La riforma costituzionale della giustizia in aula senza relatore: analisi di una prassi contra Constitutionem
Sommario: 1. Introduzione: la Costituzione, la ratio, la prassi. - 2. L’assenza di mandato al relatore e i regolamenti parlamentari. - 3. La questione della revisione costituzionale.
1. Introduzione: la Costituzione, la ratio, la prassi.
L’invio del testo di una proposta di legge all’assemblea da parte della commissione in sede referente senza il mandato a un relatore è una procedura parlamentare problematica, ma non nuova. Essa si basa su una serie di disposizioni regolamentari — diverse, come si vedrà meglio infra, anche nella sostanza, tra Camera e Senato —, la cui applicazione, in via di prassi, si è ampliata fino a stravolgerne la ratio e i presupposti originari. Tanto la nascita originaria di tali norme regolamentari, quanto, soprattutto, quello delle successive prassi, è inquadrabile, più in generale, in quel processo di crisi dell’organo parlamentare, che vede l’affermarsi di un sempre «più accentuato dominio dell’esecutivo sul procedimento legislativo ed una sempre più pervasiva identificazione della funzione legislativa delle Camere con l’indirizzo politico del Governo»[1] e che, nell’ambito del bilanciamento interno al parlamento delle procedure relative all’iter legis, ha provocato un sostanziale spostamento, nell’ambito della programmazione dei lavori parlamentari — ma anche da un punto di vista sostanziale —, da una prevalenza dei lavori in commissione alla prevalenza di quelli in assemblea[2].
L’iscrizione nel calendario dell’assemblea di provvedimenti il cui esame in commissione non si è ancora concluso, anche prima della scadenza del termine per la sua conclusione, si inserisce, in tal senso, come uno strumento capace non solo di operare una compressione dei tempi dell’iter legis, ma anche, in combinato disposto con ulteriori strumenti — quali, a titolo esemplificativo, l’apposizione di una questione di fiducia su un c.d. “maxi-emendamento” —, come uno strumento capace di provocare una sostanziale sterilizzazione dei complessivi poteri parlamentari di emendamento di testi presentati dal Governo (o dalla sua maggioranza). Tali meccanismi agiscono quindi non tanto — o non solo — nei rapporti endo-assembleari tra maggioranza e opposizione, ma anche — e soprattutto — nei rapporti tra Governo e Parlamento[3].
La commissione, in tal modo, si vede spoliata sostanzialmente del suo ruolo e lesa nei suoi «poteri fondamentali»[4], attraverso un processo «il cui esito è quello, in definitiva, di far perdere di significato — quando non di eliminare del tutto — l’intera fase istruttoria»[5]. Il Governo riesce così a estendere il suo controllo tanto sull’opposizione che sulla propria maggioranza, potendo più facilmente controllare le dinamiche di un unico centro decisionale rispetto a «quasi una trentina di centri decisionali poco coordinati tra loro, la stragrande maggioranza dei quali caratterizzati, per definizione, da un approccio settoriale»[6].
Porgendo lo sguardo alle norme costituzionali, come è noto, l’art. 72 prescrive che ogni disegno di legge sia esaminato da una commissione prima di essere sottoposto al vaglio dell’assemblea («Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa…»). Tale norma non definisce un procedimento formale. Appare anzi finalizzata al fondamentale fine di «consentire all’organo deliberante di prendere le sue decisioni ex informata conscientia»[7]: in tal senso, è possibile leggere la norma come un vero e proprio divieto di discussione diretta in assemblea[8] e, quindi, si individua nella fase in commissione una «condizione di validità della successiva fase deliberante»[9].
Esplicito in tal senso era, in dottrina, già Leopoldo Elia, per il quale appariva «chiaro che una relazione orale o scritta è l’unico tramite attraverso il quale l’assemblea può essere informata dell’esame preliminare compiuto dalla commissione. Sicché la mancanza di ogni tipo di relazione (come, a maggior ragione, la mancanza di ogni esame in commissione) potrebbe comportare la invalidità del procedimento legislativo e pertanto della legge cui esso mette capo»[10].
Lo stesso articolo, al suo ultimo comma, prevede che, tra gli altri, per i disegni di legge in materia costituzionale, sia adottata la «procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera». La procedura in sede referente, unitamente all’attività consultiva che l’accompagna, rappresenta dunque una fase istruttoria necessaria del procedimento legislativo: in tal senso la riserva procedura di cui all’art. 72, ultimo comma, appare non solo una “riserva di assemblea”, finalizzata a garantire una decisione da parte del plenum delle questioni più rilevanti, quanto anche una riserva “di completezza” della procedura «normale», che consenta ai vari organi del Parlamento il più ampio coinvolgimento nel merito del procedimento legislativo, secondo le rispettive prerogative e competenze propri dei due «momenti essenziali»[11] dell’iter legis, cioè, semplificando, il momento di approfondimento, compromesso e flessibilità in commissione, il momento di decisione, trasparenza e rigidità in aula[12].
Porgendo quindi l’attenzione al fattore “tempo”, parte della dottrina ha sostenuto che dalla riserva di procedura «normale» non sia derivabile una riserva di esame «disteso» (nel senso di “lento”) dei progetti di legge, in quanto ben potrebbero qualificarsi come “urgenti” tali provvedimenti[13]. In tal senso, la riserva di procedimento «normale» stessa apparrebbe volta piuttosto alla garanzia della pubblicità del procedimento nell’ottica della tutela delle minoranze, poiché in aula vi è la presenza integrale degli schieramenti politici che non sono presenti in commissione (sia di maggioranza che di opposizione)[14]. Tuttavia, se tale è la ratio, appare chiaro come l’eventuale urgenza del provvedimento non possa comunque portare a comprimere i poteri fondamentali della commissione (ovvero quello di selezione, quello istruttorio e quello di presentazione del progetto di legge[15]), la cui presenza costituisce, in tale sede garanzia per quelle stesse minoranze: non quindi garanzia di un percorso necessariamente “lento” ma garanzia di un iter “completo”, dove l’aula è chiamata a operare «previo un esame da parte di una commissione in sede referente»[16].
Il modello di procedura legislativa di cui all’art. 72 non risulta essere, quindi, un modello a “senso unico”, di tutela del plenum dalla decisione ristretta in commissione (deliberante): appare piuttosto un modello completo e organico di bilanciamento tra esigenze contrapposte e competenze integrate, che funziona in entrambe le direzioni. Come è stato infatti evidenziato alla base di tale modello vi è «una concezione del parlamento che non sia quella di un organo di registrazione di decisioni prese in altre sedi, ma di effettiva elaborazione di testi legislativi, d’onde l’esigenza di un procedimento articolato in fasi e momenti non eliminabili»[17].
Se quindi la riserva di «procedura normale di esame e di approvazione» imposta dall’art. 72 non appare necessariamente incompatibile di per sé con provvedimenti urgenti — e quindi la stessa può essere rapida, ma deve essere completa — una indicazione in senso contrario può ricavarsi dall’art. 138 per quanto riguarda i procedimenti di revisione costituzionale (i quali costituiscono parte di quella «materia costituzionale» di cui al 72, co. 4, ma non esauriscono i casi di riserva di procedura normale, la quale, come è noto, riguarda anche i disegni di legge in materia elettorale e quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali e, infine, di approvazione di bilanci e consuntivi[18]). L’art. 138, infatti, qualifica, il fattore tempo e la “lentezza” del procedimento come fondamentali, anche a tutela e garanzia delle minoranze, ponendo la revisione della Costituzione in radicale contrasto e incompatibilità con asserite ragioni di urgenza dei provvedimenti legislativi.
2. L’assenza di mandato al relatore e i regolamenti parlamentari.
È proprio sulla base di asserite ragioni di urgenza che la prassi in commento si è venuta, originariamente, a determinare, forzando l’invio all’assemblea del progetto di legge ancor prima della scadenza del termine previsto per la fine dei lavori in commissione. La sua applicazione di è poi fatta spazio nelle dinamiche di compressione dei tempi dei lavori parlamentari, funzionali non tanto al carattere urgente del provvedimento quanto alla priorità per l’attuazione del programma di governo[19].
Per quanto la procedura in oggetto sia invalsa in entrambi i rami del Parlamento, è possibile riscontrare una differenziazione tra il regolamento della Camera e quello del Senato[20].
Alla Camera, il passaggio dalle commissioni in sede referente all’assemblea è disciplinato dall’art. 81 del regolamento che stabilisce un termine ordinario di due mesi, ridotto a un mese in caso di provvedimenti per i quali sia stata dichiarata l’urgenza o a quindici giorni per le leggi di conversione dei decreti legge.
Al Senato, l’art. 44 del regolamento prevede anch’esso, al primo comma, un termine ordinario massimo di due mesi per la presentazione delle relazioni e, al secondo comma, la possibilità per il Presidente, «in relazione alle esigenze del programma dei lavori o quando le circostanze lo rendano opportuno», di stabilire un termine ridotto, dandone semplice comunicazione all’assemblea.
La differenziazione più rilevante tra i due rami del Parlamento — oltre che a modalità di computo dei termini[21] — riguarda la previsione di cui al terzo comma dell’art. 44 del regolamento del Senato, in cui viene data esplicita disciplina della scadenza del termine, prevedendo che «Scaduto il termine, il disegno di legge è preso in considerazione, in sede di programmazione dei lavori, per essere discusso, anche senza relazione, nel testo del proponente, salvo che l’Assemblea conceda, su richiesta della Commissione, un nuovo termine di non oltre due mesi, compatibile con l’attuazione del programma dei lavori». Il regolamento della Camera, invece, non disciplina esplicitamente le conseguenze dovute alla scadenza del termine.
È chiaro come la previsione di un termine per i lavori in Commissione e l’attribuzione dei poteri al Presidente del Senato di cui all’art. 44, co. 3, tentino di trovare un equilibrio tra le opposte esigenze di approfondimento del testo e raggiungimento del compromesso politico e, dall’altra parte, di preservazione dell’iter legis da ritardi eccessivi o ingiustificati. È alla luce di ciò che va letto il potere del Presidente di cui all’art. 44, co. 2, reg. Sen., di stabilire un termine ridotto: infatti l’apposizione di un termine a giorni, se non addiruttura ad horas, può forse rappresentare un rispetto formale, ma certo non sostanziale della disciplina dei termini per i lavori della commissione[22].
A ciò si aggiunga — ed è questo il maggiore abuso — come in via di prassi si siano sviluppati in entrambi i rami del parlamento procedure per aggirare la previa scadenza del termine, sia esso ordinario o breve, in esplicito contrasto letterale con i regolamenti.
Difatti, al Senato, almeno a partire dai primi anni duemila[23], la procedura di cui all’art. 44, co. 3, è stata applicata, anche prima della scadenza del termine previsto per l’esame in commissione, per l’inserimento nel calendario dell’assemblea di specifici provvedimenti, inizialmente perché considerati “urgenti”, ma oggi, come detto, anche perché «considerati prioritari per l’attuazione del programma di governo»[24]. Analoga prassi si è sviluppata anche alla Camera, seppur sulla base di disposizioni regolamentari diverse che, attraverso il meccanismo della c.d. “doppia calendarizzazione” e una sostanziale «deviazione dal regolamento»[25], hanno portato il Presidente di assemblea ad assumere la facoltà di trasmettere un disegno di legge all’aula prima della conclusione dei lavori in commissione, con la medesima evoluzione di motivazioni.
Interessanti a tal proposito sono le argomentazioni giustificative della prassi illustrate dal Presidente della Camera nel 2011, il quale, di fronte ad ampie argomentazioni in senso contrario provenienti da un deputato della sua stessa corrente politica, giustifica l’assenza del mandato al relatore — ricorrendo a una serie di precedenti dei primi anni duemila — sulla base del fatto che, con un decreto-legge in scadenza, «la Presidenza ha la responsabilità di consentire comunque alla Camera di deliberare entro tale termine»[26].
In tal senso, anche volendo accedere a quella ricostruzione del ruolo del presidente di assemblea come garante delle condizioni di realizzazione delle finalità del programma di governo attraverso la proposizione dell’ordine dei lavori parlamentari[27], non si può non rilevare come il suo ruolo non può possa porsi contro lo stesso Parlamento, garantendo una superiorità del Governo sull’organo rappresentativo. Anzi, in una tale ricostruzione, il programma di governo può essere tutelato nonché — entro tali limiti — perseguito dal presidente d’assemblea solo in quanto esso risulti effettiva espressione della maggioranza parlamentare e si configuri come autonomo rispetto al Governo[28] — se si vuole: un programma di governo e non del Governo — nonché si collochi entro le «linee predeterminate dalla Costituzione»[29], della quale, comunque, il presidente è chiamato a svolgere un ruolo di garanzia[30].
L’applicazione di tale prassi si è andata, come accennato, espandendosi, concretizzandosi come ulteriore e determinante strumento di «supremazia dell’esecutivo sul procedimento legislativo» e di sostanziale abbandono del “metodo parlamentare” nell’approvazione delle leggi[31]. Non stupisce quindi — ma preoccupa — il frequente (ab)uso di tale prassi nell’attuale legislatura, anche in combinato disposto con gli ulteriori strumenti di condizionamento del Governo più o meno costituzionalmente problematici. Possono farsi diversi esempi: si pensi alla legge di bilancio 2025, giunta in aula al Senato senza relatore, in relazione alla quale il Parlamento soffre da tempo la compressione dei tempi dovuta alla presentazione tardiva della legge, al semestre europeo, alla questione di fiducia unita alla prassi dei maxiemendamenti che hanno portato all’aberrazione del c.d. “monocameralismo di fatto”; ovvero al più risalente decreto legge “Cutro”, giunto anch’esso al Senato senza relatore; o, infine, alla procedura aberrante del disegno di legge (prima) e decreto legge (poi) c.d. “Sicurezza” — dove il Governo ha adottato un decreto legge che ha sostituito un disegno di legge già in discussione alle Camere, in evidente spregio del requisito della straordinarietà di cui all’art. 77 Cost.[32] — giunto anch’esso al Senato senza relatore e con l’apposizione della questione di fiducia.
3. La questione della revisione costituzionale.
L’operazione appare, tuttavia, ancora più grave nel caso di un disegno di legge di revisione costituzionale. Per quanto detto e per i motivi che si illustreranno a conclusione, nell’ambito del procedimento speciale di cui al 138 Cost., l’invio del testo in aula senza previo mandato al relatore (o ai relatori, soprattutto nel caso di riforma non condivisa), fa sorgere di per sé gravi dubbi di legittimità costituzionale, che diventano difficilmente superabili nel caso dell’apposizione di un termine abbreviato (ex art. 44, co. 2) o, addirittura, dell’invio a termine non scaduto (ai sensi della descritta prassi contraria alla lettera dei regolamenti).
Sul punto è riscontrabile, invero, un (parziale) precedente: si tratta del disegno di legge costituzionale n. 1429-B (c.d. “Renzi-Boschi”) che, già approvato in prima deliberazione dal Senato e modificato in prima deliberazione dalla Camera, giunse al Senato per la nuova deliberazione senza mandato al relatore[33].
Per quanto deprecabile — come anche sottolineato dall’opposizione in tale sede — l’assenza di mandato seguiva già una previa analisi in commissione e in aula dello stesso d.d.l. costituzionale. In altri termini, la commissione referente del Senato aveva già esercitato su quel testo le proprie prerogative e l’aula l’aveva già approvato (al netto, ovviamente delle modifiche operate dalla Camera). Quanto detto non vuole essere volto a giustificare l’iter del disegno di legge costituzionale del 2015, quanto piuttosto vuole sottolineare l’ulteriore problematicità della mancata assegnazione del mandato al relatore (o ai relatori) già in prima lettura nel disegno di legge costituzionale in commento.
Basti qui sottolineare alcuni aspetti particolarmente problematici, che modificano il quadro rispetto a quanto già delineato per le leggi ordinarie: a) il fattore tempo e b) il ruolo delle minoranze nel procedimento di revisione costituzionale; nonché c) il ruolo del Governo nel perseguimento di riforme costituzionali e l’inserimento delle stesse all’interno del programma politico.
Sulla questione dei tempi della revisione costituzionale si è già accennato supra: una asserita urgenza appare incompatibile tanto con quella «tensione all’eternità» propria delle costituzioni[34], quanto con la ratio desumibile nello specifico dall’art. 138, in cui si stabilisce un termine minimo proprio a garanzia «di tempi adeguati di riflessione»[35].
Vi è poi il ruolo delle minoranze, la cui tutela costituisce uno degli aspetti fondamentali del procedimento di revisione costituzionale. In tal senso la commissione appare la sede naturale in cui trovare il compromesso politico finalizzato a raggiungere la maggiore condivisione possibile. In tal senso, la prassi di approvazione di riforme costituzionali condivise da tutte le forze politiche — prassi rotta a partire dagli anni duemila, quantomeno per i disegni “organici” di revisione — costituiva applicazione della ratio di cui al 138, di tendenza e preferibilità verso l’approvazione con i due terzi e non a maggioranza assoluta (senza contare che anche l’approvazione a maggioranza assoluta costituiva, in un sistema proporzionale, una soluzione di compromesso). In tal senso, saltare la fase in commissione e arrivare in aula già dando per scontati il voto a maggioranza e la procedura referendaria — come nelle dichiarazioni del Ministro della giustizia — costituisce una evidente violazione delle prerogative parlamentari (non nuova)[36] e impedisce alle opposizioni di avere alcuna voce in capitolo, anche, in caso di mancato accordo, attraverso una relazione di minoranza da presentare in aula[37].
Vi è, infine, il tema di fondo del revisionismo costituzionale e, quindi, del ruolo che il Governo è legittimato a svolgere nel perseguimento di riforme costituzionali e dell’inserimento delle stesse all’interno del proprio programma politico[38]. Il tema, invero, appare caratterizzare la storia costituzionale degli ultimi decenni ed è stato ampiamente analizzato dalla dottrina[39]. Tuttavia, della sua problematicità — o, se si vuole, del suo sostanziale contrasto con la Carta — non può essere lecito, nemmeno «per stanchezza»[40], tacere. In questa sede basti però rilevare il contesto in cui si inserisce l’iter della riforma costituzionale sulla magistratura: una riforma costituzionale “a colpi di maggioranza”, finalizzata a attuare un programma politico di governo in aperto contrasto con la Costituzione vigente[41].
L’evoluzione delle cose non stupisce ma preoccupa: siamo di fronte a una procedura nata sulla base di disposizioni regolamentari quantomeno problematiche dal punto di vista costituzionale, sviluppatasi in una prassi contraria alla ratio e la lettera degli stessi regolamenti, legittimata inizialmente sulla base di ragioni di urgenza o emergenza, che viene stabilizzata ed estesa ai procedimenti di revisione costituzionale, aggiungendo un ulteriore tassello a processi già in atto. Forse nulla di veramente “nuovo”, ma, ancora una volta, un passo verso lo svuotamento della Costituzione «del suo valore storico-politico, per tramutarla in uno strumento di governo ovvero di governabilità»[42]. Un passo ancora lontano dalla forma di governo disegnata dalla Costituzione. Quo usque tandem?
[1] Così C. F. Ferrajoli, Rappresentanza politica e responsabilità. La crisi della forma di governo parlamentare in Italia, Editoriale scientifica, Napoli, 2018, p. 364.
[2] Cfr., ex pluribus, L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, 3a ed., Il Mulino, Bologna, 2018, p. 211.
[3] Ivi, p. 213.
[4] P. Passaglia, Art. 72, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Milano, 2006, p. 1389.
[5] C. Bergonzini, I lavori in commissione referente tra regolamenti e prassi parlamentari, in Quaderni costituzionali, n. 4/2005, p. 789.
[6] L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, cit., p. 213.
[7] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Tomo ii, 9a ed., Cedam, Padova, 1976, p. 735.
[8] In tal senso A. A. Cervati, Art. 72, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Foro Italino, Bologna-Roma, 1985, p. 120; R. Bin - G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, 22a ed., Giappichelli, Torino, 2021, p. 374.
[9] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 735. Sul punto appare opportuno notare come pur non precisando la Costituzione i dettagli delle modalità di esame da parte della commissione referente, «si può ritenere che il giudice della costituzionalità delle leggi abbia tutti gli elementi per valutare se il precetto costituzionale è stato adempiuto, senza che sia necessario far ricorso alla disciplina regolamentare, che non dovrebbe in nessun caso essere assunta direttamente quale parametro per il controllo di costituzionalità delle leggi», così A. A. Cervati, Art. 72, cit., p. 121.
[10] L. Elia, Le commissioni parlamentari italiane nel procedimento legislativo, in Archivio giuridico “Filippo Serafini”, n. 1-2/1961, p. 72.
[11] A. A. Cervati, Art. 72, cit., p. 120.
[12] Ex pluribus, in tal senso L. Elia, Le commissioni parlamentari italiane nel procedimento legislativo, cit., pp. 78 e ss.
[13] Così P. Passaglia, Art. 72, cit., p. 1397.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 1389.
[16] Sottolinea tale aspetto A. A. Cervati, Art. 72, cit., p. 161, corsivo aggiunto.
[17] Ivi, p. 123.
[18] In realtà la sovrapposizione «tra materia costituzionale» e le leggi costituzionali o di revisione costituzionale non è pacifica in dottrina, ma che le leggi di revisione godano di una riserva d’assemblea, ai sensi dell’art. 138 ovvero del 72 appare un dato acquisito (sul punto A. A. Cervati, Art. 72, cit., p. 163).
[19] Sul punto L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, cit., p. 211.
[20] Sul punto C. Bergonzini, I lavori in commissione referente tra regolamenti e prassi parlamentari, cit., p. 790; L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, cit., p. 211; V. Di Ciolo - L. Ciaurro, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, 6a ed., Giuffrè, Milano, 2024, p. 588.
[21] Su cui V. Di Ciolo - L. Ciaurro, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, cit., p. 589.
[22] Cfr. L. Ciaurro, DDL unioni civili e criticità procedurali: 69 commi da raccontare, in Rassegna Parlamentare, n. 1/2016, pp. 103-126.
[23] Ivi, p. 590.
[24] L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, cit., p. 213.
[25] C. Bergonzini, I lavori in commissione referente tra regolamenti e prassi parlamentari, cit., p. 794.
[26] Camera dei Deputati, XVI Legislatura, Resoconto stenografico della seduta pubblica n. 437 del 22 febbraio 2011, p. 23.
[27] Sostenuta classicamente in dottrina da G. Ferrara, Il presidente di assemblea parlamentare, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 245-248.
[28] L’A. ribadirà il punto, spiegando come «l’attrazione della funzione di indirizzo politico nell’area parlamentare, per la parte che al Parlamento spetta perché titolare del potere di concedere, “accordare” la fiducia al Governo» e che non «poteva certo sfuggirmi che la scelta del sistema elettorale maggioritario avrebbe definitivamente attribuito il potere di indirizzo politico al Governo e tutto intero. Quanto alla configurazione del Presidente di Assemblea parlamentare credo quindi che la si possa ora identificare in quella del “magistrato neutrale”. Perché neutralizzato dal potere del Governo, così come lo è il Parlamento, ridotto ad esserne l’organo esecutivo per la traduzione in leggi dell’indirizzo che gli detta. Un indirizzo disponibile peraltro solo in parte, quella residua dalla cessione della sovranità statale alla Commissione dell’UE di Bruxelles e alla Banca centrale europea», così G. Ferrara, “Il Presidente di Assemblea parlamentare”, quarantotto anni dopo, in Il Filangieri, Quaderno 2012-2013, 2013, pp. 304 e 305.
[29] In tal senso G. Ferrara, Il presidente di assemblea parlamentare, cit., p. 5.
[30] Cfr. sul punto N. Lupo, Presidenti di Assemblea e la funzione (politica) di garanzia costituzionale. Rileggendo la monografia di Gianni Ferrara, in Forum di Quaderni costituzionali, n. 3/2024, p. 157.
[31] Sul punto, ex pluribus, C. F. Ferrajoli, Rappresentanza politica e responsabilità, cit., p. 374; sul punto, più in generale, pp. 367 e ss.
[32] Cfr. sul punto la relazione n. 33/2025 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione.
[33] Senato della Repubblica, Legislatura XVII, Aula, Resoconto stenografico della seduta n. 510 del 23 settembre 2015.
[34] Così M. Luciani, Dottrina del moto delle costituzioni e vicende della costituzione repubblicana, in Rivista AIC, n. 1/2013, p. 1.
[35] Così A. A. Cervati, La revisione costituzionale e il ricorso a procedure straordinarie di riforma delle istituzioni, in A. A. Cervati - S. P. Panunzio - P. Ridola, Studi sulla riforma costituzionale. Itinerari e temi per l’innovazione costituzionale in Italia, Giappichelli, Torino, 2001, p. 45.
[36] Cfr. ex pluribus, S. P. Panunzio, Le vie e le forme per l’innovazione costituzionale in Italia: procedura ordinaria di revisione, procedure speciali per le riforme costituzionali, percorsi alternativi, in A. A. Cervati - S. P. Panunzio - P. Ridola, Studi sulla riforma costituzionale, cit., p. 123.
[37] Legge la relazione di minoranza come strumento di tutela delle minoranze, P. Passaglia, Art. 72, cit., p. 1390.
[38] Si veda, ex pluribus, G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale. Tornare ai fondamentali, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 243.
[39] Si rimanda, ex pluribus, a C. F. Ferrajoli, Rappresentanza politica e responsabilità, cit., p. 377.
[40] L’espressione, utilizzata dall’A. in un contesto differente, è di M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2016, p. 7.
[41] Sui limiti delle revisioni costituzionali di natura governativa, si veda, ex pluribus, A. Gentilini, Un altro modo per dire “NO”. Note per un giudizio “costituzionalistico” sulla riforma costituzionale in corso, in ISSiRFA – Studi e interventi, novembre 2016.
[42] G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale. Tornare ai fondamentali, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 255.