderna (1976). Il volume del Trattato Cicu-Messineo su L’interpretazione della legge (1980). La raccolta di saggi postuma, Cultura giuridica e politica del diritto (1988), che include tra le altre cose un corso di lezioni su La disciplina costituzionale della proprietà (1973) e una nota alla prima sentenza costituzionale (n. 16, 1978, relatore Paladin) sui criteri di ammissibilità del referendum abrogativo, Tecniche interpretative e referendum popolare (1978). La raccolta, ancora postuma, di studi storici sulla formazione del diritto processuale civile con il titolo Dottrine del processo civile (1989).
Ebbene, si può dire che tutti i lavori di Tarello siano – per dirla con Bobbio – opera di meta-giurisprudenza: analisi logica o, secondo i casi, storiografica delle dottrine dei giuristi.
Per leggere con soddisfazione intellettuale questi (ed altri) lavori, ci sono tre idee di Tarello che conviene conoscere previamente.
La prima riguarda la filosofia del diritto.
La seconda riguarda l’interpretazione.
La terza riguarda la “scienza giuridica”, cosiddetta, ossia la dottrina, la dogmatica.
2. Filosofia del diritto
In generale, Tarello concepisce il discorso filosofico – alla maniera del positivismo logico – come un discorso di secondo grado, o meta-discorso, il cui oggetto è costituito dai discorsi delle diverse scienze. La medesima idea, per menzionare un altro grande giurista, si ritrova in Alf Ross.
Le scienze hanno ad oggetto il mondo. La filosofia no: la filosofia ha ad oggetto le scienze stesse. Non esiste un mondo ulteriore (metafisico) oltre quello studiato dalle scienze, e oggetto di una conoscenza “più alta” (metafisica appunto).
Ciò comporta evidentemente una radicale riduzione delle varie discipline filosofiche a meta-scienze, o filosofie delle scienze (dell’una o dell’altra scienza). Vi sarà dunque una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della chimica, e via enumerando, fino a giungere alla filosofia del diritto (anzi: della scienza giuridica). Ma non può esservi una filosofia senza complementi di specificazione: la «panfilosofia scissa da qualsivoglia specifica disciplina scientifica o tecnica», secondo Tarello, è vaniloquio.
Da questo punto di vista, la filosofia del diritto non può che essere analisi linguistica, storiografica, sociologica, e politica della “giurisprudenza”, intesa qui nel senso classico di prudentia juris.
In questo modo, Tarello vuole accreditare, tra l’altro, l’idea che la filosofia del diritto sia ancillare al lavoro dei giuristi, e perciò non possa essere coltivata se non dai giuristi stessi. Insomma, il filosofo del diritto dovrebbe essere – per formazione intellettuale, interessi, e competenze – un giurista tra gli altri giuristi.
È ovvio che, da questo punto di vista, opere come i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, malgrado il nome, sono chiacchiere prive di qualsiasi interesse per gli studi giuridici. Questo modo di pensare, inoltre, conduce a screditare come irrilevante, e tendenzialmente estraneo alla filosofia del diritto bene intesa, almeno uno dei tradizionali e più coltivati settori di riflessione dei gius-filosofi professionisti: la cosiddetta filosofia della giustizia (che è, propriamente, un’etica normativa).
Ecco, dunque, che quasi tutti i lavori di Tarello si presentano come studi di meta-giurisprudenza analitica ed empirica.
(i) Meta-giurisprudenza analitica: nel senso che Tarello si avvale degli strumenti caratteristici dell’analisi del linguaggio, da lui stesso rielaborati nel saggio (un piccolo libro in effetti, poi rifuso nel volume del 1974) Introduzione al linguaggio precettivo (1968).
La filosofia analitica – si noti – non è “una filosofia” nel senso tradizionale (e volgare) di questa parola: non è una concezione del mondo e, ovviamente, neppure una scienza. Anzi si oppone fermamente a quel modo di filosofare che consiste nel blaterare dei massimi sistemi e/o pretende di attingere, oltre le scienze, alla essenza ultima del mondo: cosa di cui «si deve tacere», direbbe Wittgenstein. La filosofia – la sola “buona” filosofia – è l’analisi logica del linguaggio delle scienze (e, marginalmente, del linguaggio ordinario).
(ii) Meta-giurisprudenza empirica: nel senso che Tarello non fa un discorso sulla scienza giuridica in generale (come è d’uso fare, da parte di filosofi del diritto), ma compie una indagine concreta sopra le dottrine effettivamente elaborate dall’uno o l’altro gruppo circoscritto di giuristi in un determinato frangente.
Ne risulta definitivamente screditata come irrilevante e priva di interesse (almeno: irrilevante per i giuristi, irrilevante in una Facoltà di giurisprudenza) qualunque filosofia del diritto che non consista in, o non sia ultimamente finalizzata a, l’analisi delle dottrine giuridiche.
3. Interpretazione
L’opera fondamentale di Tarello in tema di interpretazione è ovviamente L’interpretazione della legge, del 1980 (anche se diversi frammenti erano già stati pubblicati in varie dispense degli anni precedenti, a sei mani, con Silvana Castignone e chi scrive). Ma già nel 1966 Tarello aveva pubblicato un breve saggio, “Il ‘problema dell’interpretazione’: una formulazione ambigua”, in cui metteva in discussione quel modo di vedere tradizionale secondo cui l’interpretazione è un’attività conoscitiva che si esercita su norme. È un modo di vedere oggidì generalmente screditato, ma tuttora presente nei modi di argomentare della dottrina e della giurisprudenza, per tacere delle inconsapevoli facezie di molti politici, secondo cui le leggi non si interpretano affatto, si applicano.
Sicché: (a) le norme preesistono all’interpretazione, e l’attività interpretativa consiste appunto nel prenderne conoscenza; (b) gli enunciati interpretativi (“Il testo normativo T significa S”) hanno valori di verità, cioè si danno interpretazioni vere e interpretazioni false. Per ogni testo normativo, vi è una interpretazione vera, tutte le altre essendo false. La cosiddetta “scienza giuridica” è un’impresa genuinamente scientifica, il cui prodotto è l’insieme delle interpretazioni vere. Da questo punto di vista, “il” problema dell’interpretazione ha natura non politica, ma epistemologica: qual è il metodo corretto per scoprire il “vero” significato dei testi normativi?
Tarello, per contro, delinea i tratti fondamentali di una teoria alternativa dell’interpretazione, scettica o realistica.
(i) In primo luogo, le norme non hanno significato per la banale ragione che sono esse stesse null’altro che significati: entità concettuali, per così dire, non linguistiche. Le norme sono altra cosa degli enunciati normativi che le esprimono: non sono quegli stessi enunciati, ma il loro contenuto di senso. Si osserva o si viola una norma, non un enunciato.
(ii) Pertanto, le norme sono non già l’oggetto dell’interpretazione, ma il suo prodotto. Non preesistono all’interpretazione, ma ne derivano. L’interpretazione consiste precisamente nella ascrizione di significato agli enunciati normativi delle fonti del diritto.
(iii) Senonché gli enunciati normativi, di solito, ammettono (non una sola interpretazione, ma) una pluralità di interpretazioni sincronicamente confliggenti e diacronicamente mutevoli, che dipendono dalla ambiguità e dalla vaghezza del linguaggio in cui le norme sono formulate, dalle circostanze di fatto in cui le formulazioni normative sono interpretate, dalla varietà di metodi interpretativi in uso, dalla molteplicità di elaborazioni dottrinali, e – s’intende – dalle idee di giustizia degli interpreti.
(iv) Ne segue che l’interpretazione non è né vera né falsa: tecnicamente, gli enunciati interpretativi non hanno valori di verità. Dire che una data interpretazione è vera e un’altra falsa è pura propaganda politica: di politica del diritto, s’intende.
Questo saggio di Tarello sull’interpretazione, recentemente ristampato (Lo Stato, n. 16, 2021), riveste uno speciale interesse poiché è, per molti aspetti, il lavoro seminale della “Scuola di Genova”.
4. Scienza giuridica
In gioventù, Tarello aveva studiato il realismo giuridico americano, cui aveva dedicato un libro nel 1962, e palesemente ne era rimasto profondamente influenzato. Il realismo di Tarello si caratterizza soprattutto per il cosiddetto “scetticismo delle norme” (e secondariamente per lo “scetticismo dei fatti”). Le sue tesi principali sono ben tratteggiate nel saggio cui accennavo sopra.
A farla breve: il diritto è indeterminato. Sicché la discrezionalità interpretativa è pervasiva. E, ovviamente, le questioni di interpretazione sono decise in ultima istanza dai giudici (o, più in generale, dagli organi dell’applicazione, giacché non tutto il diritto, specie il diritto costituzionale, è giustiziabile). Sicché in un certo senso – per dirla con i realisti americani – il diritto è quello che i giudici dicono che sia.
È facile congettura che questo modo di vedere sia condizionato dal sistema di common law e dalla regola del precedente vincolante. Ma vi è, nel realismo di Tarello e della sua Scuola, un tratto che lo distingue dal realismo americano. Mi riferisco all’idea che – almeno nella cultura giuridica continentale – la dottrina, la dogmatica, prima ancora della giurisprudenza, sia un’attività squisitamente nomopoietica, e che il diritto sia modellato, costruito, prima che dai giudici, dai giuristi.
È la dottrina, infatti, che fatalmente condiziona la giurisprudenza, elaborando concetti, metodi di interpretazione, proposte interpretative, schemi di argomentazione, costruzioni dogmatiche, norme implicite: determinando, in ultima analisi, la stessa forma mentis dei giudici. Vi sono intere parti del diritto vigente che sono Juristenrecht. Il diritto sindacale è un caso paradigmatico.
Le ricerche meta-giurisprudenziali di Tarello screditano definitivamente come falso e mistificatorio quel modo di vedere corrente secondo cui i giuristi-interpreti non creano diritto, e dunque non fanno politica, ma si limitano a prendere conoscenza del diritto che trovano bello e fatto ad opera del legislatore. Almeno in certe circostanze, il diritto nasce non dalla legge, ma proprio dalle costruzioni concettuali dei giuristi. «La dottrina giuridica – scrive Tarello, riferendosi in particolare alle dottrine gius-lavoristiche – interviene nel processo di creazione del diritto; e, in alcuni settori, interviene da protagonista».
Non vi è alcuna possibile confusione tra la rotazione della terra attorno al sole e la scienza astronomica che la descrive, giacché l’astronomia è conoscenza degli astri, ma non un astro essa stessa. E il movimento dei pianeti, a differenza della scienza astronomica, non è un’entità linguistica. Quando invece si tratta delle relazioni tra diritto e dottrina giuridica, siffatta confusione è possibile e di fatto si produce. Così è perché tanto il diritto quanto la dottrina giuridica altro non sono che linguaggi (discorsi).
In altre parole, è impossibile tracciare una distinzione netta tra il linguaggio del diritto e il linguaggio dei giuristi: essi sono soggetti ad un continuo processo osmotico. Il discorso dei giuristi non “verte su” il discorso delle fonti normative: piuttosto i giuristi modellano ed arricchiscono continuamente il loro oggetto di studio, come un violinista che interpolasse note apocrife nello spartito che sta eseguendo.
Insomma, l’interpretazione non è un’impresa conoscitiva, e la dogmatica, la dottrina, è non già conoscenza del diritto, ma parte costitutiva del diritto stesso, e quindi non “scienza giuridica”, ma oggetto di studio di una scienza giuridica bene intesa. Questo modo di vedere è pervasivo anche nei lavori storici di Tarello.
5. Tarello su Tarello
Concludo rileggendo, sine glossa, due paginette autobiografiche di Tarello. Si tratta della trascrizione, rivista dall’autore, di un intervento pronunciato ad un seminario della scuola analitica di filosofia del diritto, svoltosi a Camerino nel 1971.
«Come e perché mi sono dedicato a ciò che si chiama “filosofia analitica del diritto” è presto detto. Per un’esigenza che è venuta fuori nell’ambito di studi di diritto in una Facoltà di giurisprudenza, da problemi che venivano fuori da studi giuridici tecnici. La mia formazione non era inizialmente la formazione di un filosofo; e, devo dire, l’interesse “filosofico” (in qualsiasi senso di questa parola) è stato per me un interesse tardo.
Nel corso degli studi di giurisprudenza mi sono trovato di fronte a un’esigenza non già “morale” ma “metodologica” o, se vogliamo, funzionale: e precisamente l’esigenza di sgombrare la strada da concetti che mi sembravano o inutili o dannosi; dannosi o dal punto di vista della efficienza, o dal punto di vista politico-ideologico.
Nel corso di un tentativo di trovare le armi per liberarmi almeno di alcuni di questi concetti, che mi sembravano molto ingombranti, ho diretto la mia attenzione prima di tutto al c.d. “realismo giuridico americano”, che mi sembrava il recipiente degli strumenti più distruttori e bombardieri che, a livello metodologico, fossero a disposizione. Nello studiare e mettere insieme delle idee che mi sembrava di poter attribuire ai realisti americani, o a quelli che andavano sotto questa rubrica, mi sono accorto di aver formato un libro sul “realismo americano”, secondo un piano che era ben lontano dallo spirito dei membri di quel movimento della cultura giuridica. Avevo interpretato quel movimento come critica di due tipi di concetti (concetti sistematici e concetti dogmatici) e come critica dell’argomentazione giuridica; e il dare conto del lavoro metodo logico dei realisti americani mi suggeriva la possibilità di fare a meno del principale concetto in uso nella “teoria (generale) del diritto”.
Il principale concetto in uso nella teoria del diritto è quello di norma. A differenza di Bobbio e Scarpelli (questo discorso è anche un discorso sui tempi di una vicenda) il mio problema non era quello di chiarire e utilizzare il concetto di norma, ma quello di farne a meno.
Una serie di tentativi di studiare, da una parte, le operazioni degli operatori giuridici e, dall’altra parte, l’interpretazione giuridica, hanno avuto la loro motivazione (forse psicologica) nella possibilità che ravvisai, e nell’esigenza che provai, di incrinare il concetto di norma in quanto centro della ricostruzione teorica del diritto. Mi è sembrato successivamente, e questo è stato cronologicamente il momento e psicologicamente la ragione del mio accostamento agli studiosi “analitici”, che, portando il discorso da questo concetto di norma (che mi sembrava uno di quei termini che “non fanno senso”) ai documenti e al loro impiego, avrei potuto risolvere qualche problema metodologico.
Per cui direi che il perché del mio assumere un atteggiamento “analitico” è un perché molto diverso dal perché (ad esempio) di Scarpelli. Il quale Scarpelli, per la verità, è stato allora il mio punto di riferimento critico e perciò anche di ispirazione; cioè guardavo ai lavori di Scarpelli, e soprattutto non ai primi ma alla Semantica del linguaggio normativo, cioè al terzo suo libro, come a un lavoro metodologicamente il più interessante tra quelli che mi sembrava di avere a disposizione, e d’altra parte come a quello che avrebbe potuto funzionare non solo come termine di confronto ma come oggetto di aggressione, proprio per il fatto che il discorso di Scarpelli manteneva, in fin dei conti, al centro di un interesse teorico-giuridico la “norma”, e non invece dei documenti, degli enunciati, il loro uso da parte di operatori giuridici.
L’idea che bisognasse arrivare a fare una teoria (non delle norme ma) delle operazioni dei giuristi ha motivato, sotto il profilo metodologico (e non certo sotto il profilo di una mia storia personale), l’attenzione per le ideologie dei giuristi e per le operazioni giuridiche, viste come operazioni al servizio di qualche cosa e perciò come operazioni che o esprimono, o sono espressioni di, ideologie.
A questo “perché” del mio assumere un atteggiamento analitico consideravo collegati quegli studi che in realtà volevo fare, e che riguardavano alcune zone della cultura giuridica e alcune “ideologie” (in un senso molto Iato, cioè ideologie degli operatori giuridici).
Un’altra ragione, un altro perché, del mio accostarmi agli studi “analitici” o, dal punto di vista della distinzione di Pattaro, agli studi di “logica giuridica” è da vedersi in una mia opinione sull’uso della logica giuridica da parte dei teorici del diritto, probabilmente molto diversa da quella che è maggioritaria intorno a questo tavolo. Cioè io ho sempre pensato che lo studio della logica fosse “liberatore” (nel senso che gli studi di logica permettono di non confondere mai delle operazioni giuridiche con dei calcoli logici e che “la logica” non è mai, né può essere, al servizio di nessuna sua “applicazione”, perché nessuno schema vuole piuttosto un’interpretazione che un’altra interpretazione). Io credo, continuo a credere, che non si possa fare sensatamente un discorso precettivo nei confronti dell’operatore giuridico partendo da uno studio di carattere logico; e non credo vi sia ·alcuna associazione, nemmeno remota, tra gli studi logici e qualsiasi atteggiamento normativistico o positivistico.
Quanto a ciò che osservava Scarpelli, dirò che non credo di essere sulla strada di allontanarmi da queste posizioni perché le due ragioni per le quali mi sono accostato a queste posizioni, e cioè – ripeto – il carattere liberatore degli studi logici e la aggressione che un atteggiamento analitico mi consente, a livello di teoria, nei confronti di qualsiasi sistema di concetti, sono ragioni che permangono e credo che permarranno.»
Seguendo l'onda lunga che sempre caratterizza le decisioni delle Corti Internazionali si potrebbe affermare che gli eventi che in questi giorni hanno portato il governo attualmente in carica in Israele al centro dell'attenzione internazionale siano le dirette conseguenze del parere espresso dalla Corte internazionale di giustizia nel luglio 2024 sulle politiche e sulle pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati, nonché delle successive attività della stessa Corte che, prescindendo dai mandati di arresto connessi a crimini contro l’umanità che pure la Corte ha emanato, stanno affrontando, sotto vari aspetti, le problematiche connesse al conflitto israelo-palestinese.
È in corso attualmente il cosiddetto “processo alla fame” - la cui prima udienza è appena stata celebrata in aprile - che su istanza delle Nazioni Unite nonché dell'Autorità Palestinese vede il governo di Israele sul banco degli imputati del diritto internazionale per aver utilizzato il blocco degli aiuti umanitari, e quindi la fame, come arma di guerra.
Sempre di questi giorni la notizia che l'UE sta procedendo, su spinta di una forte maggioranza di Stati membri, alla revisione dell'Accordo di Associazione con Israele, che regola i rapporti economici tra Bruxelles e Tel Aviv, sulla base della violazione dell'articolo 2 dell'Accordo stesso che impone alle parti il rispetto dei diritti umani quali valori essenziali su cui si fonda l'intesa.
Tutti questi accadimenti sembrano dar ragione a quanti avevano ritenuto che il parere reso a luglio dalla Corte internazionale di giustizia fosse un passo senza precedenti che avrebbe fatto storia nell'ambito delle questioni giuridiche che sotto vari aspetti riguardano il conflitto; inoltre che, ancorché i pareri consultivi della CIG non siano giuridicamente vincolanti e non possano di per sé costringere i governi ad agire, il parere del luglio 2024 avrebbe rappresentato un atto di grande peso legale e morale destinato ad avere un'influenza significativa sulle decisioni e sulla politica estera degli Stati, con il potenziale di modificare la capacità della comunità internazionale ad assumere posizione rispetto al conflitto.
E dunque, a voler accedere a una visione ottimistica dell'andamento delle cose internazionali seguendo percorsi giuridicamente corretti, potrebbe ritenersi, alla luce degli eventi recenti, che la pronuncia della Corte abbia rappresentato un punto di partenza che, associato agli eventi politici connessi agli equilibri geopolitici internazionali, può essere in grado di contribuire alla risoluzione del conflitto nonché al tentativo di pacificazione dell'area, con forme che, prima della deliberazione del parere, non erano neppure immaginabili, anche accelerando percorsi diplomatici che sembravano bloccati.
La questione posta alla Corte dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite[1] riguarda in primo luogo le conseguenze giuridiche derivanti da alcune politiche e pratiche di Israele in quanto potenza occupante in una situazione di occupazione belligerante dal 1967; in secondo luogo riguarda il modo in cui tali politiche e pratiche influenzano lo status giuridico dell'occupazione alla luce di alcune norme e principi del diritto internazionale nonché le conseguenze giuridiche che derivano da tale status.
Ancorché già nel 2004 la stessa CIG avesse espresso un parere consultivo sulle conseguenze legali della costruzione di un muro nel territorio palestinese occupato, non vi è dubbio che, per il numero dei soggetti coinvolti, per la pluralità delle questioni trattate e per i punti di analisi esaminati, questo pronunciamento, reso al termine di un procedimento durato 18 mesi in cui sono stati auditi oltre 50 Stati e al quale hanno partecipato varie organizzazioni internazionali, rappresenta una coraggiosa novità e forse, secondo alcuni[2], una manifestazione della crescita del ruolo strategico della Corte internazionale di giustizia nell'ambito del conflitto.
Ampliando la prospettiva di analisi in forme mai fatte prima la Corte parte dal concetto di occupazione secondo il diritto internazionale specificandone la sua natura temporanea e la sua finalizzazione a ristabilire la legge e l'ordine ed eliminare eventuali minacce; precisando che, pur non potendosene stabilire limiti temporali precisi, l’occupazione, per non alterare il suo proprio status legale, deve rispettare tale requisito.
I giudici della Corte rilevano, infatti, che un'occupazione non può essere usata come forma di controllo indefinito e che non può trasferire il titolo di sovranità alla potenza occupante[3].
E inoltre che lo Stato occupante ha il dovere di amministrare il territorio a beneficio della popolazione locale e deve comunque rispettare, sulla base di detti principi, le condizioni di necessità e proporzionalità; sì che una occupazione che prosegua senza rispettarli è inevitabilmente illegale. Escluso poi che una potenza occupante possa stabilire la propria sovranità o esercitare poteri sovrani su un territorio occupato.
Attagliando tali concetti alla situazione attuale, la CIG[4] ha ritenuto che la continua presenza di Israele nei territori palestinesi quale potenza occupante è illegale, ritenendola contraria al divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali e al correlato divieto di acquisizione del territorio mediante l’uso della forza. E che Israele non abbia diritto alla sovranità o all'esercizio di poteri sovrani in nessuna parte dei territori palestinesi occupati.
Escludendo che l'occupazione prolungata da parte di Israele soddisfi le condizioni di necessità e proporzionalità del diritto internazionale, la CIG di fatto nega la fondatezza dell'argomentazione giustificativa israeliana che collega l'occupazione a ragioni di sicurezza e a legami storici con il territorio, rendendo pertanto inevitabilmente illegale la sua prosecuzione.
Pronunciandosi per la prima volta sulla legittimità dell'occupazione nel contesto del conflitto israelo-palestinese che perdura da ben 57 anni, la Corte quindi ha esaminato la conformità al diritto internazionale di diverse politiche e pratiche di Israele riscontrandone l'illiceità sostanziale. In particolare ha stabilito che il trasferimento di coloni attraverso la confisca e requisizione di ampie aree di terra ai palestinesi viola l'articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra, che proibisce il trasferimento e la deportazione forzata di massa da territori occupati; inoltre ha rilevato l'incapacità sistematica di Israele di prevedere e punire gli attacchi dei coloni contro il popolo palestinese nonché l'uso eccessivo della forza in violazione degli obblighi previsti dai vari trattati internazionali[5].
E dunque la Corte - e in questo l'estrema novità di questo pronunciamento - dichiara che l'occupazione israeliana, inizialmente giustificata come difensiva, è degenerata in una violazione del divieto di annessione di territori in spregio al divieto dell'uso della forza.
La Corte ha poi aggiunto un'ulteriore punto di analisi, esaminando le politiche e pratiche israeliane esercitate nei territori palestinesi occupati sotto il diverso profilo del diritto umanitario, stabilendo che tali politiche e pratiche violano altresì il diritto all'autodeterminazione dei popoli e concretizzino di fatto una sistematica discriminazione del popolo palestinese evidenziata dalla privazione delle risorse naturali e dall'impedire il diritto allo sviluppo economico, sociale e culturale.
Pur non richiamando espressamente il fenomeno dell’Apartheid, come invece richiesto da alcuni dei soggetti terzi intervenuti nel procedimento, la Corte ha fatto comunque riferimento all'articolo 3 della convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (CERD) il quale richiede alla Comunità internazionale di condannare la segregazione razziale e di impegnarsi a prevenire, proibire ed eliminare tali pratiche.
Il punto finale del parere riguarda gli obblighi che la CIG attribuisce agli Stati, poiché la Corte formalizza le conseguenze giuridiche delle sue determinazioni sia per Israele che per la restante comunità internazionale: per Israele sancendo l’obbligo di cessare tutte le attività illecite nei territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile e di risarcire i danni; includendo nel concetto di risarcimento la restituzione della terra e dei beni immobili confiscati a persone fisiche e giuridiche sin dall'inizio dell'occupazione nel 1967, nonché dei beni culturali e delle risorse sottratte ai palestinesi e alle istituzioni palestinesi inclusi archivi e documenti; richiedendo altresì l'evacuazione di tutti coloni degli insediamenti esistenti e lo smantellamento delle sezioni del muro eretto da Israele nei territori palestinesi occupati; ed infine il ripristino del diritto di ritorno per i palestinesi sfollati durante l'occupazione, consentendo loro di tornare ai loro luoghi di residenza originari.
Per gli Stati ha sancito l'obbligo di non offrire aiuti o assistenza in nessuna forma a sostegno dell'occupazione illegale poiché ciò comporterebbe una violazione del diritto internazionale, stabilendo che gli Stati hanno l'obbligo di astenersi dall'avviare o mantenere con Israele rapporti economici e commerciali riguardanti i territori palestinesi occupati o parti di essi che possano consolidare la presenza illegale nei territori; ed inoltre di adottare misure per impedire relazioni commerciali di investimento che contribuiscano al mantenimento della situazione illegale creatasi.
Un primo importante seguito al deliberato della Corte già si è palesato nell’ottobre 2024 con l’Interrogazione del Parlamento europeo alla Commissione[6] in cui si chiede il rispetto e l'attuazione del parere consultivo della Corte internazionale di giustizia relativo al commercio dell'UE con gli insediamenti israeliani illegali, esigendo dagli Stati membri un divieto generale di commercio con gli insediamenti.
Altre interrogazioni hanno riguardato la situazione umanitaria a Gaza e i rischi di una escalation regionale; altre iniziative sono da ascriversi a singoli o a gruppi di Stati che hanno protestato contro il silenzio della comunità internazionale attiva a fronte del blocco degli aiuti umanitari verso i territori palestinesi occupati o della drastica riduzione degli stessi in modo da non consentire alla popolazione civile, bambini compresi, neppure il livello di mera sussistenza: accadimenti che ben possono leggersi come una filiera unica che partendo dalla ineludibile ancorché non vincolante pronuncia della Corte arriva agli eventi recenti di questi giorni, di cui si è detto.
L’onda è lunga ma è pur sempre un'onda.
[1] Risoluzione A/RES/77/247.
[2] Luca Dettorri - Diritti Comparati- Settembre 2024.
[3] Così paragrafo 105.
[4] La Corte considera come territori occupati sia la Cisgiordania sia Gerusalemme Est, annessa con una procedura non riconosciuta a livello internazionale, sia Gaza.
[5] Tra questi l'articolo 46 delle regole dell'Aia, l'articolo 27 della IV Convenzione di Ginevra e gli articoli 6 e 7 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici.
[6] E-002150/2024.
Il referendum abrogativo parziale dell’art. 9, comma 1, lett. b), e dell’intero art. 9, comma 1, lettera f), della l. 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di cittadinanza, per consentire a tutti gli stranieri maggiorenni extraeuropei di ottenere la cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza legale in Italia
V. A. Poso. Su iniziativa di +Europa e altri partiti (Possibile, Radicali Italiani, Partito Socialista Italiano, Rifondazione Comunista) e di molte associazioni di varia formazione e operanti in campo sociale e solidaristico (con il fattivo sostegno anche della CGIL, impegnata nella promozione dei quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche ) è stato promosso il referendum abrogativo di alcune disposizioni normative del comma 1 dell’art. 9, l. 5 febbraio 1992, n. 91 (dopo la comunicazione in data 4 settembre 2024 dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 208 del 5 settembre 2024).
Questa la denominazione proposta dai promotori: «Cittadinanza italiana: Abrogazione delle disposizioni che non permettono la concessione della cittadinanza italiana allo straniero maggiorenne non appartenente a uno Stato membro dell’Unione europea dopo cinque anni di residenza legale nel territorio della Repubblica».
Questo il quesito referendario «“Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole "adottato da cittadino italiano" e "successivamente alla adozione"; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: "f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.", della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza"?».
Il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato da + Europa, sintetizza in maniera efficace il significato di questo referendum e gli obiettivi da realizzare con l’esito positivo del voto: «Grazie a questo referendum verranno ridotti da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, sarebbe automaticamente trasmessa ai propri figli e alle proprie figlie minorenni.
Questa semplice modifica rappresenterebbe una conquista decisiva per la vita di molti cittadini di origine straniera (secondo le stime si tratterebbe di circa 2.500.000 di persone) che, in questo Paese, non solo nascono e crescono, ma da anni vi abitano, lavorano e contribuiscono alla sua crescita. Partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare, poter partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani. Diritti oggi negati».
Vi chiedo, di illustrare la disciplina normativa oggetto di questo referendum. Innanzitutto, un quadro sintetico dei soggetti ai quali si applica e delle condizioni che legittimano la concessione della cittadinanza, spiegando, anche, le ragioni di politica del diritto, di integrazione e inclusione, poste a fondamento della l. n. 91/1992.
G. D’Amico. Il criterio principale di acquisto della cittadinanza italiana è definito dalla legge n. 91/1992 nel c.d. ius sanguinis e cioè dalla nascita da un genitore di cittadinanza italiana. Si afferma infatti che è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini. Limitata operatività ha nel nostro ordinamento il c.d. ius soli, e cioè la rilevanza della nascita sul territorio ai fini dell’acquisto della cittadinanza. Si tratta del caso di chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono. In tal modo si vuole evitare la condizione di apolidia in cui potrebbe incorrere il minore. Si prevede inoltre che sia considerato cittadino per nascita anche il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza. Si tratta dunque di ipotesi che hanno un ambito di operatività assai limitato.
Connessa allo ius sanguinis è anche l’ipotesi dell’acquisto della cittadinanza per adozione, che vede legare la condizione di parentela all’acquisizione della cittadinanza italiana: i minori stranieri che siano stati adottati da un/a cittadino/a italiano/a diventano cittadini per effetto della trascrizione del provvedimento di adozione nei registri dello stato civile. Gli adottati maggiorenni, invece, possono chiedere la cittadinanza trascorsi cinque anni dall’adozione. Quest’ultima previsione è oggetto del quesito referendario volto ad ampliarne la portata anche oltre l’ambito dell’adozione.
Vi sono poi altre modalità di acquisto della cittadinanza, tra cui quella per matrimonio: possono acquisire la cittadinanza italiana gli stranieri (o gli apolidi) che contraggono matrimonio o un’unione civile con un cittadino italiano o una cittadina italiana, quando, dopo il matrimonio o l’unione, risiedano legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio o dell’unione se residenti all’estero. In entrambi i casi, non devono essere intervenuti lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non deve sussistere la separazione personale dei coniugi.
Si può acquistare la cittadinanza anche per naturalizzazione e cioè decorso un certo numero di anni di residenza legale sul territorio come condizione di acquisto della cittadinanza. In Italia tale periodo è tra i più lunghi, se comparato con gli Stati dell’Unione europea, perché è stato fissato a 10 anni.
F. Biondi Dal Monte. In via generale, le varie modalità di acquisto della cittadinanza possono essere classificate tra i casi c.d. per beneficio di legge e quelli per concessione. Nel primo caso, il soggetto in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge ha diritto, se intende usufruirne, di acquistare la cittadinanza: si tratta dunque di casi a cui corrisponde un diritto soggettivo tutelabile dinanzi al giudice ordinario. Nei casi di concessione, invece, la cittadinanza è acquisita a seguito di una valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione, in relazione alla quale l’interessato può vantare soltanto un interesse legittimo.
Tra i casi classificabili come beneficio di legge rientra quello dello straniero o apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, se, oltre a dichiarare di voler acquistare la cittadinanza, si trovi in una delle seguenti condizioni: a) aver prestato effettivo servizio militare per lo Stato italiano (con dichiarazione preventiva di voler acquistare la cittadinanza italiana); b) aver assunto un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all’estero (con dichiarazione di voler acquistare la cittadinanza italiana); c) residenza da almeno due anni nel territorio della Repubblica al raggiungimento della maggiore età, con dichiarazione, entro un anno dal compimento dei 18 anni, di voler acquistare la cittadinanza italiana.
Altro caso molto importante di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge è quello dello straniero che sia nato in Italia e vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età. L’art. 4 della legge n. 91/1992 prevede che tali stranieri possano chiedere la cittadinanza entro un anno dal compimento dei 18 anni.
Vari sono stati i problemi legati alla dimostrazione della residenza legale sul territorio fino al compimento della maggiore età, che può essere inficiato da eventuali interruzioni nelle registrazioni anagrafiche, o dalla mancata richiesta dichiarazione di voler acquistare la cittadinanza entro il termine di un anno dalla maggiore età. Positiva la disciplina adottata con il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98, e volta a semplificare il procedimento di acquisto della cittadinanza italiana per lo straniero nato in Italia, al quale non devono essere imputati eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione, purché egli possa comunque dimostrare la sua presenza effettiva in Italia fino alla maggiore età con idonea documentazione (ad esempio pagelle scolastiche, certificazioni di vaccinazioni sanitarie, ecc.). Inoltre, al fine di favorire la conoscenza di tale modalità di acquisto della cittadinanza, il d.l. n. 69 del 21 giugno 2013, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n.98, all’art. 33,comma 2, ha anche introdotto un obbligo per gli ufficiali di stato civile di comunicare agli interessati, nei sei mesi precedenti il compimento della maggiore età, la possibilità di esercitare il diritto all’acquisto della cittadinanza entro il compimento del diciannovesimo anno di età. In mancanza di tale comunicazione, il diritto all’acquisto della cittadinanza può essere esercitato anche dopo la scadenza di detto termine.
Dall’altro lato, tra i casi di cittadinanza per concessione vi sono, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 91/1992: i) il caso dello straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, lettera c); ii) il caso dello straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione; iii) il caso dello straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato; iv) il caso del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica; v) il caso dell’apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica; infine vi) il caso dello straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.
Tale ultima previsione, secondo la proposta referendaria, verrebbe ad essere abrogata e verrebbe altresì modificata la previsione relativa al maggiorenne adottato, per estenderla a tutti gli stranieri riducendo quindi conseguentemente la residenza da 10 a 5 anni.
V. A. Poso Si tratta, comunque, di una modifica – quella prospettata dal referendum – che è limitata solo a ridurre il requisito minimo di residenza legale dello straniero extracomunitario in Italia. Per una maggiore comprensione del quesito referendario ci illustrate, in termini generali, se e quali sono le differenze, con riferimento agli stranieri di Stati non appartenenti all’Unione Europea, per ottenere la cittadinanza italiana, rispetto ai cittadini europei?
F. Biondi Dal Monte. Come anticipato, l’art. 9 della legge n. 91/1992, introduce varie differenze nella durata della residenza legale interrotta ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, differenziando da un minimo di 3 anni ad un massimo di 10 anni. Per i cittadini di altri Stati dell’Unione europea, anche alla luce del favor per la cittadinanza europea, tale durata è estesa fino a 4 anni. La residenza deve essere legale e continuativa e pertanto la persona deve essere iscritta all’Anagrafe senza periodi di residenza all’estero o di irreperibilità in Italia.
G. D’Amico. Anche i cittadini dell’Unione possono incontrare le difficoltà comuni ad altre categorie di straniero: e cioè il possesso di un determinato livello di reddito, la conoscenza della lingua italiana e l’assenza di precedenti penali e/o condanne, con sentenza definitiva per alcune tipologie di reato, o la sussistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica Italiana.
V. A. Poso Ci sono molti altri aspetti della cittadinanza italiana e dei requisiti necessari per ottenerla, anche nella prospettiva di alcune riforme preannunciate. Iniziamo dal requisito dello ius sanguinis, con uno sguardo anche alla legislazione degli altri Stati europei.
G. D’Amico. Negli ultimi mesi si sono susseguite alcune iniziative legislative che si sono concretizzate, dapprima, nell’approvazione di un disegno di legge e, poi, nell’adozione di un decreto-legge di cui parlerà la prof.ssa Biondi Dal Monte. Il 28 marzo 2025 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge in tema di cittadinanza, che introduce il principio del “legame effettivo” tra la persona e lo Stato ai fini dell’acquisto della cittadinanza, condizionandola dunque alla sussistenza di un effettivo vincolo con il Paese che la conferisce. Tale legame viene considerato effettivo se la persona può vantare una “residenza qualificata” in Italia, caratterizzata da un periodo di tempo sufficientemente lungo (pari almeno a due anni continuativi).
F. Biondi Dal Monte. Parallelamente il Consiglio dei ministri ha anche approvato un decreto-legge che introduce disposizioni urgenti in materia di cittadinanza, d.l. 28 marzo 2025, n. 36, pubblicato nella G.U. n. 73 del 28 marzo 2025 (il relativo d.d.l. di conversione in legge, che è stato approvato, con modificazioni, il 15 maggio dal Senato e, in via definitiva, il 20 maggio dalla Camera dei deputati, è in corso di pubblicazione sulla G.U.), che anticipa l’entrata in vigore di alcune delle norme previste nel richiamato disegno di legge e relative alla limitazione nella trasmissione automatica della cittadinanza iure sanguinis. Le nuove previsioni stabiliscono che i discendenti di cittadini italiani, nati all’estero, saranno automaticamente cittadini solo per due generazioni: solo chi ha almeno un genitore o un nonno nato in Italia sarà cittadino dalla nascita. I figli di italiani acquisteranno automaticamente la cittadinanza se nascono in Italia oppure se, prima della loro nascita, uno dei loro genitori cittadini ha risieduto almeno due anni continuativi in Italia. Tali limiti valgono solo per chi ha un’altra cittadinanza, per evitare casi di apolidia, e si applicano a prescindere dalla data di nascita (prima o dopo l’entrata in vigore del decreto-legge).Saranno comunque esaminate secondo la previgente normativa le richieste di riconoscimento della cittadinanza documentate e presentate entro le 23.59 (ora di Roma) del 27 marzo 2025.
V. A. Poso. E poi lo ius scholae, che ritorna spesso nelle riforme proposte da alcuni partiti e movimenti. Cosa significa, concretamente, e quanto lo ritenete realizzabile?
F. Biondi Dal Monte. La legge n. 91/1992 è stata al centro di numerose proposte di modifica finalizzate prevalentemente a adeguare la disciplina alle nuove istanze provenienti dalla società civile, che ha visto stabilizzare la presenza dei cittadini stranieri in Italia, aumentare il numero dei nati da genitori stranieri e i nuclei familiari, incrementare il numero degli alunni stranieri nelle scuole italiane.
Tra queste, meritevoli di particolare attenzione sono le proposte riguardanti la possibilità di acquisto della cittadinanza per i minori entrati sul territorio nei primi anni di vita o comunque prima della maggiore età (c.d. ius domicilii) e per coloro che avessero frequentato e/o concluso uno o più cicli di istruzione in Italia (c.d. ius scholae o anche ius culturae). Tale ultimo caso, declinato in vario modo nelle differenti proposte di modifica, ha il pregio di valorizzare il percorso di effettiva integrazione della persona sul territorio e la sua partecipazione alla vita scolastica, sostituendo a criteri per lo più statici una condizione che ha il pregio di valorizzazione anche un profilo “dinamico” della vita della persona sul territorio.
Al di là delle varie opzioni normative, le proposte di riforma pendenti testimoniano la necessità di valorizzare la presenza stabile e strutturale dei cittadini stranieri nella società contemporanea e le seconde e terze generazioni di migranti, privilegiando il legame di fatto sviluppato tra l’individuo e lo Stato rispetto a una rigida applicazione di convenzioni formali.
G. D’Amico. Senza entrare nel merito di proposte di riforma che finora non hanno mai superato l’esame nella commissione parlamentare competente, si tratta di progetti che perseguono l’obiettivo di riconoscere la cittadinanza italiana a giovani che hanno concluso un percorso di formazione in Italia al punto da doversi ritenere perfettamente integrati nel contesto sociale e culturale italiano, e che anzi percepiscono come assai sfumato il rapporto di appartenenza con il paese di origine dei loro genitori. Peraltro, siffatte proposte si collocano su una posizione intermedia tra coloro che immaginano il riconoscimento della cittadinanza per ius soli e quanti invece si oppongono a qualsiasi modifica della legge n. 91. Proprio per questa ragione quelle anzidette sono proposte intorno alle quali potrebbe coagularsi in Parlamento un consenso trasversale. Si tratta quindi di iniziative che, a mio avviso, devono essere sostenute e incentivate.
V. A. Poso. Qual è lo stato dell’arte della normativa degli altri Stati europei sullo ius scholae?
G. D’Amico. Il tema della comparazione con quanto stabilito in altri ordinamenti è un leit-motiv di ogni dibattito su possibili riforme (siano esse legislative o costituzionali). Spesso però l’argomento comparativo viene utilizzato per sostenere la propria posizione o per screditare quella della parte avversa, senza il necessario approfondimento sull’utilità della comparazione e soprattutto sulla sua fattibilità.
Al riguardo, infatti, merita di essere precisato che solitamente l’asserita comparazione si riduce a una rassegna di diritto “straniero”, senza cioè che siano adeguatamente approfonditi i contesti storici, culturali, politici e sociali in cui la normativa esaminata è sorta e si è evoluta. Faccio solo un esempio per rendere maggiormente esplicito il senso di quanto sto dicendo: se si volessero trarre dall’esperienza legislativa della Francia (che pure è un Paese vicino culturalmente, oltre che geograficamente, all’Italia) indicazioni utili sul tema della cittadinanza, bisognerebbe inevitabilmente fare i conti con una realtà che, per ragioni legate al passato coloniale e a più recenti politiche di “ghettizzazione” nelle grandi città metropolitane, si presenta profondamente diversa da quella italiana, al punto da rendere fuorviante o comunque assai problematica l’“importazione” di modelli legislativi.
F. Biondi Dal Monte. Nel merito degli ordinamenti di singoli Paesi, occorre precisare che in alcuni Paesi (come ad esempio in Germania e in Francia), pur non essendo previsto un legame tra la concessione della cittadinanza e la frequenza del sistema scolastico, non mancano alcuni modi di ottenimento della cittadinanza legati, ad esempio, ad un livello eccezionale di integrazione, anche dimostrabile con il raggiungimento di risultati scolastici di lato livello (Germania) o alla conclusione del ciclo scolastico obbligatorio (Francia, sia pure in presenza di alcune ulteriori condizioni).
Quanto poi a forme “più dirette” di riconoscimento della cittadinanza per ius scholae, esse sono previste in Grecia (che presenta la normativa maggiormente simile a quella che si vorrebbe introdurre in Italia) e in Portogallo, ma anche in Lussemburgo e in Slovenia (sebbene siano previsti anche altri requisiti).
A prescindere però dai punti di contatto e di differenza delle legislazioni di questi Paesi rispetto a quella che si vorrebbe introdurre in Italia, occorre ribadire che la comparazione non deve essere intesa come uno strumento per legittimare un’acritica trasposizione di modelli legislativi nati da esperienze diverse da quella italiana ma come un ausilio per testare la validità di soluzioni normative già sperimentate in altri ordinamenti.
V. A. Poso. Ritornando, in particolare, alle disposizioni oggetto del quesito referendario, come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria? La ritenete sufficiente? Può essere l’occasione di una riforma organica della cittadinanza?
F. Biondi Dal Monte. Il quesito referendario ha il pregio di sollecitare una riflessione sul tema e stimolare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. Tuttavia, mi pare che il disegno di legge approvato a fine marzo da parte del Consiglio dei Ministri – e ancora di più il d.l. n. 36 del 2025 – vada in una direzione differente rispetto ad una riforma organica della materia, concentrandosi solo su alcuni profili ritenuti meritevoli di attenzione. Si evidenzia comunque che, nelle premesse al d.l. n. 36/2025, la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure per evitare “un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza, tale da impedire l’ordinata funzionalità degli uffici consolari all’estero, dei comuni e degli uffici giudiziari” è affermata “nelle more dell’approvazione di una riforma organica delle disposizioni in materia di cittadinanza”. L’auspicio è pertanto quello di favorire un ampio confronto parlamentare sul disegno di legge annunciato a fine marzo, affinché in quella sede possano essere ampliati gli obiettivi della riforma.
Occorre dunque distinguere tra l’effetto diretto della richiesta referendaria che non può non investire solo alcune (poche) disposizioni e l’effetto (per così dire) indiretto, individuabile nell’apertura di un dibattito pubblico su una questione che dovrebbe occupare un ruolo centrale nell’agenda politica del Parlamento e del Governo.
G. D’Amico. La richiesta referendaria ha – com’era inevitabile – un carattere “parziale”, incidendo solo su alcune specifiche e ben circoscritte disposizioni. D’altra parte, non poteva avvenire diversamente. Se infatti fosse stato richiesta l’abrogazione totale dell’intera legge n. 91, siffatto quesito sarebbe incorso in una facilmente prevedibile inammissibilità, incidendo su una normativa costituzionalmente necessaria.
Ad analogo esito sarebbe andata incontro anche una richiesta che avesse investito più disposizioni della legge in parola, senza che fosse rinvenibile una matrice razionalmente unitaria.
Quanto poi al fatto che la richiesta referendaria possa essere l’occasione per una riforma organica della cittadinanza, credo che a questo esito possa giungersi solo nel caso di raggiungimento del quorum nella consultazione referendaria e di prevalenza dei voti favorevoli all’abrogazione delle disposizioni oggetto del quesito. Provo a spiegarmi meglio. Non v’è dubbio che la richiesta di referendum abbia contribuito a “rispolverare” il tema della modifica della legge sulla cittadinanza portandolo al centro del dibattito pubblico, ma basterebbe il mancato raggiungimento del quorum per farlo nuovamente cadere nel dimenticatoio per poi riemergere magari in occasione di qualche tornata elettorale.
V. A. Poso. È opportuno, credo, fare una riflessione sulla giurisprudenza delle Alte Corti, anche sovranazionali, per gli aspetti che possono interessare il tema oggetto del quesito referendario.
G. D’Amico. L’esame, sia pure superficiale, della giurisprudenza delle altre Alte Corti, sconta quel limite di cui sopra si è detto a proposito della comparazione. In altre parole, l’utilità della pronuncia di questa o quella Corte costituzionale o Corte Suprema o Tribunale costituzionale va sempre valutata alla luce del contesto di riferimento. Non si vuole qui negare in radice che l’argomento comparativo sia o possa essere un proficuo supporto per il giudice interno, ma si intende solo sottolineare l’importanza di un suo uso accorto. Nel caso di specie, questa preoccupazione tende a sfumare a seconda del livello di regolazione preso in esame. In altre parole, se si guarda al livello costituzionale della disciplina in materia non può che rilevarsi una comprensibile affinità tra le normative di Paesi diversi e quindi tra le giurisprudenze delle relative Corti Supreme; se invece, si scende al livello della legislazione primaria o organica (là dove essa è prevista) si colgono in tutta evidenza le diverse sfumature e quindi l’inevitabile divergenza delle relative giurisprudenze costituzionali.
F. Biondi Dal Monte. Muovendo dalla prospettiva in parola, non può non sottolinearsi l’importanza della pronuncia della Corte internazionale di giustizia nel caso Nottebohm del 1955, nel quale per la prima volta è stata sottolineata l’esistenza di limiti alla discrezionalità dei legislatori statali in materia di cittadinanza. Limiti, che, com’è facilmente comprensibile, si rendono necessari per evitare quei conflitti (sia positivi sia negativi) che possono sorgere tra le normative di Stati diversi nel caso in cui la loro applicazione comporti o il riconoscimento in capo a un individuo di plurime cittadinanze o, all’opposto, il mancato riconoscimento di alcuna cittadinanza e quindi la condizione di apolidia. Di qui l’esigenza pratica di rinvenire un nucleo fondamentale del diritto alla cittadinanza e legare il vincolo di cittadinanza tra la persona/cittadino e lo Stato all’esistenza di legami effettivi e genuini (genuine link).
Senza entrare nel merito delle decisioni di alcune Corti sovranazionali, merita di essere richiamato il fatto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non menziona siffatto diritto, che, nondimeno, ha trovato spazio (e riconoscimento) nella giurisprudenza della Corte EDU per il tramite dell’art. 8 della Convenzione. A fronte delle difficoltà che la Corte EDU ha incontrato nel riconoscere e garantire la cittadinanza come diritto fondamentale, si segnala invece come la Corte interamericana dei diritti umani abbia svolto da tempo un’opera di costante “rafforzamento” della configurazione della cittadinanza come diritto umano, sottolineando i limiti internazionali che la discrezionalità degli Stati incontra. Particolarmente interessanti anche alcune pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea in relazione al legame tra acquisizione/perdita della cittadinanza di uno Stato membro e cittadinanza dell’Unione.
V. A. Poso. Passiamo all’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024 che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 9, comma 1, lett. b) e lett. f), della l. n. 91/1992 (nei termini più sopra illustrati) al quale è stato assegnato il seguente titolo sintetico, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”: così semplificando la denominazione proposta dai promotori, della quale abbiamo detto sopra, e aggiungendo alla originaria proposta avanzata dalla Cassazione (con l’ordinanza interlocutoria del 2 dicembre 2024), per la migliore comprensione del quesito, il rifermento numerico ai tempi dimezzati, da 10 a 5 anni.
Nessun problema si pone per i requisiti di ammissibilità del referendum abrogativo individuati dalla Cassazione e per gli obiettivi perseguiti dai promotori chiaramente diretti a realizzare il dimezzamento dei tempi necessari per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli stranieri extracomunitari. Altrettanto penso si possa dire del carattere immediatamente e univocamente comprensibile ai cittadini chiamati al voto dell’oggetto del quesito referendario come individuato dalla sintetica denominazione adottata. Avete qualche osservazione e precisazione al riguardo?
F. Biondi Dal Monte. In proposito, occorre ricordare che l’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di cassazione è chiamato a svolgere un controllo sulla regolarità della richiesta referendaria che quindi non si sovrappone a quello della Corte costituzionale ma ne costituisce la premessa logica. La verifica della conformità a legge della richiesta non può infatti che precedere l’esame della sua ammissibilità che, come vedremo, comporta un sindacato anche sul quesito referendario.
Quanto poi alla denominazione del quesito, mi sembra evidente come la formula approvata dall’Ufficio centrale sia decisamente più comprensibile per l’elettorato.
G. D’Amico. Anche a mio avviso, l’Ufficio centrale per il Referendum non era chiamato a particolari approfondimenti per licenziare la richiesta referendaria, che si presentava lineare e di agevole comprensione. Per quanto possa apparire paradossale, semmai la denominazione originaria della stessa poteva indurre a qualche fraintendimento, essendo troppo legata, dal punto di vista letterale, alle disposizioni della legge n. 91 del 1992.
V. A. Poso. Con la sentenza n.11 del 7 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della norma e per le parti indicate oggetto del quesito.
La Corte Costituzionale, dopo aver rilevato che le disposizioni oggetto della richiesta referendaria sono estranee alle materie per le quali l’art. 75, comma 2, Cost. preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo, ha affermato di essere chiamata a valutare il rispetto dei soli requisiti concernenti la formulazione del quesito, non venendo in rilievo limiti concernenti l’ambito materiale investito dal quesito referendario. E richiama i principi espressi nella sentenza n. 16 del 1978.
Quali sono le Vostre valutazioni, di carattere generale, in merito al rispetto della norma costituzionale?
G. D’Amico. La sentenza n. 11 del 2025, pur non affermando principi nuovi, presenta profili di unicità nel panorama giurisprudenziale relativo alle norme sulla cittadinanza.
Se è vero, infatti, che la Corte, più volte e anche in tempi recenti, è stata investita di questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto norme della legge 5 febbraio 1992, n. 91(si pensi, tra le più recenti, alla sentenza n. 25 del 2025, in merito all’esonero dalla prova di conoscenza della lingua italiana del richiedente affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico, alla sentenza n. 195 del 2022, sulle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, e alla sentenza n. 258 del 2017 sull’obbligo di prestare il giuramento di fedeltà alla Repubblica per le persone affette da disabilità), con la decisione qui esaminata il Giudice delle leggi è stato chiamato per la prima volta ad affrontare un giudizio di ammissibilità di un referendum sulla legge in parola. A ciò si aggiunga che mai prima d’ora la Corte era stata investita di una questione attinente alla durata temporale del periodo di residenza in Italia affinché uno straniero potesse acquistare la cittadinanza italiana. È inutile aggiungere che la rilevanza di questa novità deriva dall’attualità del tema nel dibattito pubblico italiano, in cui ormai da anni si discute, in modo – a dire il vero – più propagandistico che reale, di ius soli e/o di ius scholae.
Nel giudizio definito con questa sentenza la Corte non era certamente chiamata ad occuparsi di questi profili, né, più semplicemente, a giudicare sulla costituzionalità della normativa vigente. Peraltro, per giurisprudenza costante (in realtà, più declamata che praticata), esula dalla valutazione di ammissibilità del referendum il sindacato sulla legittimità costituzionale della relativa norma di risulta.
Nel caso di specie, la domanda dei richiedenti ha ad oggetto l’abrogazione dell’intera disposizione di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 9 della legge de qua e di alcune parole della lettera b) del medesimo comma. Entrambe le disposizioni elencano alcuni dei soggetti a cui può essere concessa la cittadinanza italiana. In particolare, la lettera f) menziona lo «straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica». La lettera b) si rivolge invece allo «straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione».
È evidente che la prima delle due disposizioni reca la disciplina generale per la concessione della cittadinanza allo straniero, stabilendo un periodo di residenza legale di almeno dieci anni, mentre la seconda costituisce una delle previsioni speciali che consentono agli stranieri che si trovino in particolari condizioni (ad esempio, maggiorenni adottati da cittadini italiani, cittadini di Stati membri U.E., apolidi e rifugiati) di ottenere la cittadinanza anche dopo un periodo di residenza legale inferiore ai dieci anni (rispettivamente, cinque, quattro e cinque anni).
L’intento dei promotori è dunque quello di abrogare la norma generale, sostituendo a questa la previsione di cui alla lettera b), che diventerebbe tale in virtù dell’abrogazione dei riferimenti, ivi contenuti, all’adozione da parte di un cittadino italiano.
F. Biondi Dal Monte. La Corte costituzionale ha confermato che, in caso di approvazione del referendum abrogativo, verrebbe a essere modificato esclusivamente il tempo di residenza legale necessario per poter presentare la domanda di cittadinanza – pari a cinque anni – restando invece fermi i soggetti che potranno fare la richiesta, i restanti requisiti per presentarla (la residenza nel territorio della Repubblica e, ai sensi dell’art. 9.1 della l. n. 91/1992, l’adeguata conoscenza della lingua italiana), nonché la natura di «atto squisitamente discrezionale di “alta amministrazione”» del provvedimento concessorio.
Profilo importante della decisione, è anche la considerazione che la normativa di risulta non è estranea alla cornice normativa di riferimento. La Corte chiarisce infatti che lo stesso quinquennio di residenza legale sul territorio nazionale – oltre a essere stato per lungo tempo, nell’ordinamento giuridico italiano, il requisito temporale la cui sussistenza era necessaria allo straniero per poter richiedere la cittadinanza italiana (art. 4, comma primo, numero 2, della legge n. 555 del 1912) – è il requisito già oggi necessario ove vogliano richiedere la cittadinanza italiana gli stranieri maggiorenni adottati da cittadino italiano (ai sensi dell’altra disposizione oggetto della richiesta referendaria, l’art. 9, comma 1, lettera b), gli apolidi (art. 9, comma 1, lettera e), nonché coloro che siano stati riconosciuti rifugiati (art. 16): i cinque anni di residenza legale, pertanto, non sono una cifra che «figura in tutt’altro contesto normativo» (sentenza n. 36 del 1997) ma, al contrario, sono cifra già utilizzata dal legislatore per le medesime esigenze (sentenza n. 26 del 2017). Ciò esclude anche la natura manipolativa del quesito, perché l’approvazione della richiesta referendaria non genererebbe «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (sentenza n. 26 del 2017). Secondo la Corte, la normativa di risulta, al contrario, sarebbe pienamente in linea non solo con i princìpi (sentenza n. 49 del 2022), ma anche con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio già utilizzato dal legislatore (sentenza n. 13 del 1999) e del quale non muterebbe i «tratti caratterizzanti» (sentenza n. 10 del 2020).
V. A. Poso. Secondo la Corte costituzionale, la combinazione delle due diverse abrogazioni, avrebbe l’esito di consentire a tutti gli stranieri maggiorenni extracomunitari di ottenere, previa richiesta, la concessione della cittadinanza italiana, rendendo il quesito «omogeneo, chiaro e univoco» (punto n. 5 del Considerando in diritto). Condividete questa valutazione espressa anche alla luce delle precedenti sentenze n. 16 del 1978, n. 49 del 2022 e n. 50 del 2022?
F. Biondi Dal Monte. Sì, come affermato dalla Corte, è ammissibile anche la formulazione di quesiti che abbiano a oggetto singole parole o singole frasi, eventualmente anche prive di un autonomo significato normativo (sentenza n. 32 del 1993), come nel caso in questione. Tale tecnica – pur potendo portare a «importanti sviluppi normativi» (sentenza n. 49 del 2022), in quanto «abrogare non significa non disporre, ma disporre diversamente» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008) – non deve però trasformare il referendum abrogativo ex art. 75 Cost. in referendum propositivo. E infatti nel caso di specie, la richiesta non è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999). Non risulta dunque superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito, la quale del resto è in certa misura inevitabile, senza che per ciò solo il referendum dismetta il proprio carattere abrogativo.
G. D’Amico. La parte in diritto della motivazione della sentenza n. 11 si apprezza per la sua sintesi; la Corte, infatti, liquida rapidamente il problema dell’eventuale esistenza di limiti concernenti l’ambito materiale investito dalla richiesta referendaria, affermando perentoriamente che non vengono in rilievo nel caso di specie. Si aggiunga che siffatto approccio è anche giustificato dal carattere parziale e, tutto sommato, marginale dell’intervento abrogativo richiesto, limitato – come si è detto – a due disposizioni. Ben altro discorso si sarebbe reso necessario in presenza di un quesito di più ampia portata, che probabilmente avrebbe reso inevitabile il riconoscimento della legge in parola come costituzionalmente necessaria. Ciò nondimeno, la domanda referendaria non si rivolge affatto ad aspetti di dettaglio della legge, bensì a una delle norme centrali (appunto la previsione generale per gli stranieri extracomunitari), incidendo sul requisito temporale della residenza legale.
Il Giudice delle leggi si sofferma quindi sul «rispetto dei soli requisiti concernenti la formulazione del quesito», sottolineandone l’omogeneità, la chiarezza e l’univocità, oltre all’esistenza di una matrice razionalmente unitaria. Esclude poi che l’effetto abrogativo richiesto possa determinare una modificazione in peius della posizione dello straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano. Aggiunge che non è superata la «soglia di tollerabile manipolatività», mancando quei «connotati di manipolatività [del quesito] idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale». La disciplina vigente non è, infatti, sostituita con un’altra diversa ed estranea al contesto normativo.
Si tratta di considerazioni che non possono non essere condivise anche perché in linea con la giurisprudenza consolidata della Corte che, nell’ambito dell’ammissibilità referendaria, non brilla per la coerenza delle posizioni assunte nel tempo e soprattutto si segnala per un atteggiamento tendenzialmente restrittivo nei confronti delle richieste popolari di abrogazione di leggi.
V. A. Poso. C’è da dire, anche, concordando con la posizione difensiva espressa dai promotori e condivisa dalla Consulta, che la parziale abrogazione dell’art. 9, comma 1, lett. b), non determinerebbe alcuna modifica in peius della posizione dello straniero maggiorenne adottato da un cittadino italiano perché lo rende legittimato a richiedere la concessione della cittadinanza italiana solo dopo cinque anni di residenza in Italia, mentre in base alla normativa vigente i cinque anni decorrono dall’adozione, anche per il caso in cui si tratti di soggetto già legalmente in Italia.
F. Biondi Dal Monte. Sì, certamente, la posizione dello straniero maggiorenne adottato da un cittadino italiano non subirebbe alcuna modifica in peius, poiché questi potrebbe comunque richiedere la concessione della cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza in Italia.
G. D’Amico. Concordo con la risposta della prof.ssa Biondi Dal Monte e aggiungo che la disposizione oggi vigente (art. 9, comma 1, lettera b) prevede la concessione della cittadinanza «allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione». Di conseguenza, nel quadro normativo attuale, il periodo di cinque anni di residenza in Italia si calcola a partire dall’adozione mentre, qualora fosse approvata l’abrogazione referendaria, si calcolerebbe a prescindere dal momento dell’adozione, ben potendo quindi essere anteriore a quest’ultima.
V. A. Poso. E tuttavia potrebbe ritenersi contraddetta la natura abrogativa dell’istituto referendario (v. sentenza n. 59 del 2022) proprio dalla combinazione di due abrogazioni, una parziale e una totale, per dar vita alla norma di risulta che abbiamo sopra illustrato. La Corte Costituzionale lo esclude (punto n. 6 del Considerando in diritto) richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali.
G. D’Amico. La motivazione svolta sul punto dalla Corte mi pare condivisibile. La constatazione che la normativa di risulta venga fuori dalla combinazione di due abrogazioni, una parziale e una totale, non mi sembra di per sé un argomento per escludere in generale l’ammissibilità di una richiesta referendaria e, nel caso di specie, di quella qui in esame.
F. Biondi Dal Monte. Anch’io condivido la posizione assunta dalla Corte sul punto. D’altra parte, a voler ragionare in termini diversi si finirebbe con il negare l’ammissibilità della gran parte dei quesiti referendari e con il ritornare quindi a una logica formalistica per cui con il referendum ex art. 75 Cost. si può solo chiedere la rimozione di una o più disposizioni senza che si possa produrre alcun effetto di riespansione di una previsione già esistente.
V. A. Poso. Una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999), con riferimento non solo al dimezzamento dei tempi necessari per formulare la richiesta di concessione della cittadinanza, ma anche alla parificazione dei soggetti adottati, ai fini del requisito della residenza legale in Italia.
Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
F. Biondi Dal Monte. A mio parere, la soglia di tollerabile manipolatività non è affatto superata per le ragioni indicate nella sentenza e richiamate nella domanda. Anzi il caso in esame mi sembra costituire una vicenda emblematica del funzionamento del meccanismo di espansione della portata applicativa di una disposizione già presente nel sistema a seguito dell’abrogazione di un’altra previsione normativa.
G. D’Amico. Condivido anch’io la tesi per cui, nel caso di specie, non è superata la «soglia di tollerabile manipolatività», mancando – come testualmente dice la Corte – quei «connotati di manipolatività [del quesito] idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale». La disciplina vigente non è, infatti, sostituita con un’altra diversa ed estranea al contesto normativo.
Se tutto ciò è vero, come in effetti lo è, non può però negarsi che l’eventuale abrogazione referendaria finirebbe con l’appiattire i requisiti temporali voluti dal legislatore. La legge n. 91 del 1992 si caratterizza, infatti, per l’aver previsto una variegata gamma di termini di durata della residenza legale, distinguendo tra le varie ipotesi al fine di differenziare la posizione dei soggetti a seconda delle loro caratteristiche. Si pensi, al riguardo: ai due anni di residenza legale richiesti allo straniero o apolide, al raggiungimento della maggiore età, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado siano stati cittadini per nascita (art. 4, comma 1, lettera c); alla residenza ininterrotta fino alla maggiore età per lo straniero nato in Italia (art. 4, comma 2); ai due anni per il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano (art. 5, comma 1), che possono diventare uno in presenza di figli (art. 5, comma 2) e così via dicendo.
Da questo punto di vista, eliminando il termine lungo di residenza decennale, l’abrogazione referendaria schiaccerebbe verso il basso l’articolazione temporale voluta dal legislatore.
Poteva questa considerazione indurre alla Corte a una decisione di inammissibilità? Probabilmente, sarebbe stato eccessivo questo esito. Nondimeno, resta il fatto che l’eventuale accoglimento del quesito referendario dovrebbe indurre il legislatore a rimettere mano all’articolazione temporale di cui si è appena detto.
V. A. Poso. Escludete, quindi, mi pare di capire, che l’approvazione della richiesta referendaria verrebbe a generare «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020), in base alle considerazioni espresse prima?
G. D’Amico. Mi sento di poter escludere categoricamente che l’approvazione della richiesta referendaria possa generare un assetto normativo nuovo. Come ho cercato di evidenziare nella precedente risposta, l’eliminazione di quella “distribuzione”, voluta dal legislatore quanto ai periodi di residenza, non determina affatto un assetto sostanzialmente nuovo della disciplina di cui qui si discute.
F. Biondi Dal Monte. Non vi è dubbio che l’abrogazione referendaria comporti, per sua stessa natura, un quid novi. D’altra parte, se così non fosse, non avrebbe ragion d’essere. Ciò nondimeno, nel caso di specie, la regola nuova della residenza legale protratta per cinque anni sarebbe il frutto della espansione di una previsione già presente nel tessuto normativo in parola. Mi sento quindi di escludere che si possa determinare un assetto normativo sostanzialmente nuovo.
V. A. Poso. Quindi, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte.
F. Biondi Dal Monte. Sì, è proprio così. Non mi pare che si possa rilevare alcuno stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo.
G. D’Amico. Sono d’accordo con la prof.ssa Biondi Dal Monte. Ritengo infatti che l’osservazione da me fatta in merito allo “schiacciamento” dei tempi di durata della residenza legale, determinato dall’eventuale abrogazione referendaria, non produca alcuno stravolgimento.
V. A. Poso. Già subito dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si potevano prospettare per evitare il voto popolare erano assai problematici. A maggior ragione, ora, che siamo ormai prossimi al voto. La mia domanda, quindi, è davvero retorica. Si fa, così, per discutere: quale potrebbe essere l’intervento del legislatore (non solo quello demolitorio, ovviamente) sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
G. D’Amico. Siamo ormai a ridosso della consultazione referendaria. Di conseguenza, qualsiasi tentativo di bloccarla mi parrebbe velleitario e destinato all’insuccesso. In linea puramente teorica, un intervento legislativo idoneo a evitare il referendum avrebbe potuto essere quello volto a modificare il termine di durata della residenza legale di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 9 o addirittura a riscrivere l’intero impianto della legge n. 91 del 1992. È facile però rilevare che nessuno di questi interventi era nell’agenda politica del Parlamento e del Governo
F. Biondi Dal Monte. Condivido quanto detto dal prof. D’Amico e aggiungo che il d.l. n. 36 del 2025 è stato già convertito in legge, come abbiamo detto sopra, con l’approvazione del 20 maggio 2025 da parte della Camera dei deputati. Certo, la conversione del disegno di legge poteva essere l’occasione per intervenire sulla materia oggetto del referendum in esame, ma così non è stato.
V. A. Poso. Mi sembrano ovvi e scontati gli scenari che si prospettano in caso di esito positivo del voto popolare, trattandosi di norma di risulta auto-applicativa. Potrebbe essere, questo referendum, l’occasione per un intervento del legislatore diretto a riformare integramente la normativa sulla cittadinanza italiana? Quali sono, secondo Voi, i punti essenziali di una riforma che risponda alla migliore integrazione degli stranieri extracomunitari nel contesto politico, sociale ed economico esistente?
F. Biondi Dal Monte. Sinceramente mi auguro che l’esito positivo di questa consultazione referendaria dia avvio a un percorso riformatore della legge n. 91 del 1992. A mio avviso, una riforma organica della legge sulla cittadinanza dovrebbe valorizzare, al di là della propaganda politica, l’esistenza di quei legami effettivi tra la persona e la comunità italiana. Nell’individuazione dei presupposti per il riconoscimento della cittadinanza, dovrebbero dunque essere privilegiati alcuni indici di integrazione sul territorio, eliminando ogni inutile aggravamento burocratico per gli stranieri che risiedono da tempo in uno Stato o che, addirittura, vi sono nati. Si tratta di un processo che deve prioritariamente compiersi in via politica e dal quale dipenderà la coesione sociale delle future società democratiche. I progetti di riconoscimento della cittadinanza in base al c.d. ius scholae vanno sicuramente in questa direzione.
G. D’Amico. L’auspicio è che la stagione referendaria attuale non finisca con l’essere un fuoco di paglia, destinato a spegnersi nel breve volgere di qualche settimana, specie se – come temo – non si raggiungerà il quorum di validità. Più in generale, mi pare sia emersa in gran parte della dottrina, oltre che tra gli operatori del settore, l’esigenza di una completa riscrittura della legge n. 91 del 1992, approvata in un contesto sociale e politico completamente diverso da quello attuale. In particolare, credo che la riscrittura della legge sulla cittadinanza non possa prescindere da una visione d’insieme (e quindi dalla considerazione) del fenomeno migratorio. È chiaro però che finché quest’ultimo verrà affrontato solo in termini di gestione dell’ordine pubblico, ogni speranza di mettere mano a una riforma organica di questa legge resterà nel libro dei sogni.
Città “immaginata” e città “realizzata” secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2024, n. 14)
Sommario: 1. La vicenda. – 2. L’orientamento (sino ad ora) consolidato del giudice amministrativo e le ragioni della remissione della questione all’Adunanza Plenaria. – 3. Per una interpretazione in senso sostanziale del concetto di totale difformità dal permesso di costruire. – 4. Conclusioni: l’eterogeneità delle ipotesi di “incompiutezza” e la consequenziale esigenza di regimi differenziati.
1. La vicenda.
L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi sul regime giuridico applicabile alle opere edilizie regolarmente assentite ma solo parzialmente realizzate entro il termine di efficacia del titolo, con specifico riferimento all’ipotesi nella quale - a seguito della decadenza del permesso di costruire - non vi sia alcuna iniziativa da parte del soggetto interessato volta a conseguire il completamento dei lavori.
Come noto, ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, l’opera deve essere completata non oltre tre anni dall'inizio dei lavori, con la conseguenza che, decorso tale termine “il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”[1]. La norma, in effetti, non chiarisce espressamente il regime giuridico delle opere incomplete realizzate nel corso della vigenza del titolo, limitandosi a disporre che “la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività”.
Il fenomeno non è affatto secondario. Nell’intera penisola si registra la presenza di numerosi manufatti – spesso di notevoli dimensioni e, quindi, particolarmente impattanti – i cui lavori vengono iniziati a seguito del rilascio di un legittimo titolo abilitativo, ma mai portati a termine. Mura non intonacante e prive di copertura, pilastri da cui emergono armature di ferro arrugginite, scheletri di cemento del tutto privi di funzione e spesso da tempo abbandonati, che non solo deturpano la bellezza del nostro territorio, ma rappresentano altresì un chiaro ostacolo per il pianificatore, nonché per l’attuazione di processi di rigenerazione urbana.
Come emergerà nel prosieguo, la questione va ben al di là del profilo estetico, interessando aspetti di tipo ambientale (consumo dei suoli e inquinamento derivante dal deterioramento dei materiali), economico (deprezzamento dell’intera area), e sociale (attesa l’influenza del degrado urbano sulla qualità della vita).
La gran parte dei manufatti non ultimati è di proprietà privata[2], e solo in piccola percentuale si tratta di volumi abusivi in senso proprio, ovvero realizzati in assenza di un titolo abilitativo; molti di essi sono, al contrario, il frutto di lavori legittimamente assentiti – quindi originariamente dotati di regolare permesso di costruire – ma poi, per le più diverse ragioni, non ultimati.
La vicenda oggetto di pronuncia rientra per l’appunto in quest’ultima fattispecie, originando dal rilascio di un permesso di costruire finalizzato alla realizzazione di garages interrati, i cui lavori venivano sospesi poco dopo il loro avvio e non più ripresi. La sospensione avveniva in ragione di una sentenza penale con la quale erano stati condannati sia il commissario ad acta che aveva rilasciato il titolo sia il soggetto richiedente, sentenza che aveva incidenter accertato la assoluta illegittimità del permesso di costruire rilasciato. L’amministrazione comunale, tuttavia, non annullava il titolo abilitativo, bensì – decorsi i tre anni dalla comunicazione di inizio lavori – ne dichiarava la decadenza. Successivamente, su sollecitazione di WWF Italia, il comune dapprima ordinava il ripristino dello stato dei luoghi per come risultante in epoca antecedente all’esecuzione delle opere e, in seguito – attesa la mancata ottemperanza all’ordine da parte del proprietario – acquisiva la particella al patrimonio comunale.
Entrambi i provvedimenti (ordine di demolizione e acquisizione) venivano impugnati innanzi al T.A.R. Campania, che tuttavia concludeva per la legittimità degli stessi, affermando che la decadenza del permesso di costruire “travolgerebbe” anche le opere realizzate entro il termine di efficacia del titolo, salvo il caso in cui sia consentito ultimare l’intervento, circostanza esclusa nel caso di specie, atteso che nell’area di riferimento risultavano ammissibili unicamente interventi edificatori di iniziativa pubblica.
Avverso tale decisione veniva proposto appello, fondato essenzialmente sulla considerazione che le opere eseguite in virtù di un titolo edilizio legittimo ed efficace, poi decaduto (ma non annullato), non avrebbero potuto essere oggetto di una sanzione demolitoria. L’amministrazione, infatti, avrebbe erroneamente ritenuto potersi configurare nel caso di specie un’ipotesi di abuso edilizio, laddove, al contrario, l’inefficacia del titolo scaturente dalla decadenza del medesimo opererebbe ex nunc, ovvero unicamente nei confronti degli eventuali interventi eseguiti senza titolo successivamente alla scadenza del termine di tre anni dall’inizio dei lavori.
Ebbene, in sede di appello, il Collegio[3] – pur ricordando che la giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato si è più volte espressa nel senso di ritenere non applicabile la sanzione demolitoria nei confronti delle opere (anche parziali) realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio, ove conformi al progetto assentito – prospetta una possibile differente ricostruzione della fattispecie, consistente nella configurazione dell’opera solo parzialmente eseguita in termini di manufatto difforme dal titolo abilitativo (e, quindi, abusivo), con conseguente inclusione della fattispecie nell’ambito applicativo dell’ordine di demolizione di cui all’art. 31 d.P.R. n. 380/2001. Ciò posto, il giudice remittente ha ritenuto opportuno, ai fini della soluzione della controversia, rinviare previamente la questione all’Adunanza Plenaria, sottoponendole il seguente quesito: “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”.
2. L’orientamento (sino ad oggi) consolidato del giudice amministrativo e le ragioni della remissione della questione all’Adunanza Plenaria.
L’interrogativo di fondo è se l’amministrazione possa intervenire con l’esercizio del potere sanzionatorio anche quando l’opera incompiuta sia il risultato di un’attività originata da un titolo abilitativo legittimo, attesa l’assenza di modifiche alle caratteristiche tipologiche del progetto presentato, nonché la mancanza di volumi ulteriori rispetto a quelli assentiti. La fattispecie comprende, in altri termini, le ipotesi nelle quali il privato si sia limitato a realizzare solo una parte di quanto avrebbe potuto (dovuto), ma sempre nei confini di quanto autorizzato.
La lacuna normativa dalla quale origina il quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria concerne, quindi, la qualificazione – in termini di abuso o meno – di un immobile incompleto, in relazione al quale o manchi qualsiasi iniziativa volta a concludere i relativi lavori o, come nel caso di specie, un’eventuale iniziativa in tal senso sarebbe destinata a fallire in ragione dell’incompatibilità con la normativa urbanistico-edilizia di riferimento. Come già ricordato, la norma si limita a prevedere che, una volta decorso il termine, il permesso decada “per la parte non eseguita”, il che sembrerebbe configurare quanto costruito come perfettamente legittimo, indipendentemente dallo stato di avanzamento dei lavori raggiunto.
Queste sono, in effetti, le conclusioni sulle quali si è assestata l’esigua giurisprudenza che sino ad oggi si è occupata della questione, laddove afferma che “la decadenza dal titolo edilizio per mancata ultimazione dei lavori nei termini non implica l'obbligo di disporre la demolizione delle opere realizzate nel periodo di validità del titolo edilizio, le quali non possono essere ritenute abusive ove risultino conformi al progetto approvato con il permesso di costruire, ma comporta semplicemente la necessità del titolare decaduto di chiedere un nuovo permesso per l'esecuzione delle opere non ancora ultimate”[4].
Tale orientamento si fonda sul presupposto (invero non contestabile) che la decadenza operi unicamente ex nunc, non travolgendo quindi l’efficacia del titolo ab initio[5]. Da qui deriverebbe come immediata conseguenza (questa volta, come si vedrà, contestabile) l’inapplicabilità al caso di specie del regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001: l’ordine di demolizione sarebbe legittimo solo laddove avesse ad oggetto non le opere realizzate in costanza di efficacia del permesso, bensì eventuali interventi posti in essere successivamente alla scadenza del termine di tre anni, senza il previo ottenimento di una proroga o di un nuovo titolo.
In questa prospettiva, il giudice remittente svolge anche ulteriori riflessioni, con particolare riferimento alla disciplina di cui all’art. 38 del t.u. edilizia, ai sensi del quale – in caso di interventi eseguiti in base ad un permesso di costruire successivamente annullato – è prevista la possibilità di comminare una sanzione pecuniaria in luogo della restituzione in pristino[6]. Ebbene, osserva il Collegio, se la ratio dell’introduzione di un regime sanzionatorio più mite in relazione ad opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad interventi ab origine abusivi si giustifica in ragione dell’opportunità di tutelare il legittimo affidamento del privato[7], “striderebbe con i principi ritraibili dall’esame comparativo di tali norme un’applicazione estensiva della più grave sanzione demolitoria ex art.31 del T.U. prima citato, in una fattispecie di opere eseguite in conformità ad un titolo (nemmeno rimosso ma semplicemente) decaduto”.
3. Per una interpretazione in senso sostanziale del concetto di totale difformità dal permesso di costruire.
In uno scritto di qualche anno addietro, chi scrive aveva provato a porre in discussione il descritto orientamento consolidato del giudice amministrativo, valorizzando, da un lato, la funzione sociale del diritto di proprietà e, dall’altro lato, la centralità del fattore temporale nelle dinamiche di trasformazione del territorio[8].
Una lettura non superficiale della funzione di pianificazione del territorio, così come risultante dalle coordinate costituzionali e dai principi generali di riferimento, non può limitarsi a valorizzarne la portata “spaziale”, dovendosi attribuire alla stessa anche il ruolo di strumento per la definizione di un determinato modello di sviluppo socioeconomico del territorio. L’esercizio del potere pianificatorio e dei correlati c.d. poteri conformativi, in altri termini, non è finalizzato alla sola ordinata distribuzione di volumi e infrastrutture, in una prospettiva, quindi, meramente quantitativa e dimensionale: al pianificatore, piuttosto, è richiesta la definizione di un vero e proprio “disegno” del territorio, che tenga conto delle potenzialità edificatorie non in astratto, bensì in relazione alle effettive esigenze economico-sociali della comunità[9]. In tale ottica, si giustifica la previsione di una zonizzazione funzionale, oltre che strutturale, volta a rivestire i singoli volumi di una dimensione anche qualitativa, con la conseguenza che il rilascio di un titolo abilitativo finisce per rappresentare il frutto di una valutazione (effettuata in sede di pianificazione) che va ben oltre la mera verifica quantitativa circa la compatibilità tra l’assetto del territorio ed i volumi in progetto[10].
Se si aderisce a tale ricostruzione, è bene chiarirlo sin d’ora, deve coerentemente ritenersi che al cittadino al quale venga rilasciato un permesso di costruire non possa essere consentito realizzare anche solo una parte di quanto progettato (purché nell’ambito dei volumi assentiti), come invece pure sostenuto da una parte della giurisprudenza[11]: egli, piuttosto – essendo chiamato (anche) a contribuire al complessivo disegno di sviluppo del territorio – è tenuto ad attuare esattamente quanto richiesto, e per di più nei tempi previsti. Non può ritenersi ammissibile, in altri termini, fissare gli obiettivi di sviluppo nel piano e lasciare alla libera iniziativa dei singoli la scelta circa il “se” e il “quando” attuarli, dovendosi al contrario dotarsi di strumenti in grado di incentivare e indirizzare la realizzazione di quanto prescritto, attraverso la definizione di mezzi, procedure e, per l’appunto, tempi[12].
A tale idea si ispira evidentemente il modello di pianificazione definito «a due stadi», laddove si affianca ad una parte strutturale, contenente le c.d. invarianti, una parte operativa, chiamata invece a definire concretamente le trasformazioni da realizzarsi e, soprattutto, entro quanto tempo ciò debba avvenire[13]: il piano, si ribadisce, nella sua dimensione operativa non si limita a riconoscere in capo al privato la possibilità di “calare” una certa volumetria sulla propria area, ma impone allo stesso anche il rispetto di una determinata tempistica per realizzare (esattamente) quanto autorizzato.
La centralità del fattore “tempo” trova, poi, piena conferma nella stessa disciplina del permesso di costruire e nella relativa indicazione dei termini di inizio e ultimazione dei lavori. Come ricorda la pronuncia in commento, “l’indicazione dei termini nel titolo abilitativo trova la sua ragione nella necessità di avere una certezza temporale riguardo le attività di trasformazione urbanistico edilizia del territorio, che per propria natura è frazionata nel tempo, al fine di impedire che l’eventuale modifica delle previsioni pianificatorie possa essere condizionata senza limiti temporali da antecedenti permessi di costruire”. Al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che entro il termine di ultimazione dei lavori l’opera deve essere realizzata sia nella sua dimensione strutturale che funzionale, dovendo la costruzione essere potenzialmente idonea ad assolvere alla destinazione prevista. La stessa nozione di “opera completata” è, allora, legata non solo alla circostanza che il manufatto risulti materialmente realizzato nelle sue strutture portanti, ma anche che esso si riveli funzionalmente adeguato allo scopo per il quale era stato progettato[14].
Ebbene, come già osservato, nelle ipotesi in cui i lavori non risultino completati entro il termine indicato nel titolo, la norma dispone la decadenza dello stesso “per la parte non eseguita”. La centralità riconosciuta alla coordinata temporale, tuttavia, non comporta una assoluta rigidità della stessa, se solo pensiamo che il legislatore ha previsto la possibilità per l’interessato, da un lato, di ottenere la proroga del termine prima della scadenza del permesso di costruire[15], e, dall’altro lato, in caso di avvenuta decadenza, di richiedere un nuovo titolo (o, nel caso, di presentare una s.c.i.a.) per il completamento delle opere[16].
Alla luce del contesto delineato, è allora possibile ricostruire correttamente la fattispecie in esame, facendone emergere la complessità e la correlata esigenza di effettuare puntuali distinguo. Come detto, a fronte di un intervento non ultimato e della relativa decadenza del titolo, il legislatore si limita ad indicare al soggetto interessato le modalità attraverso cui portare a compimento i lavori (la richiesta di un nuovo permesso o la presentazione di una s.c.i.a.), dando in qualche modo per scontata la volontà di ultimare l’opera iniziata: manca del tutto, dunque, una disposizione atta a regolare il caso (invero, come è emerso, niente affatto raro) nel quale questa volontà non sussista.
Ciò posto, la Plenaria affronta la questione in una prospettiva, pienamente condivisibile, secondo la quale occorrerebbe in primo luogo verificare di volta in volta il livello di incompiutezza rilevabile: se gli interventi ancora da realizzarsi sono circoscritti e, di fatto, la loro assenza non preclude una (anche parziale) funzionalità dell’opera, appare coerente con la complessiva disciplina del regime dei suoli che la mancata realizzazione dell’intero intervento entro il termine finale comporti semplicemente l’inefficacia del titolo per la parte non eseguita. Al contrario, a fronte di un volume gravemente incompleto e, quindi, del tutto inidoneo a soddisfare quella funzione a cui era stato destinato (o altra analoga), la reazione dell’ordinamento non può che essere di diverso tenore, nella misura in cui l’inerzia del privato finisce per assumere un significato che va ben oltre la sua posizione individuale di proprietario[17]. Se, infatti, ci ricorda il Collegio, la ratio del previo rilascio del titolo abilitativo riposa nella necessaria verifica che il nuovo manufatto sia coerente con il complessivo disegno del pianificatore, assolvendo alla funzione di garantire il corretto inserimento del manufatto sul territorio, allora trova conferma la tesi secondo la quale il permesso di costruire non riconoscerebbe al cittadino la facoltà di realizzare ciò che desidera “entro” un certo volume, bensì “gli consente l’edificazione di quello specifico fabbricato descritto nel progetto (quanto all’area di sedime, al perimetro, alla sagoma, ai volumi, alle altezze, ecc.)”.
La (grave) non conformità (strutturale e funzionale) del manufatto non permette, quindi, di tollerarne la permanenza sul territorio, con consequenziale dovere dell’amministrazione di ordinarne la demolizione. E ciò nel pieno rispetto della tassatività del regime sanzionatorio[18], nella misura in cui la fattispecie in questione non rappresenta affatto un’ipotesi ulteriore di abuso, rientrando piuttosto nella tipologia della totale difformità. L’accezione che di quest’ultima viene tralatiziamente proposta da parte della giurisprudenza, sia amministrativa che penale – ovvero di intervento connotato dalla esecuzione di volumi ulteriori rispetto a quelli autorizzati – si rivela a ben vedere errata o, meglio, parziale[19]. La totale difformità, infatti, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, si configura ogniqualvolta si realizzi un organismo edilizio integralmente diverso - per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di utilizzazione - da quello oggetto del permesso stesso, ovvero si eseguano volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto[20]. Il che consente di qualificare come abusivo un immobile ogni qual volta il risultato finale consista in una struttura che non sia in alcun modo riferibile a quella assentita, con la specificazione che la realizzazione di un incremento volumetrico non consentito rappresenta solo una delle possibili fonti di tale difformità, configurabile, sottolinea la Plenaria, anche nel caso in cui vi sia il “mancato completamento della costruzione e vi sia un aliud pro alio”.
Ebbene, nel condurre alle logiche conseguenze il proprio percorso argomentativo, il Collegio inquadra la fattispecie in esame nella categoria del “non finito architettonico”[21] – ravvisabile quando le opere realizzate risultano incomplete strutturalmente e funzionalmente, tanto da condurre ad un manufatto diverso da quello autorizzato – facendone poi derivare la piena sussistenza del fondamento normativo per disporre la restituzione in pristino, consistente nella configurazione di un abuso, sub specie di difformità totale dal permesso di costruire.
Interessante, al riguardo, una pronuncia del Consiglio di Stato che già nel 2021 sembrava accogliere tale prospettiva, laddove specificava come si potesse configurare la legittimità degli interventi realizzati prima della decadenza del titolo solo a condizione che “dette opere siano autonome e scindibili”, ovvero abbiano una loro seppur parziale funzionalità[22]. Del resto, a supporto delle conclusioni cui giunge la pronuncia in commento, l’amministrazione giammai avrebbe potuto rilasciare il permesso di costruire nell’ipotesi in cui il progetto originariamente presentato dal privato fosse stato quello poi effettivamente realizzato, ovvero lo scheletro edilizio; pertanto, afferma la Plenaria, il principio di simmetria impone all’amministrazione di “ordinare la rimozione dello ‘scheletro’, che risulti esistente in conseguenza della decadenza del permesso di costruire”.
In definitiva – una volta sollecitato, senza esito, il privato ad attivarsi al fine di portare a compimento l’opera – l’amministrazione non potrebbe non reagire di fronte ad un’ipotesi di grave abuso edilizio, con conseguente configurazione in capo alla stessa del dovere di emanare l’ordinanza di demolizione del manufatto, attesa la natura di atti obbligatori a contenuto non discrezionale riconosciuta ai provvedimenti repressivi in materia edilizia[23]. Tali conclusioni, osserva la Plenaria, non configurano affatto una violazione del principio di proporzionalità rispetto al regime meno lesivo di cui all’art. 38 del T.U. edilizia (come pure invece prospettato dalla Sezione remittente), trattandosi di due fattispecie del tutto differenti: in caso di non finito architettonico, il ripristino dello stato dei luoghi si giustifica a fronte della accertata divergenza tra quanto autorizzato e quanto realizzato, divergenza “che non sussiste nell’ipotesi dell’art. 38 cit., in quanto in quel caso il legislatore ha ritenuto di disciplinare una fattispecie peculiare, caratterizzatadall’annullamento del permesso di costruire e dalla conformità delle opere al titolo ormai annullato”.
4. Conclusioni: l’eterogeneità delle ipotesi di “incompiutezza” e la consequenziale esigenza di regimi differenziati.
Alla luce delle considerazioni svolte, emerge con chiarezza come il fenomeno del non finito architettonico sia connotato da una notevole complessità intrinseca e abbia un impatto che va ben al di là del singolo episodio. A ben vedere, infatti, esso intercetta tre elementi centrali delle politiche di governo del territorio: la differenza tra città pianificata e città realizzata, la lotta al degrado urbano, la valorizzazione del fattore temporale. La mancata concretizzazione, nei tempi stabiliti, di quanto autorizzato rende “incompleto” il disegno del pianificatore, frustrando le istanze di sviluppo insite nel piano, con l’aggravio rappresentato dall’inserimento nel contesto urbano di un elemento (lo “scheletro” edilizio) fonte di per sé di degrado ambientale, paesaggistico e sociale.
Il fenomeno è, poi, direttamente legato a quello che forse oggi rappresenta il “tema per eccellenza” del governo del territorio: il consumo di suolo[24]. Gli episodi di incompiutezza architettonica e urbana concorrono, infatti, a rendere incoerenti gli insediamenti e ad incrementare il c.d. sprawl urbano, una delle principali fonti di perdita delle aree di valore ambientale[25].
Ciò premesso, appare evidente la rilevanza delle conclusioni cui giunge la Plenaria con una pronuncia attenta alle reali dinamiche e agli interessi sottesi alle trasformazioni edilizie. Il superamento del precedente orientamento e la consequenziale configurazione del “non finito architettonico” in termini di abuso edilizio, consente finalmente di valicare diversi ostacoli che sino ad oggi hanno spesso impedito di portare a termine processi di rigenerazione urbana, fornendo una soluzione ad un problema di grave degrado, e ottemperando, nel contempo, anche alle pressanti esigenze di razionalizzazione dell’utilizzo della risorsa territorio nell’ottica della riduzione del consumo di suolo. Tra le linee di azione volte ad ottimizzare le politiche di governo del territorio in considerazione della scarsità del suolo vi è, infatti, proprio l’esigenza di tenere in debito conto tutte le risorse inutilizzate, quali siti dismessi e, per l’appunto, edifici la cui costruzione non sia stata terminata.
Non secondaria, poi, la risoluzione di quella evidente contraddittorietà che si registrava tra l’assoggettare alle eventuali sopravvenienze urbanistiche il proprietario che non avesse chiesto per tempo la proroga del permesso di costruire, e il ritenere legittimo (e, quindi, “intangibile”) il manufatto incompleto, con conseguente impossibilità per l’amministrazione di ri-pianificare diversamente l’area.
Permangono, tuttavia, anche a seguito della pronuncia della Plenaria, alcuni elementi di incertezza nella interpretazione del fenomeno in questione. La sentenza, infatti, non chiarisce appieno quello che probabilmente rappresenta il profilo più delicato, laddove afferma che il non finito architettonico si configura qualora – a fronte di un manufatto incompleto – vi sia stata la decadenza del permesso di costruire e “non sia possibile ottenere un nuovo titolo abilitativo, ovvero l’interessato non lo richieda”. L’incertezza si rinviene nella circostanza che il legislatore non indica affatto un termine entro il quale il privato sia tenuto a chiedere il nuovo titolo finalizzato a completare l’opera, il che rende se non altro problematica l’individuazione della sussistenza dell’ultimo presupposto indicato dalla Plenaria. In assenza di un termine legale, infatti, non vi è certezza su quando il titolo non possa essere più richiesto (se non nelle ipotesi in cui la disciplina urbanistico-edilizia dell’area sia mutata e non contempli più quel tipo di intervento edilizio), né tantomeno su quando si possa affermare che il privato non abbia intenzione di chiedere il nuovo titolo. De iure condendo,al fine di giungere ad un assetto di interessi davvero connotato da assoluta certezza, occorrerebbe stabilire ex lege un termine massimo entro cui il privato possa attivarsi per portare a compimento i lavori, ad esempio introducendo una modifica del seguente tenore all’art. 15 co. 3 del d.P.R. n. 380/2001: “La realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, da richiedere entro un anno dalla decadenza del precedente titolo”.
Altro profilo critico è rappresentato dall’indeterminatezza del concetto di “non finito” o “incompleto” architettonico[26]: non sempre, infatti, ci si trova di fronte a ipotesi come quella oggetto della pronuncia della Plenaria, ovvero nelle quali il grado di incompiutezza è tale da rendere non dubitabile l’assenza di una autonoma funzionalità degli interventi realizzati[27]; in molti casi, il manufatto incompiuto è dotato di una propria (magari minima) funzionalità, sebbene differente e incompatibile con quella originariamente prevista nel titolo: ci si chiede, allora, se anche in tale ipotesi si configuri una fattispecie di abuso per totale difformità. Sul punto, la Plenaria non assume una posizione chiara: in alcuni passaggi, infatti, essa sembra legare l’operatività dell’art. 31 cit. alle sole ipotesi di grave incompiutezza, ad esempio quando richiama la figura dello “scheletro” edilizio come paradigma del non finito architettonico (pag. 19); tuttavia, tale assunto si rivela in contrasto con quanto si legge in altra parte della medesima pronuncia, laddove si afferma che le trasformazioni edilizie sarebbero da considerarsi lecite solo allorquando vi sia “coincidenza tra quanto è stato assentito e quanto è stato realizzato”, potendo essere ritenuti conformi unicamente i manufatti “autonomi funzionalmente” ai quali “manchino soltanto opere marginali” (pag. 20).
Quel che è certo è che, a seguito delle precisazioni della Plenaria, non è più possibile ritenere che la categoria della totale difformità dal titolo edilizio sia connotata da uniformità: occorre, piuttosto, che l’amministrazione “misuri” di volta in volta le divergenze (strutturali e funzionali) e valuti se si configurino o meno i presupposti per l’ipotesi di non finito architettonico, con tutte le conseguenze in termini non solo di legittimità, ma anche di doverosità del successivo ordine di demolizione. Laddove, invece – nonostante l’incompiutezza di quanto realizzato – le opere dovessero comunque risultare autonome, scindibili e funzionali, le determinazioni del comune potrebbero essere tanto nel senso di considerarle sostanzialmente conformi al titolo abilitativo, quanto nel senso di ritenere applicabile la disciplina di cui all’art. 34 (Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire) o all’art. 36 (Accertamento di conformità) del T.U. Edilizia[28].
In conclusione, gli approdi cui giunge la Plenaria – per quanto non esenti da perduranti profili di incertezza – sono senza dubbio da salutare con favore, in quanto consentono, da un lato, di attribuire valenza sostanziale al concetto di difformità edilizia e, dall’altro, di riconoscere appieno la centralità del fattore “tempo” nelle dinamiche di trasformazione urbana. La prospettiva delineata, infatti, impone che gli interventi edilizi si compiano non solo in conformità alla disciplina urbanistico-edilizia di riferimento, ma anche nel solco di una linea temporale ben definita, al fine di garantire effettiva concretezza allo sviluppo del territorio prospettato negli atti di pianificazione: solo in tal modo la “città immaginata” potrà coincidere con la “città realizzata”[29].
[1] In generale, sull’istituto della decadenza del permesso di costruire v. R. De Nictolis, F. Grassi, Efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire, in AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2015, 409 ss.; F. Saitta, Efficacia e decadenza del permesso di costruire, in Riv. giur. urbanistica, 3-4/2014, 588 ss.; M. Occhiena, Breve ricostruzione storica dell’istituto della decadenza della concessione edilizia per mancata ultimazione dei lavori, in Riv. giur. edilizia, 1998, 366 ss. Sulla natura dichiarativa della decadenza v. Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2024, n. 8672; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 31 agosto 2023, n.4945, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] In relazione alle opere pubbliche incompiute, si segnala che il legislatore statale ha istituito nel 2011 (art. 44-bis, d.l. 6 dicembre 2011 n. 201) l’Anagrafe delle Opere Incompiute presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, avente l’obiettivo non solo di fornire una mappatura completa e sempre aggiornata, ma anche di identificare modalità e strumenti (anche finanziari) atti a consentire il completamento delle opere stesse, ovvero la loro riconversione.
[3] Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2228, in Riv. giur. edilizia, 3/2024, 459.
[4] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 2 agosto 2021, n. 9113, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso analogo v. Cons. Stato, sez. IV, 25 marzo 2020, n. 2078, in Riv. giur. edilizia, 3/2020, 562; T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 14 novembre 2014, n. 449, in Riv. giur. edilizia, 6/2014, 1225. In dottrina, sul punto, v. G. Pagliari, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2019, 457 ss.
[5] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11195, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Toscana, sez. III, 5 marzo 2021, n. 345, in Foro amm., 3/2021, 543; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 3 gennaio 2014, n. 2, in Foro amm., 2014, 197; T.A.R. Toscana, Sez. III, 26 novembre 2013, n. 1637, in Foro amm.-TAR, 2013, 3360.
[6] A. Fabri, E.A. Taraschi, La c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio: alcune questioni aperte, in Dir. e proc. amm., 3/2022, 625.
[7] “L' art. 38, d.P.R. n. 380/2001 si ispira ad un principio di tutela degli interessi del privato e la ratio è proprio quella di introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie conformi ad un titolo abilitativo successivamente rimosso, rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall' origine in assenza di titolo, per tutelare un certo affidamento del privato, sì da ottenere la conservazione di un bene che è pur sempre sanzionato” (T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 2 dicembre 2022, n. 7543, in Foro amm., 2022, II, 1662). In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2018, n. 2155; Cons. Stato, sez. VI, 28 novembre 2018, n. 6753, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it. In generale, sui presupposti applicativi dell’art. 38 cit., v. Cons. Stato, Sez. II, 25 ottobre 2023, n. 9243, in questa Rivista, 2024, con nota di R. Parisi, Profili applicativi della fiscalizzazione degli abusi edilizi.
[8] M. Calabrò, Decadenza del permesso di costruire e “non finito architettonico”. La rilevanza della coordinata temporale nelle trasformazioni edilizie, in Riv. giur. edilizia, 5/2015, 229 ss.
[9] Cfr. Corte Cost., 31 maggio 2000, n. 164, in Giur. Cost., 200, 1465; Cons. Stato, Sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5081, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 8 luglio 2013, n. 3606, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 1950; Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, in Urb. e app., 2013, 59 ss., con nota di P. Urbani, Conformazione dei suoli e finalità economico sociali, 64 ss. In tale ottica, Giannini parlava del piano urbanistico come documento volto a fornire coordinate di ordine spaziale e temporale «a fini di risultato», (M.S. Giannini, Pianificazione, voce in Enc dir., vol. XXXIII, Milano, 1983, 629 ss.).
[10] Sul tema v. M. R. Spasiano, M. Calabrò, M. Brocca, A. Giusti, G. Mari, A. G. Pietrosanti, Fondamenti di diritto per l’architettura e l’ingegneria civile, Napoli, 2023, 70 ss.; F. Saitta, Governo del territorio e discrezionalità dei pianificatori, in Riv. giur. edilizia, 6/2018, 421 ss.
[11] Cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 755, in Riv. giur. edilizia, 2012, 177, ove – nel sancire l’illegittimità di un’ordinanza di demolizione di opere realizzate nel periodo che ha preceduto la decadenza del titolo – si afferma che il permesso di costruire abiliterebbe “non solo la realizzazione della costruzione, ma anche l’esecuzione di ogni fase intermedia in quanto parte del risultato finale”.
[12] In termini, v. P. Lombardi, Il governo del territorio tra politica e amministrazione, Milano, 2012, 114. Evidente è il richiamo anche al Programma pluriennale di attuazione, documento cui è affidato proprio il compito di evitare che lo sviluppo degli insediamenti possa avvenire in maniera episodica e irrazionale. E’ noto, tuttavia, che questo strumento si è rivelato sostanzialmente fallimentare, anche in ragione del fatto che l’unico rimedio previsto in caso di eventuale inerzia da parte dei privati consiste nell’espropriazione dell’area interessata, eventualità remota per evidenti ragioni di ordine economico. Sul tema v. F. Saitta, Jus aedificandi o….dovere di costruire, in Riv. giur. edilizia, 2002, 1416 ss.
[13] F. Salvia, C. Bevilacqua, N. Gullo, Manuale di diritto urbanistico, Milano 2021, 108 ss.; M.A. Cabiddu, Il governo del territorio, Roma-Bari, 2019, 26; P. Stella Richter, Diritto urbanistico, Milano, 2012, 31; F. Pagano, Il “piano operativo” nel processo di pianificazione, in Riv. giur. edilizia, 2010, 67 ss.; A. Bartolini, Questioni problematiche sull'efficacia giuridica della pianificazione strutturale e operativa, in Riv. giur. urb., 3/2007, 262 ss.
[14] T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. II, 30 novembre 2022, n. 817, in Foro amm., 2022, 1546. In termini cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 1° giugno 2012, n. 2612, in Foro amm.- TAR, 2012, 2022; Cons. Stato, Sez. V, 21 ottobre 1991, n. 1239, in Riv. giur. urbanistica, 1992, 421.
[15] “Risponde ad un principio generale dell'ordinamento, la regola secondo cui la proroga del termine per il compimento di una certa attività deve essere richiesta prima della scadenza del termine medesimo, per esigenze di chiarezza, di trasparenza e di pubblicità, a garanzia delle parti e, più in generale, dei terzi; la presentazione della richiesta di proroga è infatti funzionale ad evidenziare la sussistenza e la perduranza dell'interesse del privato alla realizzazione dell'intervento programmato, sia nei rapporti con l'Amministrazione che aveva rilasciato il titolo, sia rispetto ai terzi che, per ragioni di vicinitas, potrebbero avere un qualche interesse ad opporsi all'altrui iniziativa edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2023, n.2757, in Riv. giur. edilizia, 3/2023, 624).
[16] E’ bene sottolineare che, in base al principio del tempus regit actum, il nuovo titolo (permesso o s.c.i.a.) presuppone la perdurante compatibilità degli interventi ancora da realizzare con la disciplina urbanistica vigente. Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 16 aprile 2014, n. 2170, in Foro amm., 2014, 1269; Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2471, in Foro amm. CDS, 4/2012, 923; T.A.R. Umbria, Sez. I, 15 settembre 2010, n. 465, in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 2060.
[17] “La decadenza stabilita dall'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380/2001 sanziona l'inerzia dei privati, sia come disinteresse soggettivo sia come potenziale intralcio alla futura attività di pianificazione. Quest'ultima, infatti, verrebbe resa meno efficace se fosse consentito ai privati di mantenere indefinitamente i diritti edificatori non consumati” (T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 14 ottobre 2021, n. 871, in www.giustizia-amministrativa.it). P. Capriotti, L’inerzia proprietaria al tempo della rigenerazione urbana, in Riv. giur. urbanistica, 1/2020, 49 ss.
[18] Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 16 marzo 2009, n. 752, in Foro amm. TAR, 3/2009, 610.
[19] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 30 giugno 2022, n. 4401; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II-quater, 16 novembre 2020, n. 12035; Cass. pen., sez. III, 23 aprile 1990, n. 5891, tutte citate da R. Musone, La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e non oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio, in Urb. e appalti, 6/2024, 749-751.
[20] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 29 gennaio 2024, n. 906, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si afferma che “si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione”. In dottrina, v. F. Vetrò, Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, in AA.VV., Testo unico dell’edilizia, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2015, 751 ss.
[21] Concetto originariamente approfondito dai teorici della progettazione urbana. Cfr. F. Costanzo (a cura di), L'architettura del non finito. Una strategia progettuale per l'edificio incompiuto, Melfi, 2015.
[22] Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2021, n. 1377, in Foro amm., 2021, 505: “Ai sensi dell’art. 15 d.P.R. n. 380/2001, l’inutile decorso del termine triennale d’efficacia del titolo edilizio comporta la decadenza dello stesso titolo per la parte non eseguita alla scadenza dei relativi termini e inibisce l’ulteriore corso dei lavori, ma non determina l’illiceità di quanto già realizzato nella vigenza del titolo stesso, purché dette opere siano autonome e scindibili rispetto a quelle da demolire”. In termini cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2022, n. 5258, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Cfr. Cons. Stato, sez. II, 8 febbraio 2024, n. 1297, in Riv. giur. edilizia, 3/2024, 497; Cons. Stato, sez. VI, 6 settembre 2017, n. 4243, in Riv. giur. edilizia, 2017, 1330; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 1 giugno 2012, n. 2616, in Foro amm. TAR, 2012, 2025; Corte Cost., 14 aprile 1988, n. 447, in Giur. cost., 1988, I, 2057. In dottrina v. M.A. Sandulli, Sanzione-IV) Sanzioni amministrative, (voce) in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma, 1992, 15; A. Cagnazzo, S. Toschei, F.F. Tuccari (a cura di), Sanzioni amministrative in materia edilizia, Torino, 2014.
[24] A.G. Pietrosanti, Consumo di risorse naturali non rinnovabili. Tra diritti della natura, bilanciamento di interessi e tutela giurisdizionale, Napoli, 2023; G.A. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana, Napoli, 2022; G. Pagliari, Governo del territorio e consumo di suolo. Riflessioni sulle prospettive della pianificazione urbanistica, in Riv. giur. edilizia, 5/2020, 325 ss.
[25] Su tale profilo v. E. Boscolo, Le periferie in degrado (socio-territoriale) e i (plurimi) fallimenti dell'urbanistica italiana, in Riv. giur. urbanistica, 1/2021, 54 ss.; W. Gasparri, Consumo di suolo e sviluppo sostenibile nella destinazione agricola dei suoli, in Dir. pubbl., 2/2020, 421 ss.
[26] Sul piano definitorio, invero, la Plenaria non “brilla” per chiarezza, nella misura in cui qualifica la medesima fattispecie prima come “non finito architettonico” (pag. 16) e poi come “incompleto architettonico” (pag. 18).
[27] Nel caso di specie, prima della sospensione dei lavori era stato effettuato unicamente lo scavo delle fondamenta, con l’installazione di alcuni pilastri strutturali.
[28] R. Musone, La disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e non oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio, cit., 744.
[29] M. Calabrò, Il tempo “certo” ed il tempo “giusto” nell’azione amministrativa: spunti per un dialogo, in A. Carbone, F. Aperio Bella, E. Zampetti (a cura di), Dialoghi di diritto amministrativo, Roma, 2024, 159.
Sommario: 1. La genesi – 2. Il ribaltamento di una prospettiva: dal formalismo all’effettività – 3. Uno Statuto, non solo una legge – 4. Superare o rifondare lo Statuto? – 5. Verso il referendum.
I 55 anni sono un anniversario speciale per lo Statuto dei lavoratori. Tra il 20 maggio della ricorrenza e l’8-9 giugno del referendum passano venti giorni. È primavera, la stagione che meglio si addice all’idea della rinascita e della fioritura, speriamo anche dei diritti. Ottima occasione, dunque, per ricordare cosa fu lo Statuto per questo Paese e riflettere su cosa resti di un’epoca che segnò una svolta nella vita di milioni di cittadini.
1. La genesi
Le lotte sindacali del primo dopoguerra procedettero di pari passo con l’industrializzazione del Paese e con la coscienza che le categorie dei lavoratori avevano acquisito già durante l’opposizione al fascismo, prima con l’opposizione nelle fabbriche, poi con la resistenza. L’idea di uno statuto comune, concepita dal segretario generale Giuseppe Di Vittorio, era stata presentata al congresso CGIL di Napoli del 1952 ponendo al centro la figura del “cittadino lavoratore”, con la sua personalità, le sue opinioni, la sua fede religiosa, la sua dignità.
L’incubazione di quel progetto viene rallentata dagli eventi del 1960, dalle barricate in strada che risvegliano improvvisamente i ricordi una guerra civile ancora vicina nel tempo. I tempi diventano maturi quando il governo Moro ottiene a dicembre ’63, per la prima volta, l’appoggio decisivo dei socialisti. Pietro Nenni condiziona il loro voto all’approvazione di uno Statuto dei lavoratori[1] e in breve affida a Gino Giugni la stesura insieme a Giuseppe Tamburrano del testo di tre disegni di legge dedicati a commissioni interne, giusta causa di licenziamento e diritti sindacali.
Giugni stesso va a comporre la Commissione istituita dal ministro del lavoro Giacinto Bosco per impostare un progetto che il 15 giugno 1966 diventerà il primo compendio di “Norme sui licenziamenti individuali”. Viene superata la regola codicistica (art. 2118 c.c.) della libera recedibilità dal contratto di lavoro subordinato, previo preavviso. L’art. 1 della legge n. 604/66 detta un vero e proprio principio: il prestatore di lavoro può essere licenziato solo per giusta causa o per giustificato motivo.
Il Sessantotto e le manifestazioni che da allora si succedono hanno un ulteriore effetto acceleratorio. La protesta organizzata dai braccianti ad Avola il 2 dicembre 1968, sfociata nell’uccisione di due lavoratori e il ferimento di altri cinquanta per opera della polizia, è l’occasione per la promessa da parte del ministro del lavoro Giacomo Brodolini, pochi giorni dopo, di forzare i tempi per approvare lo Statuto[2].
La storia del ministro si lega allo Statuto drammaticamente. Brodolini – già azionista, poi socialista e segretario della federazione lavoratori edili della CGIL – è gravemente malato, sa di avere poco tempo. L’altro principale artefice dell’opera ne racconta così l’impegno straordinario di quei giorni: “sembrava quasi aver fretta di portare a termine il suo compito. Riuscì a realizzare tre importanti obiettivi: la mediazione nella vertenza sulle cosiddette gabbie salariali, che favorì un accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria sull’unificazione progressiva dei salari nel paese; una riforma delle pensioni che ancorando la pensione all’80% delle ultime retribuzioni ebbe effetti duraturi e venne modificata solo con Amato nel 1992, e, da ultimo ma certamente non in ordine di importanza, lo Statuto dei lavoratori”[3].
Giugni dirige allora l’ufficio legislativo del ministero del lavoro. Si dedica al testo con l’impellenza scandita da Brodolini nella nuova commissione istituita ad hoc. Il Consiglio dei ministri ne approva in breve i contenuti, così come integrati nella commissione lavoro del Senato, aule in cui il disegno di legge viene presentato il 24 giugno 1969, per esservi approvato l’11 dicembre. Il giorno dopo esplodono le bombe nella Banca dell’agricoltura in piazza Fontana. La stagione dello stragismo inizia al culmine della condivisione, da parte della politica, delle tutele dei diritti sociali.
Il 14 maggio con 217 voti favorevoli, 10 contrari e 125 astensioni lo Statuto viene approvato alla Camera. Sei giorni dopo viene pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Brodolini morirà l’11 luglio, dopo che già da mesi aveva dovuto cedere l’incarico ministeriale a un altro ex sindacalista, il democristiano Carlo Donat-Cattin.
2. Il ribaltamento di una prospettiva: dal formalismo all’effettività
Nel nuovo corpus normativo la centralità della persona invocata da Di Vittorio vent’anni prima è già nel titolo. È uno Statuto dei “lavoratori”, non del “lavoro”. La parola lavoratori è quasi una dedica alla battaglia condotta nella Costituente da Palmiro Togliatti, che aveva visto respingere la sua proposta di emendamento per inserirla nell’art. 1 della Costituzione[4].
Sul piano delle relazioni sindacali, lo Statuto “si proponeva di incivilire il potere aziendale sostituendo all’autorità-autoritaria un’autorità basata sulla rilegittimazione dell’impresa mediante l’adeguamento della sua gestione ai valori di cui è portatrice il lavoro, anche di quelli non negoziabili né monetizzabili”[5].
La vera rivoluzione si pone sul piano giuridico. La visione commerciale del contratto di lavoro ancorata al codice civile, che non a caso tratta del lavoro subordinato nel capo dedicato all’impresa in generale, viene ribaltata. Le parti del contratto non sono più considerate in una situazione giuridico-soggettiva paritaria; si prende invece atto della loro effettiva dinamica di squilibrio, riconducibile più correttamente al binomio potere-soggezione[6].
L’effettività della dimensione interna al rapporto di lavoro permea da allora la cultura giuslavorista. La Corte costituzionale ha infatti spiegato che, pur operando sul piano della fattispecie, i limiti alla “disponibilità del tipo contrattuale” di lavoro subordinato sono diretti a realizzare degli “effetti” perseguiti. Dall’assenza di tali limiti potrebbe derivare l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato” [7]
Lo Statuto offre dunque le prime componenti di quel “patrimonio costituzionale comune” che, includendo il principio dell’indisponibilità del tipo contrattuale, trova base negli obblighi internazionali, nell’ordinamento comunitario e nella legislazione nazionale[8]. La Corte di giustizia assumerà poi le redini di tale visione, collocando il criterio dell’effettività in una dimensione sovranazionale come parametro interpretativo desumibile anche dalle tutele processuali riconosciute al lavoratore nel Paese membro[9].
3. Uno Statuto, non solo una legge
La prospettiva costituzionale della legge n. 300 del 1970 si coglie anche nella sua struttura. Vi convivono due complessi di norme che trattano del prestatore di lavoro tanto nella dimensione individuale quanto in quella collettiva. Alla disciplina garantistica, che introduce disposizioni inderogabili nel rapporto individuale, si assomma infatti quella di sostegno all’attività sindacale. La seconda è complementare alla prima, giacché concorre a rendere effettivi i diritti individuali all’interno dell’impresa.
L’articolazione e la completezza di questo corpo normativo danno la misura dell’atto giuridico fondamentale di settore, del suo essere, appunto, uno Statuto. Il testo è esemplare anche per chiarezza espositiva. Il suo carattere basilare è dimostrato dal fatto che il legislatore vi si misura ancora oggi, rinunciando non di rado a tecniche legiferative più dirette per innestare le disposizioni di nuovo conio in quell’atto fondamentale. Basterebbe già questa sola considerazione a dimostrare la perdurante rilevanza dello Statuto come fonte normativa del nostro ordinamento.
Le innovazioni che esso ha apportato alla disciplina del lavoro sono state innumerevoli: si sono poste le basi per il diritto antidiscriminatorio, a tutela delle opinioni e degli altri fattori che connotano la dignità della persona lavoratrice (artt. 1, 8, 15, 16); si sono limitate le azioni datoriali d’ingerenza nella sfera di riservatezza individuale all’interno del luogo di lavoro (artt. 2-6); nel luogo di lavoro si è riconosciuto l’esercizio di diritti di libertà di natura personale e sindacale (10, 11, 14, 20, 21; 23 e 24); si è procedimentalizzato l’iter di accertamento della responsabilità disciplinare (art. 7); si sono importate le norme imperative statutarie anche nel lavoro pubblico, che prima di allora conosceva un regime del tutto autonomo (art. 37)[10].
L’art. 13 St. ha inoltre modificato in modo radicale l’art. 2103 c.c., delimitando lo jus variandi riconosciuto al datore di lavoro nei presupposti legali per modificare il contenuto della prestazione lavorativa del dipendente e per trasferirlo; e, se sulla reale portata di quest’ultima innovazione la dottrina si è presto divisa[11], è indubbio che la nuova disciplina delle mansioni abbia spostato drasticamente il baricentro del controllo dalle esigenze dell’impresa all’interesse del lavoratore per la protezione della professionalità acquisita[12].
Due parole a parte meritano le norme-simbolo.
La sua collocazione all’interno del titolo dedicato alle libertà sindacale non dà la misura dell’impatto che l’art. 18 St. ha avuto e che ancora conserva nella società italiana. La reintegrazione nel posto di lavoro è diventata l’emblema di conflitti ideologici e culturali mai sopiti, spesso strumentalizzato a favore di interventi riformatori o di movimenti di opposizione, strumento identificativo anche di una magistratura invasiva dell’autonomia imprenditoriale, tuttora fattore di divisione politica e di tutele tra gruppi di lavoratori (pubblici e privati; dipendenti di imprese grandi o piccole; subordinati e parasubordinati).
L’art. 28 ha a sua volta inverato l’identificazione tra diritto sostanziale e tutela processuale. La celerità e l’informalità del rito, insieme con l’apparato sanzionatorio approntato dai commi 2, 4 e 5, hanno segnato un’epoca della storia della giurisdizione, definendo i pretori del lavoro come l’autorità più efficace, influente, temibile, problematica per il mondo aziendale negli anni Settanta e Ottanta. Secondo la franca testimonianza di un protagonista di quell’esperienza, l’art. 28 “esaudiva anche un desiderio, diffuso tra i giudici progressisti, di incidere in qualche modo sul sociale, in funzione riequilibratrice delle ingiustizie e delle storture che per anni la classe operaia aveva dovuto subire”[13].
La miscela “esplosiva... tra la fattispecie aperta, ma teleologicamente determinata, che tipizza il comportamento illegittimo attraverso la direzione in cui si muove la lesione del bene protetto, il riconoscimento della rilevanza degli interessi collettivi del lavoro, attraverso la legittimazione ad agire attribuita direttamente a(gli organismi locali de)lle organizzazioni sindacali nazionali e, infine, un meccanismo processuale agile e di notevole capacità dissuasiva e ripristinatoria”[14], ha reso finalmente rapidi processi che prima duravano anni. L’art. 28 St. è stato perciò preludio alla riforma del rito del 1973 e modello successivo per l’adozione di altre procedure deformalizzate nell’ambito lavoristico (vedasi il rito per la repressione delle condotte discriminatorie) e non, se solo si guarda al rito sommario di cognizione introdotto quasi quarant’anni dopo.
Oggi, diversamente dalla tutela reintegratoria, la repressione della condotta antisindacale è diventata quasi un totem riverito: lo ricopre un po’ della polvere del tempo per effetto delle, spesso stravaganti, forme di regolamentazione delle relazioni industriali, dell’affievolirsi dell’unità e della forza rappresentativa del sindacato, della maggiore accortezza dell’imprenditoria, della scala diversa in cui si misurano i rapporti di forza tra datore e prestatore di lavoro.
L’art. 28 St. conserva un’attualità prevalentemente come misura di prevenzione, legata alla mancata consultazione del sindacato nelle scelte organizzative prima ancora che queste abbiano qualche ricaduta occupazionale, o come misura di salvaguardia del pluralismo sindacale nel conflitto, diretto o indiretto, tra diverse associazioni di lavoratori.
4. Superare o rifondare lo Statuto?
Esaminate una per una, molte norme dello Statuto presentano rughe profonde e alcune sono defunte, frutto inevitabile di un’economia e di una realtà imprenditoriale completamente alterate dall’evoluzione tecnologica, dal neocapitalismo e dalla globalizzazione.
Le materie dei controlli audiovisivi, delle mansioni, dei licenziamenti sono state al centro di profonde revisioni anche se, negli ultimi due casi, mantengono solidi riferimenti all’impostazione statutaria. In linea più generale, è in corso un ripensamento della distinzione tradizionalmente rigida tra subordinazione e autonomia, con la conseguente protezione limitata alla prima fattispecie, e del ruolo del sindacato nazionale e nell’azienda.
È sintomatico il fatto che, nel nuovo scenario, l’idea di una nuova disciplina generale del rapporto di lavoro venga coltivata non tanto nell’ottica dell’introduzione di nuove forme di tutela per il lavoratore, quanto piuttosto come fonte regolatrice del cambiamento che vede al centro della riflessione l’impresa, quale produttrice di ricchezza e di opportunità occupazionali[15].
Storicamente, l’unico intervento assimilabile a quello statutario risale al Libro bianco sul mercato del lavoro, presentato nell’autunno 2001 da Marco Biagi, quale coordinatore di una commissione di giuristi, economisti e sociologi: evoluzione del mercato del lavoro e differenziazione delle tutele erano i due poli intorno a cui ruotava il progetto. Ne è sortita la legge delega n. 30/2003, attuata con il d. lgs. 276/2003. Anche stavolta il suo mentore non ha potuto vedere i frutti del suo operato, poiché, proprio a causa di questo, Biagi era già stato uucciso per mano delle Nuove Brigate Rosse il 19 marzo dell’anno precedente.
Un tentativo di varare un altro Statuto dei lavori è stato compiuto, in memoria di Biagi, dall’allora ministro del lavoro e delle politiche sociali Maurizio Sacconi, durante la XVI legislatura, prima del subentro, a novembre 2011, del governo Monti al quarto governo Berlusconi. L’iniziativa è stata ripresa nella legislatura successiva, senza mai incontrare un consenso sufficiente, a fronte dell’aperta ostilità del sindacato.
Oggi i tempi non sembrano maturi per un intervento che non sia meramente ricognitivo dell’esistente. La congerie di norme via via introdotte dai governi succedutisi nel tempo e le decisioni della Corte costituzionale, che hanno superato anche l’impostazione del più recente Jobs act in tema di licenziamento, necessiterebbero di un riordino almeno sistematico. Ma la polarizzazione del dibattito pubblico che ha investito anche la materia del lavoro rende impensabile la possibilità di trovare un’adesione diffusa su linee d’indirizzo dotate di stabilità e concretezza. Conviene forse affidarsi, al momento, a un approccio pragmatico, condensabile in un pensiero figlio del periodo pandemico: “già le tecnologie e la globalizzazione hanno sconvolto il mercato del lavoro, ora investito anche dalla nuova crisi; da giurista dico che serve una moratoria normativa. Quando inizieremo a vedere chiaro e ad affrontare la ricostruzione del modo di lavorare, non avremo bisogno di un altro Act né tanto meno una legge che sia omnicomprensiva; piuttosto ci serve una costruzione progressiva con il coinvolgimento di vari attori, sull’esempio di come è stata affrontata la sicurezza sul lavoro in questa emergenza”[16].
Le incertezze applicative provocate dalle operazioni legislative di questo secolo consigliano, in effetti, prudenza. È meglio consentire un qualche assestamento almeno della giurisprudenza, invece che provocare nuovi scossoni dettati magari da opzioni teoriche chiare, ma dalla scarsa visione d’insieme.
5. Verso il referendum
Quattro dei cinque quesiti referendari in programma per le giornate dell’8 e 9 giugno prossimi toccano, come noto, temi lavoristici. Soltanto il primo investe formalmente le regole dello Statuto: proponendo l’abrogazione del d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, sul cosiddetto contratto a tutele crescenti, tende a riportare le lancette dell’orologio al tempo della tutela reintegratoria, quale regola generale in presenza di un licenziamento di cui sia stata accertata l’illegittimità.
L’enumerazione di norme e sentenze della Consulta riportate nel quesito[17] dovrebbe fare riflettere sull’esercizio oggi richiesto all’interprete in una materia che, pure, è tra le più sviscerate da giuristi e corti. A prescindere da ciò, se prevalessero i consensi all’abrogazione, tornerebbe a dispiegarsi integralmente la disciplina della legge Fornero, n. 92/2012, attualmente invece sempre più residuale a causa della progressiva riduzione delle assunzioni avvenute prima del 7 marzo 2015. Verrebbero così ad ampliarsi i casi di tutela “reale”, ben oltre le ipotesi di licenziamento nullo, e si porrebbe una pietra tombale su annose questioni ermeneutiche che la Corte costituzionale ha potuto risolvere, a oggi, soltanto in parte.
I quattro quesiti omogenei per materia sono accomunati dall’intento di ridurre la dimensione di precarietà in cui si muove oggi il lavoratore dipendente e, prima ancora, di responsabilizzare l’imprenditore nelle scelte relative, rispettivamente, al recesso dal contratto di lavoro, all’apposizione di un termine negoziale risolutivo, all’affidabilità dell’azienda appaltatrice. Non sarebbe un ritorno allo Statuto, ma sarebbe certamente l’occasione per rimettere al centro del giuslavorismo il lavoratore come persona, piuttosto che come mera risorsa, in un’epoca in cui le politiche della cosiddetta “flessibilità in entrata”, della formazione qualificante e dei controlli sulla sicurezza hanno denunciato il loro fallimento.
[1] A. Moro – P. Nenni. Il carteggio ritrovato (1957-1978), Arcadia edizione, 2024.
[2] Per un resoconto storico più completo, cfr. Era di maggio. Lo “Statuto dei lavoratori” compie cinquant’anni. Quasi un racconto, di V. A. Poso, in questa rivista, 20 maggio 2020.
[3] Da una parte sola, dalla parte dei lavoratori, di I. Romei, in collettiva.it, 5 febbraio 2021.
[4] “Si dà così anzitutto corpo a una nota lettura dell’art. 1 della Costituzione, secondo la quale il Costituente ha assunto a riferimento «l’essere reale, visto nella concretezza dei bisogni che ricercano nuovi strumenti di soddisfazione». Così C. Mortati, in Commento all’art. 1 del Commentario alla Costituzione, Principi Fondamentali a cura di G. Branca, Zanichelli-Il Foro it., 1975, p. 10.
[5] U. Romagnoli, Lo Statuto ha 50 anni!, in Quad. DLM, 2020, n. 8, p. 34.
[6] “Il tratto più eterodosso della Statuto è dunque quello dell’effettività”, scrive O. Mazzotta, Le molte eredità dello Statuto dei lavoratori, in LD, 2010, p. 33. Su questo punto cfr., anche F. Dorssemont, Lo Statuto all’avanguardia: uno strumento pionieristico per l’Europa e oltre, e L. Zoppoli, Dall’effettività alla sostenibilità: mezzo secolo di pragmatismo dei giuslavoristi, entrambi in Quad. DLM, 2020, n. 8, rispettivamente p. 57 e p. 75.
[7] Corte cost. sentenza 29 marzo 1993, n. 121; successivamente, 13 aprile 1994, n. 115, nonché 7 maggio 2015, n. 75.
[8] M. De Luca, Diritti dei lavoratori: patrimonio costituzionale comune versus declino delle garanzie, in Foro It., 2011, V, p. 216.
[9] Corte giust., 4 luglio 2006, causa C-212/04, n. 73 e segg.; Corte giust., 7 settembre 2006, c-53/04, n. 51.
[10] Cfr. M. Rusciano, Lo Statuto dei lavoratori e il pubblico impiego, in LD, 2010, p. 106.
[11] Basta confrontare, tra gli altri, le tesi e richiami di P. Ichino, Note in tema di disciplina legislativa del trasferimento del prestatore di lavoro, in RGL, 1974, II, 41; G. Suppiej, Art. 13, in Commentario dello Statuto dei lavoratori, a cura di U. Prosperetti, Giuffré, 1975, 360; G. Pera, Sul trasferimento del lavoratore, in Foro it., 1976, V, p. 65; M. V. Ballestrero, Il trasferimento dei lavoratori, in L’applicazione dello statuto dei lavoratori. Tendenze e orientamenti, F. Angeli, 1973, p. 167.
[12] Così U. Romagnoli, Art. 13, in Statuto dei diritti dei lavoratori. Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, 222.
[13] R. Canosa, Storia di un pretore, Einaudi, 1978, 36.
[14] Così G.A. Recchia, Processo del lavoro e Sindacato: l’art. 28 St. lav. come apripista della riforma del 1973, in Lavoro diritti e Europa, numero speciale 2023, p. 5, che richiama anche un passaggio di U. ROMAGNOLI, Intervento, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi (Atti del Convegno di Studio di Pavia, 11-12 giugno 1974), Cedam, 1976, 294.
[15] Cfr., seppure in prospettive non coincidenti, M. Trifirò, in blog.trifiro.it/lo-statuto-dei-lavoratori-ieri-e-oggi, 19 maggio 2020; R. Brunetta e M. Tiraboschi Riscrivere lo Statuto dei lavoratori per regolare e tutelare il lavoro che cambia in bollettinoadapt.it, 4 ottobre 2021;
[16] T. Treu, paroledimanagement.it, 3 maggio 2020.
[17] Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, dalla sentenza della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145; dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40; dalla sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2020, n. 150; dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147; dal d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79 (in G.U. 29/06/2022, n. 150); dalla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2024, n. 22; dalla sentenza della Corte costituzionale del 4 giugno 2024, n. 128, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?
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