ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Successione a titolo particolare nel diritto controverso e trasferibilità dell'interesse legittimo. Il caso della cessione di esercizio farmaceutico (nota a Consiglio di Stato, Sezione III, 8 gennaio 2025, n. 104)
di Clotilde Angela Caforio
Sommario: 1. Premessa; 2. I fatti di causa; 3. Posizioni della dottrina; 4. Considerazioni finali.
1. Premessa
La sentenza in esame merita di essere segnalata per una interessante applicazione dei principi in tema di trasferibilità dell’interesse legittimo[i] e della conseguente successione a titolo particolare[ii] ex art. 111 c.p.c[iii].
Nell’affermare che la regola generale è quella della non trasferibilità dell’interesse legittimo e che la stessa è tuttavia passibile di eccezioni, la sentenza muove dalla considerazione secondo cui, al fine di ammettere o negare la trasferibilità dell’interesse legittimo, occorre innanzi tutto distinguere l’interesse legittimo quale situazione giuridica sostanziale legittimante l’iniziativa processuale, dalla posizione sottostante cui esso inerisce, potendo essere costituita anche da una situazione di diritto soggettivo. Precisa poi come, per aversi translatio, sia necessario che l’interesse legittimo sia relativo al patrimonio giuridico del disponente in cui sono possibili fenomeni di successione e, dunque, sussista una stretta inerenza dell’interesse legittimo alla situazione soggettiva sottostante. Solo in questa eventualità, secondo la decisione, sarà possibile la veicolazione della titolarità della medesima situazione di interesse legittimo già esistente nel patrimonio del soggetto coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo a favore del terzo successore.
Muovendo da tali premesse, il Consiglio di Stato esclude l’applicabilità dell’art 111 c.p.c. perché ritiene che il trasferimento della titolarità di farmacia integri una fattispecie mista o complessa, che si perfeziona non soltanto con l’atto di cessione tra privati, ma richiede necessariamente anche l’atto amministrativo di assenso: l’interesse legittimo, si legge nella sentenza, non transita «unitamente o simultaneamente alla titolarità del bene o diritto soggettivo sottostante (la proprietà dell’azienda farmaceutica), poiché esso in realtà si estingue in capo al soggetto cedente e si ricostituisce in una consistenza nuova e diversa in capo al cessionario, per effetto delle verifiche di idoneità soggettiva che l’Amministrazione è tenuta a compiere prima di autorizzare il trasferimento dell’autorizzazione».
2. I fatti di causa
Al fine di meglio comprendere l’importanza del principio affermato, è opportuno ricostruire la vicenda che è all’origine della pronuncia e lo svolgimento del giudizio di primo e di secondo grado.
La parte ricorrente in primo grado, già titolare della sede farmaceutica, impugnava una serie di atti, tra cui il diniego al trasferimento adottato dalla Regione Campania in considerazione del fatto che i locali individuati per l'esercizio dell'attività farmaceutica non coincidevano più con quelli originari. Il Tribunale amministrativo dichiarava improcedibile il ricorso, ravvisando la perdita dell’interesse ad agire attuale e concreto al trasferimento della sede farmaceutica, in quanto il ricorrente aveva ceduto il diritto alla sede farmaceutica ad altri e per questo non avrebbe potuto più trarre alcuna utilità dalla definizione del giudizio, sottolineando l’impossibilità della trasmissibilità di un eventuale interesse legittimo pretensivo per atto “inter vivos” in capo al nuovo titolare.
Secondo il giudice di prime cure, infatti, in caso di successione a titolo particolare nel rapporto controverso il processo prosegue tra le parti originarie ai sensi dell’art. 111 comma 1 c.p.c., ma non sarebbe sotto questo profilo possibile assimilare un diritto soggettivo ad un interesse legittimo, in quanto si tratta di posizioni giuridiche diverse che hanno pertanto distinti riflessi sul piano della trasmissibilità[iv]. Nell’ipotesi in cui in pendenza di termine per il ricorso giurisdizionale avverso provvedimento amministrativo il titolare dell'interesse legittimo venisse a mancare, secondo il giudice di prima istanza sarebbe da escludere la possibilità che i suoi aventi causa siano legittimati all'impugnazione dell'atto tutte quelle volte che l’oggetto della causa si presenti come mera utilitas - cioè possibilità di ottenere dall'esercizio del potere amministrativo un “risultato utile” - senza incidere su situazioni giuridiche già consolidate nel patrimonio del soggetto istante e non potrebbe, pertanto, ammettersi l’esercizio del potere di azione a tutela dell'interesse legittimo pretensivo, proprio perché vi sarebbe intrasmissibilità di tale posizione giuridica.
Il TAR ha conclusivamente ritenuto che, anche se fosse ammissibile la trasmissibilità della posizione di interesse legittimo in capo ad eredi o aventi causa del titolare originario, considerato il grado di autonomia di cui gode il rapporto amministrativo, sarebbe in ogni caso da escludere che ciò possa avvenire in modo automatico. Il lato, per così dire, esterno dell'interesse legittimo - cioè la relazione tra soggetto e pubblica amministrazione, avente come riferimento un bene della vita - distinto dal suo lato interno - cioè il rapporto tra un soggetto ed il medesimo bene - potrà essere soggetto di un’automatica successione tutte volte in cui l'individuazione del successore avvenga in applicazione di criteri predefiniti, come in caso di successione mortis causa in universum ius o di fallimento. Quando, invece, la vicenda circolatoria trovi causa in un atto espressione di autonomia negoziale inter vivos, occorre che, attraverso una manifestazione espressa di volontà, il nuovo titolare confermi il carattere attuale dell'interesse legittimo. La possibilità di prosecuzione del giudizio tra le parti originarie, quale effetto della successione a titolo particolare nel rapporto controverso, è stata conseguentemente esclusa in base al carattere personale e diretto dell’interesse legittimo, che ne determinerebbe l’intrasferibilità[v].
La decisione di primo grado è stata confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato oggetto della presente nota, che, come già accennato, ha precisato come il trasferimento di farmacia dia luogo ad una fattispecie complessa che si perfeziona non con il solo atto di cessione tra privati, ma richiede anche l’intervento dell’atto amministrativo di assenso; con conseguente esclusione della possibilità di ritenere che l’interesse legittimo transiti automaticamente unitamente alla titolarità del bene sottostante.
Nella pronuncia, il Consiglio di Stato dà atto che quello della trasferibilità dell’interesse legittimo e della conseguente configurabilità della successione a titolo particolare ex art 111 c.p.c. sono temi assai controversi in giurisprudenza[vi]richiamandola[vii].
In primis viene richiamata la sentenza del Consiglio di Stato n. 1403 del 2013, che considera regola generale la non trasferibilità dell’interesse legittimo, in quanto «l’interesse è personale» e «si appunta solo in capo al soggetto che si rappresenta come titolare»[viii]. Tuttavia, questa regola ammetterebbe eccezioni in virtù delle quali è necessario distinguere «tra casi in cui il “contatto” tra interessato e potere amministrativo è intervenuto in riferimento ad aspetti del suo patrimonio giuridico in cui sono possibili fenomeni di successione, da casi in cui tale contatto attiene a profili personali, e non trasmissibili, dello stesso patrimonio giuridico»[ix].
La pronunzia in commento riporta, poi, anche indirizzi giurisprudenziali che ammettono la “cessione a titolo particolare” dell’interesse legittimo, sia isolatamente che unitamente al trasferimento di un diritto soggettivo sottostante.
Vengono richiamate da una parte, la pronuncia Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 novembre 2020, n. 7520, la quale precisava che le fattispecie considerate non trasmissibili in base all’orientamento del 2013 si spiegano «non nella logica del divieto di cessione quanto per la normale mancanza dell’interesse a ricorrere»[x], e dall’altra, pronunce[xi] che, ritenendo l’art. 111 c.p.c. applicabile anche nel processo amministrativo, implicitamente risolvono in senso favorevole la questione pregiudiziale dell’ammissibilità di una successione a titolo particolare anche nella titolarità dell’interesse legittimo.
Visto tutto ciò, il Consiglio ha ritenuto di condividere l’impostazione data in Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, ritenendo che sono proprio i tratti caratteristici della fattispecie in questione che giustificano la soluzione come prospettata in primo grado, anche se in base ad un percorso motivazionale parzialmente differente da quello del TAR.
Il primo giudice aveva basato la propria decisione partendo dall’assunto secondo cui è necessario distinguere l’interesse legittimo quale situazione giuridica sostanziale che legittima l’iniziativa processuale, dalla posizione sottostante cui esso inerisce e che può essere costituita anche da una situazione di diritto soggettivo: negli esempi riportati nella sentenza n. 1403 del 2013 nei quali si ammette la trasmissibilità dell’interesse legittimo, come la successione nella proprietà di un’area interessata da un esproprio, ciò che viene trasmesso è in realtà detta posizione sottostante, cioè il diritto soggettivo sul bene immobile interessato dalla procedura espropriativa. Dunque, la traslazione in capo al cessionario dell’interesse legittimo è soltanto una conseguenza del fatto che, per effetto della successione, è mutato il soggetto che sarà interessato e coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo.
Allo stesso modo, il Consiglio prendeva in analisi il caso trattato in Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 7520, il cui oggetto era un’impugnativa di diniego di autorizzazione paesaggistica alla recinzione del fondo, dove si verificava analoga successione nell’interesse legittimo pretensivo unitamente e come conseguenza del trasferimento del diritto soggettivo avente ad oggetto il bene interessato dall’intervento di recinzione.
Considerato tutto questo, ciò che rileva secondo la pronunzia in commento è che, ai fini di detta translatio, ci sia una stretta inerenza tra l’interesse legittimo e la posizione giuridica sottostante, poiché è solo questa stretta inerenza al bene/diritto trasferito che determina la veicolazione in via immediata e diretta della titolarità della medesima situazione di interesse legittimo già esistente nel patrimonio del soggetto coinvolto dall’esercizio del potere amministrativo.
Per quanto attiene alla fattispecie in analisi, il giudice ritiene di non concordare con la parte appellante, che sostiene come l’interesse legittimo dovrebbe intendersi trasferito per effetto del trasferimento del “bene farmacia”, e che, dunque, andrebbe applicato l’art 111 c.p.c., avendo così la prosecuzione del giudizio nei confronti dell’originario ricorrente.
Questo perché, in primis, oggetto della cessione è l’autorizzazione all’esercizio dell’attività farmaceutica[xii] e non la sola azienda farmaceutica[xiii]. Inoltre, ai fini del valido trasferimento della titolarità della farmacia, occorrono ex lege sia il contestuale trasferimento dell’azienda ovvero della sede farmaceutica sia l’autorizzazione al trasferimento da parte dell’Amministrazione, rilasciabile all’esito della verifica di idoneità del farmacista subentrante.
Dunque, il trasferimento del bene aziendale costituisce una mera vicenda negoziale privata, rilevante quale presupposto per l’esercizio del potere amministrativo, ma è solo per effetto di quest’ultimo impulso pubblicistico che un soggetto diverso da quello originario può subentrare nella titolarità dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività farmaceutica. Il Consiglio definisce le fattispecie come questa miste o complesse, in quanto si perfezionano al ricorrere di un atto di cessione privata e di un atto amministrativo, che riguarda la qualità soggettiva del subentrante.
Ciò porta ad escludere che l’interesse legittimo transiti unitamente o simultaneamente alla titolarità del bene o diritto soggettivo sottostante (la proprietà dell’azienda farmaceutica), in quanto esso si estingue in capo al soggetto cedente e si ricostituisce in una consistenza nuova e diversa in capo al cessionario per effetto delle verifiche di idoneità soggettiva che l’Amministrazione compirà prima di concedere il trasferimento dell’autorizzazione.
L’esclusione dell’applicabilità dell’art. 111 c.p.c. consegue, quindi, al fatto che nel corso del giudizio non c’è stato il trasferimento del medesimo interesse legittimo in origine sussistente in capo al ricorrente, ma quell’interesse si è estinto ed è venuto ad esistenza un interesse nuovo in capo al suo avente causa.
Tutto ciò, peraltro, non porta a negare la presenza di strumenti di tutela in capo a quest’ultimo, poiché proprio l’effetto novativo di questa vicenda traslativa abilita il subentrante a far valere la sua posizione soggettiva, originaria e non derivata, attraverso la proposizione di una autonoma istanza di trasferimento e successivi eventuali strumenti di tutela giudiziale, senza che le sue ragioni siano pregiudicate dalle iniziative precedentemente assunte dal suo dante causa.
3. Posizioni della dottrina
La diversità di orientamenti sul tema della trasferibilità dell’interesse legittimo non è un problema soltanto della giurisprudenza, ma contraddistingue anche la teorizzazione dottrinale.
Una delle principali ragioni per cui parte della dottrina e della giurisprudenza ha sostenuto l’indisponibilità e, dunque, l’intrasferibilità dell’interesse legittimo è la contrapposizione dei caratteri dell’interesse legittimo rispetto a quelli del diritto soggettivo[xiv]. Ciò, nonostante il riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo[xv], che ha attenuato le differenze tra le due situazioni giuridiche soggettive.
Tra le tesi che negano la trasferibilità dell’interesse legittimo si possono distinguere almeno due orientamenti che sottolineano la presenza di differenze tra diritti soggettivi e interessi legittimi.
In primis, l'indisponibilità dell'interesse legittimo viene ricondotta alla sua qualificazione come posizione giuridica soggettiva di natura strumentale[xvi], finalizzata alla tutela dell'interesse pubblico e caratterizzata da una dimensione essenzialmente processuale, piuttosto che sostanziale[xvii]. Tale impostazione - invero datata - si allinea alle teorie che descrivono l'interesse legittimo come una situazione giuridica protetta in maniera indiretta o meramente occasionale[xviii]. Da questa concezione discende la conseguenza che la protezione dell'interesse legittimo sia subordinata alla realizzazione dell'interesse pubblico perseguito dal potere amministrativo.
L'idea di una correlazione tra gli interessi tutelati dall'amministrazione e l'interesse legittimo appare coerente con il principio della non transigibilità dei rapporti giuridici amministrativi nei quali il potere amministrativo e l'interesse legittimo risultano inscindibilmente connessi[xix]. Questa prospettiva interpreta il rapporto tra interesse legittimo e potere amministrativo come due aspetti complementari di un medesimo fenomeno, entrambi orientati alla salvaguardia dell'interesse pubblico e alla legittimità dell'azione amministrativa. Di conseguenza, l'indisponibilità dell'interesse legittimo si fonda sulla stessa logica che caratterizza l'indisponibilità del potere amministrativo[xx]: poiché quest'ultimo è vincolato al perseguimento dell'interesse pubblico, anche l'interesse legittimo non può essere considerato disponibile, essendo tutelato solo in maniera riflessa attraverso il rispetto dei principi di legalità e buon andamento dell'azione amministrativa.
A questo orientamento se ne contrappone un altro che, invece, si basa sulla natura personale e/o diretta della posizione giuridica soggettiva, impostazione seguita da chi sostiene il carattere infungibile del rapporto cittadino-amministrazione[xxi]. In base a ciò, una parte della dottrina, pur senza negare espressamente la trasferibilità dell’interesse legittimo in capo a un terzo, evidenzia tuttavia come, quando mutano le parti di un procedimento amministrativo, mutano anche gli interessi privati coinvolti in esso. Dunque, tranne che al momento della cessione, l’interesse legittimo in capo al terzo non sarebbe lo stesso, ma «si conformerebbe autonomamente, proprio in quanto il momento di confronto con il potere non può essere indifferente se rapportato alla sfera soggettiva di un soggetto piuttosto che di un altro»[xxii].
Ciò, di fatto, significa sostenere che l’interesse legittimo non sia davvero trasmissibile, in quanto personale, posto che il terzo diverrebbe titolare di una posizione giuridica autonoma rispetto a quella originaria. Alla luce di questo, nell’ambito di un procedimento amministrativo in corso, il potere amministrativo dovrebbe confrontarsi con un soggetto diverso dall’iniziale destinatario dei suoi effetti.[xxiii]
A questi orientamenti se ne contrappongono altri favorevoli alla trasferibilità dell’interesse legittimo.
Un filone della dottrina, se da una parte afferma che le posizioni giuridiche di vantaggio degli amministrati non si trasferiscono, dall’altra accetta che se vi è consenso dell’amministrazione e se il “sottraente” ha i requisiti per la posizione giuridica in questione, sia possibile il passaggio ad un terzo delle posizioni di vantaggio “a fondo patrimoniale”. Chi afferma ciò ritiene pure che esistano delle posizioni di vantaggio ob rem, connesse alla titolarità di un diritto su una cosa, rispetto alle quali la circolazione si compie insieme al trasferimento della cosa stessa[xxiv].
La miglior dottrina accetta la trasferibilità dell’interesse legittimo[xxv] in modo indipendente rispetto alla cessione del rapporto giuridico sostanziale sottostante[xxvi]. Dunque, il fatto che non sia possibile disporre dell’interesse legittimo non ne esclude la sua trasferibilità[xxvii].
Sempre secondo questo orientamento, il trasferimento dell’interesse legittimo, insieme all’interesse di fondo al quale è finalisticamente legato, è cosa ovvia che dipende dalla natura strumentale dell’interesse legittimo e dal suo essere una situazione dinamica, che si colloca nello spazio dell’esercizio del potere unilaterale altrui, allorché questo “intercetta” l’interesse sostanziale del suo titolare[xxviii].
Secondo l’indirizzo in esame l’interesse legittimo è sì “personale”, ma non più di qualsiasi diversa situazione giuridica soggettiva, cioè in quanto collegata ad un soggetto che ne è il titolare. Da tale carattere “personale” della situazione soggettiva non può, dunque, farsi derivare alcuna intrasferibilità[xxix].
L'ammissione di eccezioni da parte di chi sostiene l’intrasmissibilità dell’interesse legittimo finisce per attenuare la portata della tesi stessa, trasformandola in una teoria dell’intrasmissibilità relativa. In quest’ottica, si ammette l’esistenza sia di interessi legittimi trasmissibili sia di interessi legittimi intrasmissibili, e il criterio distintivo risiederebbe nella consistenza dell’interesse che sta alla base dell’interesse legittimo.
Tale dottrina sottolinea, comunque, che l’interesse legittimo, in quanto situazione dinamica, è altresì strumentale rispetto a situazioni aventi ad oggetto beni della vita; pertanto, la sua trasferibilità sarà possibile solamente quando tale situazione è in corso, ossia nei limiti dell’esercizio del potere unilaterale altrui[xxx].
In breve, secondo la dottrina esaminata, il fatto che l’interesse legittimo sia finalisticamente legato all’interesse di fondo sotteso giustifica l’appartenenza della situazione giuridica soggettiva al patrimonio del singolo[xxxi] e la sua trasmissibilità[xxxii].
Tale orientamento si appoggia sulla teoria “strumentale” dell’interesse legittimo che si contrappone alla teoria “finale”. Partendo da quest’ultima, altra parte della dottrina ha invece ritenuto ammissibile la trasmissibilità dell’interesse legittimo, a condizione che risultino cedibili sia la posizione legittimante sia, se è in questione un interesse pretensivo, il bene della vita da acquisire.[xxxiii]
Questo indirizzo parte dal presupposto che il fine dell’interesse legittimo è il bene della vita, che in caso di interessi oppositivi inquadra anche la posizione legittimante e, dunque, «se si reputa trasferibile tale posizione perché di carattere non strettamente personale […] risulterà per ciò solo trasferibile anche l’interesse legittimo»; invece, in caso di interessi pretensivi il bene della vita «non è ancora acquisito al patrimonio di chi lo richieda e non costituisce parte della posizione legittimante. Sicché non basta la trasferibilità di tale posizione legittimante, ma è necessario che il test sul carattere strettamente personale o meno vada esteso anche alla relazione con detto bene»[xxxiv].
Un’ulteriore corrente dottrinale ammette in modo implicito la trasferibilità degli interessi legittimi basandosi sul riconoscimento ex lege della circolazione dei diritti edificatori[xxxv] in modo autonomo rispetto al diritto di proprietà sottostante[xxxvi]. Ciò in base all’art. 2643, n. 2 c.c.[xxxvii] che prevede la trascrizione dei relativi atti di cessione[xxxviii].
4. Considerazioni finali
Dall’adesione o meno alla teoria della successione a titolo particolare dell’interesse legittimo derivano significative conseguenze sia in ambito procedimentale, che processuale[xxxix].
Per quanto riguarda il procedimento, se si muove dalla considerazione che ciò che viene ceduto è il medesimo interesse legittimo, si compirà il subentro nella stessa posizione dell’originario titolare della situazione giuridica ed anche il potere amministrativo, che ha già iniziato ad essere esercitato, rimarrà lo stesso. Per questo, tutti gli atti endoprocedimentali già posti in essere continueranno ad avere effetto anche nei confronti del nuovo titolare[xl]. Se, invece, si rifiuta la possibilità di un “acquisto a titolo derivativo” dell’interesse legittimo, ma si prospetta, al massimo, un acquisto “a titolo originario”, si escluderà una successione nella stessa posizione giuridica e si potrà, al limite, accettare l’assunzione di titolarità di un nuovo ed autonomo interesse legittimo. In quest’ultimo caso, tuttavia, l’originario potere non potrà continuare ad essere esercitato e il procedimento già iniziato non proseguirà, ma dovrà essere ripetuto dall’inizio.
Dal punto di vista del processo, invece, è solo nel caso in cui si accetti la trasferibilità dell’interesse legittimo che si potrà ammettere l’applicabilità degli artt. 110 e 111 c.p.c. anche nel giudizio amministrativo[xli], con le annesse conseguenze processuali, e dunque, ad esempio, la possibilità per il successore di intervenire o di essere chiamato in giudizio e di estromettere l’alienante, l’estensione anche al successore a titolo particolare della legittimazione ad agire, la decorrenza dalla stessa data del termine decadenziale per l’impugnazione del provvedimento e degli effetti della sentenza definitiva del giudizio già pendente.
La risoluzione della questione in analisi è meritevole di attenzione in quanto utile a molteplici finalità. In base alla soluzione data, sarà possibile stabilire se, in caso di successione, il nuovo titolare può subentrare automaticamente nel processo amministrativo o se sia necessaria una nuova impugnazione dell’atto amministrativo lesivo; valutare come la successione influenzi il rapporto tra il nuovo titolare dell’interesse legittimo e la Pubblica Amministrazione, soprattutto in materia di concessioni, autorizzazioni o appalti pubblici, ma anche approfondire se la successione dell’interesse legittimo sia coerente con i principi di effettività della tutela giurisdizionale e buona amministrazione[xlii].
Ammettere la trasferibilità dell’interesse legittimo ha indubbi vantaggi ai fini del buon funzionamento del processo e del procedimento, se solo si considerano la speditezza e i vantaggi in termini di economicità di tempo e mezzi che ne deriverebbero. La soluzione appare anche coerente con l’essenza dell’interesse legittimo, intesa come posizione giuridica di vantaggio condizionata dall’esercizio del potere amministrativo attraverso la quale il privato può far valere il principio di legalità ottenendo la tutela giurisdizionale o risarcitoria nei confronti della Pubblica Amministrazione[xliii]. Se è vero, infatti, che l’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva personale e diretta, ciò non ne impedisce la disponibilità e, di conseguenza, la cedibilità a titolo particolare ai sensi dell’art. 111 c.p.c., anche qualora non ci sia stretta inerenza tra il suddetto interesse e la posizione giuridica sottostante. Tutto ciò richiamando la teoria “finale” dell’interesse legittimo[xliv], che porta ad accettare la possibilità della sua trasmissibilità in tutti i casi in cui risultino cedibili la posizione legittimante e, qualora sia in questione un interesse pretensivo, il bene della vita da acquisire[xlv].
[i] Per una disamina dell’interesse legittimo e dei suoi profili più rilevanti si veda: F. G. SCOCA, L’interesse legittimo Storia e teoria, Giappichelli, Torino, 2017.
[ii] Per approfondire l’argomento ex multiis: M. BOVE, Lineamenti di diritto processuale civile, Giappichelli, Torino, pp. 359 ss., A. P. PISANI, Profili dogmatici e valori costituzionali nella successione a titolo particolare nel diritto controverso, in Rivista di diritto processuale, 3/2022, pp. 807-820, A. D'ADDAZIO, M. PAGNOTTA, B. LIMONGI, Il processo esecutivo e la successione nel diritto controverso, in Rassegna dell'esecuzione forzata, 2/2020, pp. 533-541.
[iii] Art. 111 c.p.c.: “Se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie.
Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto.
In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l'alienante o il successore universale può esserne estromesso.
La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull'acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione”.
[iv] L. FERRARA, Diritto soggettivo e interesse legittimo: una distinzione sfumata del tutto?, in L'amministrazione nell'assetto costituzionale dei poteri pubblici. Scritti per Vincenzo Cerulli Irelli. Tomo I, Giappichelli, Torino, 2021, p. 83-102.
[v] TAR Campania, Napoli, sez. III, 12 marzo 2024, n. 3777.
[vi] Decisioni conformi: Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2024, n. 9333; Cons. Stato, sez. V, 18 marzo 2024, n. 2606; Cons. Stato, sez. IV, 7 marzo 2013, n. 1403. Decisioni difformi: Cons. Stato, sez. VI, 30 novembre 2020, n. 7520 secondo cui l’interesse legittimo può essere normalmente, oggetto di trasferimento a titolo universale o particolare, con conseguente successione nel rapporto giuridico; Cons. Stato, sez. II, 26 aprile 2021, n. 3342; Cons. Stato, sez. III, 26 giugno 2020, n. 4103 che, ritenendo il disposto dell’art. 111 c.p.c. applicabile anche nel processo amministrativo, implicitamente risolve in senso favorevole la questione pregiudiziale dell’ammissibilità di una successione a titolo particolare anche nella titolarità, oltre che del diritto soggettivo, anche dell’interesse legittimo.
[vii] Sono richiamate e necessariamente da citare per la tesi a sostegno dell’intrasferibilità dell’interesse legittimo anche Cons. Stato, sez. II, 5 novembre 2024, n. 9333 e Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2024, n. 2606.
[viii] Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, depositata 7 marzo 2013, punto 6.
[ix] Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, n. 1403, depositata 7 marzo 2013, punto 7.
[x] Cons. Stato, sez. VI, 15 ottobre 2020, n. 7520, punto 4.
[xi] Cons. Stato, sez. VI, 24 marzo 2015, n. 3727 e Cons. Stato, sez. III, 11 giugno 2020, n. 4103 e, infine, Cons. Stato, sez. II, 27 ottobre 2020, n. 3342, pubblicata 26 aprile 2021 .
[xii] Ai sensi dell’art. 12 della legge 2 aprile 1968, n. 475.
[xiii] Intesa come complesso di beni organizzato all’esercizio dell’impresa, coincidente con i locali adibiti all’esercizio farmaceutico e con le dotazioni ad essa afferenti.
[xiv] Capacità o attitudine del diritto soggettivo ad essere trasferito da una sfera giuridica per essere imputato ad un’altra sfera giuridica. Cfr. M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2024, pp. 139 ss.
[xv] Cass., Sez. Unite, sent. 500 del 1999. Per approfondire: A. ORSI BATTAGLINI, C. MARZUOLI, La Cassazione sul risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell'interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1999; R. CAROCCIA, Risarcimento dell'interesse legittimo - Chance, tutela dell'affidamento e regole di validità e responsabilità, Giappichelli, Torino, 2022.
[xvi] Per approfondire: R. ALESSI, Interesse sostanziale e interesse processuale nella giurisdizione amministrativa, in Arch. giur., 1943, pp. 132 ss.
[xvii] E. FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Cedam, Padova, 1986, p. 249.
[xviii] V. SPAGNUOLO VIGORITA, Principio individualistico nel processo amministrativo e difesa dell’interesse pubblico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1962, p. 635.
[xix] E. GUICCIARDI, Le transazioni degli enti pubblici, in Arch. dir. pubbl. 1936, 71/134, secondo cui «la connessione esistente tra l’interesse delle parti e l’interesse pubblico (...) rende inammissibile in tali casi una composizione transattiva».
[xx] M. D’ARIENZO, Trasferibilità dell’interesse legittimo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017, p. 90.
[xxi] A. NICOLUSSI, Diritto soggettivo e rapporto giuridico. Cenni di teoria generale fra diritto privato e diritto pubblico, in Colloquio sull’interesse legittimo - Atti del Convegno in memoria di Umberto Pototsching (Milano, 19 aprile 2013), Jovene, Napoli, 2014, p. 76, secondo cui «L'interesse legittimo si inserisce in modo infungibile e indisponibile nel rapporto amministrativo tra p.a. e soggetto privato coinvolto, in quanto l’interesse tutelato del soggetto privato è quello e soltanto quello su cui insiste l’atto amministrativo».
[xxii] M. DELSIGNORE, La compromettibilità in arbitrato nel diritto amministrativo, Giuffré, Milano, 2007, pp. 191-192.
[xxiii] A. DI CAGNO, Riflessioni sul problema della trasmissibilità dell’interesse legittimo: profili ricostruttivi e prospettive di analisi, in Federalismi.it, 26/2023, pp. 51 ss.
[xxiv] A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1980, p. 158.
[xxv] F.G. SCOCA, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Giuffrè, Milano, 1990, p. 37.
[xxvi] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 468.
[xxvii] F.G. SCOCA, Contributo, cit., p. 37. La circolazione dell’interesse legittimo separatamente dal trasferimento delle
«condizioni sostanziali che lo avevano generato» è stata interpretata, sul piano teorico, come trasformazione dell’interesse legittimo in una situazione soggettiva «astratta, quasi cartolare», che possa circolare «a prescindere dalla circolazione del rapporto sottostante» (C. RUSSO, Trasmissibilità a terzi del risarcimento del danno, in www.treccani.it, 2014, p. 6).
[xxviii] La trasferibilità dell’interesse legittimo è ipotizzabile, chiaramente, ove esso sia presente; quindi, quando viene esercitato il potere dell’amministrazione, cioè dal momento in cui si apre il procedimento a quando si chiude.
[xxix] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 470.
[xxx] Op. cit., p. 471-475.
[xxxi] F.G. SCOCA, Attualità dell’interesse legittimo?, in Dir. proc. amm., 2011, 2, pp. 379 ss.
[xxxii] F.G. SCOCA, Contributo, cit., p. 37.
[xxxiii] G. GRECO, Il rapporto amministrativo e le vicende della posizione del cittadino, in Foro amm., 2014, pp. 585 ss.
[xxxiv] G. GRECO, Il rapporto amministrativo e le vicende, cit., p. 619.
[xxxv] A. BARTOLINI, Profili giuridici del c.d. credito di volumetria, in Riv. giur. urb., 2007, p. 305.
[xxxvi] M.C. D'ARIENZO, Trasmissibilità dell'interesse legittimo e circolazione dei diritti edificatori tra previsioni codicistiche e suggestioni giurisprudenziali, in Diritto e processo amministrativo, 2016, pp. 965 ss.
[xxxvii] Si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione: […] 2) i contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano il diritto di usufrutto su beni immobili, il diritto di superficie, i diritti del concedente e dell'enfiteuta.
[xxxviii] G.P. CIRILLO, La trascrizione dei diritti edificatori e la circolazione degli interessi legittimi, in Riv. notariato, 2013, 3, pp. 601 ss.
[xxxix] F.G. SCOCA, L’interesse legittimo, cit., p. 459, ove l’interesse legittimo appare come «l’interesse all’esito favorevole dell’esercizio del potere precettivo altrui, tutelato mediante facoltà di collaborazione dialettica, dirette ad influire sul merito della decisione (precetto) finale, esperibili lungo tutto il corso dell’esercizio del potere».
[xl] La dottrina che pare ammettere la successione nel rapporto procedimentale ritiene che «tutte le situazioni che si formano dialetticamente e progressivamente nel procedimento […] diventano (immediatamente) riferibili anche al successore (come, ad es., il possesso di determinati requisiti per l’ottenimento di un determinato bene della vita) »; cfr. F. GASPARI, Successione a titolo particolare nel diritto controverso nel processo amministrativo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2020, p. 67.
[xli] Come sembrerebbe riconoscere la giurisprudenza, tra cui Cons. Stato, Sez. VI, 28 luglio 2015, n. 3727; Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2010, n. 1842.
[xlii] Artt. 24 e 97 Cost., art. 6 CEDU.
[xliii] Ex multiis E. CASETTA, L'interesse legittimo: una situazione giuridica a “progressivo rafforzamento”, in Dir. Ec., 2008, 1, pp. 7-16; M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2022, pp. 132-135.
[xliv] Teoria che pare ormai accolta pacificamente dalla giurisprudenza civile (ex multiis: Cass., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500, punto 5, Cass., Sez. Un., 4 settembre 2015, n. 17586), amministrativa (ex multiis, Cons. Stato, ad. plen. 29 luglio 2011, n. 15, punto 6.4.1; Cons. Stato, ad plen. 23 marzo 2011, n. 3, punto 3.1.) e persino della Corte costituzionale. Infatti, è stato da ultimo riconosciuto, anche dalla Corte costituzionale, che «gli artt. 24, 103 e 113 Cost., in linea con le acquisizioni della giurisprudenza del Consiglio di Stato, hanno posto al centro della giurisdizione amministrativa l’interesse sostanziale al bene della vita» (Corte cost. 13 dicembre 2019, n. 271, punto 11.2). Cfr. G. GRECO, Interesse legittimo ed effettività della tutela (a proposito della sentenza 1321/19 del Consiglio di Stato), pubblicato il 14 gennaio 2020 in sito giustizia amministrativa - dottrina.
[xlv] G. GRECO, Il rapporto, cit., pp. 585 ss.
Sommario: 1. Il caso - 2. L’ordinanza di rimessione - 3. La decisione della Corte - 4. Osservazioni.
1. Il caso
Il caso da cui origina la pronuncia d’incostituzionalità dell’art. 35 della legge 23 dicembre n. 833 del 1978, resa dalla Corte cost. con sentenza n. 76 del 30 maggio 2025, riguarda una donna che, trascorso circa un mese dalle dimissioni dall’ospedale, dopo un ricovero in regime di T.S.O., aveva proposto opposizione al Tribunale di Caltanissetta avverso il decreto di convalida del Giudice Tutelare.
Il Tribunale aveva respinto il ricorso, poiché riteneva che il grave scompenso psichico della donna e il suo comportamento oppositivo alle cure fossero idonei a integrare i presupposti per l’applicazione della misura coattiva.
La Corte d'appello nissena aveva confermato la pronuncia di primo grado, valorizzando, in particolare, a riprova della legittimità del trattamento, il fatto che la donna avesse manifestato in passato idee suicidarie e che, il giorno prima dell’esecuzione del T.S.O., avesse assunto dosi eccessive di psicofarmaci.
La sentenza della Corte d’appello era stata impugnata con ricorso per cassazione, con il quale la ricorrente lamentava di non essere stata informata del provvedimento del Sindaco, che disponeva il T.S.O. e, conseguentemente, di non essere stata in condizione di far rilevare la mancata allegazione della relazione medica richiamata dal provvedimento sindacale; inoltre, la ricorrente si doleva di non aveva ricevuto la notifica del decreto di convalida e di non aver potuto opporvisi, se non dopo la scadenza del trattamento; infine, la ricorrente deduceva di non essere stata sentita, prima della convalida, dal Giudice Tutelare, che aveva, perciò, deciso solo in base agli atti di causa, peraltro incompleti.
Nel corso del giudizio dinanzi alla S.C., la Procura Generale aveva prospettato la non conformità a Costituzione della disciplina sui T.S.O., nella parte in cui la legge non prevedeva un’adeguata e tempestiva informativa al soggetto interessato in ordine ai presupposti applicativi della misura coattiva.
Il Collegio ha ritenuto condivisibili i rilievi svolti dalla Procura Generale ed ha, quindi, sollevato la questione di costituzionalità, con ordinanza n. 24124 del 9 settembre 2024[1].
2. L’ordinanza di rimessione
La S.C. ha, innanzitutto, ricostruito il quadro giuridico di riferimento, prendendo le mosse dall’art. 32 Cost., così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale.
Focalizzando l’attenzione sul tema della salute mentale, la S.C. ha dato conto del passaggio dalla legge 14 febbraio 1904, n. 36, recante "disposizioni sui manicomi e sugli alienati", alla legge 13 maggio 1978, n. 180 (cosiddetta legge Basaglia), il cui impianto è, poi, confluito nella legge 23 dicembre 1978 n. 833.
Il Collegio, dopo aver esaminato dettagliatamente gli artt. 33, 34 e 35 della legge n. 833 del 1978, ha colto il vulnus di costituzionalità nella parte in cui la vigente disciplina non prevede che il paziente sia informato degli atti che precedono la convalida giurisdizionale del T.S.O e neppure che egli sia messo a conoscenza del provvedimento conclusivo del procedimento.
Il deficit informativo ravvisato dai Giudici di legittimità non può essere colmato per via interpretativa, trattandosi, peraltro, di materia soggetta a riserva di legge.
Da qui allora la necessità di sollevare la questione di costituzionalità.
Il T.S.O. – osserva la S.C. – è “un caso di limitazione parziale e temporanea della capacità di agire, cui si accompagna la coazione fisica e, pertanto, richiede un giudizio, assistito dalle relative garanzie e non soltanto una valutazione medica sottoposta ad un controllo giurisdizionale esterno”.
Il deficit informativo pone uno iato tra gli artt. 13 e 32 Cost., da una parte, e gli artt. 24 e 111 Cost., dall’altra, perché, senza il rispetto del contraddittorio, non può esservi diritto di difesa e controllo giurisdizionale in un procedimento che si traduce nella compressione della libertà personale e della sfera di autodeterminazione del soggetto.
In estrema sintesi, il “cuore” della questione di costituzionalità può essere compendiato nel seguente passaggio dell’ordinanza di rimessione: “si ritiene che l’attuale sistema normativo in materia di trattamenti sanitari obbligatori in condizione di degenza ospedaliera, disegnato dagli artt. 33,34 e 35 della legge n. 833/1978 non sia conforme agli artt. 2, 3,13,24, 32 e 111 della Costituzione, nonché all’art. 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, per la mancata previsione, cui non può rimediarsi attraverso la via dell’interpretazione affidata al giudice, della notificazione dei provvedimenti, nonché di passaggi procedimentali a garanzia del diritto al contraddittorio, alla difesa e ad un ricorso tempestivo ed effettivo avverso decisioni che limitano il diritto di autodeterminarsi in materia di trattamenti sanitari e la libertà personale, compresa l’audizione del soggetto interessato”.
In conclusione, il Collegio rimettente formula la richiesta di una pronunzia additiva di incostituzionalità dell’art. 35 della legge n. 833 del 1978, tanto nella parte in cui non è prevista la notifica all’interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, del provvedimento sindacale che dispone il trattamento quanto nella parte in cui non è prevista la notifica del provvedimento giurisdizionale di convalida.
3. L’ordinanza di rimessione
Anzitutto, la Corte definisce il trattamento sanitario in condizioni di degenza ospedaliera come un vero e proprio trattamento sanitario coattivo, in quanto disposto contro la volontà dell’interessato e incidente sulla sua libertà fisica[2].
Questo trattamento si colloca al crocevia di due valori costituzionali, compendiati nell’art. 32 Cost. e, segnatamente, la salute (comma 1) e la libertà di autodeterminazione terapeutica (comma 2).
La misura si pone, così, sul crinale tra la libertà di autodeterminazione in materia di salute e la regola del consenso, da un lato, e l’esigenza di protezione della salute della persona stessa, dall’altro, che giustifica, in via d’eccezione, un trattamento contro la sua volontà imposto mediante coazione fisica.
Peraltro, proprio l’incidenza del trattamento sulla libertà personale richiede che esso sia eseguito nel rispetto delle garanzie previste anche dall’art. 13 Cost.
Partendo dal rilievo che il ricovero coatto “non è disposto contro il soggetto a titolo di pena o di misura di sicurezza, ma, quanto meno prevalentemente, a favore di lui, a protezione della sua salute e della sua integrità fisica”[3], la Corte ne sottolinea la differenza rispetto all’assegnazione alle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), in quanto soltanto la misura di sicurezza presuppone una manifestazione della pericolosità sociale nel compimento di fatti costituenti reato e una valutazione della pericolosità stessa anche in termini prognostici, a tutela della collettività: “La «natura “ancipite”» della misura di sicurezza, la sua duplice «polarità», di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della pericolosità sociale (sentenza n. 22 del 2022), difettano nel trattamento sanitario coattivo in degenza ospedaliera, che resta, invece, ispirato al principio personalista e finalizzato essenzialmente alla cura della persona”[4].
La Corte riconosce che, a fronte della discrezionalità del legislatore nel modulare le forme di tutela giurisdizionale, l’art. 35 della legge n. 833 del 1978 determina una significativa compressione del diritto di difesa e al contraddittorio, cioè dei contenuti minimi della tutela giurisdizionale.
Un diritto, quello di ricevere la comunicazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, che – osserva la Corte - non è inficiato dalla condizione di alterazione psichica in cui versa la persona sottoposta a trattamento sanitario coattivo.
Infatti, l’ordinamento esclude, attraverso plurimi istituti, che la sola incapacità naturale, intesa come incapacità di intendere e di volere, momentanea o persistente, possa di per sé sola riverberarsi sulla capacità processuale[5].
La condizione di alterazione psichica momentanea, tuttavia, può essere di ostacolo all’effettiva comprensione del contenuto delle comunicazioni/notificazioni dei provvedimenti restrittivi.
Muovendo da tale considerazione, la Corte giunge, così, ad affermare che, per garantire l’effettività di tali diritti, assume particolare rilievo l’audizione della persona interessata da parte del Giudice Tutelare prima della convalida.
Secondo la Corte, l’audizione della persona sottoposta a T.S.O. assolve a diverse funzioni.
In primo luogo, l’audizione è necessaria per la verifica in concreto dei presupposti sostanziali che giustificano il trattamento ed è funzionale alla sua convalida.
In secondo luogo, l’audizione presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura – garantisce che il trattamento venga eseguito nel rispetto dell’art. 13, quarto comma, Cost., che sancisce il divieto di violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà personale, e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana, ai sensi dell’art. 32, secondo comma, Cost.
Infine, l’audizione assume la valenza di “strumento di primo contatto”, che consente di conoscere le reali condizioni in cui versa la persona interessata, anche dal punto di vista dell’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale e di individuare il percorso in cui instradare le forme di miglior ausilio del destinatario della misura in relazione alla sua situazione soggettiva.
In conclusione, la Corte afferma che l’omessa previsione della comunicazione del provvedimento sindacale e della notificazione del decreto di convalida alla persona interessata o al suo legale rappresentante, ove esistente, nonché l’omessa previsione dell’audizione della stessa persona interessata prima della convalida, determinano la violazione degli artt. 13, 24, 32 e 111 Cost.
4. Osservazioni
La sentenza della Corte costituzionale - pur avendo apprezzabilmente innestato un surplus di garanzie a tutela del destinatario del T.S.O. in un impianto normativo ormai obsoleto e che necessiterebbe di essere ripensato ab imis dal legislatore[6] - non si sottrae a critiche “di metodo” e “di merito”.
Per quanto riguarda le prime, si è in presenza di un caso nel quale la Corte si è discostata dalla “domanda” posta dal giudice a quo ed ha finito con il pronunciarsi “oltre" il perimetro della questione di costituzionalità tracciato dal rimettente.
Un caso di ultrapetizione, per dirla come i processualcivilisti.
Si tratta, tuttavia, di una tecnica decisoria niente affatto nuova nella giurisprudenza costituzionale[7].
Occorre, subito, precisare che, pure a fronte di un orientamento[8] che impone di circoscrivere la decisione della Corte al dubbio di costituzionalità, così come questo proviene dal giudice a quo e dal caso concreto, anche per ineliminabili esigenze di tutela del contraddittorio, il Giudice costituzionale, tuttavia, non di rado interviene sul thema decidendum, allentando quel vincolo tra la "domanda" e la pronuncia, viceversa saldamente mantenuto dal lato del giudice a quo e delle parti del giudizio di costituzionalità.
Si tratta di una flessibilizzazione del “principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato”, che impone al Giudice delle leggi di pronunciarsi nei limiti dell'impugnazione, secondo quanto dispone l’art. 27 legge 11 marzo 1953, n. 87 e che agisce, tuttavia, in senso unidirezionale.
La Corte ha, infatti, escluso che un simile effetto possa prodursi ad opera di interventi della parte ovvero anche del giudice a quo, ma ha riservato a sé stessa un più o meno ampio margine di intervento nella definizione o ri-definizione dell'oggetto della questione di costituzionalità.
In tal modo si vuole impedire che, tramite un'interpretazione restrittiva del citato art. 27 e del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, la Corte possa essere vincolata ad una prospettazione della questione di costituzionalità, che non le consentirebbe di pronunciarsi sulla intera norma o sulla situazione normativa sospettata di incostituzionalità.
Senza indugiare ulteriormente su questioni che sono tuttora oggetto di acceso dibattito nell’ambito della dottrina giuspubblicistica[9], si vuole osservare come, nel caso in esame, la modificazione del thema decidendum da parte della Corte riguardi – per utilizzare categorie mutuate dal diritto processuale civile – la causa petendi ed il petitum della questione di legittimità costituzionale.
La “causa petendi” può ravvisarsi nel deficit informativo che, come detto, è stato sapientemente colto dalla S.C. nelle pieghe del procedimento disciplinato dagli artt. 33, 34 e 35 l. n. 833 del 1978; deficit informativo tale per cui la persona sottoposta al trattamento non ha notizia degli atti del procedimento che sfociano nella convalida giurisdizionale.
Il “petitum”, invece, può essere tratto dal dispositivo dell’ordinanza di rimessione nel quale si censurano le norme impugnate che non prevedono la notifica né del provvedimento sindacale che dispone il T.S.O. né dell’ordinanza di convalida.
Così perimetrato il thema decidendum, emerge con tutta evidenza come la Corte costituzionale non si sia limitata ad esaminare il denunciato deficit informativo ed accogliere le richieste “additive” del rimettente[10], prevedendo la “comunicazione” del provvedimento sindacale all’interessato e la “notificazione” al medesimo della convalida giurisdizionale, ma sia andata “ultra petita”, avendo introdotto anche l’obbligatorietà dell’audizione della persona sottoposta al trattamento prima della convalida.
L’audizione dell’interessato, nella prospettiva del rimettente, era concepita come oggetto di un diritto, che avrebbe potuto esercitato, volta che il destinatario della misura avesse ricevuto la notificazione del provvedimento del Sindaco, contenente un avviso ad hoc.
Ora, per effetto dell’intervento del Giudice costituzionale, questo “diritto” diventa un “obbligo”, un incombente, cioè, necessario, da espletarsi sempre e comunque (almeno così parrebbe ad una prima lettura) da parte del Giudice Tutelare, prima della convalida del trattamento.
Una questione “di metodo” - quella, cioè, relativa all’audizione prevista ex officio dalla Corte, sebbene non richiesta dal rimettente - che trasmoda in una questione “di merito”, relativa, cioè, al fatto che l’audizione, da “diritto” per l’interessato, diventa “obbligo” per il Giudice Tutelare, con prevedibili gravi ricadute di carattere pratico-organizzativo sul lavoro degli uffici giudiziari.
In particolare, la Corte introduce l’obbligatorietà dell’audizione dell’interessato nel procedimento di convalida del T.S.O. attraverso la seguente affermazione: “La condizione di alterazione psichica momentanea in cui versa la persona interessata, tuttavia, può essere di ostacolo alla effettiva comprensione del contenuto delle richiamate comunicazioni. Queste, dunque, benché necessarie, non sono sufficienti alla effettiva garanzia dei diritti costituzionali di difesa e al contraddittorio. Per l’effettività di tali diritti assume particolare rilievo l’audizione della persona interessata da parte del giudice tutelare prima della convalida”.
Dunque, secondo la Corte, l’audizione dell’interessato assume un ruolo decisivo al fine di garantire l’effettività dei diritti costituzionali di difesa (art. 24 Cost.) e di contraddittorio (art. 111 Cost.).
E, tuttavia, questa conclusione - che si traduce nella pronuncia additiva di incostituzionalità del citato art. 35 nella parte in cui non prevede che l’interessato sia sentito dal Giudice Tutelare prima della convalida del T.S.O. - non può essere condivisa nella sua assolutezza.
Potrebbe darsi, infatti, che l’interessato (o il suo legale rappresentante, se nominato[11]), abbia ricevuto la comunicazione del provvedimento sindacale e, pur essendo in condizioni tali da comprenderne appieno le ragioni, non abbia inteso opporvisi o esercitare le facoltà previste dalla legge[12].
In questo caso, l’audizione dell’interessato, intesa come strumento per garantire i diritti di difesa e di contraddittorio, non parrebbe necessaria, essendo stati tali diritti già tutelati al momento della comunicazione del provvedimento sindacale.
Potrebbe ancora darsi il caso che, per una qualsivoglia ragione, la comunicazione del provvedimento sindacale non sia giunta a conoscenza del destinatario oppure che quest’ultimo, al momento della comunicazione, fosse privo di un legale rappresentante e versasse in condizioni di totale alterazione psichica.
Ebbene, in queste ipotesi, neppure l’audizione giudiziale potrebbe valere a garantire il rispetto dei diritti di difesa e di contraddittorio dell’interessato e ciò per una duplice ragione: in primo luogo, perché ove persistessero le originarie condizioni di alterazione psichica, il destinatario della misura continuerebbe a non comprendere le ragioni per le quali è stato ricoverato in ospedale; in secondo luogo, perché la lesione dei suoi diritti si è già consumata, giacché egli è stato sottoposto coattivamente all’esecuzione del trattamento, senza aver avuto preventivamente la possibilità, siccome psichicamente alterato, di prenderne coscienza e di svolgere, conseguentemente, le relative difese, eventualmente opponendosi e chiedendone la revoca, anche prima del ricovero.
Inoltre, nessuna delle tre ragioni per le quali la Corte ritiene necessaria l’audizione – vale a dire, a) quella di verificare in concreto la sussistenza dei presupposti sostanziali della misura; b) quella di garantire l’esecuzione del trattamento nel rispetto dell’art. 13, comma 4 Cost.; c) quella di fungere da “strumento di primo contatto” con il destinatario della misura – appare in collegamento con la finalità di tutela dei diritti di difesa e di contradditorio.
In sintesi, si vuol dire che si sarebbe potuta evitare la previsione di un obbligo generalizzato di audizione dell’interessato, non apparendo la stessa strettamente necessaria per rispondere al dubbio di costituzionalità del rimettente.
Piuttosto, sarebbe stato sufficiente limitarsi ad accogliere le richieste contenute nell’ordinanza della Suprema Corte, aggiungendo nel testo normativo gli obblighi di comunicazione del provvedimento sindacale e di notifica dell’ordinanza di convalida.
Alla comunicazione del provvedimento sindacale si sarebbe, poi, dovuta accompagnare la comunicazione anche dell’avviso “che il provvedimento sarà sottoposto a convalida del giudice tutelare entro le 48 ore successive e (…) che l’interessato ha diritto di comunicare con chiunque ritenga opportuno e di chiedere la revoca del suddetto provvedimento, nonché di essere sentito personalmente dal giudice tutelare prima della convalida”.
La comunicazione di tale avviso era stata molto opportunamente formulata dal Giudice rimettente ma non è stata recepita dal Giudice costituzionale, senza che di tale mancato recepimento siano state spiegate le ragioni.
Anzi, proprio l’omessa previsione dell’avviso - che, in base all’ordinanza di rimessione, si sarebbe dovuto comunicare unitamente al provvedimento sindacale - porta a ritenere che, nella logica della Corte, l’audizione non sia più soltanto un “diritto” del cui possibile esercizio l’interessato debba essere informato, ma sia divenuto un “obbligo” per il Giudice, che “deve” provvedervi, prima della convalida.
Il Giudice delle Leggi ha, tuttavia, seguito la via dell’ultrapetizione, introducendo, ex officio, l’obbligo generalizzato di audizione, anche per dare una risposta alle sollecitazioni provenienti in tal senso da vari organismi internazionali[13].
Una soluzione più ragionevole sarebbe stata, forse, proprio quella lumeggiata dal rimettente che, nel prevedere, in sostanza, un’audizione a richiesta, avrebbe contemperato le due opposte esigenze: da un lato, quelle di tutela del soggetto fragile e dei suoi diritti di difesa e di contraddittorio, e, dall’altro, quelle di un controllo effettivo sulla legittimità del procedimento, anziché un controllo meramente formale, basato soltanto sulla regolarità e tempestività degli atti.
Soluzione, quella dell’audizione a richiesta del destinatario della misura (o, eventualmente, del suo legale rappresentante), che avrebbe, inoltre, consentito una selezione “a monte” dei casi meritevoli di un più diretto e penetrante approfondimento da parte del Giudice Tutelare e che avrebbe avuto l’ulteriore, ma non secondario, pregio di ridurre le ricadute della pronuncia d’incostituzionalità sull’organizzazione del lavoro degli uffici e sul loro buon funzionamento, in termini di risposta attenta ed efficiente alle istanze di giustizia dei soggetti deboli.
[1] Per un commento all’ordinanza di rimessione sia consentito un rinvio al mio contributo, “La Cassazione solleva la questione di costituzionalità della legge sui T.S.O.”, in Nuova giur. Civ. comm., 2025, 1, parte I, 53 ss.
[2] Sulla distinzione tra trattamento sanitario obbligatorio e trattamento coattivo, che si configura ogni qual volta la legge attribuisca alla pubblica autorità non solo poteri sanzionatori in caso di inottemperanza, ma anche poteri coercitivi sulla salute individuale, si veda D. VINCENZI AMATO, Art. 32, in Comm. Cost. Branca, Zanichelli, 1976, 170; B. CARAVITA DI TORITTO, La disciplina costituzionale della salute, in Dir. e soc., 1984, 55; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, Cedam, 1998, 96. Per la tesi secondo cui l’art. 13 Cost. riguarda esclusivamente le misure che implichino un giudizio di disfavore e rivestano, in questo senso, carattere ‘‘afflittivo’’ e ‘‘degradante’’ si veda A. BARBERA, I principi costituzionali della libertà personale, Giuffre,1971, 98 ss.
[3] Corte cost., sent. 27 giugno 1968, n. 74.
[4] La REMS “costituisce così, a tutti gli effetti, una nuova misura di sicurezza, ispirata ad una logica di fondo assai diversa rispetto al ricovero in OPG o all’assegnazione a casa di cura o di custodia, ma applicabile in presenza degli stessi presupposti, salvo il nuovo requisito della inidoneità di ogni misura meno afflittiva introdotto dall’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito. Al punto che l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014, convertito nella legge n. 81 del 2014, include espressamente il «ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» tra le «misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive»” (così Corte cost., sent. 27 gennaio 2022, n. 22).
[5] Corte cost., sent. 27 luglio 2023, n. 168.
[6] La contrapposizione ‘‘autodeterminazione’’/‘‘coercizione’’, che emerge in maniera netta dall’attuale disciplina legislativa sui T.S.O., finisce per ‘‘ingabbiare’’ in maglie, forse, troppo strette un fenomeno complesso, quale è quello della malattia mentale, spesso ulteriormente complicato dalle particolarità delle situazioni e dei contesti esistenziali, spesso drammatici, in cui si trova a vivere il malato psichiatrico. Come è stato condivisibilmente osservato da taluno in dottrina (G. RECINTO, Per una tutela ‘‘complessiva’’ e ‘‘multidimensionale’’ delle persone con disabilità, in AA.VV., Funzione amministrativa e diritti delle persone con disabilità, Editoriale scientifica, 2022, 21 ss.), l’unica prospettiva perseguibile è quella di considerare, nel solco delle indicazioni della Convenzione delle Nazioni, Unite sui diritti delle persone con disabilità, le persone fragili, e quindi anche quella caratterizzate da infermità mentale o da disturbi psichici, nella loro complessità e in una visione multidimensionale, attenta, non solo ai bisogni materiali, ma anche a quelli esistenziali, relazionali, affettivi, formativi, culturali e di contesto, in modo da garantire ad ognuno la concreta possibilità di sviluppare un percorso di vita indipendente.
[7] A questo riguardo, valga, infatti, sottolineare che la Corte costituzionale non è nuova a rivisitazioni dell'ordinanza di rimessione, specie quando si trovi a dover (e voler) decidere “questioni importanti”. Un esempio di manipolazione del thema decidendum si è avuto, di recente, in occasione del c.d. “caso Cappato", nel quale la Corte, con la sent. 22 novembre 2019, n. 242, emessa a seguito della precedente ord. 16 novembre 2018, n. 207 del 2018, ha circoscritto gli effetti del proprio intervento ablativo, allontanandosi dalla prospettazione del giudice a quo, anzitutto con riferimento alla norma oggetto dell'impugnativa del remittente. Si vedano, in tema, le acute osservazioni di M. D'AMICO, Il "Caso Cappato" e le logiche del processo costituzionale, in Quaderni Costituzionali, 2019.
[8] Si tratta di un orientamento giurisprudenziale che si afferma sin dalle prime pronunce della Corte costituzionale. Tra le molte, si vedano Corte cost., sent. 29 maggio 1957, n. 64 e sent. 25 maggio 1957, n. 80, ove il Giudice costituzionale ha affermato il principio secondo cui il giudizio della Corte costituzionale può avere ad oggetto solo le questioni proposte dall'ordinanza di rinvio, senza che sia consentito seguire le parti nei loro sviluppi ed amplificazioni e, ancora, che “la Corte esaminerà le sole questioni che sono state enunciate nelle ordinanze e nei limiti nei quali queste risultano formulate nelle ordinanze stesse, tenendo conto delie deduzioni difensive solo in quanto esse sviluppino ed illustrino il contenuto delle ordinanze e non in quanto sollevino questioni nuove” (così Corte cost., sent. 6 luglio 1962, n. 65).
[9] Si rinvia sul punto a C. NARDOCCI, Il diritto al giudice costituzionale, in Editoriale Scientifica, 2020, in particolare, pag. 218 e ss.
[10] L. ELIA, Le sentenze additive e la piú recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in Scritti Crisafulli, I, Padova, 1985, 299 e ss.
[11] Al fine assicurare l’effettività del contraddittorio nella fase prodromica rispetto all’esecuzione della misura, si potrebbe pensare, in quei casi nei quali lo stato di alterazione psichica del beneficiario non gli consenta di comprendere il contenuto del provvedimento sindacale e di esercitare le facoltà che legge gli riconosce, alla nomina di un legale rappresentante ad acta, ai sensi dell’art. 405, comma 4, c.c., da parte del Giudice Tutelare, su impulso del medico che ha proposto il trattamento ex art. 33, comma 3 della legge n. 833 del 1978 o di quello che lo ha convalidato ex art. 34, comma 3, della medesima legge.
[12] Art. 33, commi 6 e 7, della legge n. 833 del 1978: “Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, l’infermo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno. Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio”.
[13] Il riferimento è al Report del 24 marzo 2023, adottato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti disumani e degradanti (CPT) del Consiglio d’Europa in seguito a una visita periodica svoltasi in Italia, e a Corte EDU, sezione seconda, decisione 8 ottobre 2013, Azenabor contro Italia).
Sommario: 1. Premessa – 2. Il femminicidio: quadro storico. Un nome nuovo per un vecchio problema -3. Le cause della violenza : studi psicologici sulle cause del femminicidio e dei reati spia e riscontri fattuali – 4. Patriarcato, maschilismo e i giovani: un problema non sempre connesso all’età – 5. I dati: l’importanza dello studio statistico per uscire dalla invisibilità - 6. I rimedi, quelli attuali e quelli immaginabili per il futuro. L’obiettivo culturale.
1. Premessa
Dietro lo stillicidio di aggressioni contro le donne c'è il fallimento di una società. Il numero delle donne vittime di aggressioni e sopraffazioni denuncia l'esistenza di un fenomeno non legato soltanto a situazioni anomale a fronte del quale non possiamo limitarci a contrapporre indignazioni a intermittenza.
Queste parole del Presidente della Repubblica Mattarella in occasione della celebrazione del 25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, focalizzano l'attenzione sui femminicidi che insieme alle varie forme di violenza di genere costituiscono oggi fenomeni sociali gravissimi di estrema attualità sia in Italia che in molti altri Paesi di ogni continente, tali da assurgere ormai al ruolo di vere e proprie emergenze sociali.
Raccogliendo l’invito a non indignarsi solo nel momento del lutto, quando la riprovazione e il cordoglio sono pressoché generali, la finalità di questo contributo, senza pretesa di vantare competenze non possedute, è quella di svolgere una breve analisi del fenomeno, rivisitato anche nel suo profilo storico, che non va mai sottovalutato allorché si vogliano davvero comprendere le cause sottese agli effetti e possibilmente ideare soluzioni concrete.
Ma la finalità è anche quella di indagare il mondo quasi sommerso, almeno fino a qualche tempo fa, dei cosiddetti reati spia, o meglio sarebbe chiamarli reati sentinella - atti persecutori, maltrattamenti contro familiari o conviventi insieme con le violenze sessuali - che, su un piano apparentemente meno eclatante ma ugualmente odioso manifestano, in modo purtroppo massivo, la violenza di genere.
Reati che, almeno finora, non sono stati valutati come effettive manifestazioni della violenza di genere, specialmente quando non trasmodati in aggressioni fisiche importanti per gli effetti di danno alla persona, e sono stati spesso relegati, in particolare per quanto riguarda i maltrattamenti in famiglia ma non solo, nell'ambito della sfera privata di un rapporto di coppia degradato o finito male.
L'analisi dei dati e anche delle dinamiche processuali può consentire di far uscire questi reati dalla bolla della invisibilità, che più di ogni altra cosa lede le vittime, il diritto e complessivamente l’intera società.
2. Il femminicidio: quadro storico. Un nome nuovo per un vecchio problema
«Il femminicidio è vecchio quanto il patriarcato. Il femminicidio è il misogino assassinio di una donna da parte di un uomo come forma di violenza sessuale intesa quest'ultima come qualsiasi atto che consista in una minaccia , un'invasione o in una aggressione, verbale o per immagini o sessuale, che abbia l'effetto, nella percezione della donna, di ferirla, degradarla o di eliminare la sua capacità di controllo della propria sessualità.[1]»
Questa breve ma puntuale definizione, elaborata da Kelly come report sulle testimonianze di 60 donne che nel 1988 scelsero di partecipare all'indagine, contiene già alcuni punti saldi dei successivi studi sulla violenza di genere e sul femminicidio.
I due punti di arrivo di maggiore rilevanza sono che da un canto il concetto di uccisione di una donna non è connesso soltanto alla sua morte fisica ma a qualunque forma di atto che porti al suo annientamento e quindi alla sua morte anche quando questa non sia fisica; dall'altro è che per la prima volta in assoluto il concetto di violenza viene osservato dal punto di vista della donna che la subisce.
Si inizia dunque a scardinare una visione tutta maschile, riduttiva e talora negazionista, del concetto di violenza di genere, che ancora oggi si ritrova nella visione sociale comune e anche negli atti giudiziari, dove spesso atti di abitudinaria violenza, vissuti drammaticamente dalle donne, vengono letti come normali scaramucce familiari con manifestazioni di reazioni, magari un tantino eccessive, a normali crisi del rapporto amoroso.
La citazione dell'indagine di Kelly apre un testo che generalmente è considerato fondamentale per l'analisi e la comprensione del problema della violenza di genere e del suo più tragico epilogo qual è il femminicidio, (Femicide: The Politics of woman killing – Diana E.Russell e Jill Radford – 1992 ), opera giustamente definita come un disturbante testimone delle donne senza voce che sono state vittime di femminicidio e al tempo stesso un inno alla resistenza.
L'immagine scelta per illustrare il frontespizio dell'opera, un gruppo di donne vestite all'occidentale ma ugualmente interamente velate come se indossassero un burqa, rappresenta plasticamente l'obiettivo di dar voce e di togliere il velo a un problema per troppo tempo visto come una questione “privata”.
Lo studio ha avuto in primo luogo l'obiettivo, raggiunto, di evidenziare che il termine femminicidio - già utilizzato nel XVI secolo in ambito anglosassone per definire genericamente azioni particolarmente violente sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico effettuate da un individuo di genere maschile nei confronti di una donna - non sta ad indicare genericamente l’assassinio di qualunque persona di genere femminile bensì l'uccisione di una ben specifica donna da parte di un uomo per motivi di piacere, odio, disprezzo e soprattutto senso di possesso.
Grazie a questo studio, dunque, il termine femminicidio può ritenersi oggi riferito a un ben preciso sottoinsieme all'interno della totalità dei casi di omicidio che hanno come vittima una persona di genere femminile, in quanto definisce un tipo di crimine che si caratterizza non solo per il genere femminile della vittima ma anche e soprattutto per i motivi psicologici individuali o sociali nonché emotivi e culturali che ne sono alla base.
Da questo punto di vista la scelta anche normativa di dare un nome specifico ed una disciplina ad hoc a questo tipo di fenomeno è significante di un cammino in corso, che non tocca solo l'aspetto punitivo ma più in generale quello socio-culturale, nonostante le infinite resistenze che ancora si possono riscontrare in campo sia giuridico che sociale e politico, in particolare nelle “moderne” destre estreme, particolarmente arretrate culturalmente nella visione della figura femminile e tuttora arroccate sul concetto dell'egemonia maschile e del ruolo ancillare delle donne ,di cui propongono un modello che ancora costituisce un ostacolo all’inquadramento e al superamento della violenza di genere, in tutte le sue forme.
Tornando allo studio di Redford e Russell, i più importanti punti di arrivo nell'opera, che, benché, come detto, sia datato manifesta ancora la sua modernità, sono l’aver portato alla luce con chiarezza la violenza domestica e le sue radici e aver analizzato la connessione tra il femminicidio - e ancor prima ogni forma di violenza, compresa quella domestica- e le motivazioni misogine che lo supportano.
Ancora una volta le autrici utilizzano un’immagine, quella della marcia femminista Take Back the Night, svoltasi a Cambridge (Massachusetts) nel 1980 , il cui logo è No Woman is safe on the Street or in her home, per evidenziare che anche la casa può essere un luogo di degrado, di violenza e anche di morte.
In particolare nell’opera si segnala che la sexual violence – intesa come violenza generata dal sesso della vittima e non necessariamente connesso a una violenza sessuale nel senso giuridico-legale- è rappresentativa di una forma di controllo finalizzata al mantenimento del patriarcato e che le motivazioni misogine dei femminicidi sono spesso ignorate dai media e dagli stessi attori legali che leggono il fenomeno o rimproverando la donna per suoi comportamenti (quella che le autrici chiamano la trivializzazione del femminicidio, sì che la vittima diventa “causa” della violenza perpetrata contro di lei) o negando l'umanità e la “normalità” dell’uccisore, spesso descritto come una bestia, un animale in senso dispregiativo, in modo tale da relegare il femminicidio all'atto scomposto, occasionale e anomalo di una persona non normale.
Quanto al primo aspetto la lunga storia della colpevolizzazione sociale della donna che denuncia o che si sottrae a un rapporto violento e non più gradito e quella della vittimizzazione secondaria per lungo tempo agita anche negli atti processuali, ci raccontano che ciò che accadeva negli anni ‘80 non ha smesso di accadere oggi.
Quanto al secondo, il punto di arrivo degli studi psicanalitici e di psicologia sociale e criminologica sembra essere nel senso che la prevalente scienza medica ha rifuggito la tentazione di patologizzare la violenza, rappresentando chiaramente che la questione psichiatrica rischia di distrarre dalle radici reali del problema.
Ciò in quanto la patologizzazione della violenza di genere porta a giustificare un fenomeno che non è soltanto un'esperienza che ha significati e cause nelle dinamiche intrapsichiche del maltrattante ma è il risultato logico di relazioni sociali fondate su rigide dinamiche di potere e disuguaglianza giustificate da consuetudini culturali, tradizionali, religiose, economiche e politiche che creano quella irrinunciabile illusione di sicurezza su cui taluni fondano il proprio equilibrio[2], giungendo a dire che le condizioni psichiatriche possono sì avere un ruolo ma non come causa scatenante bensì come fattore che slatentizza l'emergere della violenza di genere e che comunque anche se la violenza di genere è stata commessa da una persona che ha una qualche diagnosi di disturbo mentale la forma della violenza agita rispetta quasi sempre gli stereotipi del sistema sessista della cultura patriarcale.
Non può essere valida, quindi, l’obiezione critica alle analisi di Redford e Russell secondo cui quest'opera, pubblicata nel 1992, si avvale di indagini e di valutazioni effettuate su una realtà lontana dai nostri tempi, sicché quelle considerazioni non sono utilizzabili per la lettura di fenomeni che si svolgono nel mondo attuale. Infatti, per condividere quest'opinione, sarebbe necessario poter affermare che oggi il patriarcato non esiste più, che tutte le istanze maschiliste che volevano la donna rinchiusa nelle pareti domestiche ad occuparsi esclusivamente della cura del marito, dei figli e degli anziani sono state ampiamente superate, che la nuova libertà che connota la vita e le scelte delle donne oggi le ha completamente affrancate dal controllo dei loro compagni e che, infine, le donne sono libere di scegliere il loro destino allontanandosi dai loro compagni allorché ne percepiscano comportamenti limitanti e violenti.
I dati statistici allarmanti sui femminicidi, l'aumento esponenziale delle denunce di violenza domestica e di aggressione sessuale, i dati parimenti allarmanti del Revenge porn e dell'uso strumentale del web a fini di violenza ci dicono che malauguratamente le cose non stanno così.
E anzi, il fenomeno della Manosphere -la galassia virtuale di spazi in cui si esaltano la supremazia della maschilità e la subordinazione delle donne – e quello dei gruppi on line, sempre più diffusi in rete, che frequentano echo chambers che condividono linguaggi violenti e discorsi di odio contro le donne, ci segnalano un trend negativo che non può che preoccupare, anche perché raccoglie soprattutto uomini giovani o comunque non più figli, almeno per ragioni di età, della cultura patriarcale.
In un recente studio pubblicato sull'International Journal of Gender Studies[3] il fenomeno è stato analizzato in generale, anche sulla base di studi inglesi[4] e italiani[5] sia con specifico riferimento a due di questi siti, InCel (Involontariamente Celibe) e Red Pill (la pillola rosa del risveglio di Matrix).
Tutti i gruppi hanno caratteristiche comuni, utilizzano toni aggressivi e violenti, esaltano la supremazia della maschilità e la subordinazione delle donne e criticano le loro conquiste, che vengono presentate come motivo di erosione dei diritti degli uomini. Insomma, e in breve, ripropongono una mistica della mascolinità attaccando il femminismo e ritenendo le donne colpevoli delle crisi economiche politiche e sociali delle società contemporanee.
Posizioni condivise anche da parte di certe destre o neo-destre, anche quelle italiane che le condividono con le altre europee, con affermazioni che attribuiscono alle conquiste delle donne nel campo del lavoro e più in generale all’emancipazione femminile nel nostro Paese la riduzione dei posti di lavoro per gli uomini, la disgregazione del tessuto sociale e non ultimo il problema della crisi della natalità.
Non a caso nei discorsi di queste organizzazioni le citazioni e le interlocuzioni positive con il femminile riguardano prevalentemente le madri, segno di una postura culturale che ancora non vuole sganciare la figura della donna dalla sua funzione riproduttiva e di cura della famiglia e della prole, non riuscendo ad accettare, in linea con visioni che si sperava essere state sorpassate, anche alla luce del dettato costituzionale, che la libertà e l'autonomia delle donne possono camminare di pari passo con la libera scelta della maternità.
E del resto che il problema esista e che esistano ancora tanti cattivi maestri è testimoniato da un recente studio del Censis[6] che evidenzia che, a fronte del 70 % circa degli italiani che è convinto che la violenza sulle donne sia un problema reale della nostra società e che rileva che effettivamente in Italia sia ancora presente una forte disparità tra uomini e donne, la restante percentuale ritiene che si tratti di un problema che riguarda soltanto una piccola minoranza emarginata dal punto di vista economico e sociale e che comunque si tratti di casi isolati cui viene data una eccessiva attenzione mediatica.
3. Le cause della violenza: studi psicologici sulle cause del femminicidio e dei reati spia e riscontri fattuali
Non c'è dubbio che le cause psicologiche alla base di un femminicidio e dei reati siano particolarmente complesse e si intreccino a fattori di carattere culturale e sociale, oltre che a specifiche cause individuali, sì che riuscire ad analizzarle potrebbe fornire un apporto importante per fronteggiare un fenomeno che, come mostrano le statistiche, in Italia e altrove, non accenna a diminuire
Non è indifferente dunque provare a identificare il profilo psicologico dell'uomo che commette un femminicidio o comunque atti di violenza grave contro le donne, ancora una volta utilizzando uno studio molto datato[7] che, nonostante il tempo trascorso, fornisce spunti di riflessione ed elementi di riscontro rispetto alla realtà attuale.
Lo studio individua varie tipologie di uomini violenti, che descrive partendo da colui che teme la perdita della propria autorità e del proprio dominio e che pertanto esige il totale controllo sugli altri membri della famiglia sui loro movimenti e su qualunque loro azione; segue colui che è incapace di concepire l'autonomia altrui, che vede come una minaccia di possibile abbandono, ragione per cui sviluppa una forma di dipendenza nei confronti delle donne a cui si lega non potendo accettare un'eventuale rifiuto o un allontanamento della donna dal rapporto; e ancora colui che ha bisogno di un continuo rinforzo di autostima dall'esterno e che si abbandona a reazioni rabbiose in caso di critica per il suo comportamento, anche ove questo consista in abusi di sostanze; ed infine colui che cerca un rapporto fusionale con la sua compagna agendo con una violenza proporzionata al timore di perdere l'oggetto del suo affetto.
Quasi sempre, rileva l'autrice, il quadro psicologico dell'uomo che maltratta include quindi un desiderio ossessivo di controllo nelle relazioni, desiderio che spesso si manifesta attraverso un'eccessiva gelosia e alla necessità di dominare la propria compagna, reagendo con comportamenti violenti, con l’insulto, la denigrazione continua, le offese, la limitazione della libertà fino alle percosse e la morte, quando si sente minacciato dalla perdita di controllo, quindi utilizzando la punizione come mezzo per ristabilire il proprio dominio.
La descrizione di queste tipologie trova ancora oggi pieno riscontro negli atti processuali dei reati di violenza di genere dove effettivamente le denunce delle vittime e le stesse dichiarazioni degli autori del reato raccontano e documentano la mania del controllo ossessivo, la gelosia altrettanto ossessiva utilizzata come strumento di legittimazione della propria condotta violenta, la vittimologia applicata a se stessi al fine di rinviare alla condotta della controparte la responsabilità della propria, quando agita sotto l'effetto di droghe o di alcol; ed infine la frustrazione per la propria inadeguatezza di fronte a un rapporto in cui la vittima gli si rappresenta come superiore o comunque portatrice di una istanza di autonomia che gli risulta inaccettabile.
Si può dire che ogni processo per violenza di genere contenga uno, molto spesso più d’uno, talora persino tutti, questi sintomi i quali evidenziano nelle condotte agite, fattori di rischio il cui minimo comune denominatore è una mascolinità tossica, termine con cui si indica l'insieme di credenze culturali che porta a considerare la donna come un oggetto privo di identità e di autonomia e soprattutto privo del diritto di essere considerato un essere umano con tutti i diritti che ne conseguono poiché vista esclusivamente in un'ottica di stereotipia di genere.
Le cause, ricercate proprio attraverso le costanti che ricorrono negli episodi di femminicidio e di violenza , possono essere trovate talora nella scolarizzazione di basso livello, o anche nella violenza subita o nelle violenze domestiche cui l’agente ha assistito da bambino, nell’abuso di alcol e di droghe. Ma soprattutto nell’accettazione, come fatto culturale, della legittimità della violenza e del ricorso ad essa per disciplinare i rapporti sentimentali: e quindi, nel sistema patriarcale, che ancora impronta di sé la società.
4.Patriarcato, maschilismo e i giovani: un problema non sempre connesso all’età
Il termine patriarcato è stato usato per la prima volta nel diciannovesimo secolo dagli antropologi per definire il modello familiare verticale dove la figura del pater familias aveva un ruolo assolutamente preponderante.
La definizione di cultura patriarcale, però, si è allargata nel corso della storia e non identifica più un modello di società familiare ma un modello culturale, un dogma sociale e un format comportamentale.
È questo tipo di cultura ad aver prodotto quegli atteggiamenti maschilisti e fondamentalmente misogini che mirano a suggerire una supremazia dell'uomo nei confronti della donna, sì che può dirsi che la cultura patriarcale sia quindi un insieme storico-politico che ha prodotto la mentalità maschilista caratterizzata da atteggiamenti misogini.
È per questo che può dirsi che oggi il patriarcato non attinge soltanto colui che è vissuto in un mondo che conosceva, coltivava e accettava quel modello come l'unico possibile e quindi quasi “naturalmente” relegava le donne in precisi ambiti e le escludeva categoricamente da alti, consentiti soltanto agli uomini: insomma il mondo dei nostri nonni e in parte anche dei nostri padri.
Se così fosse dovrebbe essere escluso a priori che reati di genere possano essere commessi da giovani cresciuti in una realtà in cui questo non è più il modello vigente, visto che oggi le donne possono scegliere di laurearsi, di fare i medici al Pronto Soccorso, di guidare TIR con rimorchio e taxi di notte, di giocare a pallone e di fare l'astronauta.
E tuttavia è da chiedersi perché in un mondo in cui il delitto d'onore non esiste più da tempo, anche se non da tanto tempo, la dichiarata gelosia quale forma di amore continua a mietere vittime e continua paradossalmente a essere una causa psicologica di autoassoluzione o almeno di giustificazione in punto di difesa rispetto a una serie di violenze contro le donne, psicologiche e fisiche fino ad arrivare all'estremo dell'uccisione.
La risposta non può che essere che il patriarcato, che si nutre di maschilismo, non è stato sradicato e ancora esiste in tutte le fasce sociali e in tutte le età come forma culturale tuttora esistente, talora in forma strisciante e quasi occulta, talora in forma manifesta che ancora permea la realtà di molti paesi cosiddetti civilizzati tra i quali il nostro.
5. I dati: l’importanza dello studio statistico per uscire dalla invisibilità
Che il problema della violenza di genere sia reale lo confermano anche i dati sulla delittuosità a essa connesse anche se non è facile comporre tutti i pezzi di un puzzle complesso dove il sommerso e la mancata denuncia hanno ancora oggi un peso determinante.
Alcuni dei dati tratti dalle statistiche sui reati di genere, seppur non completi e riferiti ad anni diversi, possono però contribuire a delineare le caratteristiche dei reati di cui sono vittime le donne.
In primo luogo le statistiche rivelano che le donne costituiscono la maggior parte delle vittime di tutti i reati a sfondo sessuale, che nella maggior parte dei casi si configurano come veri e propri reati di genere: violenze sessuali, pornografia infantile, corruzione di minori, atti sessuali con minori, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e stalking.
Nel Rendiconto di Genere 2024 pubblicato nel marzo 2025 dal CIV (Consiglio di indirizzo e vigilanza dell'Inps) si analizzano, per il 2021, 2022, 2023, attraverso un'analisi sia di tipo sia quantitativo che qualitativo la condizione delle donne in Italia nei diversi contesti economici e sociali e tra questi anche la violenza di genere precisando che quest'ultima fa riferimento all'insieme degli atteggiamenti e dei comportamenti discriminatori prevaricatori o lesivi, di tipo fisico, psicologico, sessuale ed economico nei confronti delle donne.
Lo studio precisa di aver preso in considerazione diversi indicatori statistici tra cui soprattutto i cosiddetti reati spia (in particolare maltrattamenti in famiglia e violenze sessuali) che si configurano come dei veri e propri segnali di allarme da monitorare per individuare situazioni di rischio e intervenire in modo tempestivo.
I dati, tratti da quelli forniti dal Ministero dell'Interno- Direzione Centrale della polizia criminale- evidenziano che complessivamente, dal 2023 al 2024, si è registrato un aumento di tali reati; e infatti in entrambi gli anni la maggioranza delle vittime è di sesso femminile. Precisamente, delle 24.154 vittime nel primo semestre del 2023, più di 19.000 sono donne e delle 26.684 vittime nel primo semestre del 2024 più di 21.000 sono donne.
L’analisi rivela altresì nello specifico che l'incidenza delle vittime di genere femminile nel periodo temporale analizzato è del 74% per gli atti persecutori, dell'81% per i maltrattamenti contro familiari e conviventi e del 91% per le violenze sessuali.
Per quanto riguarda invece gli omicidi volontari l'analisi evidenzia l’elevata correlazione tra contesti relazionali stabili e violenza di genere: infatti nonostante ci sia stata in Italia una lieve diminuzione complessiva dal 2022 al 2023, rimane elevata la percentuale di vittime di genere femminile, soprattutto in ambito familiare e affettivo dove si registra il 72% nel 2022 e il 65% nel 2023 di cui ben il 91% nel 2022 e l’87% nel 2023 posti in essere da partner o ex partner.
6. I rimedi, quelli attuali e quelli immaginabili per il futuro. L’obiettivo culturale
Sicuramente la normativa vigente in Italia ha fatto passi da gigante rispetto a una legislazione che contemplava il delitto d'onore e il matrimonio riparatore, solo per citare gli istituti più eclatanti, sintomi evidenti di una società che collocava uomini e donne su piani completamente diversi sancendo per tabulas il predominio assoluto degli uni rispetto alle altre.
I reati di genere, di cui le donne troppo frequentemente sono state vittima fino al caso estremo del femminicidio e che rappresentano l'aspetto più drammatico e preoccupante della discriminazione di genere, sono finalmente usciti dalle mura domestiche dove erano stati per anni reati sommersi e nascosti.
Finalmente di violenza di genere si parla e sulla violenza di genere si interviene attraverso iniziative di prevenzione e di sensibilizzazione con una rete di servizi di assistenza e supporto alle vittime soprattutto attraverso il sistema normativo.
Da ultimo, la legge 69 del 2019 rappresenta un punto di arrivo non soltanto per l’aspetto punitivo ma anche educativo.
Come noto la legge, oltre a inasprire le pene nei confronti di reati già esistenti, a introdurre nuove circostanze aggravanti e a introdurre una corsia preferenziale per accelerare i procedimenti penali relativi ai reati di genere e rendere più rapida l'adozione di eventuali provvedimenti di tutela, ha introdotto nuovi reati tra cui il Revenge porn ovvero la diffusione non consentita di immagini o video sessualmente espliciti, la deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti viso, il matrimonio forzato e la violazione del provvedimento di allontanamento da casa ovvero di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Ma ha anche introdotto sistemi che vanno oltre il processo e che si occupano dell’autore della violenza al di là e oltre l’applicazione di una sanzione.
Tra queste la previsione della obbligatoria subordinazione della sospensione della pena a seguire percorsi rieducativi presso enti o associazioni a ciò deputate per uomini maltrattanti, la cui responsabilità sia stata accertata in sentenza.
Lo strumento è importante ed esprime bene il concetto dell’acquisizione necessaria di strumenti di comprensione su quanto agito in chi ha dimostrato di non averne.
Anche se va supportato adeguatamente con strutture idonee e gratuite che consentano a tutti i condannati di accedervi e di accedervi immediatamente affinché la previsione non resti sulla carta o crei discriminazioni tra chi può aderire con mezzi propri e chi non può farlo, questa previsione rappresenta la prova che anche per questi reati, forse più che per altri, la funzione rieducativa e dunque il dato culturale è fondamentale.
Altri strumenti si pongono fuori dal campo del reato e prima dell’avvio della macchina processuale: tra questi, oltre ai call center del numero verde di pubblica utilità, attivo 24 ore su 24 e con servizio di ascolto multilingue, di importanza strategica fondamentale la possibilità per le donne di avere aiuto usufruendo di un sistema di tutela e di supporto di cui fanno parte operatori pubblici e del privato sociale e che fa capo ai centri antiviolenza attivi su tutto il territorio.
Non da sottovalutare, ma certamente da implementare, la previsione del Fondo per il Reddito di Libertà per le donne vittime di violenza, contributo economico mensile erogato dall'Inps a donne seguite dai Centri Antiviolenza riconosciuti dalle Regioni e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza: misura introdotta nel nostro ordinamento nel 2020, che, anche se limitata in relazione alle effettive disponibilità del Fondo e al gran numero di donne che vi hanno fatto ricorso, è senz’altro un sostegno utile a favorire l'indipendenza economica e quindi l'autonomia personale e abitativa di donne vittime di violenza, cui sono state costrette a soggiacere a causa della mancanza di disponibilità economica e quindi in ragione della loro condizione di particolare fragilità e povertà.
Quanto al futuro, oltre a perseguire e implementare tutte le misure esistenti che possano arginare e possibilmente estinguere i reati di violenza di genere, la misura realmente più adeguata, meglio dire essenziale e imprescindibile, è quella di programmare a tutti i livelli un piano culturale che cominci fin dalle scuole primarie.
I Dipartimenti di studi sulla violenza di genere costituiti presso molte università sono un passo importante ma non sufficiente. Chi approda a tali corsi di studio già manifesta una sensibilità verso il problema, una consapevolezza e una scelta culturale che certo può contribuire a migliorare la percezione nel sociale ma che non basta.
Occorre agire nelle scuole, superando il pregiudizio che vede nei bambini e nei ragazzi degli esseri che vanno protetti rispetto a problematiche quali quella della violenza di genere. I bambini e i ragazzi informati adeguatamente oggi saranno donne e soprattutto uomini del domani consapevoli e rispettosi dei diritti umani tra i quali sicuramente si colloca quello delle pari opportunità tra uomo e donna e del rifiuto di ogni forma di discriminazione e di violenza.
Così facendo si darà una bella eredità a quei tanti, tantissimi uomini che già oggi rifuggono da una visione maschilo-centrica della società e su cui bisogna confidare affinché essa sia definitivamente superata.
[1] Liz Kelly, Surviving Sexual Violence, Ed Policy production, 1988.
[2] Massimo Sandal : Il femminicidio ha radici psichiatriche? Riflessioni di Mauro Masini- Associazione Confini –Uomini Maltrattanti.
[3] Annalisa Dordoni e Sveva Magaraggia 2021 Università Bicocca Milano.
[4] Banet – Weiser 2019.
[5] Vingelli 2019, Farci e Righetti 2019.
[6] WEB BOOK 2025- Studi Sociali e Cittadinanza.
[7] Theoretical consideration of violent marriage - Margareth Elbow 1977.
Immagine: “Take Back the Night photograph,” 1980s. Duke University Archives via Flickr.
Sommario: 1. Il caso Italgomme Pneumatici Srl c. Italia: la normativa nazionale su accessi, ispezioni e verifiche alla prova dell’art. 8 CEDU in materia di diritti fondamentali di libertà - 2. La posizione della Corte di Cassazione con riguardo ad accessi, ispezioni e verifiche - 3. L’esigenza di limitare la discrezionalità dei verificatori fiscali nella giurisprudenza della Corte EDU - 4. Gli insufficienti rimedi processuali a disposizione del contribuente destinatario di accessi e ispezioni illegittimi - 5. Gli obblighi conformativi per lo Stato italiano derivanti dalla sentenza - 6. L’inadeguata iniziativa parlamentare in itinere.
1. Il caso Italgomme Pneumatici Srl c. Italia: la normativa interna su accessi, ispezioni e verifiche alla prova dell’art. 8 CEDU in materia di diritti fondamentali di libertà
Nel recente caso Italgomme Pneumatici Srl v. Italia, del 6 febbraio 2025, n. 36617/18 ([1]), la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi del quadro giuridico nazionale italiano in materia accessi, ispezioni e verifiche presso la sede del contribuente, onde stabilire se lo stesso sia o meno compatibile con le tutele previste dall’art. 8 della CEDU quando viene in gioco il rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza.
La Corte di Strasburgo era stata adita per una asserita violazione dell’art. 8 CEDU, in quanto le disposizioni interne sugli accessi, ispezioni e verifiche nei locali a destinazione commerciale e professionale non sarebbero in grado, anche alla luce dell’interpretazione che ne fornisce la giurisprudenza nazionale, di delimitare sufficientemente il potere discrezionale dell’autorità fiscale.
Si osservi che secondo i giudici di Strasburgo e sulla scia di una costante giurisprudenza, nel valutare la “conformità alla legge” dei poteri di indagine fiscale attribuiti all’Amministrazione finanziaria per accedere nei locali adibiti ad attività commerciali o professionali del contribuente, occorre tener conto di come la legge medesima viene applicata e interpretata dalle autorità nazionali, e in particolare dai giudici nazionali. Ciò al fine di evitare che i poteri istruttori attribuiti all’autorità fiscale, indispensabili per stabilire la veridicità delle dichiarazioni presentate dai contribuenti, assumano una estensione illimitata: è dunque necessario, affinché risulti rispettato il diritto del privato, sancito dall’art. 8 CEDU, di non subire indebite ingerenze, che la “discrezionalità” concessa agli organi di controllo non sia a sua volta illimitata.
La Corte, chiamata a esaminare il regime delle autorizzazioni necessarie per accedere in locali adibiti ad attività commerciali e professionali, ha accertato una violazione di carattere sistemico, condannando l’Italia al risarcimento del danno patito dai ricorrenti. Di tale situazione, come subito vedremo, sono responsabili non solo la normativa nazionale e la prassi dell’Amministrazione finanziaria, ma altresì gli indirizzi della giurisprudenza nazionale.
2. La posizione della Corte di Cassazione con riguardo ad accessi, ispezioni e verifiche
Per giustificare una tale affermazione si può ad esempio ricordare la posizione assunta con riguardo all’autorizzazione amministrativa all’accesso richiesta dall’art. 52 del D.p.r. n. 633 del 1972, che per la Cassazione rappresenta un “mero adempimento procedimentale, per l’opportunità che la perquisizione trovi l’avallo di autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata”, definendola anche “un semplice nulla-osta da parte di un organo superiore” ([2]).
Inoltre, nonostante il fatto che il citato art. 52 prescriva che l’autorizzazione indichi lo “scopo” dell’accesso e che l’art. 12, comma 2, L. n. 212 del 2000, preveda che il contribuente venga subito informato delle ragioni che hanno giustificato la verifica e dell’oggetto che la riguarda, i giudici di legittimità ritengono che i motivi dell’autorizzazione non abbiano il fine di circoscrivere l’ambito delle prove da raccogliere, giacché i verificatori potrebbero acquisire anche elementi idonei a dimostrare altre violazioni, ad esempio relative ad annualità diverse da quelle per cui l’autorizzazione è stata rilasciata ([3]).
È evidente che, in questo modo, la motivazione dell’autorizzazione all’accesso si trasforma in una questione di mero stile, non suscettibile di circoscrivere in concreto i poteri dell’autorità fiscale procedente né di consentire al privato di conoscere preventivamente l’ambito su cui si svolgerà la verifica. Certo, potrebbe sembrare eccessivo precludere l’acquisizione di prove dell’evasione solo perché estranee all’ambito per cui è stata concessa l’autorizzazione, ma una soluzione più equilibrata potrebbe essere quella di imporre ai verificatori di richiedere, qualora nel corso dell’ispezione emergano indizi di violazioni relative a circostanze estranee all’ordine di servizio, un’ulteriore apposita autorizzazione.
In base alla lettura della Corte di Cassazione, invece, la posizione del contribuente non rileverebbe in alcun modo, nonostante la necessità che l’accesso risponda ad effettive esigenze di indagine sul luogo sia non solo presidio di efficienza amministrativa ma anche funzionale a garantire al contribuente il diritto di subire la minor compressione possibile delle sue sfere di libertà, compatibilmente con le legittime esigenze dell’indagine fiscale ([4]).
La giurisprudenza di legittimità si è fin qui dimostrata poco sensibile con riguardo alle sfere di libertà del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, svalutando quelle disposizioni legislative che limitano i poteri di indagine dell’autorità fiscale ([5]). La Corte di Cassazione sembra in effetti attribuire all’interesse erariale una posizione sovraordinata, forse ritenendo che il fine del contrasto all’evasione giustifichi ogni mezzo di indagine, e che il rischio di un uso sproporzionato ed eccessivo dei poteri istruttori non rappresenti un reale problema di cui farsi carico.
Nel solco evidenziato, e con riguardo agli accessi operati dalla Guardia di finanza, la Cassazione ritiene così che l’autorizzazione amministrativa del comandante di zona non sia nemmeno necessaria, e ciò sulla base di un’interpretazione strettamente testuale dell’art. 35 L. n. 4 del 1929 ([6]). Il citato art. 35 deve tuttavia essere integrato con quanto prevede la legislazione successiva, non solo per quanto riguarda la necessaria autorizzazione del superiore gerarchico ma anche in relazione alle modalità di esecuzione dell’accesso. In effetti, se l’art. 35 stabilisce che gli agenti della Guardia di finanza sono autorizzati ad accedere “in qualsiasi momento” nei locali adibiti ad attività commerciali, l’art. 12 comma 1 dello Statuto prescrive invece che gli accessi e le ispezioni siano svolti durante l’orario ordinario di esercizio delle attività. Appare del resto poco ragionevole ritenere che il potere di accesso, ispezione e verifica venga regolato diversamente a seconda che a eseguirlo siano gli impiegati dell’amministrazione civile o i militari della Guardia di finanza. La legge attribuisce alla Guardia di finanza i poteri e le facoltà previsti agli artt. 51 e 52 del D.p.r. n. 633 del 1972 ([7]), ma non certo poteri più penetranti di quelli attribuiti agli Uffici finanziari.
3. L’esigenza di limitare la discrezionalità dei verificatori fiscali nella giurisprudenza della Corte EDU
Orbene, la Corte EDU ha emesso il proprio giudizio proprio tenendo conto degli arresti della giurisprudenza nazionale: secondo la Corte, infatti, le linee guida emanate dall’Amministrazione finanziaria italiana, in cui si prescrive che i contribuenti da assoggettare a controllo vengano selezionati sulla base di analisi del rischio ([8]), non garantiscono a sufficienza dall’eventualità che gli agenti fiscali esercitino un potere discrezionale illimitato dietro all’apparente rispetto dei criteri-guida; soprattutto, “alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione, il rispetto di tali criteri non è una condizione per la legittimità dell’autorizzazione di tali misure, in quanto non è richiesta alcuna motivazione. Ne consegue che le disposizioni nazionali pertinenti non imponevano alle autorità di giustificare l’esercizio dei loro poteri e consentivano quindi loro di esercitare un potere discrezionale illimitato” (§. 113).
A ciò si può aggiungere che la motivazione che solitamente si rinviene nelle autorizzazioni amministrative all’accesso presso la sede dell’impresa o del professionista raramente consente al destinatario di comprendere le ragioni per cui è stata ritenuta necessaria un’indagine on-site e non invece l’esercizio di poteri istruttori “a tavolino”: la motivazione, spesso, consente al più di conoscere il motivo per cui il destinatario della verifica è stato selezionato per un controllo, ma non perché si è deciso di attivare proprio il potere di accesso e non altri mezzi istruttori meno invasivi (come invece prescrive l’art. 12 comma 1 dello Statuto, richiamando l’esigenza che l’accesso risponda ad effettive esigenze di indagine sul luogo).
L’autorizzazione, poi, nel delimitare l’oggetto del controllo dovrebbe circoscrivere la tipologia di documenti ed elementi probatori acquisibili. Si tratta naturalmente di un’indicazione di larga massima, non potendosi pretendere che l’Ufficio abbia piena contezza di quanto troverà nei locali del contribuente; tuttavia, il materiale da acquisire dev’essere pertinente all’oggetto della verifica e astrattamente coerente con le ragioni per cui è stata concessa l’autorizzazione. Il problema si pone in particolare nei casi di verifica generale, laddove, con riferimento alle annualità coperte dall'autorizzazione, i verificatori – in base all’art. 52, comma 4, D.p.r. n. 633 del 1972 - non incontrano limiti quanto alla documentazione suscettibile di ispezione.
La Corte EDU ha perciò ritenuto che il quadro giuridico nazionale sia tale da consentire accessi dal carattere meramente “esplorativo”, in contrasto con l’esigenza di delimitare la discrezionalità attribuita agli agenti dell’Amministrazione finanziaria. Secondo la Corte, infatti, “alle autorità nazionali non è stato chiesto di indicare ciò che si aspettavano di trovare in relazione agli anni oggetto dell’audit, né vi è stata alcuna indicazione che l’accesso indiscriminato dovesse essere evitato. Inoltre… non era prevista la possibilità di rimuovere o dichiarare altrimenti inammissibili i documenti e gli elementi non connessi all’oggetto delle misure impugnate… In tale contesto, la Corte non è convinta che il quadro giuridico interno abbia fornito garanzie adeguate ed efficaci contro l’Autorità fiscale e la Guardia di Finanza che esercitano un potere discrezionale illimitato, in quanto in relazione all’accesso e alle ispezioni, il loro potere di valutare l’adeguatezza, il numero, la durata e la portata di tali operazioni e delle informazioni richieste ai contribuenti e poi copiate e sequestrate non era regolamentato. In tale contesto, la Corte ritiene che le condizioni previste dalla legge appaiano troppo permissive per delimitare in modo sufficiente un siffatto potere discrezionale” (§§. 119, 120) ([9]).
4. Gli insufficienti rimedi processuali a disposizione del contribuente destinatario di accessi e ispezioni illegittimi
La Corte si è poi soffermata sulla questione dei rimedi processuali atti a proteggere i contribuenti italiani dal rischio di abusi o verifiche fiscali arbitrarie, rilevando anche sotto tale profilo un deficit nella normativa italiana. È noto infatti che non sussiste, nell’ambito della giurisdizione tributaria, una tutela immediata nei confronti degli atti istruttori illegittimi. Questi possono essere contestati soltanto unitamente all’eventuale avviso di accertamento, onde ottenerne l’annullamento laddove esso si fondi esclusivamente su prove raccolte illegittimamente e perciò inutilizzabili. Secondo la Corte EDU, tuttavia, questo non costituisce una garanzia sufficiente, sia perché la tutela viene a dipendere dall’effettiva emissione di un avviso di accertamento basato proprio sulle prove raccolte in modo illegittimo, sia perché - alla luce della giurisprudenza interna – l’autorizzazione ad accedere in locali ad uso commerciale non condiziona la legittimità dell’accesso né circoscrive l’ambito degli elementi di prova acquisibili. Inoltre, rileva sempre la Corte, atteso che un avviso di accertamento potrebbe essere emesso dopo alcuni anni dalla presentazione della dichiarazione, il rimedio giurisdizionale non potrebbe essere considerato sufficientemente tempestivo.
Si può a ciò aggiungere che la possibilità di ottenere un annullamento dell’avviso di accertamento per l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite non sarebbe comunque idonea a tutelare i diritti, sottesi dall’art. 8 CEDU, di inviolabilità del domicilio e della corrispondenza rispetto al rischio di indebite ingerenze dell’autorità pubblica. L’annullamento dell’avviso di accertamento opera, infatti, sul piano delle tutele “patrimoniali”, ma non è in grado di porre rimedio ai pregiudizi prodotti da un accesso indiscriminato e da un’ispezione condotta dall’autorità fiscale con modalità altamente discrezionali ([10]).
Quanto alla possibilità di ricorrere al giudice civile per far cessare gli effetti pregiudizievoli di un’ispezione illegittima, è noto che questa, secondo le Sezioni unite della Cassazione ([11]), risulta percorribile soltanto laddove l’istruttoria non sia sfociata in un avviso di accertamento, oppure quando esso non sia stato impugnato davanti al giudice tributario. Si tratta dunque di un rimedio giurisdizionale soltanto eventuale, dall’incerta accessibilità. La Corte EDU ha inoltre rilevato la dubbia efficacia di tale rimedio, atteso che gli unici esempi giurisprudenziali disponibili riguardano ipotesi di autorizzazioni del pubblico ministero ad accedere in residenze private e non in locali ad uso commerciale, e che non si vede come i giudici civili potrebbero esercitare un controllo significativo sul contenuto dell’autorizzazione prodromica agli accessi, ispezioni e verifiche in locali ad uso commerciale o professionale.
Ne deriva che, secondo la Corte EDU, il contesto giuridico interno è tale da conferire all’autorità fiscale italiana un “margine di discrezionalità illimitato” nell’esecuzione di accessi ed ispezioni nei confronti di imprese, società e professionisti, senza al contempo fornire garanzie giurisdizionali sufficienti, con conseguente violazione dell’art. 8 della CEDU (§. 139).
5. Gli obblighi conformativi per lo Stato italiano derivanti dalla sentenza
Nel caso Italgomme Pneumatici Srl c. Italia la Corte ha applicato l’art. 46 CEDU, in base al quale gli Stati contraenti sono tenuti a rispettare le sentenze definitive che li riguardano.
Nello specifico, la Corte ha ritenuto che le carenze rinvenute nella normativa italiana siano tali da originare ulteriori ricorsi giustificati, e che la violazione dell’art. 8 abbia carattere sistemico, dipendendo dalla conformazione del diritto interno e dall’interpretazione fornita dai giudici nazionali. Su tali premesse, i giudici di Strasburgo ritengono che lo Stato italiano debba adottare le misure generali idonee ad allineare la sua legislazione e prassi alle conclusioni della Corte, e in particolare attuare i principi generali delineati nello Statuto del contribuente (artt. 12 e 13) mediante norme specifiche, sottolineando altresì che la giurisprudenza nazionale dovrebbe a sua volta allinearsi a tali principi e a quelli stabiliti dalla Corte.
In particolare, secondo i giudici di Strasburgo il quadro giuridico interno, se necessario mediante pertinenti indicazioni di prassi amministrativa, “dovrebbe indicare chiaramente le circostanze e le condizioni in cui le autorità nazionali sono autorizzate ad accedere ai locali e a effettuare verifiche in loco e controlli fiscali sui locali commerciali e sui locali adibiti ad attività professionali”. Esso dovrebbe altresì “imporre alle autorità nazionali l’obbligo di fornire una motivazione e di giustificare di conseguenza la misura in questione alla luce di tali criteri”. Inoltre, “dovrebbero essere stabilite garanzie per evitare l’accesso indiscriminato o almeno la conservazione e l’uso di documenti e oggetti non connessi con l’obiettivo della misura in questione…”. Infine, il contribuente, “al più tardi al momento dell’avvio della verifica, deve avere il diritto di essere informato dei motivi che giustificano la verifica e della sua portata, del suo diritto di essere assistito da un professionista e delle conseguenze del rifiuto di autorizzare la verifica” (§. 148).
Ora, sotto alcuni degli aspetti evidenziati l’ordinamento tributario italiano sembra già allineato alle indicazioni della Corte. L’accesso nei locali del contribuente deve avvenire sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo (art. 12 comma 1 dello Statuto), che devono risultare dall’autorizzazione del capo dell’ufficio, la quale deve indicare lo scopo dell'accesso (art. 52 comma 1 D.p.r. n. 633 del 1972). Anche il diritto del contribuente di essere informato dei motivi che giustificano la verifica e della sua portata, di essere assistito da un professionista e delle conseguenze del rifiuto di autorizzare la verifica, è già sancito dall’art. 12 comma 2 dello Statuto.
Si potrebbe invece forse riaffermare meglio, se non a livello normativo quantomeno in istruzioni di prassi amministrativa, l’obbligo di motivare l’autorizzazione e così giustificare l’accesso, superando la consuetudine di motivare con riferimento alle ragioni per cui quel certo contribuente è stato selezionato per il controllo, più che a quelle che hanno indotto l’autorità fiscale ad effettuare una indagine on-site anziché adottare altri mezzi istruttori meno invasivi ([12]). Inoltre, andrebbe chiarita meglio – magari in sede di prassi amministrativa - la necessità che vi sia corrispondenza tra l’ambito e lo scopo delle ispezioni autorizzate e i documenti reperiti e utilizzabili, fatto salvo, come rileva la stessa Corte, il potere delle autorità di avviare procedimenti amministrativi separati laddove emergano nel corso dell'ispezione elementi tali da giustificare l’allargamento dell’indagine ad altri oggetti.
Del resto, la recente introduzione del principio di proporzionalità nel procedimento tributario (art. 10-ter della L. n. 212 del 2000), secondo cui occorre bilanciare la protezione dell’interesse erariale alla percezione del tributo con la tutela dei diritti fondamentali del contribuente, con la conseguenza che l’azione amministrativa deve essere necessaria per l’attuazione del tributo, non eccedente rispetto ai fini perseguiti e non limitare i diritti dei contribuenti oltre quanto strettamente necessario al raggiungimento del proprio obiettivo, può essere letta come ulteriore conferma dell’esigenza di motivare l’autorizzazione all’accesso, da cui dovrà risultare la necessità dell’accesso medesimo e la sua congruità rispetto agli scopi della particolare indagine fiscale.
L’altra questione sollevata dalla Corte EDU attiene al deficit di tutela giurisdizionale, atteso che nel processo tributario non possono trovare ingresso le questioni di legittimità concernenti gli atti dell’istruttoria, se non al termine della stessa, e subordinatamente all’emissione di un avviso di accertamento. Anche in quel caso, peraltro, la c.d. “tutela differita” involge soltanto il profilo patrimoniale della vicenda, attraverso l’inutilizzabilità delle prove raccolte con modalità illegittime, ma non è in grado di far cessare o inibire l’indagine dell’autorità fiscale, che a quel punto si è ovviamente già conclusa da tempo. D’altro canto, come già ricordato, la tutela davanti al giudice ordinario incontra dei limiti significativi giacché, secondo la Cassazione la possibilità di contestare l’atto istruttorio viziato davanti al giudice civile sussiste soltanto se l’indagine si concluda senza l’emissione di un atto impositivo, oppure qualora lo stesso non venga impugnato davanti al giudice tributario, o ancora se l’atto impositivo prescinda dall’atto istruttorio che si assume come viziato.
A tal riguardo la Corte EDU, rilevato che il quadro giuridico interno dovrebbe prevedere un controllo giurisdizionale effettivo di un atto di indagine contestato, e in particolare un controllo del rispetto, da parte delle autorità nazionali, dei criteri e delle limitazioni riguardanti le condizioni che giustificano tale atto e la sua portata, ha ritenuto che, preso atto delle diverse restrizioni alla competenza dei giudici tributari e civili, “l’esistenza e la disponibilità di tali mezzi di ricorso non debbano essere subordinate al fatto che una misura abbia portato all’emissione di un avviso di accertamento né dovrebbero essere disponibili solo una volta concluso il procedimento di accertamento. Se un contribuente ritiene che le persone che effettuano un controllo non agiscano in conformità con la legge… dovrebbe essere disponibile una qualche forma di riesame intermedio e vincolante semplificato prima che il controllo sia completato” (§. 149) ([13]).
6. L’inadeguata iniziativa parlamentare in itinere
Nel tentativo di accogliere le indicazioni contenute nella sentenza Italgomme Pneumatici Srl, è stato presentato al Senato, in data 11 febbraio 2025, il disegno di legge n. 1376, col dichiarato obiettivo di rafforzare la tutela del domicilio e del diritto di difesa del contribuente sottoposto ad accessi, ispezioni e verifiche.
Orbene, si legge nella relazione di accompagnamento al citato disegno di legge che con esso si propone di introdurre “1) una supervisione indipendente e giudiziaria che permetta ex ante di avere una tempestiva protezione contro possibili ingerenze arbitrarie attraverso un effettivo controllo preliminare di legittimità o che consenta una limitazione delle discrezionalità delle autorità fiscali nell’effettuare le perquisizioni per ragioni di indagine fiscale; 2) uno specifico obbligo motivazionale in ordine ai requisiti per legittimare l’intervento lesivo del domicilio latamente inteso del contribuente, in modo da consentire un’adeguata identificazione delle condizioni in cui le autorità fiscali possono incidere sul diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza; 3) un sistema di controllo giudiziario ex post per il contribuente, che costituisca una tutela diretta dei suoi diritti al rispetto del domicilio e del diritto di difesa in ordine alla legittimità e fondatezza della misura nonché ai requisiti di necessarietà e connessa proporzionalità allo scopo perseguito di cui all’articolo 8, paragrafo 2, della Convenzione”.
Le singole disposizioni contenute nel d.d.l., tuttavia, oltre a risultare disarmoniche rispetto a quanto si legge nella relazione accompagnatoria, non sembrano sufficienti ad adeguare il quadro giuridico interno alle prescrizioni della Corte EDU.
Si prevede infatti, attraverso una integrazione dell’art. 52 del D.p.r. n. 633 del 1972, un rafforzamento dell’obbligo di motivazione dell’autorizzazione che il procuratore della Repubblica deve rilasciare per il caso di accessi presso locali adibiti, in via esclusiva o promiscua, ad abitazione, nonché per effettuare perquisizioni personali o aprire coattivamente pieghi sigillati, borse, casseforti e così via. Tale autorizzazione dovrà infatti essere “motivata in ragione delle risultanze acquisite allo stato della verifica tributaria condotta dagli Uffici dell’imposta sul valore aggiunto”.
Ora, non è chiaro che cosa gli incisi da inserire nei diversi commi dell’art. 52 aggiungano rispetto al fatto che, anche a legislazione vigente, la motivazione dell’autorizzazione del procuratore della Repubblica non può, in linea di massima, che avvenire in ragione delle risultanze acquisite allo stato della verifica condotta dagli Uffici finanziari.
Ma soprattutto, va osservato che le modifiche normative che si vorrebbero adottare riguardano soltanto gli accessi presso il domicilio (o luoghi a esso assimilabili) inteso in senso stretto, e non invece quelli nel “domicilio latamente inteso del contribuente” (come si esprime la relazione accompagnatoria), lasciando così scoperte proprio le ipotesi di accesso in locali adibiti ad uso commerciale o professionale, cioè le fattispecie oggetto del caso Italgomme Pneumatici Srl. La Corte di Strasburgo estende infatti le tutele previste dall’art. 8 CEDU ai locali utilizzati per attività commerciali e professionali.
La stessa critica può essere rivolta alla proposta, contenuta nel citato d.d.l., di introdurre nel D.p.r. n. 633 del 1972 un nuovo art. 52-bis rubricato “Tutela giurisdizionale in materia di accessi domiciliari e acquisizioni documentali”, secondo cui “Il contribuente nei cui confronti sia stato eseguito, ai sensi dell’articolo 52, commi dal primo al terzo del presente decreto, un accesso presso locali adibiti in tutto o in parte ad abitazione ovvero che sia stato sottoposto, durante l’accesso, a perquisizioni personali o all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili o alla richiesta di esame di documenti o di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale, entro venti giorni dall’esecuzione delle suddette attività, può proporre, con istanza motivata, al presidente della Corte di giustizia tributaria di secondo grado competente per territorio in ragione della circoscrizione in cui ha sede l’Ufficio dell’ente impositore procedente, richiesta di annullamento dell’autorizzazione rilasciata dall’autorità giudiziaria competente e conseguente dichiarazione di inutilizzabilità delle risposte rese dal contribuente medesimo nonché della documentazione, delle scritture e dei libri o registri acquisiti in copia o sequestrati”.
L’inibitoria giurisdizionale che si immagina di introdurre risulta, anzitutto, indeterminata nei suoi presupposti, non essendovi indicazioni in ordine ai requisiti che devono sussistere per poter sollecitare l’annullamento dell’autorizzazione rilasciata dal procuratore della Repubblica onde accedere nell’abitazione del contribuente od ottenere l’apertura coattiva di borse, pieghi sigillati, casseforti e simili. Ci si potrebbe dunque chiedere se il presupposto fondante l’istanza di annullamento sia la totale mancanza della motivazione dell’autorizzazione, oppure la presenza di una motivazione insufficiente, contraddittoria, di mero stile, o avulsa dalle risultanze acquisite allo stato della verifica tributaria, o ancora se si possa sindacare il merito delle ragioni indicate nell’autorizzazione e contestare il fatto che quelli dedotti nell’autorizzazione non rappresentano “gravi indizi di violazioni” (per il caso di accesso in locali adibiti solo ad abitazione). Inoltre, la nuova disposizione – che sarebbe forse meglio collocare nel decreto sul processo tributario - potrebbe risultare insufficiente nel soddisfare gli elevati standards richiesti dalla Corte EDU ([14]).
Ma quel che davvero risulta incomprensibile è che la proposta normativa di cui si è detto si limita ad intervenire, come osservato, sulla disciplina degli accessi presso locali adibiti, in via esclusiva o promiscua, ad abitazione, lasciando invece privi di tutela i contribuenti titolari di locali ad uso commerciale o professionale presso cui siano state eseguite indagini on-site, cioè – paradossalmente - proprio le situazioni in relazione alle quali la Corte EDU ha sollecitato l’intervento dello Stato italiano.
[1] Per un primo commento alla sentenza cfr. A. Marcheselli, La Corte EDU e il diritto “canzonatorio” dei diritti fondamentali: le garanzie durante gli accessi e il diritto al silenzio, in Il Fisco, 2025, pp. 743 ss.; D. Stevanato, Accessi, ispezioni e verifiche violano i diritti di libertà secondo la Corte EDU, in Corr. trib., 2025, pp. 417 ss.
[2] Cass., sez. un., 21 novembre 2002, n. 16424; Cass., 18 dicembre 2014, n. 26829; Cass., 6 novembre 2019, n. 28563.
[3] Cfr. Cass., 7 agosto 2009, n. 18155; Cass., 2 marzo 1999, n. 1728.
[4] Il punto è stato evidenziato da tempo dalla dottrina: vedi in proposito R. Schiavolin, Poteri istruttori dell’amministrazione finanziaria, in Dig. disc. priv., Sez. comm., Vol. XI, pp. 205-206; A. Viotto, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002, p. 275.
[5] A titolo di esempio si veda Cass., n. 26829 del 2014, cit., secondo cui “in tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso. E neppure la nullità di tali atti potrebbe ricavarsi dalla ‘ratio’ delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell'Amministrazione”.
[6] Cfr. Cass., 28 giugno 2019, n. 17526; Cass., 8 luglio 2009, n. 16017; Cass., 22 gennaio 2013, n. 16661.
[7] Si vedano gli artt. 63, comma 1, del D.p.r n. 633 del 1972, e 33, comma 3, del D.p.r. n. 600 del 1973, nonché l’art. 2, comma 4, del D.Lgs. n. 68 del 2001, secondo cui i militari del Corpo, nell’espletamento dei compiti di polizia tributaria, si avvalgono delle facoltà e dei poteri previsti dagli articoli 32 e 33 del D.p.r. n. 600 del 1973 e dagli articoli 51 e 52 del D.p.r. n. 633 del 1972.
[8] Si veda ad esempio la Circolare 7 maggio 2021, n. 4/E.
[9] In termini analoghi si veda il caso Funke v. France, 25 febbraio 1993, n. 10828/84, §. 57.
[10] Sul tema, da ultimo, D. Stevanato, Le violazioni istruttorie tra interesse erariale e tutela dei diritti “non patrimoniali” dei contribuenti, in Corr. trib., 2025, pp. 99 ss.
[11] Cfr. Cass., sez. un., n. 11082 del 7 maggio 2010 e n. 8587 del 2 maggio 2016.
[12] Adeguando così la motivazione dell’autorizzazione segnalato dalla dottrina: cfr., tra gli altri, A. Viotto, Il “diritto al rispetto della vita privata e familiare” nell’ambito delle indagini tributarie, nel quadro della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Riv. trim. dir. trib., 2019, p. 182, secondo cui “l’atto autorizzativo dovrebbe esporre le ragioni che inducono a ritenere che l’attività istruttoria non possa essere efficacemente realizzata senza l’effettuazione dell’accesso, ovverosia che l’utilizzo dei poteri di indagine ‘a tavolino’ non consentirebbe di ottenere lo stesso risultato, in termini di acquisizione di elementi probatori, rispetto all’accesso”.
[13] L’esigenza di un rimedio giurisdizionale certo, praticabile ed effettivo, da attivare tempestivamente, è stata affermata dalla Corte EDU anche in precedenti occasioni, ad es. nel caso Société Canal Plus et Autres c. France, 21 dicembre 2010, n. 29408/08, §. 40.
[14] Si può qui ricordare che nel caso Ravon e a. c. Francia, 21 febbraio 2008, n. 18497/03, la Corte EDU, pronunciatasi sulla legislazione francese (più garantista di quella italiana) disciplinante gli accessi fiscali presso l’abitazione del contribuente, ha enfatizzato tra l’altro l’esigenza che l’autorizzazione provenga da un organo giurisdizionale indipendente (tale non è il nostro procuratore della Repubblica), che la stessa venga emessa in contraddittorio con l’interessato, che nel ricorso giurisdizionale avverso l’autorizzazione possa essere chiesto anche di riesaminare la base fattuale dell’accesso domiciliare.
Si veda anche La disciplina nazionale in tema di accesso ispezioni e verifiche fiscali non è conforme all’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo di Ginevra Iacobelli.
La partecipazione del privato all’attività vincolata della p.a.: un passo avanti verso un “giusto procedimento” (Nota a T.A.R. Puglia, Bari, 7 gennaio 2025, n. 9)
di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa – 2. L’ordinanza impugnata e la vicenda giudiziaria – 3. La decisione dei giudici amministrativi – 4. Il contraddittorio nel procedimento amministrativo e la rilevanza ondivaga dei vizi procedimentali– 5. La partecipazione del privato come strumento che attua il cd. “giusto procedimento”
1. Premessa
Il T.a.r. Puglia, in adesione ad un più recente orientamento favorevole al rafforzamento delle garanzie procedimentali, riconosce la necessità della comunicazione di avvio del procedimento – e, conseguentemente, della partecipazione del privato - anche nei casi di attività vincolata della pubblica amministrazione.
L’apparato motivazionale della pronuncia, oltre a ripercorrere l’orientamento giurisprudenziale maggioritario e a ribadire le finalità cui l’istituto della partecipazione nel procedimento amministrativo risulta preordinato, si sofferma altresì sulla necessità che il coinvolgimento del privato sia attuato a prescindere dalla successiva ed eventuale fase giudiziaria.
In tale ottica, la pronuncia si presta ad essere interpretata come un ulteriore passo in avanti nel processo di delineazione del cd. “giusto procedimento”, espressione coniata dalla dottrina anche per dare voce alle istanze di derivazione sovranazionale.
2. L’ordinanza impugnata e la vicenda giudiziaria
Con ricorso depositato presso la III Sez. del T.a.r. Puglia, i ricorrenti impugnano l'ordinanza-ingiunzione di demolizione delle opere e strutture edilizie per il ripristino dello stato dei luoghi adottata dalla competente area tecnica del Comune di Gravina di Puglia[1].
L’ordinanza de qua riassume la vicenda penale che ha interessato la proprietà di un complesso edilizio turistico, nel cui ambito era stata contestata non tanto l’assenza del titolo edilizio quanto, piuttosto, talune difformità costruttive, unitamente a possibili violazioni di vincoli paesaggistici e ambientali; il procedimento si era poi concluso con la dichiarazione di insussistenza di talune delle violazioni di legge contestate.
In diritto, i ricorrenti censurano, fra l’altro, l’omessa applicazione dell’art. 7 legge 7 agosto 1990, n. 241 e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria [2]; il Comune resistente, costituitosi in giudizio, contrasta le tesi rappresentate dalla parte ricorrente, evidenziando come il proprio intervento abbia fatto seguito ad una nota della Procura della Repubblica di Bari datata 13 giugno 2023 con cui, all’esito di una sentenza emessa dalla Corte di appello di Bari, proprio al predetto ente pubblico era stato intimato di provvedere a quanto di competenza.
In particolare, la nota su cui si fonda il nuovo ordine amministrativo di demolizione e ripristino adottato dal Comune originava dalle motivazioni di una sentenza della Corte di appello di Bari, che ha dichiarato il non doversi procedere nei confronti degli imputati per intervenuta prescrizione[3]; tale provvedimento giudiziario, a sua volta, riformava la precedente sentenza del Tribunale di Bari, quest’ultima pienamente assolutoria dalle responsabilità ascritte agli imputati nel primo grado del giudizio penale[4].
Peraltro, l’ordine di confisca contenuto nella menzionata sentenza della Corte di appello è stato successivamente annullato dalla Cassazione, che ha applicato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo[5].
Com’è notto, infatti, nella giurisprudenza della Cedu è stata ritenuta sussistente la violazione dell'art. 7 Cedu e dell'art. 1 del Prot. n. 1 nei casi in cui la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e degli immobili realizzati sugli stessi sia stata ordinata dal giudice penale con la sentenza di proscioglimento per estinzione del reato dovuta a prescrizione[6]. Inoltre, nel caso di assoluzione dal reato di lottizzazione abusiva motivata da errore di diritto inevitabile o scusabile, la confisca ex art. 44, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 dei terreni abusivamente lottizzati e degli immobili ivi abusivamente costruiti è stata ritenuta in contrasto con l'art. 7 della Cedu e l'art. 1, Prot. n. 1 in quanto trattasi di sanzione penale non chiaramente prevista dalla legge, oltre che sproporzionata rispetto allo scopo perseguito della tutela ambientale[7].
3. La decisione dei giudici amministrativi
Dopo aver fatto cenno alla sopra menzionata giurisprudenza sovranazionale, i giudici amministrativi accolgono il ricorso ritenendolo fondato nei termini che seguono.
Come anticipato, con la prima censura i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241 in quanto, all’esito della complessa vicenda penale, il Comune ha rieditato l’ordine di demolizione obliterando totalmente l’inoltro dell’avviso di cui all’art. 7 della legge del 7 agosto 1990, n. 241 secondo il quale: “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato […] ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi […]”.
Ed in effetti, il provvedimento impugnato riepiloga le caratteristiche della costruzione, senza tuttavia dare atto né dello svolgimento di nuovi approfondimenti istruttori, eventualmente anche tecnici, né di aver garantito ai soggetti ingiunti la partecipazione al procedimento.
Sul punto, i giudici riconoscono la sussistenza di un orientamento giurisprudenziale in base al quale, nei casi in cui si tratti di contrastare abusi edilizi o rigettare c.d. condoni edilizi, tale avviso non avrebbe carattere indefettibile; tuttavia, quella stessa giurisprudenza riconosce che nei casi in cui la fattispecie concreta richieda particolare approfondimento[8], non vi siano ragioni di alcuna urgenza e la repressione dell’illecito edilizio non sia del tutto indefettibile, l’amministrazione è tenuta a dar corso alle doverose comunicazioni partecipative, al fine di assicurare i principi della fattiva collaborazione e buona fede, sanciti dall’art. 1, co. 2-bis della legge n. 241 del 1990 secondo cui “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”[9].
Non solo, secondo l’organo giudicante, un simile approccio prescinde dalla natura vincolata o discrezionale del provvedimento, in ossequio al più recente indirizzo giurisprudenziale secondo cui: “Il confronto procedimentale con l’interessato è necessario e imprescindibile, agli effetti della legittimità del provvedimento, anche nelle ipotesi di provvedimenti vincolati, allorquando l’apporto partecipativo sia utile per giungere ad un accertamento dei presupposti di fatto del provvedimento stesso che richieda un’istruttoria specifica. La natura vincolata del provvedimento amministrativo non vale ad esimere dall’osservanza delle garanzie partecipative, a partire proprio dalla comunicazione di avvio del procedimento, se si verte in situazioni peculiari e giuridicamente complesse. Pertanto, l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento opera anche nell'ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, atteso che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l’accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa[10].
Successivamente, i giudici si soffermano sul fenomeno del c.d. “non finito architettonico”, ossia sulle varie forme di mancato completamento di costruzioni o di complessi edilizi che siano comunque dotate dei requisiti strutturali di autonomia funzionale, rispetto alle quali la più recente giurisprudenza ammnistrativa ha evidenziato come siffatte costruzioni siano suscettibili di autonoma considerazione.
Infatti, “qualora il permesso di costruire abbia previsto la realizzazione di una pluralità di costruzioni funzionalmente autonome (ad esempio villette) che siano rispondenti al permesso di costruire considerando il titolo edificatorio in modofrazionato, gli immobili edificati […] devono intendersi supportati da un titolo idoneo, anche se i manufatti realizzati non siano totalmente completati, ma – in quanto caratterizzati da tutti gli elementi costitutivi ed essenziali – necessitino solo di opere minori che non richiedono il rilascio di un nuovo permesso di costruire”. Inoltre, per quanto qui d’interesse, “qualora […] le opere incomplete, ma funzionalmente autonome, presentino difformità non qualificabili come gravi, l’Amministrazione potrà adottare la sanzione recata dall’art. 34 del T.U.”; infine “è fatta salva la possibilità per la parte interessata, ove ne sussistano tutti i presupposti, di ottenere un titolo che consenta di conservare l’esistente e di chiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del T.U. nel caso di opere “minori” (quanto a perimetro, volumi, altezze) rispetto a quelle assentite, in modo da dotare il manufatto – di per sé funzionale e fruibile – di un titolo idoneo, quanto alla sua regolarità urbanistica” [11].
A ciò si aggiunga inoltre che il recente decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69[12] ha in più punti modificato il d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 ampliando, in presenza di tassativi presupposti e previa domanda di parte, le fattispecie di sanatoria delle difformità edilizie, al contempo meglio specificando le c.d. tolleranze costruttive.
Ne deriva allora che, in considerazione della particolare difformità di volta in volta riscontrata, deve essere riconosciuto, in un’ottica di semplificazione dell’azione amministrativa, un adeguato spatium deliberandi al proprietario del bene immobile, al fine di consentirgli di assumere una ponderata posizione, in particolare laddove costui non risulti l’autore delle difformità, avendo conseguito il manufatto già con difformità edilizie a titolo derivativo.
In quest’ottica, allora, un importante spazio può essere assicurato proprio mediante l’istituto dell’avviso di inizio del procedimento di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990, soprattutto nei casi di iniziativa ex officio.
Per giustificare tale assunto, i giudici ricordano che la finalità cui è preordinata la partecipazione al procedimento, specie nei casi di adozione di atto amministrativo sfavorevole, è quella di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, principio generale dell’azione amministrativa. In tale contesto, la ragione per cui è prevista la partecipazione al procedimento da parte del destinatario del provvedimento è duplice: da un lato, possiede una finalità difensiva, atta a consentire un proficuo contraddittorio già in sede procedimentale; dall’altro, integra una finalità collaborativa, utile anche per la stessa amministrazione, la quale può formare il provvedimento finale adattandolo al meglio al caso concreto.
Non solo, la giurisprudenza ha recentemente sottolineato la rilevanza del principio del contraddittorio nel corso di tutto il procedimento, in quanto la regola da applicare si innesta sempre su una situazione fattuale, la quale deve essere a sua volta accertata[13].
A tal fine, a nulla rileva la circostanza che in una eventuale sede giurisdizionale tale accertamento possa essere replicato o integrato: trattasi di una circostanza che non potrebbe in alcun modo giustificare una istruttoria procedimentale carente ovvero celebrata in violazione del contraddittorio, pena l’alterazione di potestà pubbliche ex lege stabilite e la funzione stessa del giudice amministrativo e del processo, ai quali verrebbe assegnato un ruolo almeno parzialmente sostitutivo, ossia succedaneo, rispetto a quello assegnato all'amministrazione e al procedimento amministrativo. In altri termini, la sede deputata a vagliare funditus la situazione allo stato esistente è proprio quella del procedimento amministrativo.
Passando alla specifica materia oggetto della controversia, il principio tramandatosi in giurisprudenza secondo cui l'attività di repressione degli abusi edilizi mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati in quanto la partecipazione al procedimento non potrebbe determinare alcun esito diverso, riceve dunque un importante correttivo nei casi di abuso per parziale difformità del titolo edilizio ovvero per variazione essenziale, laddove fosse controversa e controvertibile in punto di fatto e/o di diritto l'entità della stessa variazione e fosse pertanto necessario condurre un apposito accertamento specifico nella sede amministrativa[14].
Un simile dialogo nel procedimento è inoltre funzionale ad ottimizzare la comprensione stessa dei fatti e del diritto da applicarsi nel processo, senza debordare in inutili misure repressive nei confronti dei soggetti ingiunti e senza compromettere il canone della proporzionalità.
Ebbene, nel caso posto al vaglio dei giudici, gli elementi della fattispecie concreta[15] impongono un maggiore approfondimento istruttorio ed un apporto motivazionale da parte dell’amministrazione comunale e, soprattutto, l’inoltro del prescritto ex lege “avviso di inizio del procedimento” a tutti i soggetti legittimati, anche per come mutati nel tempo, considerata la natura personale della comunicazione di avvio del procedimento[16]. E tanto al fine, da un lato, di evitare l’emanazione di provvedimenti che non possano trovare alcuna fattiva applicazione e, dall’altro, di determinare consolidamenti di costruzioni non recuperabili e/o non abbattute e quindi di ruderi, che finiscano sì per compromettere in concreto il paesaggio o l’ambiente. Infine, la partecipazione al procedimento consente altresì ai soggetti interessati di vagliare la proficuità di far ricorso ai rimedi di sanatoria, che il t. u. edilizia ha previsto e pone a loro disposizione, laddove ne dovessero sussistere i presupposti de facto et de iure.
Da ultimo, i giudici ricordano che in materia opera il principio di cui all’art. 1, Protocollo n. 1, Cedu, sul diritto al rispetto dei beni di proprietà privata, il quale impone ai singoli Stati contraenti, le cui legislazioni prevedano sanzioni gravanti sui predetti beni, la necessità di modulare l’obbligatorietà dell’inflizione della misura punitiva, in modo proporzionato, ossia attagliato al caso concreto e tale da renderla non smisurata o eccessivamente invasiva[17].
Sulla scorta delle sopra esposte argomentazioni, i giudici accolgono dunque il ricorso limitatamente alla detta violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 e al censurato vizio di eccesso di potere per difetto d’istruttoria.
4. Il contraddittorio nel procedimento amministrativo: la rilevanza ondivaga dei vizi procedimentali nell’ordinamento
Com’è noto, la legge n. 241 del 1990 stabilisce in via generale la necessità della partecipazione al procedimento amministrativo dei soggetti portatori di interessi pubblici o privati nonché di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio dal provvedimento finale, al contempo dettandone la disciplina di riferimento.
Il punto di partenza è il riconoscimento della duplice funzione, difensiva e collaborativa, dell’istituto de quo: per quanto attiene al primo profilo, al privato è riconosciuta la facoltà di rappresentare nel procedimento amministrativo i medesimi interessi che potrebbe far valere in sede giudiziaria, così anticipando in sede procedimentale il contraddittorio che altrimenti si avrebbe solo in fase processuale e con inevitabili effetti positivi in termini di deflazione del contenzioso; per quanto attiene al secondo profilo, l’apporto fornito dal privato possiede carattere di utilità per il procedimento, nella misura in cui consente di veicolare dati ed informazioni utili per l’istruttoria amministrativa, la quale viene arricchita e resa più articolata, così consentendo una migliore ponderazione degli interessi coinvolti.
La duplice finalità, in altri termini, consente di far emergere gli interessi sia pubblici sia privati sottesi all’esercizio del potere, in modo tale da orientare le scelte dalla p.a. attraverso la ponderazione di tutti gli interessi in gioco, anche nell’ottica del principio di buon andamento ed imparzialità della p.a. sancito dall’art. 97 Cost. e di cui l’istituto rappresenta una importante manifestazione.
In questo quadro, uno strumento indispensabile per attivare la partecipazione al procedimento è rappresentato dalla comunicazione di avvio del procedimento la quale, affinché realizzi le due indicate funzioni, deve essere effettuata prima o, al più, contemporaneamente, all’inizio dell’istruttoria, e comunque entro un termine congruo che consenta al privato la partecipazione alla fase procedimentale[18].
Già all’indomani dell’introduzione della legge n. 241 del 1990, erano state tuttavia individuata talune eccezioni all’obbligo di comunicazione, tanto in via legislativa quanto in via giurisprudenziale.
Per quanto qui d’interesse, un indirizzo giurisprudenziale escludeva la necessità della comunicazione di avvio del procedimento in qui casi in cui, anche laddove fosse stata ritualmente effettuata, la comunicazione non avrebbe inciso sull’iter procedimentale. Tale situazione, all’evidenza, si verificava nei casi di atti vincolati, relativamente ai quali le informazioni e i dati sui quali l’Amministrazione è chiamata a pronunciarsi non potrebbero essere in alcun modo arricchiti ed implementati dall’apporto del privato. In questi casi, la partecipazione procedimentale del destinatario del provvedimento appariva infatti priva di qualsiasi utilità per la tutela delle situazioni giuridiche soggettive dedotte dal ricorrente[19].
Tale indirizzo giurisprudenziale, all’indomani delle modifiche introdotte dalla legge n. 15 del 2005, fu recepito a livello legislativo mediante l’introduzione dell’art. 21 octies il quale, al secondo comma, - e salvo l’aggiunta dell’ultimo periodo avvenuta per opera della successiva legge n. 120 del 2020[20] – sancisce che “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”[21].
La disposizione de qua, infatti, non solo ha consacrato l’orientamento giurisprudenziale dei cd. vizi “non invalidanti” cui si faceva prima riferimento, dando così uno statuto legislativo alle violazioni formali che non danno luogo ad annullabilità, ma ne ha anche ampliato la portata applicativa nella parte in cui, proprio con riferimento alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, sembra escludere l’invalidità del provvedimento in tutti quei casi in cui l’amministrazione dimostri che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso, e ciò a prescindere dalla natura vincolata o discrezionale del potere esercitato e dal carattere palese del provvedimento finale.
In quest’ottica, sembra ripercorrere l’esperienza tedesca della cd. soggettivizzazione delle garanzie procedimentale, vale a dire l’idea che queste non valgono di per sé ma solo laddove influiscano, in concreto, sulla sostanza degli interessi fatti valere dal cittadino[22].
La norma possiede profili di notevole importanza sistematica; al di là della distinzione in due periodi, emerge infatti un dato comune: il provvedimento non è annullabile perché in entrambi i casi il vizio procedimentale o formale è sato ininfluente sul contenuto sostanziale o dispositivo del provvedimento, il quale, comunque, non avrebbe potuto esser diverso, sia pure con un differente onere probatorio posto in capo alla p.a.
Trattasi, all’evidenza, di una norma che, da un lato, testimonia il passaggio dal giudizio sull’atto al giudizio sul rapporto in quanto, di fronte ad un provvedimento che è illegittimo, ne esclude l’annullabilità all’esito di un giudizio che tenga conto dell’intero rapporto tra le parti; dall’altro, testimonia la tendenza alla dequotazione del procedimento amministrativo e dell’interesse procedimentale.
Procedimento ed interesse procedimentale, infatti, hanno nel tempo attraversato alterne vicende, con un andamento quasi ondulatorio: prima della legge n. 241 del 1990, si riteneva che la carenza procedimentale fosse solo un indizio, un possibile sintomo del vizio di eccesso di potere; con la legge n. 241 del 1990, gli indizi dell’eccesso di potere vennero elevati ad autonome figure di violazione di legge (cd. fase di quotazione); da ultimo, da circa 15 anni a questa parte, la giurisprudenza ha iniziato ad ammettere sempre più di frequente varie forme di sanatorie così, di fatto, riportando a livello di indizio/sintomo di violazione di legge le carenze procedimentali (cd. fase di dequotazione).
E tanto in controtendenza rispetto a quello che accede invece a livello sovranazionale, dove si registra una riespansione del procedimento, in quanto le fonti sovranazionali impongono il recepimento, quanto meno in alcuni procedimenti dotati di rilievo sostanzialmente penale, di determinate garanzie afferenti alla fase più strettamente processuale.
5. La partecipazione del privato come strumento che attua il cd. “giusto procedimento”
Ebbene, la sentenza in commento interviene su questo stato dell’arte, inserendosi nel solco del più recente filone interpretativo volto ad implementare, nuovamente, il riconoscimento e l’effettività del contraddittorio nella fase procedimentale.
L’innovazione risiede nella rivalutazione della partecipazione del privato, che assume connotati di necessità e rilevanza anche laddove vengano in rilevo provvedimenti a carattere vincolato, e ciò in quanto, l’apporto da costui fornito consente di giungere ad una più attenta e consapevole valutazione dei presupposti di fatto e di diritto su cui il provvedimento stesso si fonda[23].
In tale prospettiva, una delle argomentazioni utilizzate dall’organo giudicane è quella secondo cui l’istruttoria procedimentale, in quanto dotata di un ruolo cruciale, possiede una autonoma identità rispetto a quella eventualmente replicabile in fase processuale la quale, dal canto suo, rischierebbe di essere snaturata della propria funzione ove fosse piegata a sopperire eventuali carenze riconducibili alla fase precedente, finendo per esercitare un ruolo succedaneo a quello assegnato all’amministrazione.
Trattasi di un passaggio motivazionale da salutare con particolare favore, nella misura in cui lascia sottendere una sorta di anticipazione, già in fase procedimentale, di garanzie afferenti alla fase più strettamente processuale. E tanto in ossequio a quell’orientamento di derivazione sovranazionale cui si faceva cenno in chiusura del precedente paragrafo e che ha trovato un autorevole avallo anche in ambito interno, tanto da aver indotto taluni a parlare di “giusto procedimento”.
L’espressione, infatti, non è nuova nel panorama giuridico nazionale, rinvenendosi delle prime enunciazioni in alcuni autori che consideravano il procedimento come il luogo in cui gli interessati dovessero essere posti «in grado di far valere le proprie ragioni e di esperire gli opportuni rimedi»[24].
Il tema però è ben più complesso, intersecando la questione di teoria generale concernente i rapporti tra procedimento e processo[25]. In questa sede, è sufficiente ricordare che, secondo i teorici generali del processo, quest’ultimo non è altro che una species del più ampio genus procedimento. Il tratto distintivo del processo sarebbe rappresentato non tanto dall’an della partecipazione quanto piuttosto dal quomodo: affinché si abbia processo non sarebbe sufficiente la partecipazione dei soggetti nella forma dell’audizione e/o della contestazione, occorrendo semmai il contraddittorio, vale a dire la struttura dialettica del procedimento nella simmetrica parità delle posizioni.
Questa concezione del contraddittorio, però, lungi dall’essere prerogativa esclusiva del processo si presta ad essere elevata a categoria generale, applicabile anche all’attività della p.a., la quale pure è chiamata a tenere conto degli interessi potenzialmente confliggenti[26]; alcuni autori hanno parlato, a tal proposito, di “diffusione del processo” a tutte le branche dell’ordinamento[27].
Nella medesima direzione, altra dottrina ha precisato che procedimento e processo, pur rappresentando le forme “tipiche” di estrinsecazione rispettivamente della funzione amministrativa e di quella giurisdizionale, non sono per ciò solo irrinunciabili. Queste ultime, infatti, rappresentano per il diritto un mero strumento, sicché nulla osta acché anche l’amministrazione attiva venga esercitata nelle forme del processo[28].
Secondo i sostenitori di questa tesi, una conferma in tal senso si ricaverebbe anche dalla Carta Costituzionale nel suo complesso, in quanto il costituente avrebbe accolto una concezione di complementarietà ed integrazione tra procedimento e processo, il cui connotato essenziale risulta rappresentato dalla conformazione dell’amministrazione «secondo fini di giustizia e metodi di giustizia», circostanza questa che implica proprio una processualizzazione dei metodi di azione della p.a.[29].
Non solo, una ratio così garantista ha imposto l’individuazione di una precisa copertura costituzionale; l’iter, tuttavia, non è stato agevole. In una prima fase, infatti, la Consulta non riconobbe la valenza costituzionale del “giusto procedimento” ritenendolo un principio dell’ordinamento giuridico dello Stato, vincolante, in quanto tale, per il solo legislatore regionale[30].
Una svolta importante è rappresentata dalla l. n. 241 del 1990, da più parti indicata come legge introduttiva del principio del giusto procedimento: tramite la codificazione di una serie di istituti che riecheggiavano i cd. substantialia processus[31], la normativa de qua ha infatti determinato l’esportazione degli elementi essenziali del processo anche all’attività amministrativa[32]. Per molto tempo, tale normativa di rango primario ha sopperito alla mancata costituzionalizzazione del principio stesso.
Un’ulteriore tappa è stata poi segnata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15 che, nell’ambito dei principi generali dell’attività amministrativa, ha rinviato ai «principi dell’ordinamento europeo» tra i quali rileva, per quanto qui d’interesse, l’art. 41 della Carta di Nizza in materia di diritto ad una buona amministrazione.
Proprio quest’ultima disposizione ha consentito alla Consulta di ricondurre il giusto procedimento al principio di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa[33]. In siffatto contesto, dunque, il giusto procedimento viene riconosciuto come principio costituzionale, posto a tutela dei cittadini e delle loro libertà, al fine assicurare equilibrio e parità tra le parti del procedimento.
In questo senso, non ci sarebbe alcuna incompatibilità tra giusto procedimento e pieno raggiungimento dell'interesse pubblico. Al contrario, quest’ultimo potrebbe trovare giovamento dall’apporto collaborativo del cittadino il quale, ben potrebbe con la propria attività, aiutare l'amministrazione a decidere.
Del resto, come acutamente osservato da parte della dottrina, posto che l’art. 6 CEDU non garantisce un risultato finale ma un giusto procedimento-processo, le garanzie procedimentali, per quanto aiutino il cittadino a difendere i propri interessi a fronte del potere, lasciano comunque inalterata la facoltà dell'amministrazione di decidere la soluzione più coerente con il pubblico interesse, seppure dialetticamente ricostruito[34].
[1] Provvedimento n. 16 registro ordinanze del 14 settembre 2023.
[2] Gli ulteriori motivi su cui si fonda il ricorso sono i seguenti: violazione/elusione giudicato di cui agli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c.; la violazione/elusione giudicato (efficacia riflessa); la nullità del provvedimento; la mancata applicazione dell’art. 654 c.p.c.; la violazione del divieto del ne bis in idem, ossia la violazione o falsa applicazione dell’art. 4, protocollo n. 7, della Cedu e dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione; la violazione o falsa applicazione degli artt. 36, 44 e 31 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; l’eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto e per travisamento dei fatti; lo sviamento di potere e l’illogicità.
[3] CDA Bari, sez. II pen., sent. del 22 settembre 2014.
[4] Trib. Bari, sez. di Altamura, sent. del 13 luglio 2009.
[5] Cass. pen., sez. IV, 11 aprile 2018, n. 16106.
[6] Cfr. in tal senso Corte europea dei diritti dell'uomo, sez. II, 29 ottobre 2013, n. 17475.
[7] Sul punto, v. Corte europea dei diritti dell'Uomo, sez. II, 20 gennaio 2009, n. 75909.
[8] In tal senso, cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 1° giugno 2023, n. 5433, Cons. St., sez. VI, 7 maggio 2018, n. 2708.
[9] In questi termini, v. Cons. St., sez. VI, 16 gennaio 2023, n. 483.
[10] Così Cons. St., sez. III, 7 novembre 2024, n. 8908; in senso conforme, v. anche Cons. St., sez. VI, 23 aprile 2024, n. 3710; sez. III, 14 settembre 2021, n. 6288; sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6235.
[11] Cons. St., Ad. plen., 30 luglio 2024, n. 14.
[12] Convertito con modifiche dalla legge 24 luglio 2024, n. 105 (c.d. decreto salva-casa).
[13] Sul punto, si rinvia a Cons. St., sez. VI, 16 gennaio 2023, n. 483.
[14] In questo senso v. Cons. St., sez. VI, 1° giugno 2023, n. 5433.
[15] Nello specifico, dai documenti depositati nel corso del processo erano emerse le seguenti circostanze: alcune demolizioni erano state operate mentre altre apparivano insufficienti; il bene non era stato confiscato; non sembra essere stata accertata la violazione di prescrizioni di tutela paesaggistica e ambientale; l’immobile versava in condizioni de facto e oggetto di proprietà di società cessate e/o “fallite” da molto tempo; apparivano residuare violazioni edilizie relative ai sotto-tetti, alla variazione dei prospetti e delle disposizioni interne e altre piccole variazioni, a suo tempo realizzate in difformità del titolo edilizio rilasciato e non già in radicale assenza dello stesso.
[16] V. artt. 7, 8 e 10 della legge n. 241 del 1990.
[17] Così Corte europea diritti dell'Uomo, Grande camera, 28 giugno 2018, n. 1828; inoltre, cfr. Corte europea diritti dell'Uomo, sez. II, sentenze 10 maggio 2012, 20 gennaio 2009 e 30 agosto 2007, Sud Fondi s.r.l. e a.
[18] M.A. Sandulli, La comunicazione di avvio del procedimento tra forma e sostanza (spunti dai recenti progetti di riforma), in Foro amm.-T.A.R., 2004, 5, 1595; S. Civitarese Matteucci, La comunicazione di avvio del procedimento dopo la l. n. 15 del 2005. Potenziata nel procedimento, dequotata nel processo, in Foro amm.-C.d.S., 2005, 6, 1969; C. pagliaroli, I destinatari della comunicazione di avvio del procedimento: la figura del proprietario di immobile confinante, in Rivista Giuridica dell'Edilizia, fasc.3, 1 Giugno 2020, pag. 229.
[19] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 9 ottobre 2007, n. 5271.
[20] “La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell'articolo 10-bis”.
[21] Per un commento alla novella, si rinvia a G. Tropea - F. Saitta, L'articolo 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 approda alla Consulta: riflessioni su un (opinabile) giudizio di (non) rilevanza, in Diritto processuale amministrativo, 2010; G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 1 dicembre 2017; S. Vaccari, Atti vincolati, vizi procedurali e giudicato amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc.2, 1 giugno 2019, pag. 481; G. Mannucci, Il regime dei vizi formali-sostanziali alla prova del Diritto Europeo, in Diritto Amministrativo, fasc.2, 1 giugno 2017, pag. 259.
[22] Si tratta, peraltro, di una prospettiva oggetto di numerose critiche già in relazione al sistema tedesco a causa della sua aperta incompatibilità con la CEDU. Sul punto, cfr. M. Kunnecke, Procedural errors in the Adminstrative procedure, in Tradition and change in Administrative Law: an Anglo-German Comparison, 2007, n, 137-172.
[23] In tal senso, del resto, si era già espresso Cons. St., sez. VI, 23 aprile 2024, n. 3710 nonché Cons. Stato, sez. III, 7 novembre 2024, n. 8908, entrambe richiamate dalla pronuncia in esame. Per un commento alla seconda delle sentenze menzionate, si rinvia a I. Genuessi, Decisione vincolata e garanzie procedimentali. Riflessioni sul rapporto tra garanzie partecipative e natura vincolata del provvedimento amministrativo impugnato (nota a Cons. Stato, sez. III, 7 novembre 2024, n. 8908), in questa rivista, 14 marzo 2025.
[24] Così V. Crisafulli, Principio di legalità e giusto procedimento, in Giur. cost., 1962, 130-131.
[25] Per una disamina più approfondita della questione, si rinvia a E. Fazzalari, Note in tema di diritto e processo, Milano, 1957, p. 105 ss.; ID., Diffusione del processo e compiti della dottrina, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 861 ss.; ID., Processo (Teoria generale), in Nss D.I., vol. XIII, 1966, p. 1067 ss.; ID., Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1983, p. 57 ss.; ID., Procedimento e processo (Teoria generale), in Enc. dir., vol. XXXV, Milano, 1986, p. 819 ss.; ID., Capograssi e la realtà del processo, in AA. VV. (a cura di F. Mercadante), L’individuo, lo stato, la storia. Giuseppe Capograssi nella storia religiosa e letteraria del Novecento, Milano, 1990; ID., Valori permanenti del processo, in Riv. dir. proc., 1989, p. 1 ss.
[26] In questo senso v. L. P. Comoglio, Contraddittorio (Principio del) – I) Diritto processuale civile, in Enc. giur., vol. VIII, Roma, 1988, p. 12.
[27] In questi termini si esprimeva ad es. E. Fazzalari, Diffusione del processo e compiti della dottrina, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, pp. 866-7.
[28] Così F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl. 1952, p. 137 ss.; M. S. Giannini, L’attività amministrativa, Roma, 1962, p. 112.
[29] Il riferimento in questo caso non può che essere a M. Nigro, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica Amministrazione (Il problema di una legge generale sul procedimento amministrativo), in Riv. proc. civ., 1980, p. 252 ss., il quale aveva realizzato un’opera di sistematizzazione dei rapporti intercorsi nelle varie epoche storiche tra procedimento e processo.
[30] Cfr. ad es. Corte Cost., sent. 23 febbraio 1962, n. 13; ID., sent. 6 luglio 1965, n. 59. In argomento, cfr. A.M. Sandulli, Il procedimento, in AA.VV., Trattato di diritto amministrativo (a cura di S. Cassese), p. gen., tomo II, Milano, 2003, 1035 ss.; M.C. Cavallaro, Il giusto procedimento come principio costituzionale, in Foro amm., 2001, 1829 ss.; M. Cocconi, Il giusto procedimento fra i livelli essenziali delle prestazioni, in Le regioni, 2010, 1023.
[31] Sui substantialia processus v. A. Panzarola, Alla ricerca dei substantialia processus, in Rivista di diritto processuale, 2015, vol. 70, fasc. 3, 680-696.
[32] Si pensi agli istituti della motivazione, del termine del procedimento, della comunicazione di avvio, della partecipazione mediante audizione e presentazione di documenti e memorie; ancora, sempre in quest’ottica, particolarmente significativo è il preavviso di rigetto ex art. 10 bis che sembrerebbe trasporre nel procedimento amministrativo l’istituto dell’informazione di garanzia tipica del procedimento penale, così finendo per codificare il diritto di difesa tra le garanzie del procedimento amministrativo. Per un maggiore approfondimento sulle tematiche indicate, si rinvia a G. Berti, Le trasformazioni del procedimento amministrativo, in Dir. e soc., 1996; F. Fracchia, Manifestazioni di interesse del privato e procedimento amministrativo, in Dir. amm., 1996; F. Trimarchi, Considerazioni in tema di partecipazione al procedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 2000, pag. 627; R. Ferrara, Procedimento amministrativo e partecipazione: appunti preliminari, in Foro it., 2000, III, 28; ID., La partecipazione al procedimento amministrativo: un profilo critico, in Diritto Amministrativo, fasc.2, 1 giugno 2017; M.R. Spasiano, La partecipazione al procedimento amministrativo quale fonte di legittimazione dell’esercizio del potere: un’ipotesi ricostruttiva, in Dir. amm., 2002, pag. 283; M. Clarich, Garanzia del contraddittorio nel procedimento, in Dir. amm, n. 1/2004, pp. 70 ss.; ID, Un'applicazione delle norme sul procedimento nel segno di maggiori garanzie per il cittadino, in Guida al diritto, n. 7; M.A. Sandulli, La comunicazione di avvio del procedimento tra forma e sostanza, in Foro amm., fasc.5, 2004, pag. 1595; G. Morbidelli- A. Clarizia, La riforma della legge 241 del 1990 (editoriale), in www.giustamm.it; E. Frediani, Partecipazione procedimentale, contraddittorio e comunicazione: dal deposito di memorie scritte e documenti al «preavviso di rigetto», in Dir. amm., fasc. 4, 2005, pag. 1003; F. Satta, Contraddittorio e partecipazione nel procedimento amministrativo, in Dir. amm., 2010; per una ricostruzione più aggiornata, si rinvia a M.A. Sandulli, Principi e regole dell’azione amministrativa, Giuffrè, 2023.
[33] Si allude a Corte Cost., sent. 23 marzo 2007 n. 103, afferente ad una controversia in materia di spoil system in cui la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime le disposizioni che prevedevano la decadenza automatica degli incarichi di direzione generale alla scadenza del mandato dell’organo politico, evento estraneo alle vicende del rapporto stesso. Secondo la Consulta, tale prassi generava una duplice violazione dell’art. 97 Cost.: da un lato, sotto l’aspetto dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa, atteso che la rimozione del dirigente non si fondava sulla valutazione oggettiva delle qualità e delle capacità professionali dimostrate; dall’altro, sotto il profilo della violazione del principio del giusto procedimento, in quanto al destinatario non venivano garantiti il contraddittorio con l’ente e la possibilità di conoscere la motivazione del provvedimento. Sulla tematica, si rinvia a P. Lombardi, Il provvedimento di nomina del direttore generale di azienda sanitaria tra interesse a ricorrere delle associazioni di categoria, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, in Sanità pubb. e priv.,2010, 75 ss.; F. Castiello, Il principio del giusto procedimento. Dalla sentenza n. 13/1962 alla sentenza n. 104/2007 della Corte costituzionale, in Foro amm.-CdS, 2008, 278; L. Buffoni, Il rango costituzionale del giusto procedimento e l’archetipo del processo, in Quad. cost., 2009, 281 ss.
[34] Così M. Allena, La rilevanza dell'art. 6, par. 1, CEDU per il procedimento e il processo amministrativo, in Dir. proc. amm., fasc.2, 2012, pag. 569.
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