ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I nominativi dei sottoscrittori di una petizione (nota a TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 11 ottobre 2024, n. 329).
di Ippolito Piazza
Sommario: 1. Una sentenza «inquietante»? – 2. Le ragioni favorevoli all’accesso nella pronuncia del TAR. – 3. I nominativi dei firmatari tra pubblicità e tutela dei dati personali. – 4. Strumentalità e limiti dell’accesso difensivo.
1. Una sentenza «inquietante»?
È possibile conoscere i nomi dei firmatari di una petizione rivolta a un consiglio regionale? La risposta sembrerebbe scontata, dal momento che chi firma una petizione si espone personalmente a sostegno di una causa, che proprio dalla somma delle sottoscrizioni individuali trae la propria forza. Quando però a chiedere la lista dei sottoscrittori è un’impresa che prospetta azioni legali nei loro confronti può sorgere qualche dubbio.
Ha destato infatti un certo clamore la decisione del TAR Friuli che ha concesso a un’impresa l’accesso ai nominativi dei firmatari di una petizione indirizzata al Consiglio regionale e rivolta a contestare la costruzione di un nuovo stabilimento siderurgico. È facile intuire quanto sia rischiosa, per il funzionamento di questo istituto di partecipazione popolare, la consapevolezza che la sottoscrizione possa esporre il cittadino firmatario a future azioni giudiziarie.
Un’analisi distaccata della sentenza richiede, però, di guardare alle norme e alle posizioni soggettive fatte valere in giudizio, per inquadrare correttamente la pronuncia e capire se davvero la si possa definire “inquietante”[1]. L’occasione è certamente utile perché un caso tanto singolare permette di riflettere sui limiti del diritto di accesso e, in particolare, del c.d. accesso difensivo.
Per maggiore chiarezza, occorre prima di tutto riassumere la vicenda, che ruota attorno alla ipotesi di costruzione di una acciaieria in una zona industriale che si affaccia sulla laguna di Grado. A fronte di una iniziale apertura alla realizzazione del progetto, la Giunta regionale friulana aveva ritenuto a settembre del 2023 di non darvi più corso, volendo prediligere altri tipi di investimento nell’area. Il progetto di acciaieria era stato nel frattempo avversato da alcuni Comuni del territorio e da comitati di cittadini contrari alla costruzione. Nell’ambito di queste proteste si era inserita anche una petizione (“Petizione contro l’acciaieria”), presentata nel luglio del 2023 al Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia e sottoscritta da più di ventimila cittadini.
L’impresa che in qualità di appaltatrice avrebbe dovuto realizzare l’impianto ha proposto quindi istanza di accesso, ai sensi della legge n. 241 del 1990, allo stesso Consiglio regionale per conoscere la lista dei sottoscrittori della petizione, ritenendo di aver subìto un danno dalla stessa, non solo perché alla petizione è almeno in parte imputata l’interruzione del progetto ma anche per il suo contenuto potenzialmente diffamatorio. L’istanza è stata respinta dal segretario regionale del Consiglio sulla base di due ragioni: in primo luogo, i documenti richiesti rientrano in un procedimento (l’iter delle petizioni presentate al Consiglio regionale) che non è destinato a concludersi con un provvedimento amministrativo e dunque esulerebbero dall’ambito applicativo del diritto di accesso; in secondo luogo, ragioni di riservatezza impedirebbero di rivelare i dati personali dei sottoscrittori della petizione.
La motivazione della sentenza è incentrata su due punti: il regime di pubblicità dei dati di chi sottoscriva una petizione e la strumentalità di questi dati rispetto alla tutela degli interessi giuridici dell’impresa che richiede l’accesso. Si tratta di aspetti logicamente consequenziali: se infatti i nominativi richiesti fossero di per sé pubblici, non ci sarebbe bisogno di sindacare la legittimazione dell’impresa a domandarli. Nel commento ci soffermeremo su entrambi, per capire quanto sia condivisibile la soluzione data dal TAR e, più in generale, per capire se possa trovarsi un equilibrio ragionevole tra l’esigenza di conoscenza e quella di riservatezza.
2. Le ragioni favorevoli all’accesso nella pronuncia del TAR.
Come detto, il Consiglio regionale ha fondato il diniego all’accesso anzitutto sulla natura non amministrativa del documento richiesto. Si tratta tuttavia di un argomento debole, che comprensibilmente il TAR non condivide. La legge n. 241 del 1990 dà infatti una definizione molto ampia di documento amministrativo ai fini del diritto di accesso, comprendendovi «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale» (art. 22, c. 1, lett. d)[2].
Per essere accessibile, dunque, il documento non deve necessariamente rientrare in un procedimento amministrativo: ciò che conta è invece che esso sia “detenuto” da una pubblica amministrazione, quale certamente è il Consiglio regionale, e che concerna attività di pubblico interesse. Non sembra quindi rilevante, per escludere le petizioni dall’ambito dell’accesso, che il procedimento non sia destinato a concludersi con un provvedimento amministrativo ma con l’esame della petizione da parte del Consiglio regionale. Da questo punto di vista, è istruttiva l’esperienza dell’ordinamento dell’Unione europea, nel quale – anche in ragione della distinzione non sempre netta tra funzioni esecutive e legislative[3] – il diritto di accesso è esercitato sia nei confronti dei documenti amministrativi, sia nei confronti di quelli in senso lato “legislativi”[4], che sono addirittura sottoposti a un regime di pubblicità rafforzato[5].
Stabilito che le petizioni rivolte al Consiglio regionale sono soggette alla normativa sul diritto di accesso, diviene allora decisivo capire se siano conoscibili i nomi dei sottoscrittori e, pertanto, quale sia il regime di pubblicità di questi dati. Qui sta uno dei profili di interesse della pronuncia.
Ad avviso del TAR l’elenco dei sottoscrittori è un documento pubblico «per la sua intrinseca natura». Ciò per due motivi: il primo riguarda il fatto che le petizioni, essendo dirette a «promuovere o sollecitare interventi “concernenti comuni necessità” o per la “soluzione di problemi di interesse della collettività regionale”», attengono alle funzioni di indirizzo e controllo politico del Consiglio regionale e «all’attività e ai processi decisionali dell’amministrazione», che sono «in toto governati dai principi di pubblicità e trasparenza dei relativi atti».
Vi è poi un motivo sostanziale che spinge verso la pubblicità dei nomi dei sottoscrittori: secondo il TAR, l’obiettivo delle petizioni è quello di «influenzare e arricchire il processo decisionale pubblico attraverso richieste e proposte che traggono la loro legittimazione proprio dai soggetti che le supportano». Prosegue il TAR affermando che è «la stessa indicazione dei sottoscrittori, non solo nel loro numero, ma anche nella loro precisa individualità – quali soggetti portatori di specifici interessi, conoscenze responsabilità – che conferisce “forza” persuasiva alla petizione e, in definitiva, ne connota i tratti». Dal punto di vista dei sottoscrittori, la firma della petizione comporterebbe dunque l’accettazione, «seppur implicitamente e in ragione della natura dell’atto che controfirmano», della pubblicazione del proprio nominativo.
I sottoscrittori rinuncerebbero cioè alla protezione dei dati personali rendendoli «manifestamente pubblici», circostanza che determina la liceità del trattamento dei dati ai sensi dell’art. 9, par. 2, lett. e) del GDPR[6].
Nella tesi del TAR, i sottoscrittori della petizione si troverebbero in una situazione analoga a quella degli autori di un esposto alla pubblica amministrazione[7], per i quali non esisterebbe un diritto all’anonimato: il principio di trasparenza consente infatti all’interessato di conoscere l’intero contenuto delle segnalazioni di cui è stato oggetto, inclusi i nomi dei segnalanti e fatta eccezione per le sole ipotesi in cui da tale conoscenza possano sorgere «azioni discriminatorie o indebite pressioni»[8].
In effetti, si riscontravano in passato due orientamenti nella giurisprudenza amministrativa: l’uno, favorevole alle ragioni della trasparenza, riteneva accessibile il nome del segnalante, che si “espone” nei confronti della pubblica amministrazione[9]; l’altro, favorevole alla riservatezza, negava invece l’accessibilità del nominativo, dal momento che l’esposto è solo un atto di impulso che resta formalmente estraneo all’attività amministrativa[10]. Sembra prevalere oggi un orientamento mediano[11], lo stesso cui aderisce il TAR nella sentenza in commento, in base al quale l’accesso al nominativo non è si per sé escluso né consentito: occorre, per poter concedere l’accesso, che il richiedente dimostri che la conoscenza del nominativo è necessaria e strumentale rispetto a una propria esigenza difensiva. Quest’ultimo orientamento fa corretta applicazione delle indicazioni offerte dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in materia di diritto di accesso c.d. difensivo: in base all’art. 24, c. 7, legge n. 241 del 1990, che garantisce «comunque» l’accesso ai documenti «la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici», l’amministrazione deve compiere un «rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità» tra documento e interesse che si intende tutelare ma, allo stesso tempo, le è preclusa ogni «ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto» nell’eventuale successivo giudizio instaurato dal richiedente[12]. L’accesso difensivo è pertanto precluso solo nei casi di «evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990».
In sintesi, il richiedente è tenuto a dimostrare che il documento gli è necessario per tutelare i propri interessi, cioè che sussiste un nesso di strumentalità tra il documento e la sua esigenza difensiva; l’amministrazione può (e deve) sindacare soltanto in astratto simile strumentalità, senza spingersi a giudicare la rilevanza del documento rispetto alla ammissibilità o alla fondatezza di una successiva iniziativa giurisdizionale[13].
Ecco quindi che, in materia di esposti, la giurisprudenza più recente tende a concedere l’accesso al nominativo di chi ha presentato un esposto all’amministrazione qualora il richiedente riesca a dimostrare che il nominativo è necessario per intraprendere un’azione giudiziaria, per esempio per presentare una querela o per domandare il risarcimento del danno prodotto dall’esposto. In assenza del nesso di strumentalità, l’accesso deve invece essere negato, rischiandosi altrimenti di dar tutela a una pura curiosità o, peggio, a un intento ritorsivo[14].
La stessa ricostruzione viene trasposta dal TAR Friuli al caso in questione: i «principi di trasparenza e responsabilità non possono quindi ammettere la preclusione all’accesso alle petizioni e ai relativi documenti accompagnatori, salvo che, in particolari situazioni, i sottoscrittori documentino, quale conseguenza della pubblicazione della loro sottoscrizione, possibili azioni discriminatorie o indebite pressioni a loro danno».
Nel caso di specie, ad avviso del TAR, le potenziali azioni giudiziarie prospettate dalla ricorrente costituiscono il «legittimo esercizio di un diritto» e non invece «pretestuose intimidazioni» o «minaccia di un male ingiusto». Il TAR riconosce, invece, che l’impresa ha dimostrato il proprio interesse specifico e attuale rispetto al documento e ai nominativi dei firmatari «in connessione con l’impatto che la stessa può aver avuto sugli esiti dei procedimenti amministrativi relativi all’acciaieria»; inoltre, la stessa impresa ha pure «connotato […] il proprio interesse ostensivo anche in chiave difensiva, ai sensi dell’art. 24, c. 7, della l. n. 241/1990 […]: la conoscenza dei nominativi dei soggetti da convenire in giudizio è infatti indispensabile quale che sia l’azione da instaurare».
L’idea che i nominativi dei sottoscrittori debbano essere resi noti è, poi, rafforzata dall’analisi delle norme riguardanti la pubblicità degli atti del Consiglio regionale, che si rinvengono nel Regolamento interno del Consiglio regionale friulano. In particolare, l’art. 179 bis, c. 1 bis, di tale regolamento dispone che alcuni atti, tra i quali quelli che il Presidente del Consiglio riceve per sottoporli all’esame degli organi consiliari, devono essere direttamente e integralmente pubblicati sul sito internet istituzionale. Vero è che lo stesso comma stabilisce anche delle ipotesi di deroga all’obbligo di pubblicazione: in particolare, il Presidente del Consiglio può disporre la non pubblicazione totale o parziale di atti «contenenti dati personali non divulgabili a norma della disciplina a tutela della riservatezza dei dati personali»; la disposizione aggiunge inoltre che «gli atti prodotti da soggetti esterni nell’ambito delle procedure di consultazione delle Commissioni sono pubblicati con le modalità di cui al primo periodo, salvo che l’interessato non comunichi il proprio diniego alla pubblicazione». Tuttavia, rileva il TAR, nel caso in questione nessuna di queste deroghe è stata attivata e, in particolare, nessuno dei sottoscrittori ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla pubblicazione.
Nella circostanza l’elenco dei sottoscrittori non era stato allegato al documento sottoposto all’esame della commissione consiliare: per il TAR si tratta comunque di una «evenienza di mero fatto» che non altera la natura pubblica del documento (e del resto è lo stesso art. 134, c. 2, del citato regolamento a stabilire che le petizioni siano accompagnate dalle autocertificazioni di nascita, residenza e cittadinanza italiana dei firmatari).
Dalla ricostruzione della motivazione emerge come la sentenza sia ampiamente argomentata e ragionevole e, a prima vista, anche condivisibile. A un più attento esame, però, sembrano esservi ragioni per discostarsi dalla ricostruzione del TAR, sia con riguardo al regime di pubblicità dei nominativi dei sottoscrittori di una petizione, sia con riguardo all’applicazione, nel caso di specie, dell’art. 24, c. 7, della legge n. 241 del 1990. Proveremo a indicare queste ragioni nei prossimi paragrafi.
3. I nominativi dei firmatari tra pubblicità e tutela dei dati personali.
La prima questione da affrontare riguarda il regime di pubblicità dei nominativi dei sottoscrittori della petizione: come infatti accennato in premessa, se la lista dei firmatari fosse di per sé pubblica avrebbe poco senso guardare all’applicazione del diritto di accesso difensivo (sarebbe del resto esercitabile, senza bisogno di motivare l’istanza, il diritto di accesso civico)[15]. Come detto, i giudici friulani ritengono che la lista dei firmatari sia pubblica e non sia stata allegata alla petizione soltanto per una «evenienza di mero fatto». La mancata allegazione può invece fondarsi su argomenti giuridicamente rilevanti, collegati alla tutela dei dati personali.
In primo luogo, s’è visto come lo stesso regolamento interno del Consiglio regionale contempli ipotesi di non pubblicazione, totale o parziale, di documenti consiliari, quando questi contengano dati personali non divulgabili. È vero, come affermato dal TAR, che il Consiglio o il Presidente non hanno formalmente “attivato” una delle ipotesi di deroga alla pubblicazione, tuttavia l’attivazione potrebbe ritenersi implicita nella mancata allegazione dell’elenco dei sottoscrittori alla petizione. Così pure il fatto che i sottoscrittori non abbiano manifestato il loro dissenso rispetto alla pubblicazione (ma, ci si potrebbe domandare, ne erano consapevoli?) non comporta con certezza che essi li abbiano resi «manifestamente pubblici». In altre parole, sicuramente la sottoscrizione di una petizione comporta il sostegno personale e non anonimo di una causa; ma la sottoscrizione non implica anche il consenso alla pubblicazione dei dati personali da parte dell’istituzione a cui la petizione è diretta[16].
Con ciò si intende dire che sono possibili petizioni anonime? Tutt’altro: si è da sempre sostenuto che una petizione deve essere firmata, «apparendo evidente l’assurdità di una istanza coperta dall’anonimato»[17]. D’altronde è sufficiente cercare sui siti istituzionali le petizioni presentate alle Camere ai sensi dell’art. 50 Cost. per rendersi conto che esse sono sempre accompagnate dai nomi dei proponenti. Bisogna semmai domandarsi quale sia il senso della sottoscrizione della petizione: proseguiva l’autore poc’anzi citato dicendo che la firma serve «anche perché occorre accertare la titolarità di esercizio di tale diritto»[18]. Ebbene, così come accade per le formalità stabilite dalla legge per la raccolta delle firme a sostegno dei referendum previsti dalla Costituzione[19], il fatto che le sottoscrizioni delle petizioni in oggetto debbano essere accompagnate dalla autocertificazione dei firmatari non ha tanto il senso di rendere pubbliche le loro generalità, bensì di renderle verificabili. L’autocertificazione non è rivolta a tutti gli altri cittadini ma è rivolta all’istituzione (nel nostro caso il Consiglio regionale) che potrà valutarne l’autenticità, così da esser sicura della genuinità del sostegno popolare a una certa causa. Per tornare al parallelo con l’esperienza europea, si consideri che nel caso delle petizioni presentate al Parlamento europeo ai sensi degli artt. 227 del TFUE e 44 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, è espressamente prevista la possibilità di renderle anonime[20].
Vi è poi un altro elemento di cui tener conto: almeno una delle firme che accompagnano la petizione al Consiglio regionale friulano dev’essere autenticata[21], il che sembra costituire una garanzia minima sulla sicura provenienza dell’atto da (almeno) un titolare del diritto di petizione. Se, come sostiene in maniera condivisibile il TAR, la legittimazione delle petizioni è tratta dalla «precisa individualità» dei sottoscrittori, tale individualità deve essere presente alla istituzione e non, qualora si oppongano ragioni di tutela dei dati personali, anche all’esterno di essa. Del resto, la petizione in oggetto è un atto di mero impulso, rivolto proprio e solo al Consiglio regionale, che rimane del tutto libero riguardo al seguito da dare (o non dare) alla stessa.
A dispetto, quindi, di una immediata percezione che spinge a ritenere di per sé pubbliche le firme in calce a una petizione, emerge un quadro più complesso che sembra andare nella direzione opposta.
4. Strumentalità e limiti dell’accesso difensivo.
Veniamo allora alla seconda questione: posto che i nomi dei sottoscrittori non sono per loro natura pubblici, occorre capire se siano accessibili ai sensi dell’art. 24, c. 7 della legge n. 241 del 1990. S’è detto che il diritto di accesso difensivo consente «comunque» al richiedente di ottenere i documenti che siano necessari al fine di curare o difendere i propri interessi giuridici. È quindi direttamente il legislatore a stabilire – qualora ricorra tale strumentalità difensiva del documento – la prevalenza dell’accesso sulle contrapposte esigenze di riservatezza, così che all’amministrazione è preclusa ogni attività di bilanciamento[22]. Nel caso di specie, ad avviso del TAR, la dimostrazione della strumentalità dei dati richiesti è stata fornita dalla società ricorrente («sebbene soltanto nel presente giudizio in termini chiari e precisi») e a nulla varrebbe, per negare l’accesso, l’eventuale dissenso dei sottoscrittori[23].
Eppure, a fronte di elementi all’apparenza univoci, esistono ragioni che inducono a ritenere recessivo il diritto di accesso difensivo.
Anzitutto, il fatto che il legislatore abbia stabilito la prevalenza di quest’ultimo rispetto a eventuali interessi contrari[24] non significa che si tratti di un diritto privo di limitazioni[25]: anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 21 del 2020), pur riconoscendo che la fattispecie dell’accesso difensivo possa operare «quale eccezione al catalogo di esclusioni» previste per il “normale” accesso documentale, ha parlato di «opportuni temperamenti in sede di bilanciamento in concreto dei contrapposti interessi»[26]. E occorre altresì notare come lo stesso comma 7 prosegua stabilendo che «nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall'articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale». Tra i dati sensibili, rispetto ai quali l’accesso è possibile solo in casi di “stretta indispensabilità”, rientrano anche quelli idonei a rivelare le opinioni politiche[27]: forse non è il caso della petizione in questione, tuttavia il diritto di petizione è inquadrato da tempo come diritto politico[28]. Da un lato, una simile connotazione dovrebbe indurre a garantire al diritto di petizione una tutela forte (considerato peraltro il legame che sussiste con la libertà di manifestazione del pensiero[29]), anche nei confronti del diritto di accesso[30]. Dall’altro, la natura politica del diritto sembra allontanare il caso delle petizioni da quello degli esposti alle pubbliche amministrazioni: questi ultimi sono, infatti, rivolti a organi amministrativi, generalmente sottoscritti da un singolo privato e indirizzati nei confronti di altri privati precisamente individuati.
In secondo luogo, per quanto riguarda la strumentalità dell’accesso difensivo, si è già detto che il sindacato dell’amministrazione (e del giudice) non possa attenere alla fondatezza delle iniziative che il richiedente voglia intraprendere, cionondimeno deve trattarsi di un sindacato rigoroso. E allora, come già avvenuto nella giurisprudenza amministrativa, il giudice può valutare l’astratta connessione dei documenti richiesti rispetto alla proponibilità di un’azione giudiziaria. In questo caso, la società ritiene di essere diffamata dal contenuto della petizione e deve quindi esserle concesso di attivare la tutela giurisdizionale, ai sensi dell’art. 24 Cost., sia in sede penale che in sede civile.
La mancata conoscenza dei nomi dei sottoscrittori non appare, però, un ostacolo insormontabile per l’accertamento della responsabilità penale. È ben possibile, infatti, sporgere comunque querela e qualora «l’Autorità Giudiziaria dovesse riscontrare fattispecie penalmente perseguibili attribuibili a soggetti individuati, sarebbe doveroso all’esito del procedimento formulare un’imputazione dandone avviso alla parte offesa»[31].
Per quanto riguarda la responsabilità civile, questa sembra doversi escludere per ciò che riguarda la mancata realizzazione dell’impianto (il TAR parla invece dell’«impatto che la stessa [petizione] può aver avuto sugli esiti dei procedimenti amministrativi relativi all’acciaieria»): essa sembra infatti esser dipesa dalla volontà politica espressa dagli organi della Regione, che può essere stata condizionata solo in via di fatto dal contenuto della petizione[32]. Analogamente, la giurisprudenza ha escluso l’accessibilità del nome dell’autore di un esposto quando i danni che il richiedente riteneva di aver subìto non discendevano dall’esposto ma dalla successiva attività posta in essere dall’amministrazione[33].
Resta, però, che i nominativi dei sottoscrittori sono necessari per poter intraprendere un’azione civile per i danni eventualmente patiti in conseguenza del contenuto diffamatorio della petizione[34]: per quanto complessa possa apparire un’azione nei confronti di tanti soggetti, essa è certamente astrattamente proponibile e ciò dovrebbe essere sufficiente ai fini del rilascio dei documenti richiesti. Tuttavia, è da dire che una simile azione non è di per sé esclusa, perché la società ricorrente conosce i nomi di alcuni almeno dei sottoscrittori della petizione (i nomi dei proponenti sono pubblici e comunque vi sono dei controinteressati costituiti nel giudizio di fronte al TAR): dunque, il fatto che l’azione non sia in radice negata pare escludere una lesione del diritto di difesa dell’art. 24 della Costituzione, che può essere soddisfatto bilanciandolo con gli altri diritti rilevanti che emergono nella vicenda (e senza considerare che il processo civile conosce forme di integrazione del contraddittorio). Come detto, il diritto di accesso non è privo di limiti e richiede presupposti – la cui esistenza deve essere rigorosamente vagliata – che nel caso di specie non sembrano sussistere.
[1] https://verdisinistra.it/gruppo-danieli-zanella-inquietante-sentenza-tar-fvg-contro-regione-spero-consiglio-di-stato-ripari-vulnus/.
[2] Sul tema si può rinviare, in generale, a A. Corrado, Il principio di trasparenza e i suoi strumenti di attuazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, IV ed., Milano, 2023, 192 ss.
[3] Proprio con riferimento alla trasparenza, v. P. Leino, Secrecy, Efficiency, Transparency in EU Negotiations: Conflicting Paradigms?, in Politics and Governance, 3/ 2017, 9.
[4] Si tratta dei documenti formati o ricevuti dalle istituzioni europee nel corso di una procedura legislativa, i quali dovrebbero essere resi direttamente accessibili in forma elettronica o attraverso un registro (art. 2, par. 6, Reg. (CE) n. 1049/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 2001; si veda anche il considerando n. 6 dello stesso regolamento, secondo cui «Si dovrebbe garantire un accesso più ampio ai documenti nei casi in cui le istituzioni agiscono in veste di legislatore […]»).
[5] In proposito, e per ulteriori riferimenti, sia consentito rinviare a I. Piazza, Un altro passo verso la trasparenza del processo legislativo europeo, in Giorn. dir. amm., 2023, 499 ss.
[6] Reg. UE 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016.
[7] Sul tema sia consentito rinviare a I. Piazza, Accesso difensivo e tutela dei dati personali: il caso dei nominativi nelle segnalazioni alla p.a., in questa Rivista, 2022. Il richiamo alla giurisprudenza su segnalazioni ed esposti è effettivamente necessario, data la difficoltà di rinvenire precedenti sullo specifico tema delle petizioni: per un accenno, si può vedere TAR Lombardia – Brescia, 7 marzo 2005, n. 128, che riguardava comunque la peculiare ipotesi di diritto di accesso dei consiglieri comunali rispetto agli atti detenuti dal Comune.
[8] Il TAR cita in proposito la recente pronuncia del Cons. St., IV, 1 marzo 2022, n.1450.
[9] Tra altre, v. Cons. St., sez. V, 28 settembre 2012, n. 5132, TAR Toscana, sez. I, 3 luglio 2017, n. 898, TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 3 agosto 2017, n. 584.
[10] Si vedano, per esempio, TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 17 ottobre 2018, n. 772 e TAR Veneto, sez. III, 20 marzo 2015, n. 321.
[11] Si veda Cons. St., IV, 1 marzo 2022, n. 1450 e, in precedenza, Cons. St., sez. III, 1 marzo 2021, n. 1717.
[12] Cons. St., Ad. plen., 18 marzo 2021, n. 4, sulla quale si vedano V. Mirra, Accesso difensivo e riservatezza: due diritti in conflitto, in Foro it., 10/2021, 550 ss., M. Sica, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e processo civile. Una nuova sentenza dell’adunanza plenaria, in Riv. dir. proc., 2021, 1412 ss. e G. Delle Cave, L’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021 tra potere valutativo della P.A. e apprezzamento del giudice, in questa Rivista, 2022.
[13] Da ultimo, v. Cons. St., VI, 6 dicembre 2024, n. 9780. Lo stesso TAR Friuli, nella parte conclusiva della sentenza, sottolinea che «la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione della fondatezza o ammissibilità delle prospettate azioni giudiziarie o delle iniziative che l’istante intende percorrere, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso». Sul tema, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019, spec. 23.
[14] In tal senso, Cons. St., n. 1717/2021; TAR Emilia Romagna – Bologna, II, 8 febbraio 2022, n. 136.
[15] Che, come noto, spetta a «chiunque» (art. 5, c. 2, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33). Sul diritto di accesso civico generalizzato (c.d. FOIA) la letteratura è vasta: qui si rinvia unicamente ai volumi di A. Corrado (a cura di), Conoscere per partecipare: la strada tracciata dalla trasparenza amministrativa, Napoli, 2018, G. Gardini, M. Magri (a cura di), Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Bilancio a tre anni dall’introduzione, Sant’Arcangelo di Romagna, 2019, e, per una prospettiva comparata, di B.G. Mattarella, M. Savino (a cura di), L’accesso dei cittadini. Esperienze di informazione amministrativa a confronto, Napoli, 2018.
[16] Sul trattamento dei dati personali in materia di propaganda elettorale e comunicazione politica, inclusi i dati raccolti in occasione di iniziative come petizioni e richieste di referendum, si veda il Provvedimento del Garante per la Protezione dei Dati Personali del 18 aprile 2019.
[17] G.P. Meucci, Petizione (Diritto di), in Noviss. Dig. It., vol. XIII, Torino, 1966, 6.
[18] G.P. Meucci, Petizione (Diritto di), cit., 6.
[19] Legge 25 maggio 1970, n. 352.
[20] https://www.europarl.europa.eu/petitions/it/faq/pdf. Sulle petizioni al Parlamento europeo, v. G.E. Vigevani, Art. 50, in S. Bartole, R. Bin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008, 514 s.
[21] Art. 134, c. 2, del Regolamento interno del Consiglio regionale.
[22] Sul punto, v. F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva, cit., 18 s.: «Nell’ipotesi dell’accesso gergalmente detto defensionale, la regola di composizione di un ipotetico conflitto è dunque fissata direttamente dal legislatore e non è pertanto più rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione; con la conseguenza che l’Amministrazione non ha più il potere di stabilire essa quale sia l’interesse prevalente nel caso concreto. […] La regola è quindi che l’accesso, strumentale – si ripete – al soddisfacimento di un bisogno di tutela proprio di una situazione giuridica soggettiva, prevalga. L’eccezione è che rimanga insoddisfatto. Perché venga impedito è necessario che si contrapponga un interesse di “pari rango”, che vi sia cioè una eccezione espressamente contemplata sul piano normativo; e non già una semplice esigenza discrezionalmente apprezzabile da parte della pubblica amministrazione». Di «obbligo» per l’amministrazione parla espressamente M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, Bari, 2020, 102 s.: «Il comma 7 dell’art. 24, l. n. 241/90 introduce dunque una norma di chiusura del sistema: esso pone un preciso limite alla discrezionalità della pubblica amministrazione obbligando la stessa ad accordare l’accesso pur a fronte di esigenze di riservatezza che si opporrebbero all’ostensione dei documenti richiesti. A fronte della pretesa conoscitiva del richiedente (in presenza delle dimostrate necessità defensionali o, nel caso di interessi sensibili e giudiziari, in presenza di “stretta indispensabilità”) si configura dunque un obbligo in capo alla pubblica amministrazione di provvedere in senso favorevole all’istante (consentendo allo stesso il più ampio “accesso” a fronte della mera “visione” dei documenti, contemplata nella formulazione previgente della disposizione normativa) senza che possa essere operato alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che l’interessato potrebbe eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso procedimentale e pur a fronte di eventuali indicazioni contrarie provenienti dal controinteressato che abbia segnalato la sussistenza di eventuali profili ostativi all’accesso».
[23] Sui rapporti tra disciplina dell’accesso e tutela dei dati personali nell’attività dell’amministrazione, v. F. Francario, Protezione dei dati personali e pubblica amministrazione, in questa Rivista, 2021; Id., Disposizioni “urgenti” in materia di protezione dei dati personali. Brevi note sul trattamento dati per finalità di pubblico interesse, sempre in questa Rivista, 2021; F. Cardarelli, Commento all’art. 2-ter, D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in R. D’Orazio, G. Finocchiaro, O. Pollicino, G. Resta (a cura di), Codice della privacy e data protection, Milano, 2021, 1012 ss.
[24] Circostanza che ha indotto la giurisprudenza a interpretare in modo particolarmente serio l’accertamento dei requisiti che legittimano l’esercizio del diritto e, in particolare, del nesso di strumentalità tra documento richiesto ed esigenza difensiva: si rinvia sul punto a I. Piazza, Accesso difensivo e tutela dei dati personali, cit., § 4.
[25] E. Carloni, Il paradigma trasparenza. Amministrazioni, informazioni, democrazia, Bologna, 2022, 173: «È una formulazione, quella dell’art. 24, c. 7, che va letta in rapporto con i limiti previsti dallo stesso articolo, anche se sul punto la giurisprudenza ha assunto posizioni prevalentemente più restrittive: sicuramente riferibile al limite «relativo» della protezione dei dati personali, questo contro-limite è talvolta inteso come applicabile a tutti i limiti relativi, ma pare più persuasivo in un’ottica sistematica ritenerlo altresì applicabile a tutti i limiti, sia «relativi» che non, sempre però in un’ottica di bilanciamento e proporzionalità». Lo stesso A. aggiunge (ivi, nota 96): «Affermare la forza dell’accesso documentale non significa, in ogni caso, sancirne la prevalenza assoluta e indiscriminata, rispetto a qualsivoglia limite».
[26] Si rimanda ancora a E. Carloni, Il paradigma trasparenza, cit., 173, che ricorda come il problema dei limiti dell’accesso difensivo si sia posto anche in un caso particolarmente delicato, nel quale veniva in questione la riservatezza delle fonti giornalistiche: il riferimento è alla pronuncia del TAR Lazio, III, 18 giugno 2021, n. 7333 (sulla quale v. M. Sinisi, L’accesso defensionale a materiali e contenuti informativi in possesso della RAI (il caso Report), in questa Rivista, 2021) e alla successiva sentenza del Cons. St., VI, 11 aprile 2022, n. 2655.
[27] Art. 9, Reg. UE 2016/679.
[28] In tal senso, tra altri, G.P. Meucci, Petizione (Diritto di), cit., 8: «È con l’invio e con la presa in esame della petizione che il cittadino si inserisce, partecipandovi, alla funzione di indirizzo politico in quanto viene a far presenti istanze di carattere generale che le Camere sono tenute ad esaminare dopo che le Commissioni hanno riferito». Sulla natura del diritto di petizione, oltre che per un inquadramento in chiave comparata dell’istituto, v. R. Orrù, La petizione al pubblico potere tra diritto e libertà. Evoluzione storica e profili comparatistici, Torino, 1996, spec. 216 ss.
[29] P. Stancati, Petizione (dir. cost.), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 599. Si veda anche A. Coccia, Art. 50, in Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Rapporti politici, Tomo I, art. 48-52, Bologna-Roma, 1992, 53: «[…] anche la petizione rivolta alle Camere rientra, in quanto tale, nelle libere espressioni del pensiero individuale o collettivo e, per questo aspetto, si trova accomunata nella medesima disciplina di carattere costituzionale e legislativo». Sul diritto alla segretezza delle proprie opinioni e, in generale, sul tema della libertà di manifestazione del pensiero ci si limita al rinvio a P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, spec. 435 ss.
[30] Sul rapporto tra petizioni e privacy, v. già P. Stancati, Petizione (dir. cost.), cit., 605.
[31] In questi termini, nel caso di un esposto alla pubblica amministrazione, la già citata sentenza del TAR Emilia Romagna – Bologna, II, 8 febbraio 2022, n. 136.
[32] Con riferimento alle petizioni ex art. 50 Cost., ma con ragionamento valido anche per il nostro caso, v. P. Stancati, Petizione (dir. cost.), cit., 601 s.: «Se si esclude, infatti, che la stessa iniziativa legislativa produca un vincolo nei confronti del Parlamento, deve, a maggior ragione, escludersi che lo produca la petizione. Pertanto l’iter procedimentale suscitato dalla petizione trova in questa solo una causa «occasionale» non giuridica, ed è direttamente e formalmente imputabile alle Camere e non al titolare del diritto in esame. Solo in senso latissimo potrebbe dunque l’attività delle commissioni dirsi provocata dalla petizione». Allo stesso modo, v. P. Caretti, De Siervo, Diritto costituzionale e pubblico, V ed., Torino, 2023, 151 s., che parlano, anche riguardo all’esperienza regionale, di «scarsissima utilità» rivelata dall’istituto delle petizioni.
[33] Si veda ancora TAR Emilia Romagna – Bologna, II, 8 febbraio 2022, n. 136.
[34] La relativa azione potrebbe anche essere esercitata in sede penale: varrebbe allora il discorso fatto poco sopra circa la possibilità di arrivare a conoscere gli autori della diffamazione attraverso l’autorità giudiziaria.
Una polpetta avvelenata è il dono che il governo Meloni riserva alle donne per l’8 marzo 2025. Lo schema di disegno di legge governativo appena diffuso è un dono a costo zero (la chiamano invarianza finanziaria!) perché consiste – per l’ennesima ulteriore volta, come documentiamo da tempo nella nostra Cronologia critica delle fonti legislative – nella modifica di norme di natura penale, sempre più repressive e severissime (“cattivismo legislativo”) senza un filo conduttore organico. Il fulcro qui è la previsione dell’ergastolo per chiunque (soggetto neutro) uccide “una donna”. Tale previsione è ammantata dalla innovazione linguistico/normativa dell’introduzione per la prima volta nella legge penale del lemma “femminicidio”. Il Governo ne ha formulato una definizione d’imperio, alla faccia di tutte le discussioni in proposito, in ambito politico/criminologico/giuridico: è riferito solo alla donna, in una logica rigidamente binaria, con rinvio – senza fornire alcuna specificazione definitoria – ai concetti di “discriminazione”, “odio”, “in quanto donna”, “espressione della sua personalità”. Nessuna chiarezza e precisione, come le norme penali invece esigerebbero. E, comunque, nessuna considerazione di abolizionismo, giustizia trasformativa, giustizia riparativa, diritto penale minimo… e, men che meno, del principio di funzione rieducativa della pena.
Nessuna attenzione preventiva. Eppure il problema attuale non è certo nominare e punire il femminicidio, ma farne diminuire i numeri, evitarlo e prevenirlo con politiche strutturali, che agiscano sul piano sociale e culturale. Il piano simbolico penale non ha alcun effetto di deterrenza: la penalistica seria e sovranazionale lo dice e dimostra da anni. Ma l’exploit governativo serve a distrarre dai problemi vitali, dalle torsioni antidemocratiche e spinge a parlar d’altro; è un esercizio di falso attivismo che, rafforzando logiche securitarie già da tempo praticate con nuove (mal scritte, e poi mal corrette) ipotesi di reato, aumenti delle pene, nuove aggravanti, riduzione dei bilanciamenti tra circostanze accessorie, norme penalistiche d’eccezione, rinfocolano e attizzano il desiderio di carcere senza la chiave, prospettata come soluzione risolutiva, ovviamente destinata solo a chi disturba il potere politico/finanziario e offende il suo “decoro”.
La pretesa e rigida tutela delle vittime (nel titolo del Ddl) si ritorce come un boomerang contro corpi e menti liberi, inquadrandoli in schemi eterodeterminati. Procedibilità d’ufficio, interventi forzosi e accelerazioni dei tempi in nome di tensioni vittimologiche, che nella effettività non sempre sono desiderate dalle protagoniste, se considerate nella loro soggettività e individualità. Ormai il potere esecutivo procede in via legislativa in modo del tutto frammentario (prima stalking, poi mutilazioni genitali, e poi matrimonio forzato, e poi ancora diffusione di immagini sessualmente esplicite e oltre; ora – sempre separatamente – violenza sessuale, molestie, e adesso femminicidio) e soprattutto in modo disorganico. Invano la Prima Presidente della Corte di Cassazione chiede il “fermo biologico” di simile metodo di novellazione a singulto, almeno per stabilizzare il panorama normativo.
Per parte nostra da tempo segnaliamo la necessità di una rivisitazione organica di tutta la materia della violenza contro le donne basata sul genere, per usare la dizione della Convenzione Istanbul 2011 (nel titolo del Ddl. si dice violenza “nei confronti” delle donne?!). Da tempo contestiamo la proclamata “completezza” del nostro sistema penale, che costituisce il presupposto per valorizzare la richiesta di moltiplicare l’impegno sulla attività di formazione professionale degli operatori tutti coinvolti. Anche in questa bozza non manca una norma in tema di formazione, e in particolare dei magistrati (ovviamente sempre a costo zero!).
Non manca nella bozza un incremento dei già numerosi obblighi previsti per legge di comunicazione alla parte offesa nel corso delle varie fasi processuali. È questa l’ultima in ordine cronologico di una serie di disposizioni sulle comunicazioni (già nel codice rosso e nel codice rosso rafforzato), ma possiamo prevedere che non sarà il definitivo. In ogni caso consideriamo che questo susseguirsi legislativo – che prosegue ad oggi dal 2009 dello stalking – sia la dimostrazione migliore della “non completezza” del nostro sistema giuridico, nella parte in cui regola la emersione di fatti di violenza (contro le donne basata sul genere) che si risolvono in un processo penale o del lavoro o civile/separativo (e minorile).
Non servono scoop governativi a cadenza mediatica, e tantomeno nel caso di leggi penalistiche. Neppure ci convince il sistema in corso in Parlamento, quello delle audizioni, perché opera su linee parallele che non si confrontano. Riusciamo invece a promuovere una modalità di ampio respiro politico-culturale, che consenta di addivenire a una riforma seriamente elaborata e discussa trasparentemente in tutte le sedi coinvolte e autorevoli? Intendiamo non solo Parlamento e Governo e Accademia, ma gli operatori tutti, pubblici e privati, singoli e associati, che agiscono sul campo, mettendo insieme tutti i vari Osservatori e Tavoli, ormai presenti in tanti territori.
Contributo già apparso sulla Rivista Studi sulla questione criminale online: Virgilio, M. (2025), “Nominare il femminicidio. Non in nostro nome”, in Studi sulla questione criminale online, al link https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2025/03/10/nominare-il-femminicidio-non-in-nostro-nome/.
Immagine: particolare da Suzanne Valadon, Portrait de Marie Coca et sa fille, olio su tela, 1913, Musée des Beaux-Arts de Lyon.
Il drammatico attacco in atto alla magistratura, alla sua indipendenza e alla sua stessa funzione in uno Stato di diritto, richiede, a mio giudizio, una riflessione urgente dei giuspubblicisti. Sono sollecitato non solo dai comportamenti e dagli atti senza precedenti di governo e maggioranza parlamentare (con il consenso di pezzi di opposizione). Ma dall’atteggiamento dei mezzi di comunicazione di massa (il Corriere della Sera che dà per scontata una “guerra di trent’anni”, a partire cioè da Mani pulite, tra “politica e magistratura”) e da posizioni di non pochi giuristi (di recente un pezzo di Pier Luigi Portaluri sul Foglio del 2 febbraio, che sposa la tesi, già sostenuta da Sabino Cassese con “Il governo dei giudici”, della volontà dei magistrati di sostituirsi al potere politico).
Credo sia necessario superare una posizione ricorrente. Che tende sì a segnalare la gravità della violazione di diritti fondamentali da parte di governi illiberali (non più solo Orban e la Polonia di Kaczyński, ma Meloni, Milei, oggi Trump, con grande dispiegamento di mezzi), valorizzando il lavoro di monitoring europeo sullo Stato di diritto; dando, però, per scontato che la magistratura, in fondo, ha qualche responsabilità in ciò che è successo, senza mai interrogarsi su ciò che sta effettivamente accadendo. Registro anche una forte sensibilità e mobilitazione dei costituzionalisti, mentre gli amministrativisti sembrano invece meno consapevoli dei rischi che corriamo.
Per questo parto da alcune considerazioni semplificate, ma nette. Intanto non c’è nessun complotto ordito dalla magistratura nel suo complesso. Convincere 9.000 magistrati ad operare contro governo e Parlamento per sostituirsi ad essi mi sembra impresa ardua. Resa finora impossibile proprio dall’indipendenza della magistratura. Paradossali, poi, le tesi (ancora Cassese), che da un lato segnalano il rischio di una nuova politicizzazione della magistratura, proprio nel momento in cui si è compattamente e unitariamente schierata contro la riforma costituzionale della separazione delle carriere e, dall’altro, sostengono che il corpo della magistratura è in sé sano, ma si fa rappresentare da un manipolo di magistrati politicizzati.
La magistratura italiana ha sempre avuto nel suo complesso posizioni prudenti, se non apertamente moderate. Le correnti di sinistra sono state, per un lunghissimo tempo, fortemente minoritarie. La stessa vituperata degenerazione correntizia dimostra che esistono nella magistratura diversi orientamenti culturali, non facilmente omologabili in un unico progetto o complotto. Le correnti sono state sicuramente utilizzate per interessi non commendevoli, come la promozione di carriere personali, ma non hanno mai prodotto una piegatura dei giudizi ad interessi di parte. Qualcuno potrà segnalare sentenze “orientate”, ma nessuno finora ha registrato né dimostrato un uso sistematico della giustizia per delegittimare gli altri poteri costituzionali. Ci possono essere iniziative giudiziarie o sentenze discutibili, dei veri e propri errori giudiziari, spesso fondati su una non adeguata conoscenza delle regole di funzionamento delle istituzioni (specialmente delle pubbliche amministrazioni); ovvero protagonismi indebiti o usi impropri dei mezzi di comunicazione; ci possono essere sentimenti, da superare, di isolamento dei giudici, che tendono ad identificarsi come l’unico baluardo in un sistema largamente segnato da una diffusa illegalità. Ma parlare di complotto è affermazione da respingere radicalmente.
Vediamo con qualche esempio che cosa è successo. Molte azioni penali sono nate da evidenze raccolte dalla autorità giudiziaria, anche senza particolari accanimenti. In materia di reati contro la pubblica amministrazione, l’ambivalenza delle forze politiche verso la magistratura è stata evidente: dapprima utilizzare le singole iniziative giudiziarie, a scopi di parte contro l’avversario politico o a fini di generale delegittimazione delle istituzioni, salvo poi agire direttamente contro la magistratura e il suo potere di accertamento di reati (la destra berlusconiana va al Governo sulle ceneri della prima repubblica e immediatamente si pone in conflitto con la magistratura). Il caso dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, compresa la fattispecie del conflitto di interessi, mi sembra paradigmatico di una generale insofferenza (bipartisan, ahimè) verso controlli indipendenti sull’esercizio del potere. Potremmo fare analoghe considerazioni sull’accoglienza riservata alle decisioni del giudice amministrativo o delle autorità amministrative indipendenti, tutte le volte che accertano, a vario titolo e con diversi effetti, casi di illegittimo esercizio di poteri conferiti dalla legge.
Gli “scontri” con la magistratura in casi collegati con le politiche di immigrazione sono altrettanto significativi. Qui i giudici hanno accertato lesioni di diritti riconosciuti non solo dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie, ma da trattati internazionali formati proprio per impedire che singoli Stati li possano violare. Nei casi della nave Open Arms, o dei respingimenti di immigrati nei paesi non sicuri, in applicazione di norme europee, o della consegna alla Corte penale internazionale di persona oggetto di un mandato di cattura internazionale, la magistratura ha operato in realtà con molta cautela e prudenza, ma non ha potuto evitare di agire a tutela di diritti. Di qui un passaggio necessario: non è configurabile un generico “conflitto tra politica e magistratura”; siamo, invece, in presenza di puntuali casi di contrasto tra gli effetti di nuove politiche pubbliche (economiche e sociali, in qualche caso di negazione di diritti fondamentali) e gli ordinamenti giuridici contemporanei vigenti, che si sono formati grazie a Costituzioni avanzate, come quella italiana, che hanno riconosciuto nuovi diritti, rafforzandone la tutela. Di fronte alla volontà di attuare, in virtù di un presunto mandato, di un’investitura del popolo sovrano (anche grazie a piegature maggioritarie della volontà degli elettori che affidano a minoranze, sempre più agguerrite, un peso sproporzionato), politiche apertamente negatrici dei diritti fin qui riconosciuti (le chiamerei col loro nome, politiche reazionarie e antisociali), la risposta normale, ordinaria, che si può attendere da parte di un ordinamento è l’applicazione delle norme esistenti e vigenti, anche interpretate secondo Costituzione. In altre parole, il conflitto di cui parliamo è tra politiche economiche e sociali di destra e Stato costituzionale di diritto. È una “naturale resistenza” dell’ordinamento, e dei giudici che applicano le leggi, a tentativi di distorcere progressivamente il contenuto dei diritti e le forme della loro tutela, verso la quale il governo in carica non può reagire con comportamenti e atti che mirano a limitare l’indipendenza della magistratura.
Una situazione simile si aprirebbe, ad esempio, nel caso di un governo di sinistra che volesse attuare un programma, di nazionalizzazioni e regolazioni/pianificazioni dell’economia, così radicale da produrre negazioni sostanziali del principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata. Anche un simile programma troverebbe nell’ordinamento italiano e nei suoi giudici una naturale resistenza.
È un conflitto destinato ad estendersi nel futuro, se si consolideranno orientamenti politici dai contenuti apertamente anticostituzionali. La novità rispetto al passato è la velocità del mutamento; mentre le politiche espansive dei diritti si sono attuate in tempi lunghi e con un progressivo (e negoziato) cambiamento normativo tra forze politiche diverse, oggi la sterzata che si vuole produrre è repentina e drastica. La liquidazione brutale di intere politiche sociali, di interi apparati pubblici, la pretesa di attuare le proprie politiche senza vincoli e controlli indipendenti, del binomio Trump-Musk negli Stati Uniti è l’esempio trainante e una possibile legittimazione politica per tutte le destre reazionarie in Europa.
Di fronte a questa nuova situazione non c’è solo da difendere, sul piano formale, il baluardo dell’indipendenza della magistratura come primo, insostituibile, fondamento dello Stato costituzionale di diritto. C’è da comprendere e valorizzare, sul piano sostanziale, il ruolo oggettivo, naturale, della magistratura, di tutti i giudici, costituzionali, penali, civili, amministrativi, a tutela dei diritti costituzionali dei cittadini che le politiche ultraliberiste e reazionarie rischiano di pregiudicare.
Guai, però, a confidare nella sola l’azione di “resistenza” dei giudici. Questa ha una sua funzione limitata (spesso a singoli casi) e temporanea (nel lungo periodo si cambiano non solo le leggi ma anche le Costituzioni). La vera risposta sta nella dialettica politica, nel legittimo contrasto e necessario dialogo tra interessi diversi, nella capacità di ipotizzare, proporre e attuare politiche diverse e alternative, che salvaguardino il “felice compromesso” tra libertà economiche e diritti sociali della Costituzione del 1948.
Già apparso su www.diariodidirittopubblico.it il 17 febbraio 2025.
Immagine: particolare da Jacopo Negretti detto Palma il giovane, Allegoria della giustizia e della pace, olio su tela, circa 1620, Galleria Estense, Modena.
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Italia-Libia. Commercio e colonialismo. 2. Dalla medina alle forze di deterrenza. 3. Carceri, sicari e brigate personali. 4. Il torturatore di Mitiga. 5. “Ci facevano inginocchiare e poi...”.
1. Italia-Libia. Commercio e colonialismo.
L’Italia è il primo Paese per interscambi commerciali con la Libia. Nel 2023 il loro valore complessivo ammontava a 8,34 miliardi di euro. La Libia ha sempre rappresentato uno dei mercati preferenziali per le imprese italiane. Dal sito dell’Istituto italiano per il commercio risulta che l’Italia è il terzo Paese fornitore della Libia dopo la Cina, con 3,6 miliardi di euro (+67,54% rispetto ai primi 11 mesi del 2022 e una quota di mercato del 19,47), e Turchia, con 2,741 miliardi di euro (+11,37% rispetto allo stesso periodo del 2022, e una quota di mercato del 16,48%)[1].
Nei primi sei mesi del 2024 la quota di mercato è ancora salita: 13%. Importiamo petrolio ed esportiamo materie prime industriali, apparecchiature meccaniche e prodotti agroalimentari. “E alle famiglie libiche la qualità del made in Italy piace, sia nella sua componente legata al sistema casa che a quella legata alla moda”[2].
La storia, il commercio, l’industria danno luogo a un legame radicato e indissolubile. Non è un caso che a maggio 2024, alla cinquantesima edizione della Fiera campionaria di Tripoli, la più importante e longeva manifestazione fieristica libica, l’Italia fosse invitata come ospite d’onore.
Si può dire che nel commercio fosse anche Osama Elmasry Njeem. Prima della guerra civile libica, infatti, comprava e rivendeva volatili. La traslitterazione dalla lingua araba porta sempre a risultati imperfetti. Quando parlano di lui i media lo chiamano Almasri. Noi invece preferiamo “Njeem”, aderendo alla scelta della Corte penale internazionale. Nella lingua siriaca della fede cristiano-maronita questo appellativo significa “piccola stella”, una stella che nel controverso e crudele firmamento del potere locale brilla sempre più di una luce propria e terribile.
2. Dalla medina alle forze di deterrenza.
Njeem nasce a Tripoli il 16 luglio 1979. Vive per oltre trent’anni nel regime della Repubblica araba di Libia e quando, nel 2011, s’infiamma la sommossa contro Gheddafi, non vi partecipa subito in prima persona. Njeem commercia nel mercato di Tripoli, disseminato all’interno dell’antica medina.
Il mercato della capitale libica assomiglia solo in parte a quelli di altri centri del mondo arabo, soprattutto a quelli più frequentati dai turisti che ne apprezzano i rumori, i colori accesi, i profumi delle spezie. Nella medina di Tripoli non c’è vociare caotico né l’assillante tormento rivolto al passante individuato come potenziale acquirente, meglio se straniero. I libici hanno molto rispetto per la persona del cliente, si rivolgono a lui e tra di loro con tono sommesso. Hanno rispetto formale per la persona e cura della storia racchiusa nella medina, dove ancora agli incroci le colonne romaniche si ergono addossate alla calce e al legno dei negozi.
Pare che qui Njeem venisse ogni venerdì, per vendere polli e volatili al mercato degli animali. Proviamo a immaginarlo, mentre tratta gallinacei con delicatezza e approccia, gentile secondo il costume arabo, la calca delle signore, che valutano la merce con occhio competente tra il velo che lascia trasparire l’incarnato delle loro diverse etnie. Elucubrare sulla presenza di Njeem dietro al banco di vendita dei volatili è un esercizio di fantasia allettante, ora che sappiamo chi rappresenti quest’uomo nella Libia di oggi.
Si sa che Njeem si aggrega alle Forze speciali di deterrenza (al Radaa), la milizia salafita capeggiata da Abdel Raouf Kara, nel 2014, a tre anni dall’inizio della rivoluzione e dell’uccisione di Gheddafi. Recupera rapidamente il tempo perduto, però, acquisendo i gradi sul campo, poiché si distingue nella partecipazione alle operazioni “sporche” della RADAA: repressione degli oppositori, uccisione mirata di esponenti delle fazioni avversarie, azioni militari contro le forze rivali del generale Khalifa Haftar che controllano l’est del Paese. Quanto sia determinato, affidabile e perciò prezioso alla causa di Kara lo dicono le fonti giornalistiche: “Lui è un killer, deve eliminare gli indesiderati e per farlo assolda sicari e uomini col pelo sullo stomaco disposti a tutto, reclutati tra i prigionieri rinchiusi nelle stesse carceri che è chiamato a dirigere”[3].
3. Carceri, sicari e brigate personali.
Carceri e sicari sono all’origine del potere di Njeem. Quando la RADAA ha conquistato l’aeroporto di Mitiga, vi ha costruito all’interno quella che diventerà la principale struttura di detenzione della Libia occidentale o, quanto meno, dell’area di Tripoli. Dopo un anno, nel 2015, viene già affidata al controllo di Njeem, che ne diventa il padrone incontrollato.
Qui trasforma molti prigionieri maschi in schiavi da lavoro o, quando ritiene, in combattenti della RADAA, soprattutto per le attività non lecite. Occorrono persone che abbiano poco o nulla da perdere; la prospettiva di uscire dall’inferno di Mitiga basta a rendere pronto a tutto un esecutore di ordini.
L’autorità di Njeem va oltre. L’efficienza dimostrata a Mitiga gli consegna il controllo di altre prigioni della Tripolitania.
Judaydah è una struttura detentiva della capitale, prevalentemente femminile, ma nella quale sono rinchiusi anche maschi accusati di crimini gravi, tra cui il traffico di stupefacenti. All’interno vi è un emporio di cui Njeem è privato proprietario. L’uomo ha conservato evidentemente una certa propensione al commercio, se è vero i parenti dei detenuti sono costretti a acquistarvi i beni che vogliano portare ai detenuti di Judaydah e anche di Mitiga[4].
Risulta che nell’estate 2023 almeno 25 donne straniere e i loro 38 bambini fossero da tempo imprigionati qui – e nella prigione di Kuwayfiyah, a Bengasi – a causa dei loro presunti legami con Da'esh. Il 30 maggio, la United nations support mission in Libya (UNSMIL) aveva incontrato cinque dei detenuti nella prigione di Judaydah e si era relazionata con le autorità locali per affrontare la loro situazione, anche per garantire un giusto processo, l’accesso alla giustizia, un possibile trasferimento e l’istruzione per i bambini[5].
Il rapporto firmato personalmente dal segretario generale Antonio Guterres denota l’attenzione dell’ONU, a seguito di ben cinque risoluzioni approvate tra il 2020 e il 2022, sulla problematicità della condizione dei diritti umani in Libia. Non risulta tuttavia che l’iniziativa specifica, riferita alle donne e ai bambini detenuti a Judaydah, abbia condotto a una più rapida soluzione del caso: torture e maltrattamenti, violenze sessuali, isolamento e separazioni forzose dai figli vengono praticati con sistematicità[6].
Ad Ain Zara c’è un altro lager, che gestisce quasi esclusivamente migranti. dove le persone vengono “disumanizzate”, sottoposte a trattamenti crudeli e degradanti, stipate a centinaia in un’unica cella, costrette a dormire sedute, senza servizi igienici e con fosse traboccanti di liquami[7]. Realizzata in un’oasi, oggi Ain Zara è un centro a una decina di chilometri da Tripoli. La bruna struttura del carcere contrasta col territorio complessivamente verdeggiante, storico polo agricolo della Tripolitania. La prigione è governata dalla Brigata 42, l’unità speciale costituita da Njeem alla quale è affidato il rastrellamento dei migranti provenienti da sud[8].
Per Abdel Moaz Nouri Bouaraqoub, direttore della struttura di Ain Zara, Njee “è noto per il suo rigore, la sua dedizione e la sua professionalità nell’adempimento dei compiti affidatigli per molti anni”[9].
Catturare chi è fuggito dalla desertificazione, dalla fame, dai conflitti civili richiede certamente una professionalità particolare, favorita dal fatto di non avere troppe regole da rispettare, soprattutto in un territorio senza regole. La pratica rientra forse tra gli obiettivi del memorandum firmato dal governo italiano, presidente Gentiloni, e da Fayez Mustafa Serraj per il governo di riconciliazione nazionale (GNA), quello che controlla la Libia occidentale ed è in lotta perenne col nemico di oriente, il Libyan national army (LNA) di Khalifa Belkasim Haftar[10]. Ma nessun accordo internazionale può legittimare quanto accade in quei luoghi immondi di restrizione.
4. Il torturatore di Mitiga.
Mitiga, Judaydah, Ain Zara, ma anche al-Jadida, Rueni. Sono i nomi di prigioni governate da Njeem. Attraverso il sistema carcerario che gli è stato affidato, complessivamente 15.000 esseri umani sono nelle sue mani, migliaia di guardie ai suoi ordini. Un potere tanto accentrato, propagatosi in pochi anni, si rende inevitabilmente autonomo all’interno della RADAA. Che a sua volta è ormai Stato nello Stato, intoccabile anche da parte del Governo di accordo nazionale (GNA) di Al Serraj del cui apparato, pure, fa parte formalmente, essendo stata riconosciuta nel 2018 come un’articolazione del Ministero dell’interno libico.
Secondo la Corte penale internazionale – sulla base delle prove raccolte dall’ufficio del Procuratore e contenute nella richiesta del 2 ottobre 2024 – vi sono ragionevoli motivi per ritenere che a Mitiga Njeem si sia reso personalmente responsabile di percosse, torture, colpi di arma da fuoco, aggressione sessuale nei confronti di numerosi tra gli almeno 5140 detenuti tra febbraio 2015 e ottobre 2024. In più casi quelle condotte hanno provocato la morte dei detenuti[11].
Grazie alle sue direttive, “picchiare i carcerati era una pratica comune tra le guardie carcerarie e i comandanti, i quali riferivano al signor Njeem. In alcune occasioni era presente mentre le guardie li percuotevano o sparavano contro di loro. Secondo quanto riferito, ha ordinato alle guardie di picchiare i detenuti in modo che le ferite non fossero visibili. Inoltre, si dice che abbia punito le guardie che aiutavano i detenuti ad avere contatti con le loro famiglie o a procurarsi cibo migliore”[12].
Quale responsabile del carcere di Mitiga, Njeem predisponeva i turni delle guardie e dava loro le istruzioni sulla distribuzione dei prigionieri nelle celle e sulle loro punizioni. Decideva se opporsi o meno agli atti illeciti che sapeva essere perpetrati nei loro confronti. Ne aveva ovviamente anche il controllo “amministrativo”: restrizione, liberazione, sequestro dei telefoni cellulari, requisizione dei documenti, del denaro e degli altri effetti personali[13].
In conclusione nel mandato di arresto si afferma che, “oltre che prendere parte in prima persona alla condotta illecita, ha dato anche ordine di commettere atti che erano necessariamente criminali, poiché non poteva esistere alcuna giustificazione per, tra l’altro, la violenza sessuale o la tortura dei detenuti. Data la sua posizione di direttore, il signor Njeem non solo era a conoscenza delle condizioni di detenzione problematiche, ma lasciandole in vigore per un tempo prolungato, intendeva necessariamente che tali condizioni esistessero e che i detenuti ne subissero i danni. Era consapevole degli atti criminali commessi contro i detenuti oppure, quando venivano compiuti in momenti in cui lui era assente, era intenzionato a farli accadere e sapeva che si sarebbero verificati nel corso ordinario degli eventi”[14].
5. “Ci facevano inginocchiare e poi...”.
Il 19 gennaio 2025 Njeem viene fermato a Torino in esecuzione del mandato di arresto della Corte penale internazionale. Dopo due giorni viene rilasciato e rimpatriato in poche ore in Libia. Le foto della sua accoglienza trionfale a Mitiga, appena sceso dalla scaletta dell’aereo di Stato italiano, fanno il giro del mondo.
Le polemiche accendono un faro sulla figura di Njeem. “Al Masri” diventa il carnefice liberato e i media raccolgono le testimonianze di chi ne conserva il ricordo indelebile.
a) Yambio (27 anni). Yambio, che all’epoca aveva 21 anni, ha raccontato del suo arrivo iniziale in Libia dal Sud Sudan, dove era stato costretto a combattere come bambino soldato, del tentativo di fuga in Europa e della cattura da parte della guardia costiera. Ristretto nel centro di detenzione a Triq al-Sika, Yambio afferma di essere stato “venduto” a una rete di prigioni gestite da Njeem e dalla sua polizia nel dicembre 2019, a cominciare dalla struttura tentacolare di al-Jadida a Tripoli.
Ne ha descritto le terribili condizioni, tra percosse e maltrattamenti, aggiungendo di essere stato inserito in un esercito di schiavi prigionieri e costretto a lavorare nei cantieri edili per il bene dei suoi carcerieri. “Ma la cosa peggiore è stata quando Njeem era lì – ha detto – tutti ad al-Jadida sapevano chi fosse Njeem. Ogni due giorni ci mettevano in fila a migliaia per un conteggio e, quando veniva a trovarci, al-Masri camminava lungo la fila, scegliendo le persone da picchiare, o con un tubo di metallo o con l'impugnatura della sua pistola. A volte entrava nelle celle dove dormivano le persone e le picchiava con un tubo di metallo o di plastica”.
Nel marzo 2020, dopo un assalto a Tripoli e al governo occidentale da parte delle milizie di Khalifa Haftar, Yambio è stato trasferito a Mitiga. Qui ha ritrovato Lam Magok anche lui del Sud Sudan, con cui aveva condiviso un periodo della detenzione ad al-Jadida. “Restavamo svegli la notte a parlare – ha ricordato Yambio – ricordando la nostra casa e il paese che ci aveva abbandonati”.
A Mitiga Yambio è stato selezionato con alcuni altri per combattere in una delle brigate di Njeem. Magok, non rendendosi conto che alla fine lo avrebbe seguito, gli ha messo in mano un foglio di carta, su cui erano annotati i numeri di un attivista e di un giornalista e i recapiti di suo zio, con una supplica affinché, se mai ne avesse avuto la possibilità, Yambio almeno provasse a dire alla sua famiglia che Magok era vivo.
“Se il cielo lo permette, trovali. Di’ loro che sono vivo”, erano state le parole di Magok, nel ricordo di Yambio.
b) Magok (33 anni). Risparmiato dall’esperienza dei combattimenti, Magok ha sopportato a Mitiga condizioni non meno severe. “Ogni due giorni, ci chiamavano per un conteggio. Ci facevano inginocchiare e poi ci picchiavano... Se facevi qualcosa che non gli piaceva, ti portavano via, ti chiudevano in una stanza e ti torturavano”. Le uccisioni non erano sconosciute, ha aggiunto. “Eravamo trattenuti con i libici e i migranti, ma erano sempre i migranti a essere mandati a pulire le stanze. Gli veniva detto di mettere il corpo dei detenuti uccisi in un sacco e di portarlo all’ambulanza. Era terribile”.
Magok era costretto a lavorare nei magazzini militari, caricando munizioni sui veicoli, mentre Yambio racconta di essere stato mandato ogni giorno sulla vicina linea del fronte, dove è stato costretto a combattere insieme ad altri migranti, gruppi libici e forze turche e siriane per respingere le forze di Haftar.
“Eravamo abituati a trasportare munizioni e a sparare con gli obici. Ho ancora l'acufene. Le condizioni erano davvero pessime. C'erano prigionieri, libici e migranti costretti a nascondersi in buche nel terreno”, ha detto, descrivendo le celle sotterranee di Mitiga, dove l’odore dei malati e dei moribondi lo colpiva e lo seguiva per tutto il giorno.
“Li abbiamo visti scortati nelle stanze degli interrogatori, dove venivano picchiati, sottoposti a elettroshock, gli venivano tagliate le dita o costretti a entrare in barili d'acqua e tenuti sott'acqua”, ha detto dei metodi usati contro i prigionieri libici e migranti a Mitiga.
“Al-Masri era una persona brutale. Quando la gente sapeva che stava arrivando, andava nel panico. A volte mi chiedevo se fosse sotto l'effetto di droghe, ma non era così. Era semplicemente quello che era. Era puramente malvagio. L’ho visto uccidere delle persone”, ha aggiunto Yambio in tono piatto. “Una volta, due persone hanno cercato di scappare... Mitiga. Al-Masri ci ha fatto mettere in fila mentre sparava a uno. Avevo il sangue sul corpo. Un'altra volta, qualcuno aveva dato alle persone che lavoravano all'obice le coordinate sbagliate del drone. Al-Masri lo ha ucciso”[15].
Yambio è fuggito da Mitiga nell’aprile 2020, dirigendosi in Italia dove gli è stato concesso asilo. Magok è fuggito in Italia nel dicembre dello stesso anno. Entrambi ora lavorano per sostenere una campagna per i diritti dei rifugiati e dei migranti irregolari.
In un’altra intervista, Magok ha voluto chiarire che al-Jadida come Mitiga sono “prigioni ufficiali, non centri di detenzione, e che sono gestiti da questi gruppi armati. Ho provato ad attraversare il mare sei volte e sono stato riportato indietro, in Libia tutti gli stranieri sono considerati criminali e rischiano l’arresto. Nelle prigioni ci sono veri criminali, ma anche migranti. Eravamo bendati, ci hanno dato dei numeri e ci hanno fatto delle foto per identificarci. Quindi ci hanno picchiato con dei bastoni, anche in testa. Mentre ci colpivano, ci insultavano”.
A Magok il trasferimento a Mitiga era stato presentato come un passaggio in vista del rimpatrio. In realtà è stato forzato a lavorare per nove mesi nella base militare dell’aeroporto, occupata dalla RADAA, per costruire edifici, ma anche per sotterrare i cadaveri delle persone uccise. “Quando alcuni di noi hanno tentato di fuggire, siamo stati picchiati, presi a sprangate, alcuni portati in isolamento e torturati”, racconta[16].
c) M. (13 anni). Punta il dito su una foto di giornale che ritrae Njeem, e sbotta: “è lui l’uomo che picchiava le persone e che comandava gli altri. Anche io sono stato picchiato dai suoi uomini”. M., è un ragazzino egiziano tredicenne. Quando è stato rinchiuso a Mitiga, di anni ne aveva 10. Ora è ospitato in una casa di accoglienza gestita dalla comunità Papa Giovanni XXIII, a Reggio Calabria, e non può fare a meno di ricordare il suo calvario fatto di botte dall’inizio alla fine del viaggio.
M. è arrivato dall’Egitto con un trasporto pagato dal padre a bordo di un pick-up. Un trafficante egiziano che li aveva stipati sul veicolo, maltrattandoli per tutto il tempo, li ha consegnati alla polizia libica. Ha raggiunto mesi dopo l’Italia su un barcone con centinaia di altri migranti. Sbarcato a Lampedusa, è finito in un centro di accoglienza a Ragusa, da cui è fuggito per andare a nord. È stato ritrovato a Villa San Giovanni mentre vagava per strada.
Nel centro di Reggio, una delle attività dei minori è la lettura dei giornali. E su un giornale ha visto la foto di Njeem, rivivendo il suo incubo. “Lui era il capo. Decideva i tempi, decideva chi, come e dove spostarci. Ma mi ricordo anche i nomi dei suoi uomini: Ayub, Ossama, Adabae, El Nemir ..”.
A Mitiga M. ha perso la cognizione del tempo, non ricorda per quanto vi sia stato trattenuto. Ricorda solo le botte e la paura per gli aguzzini di Njeem[17].
[1] www.ice.it/it/area-clienti/eventi/dettaglio-evento/2024/@@/054, consultato il 16 marzo 2025.
[2] Libia e Italia, crescere insieme. Il contributo del sistema camerale al Business Forum Italia-Libia 2024,
[3] L. Cremonesi, Cosa fa ora Almasri in Libia, divisa da generale e accoglienza da eroe: “Qui tutti sapevano che l’Italia lo avrebbe liberato. Un killer, elimina gli indesiderati”, in Corriere della sera, 7 febbraio 2025.
[4] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 12.
[5] UNSMIL, Report of the Secretary-General, 8 agosto 2023, p. 49.
[6] Cfr. anche M. Marazziti: un emendamento alla legge di bilancio per non essere complici dei trafficanti umani, in democraziasolidale.it, 20 dicembre 2023, consultato il 19 marzo 2025.
[7] MSF denuncia l’inferno dei centri di detenzione in Libia, in nigrizia.it, 7 dicembre 2023, consultato il 13 marzo 2025.
[8] L. Cremonesi, Cosa fa ora Almasri in Libia, cit. .
[9] L. Gambardella, Carcere e torture per 5 anni senza motivo. Le accuse ad Almasri, in Il Foglio, 22 gennaio 2025.
[10] Nel memorandum, sottoscritto il 2 febbraio 2017, l’Italia si impegnava a finanziare (art. 4), tra l’altro, il completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del sud della Libia e adeguare i “centri di accoglienza” e formare il personale libico per fare fronte alle condizioni dei “migranti illegali”, sostenendo i “centri di ricerca libici” in modo che possano contribuire all’individuazione dei metodi più adeguati “per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani” (art. 2, lett. 1-3).
[11] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n. ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 94-95.
[12] Corte penale internazionale, cit., p. 93.
[13] Corte penale internazionale, cit., p. 92 e 96.
[14] Corte penale internazionale, cit., p. 97.
[15] Al Jazeera staff, I saw him kill people: Libya and Italy’s shadowy migrant deals”, in aljazeera.com, 13 febbraio 2025, consultato il 13 marzo 2025. Nell’articolo Al Jazeera riferisce di avere contattato sia il Ministero della giustizia libico sia la sua polizia giudiziaria, per avere un commento sulle accuse a Njeem, senza ottenere però risposta.
[16] A. Camilli, Quello che non torna del caso Almasri, in internazionale.it, 29 gennaio 2025.
[17] V. R. Spagnolo, Il testimone. “Ho visto Almasri, picchiava i migranti”, 30 gennaio 2025, Avvenire.
Il lavoro precario, tra sinonimi e contrari. Recensione a F.M. Giorgi, F. Aiello (a cura di), Il lavoro precario, Giappichelli, Torino, 2024, 350 pp.
I giuslavoristi e le giuslavoriste prestano ormai da tempo la loro attenzione a categorie che, pur non assurgendo al rango dei concetti normativi, sono entrate nel linguaggio comune e nel dibattito allargato. Si pensi, in particolare, ai casi del lavoro atipico, non-standard o flessibile, accomunati dal richiedere, ai fini della relativa perimetrazione, una preliminare, e tutt’altro che scontata, identificazione del proprio contrario, ossia delle caratteristiche, rispettivamente, del lavoro tipico, standard e rigido.
Tale operazione risente inevitabilmente del momento storico, tanto è vero che ciò che ieri, nel contesto dell’unità spaziale, temporale e di comando entro la quale si collocava la prestazione di lavoro, poteva non essere ricondotto nell’alveo dello standard (si pensi, su tutti, al lavoro da remoto), potrebbe oggi, nel diritto del lavoro post-pandemico, assai più agevolmente rientrarvi.
Quel che è difficilmente dubitabile è che, sotteso all’utilizzo di tali categorie, vi sia un preciso afflato valoriale, se non proprio una tensione assiologica che appare quanto mai marcata laddove si decida di confrontarsi, come nello stimolante volume a cura di Filippo Maria Giorgi e di Filippo Aiello, con la tematica del lavoro precario.
Più che opportunamente, perciò, i due curatori, nella prefazione a loro firma, chiariscono che il lavoro precario “non è una formula giuridica”, ma che si tratta, piuttosto, di un’espressione connotata da una “indiscussa [e, verrebbe da aggiungere, immediatamente percepibile] polarizzazione negativa”.
Palesata così, con un’apprezzabile opzione di metodo, la matrice ultima dell’opera, si comprende che quest’ultima miri ad offrire alle lettrici e ai lettori un’indagine critica sul “fenomeno transtipico” de quo (così, efficacemente, Francesca Chietera a p. 185).
Al centro dell’analisi vengono, quali lenti privilegiate di osservazione, alcuni istituti del diritto del lavoro, i quali erano già in precedenza giunti, nelle parole dei due curatori, “nel mirino dell’esperienza professionale degli autori”, nel cui novero figurano autorevoli magistrate/i e avvocate/i del lavoro.
La tesi che si sostiene trasversalmente è che sia proprio l’ordinamento giuridico (attraverso le novelle alla disciplina lavoristica, tanto sostanziale, quanto processuale) ad avere da ultimo accettato, se non addirittura promosso, la mancanza di stabilità del lavoro, la quale ridonda nel senso di precarietà anche esistenziale che affligge una larga parte della forza lavoro.
L’argomento viene sviluppato lungo tre direttrici principali, cui corrispondono altrettante sezioni del volume: i diritti fondamentali (I), il lavoro privato (II) e il lavoro pubblico (III).
All’interno di ciascuna sezione, vengono ulteriormente declinate le questioni che involgono la precarietà del lavoro, intesa, nella specola dei curatori del volume, alla stregua de “la mancanza di continuità nel rapporto di lavoro o anche solo l’incertezza nella sua prosecuzione per un tempo sufficiente a garantire scelte di vita libera e dignitosa, ovvero la carenza di condizioni di lavoro, di sicurezza, di protezione o di reddito, tali da assicurare una pianificazione esistenziale”.
Tale concezione della precarietà del lavoro viene ripresa nei diversi contributi del volume, per quanto non vi sia sempre una concordanza di opinioni tra le autrici e gli autori in ordine ai rapporti o, forse più propriamente, ai confini con altre categorie prossime, come quella del lavoro povero, che viene talora tenuto distinto (v. Antonino Sgroi a p. 42) e talora assimilato al lavoro precario (v. Tiziana Orrù a p. 55).
Mette al contempo conto sottolineare che le diverse voci si guardano bene dal ricondurre de plano al lavoro precario ogni forma di lavoro flessibile, andando piuttosto alla ricerca dei singoli frammenti normativi che, in riferimento a ciascun istituto preso in esame, ostano al raggiungimento di quel grado di stabilità che costituisce la precondizione di un’esistenza libera e dignitosa.
Pur nella tendenziale impronta “pro labour”, l’opera merita un convinto apprezzamento, sul piano del metodo, per lo spirito pluralista che emerge dalla politica, prima ancora che dall’articolazione, delle citazioni, per quanto variamente declinate nei diversi contributi. Ciò costituisce il segno indefettibile di un’apertura al confronto con punti di vista differenti, la quale risulta particolarmente lodevole in considerazione della natura intrinsecamente valoriale del tema prescelto.
Nel merito, l’articolato volume, dal taglio e dai contenuti prettamente giuridici (limitate e generalmente sorvegliate risultano le incursioni nella sociologia), si rivela di notevole rilevanza tanto teorica, quanto pratica. L’opera racchiude, infatti, sia meditate riflessioni sulle tecniche protettive di un diritto del lavoro in rapido mutamento, sia ausili interpretativi utili a risolvere alcune delle questioni attualmente più dibattute tra gli operatori del settore, le quali spaziano dalla sussistenza del requisito della temporaneità nella somministrazione di lavoro alla definizione del salario adeguato ex art. 36 Cost., sino all’inquadramento della codatorialità nelle reti di imprese e all’individuazione dei requisiti delle procedure di selezione del personale da parte delle “partecipate”.
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