ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I limiti di ammissibilità dell’intervento di terzi nel processo amministrativo (Commento a Cons. St., Ad. plen., 29 ottobre 2024, n. 15)
di Saul Monzani
Sommario: 1. Premessa. Il caso deciso dalla sentenza in commento: l’ammissibilità dell’intervento in un giudizio avente ad oggetto l’impugnazione di un atto generale riguardante un’intera categoria di operatori economici. – 2. L’evoluzione nel tempo della disciplina dell’intervento nel processo amministrativo. Il rapporto con le norme processualcivilistiche. – 3. Intervento “litisconsortile” e decadenza “dall’esercizio delle relative azioni”. – 4. Intervento adesivo-dipendente ed applicabilità del termine di decadenza. La distinzione tra delimitazione soggettiva degli effetti delle sentenze di annullamento e limiti soggettivi del giudicato amministrativo. – 5. Conclusioni: la sottoposizione dell’ammissibilità dell’intervento “adesivo-dipendente” al rispetto del termine di decadenza non convince.
1. Premessa. Il caso deciso dalla sentenza in commento: l’ammissibilità dell’intervento in un giudizio avente ad oggetto l’impugnazione di un atto generale riguardante un’intera categoria di operatori economici.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza (non definitiva) in commento è giunta a fornire importanti chiarimenti in tema di intervento nel processo amministrativo, aderendo all’orientamento tradizionale restrittivo per cui, ai sensi dell’art. 28 del Codice del processo amministrativo, il cointeressato che sia decaduto dalla facoltà di impugnare non è legittimato ad effettuare un intervento nel processo in corso tra altre parti, né in via litisconsortile, né in senso adesivo-dipendente.
I fatti che hanno dato origine al pronunciamento del massimo consesso della giustizia amministrativa si situano nell’ambito di due giudizi proposti da soggetti coinvolti, a vario titolo, nello svolgimento del servizio idrico integrato, i quali hanno contestato il metodo tariffario approvato dall’Autorità di Regolazione per Energia Reti Ambiente (ARERA) nella parte in cui non vengono riconosciuti agli operatori del settore gli oneri finanziari sostenuti a causa del differimento biennale della corresponsione dei conguagli relativi ai costi ammessi e non coperti da tariffa dell’anno regolatorio di riferimento.
La pronuncia che interessa in questa sede esaminare si è concentrata sul fatto che nei due giudizi predetti è stato effettuato un atto di intervento da parte di un ulteriore soggetto che, in qualità di gestore del servizio idrico integrato sul territorio nazionale, era destinato a risentire in via diretta degli effetti degli atti di regolazione tariffaria impugnati dagli altri due operatori.
Tutto ciò considerato, l’Adunanza plenaria si è trovata, per quanto qui rileva, a prendere posizione sui limiti di ammissibilità dell’intervento, con particolare riferimento a quello adesivo-dipendente, chiarendo se in pendenza di un giudizio amministrativo avente ad oggetto la legittimità di un atto generale, come tale riguardante un’intera categoria di operatori economici, sia ammissibile l’intervento adesivo-dipendente proposto da un cointeressato che non abbia a sua volta impugnato l’atto in questione.
2. L’evoluzione nel tempo della disciplina dell’intervento nel processo amministrativo. Il rapporto con le norme processualcivilistiche.
Come rilevato dalla stessa Adunanza Plenaria, la disciplina dell’intervento nel processo amministrativo si è evoluta nel corso del tempo, riflettendo l’acquisita configurazione del processo stesso non più in senso meramente impugnatorio ma nella più ampia prospettiva di un giudizio che è giunto a riguardare non solo il provvedimento bensì, più in generale, il rapporto giuridico che sorge tra il cittadino e la pubblica amministrazione, con conseguente ampliamento dei poteri del giudice amministrativo e della tipologia di azioni esperibili avanti il medesimo.
Così, all’origine, l’intervento era stato disciplinato dal r.d. 17 agosto 1907 n. 642, il quale prevedeva semplicemente, secondo il combinato disposto di cui agli artt. 37 e 40, a proposito dell’intervento volontario, che “chi ha interesse alle contestazione può intervenirvi” nello stato in cui essa si trova.
Le successive norme contenute nel r.d. 26 giugno 1924 n. 1054 (Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato), nonché nella l. 6 dicembre 1971 n. 1034 istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali, hanno riprodotto sostanzialmente la medesima formulazione.
Il Codice del processo amministrativo (c.p.a.), di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ha introdotto una disciplina in tema di intervento all’interno del titolo dedicato alle “Azioni e domande”, così da evidenziarne la sua derivazione dal principio costituzionale del contraddittorio tra le parti, quale componente del “giusto processo”[1].
Tuttavia, la formulazione rimane piuttosto scarna, limitandosi, all’art. 28, a distinguere, da un lato, le parti necessarie, “nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata”, con riferimento dunque ai controinteressati cui il ricorso deve essere notificato ai sensi dell’art. 42, comma 2, c.p.a., e, dall’altro lato, chiunque altro che non sia parte del giudizio, il quale abbia però un interesse ad intervenire (allo stato e grado in cui esso di trova). Per quanto riguarda quest’ultima fattispecie, ossia quella dell’intervento “volontario”, il Codice limita l’ammissibilità dell’intervento subordinandola al fatto che il soggetto interessato non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni (ossia dalla possibilità di impugnare a sua volta il provvedimento in questione).
Il comma 3 dell’art. 28 del c.p.a. prevede, infine, l’intervento per ordine del giudice, qualora quest’ultimo, anche su istanza di parte, ritenga opportuno che il giudizio si svolga anche nei confronti di un terzo.
In particolare, al fine di ricostruire i caratteri dell’intervento di carattere “volontario” nel processo amministrativo, appare utile riferirsi alla classificazione che risulta dall’impianto del Codice di procedura civile[2], alle cui norme lo stesso Codice del processo amministrativo rinvia per tutto quanto ivi non previsto e purchè esse siano compatibili con il giudizio amministrativo o siano espressione di principi generali (art. 39 c.p.a.).
Ebbene, nella prospettiva appena assunta, l’intervento volontario può assumere diversi connotati. Si può trattare, in primo luogo, di un intervento “principale”: in tale ipotesi, l’interventore fa valere, nei confronti di tutte le parti, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo. Può venire in rilievo, in secondo luogo, un intervento di tipo “litisconsortile” o “adesivo autonomo”, allorquando il terzo deduca in giudizio un rapporto connesso per l’oggetto o per il titolo nei confronti di alcune soltanto delle parti in causa. Infine, si è in presenza di un intervento “adesivo dipendente” quanto l’interventore, in ragione di un proprio interesse, si prefigge di sostenere le ragioni di una delle parti, al fine di favorire l’ottenimento di una sentenza favorevole alla parte adiuvata e, di conseguenza, all’interventore stesso.
Per quanto riguarda il rapporto tra disciplina processualcivilistica e processo amministrativo, in ordine alla possibilità di intervento in giudizio da parte di terzi, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella pronuncia in commento, ammette che i modelli partecipativi elaborati dalla dottrina del processo civile rappresentano un importante punto di riferimento di teoria generale, avendo la medesima funzione di collegare la vicenda sostanziale a quella processuale in presenza di fenomeni di connessione.
Invero, la concezione tradizionale, imperniata sulla visione in chiave meramente impugnatoria del processo amministrativo, ha escluso una generalizzata trasposizione a quest’ultimo delle norme di cui al codice di procedura civile in tema di intervento, tenuto conto delle diversità strutturali tra i due tipi di rito.
Di conseguenza, si tendeva ad escludere l’ammissibilità nel processo amministrativo, perlomeno in sede di giurisdizione generale di legittimità, dell’intervento in via “principale” o anche “litisconsortile”, risultando difficilmente configurabile la prospettazione da parte di un terzo di una domanda autonoma incompatibile con quelle sia del ricorrente che dell’Amministrazione resistente, così che il terzo, più semplicemente, è stato considerato abilitato (solo) ad aderire alla posizione di una delle due parti principali, ad opponendum oppure ad adiuvandum[3]. A tale conclusione si è approdati anche argomentando che, trattandosi di interventi finalizzati alla tutela di interessi autonomi di terzi, il loro intervento in un giudizio radicato da altri soggetti risulterebbe incompatibile con la perentorietà dei termini di decadenza per agire che caratterizza il giudizio amministrativo[4].
A diverse conclusioni, invece, si è pervenuti, anche di recente, con riferimento alle controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva, ove, vertendosi in tema di tutela di diritti soggettivi, si dovrebbero ritenere utilizzabili tutte le forme di intervento previste dal codice di procedura civile, non potendosi predicare una limitazione delle facoltà processuali delle parti che non siano espressamente escluse dalle norme processuali amministrative o comunque che non siano con esse incompatibili[5]. In questo senso si è espressa anche l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, in cui si è statuito proprio che “quando è chiesta la tutela di un diritto soggettivo in sede di giurisdizione esclusiva, in tema di intervento si applicano senz’altro le regole e i principi desumibili dal codice di procedura civile”. Diversamente, sempre secondo il massimo consesso della magistratura amministrativa, “nell’ambito dell’azione di annullamento posta a tutela di situazioni di interesse legittimo, l’impianto sistematico del codice di procedura civile non può essere automaticamente trasposto nel processo amministrativo, dovendo i meccanismi di intervento adattarsi alle specificità strutturali di ciascuna tipologia di giudizio”.
3. Intervento “litisconsortile” e decadenza “dall’esercizio delle relative azioni”.
Tutto ciò posto, nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, la pronuncia in commento ha tracciato la distinzione tra “intervento adesivo” dipendente e quello “litisconsortile”.
Il primo fa riferimento alla posizione di un terzo titolare di un interesse non direttamente inciso da provvedimento da altri impugnato, ma comunque suscettibile di risentire in qualche misura degli effetti del giudicato. In tal caso, il carattere indiretto e mediato del pregiudizio ipoteticamente subito esclude la legittimazione del terzo che si trovi in siffatta posizione a promuovere un giudizio autonomo, con la conseguenza che l’intervento determina un ampliamento solo soggettivo della controversia dato che l’interventore si limita a sostenere l’attività difensiva di una delle parti, senza potere introdurre domande, fatti, prove e senza potere dare altrimenti impulso al giudizio.
Diversamente, il terzo potrebbe essere titolare di un interesse direttamente inciso dall’azione pubblica, già censurata da altri soggetti tramite un’impugnazione, il quale interesse, pertanto, potrebbe essere fatto valere autonomamente. In tale fattispecie, la ratio cui soggiace l’ammissibilità dell’intervento “litisconsortile” non è più quella consistente nell’intento dell’interventore di favorire un determinato esito del giudizio instaurato da altre parti, dal quale ricavare un beneficio anche nella propria sfera giuridica, bensì, più in generale, lo scopo dell’intervento si identifica con l’esigenza, per ragioni di economia processuale, di cumulo di più impugnazioni su di un unico tema, in modo da prevenire il rischio di giudicati confliggenti.
Per quanto riguarda in particolare quest’ultima forma di intervento, la giurisprudenza ha costantemente assunto una posizione restrittiva, escludendo l’ammissibilità dell’intervento da parte di chi avrebbe potuto (e anzi dovuto) impugnare autonomamente il provvedimento direttamente lesivo della propria sfera giuridica e ciononostante non l’abbia fatto entro il termine di decadenza, prestandovi, così, acquiescenza. In sostanza, si è statuito concordemente che il c.d. cointeressato all’impugnazione “è onerato ad attivarsi tempestivamente in sede giurisdizionale, potendo scegliere se proporre un autonomo ricorso entro il termine di decadenza all’uopo applicabile ovvero limitarsi ad un intervento tempestivo nel processo inter alios pendente, sempre entro il termine di decadenza al riguardo operante, aderendo al ricorso da altri proposto e accettando lo stato in cui il giudizio si trova al momento della costituzione”[6].
Diversamente opinando, si è ritenuto che l’intervento finisca per divenire lo strumento processuale cui “aggrapparsi” allorquando si sia decaduti dalla possibilità di promuovere l’azione di annullamento, dando luogo ad un caso di “abuso del processo” consistente nell’utilizzo di uno strumento di per sé lecito ma per finalità elusive ad esso estranee[7].
Infatti, l’interveniente in via “litisconsortile”, in quanto parte principale, sia pure non necessaria, non incontra limiti nella propria condotta processuale, potendo addurre argomenti propri e diversi da quelli dedotti dalle parti originarie del giudizio: ecco perché tale forma di intervento deve essere effettuata entro il termine di decadenza dall’impugnazione autonoma.
Siffatta impostazione è coerente con quella recepita nel Codice del processo amministrativo che, sul punto, specifica proprio, come si è già avuto modo di rilevare, che l’ammissibilità dell’intervento di chi abbia interesse è subordinata al fatto che quest’ultimo non sia “decaduto dall’esercizio delle relative azioni”.
Se tale previsione si applica concordemente, e condivisibilmente, in tema di intervento “litisconsortile”, più discussa è la sottoposizione dell’intervento adesivo-dipendente a tale condizione restrittiva, come ci si appresta ad illustrare.
4. Intervento adesivo-dipendente ed applicabilità del termine di decadenza. La distinzione tra delimitazione soggettiva degli effetti delle sentenze di annullamento e limiti soggettivi del giudicato amministrativo.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, richiama l’orientamento giurisprudenziale considerato “maggioritario”, per cui il cointeressato che sia decaduto dalla facoltà di promuovere l’azione di annullamento, così come non è abilitato a spiegare un intervento di tipo “litisconsortile”, neppure potrebbe intervenire in via “adesivo-dipendente”[8].
In realtà, tale posizione non risulta univoca, scontrandosi con l’idea, diffusa a partire da una dottrina tanto risalente quanto autorevole[9], la quale, muovendo dalla considerazione per cui la ratio del termine di decadenza per proporre ricorso sarebbe da ricollegare alla necessità di assicurare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici e delle situazioni giuridiche soggettive, evitando che un provvedimento amministrativo rimanga sindacabile in sede giurisdizionale per un tempo eccessivamente lungo, ne fa derivare la conseguenza per cui, una volta validamente instaurato un giudizio da una delle parti, non vi sarebbe più alcuna ragione di far valere l’intervenuta decadenza, proiettandola, così, non più sul piano oggettivo, bensì su quello soggettivo, precludendo l’intervento del soggetto che, senza ampliare il thema decidendum, e dunque senza svolgere nuove domande o eccezioni, intenda semplicemente sostenere la tesi di una delle parti al fine di ottenere, in via indiretta, un beneficio nella propria sfera giuridica per effetto della sentenza conclusiva del giudizio instaurato da altri.
In tale ordine di idee, si è condotto un parallelismo rispetto al disposto di cui all’art. 105 c.p.c., nel momento in cui esso legittima l’intervento del terzo che abbia un proprio interesse nel giudizio, il quale non sarebbe da identificare nell’interesse ad agire vero e proprio (quale elemento cui si “aggancia” l’operatività del termine di decadenza), bensì assumerebbe la consistenza di una posizione, non di puro fatto ma pur sempre giuridicamente protetta, qualificata e differenziata rispetto alla generalità dei consociati, volta a favorire un esito favorevole anche per sé, sia pure in via indiretta, del giudizio promosso da altre parti e reso in via principale nei loro confronti.
Siffatta impostazione deriva, in altri termini, dalla tradizionale ricostruzione per cui l’interesse ad intervenire si configurerebbe in maniera diversa rispetto all’interesse a ricorrere, dovendo, il primo, risultare qualificato rispetto alla generalità dei consociati, da un lato, ma assumendo una consistenza minore rispetto all’interesse che legittima il ricorso in via autonoma, dall’altro lato.
La riferita posizione è stata recepita da una certa parte della giurisprudenza amministrativa, la quale non ha ravvisato ostacoli nell’ammettere, anche dopo la scadenza del termine di decadenza, un intervento adesivo dipendente del cointeressato, laddove egli sia destinatario di atti ad effetti non frazionabili (il che si verifica quando l’annullamento del provvedimento non può che operare nei confronti di tutti i destinatari)[10].
Sennonchè, la pronuncia oggetto del presente commento, risolvendo il descritto quadro giurisprudenziale non univoco, ha ritenuto di confermare la posizione maggioritaria sopra riferita, non aderendo, per converso, all’impostazione da ultimo illustrata. Ciò per le seguenti ragioni.
In primo luogo, secondo il massimo consesso della giustizia amministrativa, la possibilità di intervento del cointeressato decaduto dal diritto di impugnare contrasterebbe con la “chiara” formula legislativa di cui all’art. 28 c.p.a., la quale, nel precisare che l’interventore non debba essere “decaduto dall’esercizio delle relative azioni”, presuppone che l’intervento del cointeressato, oltre che tempestivo, contenga la domanda di annullamento, configurandosi, pertanto, in termini necessariamente “litisconsortili”.
In secondo luogo, i giudici amministrativi riuniti in consesso hanno argomentato la presa di posizione ora in considerazione sul piano dell’interpretazione sistematica, ricavandola dalla struttura stessa del giudizio di impugnazione.
In tale prospettiva, si è ritenuto che, pure nel caso di provvedimenti con effetti inscindibili nei confronti di una pluralità di soggetti (come gli atti di regolazione tariffaria), ostano all’ammissibilità dell’intervento del cointeressato decaduto dall’esercizio delle relative azioni quelle medesime esigenze di certezza e stabilità dell’azione amministrativa che fondano l’invalicabilità del termine di decadenza per impugnare.
In particolare, secondo l’autorevole pronuncia oggetto del presente commento, occorre considerare la non coincidenza, tra la delimitazione soggettiva degli effetti delle sentenze di annullamento, da un lato, ed i limiti soggettivi del giudicato amministrativo, dall’altro lato.
In siffatto ordine di idee, si è osservato che il giudicato amministrativo opera esclusivamente tra le parti del giudizio, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 2909 c.c., con la conseguenza che, di regola, i terzi estranei non sono pregiudicati dalle statuizioni della sentenza così come, coerentemente, non possono avvantaggiarsene.
Ciò posto, viene ammesso che vi siano delle fattispecie in cui il giudicato amministrativo produce, di fatto, effetti “ultra partes”, i quali, però, sono ritenuti rappresentare l’eccezione alla regola sopra ricordata, giustificandosi in ragione della oggettiva inscindibilità degli effetti dell’atto o del vizio dedotto.
Così, è stato riconosciuto[11] che produca, eccezionalmente, i predetti effetti “ultra partes” una sentenza di annullamento: di un regolamento a carattere normativo (avente dunque efficacia “erga omnes”), di un atto plurimo inscindibile (ad es. il decreto di esproprio di un bene in comunione); di un atto plurimo scindibile, se il ricorso viene accolto per un vizio comune alla posizione di tutti i destinatari (ad es. il decreto di approvazione di una graduatoria concorsuale travolto per un vizio comune); di un atto che provvede unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti (ad es. il decreto di scioglimento di un Consiglio comunale).
E’ stato però precisato che in tutti i casi indicati, l’inscindibilità è da ricondurre solo all’effetto caducatorio conseguente all’annullamento, in quanto solo rispetto ad esso verrebbe a crearsi una innegabile situazione di incompatibilità logica per cui un atto inscindibile possa non esistere più per taluno e continuare ad esistere per altri. In altre parole, l’indivisibilità degli effetti del giudicato, nella prospettiva che si sta riferendo, presuppone l’esistenza di un legame altrettanto inscindibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile, logicamente, ancor prima che giuridicamente, che l’atto annullato possa continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato; per tali ragioni, si è escluso che l’indivisibilità possa operare con riferimento a effetti del giudicato diversi da quelli caducanti e, quindi, per gli effetti conformativi, ordinatori, additivi o di accertamento della fondatezza della pretesa azionata, che operano solo nei confronti delle parti del giudizio[12].
Per tale via, la pronuncia oggetto del presente commento è giunta a precisare che la propagazione dell’effetto di annullamento giurisdizionale anche a favore di terzi che non abbiano proposto tempestivamente impugnazione si giustifica solo nel momento in cui la caducazione di un atto a contenuto inscindibile rilevi come “fatto” di ablazione o, in altri termini, di espunzione di un determinato atto dall’ordinamento generale, il quale inevitabilmente si riflette nella sfera di tutti i consociati che ne siano destinatari, attesa l’ontologica indivisibilità sul piano fattuale e sostanziale. Ciò non toglie, però, sempre secondo l’autorevole ricostruzione in commento, che il vincolo del giudicato continui ad operare solo ed esclusivamente tra le parti del giudizio, essendo legato indissolubilmente all’accertamento delle specifiche posizioni soggettive e delle pretese dedotte nel processo, con la conseguenza che solo le parti sono abilitate a beneficiare della forza esecutiva della sentenza e sono legittimate, nel caso, a farne valere la violazione in sede di ottemperanza. In siffatta ottica, l’effetto conformativo dell’azione amministrativa prodotto dalla sentenza non deve necessariamente riguardare tutti i rapporti astrattamente regolati dall’atto generale annullato, bensì sarebbe da ritenersi circoscritto ai soli rapporti oggetto dell’accertamento giurisdizionale.
In definitiva, la conclusione cui approda l’Adunanza plenaria nella pronuncia oggetto del presente commento è nel senso di non consentire l’intervento “tardivo” del cointeressato decaduto, proprio per evitare che questo, divenuto per tale via parte del processo, possa azionare gli effetti conformativi del giudicato di annullamento; ciò anche con riferimento ad un atto a portata generale il cui annullamento, come detto, non deve necessariamente riguardare “indivisibilmente” tutti i rapporti astrattamente regolati dall’atto stesso.
Secondo i giudici amministrativi, la conclusione appena evidenziata sarebbe particolarmente “calzante” al caso esaminato, riguardante un atto di regolazione tariffaria il quale, per sua natura, è destinato ad essere recepito ed applicato a livello locale. Ebbene, da tale punto di vista, si è osservato che l’eventuale annullamento di un atto di tale genere all’esito di un giudizio instaurato da un determinato operatore economico non potrebbe comportare l’obbligo per tutte le amministrazioni locali di revisionare convenzioni e tariffe praticate da gestori che non abbiano proposto l’impugnazione. In altri termini, consentire ai gestori che abbiamo prestato acquiescenza al sistema regolatorio così come definito dalla competente Autorità di intervenire, a distanza di tempo, nei giudizi proposti da altri soggetti, comporterebbe “evidenti effetti distorsivi sulla stabilità del sistema regolatorio”.
5. Conclusioni: la sottoposizione dell’ammissibilità dell’intervento “adesivo-dipendente” al rispetto del termine di decadenza non convince.
La sentenza in commento nel giungere ad enunciare il principio di diritto per cui è da ritenere inammissibile l’intervento “adesivo-dipendente” del cointeressato che abbia prestato acquiescenza al provvedimento lesivo, anche ove si tratti di un atto generale o comunque ad effetti inscindibili per una pluralità di destinatari, finisce per applicare al predetto tipo di intervento lo stesso trattamento riservato all’intervento di natura “litisconsortile”.
Eppure l’interesse che muove i due tipi di interventori è ben diverso[13]: l’interventore “litisconsortile” è titolare di un vero e proprio interesse legittimo direttamente inciso dall’attività amministrativa autonomo rispetto a quello delle parti originarie e dunque da far valere o tramite un separato ricorso o attraverso un intervento nel giudizio promosso da altri, ma sempre entro il termine di decadenza, dato che in tale ipotesi l’intervento (tempestivo) dà titolo a chi lo effettua a porre in essere tutte le difese ritenute più opportune, senza limiti di sorta, alla stessa stregua del ricorrente originario.
Diversamente, l’interventore in via “adesivo-dipendente”, come riconosciuto nella stessa pronuncia in commento, fa valere, ad adiuvandum oppure ad opponendum, una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale, la quale se, da un lato, si deve differenziare da un generico interesse alla legittimità dell’atto, tuttavia, dall’altro lato, nemmeno può assurgere ad un vero e proprio interesse legittimo all’impugnazione in via autonoma. In altri termini, l’interventore in via “adesivo-dipendente” non è legittimato, a differenza dell’interventore “litisconsortile”, a proporre ricorso autonomo, proprio in quanto la situazione giuridica soggettiva in cui il primo si trova non glielo consente[14], potendo costui, molto più semplicemente, cooperare con la parte adiuvata nella prospettazione difensiva, senza introdurre domande, fatti o prove, o dare altrimenti impulso al giudizio.
Addirittura la costante giurisprudenza, con particolare riferimento all’intervento ad opponendum, ha precisato che “nel processo amministrativo, per essere ammesso ad intervenire come opponente, è sufficiente che l’interveniente abbia un interesse di fatto nella controversia, legato a quello relativo all’azione principale o ad esso connesso, oppure basato sulla necessità di mantenere i provvedimenti impugnati, che gli consenta di ottenere un vantaggio indiretto e riflesso dal rigetto del ricorso”[15].
Tutto ciò considerato, nella già segnalata prospettiva per cui il processo amministrativo non va più inteso in senso meramente impugnatorio, dovendo, viceversa, essere inquadrato nella più ampia prospettiva di un giudizio che riguarda, non solo il provvedimento contestato, ma anche il rapporto giuridico che sorge tra il cittadino e la pubblica amministrazione, come testimoniato dall’ampliamento dei poteri del giudice amministrativo e della tipologia di azioni esperibili avanti lo stesso, la posizione “tradizionale”, come ribadita dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella pronuncia oggetto del presente commento, non appare appagante.
In tale ordine di idee, occorrerebbe ammettere che le posizioni giuridiche soggettive che vengono dedotte in giudizio, pur dovendosi differenziare da quelle della generalità dei consociati, tuttavia, sul piano sostanziale, non possono considerarsi autonome ed isolate rispetto ad una fitta trama di interrelazioni e connessioni, di diverso tipo e contenuto, entro le quali inevitabilmente si collocano. Così, anche il processo amministrativo, distaccandosi dal modello esclusivamente impugnatorio per divenire adeguato ed effettivo strumento di tutela delle posizioni giuridiche soggettive tutelate dalla legge, dovrebbe mostrarsi idoneo a considerare tale sistema di relazioni operante sul piano sostanziale[16].
Così, si potrebbe tentare un superamento della visione tradizionale imperniata su di un certo atteggiamento di chiusura nei confronti dell’intervento nel processo amministrativo.
In particolare, se è vero che l’interesse ad intervenire si configura in maniera diversa rispetto all’interesse a ricorrere e che, pertanto, l’interesse dell’interveniente in via “litisconsortile” si pone in rapporto di “alterità” rispetto a quello di chi intervenga a mero titolo “adesivo-dipendente”, con conseguente profonda differenza tra le iniziative processuali esperibili nell’uno e nell’altro caso, allora forse, nel quadro generale descritto, si potrebbe sottrarre l’ammissibilità dell’intervento “adesivo-dipendente” alla “ghigliottina” della decadenza, avvicinando così il processo amministrativo a quella logica di giudizio sul rapporto, o forse meglio sui rapporti, che più propriamente caratterizza il processo civile[17].
Non pare ostativo a tale evoluzione il timore paventato dai giudici amministrativi circa l’estensione agli intervenienti della possibilità di azionare l’effetto conformativo dell’azione amministrativa prodotto dalla sentenza.
Da tale angolo visuale, si può anche accettare l’assunto per cui il predetto effetto conformativo non deve necessariamente riguardare tutti i rapporti astrattamente regolati dall’atto generale annullato, bensì sarebbe da ritenersi circoscritto ai soli rapporti oggetto dell’accertamento giurisdizionale; ciò ammesso, occorre però notare che l’eventuale estensione del margine di ammissibilità dell’intervento “adesivo-dipendente” anche oltre il termine di decadenza per impugnare non determinerebbe un coinvolgimento di “tutti i rapporti astrattamente regolati dall’atto generale annullato”, bensì solo di quelli che sono entrati a far parte del giudizio, nello stato in cui si trova, tramite l’intervento. Nel caso concreto esaminato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in sostanza, il vincolo conformativo derivante dal giudicato di annullamento dell’atto di regolazione tariffaria non comporterebbe l’obbligo di revisione della tariffa da parte di tutti gli enti locali astrattamente destinatari della regolazione, ma solo di quelli coinvolti nel giudizio, anche per effetto di un intervento del corrispondente gestore nel processo originariamente instaurato da altri.
Del resto, sul piano pratico, se l’intervento “adesivo-dipendente” è ormai pacificamente ritenuto ammissibile nel processo amministrativo, subordinare la sua ammissibilità al fatto che l’interveniente lo proponga entro il termine di decadenza per l’impugnazione significa ridimensionare di molto la sua operatività. Infatti, se la posizione fatta valere per tale via è per definizione collegata o dipendente rispetto a quella del ricorrente in via principale e tale, pertanto, da non legittimare la proposizione di un ricorso autonomo, allora, di fatto, l’interveniente in via “adesivo-dipendente” deve agire una volta instaurato il ricorso principale, ossia in un momento in cui, verosimilmente, il termine di decadenza è già decorso o, nel migliore dei casi, è estremamente ridotto.
[1] Sulla disciplina dell’intervento nel Codice del processo amministrativo si v., tra gli altri, M. Ricciardo Calderaro, L’intervento nel processo amministrativo: antichi problemi e nuove prospettive dopo il Codice del 2010, in Dir. proc. amm., 2018, 341 ss. e Id., Recenti sviluppi in tema di intervento e di opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2021; V.M. Sessa, Intervento in causa e trasformazioni del processo amministrativo, Napoli, 2012; L. Coraggio, L’intervento nel Codice del processo amministrativo, in Giurisdiz. amm., 2011, IV, 299 ss.; L. Cimellaro, Intervento, in B. Sassani, A. Villata, Il Codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012. In precedenza si v., tra gli altri, M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Dir. proc. amm., 1999, 381 ss. Più di recente, invece, cfr., in generale sull’argomento, Aa.Vv., L’intervento nel processo amministrativo, a cura di M. Ramajoli, R. Villata, Torino 2023.
[2] Sull’impianto del c.p.c. in tema di intervento volontario si v., tra gli altri, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2024, 320 ss.; M. Segatti, Commento all’art. 105, in Aa.Vv., Commentario breve al Codice di procedura civile, Padova, 2023; F. Danovi, L. Salvaneschi, Diritto processuale civile. I principi, Milano, 2023, 333 ss.; A. Carratta, C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, I – Nozioni introduttive e disposizioni generali, Torino, 2023, 189 ss.; E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, a cura di V. Colesanti, E. Merlin, Milano, 2021, 88 ss.
[3] In tal senso, ancora di recente, si v. Cons. St., sez. IV, 21 maggio 2024, n. 4519, in www.giustizia-amministrativa.it, per cui “nel processo amministrativo, l’intervento ad adiuvandum può essere svolto da colui il quale vanti una posizione di fatto, dipendente o collegata alla situazione fatta valere con il ricorso principale, cd. intervento adesivo-dipendente, escludendosi invece tale possibilità nei riguardi del cointeressato, cd. intervento autonomo/principale, cioè di colui il quale vanti un interesse personale e diretto all'impugnazione del provvedimento oggetto di censura; Cons. St., sez. III, 31 marzo 2023, n. 3363, ivi; Cons. St., sez. IV, 14 febbraio 2022, n. 1040, in www.dirittodeiservizipubblici. Nello stesso senso anche Cons. St., sez. VI, 26 gennaio 2018, n. 557, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 853, ivi. Nel senso che “nel processo amministrativo l'intervento ad adiuvandum o ad opponendum può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale” si v. anche Cons. St., Ad. plen., 30 agosto 2018, n. 13, in Foro amm., 2018, 1198. Ancora, in conformità al riferito orientamento, si v. anche T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 17 aprile 2024, n. 7532, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Così, in dottrina, N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Napoli, 2015, 158.
[5] Sul punto cfr. S. Foà, Giustizia amministrativa, atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, 2012, 74 ss. In tema, di recente, si v. anche A. Chizzini, L’intervento nella dinamica del processo amministrativo: profili generali, in Dir. proc. amm., 2023, 460 ss., il quale propende per l’ammissibilità di ogni forma di intervento nel processo amministrativo, oltre che con riferimento alla giurisdizione esclusiva, anche per quanto riguarda l’azione di accertamento della nullità di un provvedimento amministrativo oppure in caso di ricorso avverso il silenzio della pubblica amministrazione.
[6] In tal senso, tra le tante pronunce, si v. Cons. St., sez. VI, 15 febbraio 2023, n. 1580, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. VI, 15 gennaio 2020, n. 384, ivi; Cons. St., sez. V, 29 marzo 2019, n. 2094, ivi; Cons. St., sez. VI, 13 agosto 2018, n. 4939, ivi; Cons. St., sez. IV, 6 maggio 2013, n. 2446, ivi; Cons. St., sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 359, ivi; Cons. St., sez. V, 5 novembre 2012, n. 5591, ivi; Cons. St., sez. III, 21 novembre 2011, n. 6125, ivi.
[7] In tema cfr. tra gli altri P.M. Vipiana, L’abuso del processo amministrativo, in G. Visentini (a cura di), L’abuso del diritto, Napoli, 2016, 247 ss.; M.G. Pulvirenti, Riflessioni sull’abuso del processo, in Dir. e proc. amm., 2016, 1091 ss.; G. Corso, Abuso del processo amministrativo?, in Dir. proc. amm., 2016, 1 ss.; G. Tropea, Spigolature in tema di abuso del processo, ivi, 2015, 1262 ss.; S. Baccarini, Abuso del processo e giudizio amministrativo, ivi, 2015, 1203 ss.; C.E. Gallo, L’abuso del processo nel giudizio amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2008, 1022 ss.
[8] Sul punto cfr., di recente, Cons. St., sez. V, 23 agosto 2023, n. 7925, in Foro amm., 2023, 1039; Cons. St., sez. III, 4 aprile 2023, n. 3442, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. IV, 20 settembre 2022, n. 8114, in Foro amm., 2022, 1101; Cons. St., sez. V, 12 luglio 2021, n. 5274, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. IV, 29 novembre 2017, n. 5596, ivi.
[9] Il riferimento è a M. Nigro, In tema di intervento volontario nel processo amministrativo, in Foro amm., 1951, 282 ss. In tema cfr. anche, sempre in merito alla posizione “tradizionale”, A. Tigano, Considerazioni critiche in tema di intervento nel processo amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, 1991 ss.; A. Romano, In tema di intervento nel processo amministrativo, in Foro amm., 1961, 1264 ss.
[10] In tal senso cfr. Cons. St., sez. III, 27 maggio 2024, n. 4701, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. VI, 3 marzo 2016, n. 882, in Dir. proc. amm., 2018, 336 ss.; T.A.R. Lazio Roma, Sez. III ter, 7 gennaio 2019, n. 176, in www.giustizia-amministrativa.it.
[11] Sul punto cfr. Cons. St., Ad. plen., 27 febbraio 2019, n. 4, in Foro amm., 2019, 197.
[12] Così Cons. St., Ad. plen., 27 febbraio 2019, n. 4, cit., resa in una fattispecie relativa all’impugnazione di un decreto ministeriale che aveva disciplinato la procedura per l’aggiornamento e l’integrazione delle graduatorie ad esaurimento (c.d. GAE) per il personale docente ed educativo della scuola, nella parte in cui esso non aveva consentito l’inserimento dei soggetti in possesso di diploma magistrale conseguito entro un certo anno scolastico. Dopo l’accoglimento del ricorso in primo grado, in appello il giudizio è stato rimesso all’Adunanza plenaria per la soluzione di alcune questioni. In tale ultimo tratto del giudizio erano intervenuti ad opponendum soggetti terzi in possesso del diploma magistrale predetto, dichiarandosi parti di analoghi giudizi pendenti innanzi al giudice amministrativo. Ebbene, in tale occasione, l’Adunanza Plenaria ha statuito che l’annullamento dei decreti ministeriali di aggiornamento delle GAE, nella parte in cui non aveva consentito ai diplomati magistrali l’inserimento in graduatoria, aveva prodotto un effetto non propriamente caducante (stante l’assenza nel d.m. di alcuna previsione suscettibile di essere caducata diretta a disciplinare l’accesso in graduatoria da parte di chi non via fosse già inserito), ma, sostanzialmente, di accertamento della pretesa all’inserimento e, di conseguenza, tale annullamento aveva determinato un effetto additivo/conformativo: il giudicato così formatosi, pertanto, a prescindere dalla natura giuridica dei decreti ministeriali, non è stato ritenuto estensibile ai soggetti diversi dagli originari ricorrenti, il cui intervento, pertanto, è stato giudicato inammissibile.
[13] Sul punto Cons. St., sez. V, 23 agosto 2023, n. 7925, cit., conferma come l’intervento adesivo dipendente sia subordinato, di là dagli altri presupposti, alla condizione — di carattere negativo — della “obiettiva alterità” dell’interesse vantato dall’interventore rispetto a quello che legittimerebbe alla proposizione del ricorso in via principale, di tal che l’intervento sia volto a tutelare un interesse diverso ancorché collegato a quello fatto valere dal ricorrente principale, con la conseguenza che la posizione dell’interessato sia meramente accessoria e subordinata rispetto a quella della corrispondente parte principale.
[14] In questo senso, di recente, cfr. Cons. St., sez. II, 25 settembre 2024, n. 7783, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si specifica proprio che “E’ inammissibile l’intervento ad adiuvandum spiegato nel processo amministrativo da chi sia ex se legittimato a proporre direttamente il ricorso giurisdizionale in via principale, considerato che in tale ipotesi l'interveniente non fa valere un mero interesse di fatto, bensì un interesse personale all’impugnazione di provvedimenti immediatamente lesivi, che deve essere azionato mediante proposizione di ricorso principale nei prescritti termini decadenziali poiché, in caso contrario, l'intervento si risolverebbe in un comodo strumento per aggirare l’onere di tempestiva impugnazione”.
[15] Così, tra le tante, Cons. St., V, 14 agosto 2024, n. 7141, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. V, 1° settembre 2021, n. 6142, in Dir. proc. amm., 2022, 162; Cons. St., sez. IV, 7 agosto 2020, n. 4973, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. III, 22 marzo 2017, n. 1303, ivi.
[16] Nel senso indicato cfr. A. Chizzini, op. cit.
[17] Nell’ordinamento processuale civile si ritiene che l’interventore adesivo dipendente sia portatore di un proprio interesse che, pur non legittimandolo a proporre in via autonoma una sua pretesa, lo abilita a porsi accanto alla parte adiuvata, intervenendo nel giudizio che, nonostante l'ampliamento dei partecipanti, rimane unico in quanto invariato resta l’oggetto della controversia: così, di recente, Cass. civ., sez. II, 25 febbraio 2022, n. 6357, in Giust. civ. mass., 2022.
Le vittime di mafia sono lo specchio tridimensionale di una umanità dolente, al di fuori dello spazio e del tempo che ha mestamente segnato le diverse vicende ed i relativi contesti criminali. In Italia, secondo dati da fonti aperte, sono mille e tredici creature. Centodiciannove donne. Centoventidue minori, fra zero mesi e quattordici anni. Cinquecento undici quelli senza giustizia. Tutte insieme assurgono a simbolo impotente della prova più grande cui gli uomini sono sottoposti quando, nell’attimo della fine, hanno la consapevolezza agghiacciante di non poter chiedere aiuto. E penso a Ifigenia, la sciagurata primogenita di Agamennone, sacrificata al potere assoluto di una insensata divinità, il cui urlo si perpetua. Solo qualche giorno fa, Don Ciotti, in visita a Palermo, ha rammentato che l’ottanta per cento delle famiglie delle vittime di mafia non conosce ancora la verità su quei sacrifici. Inevitabile, dunque, per me uno sforzo introspettivo. Quasi una necessità che avverto come magistrato che si è occupata e si occupa di processi di criminalità organizzata. Provo a riavvolgere il nastro. Senza continuità temporale, per salti, come in certi film dove il passato ed il presente si intersecano restituendoti, solo nell’ultimo fotogramma, il senso di un percorso che, prima che fisico, è ideale.
E come sacro caleidoscopio di figure frastagliate, a colori intensi, tornano alla mente alcune fra le vittime di mafia che ho incontrato in questi anni, ben miscelate fra le righe delle carte processuali e, inevitabilmente, riflesse, in modo indelebile, nelle pieghe del mio percorso esistenziale. Di fronte a me tre varietà cromatiche. Quasi mi accecano. Il viola sconfortato dei drappi funebri, l’azzurro senza respiro delle notti che paiono prive della speranza salvifica di un’alba rigeneratrice, il nero che inghiotte ogni riflesso, indosso agli abiti tristi di chi sopravvive. Tutto sapientemente schizzato di rosso amaranto. Quello del sangue che si fa grumo e non scolorisce. Mai.
Chiudo gli occhi. Mi appaiono volti sfigurati, resti di corpi straziati, lamiere accartocciate, gettate via come carta straccia, sulla via, da chi passa, quasi per caso. Colpevole, indifferente o cieco, non è dato ancora sapere tutto. Fermo immagine. Mi appare il cratere sull’autostrada, così vicino al mare odoroso di maggio. A seguire, come tragico grano di Rosario, il palazzo sfregiato, pezzi di carne immolati per un sacrificio che mortifica incessante le coscienze dei gusti da quella domenica di luglio. A dispetto del tempo. A dispetto del resto. Volti che non sono più volti, ma restano sui muri delle stanze come sacre sembianze. Che ti cambiano la vita. Capovolgendola.
Ed i luoghi, dove lo scempio si è compiuto, mostrano un dolore impotente, ancora attaccato, per sempre abbarbicato, a quei lembi sconfortati di pianeta terra che, se potessero parlare, ci restituirebbero storie intatte, senza più buchi oscuri. Luoghi mesti, come palcoscenici antichi dove si consumano tragedie. Anche quei luoghi vittime della insensata guerra scatenata dalla scelerata logica di odio che ha annientato il respiro di uomini, donne, bambini. E di fronte a noi, silente, rimane la follia del male mafioso e le sue brutali motivazioni si mostrano nella loro più oscena e deforme nudità.
Le mogli, a volte, muoiono insieme con i loro uomini. Alcune le immagino, fotogrammi mai sbiaditi, nel disperato eroico tentativo di fare da scudo ai loro amori. E vedo braccia e gambe come adagiate nel sangue e non mi pare di osservare differenze fra quelle carni di uomo e di donna, tratte proprio dalla stessa sostanza, la biblica costola che indissolubilmente lega chi muore a chi resta.
E poi le spose che sopravvivono. Mi appaiono come anime bucherellate. La luce entra nello spazio più intimo, come attraverso piccoli fori dolenti. Non hanno sorriso anche quando sorridono. Piangono ancora. Senza lacrime. Statue di amarissimo sale. Potranno perdonare, ma sono in incessante attesa che chi ha ucciso si inginocchi. Ed è un’attesa lenta, incompiuta. Un’attesa che stride. Al di là, da venire.
Gli occhi dei figli dei morti di mafia non sono come gli altri occhi. Sono lucidi e brillano, riflettono strutture a frammenti di gocce preziose. Sono occhi da abbracciare. Occhi ai quali urlare più forte che quel loro dolore è il nostro dolore, davvero collettivo e condiviso. Nutrito del medesimo sdegno. Dobbiamo restituire a quegli occhi tutte le risposte. Continueremo a provarci, finché noi stessi avremo respiro.
A volte ci siamo riusciti a dare a quegli occhi qualche riverbero che profuma di risposte. E quei grazie che riflettono i volti dei figli, allorché le nubi dell’incerto si dissolvono, si snodano, nella mia mente, nelle pieghe dei cold case. Schegge di drammi esistenziali che mi è sempre interessato ricomporre, con pazienza. Vecchi rapporti, carte ingiallite battute a macchina. Riprendono piano piano vita, nelle dichiarazioni incrociate e riscontrate dei collaboratori di giustizia. Vicende umane che, lentamente, completano la loro trama terrena, cristallizzata nelle motivazioni di una sentenza. E tornano alla mia memoria due sorelle. Donne adesso. Un tempo ragazze. Siamo più o meno coetanee. Città diverse. Stessa generazione. Medesima adolescenza, quella che, a tratti, descrivono nei lunghi verbali. Spensieratezza, mare, sole, i diciotto anni magnifici. Ma le loro vite si schiantano quando il padre viene ucciso, innanzi agli occhi della madre, in un giorno qualunque. Un dolore che le flagella, per anni. Oltre al dolore, il venticello sferzante delle bugie, volto ad appannare la memoria di un uomo perbene. Vittima moltiplicata. Vittime moltiplicate. A volte è così e, si sa, il carbone si nu tinge mascaria. Ma poi, inaspettata, dopo vent’anni, arriva la verità, intatta nella busta di plastica che, in un vecchio archivio, custodiva un reperto balistico, utile alla comparazione. Si chiama riscontro alle propalazioni accusatorie, ma sostanzia, altresì, il frutto maturo della tenacia. Tenacia di quelle figlie. Proiezione di un amore assoluto. Che non si arrende.
E poi c’è quella ragazza che assiste all’assassinio del padre, in un giorno di festa, Epifania di lacrime. Donna capace di trasformare lo strazio in dolcezza composta eppure, ad un tempo, titanica, racchiusa in un sorriso lieve che non scorderanno quanti l’hanno conosciuta, in questa terra che sorprende quando, pur nel vortice dello scempio, qualcuno è capace di rispondere alla volgarità del male mafioso con la gentilezza del bene cortese, che diviene esempio collettivo. Sola strada per l’autentica redenzione.
E poi un’immagine tutta mia. Altro cold case. Una sera, al termine di una lunghissima processione di testi per l’omicidio di un uomo, padre di dodici figli, ucciso da loro, dai mafiosi, tanti anni prima. Sentenza di condanna. Sono passati più di vent’anni da quella morte. Ma adesso gli assassini hanno un nome. Sono stanca. Mi capita sempre dopo la lettura di un dispositivo. Il mio sguardo lo avverto senza espressione mentre mi si avvicina un ragazzo. E mi accorgo che proprio lui, nel corso delle udienze, è stato seduto in disparte. Attento, fra il pubblico. In religioso silenzio. Lo avevo notato. Quasi ad assistere ad una liturgia. Adesso mi sta di fronte. Ha gli occhi umidi. Neppure un accenno di sorriso, ma gli leggo fra le labbra un’emozione che quasi lo trasfigura: «Avevo sei mesi quando è stato ammazzato, sono l’ultimo dei dodici figli. Grazie a questo processo io ho conosciuto mio padre.» Non aggiunge altro. Io non dico nulla. Ci stringiamo la mano. Non poteva sapere, quel giovane uomo, che mi stava consegnando un frammento di memoria preziosissimo, che mi accompagna da allora e che porterò con me, ne sono certa, oltre i confini del mio tempo terreno.
Rivedo i bambini. Soffia l’alito del sacrificio di Abramo nella riflessione di Kierkegaard. «Io ho solo un amico, è l’eco: e perché è mio amico? Perché io amo il mio dolore e l’eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente, è il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace.» Inghiottiti nel buio. Ai bambini il buio fa paura. Come fa paura il dolore. E nel lungo trascorrere dei giorni, in luoghi umidi e senza più fiato, il male si incarna tremendo per quello scorrere di tempo senza tempo che si tramuta in anni. Fino a prosciugare, impietoso, un corpo in fieri, lasciando tutti noi senza respiro. L’uomo mafioso deumanizza un altro uomo. Deumanizza un uomo - bambino. Come può accadere? Evidentemente, qualcuno può concepire e realizzare questo orrore. La mafia ha potuto. E potrebbe, ancora. Non scordiamolo mai. Come io stessa non dimenticherò mai gli occhi di quella donna, figlia e sorella. Il giorno della sentenza, mentre afferrava un altro pezzo di verità, mi sembrava guardare in un punto indefinito, come sembianza nobile di un quadro d’autore. Scampata alla devastazione per un soffio. Qualcuno le chiama coincidenze. O forse sono Dio incidenze che segnano la prima stazione della via crucis di una creatura di dieci anni che ancora solleva un peso immane. Da allora, quando il mostro mafioso polverizzava due gemellini e riduceva a brandelli sua madre. In una mattina di aprile, che pure profumava di mare e di sole che provava a scaldare.
E poi quella bambina. Pochi mesi. Sono passati ormai più di trent’anni da quella notte di maggio. Chissà come sarebbe adesso se non fosse stata inghiottita in un boato volto a squarciare bellezze antiche, per sfregiare l’essenza preziosa ed il risalente antico orgoglio del nostro Paese. Orgoglio di Patria prima ancora di essere Patria.
Ed ancora, nella clessidra del tempo, scorgo le sembianze sfumate di quel bimbo mai nato, che non ha conosciuto questo mondo confuso e che mi pare stringa fra le manine incompiute, pur nel ventre di sua madre, una lunga barba bianca che scintilla in due occhi celesti come il cielo quando è pulito. E brilla nella notte più buia, che pare non avere fine.
E poi ci sono i bambini salvati. Con un pallone da calcio ed una merenda semplice, di quelle che sanno di pane caldo e marmellata fatta in casa, da un sacerdote coraggioso. Sfida la mafia con un sorriso, lo uccidono quando compie gli anni. Ma non ha paura. Lui fa paura. Vittima di mafia, Santo che riscatta gli anni di una Chiesa a tratti indifferente, a volte pavida, ma capace di riscattarsi nelle più remote periferie, dove risplende.
Santo, come quel giudice ragazzino che ci consegna una camicia insanguinata insieme ad una coscienza immacolata. Ancora egli chiede: «Picciotti, cosa vi ho fatto?». Non gli rispondono, gli sparano come fosse un animale. Gli rispondiamo noi: «Il tuo dovere hai fatto e qui si può morire solo perché si fa il proprio dovere.»
È bello essere giovani, hai il mondo nelle mani. Ed a volte, si sa, i giovani contestano i padri, perché vogliono provare a riparare meccanismi inceppati. Come quel ragazzo che si ribella alla sua stessa genia mafiosa. Lo uccidono per questo e, ancora una volta, un macigno di menzogne sul suo corpo esile. Credono di averlo messo a tacere, di aver spento per sempre la voce coraggiosa e potente della sua radio emotiva. Ma viene fuori il vero, perché, a volte, il tempo è davvero gentiluomo, e gli occhi di sua madre, minuta e titanica, in quel manto nero, riprendono un po' di vita. Vita liquida, come speranza. Per tutti noi, ancora una volta, a dispetto del resto.
Ma la mia mente ancora vagheggia, fra le schegge dei processi. E vedo locali incendiati, la fatica di vite distrutte dalle fiamme che prepotenti e volgari si allungano fra le lacrime di chi non ha più la forza di credere che uno spazio scurissimo possa, di nuovo, impastarsi di luce, che qualcosa possa autenticamente mutare. Eppure vanno avanti, attraversano fiamme che bruciano la pelle e denunciano, si ribellano. Non pagano. Non si piegano. E risorgono.
E ricordo, poi, un giorno di novembre. In aula. L’esame dell’imprenditore vittima del male. Un male consumato in uno storico locale, nel cuore della città vecchia. Di fronte, poco distanti, i mafiosi lo guardano. «Confermerà?» mi chiedo, mentre sfoglio i miei appunti, pronta alle contestazioni, come di rito. Ma lui conferma. Conferma e indica nomi, fatti, circostanze, precisissimo perfino nei dettagli, senza timore. E quei miei appunti non servono più. Li ripongo nei cassetti della memoria, come a rammentare che la fiducia nello Stato può essere assai più forte della paura.
Vittime di mafia sopravvissute allo scempio ne ho conosciute tante nelle lunghe giornate di istruttorie, che paiono senza fine. Sono morti che camminano. Così si definiscono. «Sono morto anche io …Sarebbe stato meglio morire… Continuo a sentire quel boato, nelle mie notti senza luce…». Le pronunciano di frequente queste frasi. E poi i loro silenzi e quelle indefinibili sfumature di immane sofferenza racchiuse in un identico non detto.
Perché si muore? E poi perché non si muore nell’attimo del boato? Oppure si muore, comunque, ogni giorno, nel ricordo che crudele sostanzia e restituisce un tormento senza fine? Non ho risposte, mentre ne vorrei avere.
E quel sangue color amaranto corrode ancora. Fa male sulla pelle, come a bruciare le nostre coscienze, per svegliarle, quando provano ad assopirsi. Vorrei anestetizzare quel dolore. Ma è un pensiero che mi sfiora solo un attimo. A ben vedere, è giusto che resti intatto quel dolore. Perché il dolore è un tratto essenziale degli esseri umani, che tutti ci unisce. Nessuno ne può essere immune. E ci rende davvero fratelli. Le vittime di mafia devono continuare a farci male. Solo se continueremo a sentire quel dolore lancinante sulla nostra pelle, come dolore nostro fino alle più intime essenze, noi non dimenticheremo. E la loro memoria potrà restare nostra memoria e passerà alle generazioni che verranno, come lo scudo più resistente al replicarsi dell’orrore. Perché le mafie, attraverso il profilo orgoglioso e composto della nostra postura di magistrati, possono e devono essere sconfitte. Non ci devono essere più morti. Mai più. Per Ifigenia può esserci un’altra strada. Ifigenia deve essere salvata.
Sommario: 1. Premessa. I multiformi interventi normativi in materia di sicurezza nazionale. – 2. Legittimità e (il)legalità nel quadro operativo dei Servizi di informazione. – 3. Lo statuto penale della “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Cenni ricostruttivi. – 4. Il nuovo confine applicativo della scriminante speciale nel D.d.l. “Sicurezza”. – 5. La ratio della nuova “domanda di giustificazione”. – 6. Conclusioni interlocutorie. Sulla ragionevolezza delle proposte di modifica.
1. Premessa. I multiformi interventi normativi in materia di sicurezza nazionale
Le riflessioni di seguito sviluppate sono volte ad analizzare in chiave critica una disposizione di ordine penalistico che è stata del tutto marginalizzata nel dibattito sorto fin dalle prime fasi della presentazione parlamentare del D.d.l. A.C. 1660 recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario» (d’ora in avanti D.d.l. “Sicurezza”)[1], attualmente in discussione al Senato (A.S. 1236)[2].
Nell’ambito del D.d.l. “Sicurezza”, ormai noto come uno “zibaldone” che raccoglie, nei suoi trentotto articoli, un eterogeneo novero di previsioni anche penali, in particolare il disposto dell’art. 31 («potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza») reca un nutrito ventaglio di interventi normativi, tutti finalizzati alla tutela della sicurezza nazionale, e che qui di seguito si richiameranno, salvo soffermarsi criticamente solo su uno di essi di sicuro rilievo penalistico.
Per accostarsi al tema è bene ricordare che la previsione citata, anzitutto, rende permanenti talune disposizioni per il potenziamento dell’attività dei Servizi di informazione, introdotte, in via temporanea, dall’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7[3] e dall’art. 4, co. 2-bis, D.l. 27 luglio 2005, n. 144[4] e poi successivamente prorogate fino al 30 giugno 2025.
Le disposizioni destinate a diventare permanenti interessano, peraltro, diversi settori dell’ordinamento e non poche sono le previsioni innovative nei contenuti.
In primo luogo, si amplia il novero di condotte di reato scriminabili che gli operatori dei Servizi di informazione per finalità istituzionali possono compiere su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri. In particolare, oltre a quelle già “giustificate” dal D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, “accedono” alla previsione di liceità anche l’organizzazione e la direzione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico, nonché la detenzione di materiale con finalità di terrorismo[5] e la fabbricazione o detenzione di materie esplodenti[6]. A tal fine, si novella l’art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124, ampliandone il perimetro operativo.
Si prevede poi l’attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza, con funzioni di polizia di prevenzione, al personale militare impiegato nella tutela delle strutture e del personale del Dipartimento per le informazioni per la sicurezza (DIS) o dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) e dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI) (si introduce, in proposito, un apposito comma 1-bis nell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7)[7].
Si stabilizza, inoltre, la tutela processuale in favore degli operatori dei Servizi di informazione, attraverso l’utilizzo di identità di copertura[8] negli atti dei procedimenti penali avviati per le condotte-reato degli operatori medesimi realizzate nell’ambito delle attività istituzionali, previa comunicazione, con modalità riservate, all’Autorità giudiziaria procedente contestualmente all’opposizione della “speciale” causa di giustificazione (art. 19, L. 3 agosto 2007, n. 124; anche tale nuova previsione è affidata a un nuovo comma 1-ter dell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7).
Ancora, in base al nuovo comma 1-quater dell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, viene messa a regime la misura che consente all’Autorità giudiziaria, su richiesta del direttore generale del DIS, dell’AISE e dell’AISI, di autorizzare gli addetti dei Servizi di informazione a deporre in ogni stato e grado del procedimento con identità di copertura, ove sia necessario mantenere segrete le loro vere generalità nell’interesse della sicurezza della Repubblica o per tutelarne l’incolumità.
Infine, si introduce in modo permanente la possibilità che i direttori dell’AISE e dell’AISI, o altro personale espressamente delegato, siano autorizzati dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, previa richiesta del Presidente del Consiglio dei Ministri, a condurre colloqui investigativi con detenuti e internati, per finalità di acquisizione informativa per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale. Si interviene, in questo caso, nell’ambito dell’art. 4, co. 2-bis, D.l. 27 luglio 2005, n. 144.
In aggiunta, si modificano disposizioni preesistenti e se ne introducono di nuove, sempre riguardanti l’attività di intelligence.
In primis viene previsto, in maniera cogente, che le pubbliche amministrazioni e i soggetti equiparati siano tenuti a prestare agli organi del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica – DIS, AISE e AISI – la collaborazione e l’assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie per la tutela della sicurezza nazionale; si estende poi tale potere nei confronti di società partecipate e a controllo pubblico. In tal senso, si modifica quindi l’art. 13, co. 1, L. 3 agosto 2007, n. 124 e la sua rubrica.
Inoltre, si prevede la possibilità per l’AISE e l’AISI di richiedere alle autorità nazionali competenti di cui all’art. 5 del citato decreto legislativo (ossia il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza e la Direzione investigativa antimafia), secondo modalità definite d’intesa, le informazioni e le analisi finanziarie connesse al terrorismo (nuovo comma 1-bis inserito nell’art. 14, D.lgs. 8 novembre 2021, n. 186[9]). Ciò, al fine di prevenire ogni forma di aggressione terroristica di matrice internazionale. Viene così integrata la previsione secondo cui le Forze di polizia devono condividere tempestivamente, secondo modalità definite d’intesa, le informazioni finanziarie e le analisi finanziarie (art. 14, co. 1, D.lgs. 8 novembre 2021, n. 186).
Tracciata questa sommaria sequenza di modifiche normative che il Legislatore intende approvare in via definitiva, nel prosieguo del lavoro ci si concentrerà esclusivamente sui nuovi ambiti di operatività della “speciale” causa di giustificazione delineata per la tutela del personale dei Servizi di informazione nell’art. 31, co. 1, lett. b), D.d.l. “Sicurezza”, il cui contenuto è destinato a transitare nel vigente art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124[10].
2. Legittimità e (il)legalità nel quadro operativo dei Servizi di informazione
Prima di procedere oltre, ancora qualche ulteriore precisazione preliminare.
Lo statuto penale della “speciale” causa di giustificazione tipizzata nell’art 17, L. 3 agosto 2003, n. 124 – su cui si ritornerà meglio di qui a poco – che consente agli agenti dei Servizi di informazione di compiere condotte che fuoriescano dall’alveo della legalità per finalità operativo-istituzionali riflette una logica di bilanciamento tra fini perseguiti e mezzi impiegati riconducibile alla tradizione filosofico-politica di matrice machiavellica.
In questo quadro, il tema della legittimità e (il)legalità dell’operato dei Servizi di informazione assume particolare rilievo, poiché le condotte realizzate, pur integrando formalmente fattispecie di reato, sono ritenute legittime in quanto finalizzate al perseguimento di un’utilità generale espressamente sancita da una norma primaria.
A tal proposito, Francesco Cossiga osservava nel suo Abecedario – con specifico riferimento all’attività dei Servizi di informazione, condotta attraverso modalità e strumenti non convenzionali – che «la “legittimità dei fini” viene a prevalere sulla “legalità dei mezzi”»[11].
La peculiare missione assegnata a tali apparati dello Stato quindi presuppone, in determinati contesti, l’impiego di mezzi non convenzionali, talvolta al di fuori dei confini della legalità ordinaria, in funzione del preminente e supremo interesse della sicurezza dello Stato, bene istituzionale che legittima «il superamento della frontiera della legge comune»[12]. Ne consegue che gli operatori d’intelligence devono essere consapevoli della condizione di “illegalità tollerata” in cui si inscrive la loro azione, la cui ammissibilità risulta rigorosamente circoscritta e vincolata all’obiettivo superiore della salvaguardia dello Stato.
La richiamata prevalenza del fine ultimo da perseguire rispetto al mezzo impiegato acquista particolare rilievo nei contesti in cui si trovano in bilanciamento due beni sovraindividuali antagonisti, come la sicurezza dello Stato e l’interesse alla repressione dei reati. L’ammissione di tale prevalenza implica, quindi, l’accettazione che, in determinate circostanze, la salvaguardia di un interesse avente ancoraggio costituzionale – quale la tutela della sicurezza dello Stato (cfr. artt. 1, 5, 52, 87, 126 Cost.) – possa legittimare significative deroghe al corretto esercizio della giurisdizione, interesse anch’esso sovraindividuale e dotato, di certo, di investitura costituzionale (cfr. artt. 101-110 Cost.).
Peraltro, di fronte al problema di stabilire come la Costituzione affronti il bilanciamento tra l’interesse alla sicurezza dello Stato e quello della funzione giurisdizionale nei casi in cui tali interessi vengano a confliggere, la Corte costituzionale, nel leading case in tema di segreto politico-militare, ha perentoriamente stabilito che «la sicurezza dello Stato costituisce interesse essenziale, insopprimibile della collettività, con palese carattere di assoluta preminenza su ogni altro, in quanto tocca, […], la esistenza stessa dello Stato, un aspetto del quale è la giurisdizione»[13]. Come a dire che innanzi a un interesse super-primario quale è la sicurezza dello Stato, altri beni giuridici facenti capo dallo Stato, quali l’esercizio della giurisdizione, sono destinati a soccombere in forza della necessità di presidiare la salus rei publicae. Il ragionamento della Corte sembra allora essere guidato da una rigida scala gerarchica di beni giuridici, nella quale l’interesse alla sicurezza statuale detiene una prevalenza automatica, predeterminata e assoluta rispetto a tutti gli altri beni costituzionalmente protetti.
Tali affermazioni giurisprudenziali, a quasi cinquant’anni di distanza, non appaiono tuttavia del tutto allineate col diritto vivente della Corte europea dei diritti dell’uomo, in cui, pur riconoscendosi a ciascuno Stato un ampio margine di apprezzamento nella definizione delle misure da attuare nel diritto domestico in materia di sicurezza nazionale, si ribadisce fermamente che taluni diritti fondamentali facenti capo alla persona umana, di rango convenzionale e qualificati come inderogabili, non possono essere sacrificati in nome di esigenze securitarie[14].
E di tale limite è consapevole – almeno sulla carta – il Legislatore nel congegnare la “speciale” causa di giustificazione, su cui occorre ora porre attenzione.
3. Lo statuto penale della “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Cenni ricostruttivi
Si rende necessario, a questo punto, tratteggiare a grandi linee alcuni aspetti ricostruttivi della “speciale” causa di giustificazione, la quale prende forma, tanto su un piano sostanziale quanto processuale[15], negli artt. 17-20 della L. 3 agosto 2007, n. 124[16], da affiancarsi alla previsione generale di cui all’art. 51 c.p.[17].
La legge di riforma del 2007 ha implementato, anzitutto, sul piano istituzionale, un apposito e articolato Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, comprendente gli organi e le autorità che, nell’ordinamento italiano, sono incaricati di valutare le minacce provenienti sia dall’interno che dall’esterno del territorio nazionale, in modo da consentire l’adozione, da parte del circuito politico-democratico, delle decisioni ritenute più opportune per la salvaguardia della sicurezza della Repubblica.
Contestualmente, è stata elaborata una nuova disciplina del segreto di Stato, anche di chiaro rilievo penale, in quanto destinata a fungere da elemento integrativo delle fattispecie codicistiche in materia di delitti contro il segreto di Stato (artt. 256-263 c.p.).
Ai fini dell’analisi delle modifiche introdotte dal D.d.l. “Sicurezza”, per quanto qui di interesse ci si soffermerà esclusivamente sulla dinamica operativa dell’art. 17 («ambito di applicazione delle garanzie funzionali»), in cui si è delineato il perimetro di liceità penale delle attività dei dipendenti dei Servizi di informazione (AISE e AISI) impegnati nelle funzioni istituzionali di tutela del supremo interesse della sicurezza dello Stato.
La «speciale causa di giustificazione»[18] – così normativamente identificata dallo stesso art. 17, co. 2, L. 3 agosto 2007, n. 124 – si distingue per una struttura tutta particolare, non solo in ragione della sua natura di scriminante “speciale”, in quanto riservata a una ristretta categoria di soggetti, ma anche per le sue intrinseche caratteristiche e peculiari modalità operative.
In base al successivo art. 18, co. 1-2 sono difatti normate le «procedure di autorizzazione delle condotte previste dalla legge come reato»: la fattispecie giustificativa si perfeziona, in questo modo, con un concreto atto autorizzativo motivato, emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri o, ove istituita, dall’Autorità delegata, sulla base di una circostanziata richiesta del direttore del Servizio di informazione interessato, tempestivamente trasmessa informandone il DIS.
In questo senso, dunque, il bilanciamento fra interessi confliggenti non è interamente pre-determinato in astratto dalla Legge, ma è rimesso, in concreto, di volta in volta alla valutazione dell’Autorità politica[19].
La formulazione del testo dell’art. 17, almeno nella sua versione attualmente nota, mette in evidenza come il Legislatore della riforma intenda disciplinare i presupposti fattuali e i criteri di ponderazione degli interessi che la citata Autorità deve osservare nella concessione dell’autorizzazione a compiere condotte costituenti reato. Tuttavia, non si specificano né i reati a cui si riferisce la scriminante, se non indicando in negativo quelli (molto gravi) che sono sicuramente esclusi dall’ambito attuativo dell’art. 17, né le condotte che possano essere legittimamente compiute. Il Legislatore non ha quindi individuato “in chiaro” il numerus clausus di delitti suscettibili di giustificazione, optando invece per un diverso approccio, fondato sull’individuazione di beni giuridici intangibili[20].
In particolare, gli agenti dei Servizi di informazione, nell’ambito di operazioni «legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali» svolte (art. 17, co. 1), potranno realizzare un numero indeterminato di delitti, eccettuati quelli «diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone» (art. 17, co. 2).
Si tratta, all’evidenza, di una selezione di interessi assolutamente prevalenti e non comparabili con l’interesse al perseguimento delle finalità istituzionali dei Servizi, ritagliata secondo un criterio di stretta inerenza personale dell’interesse protetto dalla fattispecie incriminatrice, in modo da salvaguardare la dignità umana e vietare la strumentalizzazione della persona in ossequio all’art. 2 Cost.[21].
Non si indagano in questa sede i risvolti critici di tale approccio metodologico in relazione ai reati suscettibili di giustificazione. È sufficiente rilevare come i vantaggi derivanti dalla mancata predeterminazione siano evidenti: si evita di precludere agli appartenenti ai Servizi di informazione l’accesso a strumenti operativi che, per loro natura, potrebbero non essere facilmente individuabili in via preventiva.
Accanto al primo limite di condotta, relativo ai beni non comprimibili di cui all’art. 17, co. 2, il Legislatore ha aggiunto il «rispetto rigoroso» di ulteriori specifiche esclusioni, indicate nei successivi commi e che si richiamano sinteticamente di seguito.
In particolare, nel comma 3 sono oggettivamente esclusi, fra i reati autorizzabili, i delitti puniti dagli artt. 255, 289, 294 e i reati in materia di prostituzione[22]. Sono parimenti esclusi i «»>span class="arttextincomma">, fatte salve le condotte di favoreggiamento personale o reale strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali dei Servizi di informazione e attuate nel rigoroso rispetto delle procedure previste dall’art. 18. Resta fermo, tuttavia, che tali condotte non possono consistere in false dichiarazioni rese all’Autorità giudiziaria, nell’occultamento della prova di un delitto o in attività volte a sviare le indagini disposte dall’Autorità medesima.
Ancora, il comma 4 della norma introduce ulteriori esclusioni oggettive, stabilendo che non possono essere autorizzate – e, conseguentemente, non rientrano nel raggio “liberatorio” della scriminante – le «condotte previste dalla legge come reato per le quali non è opponibile il segreto di Stato a norma dell’articolo 39, comma 11, ad eccezione delle fattispecie di cui agli articoli 270-bis, secondo comma, e 416-bis, primo comma, del codice penale»[23]. Pertanto, al di là delle fattispecie di partecipazione ad un’associazione con finalità di terrorismo e di partecipazione ad associazioni di tipo mafioso anche straniere, le ulteriori fattispecie incriminatrici tipiche dei fenomeni terroristici, non possono essere autorizzate – e quindi neppure scriminate – a causa della non opponibilità del segreto di Stato. Tuttavia, si vedrà subito a seguire che il dato normativo qui oggetto di attenzione deve essere coordinato con la disposizione provvisoria dell’art. 8, co. 2, lett. a), D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, che si pone in deroga all’art. 17, co. 4.
Il comma 5, in aggiunta, amplia le ipotesi di reato escluse dalla scriminante, dando rilievo a dei limiti sia ratione loci che intuitu personae. Vengono in particolare vietate in modo assoluto le condotte «effettuate nelle sedi di partiti politici rappresentati in Parlamento o in un’assemblea o consiglio regionale, nelle sedi di organizzazioni sindacali ovvero nei confronti di giornalisti professionisti iscritti all’albo». Si tratta – com’è evidente – di contesti, tanto oggettivi quanto soggettivi, in cui entrano in gioco principi costituzionali posti a tutela, in particolare, della libertà sindacale, del diritto di associazione in partiti politici, della libertà di stampa, etc.
Al comma 6 sono infine precisate le particolari condizioni, forse di non facile determinazione ex ante, per l’applicabilità della scriminante.
Il primo criterio stabilisce che le condotte-reato devono essere realizzare «nell’esercizio o a causa di compiti istituzionali dei servizi di informazione per la sicurezza, in attuazione di un’operazione autorizzata e documentata ai sensi dell’articolo 18 e secondo le norme organizzative del Sistema di informazione per la sicurezza» (art. 17, co. 6, lett. a). Al tal riguardo, alla condizione “formale” della previa autorizzazione da parte dell’Autorità politica e della relativa documentazione, si affianca un requisito “finalistico” secondo cui le condotte devono essere realizzate nell’ambito dello svolgimento delle funzioni istituzionali normativamente attribuite ai Servizi, in conformità a quanto disposto dagli artt. 6 e 7, L. 3 agosto 2007, n. 124.
In secondo luogo, quale ulteriore presupposto per l’invocabilità della scriminante, è prescritta la condizione di “proporzionalità” rispetto allo scopo dell’attività autorizzata, che ne restringe l’ambito di operatività. Tale requisito compendia una serie di esigenze concorrenti, tutte finalizzate a ribadire il necessario equilibrio che deve intercorrere fra obiettivi perseguiti e violazione della legge penale. Le condotte integrative delle fattispecie di reato devono dunque essere «indispensabili e proporzionate al conseguimento degli obiettivi dell’operazione non altrimenti perseguibili» (lett. b)), devono essere «il frutto di una obiettiva e compiuta comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti» (lett. c)) e devono essere «effettuate in modo tale da comportare il minor danno possibile per gli interessi lesi» (lett. d))[24].
Se questa è la cornice della progettata disciplina di riferimento, l’indagine deve ora rivolgersi ai profili contenutistici di dettaglio della materia.
4. Il nuovo confine applicativo della scriminante speciale nel D.d.l. “Sicurezza”
Come in parte già evidenziato, l’art. 31, co. 1, lett. b), D.d.l. “Sicurezza” pone a regime la disposizione in materia di garanzie funzionali che era stata introdotta in via transitoria – sotto impellenti esigenze di contrasto al terrorismo internazionale di matrice islamico-radicale – dall’art. 8, co. 2, lett. a), D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, e successivamente prorogata più volte[25].
A tal fine, contestualmente alla stabilizzazione della norma provvisoria anti-terrorismo del 2015, il Legislatore intende trasfonderne il contenuto nel “corpo” dell’art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124, pur ampliandone maggiormente la portata applicativa “scriminante”: in specie, ne estende lo “scudo protettivo” anche rispetto a ulteriori e gravi delitti con finalità di terrorismo.
In sintesi, quindi, si possono riscontrare tre differenti discipline in tema di garanzie funzionali per il personale dei Servizi di informazione, che seguono un percorso di progressivo ampliamento delle stesse: a) la disciplina “ordinaria” introdotta con l’art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124, attualmente vigente in maniera permanente; b) la disciplina “anti-terrorismo” introdotta con l’art. 8, co. 2, lett. a), D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, attualmente vigente in maniera temporanea fino al 30 giugno 2025 e che deroga a quanto previsto dalla normativa del 2007[26]; c) la disciplina di nuovo conio di cui al D.d.l. “Sicurezza” da rendere permanente e ordinaria ai sensi dell’art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124.
Secondo la progettata riforma, quindi, non possono essere autorizzate, ai sensi dell’art. 18, L. 3 agosto 2007, n. 124, le condotte previste dalla legge come reato per le quali non è opponibile il segreto di Stato a norma dell’art. 39, co. 11, «ad eccezione delle fattispecie di cui agli articoli 270, secondo comma, 270-bis, primo comma, limitatamente alle ipotesi di direzione e organizzazione dell’associazione, nonché secondo comma, 270-ter, 270-quater, 270-quater.1, 270-quinquies, 270-quinquies.1, 270-quinquies.3, 302, 306, secondo comma, 414, quarto comma, 416-bis, primo comma, e 435 del codice penale»[27].
È facile evidenziare che, rispetto alle formulazioni del 2007 e del 2015, quella attualmente in fase di discussione parlamentare amplia significativamente lo spettro operativo della scriminante speciale, estendendola non solo a nuovi delitti con finalità di terrorismo, ma anche ad altri reati, pur di particolare gravità.
Rimangono allora attratti nelle maglie della “giustificazione” i seguenti reati: a) partecipazione ad «associazioni sovversive» (art. 270, co. 2, c.p.); b) direzione e organizzazione di «associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico» (art. 270-bis, co. 1, c.p.); c) partecipazione ad «associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico» (art. 270-bis, co. 2, c.p.); d) «assistenza agli associati» rispetto alle associazioni indicate agli artt. 270 e 270-bis c.p. (art. 270-ter c.p.); e) «arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale» (art. 270-quater c.p.); f) «organizzazione di trasferimento per finalità di terrorismo» (art. 270-quater.1 c.p.); g) «addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale» (art. 270-quinquies c.p.); h) «finanziamento di condotte con finalità di terrorismo» (art. 270-quinquies.1 c.p.); i) «detenzione di materiale con finalità di terrorismo» (art. 270-quinquies.3 c.p.); l) istigazione a commettere alcuno dei delitti contro la personalità internazionale e interna dello Stato (art. 302 c.p.); m) partecipazione a «banda armata» (art. 306, co. 2, c.p.); n) istigazione a commettere delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità o apologia degli stessi delitti (art. 414, co. 4, c.p.); o) partecipazione ad «associazioni di tipo mafioso anche straniere» (art. 416-bis, co. 1, c.p.); p) «fabbricazione o detenzione di materie esplodenti» (art. 435 c.p.).
5. La ratio della nuova “domanda di giustificazione”
Nell’intento di indagare, in una prospettiva teleologico-funzionale, le ragioni sottese all’ampliamento della scriminabilità delle condotte costituenti reato, si può ritenere che queste trovino fondamento nella recrudescenza della minaccia terroristica “post-Charlie Hebdo” e nel connesso fenomeno del terrorismo “mobile”[28], tipico dei foreign terrorist fighters. Si ricorderà, peraltro, che già nel biennio 2015-2016, il Legislatore “dell’emergenza” era stato indotto a intervenire, con lo strumento della decretazione d’urgenza, sulla complessa stratificazione normativa del codice Rocco in materia di anti-terrorismo, apportando significative modifiche alle fattispecie esistenti e introducendone di nuove, anche di natura contravvenzionale[29].
In primo luogo, come può notarsi dall’articolata griglia di figure di reato ricomprese nell’area della scriminante speciale, mentre per le associazioni sovversive la scriminante si applica esclusivamente alla condotta di partecipazione all’associazione prevista dall’art. 270, co. 2, c.p. – prevedendosi al comma 1 della medesima disposizione la punibilità della promozione, costituzione, organizzazione o direzione –, nel caso delle associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico, essa si estende non solo alla condotta del partecipe (art. 270-bis, co. 2, c.p.), ma anche a quelle più gravi di organizzazione e direzione (art. 270-bis, co. 1, c.p.).
In quest’ultimo senso, nelle scelte del Legislatore del D.d.l. “Sicurezza” può avere pesato la circostanza che talune informazioni di natura operativa – quali, ad esempio, la pianificazione di azioni violente o elementi cognitivi inerenti al patrimonio e alla logistica dell’organizzazione – risultano accessibili esclusivamente a coloro che ricoprono ruoli apicali, organizzativi e direttivi, all’interno del consorzio terroristico oggetto di attività di intelligence.
Conseguentemente, la buona riuscita di un’attività di infiltrazione dei Servizi di informazione all’interno di cellule terroristiche è strettamente connessa alla possibilità di scalare le gerarchie dell’organizzazione. Interrompere la raccolta informativa proprio nel momento in cui si aprirebbe l’opportunità di acquisire informazioni più rilevanti – grazie alla promozione sul campo, all’interno dell’organizzazione, di fonti o operatori dei Servizi stessi – rischierebbe di compromettere l’intera attività di intelligence. L’assenza di un adeguato sostegno normativo che legittimi la «“scalata al vertice”» degli infiltrati potrebbe infatti determinare un «un “depauperamento” del patrimonio informativo sotto molteplici profili ed il mancato successo dell’operazione»[30].
Nella configurazione delle operazioni informative finalizzate all’acquisizione di informazioni relative alla minaccia terroristica, emerge, poi, in una prospettiva prasseologica, come lo svolgimento concreto di tali attività possa condurre il personale dei Servizi di informazione a porre in essere condotte configurabili come reato, talvolta contigue alla partecipazione ad associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale.
Si faccia quindi riferimento ai casi in cui l’organizzazione oggetto di interesse informativo assuma le caratteristiche di una banda armata, integrando così la fattispecie delittuosa prevista dall’art. 306 c.p., ovvero, in alternativa, quella meno grave dell’associazione sovversiva di cui all’art. 270 c.p. In tali circostanze, gli agenti coinvolti nella raccolta informativa potrebbero quindi incorrere nei reati di partecipazione ad associazioni sovversive (art. 270, co. 2, c.p.) e di partecipazione a banda armata, ex art. 306, co. 2, c.p.
L’apposita indicazione dei reati codificati negli artt. 270-bis c.p. e 306 c.p. evidentemente trova fondamento nell’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità che ravvisa la possibilità del concorso fra il reato di banda armata e quello di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale[31].
Quanto invece alla relazione qualificata fra le figure criminose di cui agli artt. 270 e 270-bis c.p. la giurisprudenza prevalente è dell’opinione che fra le due fattispecie non sia configurabile un concorso di reati[32]. In ogni caso, la scelta del Legislatore sembra quella di conferire una più certa base normativa alle operazioni dei Servizi di informazione realizzabili mediante autorizzazione di condotte di reato, dando riconoscimento alle diverse ipotesi criminose cui può dare luogo lo svolgimento delle specifiche attività informative[33].
Si consideri, inoltre, che, con particolare riferimento al fenomeno delle attività finalizzate a favorire il reclutamento di membri per formazioni terroristiche di matrice jihadista nei Paesi occidentali, spesso avvalendosi sapientemente di strumenti informatici e telematici, le operazioni dei Servizi possono rendere necessaria la commissione di ulteriori condotte oltre a quelle riconducibili alla partecipazione ad associazioni sovversivo-terroristiche. In tale prospettiva, sembra giustificarsi la scelta del Legislatore di rendere non punibili le condotte costituenti i reati di cui agli artt. 270-ter, 270-quater, 270-quater.1, 270-quinquies, 270-quinquies.1, 302 e 414, co. 4, c.p.
La causa di giustificazione prevista dall’art. 17, L. 3 agosto 2007, n. 124, in questi termini, assicurerebbe una maggiore flessibilità operativa, consentendo un’azione informativa quanto più possibile conforme alle nuove dinamiche con cui si manifesta e si sviluppa la minaccia terroristica[34].
Del tutto inedito risulta l’inserimento, fra i reati oggetto di “giustificazione”, del nuovo art. 270-quinquies.3 c.p., in base al quale è punito, con la reclusione da due a sei anni, chiunque – al di fuori dei casi di cui agli artt. 270-bis e 270-quinquies – consapevolmente si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali di cui all’art. 1, co. 1, L. 18 aprile 1975, n. 110, di armi da fuoco o di altre armi o di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale[35].
Parimenti inedita risulta la scriminabilità del reato di cui all’art. 435 c.p., il cui campo applicativo è al contempo ampliato dal D.d.l. “Sicurezza” tramite l’introduzione di un nuovo comma 2. La progettata disposizione punisce, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chiunque – fuori dei casi di concorso nel reato di cui al primo comma – con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso delle materie o sostanze indicate al medesimo comma, o su qualunque altra tecnica o metodo per il compimento di taluno dei delitti non colposi contro la personalità dello Stato di cui al Titolo I, Libro II, c.p. puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni[36]. Per la necessaria omogeneità di materia, la scriminante è estesa anche al comma 1 dell’art. 435 c.p.
La ratio dell’inclusione delle ultime due ipotesi criminose nell’alveo della scriminante risiede, secondo chi scrive, nella necessità di abilitare i Servizi di informazione a infiltrare canali telematici criptati e ad accesso ristretto, al fine di monitorare le modalità di approvvigionamento di munizioni da parte delle organizzazioni terroristiche. È noto, infatti, che tali canali costituiscono un terreno privilegiato per la diffusione di materiale didattico e propagandistico, guide operative, tecniche di sabotaggio e ogni genere di know-how tecnologico, inclusa la fabbricazione di home-made explosives e l’utilizzo di materiali dual-use di facile reperibilità sul mercato.
6. Conclusioni interlocutorie. Sulla ragionevolezza delle proposte di modifica
Raggiunta questa fase dell’indagine, si possono ora valutare le scelte politico-criminali del Legislatore del D.d.l. “Sicurezza”, le quali già ad una prima riflessione suscitano qualche perplessità in considerazione dell’articolato ventaglio di (gravi) delitti eccettuati dal rimprovero penale.
Si è già evidenziato come sia stata la prassi operativa delle attività anti-terrorismo a suggerire ai compilatori la “giustificazione” delle gravi condotte di cui all’art. 270-bis, co. 1, c.p., vietate dall’art. 18 Cost., prima non contemplate nella disciplina provvisoria di cui al D.l. 18 febbraio 2015, n. 7. Difatti, per infiltrare e successivamente smantellare l’associazione politica criminosa potrebbe rivelarsi cruciale, oltre alla mera partecipazione, l’assunzione di un ruolo apicale, come quello di organizzatore o di direttore del sodalizio, data la rilevanza strategica delle funzioni da essi svolte.
Analogamente, l’autorizzazione presidenziale delle condotte di assistenza agli associati, nonché di arruolamento, organizzazione di trasferimenti, addestramento ad attività e finanziamento, tutte finalizzate al terrorismo – unitamente all’istigazione a commettere atti di terrorismo, anche tramite strumenti informatici o telematici –, ha lo scopo di garantire un’azione informativa che sia il più possibile aderente alle dinamiche proteiformi della minaccia terroristica.
Si consideri, infine, che l’incriminazione delle condotte di detenzione di materiale con finalità di terrorismo e di fabbricazione o detenzione di materie esplodenti risponde all’esigenza di monitorare il flusso di informazioni relative alla produzione di ordigni esplosivi.
A tal riguardo, tuttavia, l’estensione della scriminante ai gravi delitti politici richiamati potrebbe suscitare perplessità, poiché la società civile potrebbe percepire tali misure come una legittimazione di pratiche incompatibili con lo Stato di diritto, con conseguenti ripercussioni sulla credibilità delle istituzioni. Le diverse condotte di “adesione” al terrorismo potrebbero, infatti, alimentare il sospetto che, in determinate circostanze, esse finiscano per favorire il terrorismo stesso, qualora si verifichino pericolose deviazioni istituzionali, evocando i rischi legati a un passato storico-politico – quello della c.d. “strategia della tensione” – in cui agenti dei Servizi contribuirono, talvolta, a favorire gruppi criminali ed eversivi.
La questione della ragionevolezza, o meno, della scriminabilità dei gravi reati qui esaminati non può tuttavia essere risolta unicamente sulla base di tali pur significative considerazioni di natura extra-giuridica.
È certamente vero, sotto il profilo costituzionale, che la previsione della specifica causa di giustificazione per determinati reati di cui all’art. 17, L. 3 agosto 2007, n. 124, qualora commessi dagli operatori dei Servizi di informazione, potrebbe astrattamente determinare una distorsione strutturale e apparire in contrasto con il dettato costituzionale. L’impostazione legislativa, difatti, sembrerebbe introdurre un doppio standard, generando una disparità di trattamento rispetto ai comuni cittadini e ponendosi in tensione con il principio di uguaglianza dinanzi alla legge (art. 3 Cost.) – nonché con quello di responsabilità penale personale (art. 27, co. 1, Cost.) –, rischiando di determinare l’emergere di zone grigie di impunità istituzionalizzata e sistemica.
Tuttavia, essa non risulta irragionevole se applicata in modo rigoroso e circoscritto quale rimedio estremo e residuale per garantire l’adempimento del dovere costituzionale di difesa della Patria (art. 52 Cost.). Peraltro, già la sentenza della Corte costituzionale del 24 maggio 1977, n. 86 – qui già menzionata – ha ritenuto legittimo che lo Stato assuma il compito istituzionale di individuare atti, fatti e notizie necessari alla salvaguardia della sua sicurezza, in funzione della tutela dell’unità e indivisibilità della Repubblica e della protezione dell’intero ordine costituzionale.
Nel compiere tali azioni, i Servizi di informazione potrebbero realizzare condotte penalmente rilevanti, alla duplice condizione che sussista un rapporto di indispensabilità e ragionevolezza tra mezzo e fine e che vi sia una proporzionalità – almeno di equivalenza, se non di prevalenza – tra i diversi beni costituzionalmente tutelati coinvolti nella singola situazione concreta.
Si badi, però, che, come per altre scriminanti, la giustificazione non deve essere qui intesa come uno scopo in sé, ma come un effetto derivante dalla comparazione degli interessi coinvolti. In altre parole, la giustificazione scaturisce dalla necessità di bilanciare i diversi beni costituzionalmente protetti, piuttosto che dall’intento di giustificare preventivamente un comportamento illecito[37].
A questo punto, nel vagliare l’opportunità della proposta di ampliamento dei reati giustificati di cui al D.d.l. “Sicurezza”, lungi dal considerare pienamente ragionevole la riformulazione dell’art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124, si può suggerire una soluzione che il Legislatore dovrebbe auspicabilmente prendere in adeguata considerazione nell’ambito dell’esame della proposta legislativa in sede referente.
Si è già evidenziato che nel pieno dell’emergenza terroristica, il Legislatore del 2015 ha ritenuto necessario ampliare l’elenco dei reati “coperti” dalla scriminante speciale. Tuttavia, ha relegato la disciplina derogatoria dell’art. 17, co. 4 citato al regime di “diritto provvisorio”. In questo modo, adottando una normativa emergenziale a termine, si è posto un limite temporale alla compressione dei diritti individuali e alla “deroga alla legalità”, tenendo conto di un disallineamento tra costi e benefici, parzialmente compensato proprio dalla temporaneità della deroga.
Tuttavia, nei dieci anni successivi al varo del D.l. “Anti-terrorismo”, si è consolidata la prassi di rinnovare annualmente i termini di vigenza della norma, facendo sì che la sua temporaneità mascherasse, di fatto, una sorta di definitività dell’efficacia scriminante per le gravi condotte-reato autorizzate. Si potrebbe dunque affermare che ciò abbia portato alla sostituzione della legalità generale e garantista con una legalità “speciale”.
Si è pure sottolineato che, a partire da tale disciplina a termine, il Legislatore del D.d.l. “Sicurezza” intende adesso stabilizzare una norma originariamente introdotta per l’emergenza, ampliandone nel contempo il raggio di azione: come detto, si prevede di estendere l’esclusione dalla punibilità di cui al citato art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124 anche ai reati di organizzazione e di direzione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis, co. 1, c.p.), di detenzione di materiale con finalità di terrorismo (art. 270-quinquies.3 c.p.) e di fabbricazione o detenzione di materie esplodenti (art. 435 c.p.).
In proposito, è bene ribadire che va certo riconosciuto l’importante contributo dei Servizi di informazione per tutelare la sicurezza interna ed esterna dello Stato da multiformi e complesse minacce provenienti sia da attori statuali che da non-State actors. A tal riguardo, prima facie, risulta poi comprensibile la richiesta di “giustificazione” avanzata nel contesto anti-terrorismo, tanto da rendersi necessaria l’autorizzazione alla commissione delle suddette condotte di organizzazione e di direzione.
Cionondimeno, rendere permanente l’impianto normativo del 2015, implementando ulteriori fattispecie nel perimetro scriminante, sembra implicare un’allarmante eventuale lesione di rilevanti beni giuridici di pertinenza interna.
In questo senso, allora, la soluzione accolta nel D.d.l. “Sicurezza” non appare pienamente conforme al canone di ragionevolezza, nella misura in cui propone di rendere non punibili le condotte tipizzate nell’art. 270-bis, co. 1, c.p., segnatamente nelle ipotesi di organizzazione e di direzione dell’associazione con finalità di terrorismo.
Limitando la disamina a un breve schizzo ricostruttivo, l’associazione delineata dall’art. 270-bis c.p.[38] si caratterizza per una struttura organizzata, con una chiara divisione dei ruoli e una diversificazione dei compiti tra i membri. Il Legislatore, nel reprimere qualsiasi condotta di adesione che possa incidere sull’operatività della struttura, ha quindi adottato una tecnica incriminatrice imperniata sulla distinzione tra attività di rango superiore[39] e mera partecipazione[40].
Per quanto qui di interesse[41], in tale contesto associativo, fra i ruoli di rango superiore, la condotta di organizzazione consta nel fornire una struttura operativa al sodalizio criminoso, agendo con autonomo potere decisionale. L’organizzatore è dunque colui che si occupa dell’efficienza del sodalizio, cura la logistica, procaccia i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso ed assegna compiti e funzioni agli associati, svolgendo attività basilari per assicurare la vita e l’efficienza della societas sceleris, in relazione alle finalità che questa persegue e alla sua concreta struttura. Si richiede quindi che l’attività del soggetto organizzatore abbia i requisiti della «essenzialità» e della «infungibilità»[42].
Sempre nell’ambito dei ruoli di rango primario, la direzione si ha poi nel fatto di chi assuma una posizione di vertice, detti quindi le regole comportamentali e coordini le azioni degli altri associati, fornendo loro uno statuto operativo per l’esplicazione dell’attività criminosa. Il direttore, in ultima analisi, svolge «funzioni più o meno late di superiorità»[43], è dotato anch’esso di autonomia e discrezionalità decisionale e si occupa primariamente del lavoro di altri nell’ambito di un inquadramento complesso[44].
Diversamente, nell’organigramma criminale, quanto alla condotta di partecipazione devono richiamarsi i principi “Mannino”, elaborati dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nel contesto del lungo travaglio ermeneutico afferente al reato dell’art. 416-bis c.p. Dunque, partecipa all’associazione colui che, «risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione […], non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa». Tale ultima locuzione è «da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima»[45].
Tale condotta si concretizza quindi nella realizzazione di qualsivoglia attività concreta anche temporanea, esteriormente percepibile, «non essenziale, fungibile e tipicamente esecutiva, sempre prestata all’assistenza con continuità e consapevolezza»[46].
In ogni caso, si ammette che la rilevanza pratica delle distinzioni concettuali predette è tuttavia relativa, sia per la fluidità dei confini tra le diverse figure, sia perché, in particolare, il trattamento penale rimane invariato anche quando uno stesso soggetto ricopra più ruoli di supremazia. La distinzione davvero rilevante, invece, è quella tra condotte principali e condotte di mera partecipazione, poiché in tal caso cambia la fattispecie di reato e il conseguente trattamento sanzionatorio[47].
Dopo aver brevemente tracciato le linee ricostruttive delle diverse condotte tipizzate nell’art. 270-bis c.p., che variano quindi per gravità e trattamento penale, si può notare che la possibilità di abilitare legislativamente gli agenti dei Servizi di informazione a commettere le gravi ipotesi di reato previste dal comma 1 presenta un aspetto che non può che destare preoccupazioni.
Considerato che l’organizzazione e la direzione ex art. 270-bis, co. 1 c.p. comportano l’adozione consapevole di atti di essenza per l’associazione e implicano l’esercizio di un potere decisionale e operativo finalizzato alla pianificazione e realizzazione di operazioni materialmente violente, con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, nonché alla commissione di atti di violenza contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale[48], il rischio è che la deroga alla punibilità possa essere strumentalizzata per legittimare condotte che travalicano l’obiettivo dell’infiltrazione, ponendo le basi per manovre opache se non addirittura favorire vere e proprie derive anti-statuali.
In tal modo, l’operazione di intelligence, volta a tutelare gli elementi essenziali della Repubblica – quali l’integrità dello Stato, la difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, l’indipendenza nelle relazioni con gli altri Stati e la preparazione per la difesa militare – si porrebbe in insanabile contrasto con gli stessi interessi istituzionali che intende proteggere.
Si è dunque del parere, pertanto, che il Legislatore della riforma debba adottare un approccio più ponderato nell’uso di una “giustificazione” tanto estesa, specialmente quando questa sia idonea a neutralizzare la punibilità di reati di particolare gravità, posti a presidio di beni istituzionali di rango primario – quali l’ordine costituzionale, l’ordine pubblico e l’incolumità pubblica –, e potenzialmente lesivi di valori di fondo della Repubblica. Appare più ragionevole, in conclusione, limitare allora la scriminante alla sola condotta di mera partecipazione ad associazioni con finalità di terrorismo, rilevante ai sensi dell’art. 270-bis, co. 2, c.p., purché questa sia finalizzata esclusivamente all’infiltrazione del tessuto terroristico.
In ogni caso, resta ferma la circostanza che il momento autorizzativo, di competenza del Presidente del Consiglio dei Ministri, debba rivestire un ruolo di assoluto rilievo e debba operare in modo particolarmente rigoroso e stringente, onde evitare che questo si riduca a una mera formalità, come del resto indica il citato art. 17, co. 6, L. 3 agosto 2007, n. 124.
Le condotte costituenti reato dovranno quindi essere attuate esclusivamente nell’esercizio o a causa dei compiti istituzionali dei Servizi di informazione, nell’ambito di un’operazione preventivamente autorizzata, scrupolosamente documentata e conforme alle norme organizzative del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. Quanto alla situazione necessitante, l’azione contraria alle norme penali dovrà, inoltre, risultare indispensabile e proporzionata al conseguimento degli obiettivi dell’operazione, non altrimenti perseguibili, nonché essere il risultato di un’accurata e obiettiva comparazione fra gli interessi pubblici e privati coinvolti, garantendo, in ogni caso, il minor pregiudizio possibile per gli interessi eventualmente lesi.
In questo modo, si ridurrebbe il rischio di giustificare ex post attività illecite che invadano la sfera individuale, e che non siano quindi finalizzate al presidio della sicurezza dello Stato, evitando così che un simile approccio distorto comporti una sorta di immunità penale per ragioni di servizio, in violazione dell’art. 28 Cost.
[1] Per un resoconto complessivo dell’articolato qui oggetto di attenzione si veda Cosa c’è nel “Pacchetto sicurezza”: indice ragionato, testo del ddl e dossier, in Sist. pen., 14 ottobre 2024. In chiave critica, il disegno di legge risulta già oggetto di approfonditi contributi di taglio penalistico, criminologico e costituzionalistico. Si rimanda, inter alia, a M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in Sist. pen., 27 maggio 2024; R. Cornelli, Il Ddl Sicurezza alla prova della ricerca criminologica: prime annotazioni critiche, in Sist. pen., 2024, p. 113 ss.; M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236), in Sist. pen., 9 ottobre 2024; G.L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati, di Cesare Beccaria, in Sist. pen., 2024, p. 63 ss.; C. Pasini, L’impatto del c.d. pacchetto sicurezza sulle persone straniere in Italia e sul fenomeno dell’immigrazione, in Sist. pen., 2024, p. 107 ss. Posizioni critiche sono state espresse anche dal mondo forense, oltre che da quello accademico. Si vedano, a tal proposito, Pacchetto sicurezza: l’Unione delle Camere Penali Italiane delibera lo stato di agitazione, in Sist. pen., 2 ottobre 2024; Pacchetto sicurezza: il comunicato del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei Professori di Diritto penale, in Sist. pen., 3 ottobre 2024. Forti preoccupazioni per il potenziale impatto del D.d.l. su alcune libertà garantite dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono state espresse anche dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa in una lettera inviata al Presidente del Senato il 16 dicembre 2024 (Il Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani chiede al Senato di modificare il “pacchetto sicurezza” per salvaguardare le libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, in Sist. pen., 23 dicembre 2024).
[2] D.d.l. presentato in data 22 gennaio 2024 per iniziativa governativa del Ministero dell’Interno, di concerto con il Ministero della Giustizia e col Ministero della Difesa. Proprio in queste settimane le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia in sede referente, terminate le audizioni, stanno procedendo alla valutazione dei numerosi emendamenti proposti al testo approvato alla Camera lo scorso 18 settembre 2024.
[3] Conv. con mod. dalla L. 17 aprile 2015, n. 43 («Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione»).
[4] Conv. con mod. dalla L. 31 luglio 2005, n. 155 («Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale»).
[5] Nuova fattispecie delineata dall’art. 1, co. 1, lett. a), D.d.l. “Sicurezza” da inserire, fra i «Delitti contro la personalità internazionale dello Stato», nell’art. 270-quinquies.3 c.p.
[6] Fattispecie dell’art. 435 c.p., oggetto di modifica, mediante l’introduzione di un nuovo comma 2, da parte dell’art. 1, co. 1, lett. b).
[7] Si richiamano in particolare le modalità previste dall’art. 23, co. 2, L. 3 agosto 2007, n. 124, in virtù del quale, in relazione allo svolgimento di attività strettamente necessarie a una specifica operazione dei Servizi di informazione o volte alla tutela delle strutture e del personale del DIS o dei citati Servizi, la qualifica di ufficiale o di agente di pubblica sicurezza, con funzioni di polizia di prevenzione, può essere attribuita a taluno dei soggetti appartenenti al contingente speciale di cui all’art. 21, L. 3 agosto 2007, n. 124, per non oltre un anno, dal Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del direttore generale del DIS.
[8] Di cui all’art. 24, co. 1, L. 3 agosto 2007, n. 124, in forza del quale il direttore generale del DIS, previa comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri o all’Autorità delegata (se istituita), può autorizzare, su proposta dei direttori dell’AISE e dell’AISI, l’uso di documenti di identificazione con dati personali diversi da quelli reali da parte degli addetti ai Servizi di informazione. Con la stessa procedura, può inoltre essere disposta o autorizzata l’utilizzazione temporanea di documenti e certificati di copertura.
[9] Recante «Attuazione della direttiva (UE) 2019/1153 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che reca disposizioni per agevolare l’uso di informazioni finanziarie e di altro tipo a fini di prevenzione, accertamento, indagine o perseguimento di determinati reati, e che abroga la decisione 2000/642/GAI».
[10] Per maggiori ragguagli sulle altre proposte legislative qui non approfondite si rimanda al Dossier n. 240/2, XIX Legislatura, Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell'usura e di ordinamento penitenziario - A.S. n. 1236, 30 settembre 2024, consultabile su www.senato.it.
[11] F. Cossiga, I servizi e le attività di informazione e di controinformazione. Abecedario per principianti, politici e militari, civili e gente comune, Soveria Mannelli, 2002, p. 11 (corsivi originali).
[12] L’espressione è di A. Sandulli, Note minime in tema di segreto di Stato, in Giur. cost., 1977, p. 1202.
[13] Così si espresse, a suo tempo, Corte cost., sent. 24 maggio 1977, n. 86, cons. in dir. n. 8.
[14] Si pensi al diritto alla vita (art. 2), al divieto di tortura (art. 3), al diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5), al diritto a un equo processo (art. 6), alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9). Sulla prassi internazionale formatasi in relazione a tali diritti v. European Court of Human Rights/Research Division, National security and European case-law, 2013, § 65 ss., consultabile su www.echr.coe.int.
[15] Per una esaustiva rappresentazione della disciplina sostanziale e processuale v., su tutti, C. Mosca, Le garanzie funzionali, in C. Mosca, G. Scandone, S. Gambacurta, M. Valentini, I servizi di informazione e il segreto di Stato. (Legge 3 agosto 2007, n. 124), Milano, 2008, p. 243 ss. Più di recente, v. anche l’ampia indagine di G. Amato, Le garanzie funzionali dell’operatore dei servizi di informazione, in Sist. pen., 2024, p. 5 ss.
[16] Recante «Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto».
[17] In chiave di interpretazione sistematica, deve sottolinearsi la connotazione di espressa sussidiarietà della norma di cui all’art. 17, rispetto a quella contenuta nell’art. 51 c.p. Si interrogano, fra gli altri, sui rapporti fra la “speciale” causa di giustificazione in parola e la previsione generale dell’art. 51 c.p. F. Marenghi, Sub art. 17, L. 3.8.2007 n. 124 (sicurezza e segreto di Stato), in Leg. pen., 2007, p. 719 s.; C. Fiore, Dommatica della giustificazione e tutela dei diritti fondamentali, in W. Hassemer, E. Kempf, S. Moccia (Hrsg.), In dubio pro libertate. Festschrift für Klaus Volk zum 65. Geburtstag, München, 2009, p. 176; T. Padovani, Diritto penale13, Milano, 2023, p. 205 s.
[18] Un dato senz’altro rilevante è costituito dal fatto che, per la prima volta, il Legislatore ha scelto di adoperare, littera legis, la locuzione «speciale causa di giustificazione», del tutto usuale nel linguaggio della dottrina, ma finora estraneo alla terminologia del Legislatore stesso, che ha sempre preferito servirsi di un più generico riferimento alla “non punibilità” del fatto. Si precisa poi che tale causa di giustificazione è “speciale” in quanto riservata a una specifica categoria di autori; al contempo, si configura come “generale” poiché, in linea teorica, può applicarsi a qualsiasi tipo di reato, sebbene con le eccezioni che verranno illustrate a breve
[19] Il meccanismo operativo di questa scriminante è oggetto di fondati rilievi critici in F. Palazzo, Costituzione e scriminanti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009. p. 1054 ss. Sull’atto autorizzativo come elemento negativo del fatto o come causa di giustificazione si rinvia alle ricostruzioni di M. Mantovani, L’esercizio di un’attività non autorizzata. Profili penali, Torino, 2003, p. 35 ss.
[20] In relazione ai beni giuridici menzionati dalla disposizione, ricostruisce i relativi reati P. Pisa, Le garanzie funzionali per gli appartenenti ai servizi segreti, in Dir. pen. proc., 2007, p. 1432 ss. Segnala l’indeterminatezza della norma su tale versante F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Torino, 2018, p. 158 s.
[21] Viene quindi esclusa ogni ipotesi di bilanciamento fra l’interesse alla sicurezza dello Stato e la lesione dei diritti fondamentali della persona umana. La Legge del 2007 non accorda difatti alcuna “licenza di uccidere”, né abilita il personale dei Servizi di informazione a compiere renditions, e quindi forme di tortura psico-fisica dirette a estorcere informazioni rilevanti la tutela della sicurezza statuale.
[22] Di cui alla L. 20 febbraio 1958, n. 75 («Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui»).
[23] Secondo la prescrizione dell’art. 39, co. 11, L. 3 agosto 2007, n. 124, in tema di segreto costituzionalmente illegittimo, «[i]n nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale o a fatti costituenti i delitti di cui agli articoli 285, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale».
[24] Sulla vaghezza della norma in proposito si esprime, ancora, F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti, cit., p. 159. Contra, ritiene, invece, ragionevole la disciplina G. Amarelli, Le operazioni sotto copertura, in V. Maiello, La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, in F. Palazzo, C.E. Paliero (diretto da), Trattato teorico-pratico di diritto penale, Torino, 2015, p. 170.
[25] Da ultimo fino al 30 giugno 2025 dall’art. 18, co. 1, D.l. 27 dicembre 2024, n. 202 («Disposizioni urgenti in materia di termini normativi»), meglio noto come “Decreto Milleproroghe”.
[26] Ai sensi della quale «[n]on possono essere autorizzate, ai sensi dell’articolo 18 della legge 3 agosto 2007, n. 124, condotte previste dalla legge come reato per le quali non è opponibile il segreto di Stato a norma dell’articolo 39, comma 11, della medesima legge n. 124 del 2007, ad eccezione delle fattispecie di cui agli articoli 270, secondo comma, 270-ter, 270-quater, 270-quater.1, 270-quinquies, 270-quinquies.1, 302, 306, secondo comma, e 414, quarto comma, del codice penale».
[27] Il grassetto impiegato si riferisce alle nuove previsioni incriminatrici programmate.
[28] Si riprende qui l’efficace espressione «terrorista “mobile”» di V. Militello, Terrorismo e sistema penale: realtà, prospettive, limiti - Presentazione del corso, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2017, p. 7 s.
[29] In tema, per alcune critiche “a tutto campo” su tali innesti normativi, si vedano, ex multis, A. Cavaliere, Considerazioni critiche intorno al d.l. antiterrorismo n. 7 del 18 febbraio 2015, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2015, p. 226 ss.; F. Fasani, Il Decreto antiterrorismo. Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. pen. proc., 2015, p. 926 ss.; Id, Un nuovo intervento di contrasto al terrorismo internazionale, in Dir. pen. proc., 2016, p. 1555 ss.
[30] Lo ritiene A. Milone, La responsabilità penale degli operatori d’intelligence e la speciale causa di giustificazione: le novità sostanziali in tema di garanzie funzionali contenute nel d.l. “Milleproroghe” e nel d.d.l. Sicurezza approvati dal Governo Meloni, in Arch. pen., 2024, p. 70, il quale evidenzia come la modifica dell’art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124 permetta di superare il limite dell’attuale normativa.
[31] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 27 giugno 2007, n. 37199, in Riv. pen., 2008, p. 809 e, conformemente, Cass. pen., Sez. I, 1° febbraio 2010, n. 4086, in C.E.D. Cass., n. 245985-01.
[32] Cfr., esemplificativamente, Cass. pen., Sez. II, 4 giugno 2004, n. 25282, in Riv. pen, 2005, p. 165; Cass. pen., Sez. I, 2 aprile 2012, in C.E.D. Cass., n. 251919-01; Cass. pen., Sez. V, 27 settembre 2013, n. 40111, in Riv. pen., 2013, p. 1118 ss. Si rinvia, comunque, per più accurati approfondimenti giurisprudenziali sui criteri differenziali delle due ipotesi di delitto, a A. Balsamo, Le nuove disposizioni sulla tutela processuale, sulle garanzie funzionali e sulle attività di informazione del personale dei servizi segreti, in R.E. Kostoris, F. Viganò, Il nuovo ‘pacchetto terrorismo’, Torino, 2016, p. 123 ss.
[33] Si esprimeva in questi termini già la Relazione illustrativa sul D.d.l. “Anti-terrorismo”, poi divenuto D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, consultabile su www.giustizia.it.
[34] L’osservazione dei fenomeni terroristici di matrice islamico-radicale più recenti ha comportato la necessità di “elasticizzare” i connotati della struttura associativa, per potervi ricomprendere tutte quelle consorterie di tipo “cellulare” e a “rete” che operano con membri dislocati in più Stati, spesso in piccoli gruppi. L’attuale modello “polverizzato” delle articolazioni terroristiche, caratterizzato da un’adesione aperta, sebbene non indiscriminata, si avvale di modalità informatizzate su scala planetaria per promuovere la diffusione del credo politico-religioso. Attraverso cellule “figlie” che aderiscono al programma, queste organizzazioni svolgono, nonostante un rapporto del tutto smaterializzato con l’organizzazione “madre”, un ruolo strumentale nella realizzazione del fine criminoso. Tale approccio consente da un lato una forma più efficace di proselitismo e dall’altro consente una più proficua disseminazione di supporti didattici e operativi per conseguire le finalità criminose dell’organizzazione. Questa nuova morfologia del terrorismo è ben argomentata, ad es., in Cass. pen., Sez. I, 30 giugno 2022, n. 24940, in Quot. giur., 2022.
[35] Gli svariati profili di criticità che solleva la nuova ipotesi delittuosa sono già stati scandagliati nella dottrina. Si rinvia, sul punto, a M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, cit.
[36] Secondo il comma 1 «[c]hiunque, al fine di attentare alla pubblica incolumità, fabbrica, acquista o detiene dinamite o altre materie esplodenti, asfissianti, accecanti, tossiche o infiammabili, ovvero sostanze che servano alla composizione o alla fabbricazione di esse è punito con la reclusione da uno a cinque anni».
[37] Cfr., per una lettura costituzionale della disciplina dell’art. 17, L. 3 agosto 2007, n. 124, P. Bonetti, Profili costituzionali delle garanzie funzionali per gli agenti dei Servizi di informazione per la sicurezza, in Perc. cost., 2008, p. 48 ss.
[38] E il medesimo ragionamento può effettuarsi con riguardo alle «associazioni sovversive» incriminate nell’art. 270 c.p.
[39] Dette attività, secondo il dettato normativo, si concretano nel fatto di promuovere, di costituire, di organizzare, di dirigere l’associazione, con una pena da sette a quindici anni di reclusione.
[40] In questo caso, per tale incriminazione la pena prevista è della reclusione da cinque a dieci anni.
[41] Si prescinde dalla ricostruzione delle ulteriori condotte di promozione e costituzione in quanto non rientranti, ai sensi del D.d.l. “Sicurezza”, nell’alveo operativo della scriminante “speciale” qui oggetto di attenzione. Per una esaustiva ricostruzione delle caratteristiche dell’associazione e delle singole condotte degli associati, qui solo accennate, v. S. Dambruoso, Delitti di associazione politica, in A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Diritto penale, tomo I, Milano, 2022, p. 1456, cui si rinvia necessariamente anche per cospicui riferimenti giurisprudenziali.
[42] Il contributo è essenziale quando esso sia volto ad assicurare la vita e l’efficienza del consorzio criminoso in relazione alle finalità che l’organizzazione persegue e alla struttura che ha assunto in concreto. L’infungibilità è intesa poi, nella giurisprudenza di legittimità, «in senso relativo, e cioè come non facile intercambiabilità e non come assoluta insostituibilità». Coglie questo profilo Cass. pen., Sez. I, 11 dicembre 1993, n. 11344, in Cass. pen., 1995, p. 44.
[43] Qui valgono sempre le considerazioni di V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano5, vol. IV, P. Nuvolone (a cura di), Torino, 1981, p. 368 s.
[44] Cfr. Cass. pen. Sez. I, 4 ottobre 1988, in Giust. pen., 1990, p. 267 ss.
[45] I passaggi argomentativi richiamati sono contenuti in Cass. pen., SS.UU., 12 luglio 2005, n. 33748, in Riv. pen., 2006, p. 743. Più di recente, cfr. Cass. pen., Sez. II, 22 maggio 2017, n. 25452, in C.E.D. Cass., n. 270171-01.
[46] Testualmente, Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 1987, in Riv. pen., 1988, p. 892. È evidente, tuttavia, che anche una simile definizione possa prestarsi ad applicazioni più o meno elastiche, a seconda delle esigenze repressive sottese ai singoli reati politici di associazione.
[47] Segnalano questo profilo funzionale G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale6, vol. I, Bologna, 2021, p. 39.
[48] Giusta la lettera, in tale ultimo caso, dell’art. 270-bis, co. 3, c.p.
Il contributo vuole sommariamente descrivere le problematicità ed i limiti di un’inchiesta che ha inteso individuare responsabilità penali nel mancato contenimento, al loro sorgere, da parte delle Autorità politiche e sanitarie, dei focolai epidemici che costituirono il fulcro della diffusione esponenziale del virus nel territorio bergamasco. L’indagine ha presentato aspetti problematici sui quali l’articolo vuole porre l’attenzione. Di fatto, si è risolta, come descritto nei paragrafi 2 e 3, e non poteva essere altrimenti, in un sindacato sugli effetti delle scelte politiche ed amministrative in materia di salute pubblica, con le allarmanti evidenze descritte nel paragrafo 4. È stata messa in discussione l’iniziativa della Procura di Bergamo che, operando di fatto un’indagine conoscitiva nella ricerca di responsabilità, sarebbe andata oltre i limiti istituzionali spettanti alla funzione del Pubblico Ministero. Altri aspetti di criticità dell’inchiesta hanno riguardato la ritenuta non configurabilità del reato di epidemia colposa (artt.438 e 452 CP) nella forma omissiva (paragrafo 5); la connotazione ‘politica’ delle scelte delle Autorità governative e amministrative, ritenute non sindacabili in sede giudiziaria (paragrafo 6); la difficile individuazione di specifici ruoli decisori cui imputare le gravi omissioni emerse (paragrafo 7); il problema del nesso di causalità tra le riscontrate gravi omissioni nella ‘preparedness’ del contenimento dei focolai locali e la successiva ‘esplosione’ del contagio nel territorio bergamasco e lombardo.
Sommario: 1. Premessa – 2. Oggetto dell’inchiesta – 3. Il ruolo della Procura e le critiche sull’iniziativa – 4. I fatti emersi – 5. L’inconfigurabilità del reato di pandemia colposa nella forma omissiva – 6. Le scelte politiche non sindacabili in sede giudiziaria – 7. La posizione dei tecnici e dei funzionari ministeriali – 8. Il problema del nesso causale.
1. Premessa
Il 18 marzo è il “giorno della memoria” delle vittime del Covid, il giorno dell’iconica e angosciosa sfilata lungo il viale del cimitero di Bergamo dei camion militari che trasportavano decine di bare di morti Covid verso altri luoghi, non essendovi più ricettività nei cimiteri, nelle chiese o nei crematori della zona, ormai saturi di cadaveri.
Non è di questa scena manzoniana che voglio parlare, ma condividere alcune riflessioni a margine dell’inchiesta penale che su tali vicende è stata condotta dalla Procura della Repubblica di Bergamo, inchiesta conclusasi con l’archiviazione emessa dal Tribunale dei Ministri di Brescia del procedimento per epidemia colposa, con riferimento alle posizioni del Presidente del Consiglio e del Ministro della Salute dell’epoca, delle alte cariche della Regione Lombardia, dei componenti del CTS e alcuni dirigenti del Ministero della Salute e di Organismi sanitari pubblici, posizioni tutte alla fine confluite avanti lo stesso Tribunale ministeriale a seguito della determinazione, assunta ex art.54 quater CPP dal Procuratore Generale di Brescia, di ritenere attratta alla competenza di quel Tribunale anche la posizione dei soggetti ‘laici’, cui veniva contestato il reato di cui agli arit.432 e 452 CP nella forma di ‘cooperazione colposa’ ex art.113 CP con i ministri, circostanza ritenuta dalla sovraordinata Autorità e accettata dal Tribunale dei Ministri come assimilabile ad un concorso ex art.112 CP.
Neppure intendo parlare delle polemiche (soprattutto giornalistiche e da parte delle Camere Penali, ma anche di colleghi e politici vari) che l’inchiesta suscitò, ma condividere, e farne oggetto di riflessione tecnica, alcuni dei numerosi profili di criticità sottesi al procedimento bergamasco.
2. Oggetto dell’inchiesta
L’oggetto dell’inchiesta riguardava la mancata istituzione della “zona rossa” nei Comuni di Alzano Lombardo e Nembro e la fulminea diffusione del contagio nei territori bergamaschi e lombardi a fine febbraio 2020, con un’escalation di morti ormai incontrollabile nei giorni a seguire.
Le indagini erano focalizzate sulla prima fase della pandemia, sulla risposta delle Autorità sanitarie nell’affrontare il rischio pandemico per arginare il primo propagarsi dell’epidemia proprio dai territori lombardi. L’inchiesta non aveva per oggetto la ricerca di una responsabilità colposa medica nella gestione e cura dell’epidemia, non riguardava malpractices mediche con riferimento alla diffusione delle nuove patologie legate ad agenti virali precedentemente sconosciuti, ma oggetto d’indagine era il livello di preparedness delle Autorità sanitarie, cioè di prevenzione, preparazione e gestione del rischio pandemico prima e dopo l’alert dell’OMS del 5 gennaio 2020 e fino al lockdown del 9 marzo 2020, una ricostruzione e valutazione, anche in termini di responsabilità penale, delle criticità e negligenze emerse nell’azione dei decisori politici e amministrativi per contrastare la propagazione di focolai epidemici nel territorio bergamasco e nelle zone limitrofe, nella errata valutazione del rischio pandemico e, in sostanza, nell’omesso impedimento del diffondersi della pandemia e degli eventi lesivi che ne erano derivati.
3. Il ruolo della Procura e le critiche sull’iniziativa
Il primo fattore di critica coinvolgeva (tema ancora di stretta attualità) il ruolo stesso e la funzione di una Procura della Repubblica: può il P.M., ci si è chiesto, utilizzare lo strumento dell’inchiesta penale per individuare eventuali responsabilità nella causazione o nel mancato contenimento e, quindi, nell’agevolazione, seppur colposa, di un evento catastrofico diffusosi progressivamente, quale è stato l’epidemia di Covid-19, che ha provocato decine di migliaia di vittime in Italia (e non solo)?
Si disse che non spettava ad una Procura ricercare le cause di una calamità ed accertare se erano individuabili delle responsabilità penali nel suo mancato impedimento e, soprattutto, sindacare sugli effetti delle scelte politiche in materia di salute pubblica, in quanto il PM era legittimato ad intervenire solo con indagini penali in presenza di una qualificata notitia criminis.
È il problema, osserviamo, delle grandi catastrofi (alluvioni, frane imponenti, disastri ambientali e simili), laddove si afferma che non compete al PM ricostruire gli eventi per la ricerca di responsabilità penali, dovendo limitarsi ad istruire un procedimento in relazione a specifiche denunciate ipotesi di reato.
Nel caso bergamasco e nel caso della situazione di pandemia diffusa era impossibile procedere ed inquadrare le indagini nell’ambito della previsione dell’art.589 C.P., in relazione ai singoli decessi, stante le dimensioni del fenomeno e l’intervento collettivo del personale sanitario (dove e se c’è stato) sui contagiati, nonché l’impossibilità di procedere ad esami autoptici. Il fenomeno era collettivo, coinvolgeva gran parte della popolazione e delle Autorità sanitarie a tutti i gradi, per cui l’indagine non poteva che orientarsi sulla ricerca delle cause del mancato contenimento dei focolai epidemici, quindi sul reato di epidemia colposa, e in tale prospettiva giungere necessariamente ad operare un sindacato sulle scelte ed eventuali omissioni delle Autorità in materia di salute pubblica, indagine che, pur di fronte alle pressanti istanze di informazione da parte dell’opinione pubblica bergamasca, nessuna autorità politica o sanitaria o scientifica aveva sistematicamente inteso svolgere.
Ma spettava ad una Procura una simile indagine?
Proprio per la scelta di svolgere tale più ampia indagine la Procura bergamasca, pur in presenza di centinaia di denunce di morte, venne fatta oggetto di aspre critiche e tacciata di fare “populismo giudiziario”, di essersi spinta oltre i propri compiti istituzionali, alla ricerca di un reato, più che allo svolgimento di un’istruttoria penale.
4. I fatti emersi
Le risultanze dell’indagine furono comunque sconcertanti.
In primo luogo furono accertati il mancato aggiornamento del Piano Pandemico anti-influenzale italiano, fermo addirittura al 2006, e la mancata adozione dei provvedimenti preventivi ivi comunque previsti, anche a livello regionale e locale, nonché la mancata adozione dei protocolli di precauzione già utilizzati in occasione di precedenti pericoli epidemici, quali la SARS-COV1 (2002-2003) e la MARS COV (2012), evidenziandosi la totale sottovalutazione del rischio pandemico da parte delle autorità sanitarie a tutti i livelli, centrale, regionale e locale, e la loro totale impreparazione a prevenire ed arginare la diffusione del virus, ad arginare i nascenti focolai locali, pur dopo l’alert lanciato dall’OMS ancora il 5 gennaio 2020.
Venivano inoltre riscontrate di sistema gravi criticità in questa prima fase di diffusione dei focolai pandemici, quali, sommariamente:
- il vuoto, la totale mancanza di organizzazione della medicina territoriale, con medici di famiglia lasciati senza direttive o indirizzi comportamentali, se non terapeutici, in pratica lasciati letteralmente allo sbando e non in grado di effettuare vigilanza epidemiologica attiva (la sbandierata “sorveglianza attiva”), di gestire l’isolamento domiciliare delle persone a rischio e cercare di far da filtro per contenere le spedalizzazioni massicce e incontrollabili (e spesso purtroppo impossibili);
- disposizioni ministeriali contradditorie e inefficienti, che comportarono molta perdita di tempo e di incisività dell’azione di contrasto, quali:
· la contradditoria definizione di “caso” ai fini della sorveglianza e nella strategia e previsione di testing e screening, ai fini di isolare i ‘veicoli’ di contagio;
· l’indicazione di non eseguire i tamponi agli asintomatici (che pur sono stati stimati causa del 40% dei contagi!);
· la mancata mappatura dei fabbisogni DPI, e DM e Posti Letto e la totale mancanza di tamponi, mascherine, tute, occhiali ed altri presìdi;
· la mancata formazione dei sanitari circa le precauzioni da osservare nella vestizione, nel trattamento dei pazienti e la mancata previsione di luoghi di triage separati, la mancata predisposizione di percorsi ‘puliti’ per l’accesso alle strutture sanitarie ed il movimento all’interno delle stesse;
· la promiscua gestione dei pazienti infetti (già denunciata dalla professoressa Capua) che conduceva in Lombardia ad attivare ospedali misti, con la contemporanea presenza di pazienti acuti, di cronici e di infetti, situazione che comportava la diffusione della infezione negli ospedali ed un numero elevato di personale sanitario contagiato (il 12% degli infetti, come riconosciuto dall’assessore regionale), fonte di ulteriori propalazioni esterne;
· la totale insufficienza dei fondamentali apparecchi di ventilazione, inutilmente sollecitati al CTS ancora a febbraio 2020 dall’allora sottosegretario alla salute, on.le SILERI di ritorno da Wuhan dove aveva curato il rimpatrio in Italia di cittadini italiani;
· la mancata ricognizione dei laboratori in grado di processare i tamponi;
· la ritenuta necessità di validazione dei casi da parte del laboratorio di riferimento dell’ISS a Roma, con conseguente farraginosità del sistema, con risposte che arrivavano dopo giorni, a discapito della sorveglianza epidemiologica e della rapidità di diffusione del contagio;
· i ritardi e disservizi sul numero verde centralizzato 1500 e nell’attivazione della piattaforma per caricare i dati finalizzati alla sorveglianza epidemiologica (per capire anche la crescita esponenziale del contagio e la necessità di tempestivi interventi);
· la mancata tempestiva istituzione della “zona rossa” ad Alzano Lombardo e Nembro, dove già il 27 febbraio, secondo le proiezioni matematiche dell’epidemiologo prof. Merler, rappresentate al CTS ed al Governo ancora nella prima decade del febbraio 2020, si versava in una situazione di epidemia conclamata (la R0 era arrivata pari a 2, cioè ‘piena pandemia’), chiusura che se tempestivamente disposta, alla data suddetta, secondo i calcoli epidemiologici del consulente della Procura, prof. Crisanti, avrebbe potuto portare ad un calo di mortalità del 67,5%, “con una probabilità del 95% che il risultato sia corretto. In questo scenario si sarebbero verificati 4148 decessi in meno rispetto all’eccesso di mortalità registrata in quel periodo”.
5. L’inconfigurabilità del reato di pandemia colposa nella forma omissiva
Su tali risultanze, e qui un secondo grave profilo di criticità e problematicità dell’inchiesta, il Tribunale dei Ministri, nel disporre l’archiviazione dei procedimenti, rilevava in modo tranchant la non configurabilità, in sé, del reato di epidemia colposa omissiva impropria, che costituiva, come detto, il fulcro della imputazione contestata dalla Procura di Bergamo agli indagati.
Facendo propri i principi enunciati nelle sentenze della Suprema Corte Sez. IV n.9133 del 12.12.2017 e Sez. IV n.20416 del 4.3.2021 (le uniche due pronunce all’epoca in materia), il Tribunale ritenne, alla radice, la non configurabilità, del reato di epidemia colposa omissiva impropria, in quanto il reato di epidemia avrebbe potuto essere integrato soltanto “da una condotta commissiva a forma vincolata”, da un comportamento attivo consistente appunto nella volontaria ‘diffusione’ di germi patogeni, sicché non poteva configurarsi il delitto di epidemia, di cui agli artt. 438 e 452, 1° comma, CP in una condotta come quella risultante dalle indagini, concretizzatasi in forma omissiva, trattandosi di modalità diversa da quella contemplata dalla norma incriminatrice, con conseguente inapplicabilità dell’art.40, 2°comma, CP, incompatibile con la forma commissiva vincolata del reato di riferimento.
L’assunto, di per sé del tutto ineccepibile, merita qualche riflessione.
Esso esclude il contagio quale mezzo di ‘diffusione’ del virus.
Ci si chiede se sia conforme al più generale principio di precauzione una lettura della norma che escluda la rilevanza penale della mancata adozione di misure previste (anche da normativa internazionale vincolante come la decisione del Parlamento Europeo 1082/2023/UE del 2013 e la successiva decisione della Commissione) per prevenire ed arginare emergenze sanitarie quali una pandemia, proprio per contenere la ‘diffusione’ del virus. Ciò a prescindere dal valore cogente o meno delle raccomandazioni OMS sulla pandemia, che pur l’Autorità sanitaria nazionale avrebbe dovuto osservare.
Ci si domanda anche se la “diffusione”, sul piano semantico come su quello epistemico, implichi necessariamente il ricorso ad una tipicizzata modalità attiva, cioè alla volontaria diffusione del morbo, evidenziandosi, di contro, come praticamente tutti i casi di mancato impedimento di un focolaio di Covid-19 siano riconducibili allo schema del concorso omissivo in un reato commissivo, cioè nel reato commissivo dei soggetti positivi che, se pur involontariamente, propagano il virus in quanto portatori dello stesso.
Ci si chiede altresì se il fatto tipico previsto dall’art.438 CP non possa invece ritenersi modellato secondo lo schema dell’illecito causalmente orientato, secondo il quale ad essere vincolata non sarebbe la condotta, bensì il mezzo -la diffusione- attraverso il quale si verifica l’evento, per cui il reato potrebbe essere considerato “a forma libera”, quindi anche tramite contagio.
Ci si domanda infine se il reato, quand’anche ritenuto a condotta vincolata, non possa comunque essere integrato nella sua declinazione omissiva, come già ammesso dalla Suprema Corte per il reato di truffa, reato quest’ultimo ritenuto a condotta vincolata, ma in relazione al quale la condotta di raggiro viene ritenuta integrata anche dal mero silenzio sul sopravvenuto verificarsi di un evento, come nella c.d. ‘truffa negoziale’.
A conclusione di tali riflessioni circa la non ritenuta configurabilità del reato di epidemia colposa omissiva impropria da parte del Tribunale dei Ministri di Brescia, segnalo l’orientamento di segno opposto rappresentato dalla recente Ordinanza n.42614/2024 del 19.9.2024 con la quale la IV Sezione Penale della Suprema Corte ha deciso la rimessione alle Sezioni Unite di un ricorso proprio sul tema di mancata configurabilità del reato di cui agli artt. 438-452, nel caso di amministratori ospedalieri che avevano omesso di fornire ai dipendenti i presidi previsti ed idonea formazione preventiva contro la diffusione del Covid-19.
L’ordinanza della IV Sezione lascia dunque spazio a quella prospettiva di overruling in cui la Procura di Bergamo aveva creduto, per un’interpretazione più attualistica e aperta ad un più generale principio di precauzione, principio per il quale è richiesto che le autorità competenti (ossia le amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente, della salute etc.) siano tenute ad adottare i provvedimenti più appropriati per prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente.
6. Le scelte politiche non sindacabili in sede giudiziaria
Il Tribunale dei Ministri di Brescia (altro fattore problematico dell’inchiesta che si intende segnalare) ha ritenuto l’omessa istituzione della “Zona Rossa” nella bergamasca una scelta di natura politica, non sindacabile in sede giurisdizionale, in quanto l’istituzione della “Zona Rossa” avrebbe comportato il sacrificio di diritti costituzionali, quali il diritto alla circolazione, il diritto di riunione, il diritto al lavoro, l’esercizio del diritto di culto, nonchè una limitazione al diritto di iniziativa economica, creando ricadute gravissime in termini di occupazione, di crisi sociale e di produzione del PIL nazionale.
Per il Tribunale non era esigibile, per la complessità e rapida evoluzione della situazione e la mancanza di informazioni scientifiche sufficienti, una pronta decisione di chiusura della zona bergamasca da parte della Presidenza del Consiglio, nonostante già il 27 febbraio in provincia di Bergamo si versasse in situazione di ‘pandemia conclamata’, secondo le proiezioni epidemiologiche illustrate al CTS da Merler ancora il 12 febbraio, ed allorchè il CTS stesso, modificando l’opinione espressa nella riunione del 26 febbraio circa la non necessità di ulteriori restrizioni, nella riunione del 2 marzo avesse sollecitato tale chiusura, chiusura non attuata perché il Presidente del Consiglio aveva richiesto ulteriore tempo di riflessione, chiusura che sarebbe stata disposta di necessità solo il successivo 8 marzo, stante la degenerazione della situazione, ritardo che, secondo la stima epidemiologica del consulente della Procura, avrebbe, anche nel breve, determinato l’aumento esponenziale dei contagi con le funeste conseguenze come sopra descritte, anche in termini di aumento dei decessi.
Parimenti il Tribunale escludeva responsabilità ministeriali nelle scelte ed omissioni nella fase di contrasto al diffondersi della pandemia, attribuendo al Presidente del Consiglio ed al Ministro della Salute una mera attività di “indirizzo politico” sulla scorta delle ripartizioni di funzioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001 n.165/2001, precisando che gli stessi non avrebbero avuto alcun potere di controllo, di avocazione delle funzioni amministrative in capo ai dirigenti/funzionari, cui solo (art.4, 2°comma D-Lgs.165) spettava l’adozione di atti e provvedimenti amministrativi del caso, compresi tutti gli atti che impegnavano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione, finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa e di organizzazione, non potendosi comunque ipotizzare un concorso dei ministri nel reato omissivo improprio ascrivibile ai direttori e funzionari, come prospettato dalla Procura, poiché simile ipotesi presupponeva l’esistenza di una fonte legale che prevedeva obblighi in capo ai ministri stessi di impedire l’altrui commissione di reati, fonte nella fattispecie non rinvenibile.
Quindi nessuna responsabilità ministeriale in relazione alle gravi criticità riscontrate nella preparedness delle Autorità sanitarie e nelle iniziative assunte (o non assunte) per arginare la diffusione del morbo.
Ad analoghe conclusioni giungeva il Tribunale anche con riferimento alla posizione delle Autorità politiche della Regione Lombardia, cui non veniva riconosciuta responsabilità nel mancato contenimento della diffusione pandemica nei territori di competenza.
In particolare veniva disconosciuto il potere della Regione Lombardia di disporre il lockdown nella valle bergamasca, la Valseriana, provvedimento che secondo il Tribunale spettava al Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto, come leggesi nella decisione del Tribunale (ed il presupposto dell’affermazione pare erroneo), “le aree rientranti nell’ambito di applicazione della disposizione non erano limitate alla Regione Lombardia”.
Il provvedimento di chiusura, chiosa il Tribunale, non era comunque esigibile, “e neppure auspicabile” che venisse assunto “senza un’adeguata ponderazione dei dati di conoscenza acquisiti, del loro grado di certezza e delle conseguenze derivanti dall’istituzione di una zona rossa”.
Come per i ministri, anche per le autorità politiche della Regione veniva esclusa ogni responsabilità in relazione alle gravi criticità riscontrate nella preparedness, non potendo essere loro imputato il mancato contenimento della diffusione pandemica, stante il principio della distinzione tra i compiti di indirizzo loro spettanti rispetto ai compiti di gestione amministrativa dei dirigenti, ai quali soli competeva “adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”.
7. La posizione dei tecnici e dei funzionari ministeriali
Non veniva dal Tribunale ministeriale riconosciuta responsabilità alcuna anche in capo ai vertici del Servizio Nazionale della Protezione Civile, cui era demandata una “mera attività di coordinamento” degli interventi emergenziali, in quanto “tutte le condotte omissive in esame riguardano attività che non erano di pertinenza del Capo del Dipartimento della Protezione Civile” riguardando “misure di prevenzione e programmazione sanitaria finalizzate al contrasto delle emergenze igienico sanitarie che sono di esclusiva competenza del Ministero della Salute”.
Nessuna responsabilità neppure per i componenti del CTS (comitato Tecnico Scientifico) formato anche dai responsabili dell’Istituto Superiore di Sanità, del Consiglio Superiore di Sanità, dell’IRCCS per le malattie infettive Spallanzani, da alcuni capo-dipartimento del Ministero della Salute e da rappresentanti delle Regioni, stante la funzione meramente consultiva dell’organismo, di supporto alle scelte del Ministro e che aveva valutato, nel corso delle riunioni del 26, 27, 28, 29 febbraio e 1°marzo 2020, come non sussistenti le condizioni per l’estensione della c.d “zona rossa” ai comuni della Valseriana, nonostante l’incremento in misura esponenziale dei contagi e quel territorio versasse in situazione di conclamata pandemia.
Il Tribunale escludeva una responsabilità altresì di amministratori e funzionari, sia a livello locale che a livello centrale, nel rimpallo di responsabilità tra Ministero, Regioni ed Enti Locali ed in mancanza di una strutturata “catena di comando”, riconoscendo una frammentazione delle competenze e delle responsabilità, cui peraltro la Procura aveva inteso ovviare contestando l’ipotesi di cooperazione colposa ex art.113 CP, stante l’insufficienza delle singole omissioni e inefficienze a provocare, di per sé e quali condotte indipendenti, l’ingravescenza della diffusione pandemica.
Il Tribunale dava così conto di una segmentazione e parcellizzazione di competenze e di negligenze, di comportamenti colposi fra loro indipendenti, riferibili a soggetti disparati non specificamente individuabili, tali da essere difficilmente inseribili, di per sé soli, nel determinismo causale del diffondersi dell’epidemia:
- così per la costituzione di una riserva di antivirali, DPI, vaccini antibiotici, kit diagnostici, che, “sulla base del piano pandemico del 2006” (quello non aggiornato, né attuato!), sarebbe dovuta avvenire su impulso del Ministero, il quale avrebbe dovuto invitare le Regioni alla costituzione della scorta, raccomandazione dispersa nei meandri della burocrazia ministeriale e regionale, mentre, nel contempo, si affermava anche che per il fabbisogno dei presìdi di protezione, per i ventilatori, per l’utilizzo delle mascherine, per la formazione del personale avrebbero dovuto provvedere le singole strutture sanitarie, cioè le singole aziende, quali ‘datori di lavoro’, tutto ciò nella totale impreparazione ed inefficienza del sistema della medicina territoriale, con le autorità locali allo sbando e senza una ‘catena di comando’ individuata e riconosciuta;
- così per le scelte generalizzate, sempre nella prima fase pandemica, di non isolare al pubblico le RSA, di tenere reparti promiscui, anche per i posti di Pronto Soccorso, di non vietare gli assembramenti di persone (partita Atalanta-Valencia di Coppa UEFA del 19 febbraio), se non l’incitamento dei sindaci ad andare in piazza per l’aperitivo (“Bergamo non ha paura!”)… solo responsabilità parcellizzate, scelte inopportune di autorità locali e amministratori, dovute alla mancanza di informazioni sui rischi sanitari ed in mancanza di evidenze scientifiche e non provatamente poste in nesso causale con il successivo propagarsi del morbo.
8. Il problema del nesso causale
Questo, il problema del nesso di causalità tra l’assoluta mancanza di preparedness delle autorità a tutti i livelli ed il diffondersi della pandemia, costituisce l’ultimo grave elemento di criticità dell’inchiesta che intendo, per la sua importanza, meglio focalizzare.
In pratica, ci si deve chiedere: se fosse stato aggiornato ed attuato il piano pandemico, se fossero state rispettate le raccomandazioni precauzionali previste dalla normativa internazionale sanitaria, se fosse stata istituita la “zona rossa” nei comuni della Valseriana si sarebbe circoscritto il focolaio, il cluster pandemico ed arginata la diffusione del morbo nel territorio?
Si tratta del c.d. giudizio controfattuale, giudizio per il quale supponendo come tempestivamente realizzata l’azione precauzionale richiesta, può concludersi con elevata probabilità logica e credibilità razionale che il numero delle persone contagiate sarebbe stato fortemente ridotto (il calo di mortalità del 67,5% calcolato dal prof. Crisanti).
Afferma il Tribunale che “agli atti manca del tutto la prova che le 57 persone indicate nell’imputazione, che sarebbero decedute per la mancata estensione della zona rossa, rientrino tra le 4148 morti in eccesso che non ci sarebbero state se fosse stata attivata la zona rossa…Il Prof Crisantiha compiuto uno studio teorico ma non è stato in grado di rispondere circa il nesso di causa tra la mancata attivazione della zona rossa e la morte delle persone determinate”.
L’assunto è indiscutibile, ma valgano alcune osservazioni.
La mancanza del nesso, in tale prospettiva, appare limitata al rapporto specifico tra mancata istituzione della “zona rossa” e la morte di persone determinate, ma, a ben vedere, il Tribunale non affronta il problema, a monte, con riferimento all’evento nel reato di cui all’art.438 CP, della sussistenza di un nesso eziologico tra le omissioni sopra evidenziate ed il mancato contenimento del focolaio pandemico in Valseriana, in pratica della sussistenza di un rapporto di causalità tra la mancata adozione dei modelli di preparedness per arginare e controllare un cluster di malattia infettiva e l’evento epidemico, evento che consiste nella verificazione di un elevato numero di casi di infezione, cui deve accompagnarsi il pericolo di un'ulteriore diffusione della malattia, diffusione del morbo manifestatasi in Valseriana ed estesasi alla città.
Se le precauzioni fossero state adottate e seguite, ci chiediamo, il cluster pandemico sarebbe stato isolato e circoscritto e non ci sarebbero state le devastanti conseguenze descritte dal prof. Crisanti?
Domanda che è rimasta senza risposta.
Lo “studio teorico”, come definito dal Tribunale, del prof. Crisanti non può di certo ritenersi una “prova scientifica”, ma, va osservato, non può di certo essere ridotto ad una “congettura”; la sua, del consulente, è una proiezione matematica su basi epidemiologiche, quindi oggettiva salvo che i dati su cui si fondava non fossero veritieri (ma i dati erano quelli forniti dal Ministero della Salute): la progressione si sarebbe interrotta solo se fosse intervenuto un fatto interruttivo esterno, quale il lockdown o il mutamento genetico del virus o la vaccinazione (all’epoca non ancora approntata).
Non può di certo costituire una riprova il fatto che i contagi e le vittime siano stati purtroppo, nella realtà, ben superiori alle proiezioni epidemiologico-matematiche di Merler, presentate al CTS ancora nel febbraio 2020 e riprese dal consulente della Procura, Crisanti.
Però, e non so quanto questo possa valere ai fini del giudizio controfattuale, sta di fatto che nelle località, Codogno e zone limitrofe e Vò Euganeo, dove il lockdown venne disposto ancora il 23 febbraio 2020, i focolai vennero circoscritti e la loro diffusione bloccata.
È di questi giorni la notizia che il Ministero della Salute ha predisposto e varato un nuovo ed aggiornato Piano Pandemico. Spero che la sua attuazione, la preparedness, non sia più considerata un inutile costo ed il rischio pandemico di nuovo snobbato e comunque sottovalutato dai burocrati del Ministero della Salute.
Le bare di Bergamo siano comunque da monito.
Non ci vuol gran tempo né grande acume anche a chi non sia dell'arte, per accorgersi del molto che è cambiato nella nostra Magistratura: come questa istituzione che fino a poco tempo fa appariva sicuramente al riparo dalle intemperie del mutevole clima politico, sia oggi diventata uno dei “luoghi privilegiati” del dibattito, dove - invece di smorzarsi - gli scontri si fanno più accesi e, all'apparenza almeno, assai più “selvaggi” che altrove. Certo, tra le tante crisi istituzionali che travagliano questa nostra Repubblica, quella della Magistratura è delle più profonde: e, a nostro giudizio, sbaglierebbe gravemente chi pensasse di poterla ridurre nei termini modesti e “controllabili” di una crisi di struttura risolubile con qualche aggiustamento – per l'appunto – strutturale, mutando magari solamente la composizione e i modi di elezione del Consiglio superiore.
Umberto Santarelli[1]
Collocato nel suo tempo – specialmente per il cenno a quella che poteva apparire un cambiamento allora recente – la non breve citazione che precede pare un testo attuale: ma sono passati 50 anni da quando Umberto Santarelli, mite ma deciso giurista cattolico democratico, scriveva queste parole.
Da quel che si legge in giro sulla ennesima proposta di riforma della giustizia non sembra che si siano fatti grandi passi in avanti. Limitando al momento l'esame solo al nodo della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura inquirente, la riforma costituzionale proposta dall'esecutivo appare ad alcuni come una svolta fondamentale, mentre altri la considerano vuoi inutile, vuoi pericolosa, per il timore che sotto mentite spoglie essa apra un varco alla ricorrente tentazione di incrinare lo scudo dell'indipendenza dell'ordine giudiziario.
Non esito a collocarmi nel campo dei dubbiosi, e anche qualcosa in più.
Temo di dover anche anticipare un'obiezione che potrebbe essermi fatta da chi mi conosce: ma tu sei un avvocato civilista, e benché tu dopo la laurea abbia coltivato, e per diversi anni, l'orticello del diritto penale sotto la guida di grandi maestri [2], non hai mai effettivamente svolto la professione del penalista, essendoti dedicato fin da subito al più tranquillo ambito del diritto e del processo civile.
C’è del vero, ma tralasciando ogni considerazione sulla presunta tranquillità del mio campo da gioco, 45 anni di attività professionale, istituzionale e formativa mi consentono forse di superare l'appunto, non certo per presunzione ma per la diversa considerazione che qui provo a esprimere una opinione non tanto come tecnico della materia, ma prima di tutto come cittadino che, tutt’al più, rispetto ad altri ha avuto maggiori possibilità di conoscere il mondo della giustizia.
Quando poi apprendo che anche esponenti della categoria di livello professionale e scientifico ben più alto del mio - penso a Franco Coppi e Giuseppe Iannaccone, tra gli altri [3] - nutrono dubbi più o meno analoghi, allora mi sento confortato e autorizzato a dire anch’io due o tre cose.
La prima è che si parla di argomenti che molti in realtà non conoscono bene; e tra i molti includo certamente parecchi colleghi (e non escluderei neppure che si possa dir lo stesso di diversi magistrati). Eppure non è difficile leggersi almeno il Dossier predisposto dai Servizi Studi delle Camere sul disegno di legge giunto in Senato (A.S. n.1353) [4] per sincerarsi tanto della disciplina attuale in materia sul “tramutamento” [5] delle funzioni quanto delle proposte di riforma. Temo, ad esempio, che parte dell’opinione pubblica meno informata creda tuttora che i ruoli di pubblico ministero e giudice penale siano liberamente interscambiabili; ed allora è responsabilità dei protagonisti del processo - avvocati e magistrati – non aver provato a sufficienza a chiarirlo. Mi limito allora ad un copia e incolla da quel Dossier:
Il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti – e viceversa – è disciplinato dal decreto legislativo n. 160 del 2006, come modificato da ultimo, dalla legge 17 giugno 2022, n. 71.
Ai sensi dell'art. 13 del D.Lgs. n. 160 del 2006, viene innanzitutto sancito come principio generale che il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, importi un cambiamento di sede. Infatti, il mutamento di funzioni, ai sensi del comma 3 del citato art. 13, non è consentito all'interno dello stesso distretto, né all'interno di altri distretti della stessa Regione, né infine con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale, avuto riguardo al distretto nel quale il magistrato presta servizio al momento della richiesta.
In particolare, il comma 3 dell’articolo 13 prevede che il magistrato possa chiedere il cambio delle funzioni:
- una sola volta nel corso della carriera;
- entro il termine di 6 anni dal maturare per la prima volta della legittimazione al tramutamento previsto dall’articolo 194 dell’ordinamento giudiziario.
L’art. 194 dell’ordinamento giudiziario (Tramutamenti successivi) prevede che il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede, non possa essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di 4 anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell'ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. Per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione il termine è di 3 anni.
Trascorso tale periodo, il passaggio di funzioni è ancora consentito, per una sola volta se si tratta:
- del passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, purché l'interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;
- del passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste.
Il passaggio è consentito solo previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario.
Fermiamoci qui.
Se fosse così (ma è così) la riforma non parrebbe poi talmente fondamentale da far sperare che sia la panacea di tutti i mali. So bene, naturalmente, che non è stato sempre così, e guardo anzi con un qualche imbarazzo a proposte di segno opposto tese apparentemente a voler ripristinare maggiori libertà di scelta del magistrato; e posso comprenderle (ma non giustificarle) solo come determinate dalla reazione ad un clima politico pesante.
Ma allora, che c’azzecca – direbbe proprio un P.M. che tutti ricordano – creare due carriere, due organi di autogoverno, un’unica Alta Corte disciplinare?
A me, che sono un civilista di provincia, sembra che azzeccarci, ci azzecchi poco. E da soggetto professionalmente diffidente (forse c’entra un poco anche esser uno di quei maledetti toscani di Malaparte) vien da chiedermi perché concentrare una tale potenza di fuoco su questi obiettivi.
Certo, è stata una battaglia di associazioni forensi prestigiose e seguite, come le Camere penali; certo, un esame spassionato della materia non vien creduto tale, se dà spazio alle ragioni dell’ “altro” (s’intende, per gli avvocati l’ “altro” sono i magistrati); certo, questi “altri” non sono esenti da pecche e vizi: eccome ! non è questa la sede per elencarli ma tutti noi conosciamo foss’anche soltanto un’aneddotica che, anche se non supera i limiti dell’illecito disciplinare, di sicuro non fa brillare la professionalità di parecchi membri dell’ordine giudiziario (aneddotica – aggiungerei – pari soltanto a quella analoga che riguarda noi, gli avvocati).
Ma illudere i cittadini che con la riforma non ci saranno più storture, i processi dureranno qualche mese, P.M. e giudici si guarderanno istituzionalmente in cagnesco (come se questa fosse di per sé una garanzia per indagati e imputati), immaginare una Shangri-La giudiziaria, questo non va bene. Eppure a leggere certe testate (darle nel muro, le testate, sarebbe un miglior consiglio) giornalistiche questo potrebbe essere il paradiso che ci attende.
Se a queste illusioni non dovessimo credere, il solito tarlo del dubbio dovrebbe farci andare alla ricerca dei motivi di queste campagne. La magistratura ha così poco appeal che darle addosso fa guadagnare voti? Potrebbe essere un primo motivo. Un P.M. potenzialmente più autonomo potrebbe essere contemporaneamente più sensibile alle indicazioni del potere esecutivo, pur senza previsioni normative specifiche in tal senso? Anche. Ma soprattutto: siamo davvero convinti che sia conveniente avere un P.M. più “libero”? Anche qui ricorro sprezzantemente al plagio per citare quanto ha scritto di recente Luigi Gatta, che non potrei mai sperare di dir meglio:
Siamo sicuri che, per una eterogenesi dei fini, il CSM requirente non consolidi invece, nel medio lungo periodo, una corporazione di pubblici ministeri, che esercita, nel processo e fuori da esso, poteri ben più forti di quelli che una parte privata come l’avvocato, inevitabilmente, ha nel nostro come in altri sistemi, pure accusatori? [6]
Il riferimento di Gatta ad altri sistemi mi fa pensare subito agli Stati Uniti, dove il plea bargaining costituisce lo strumento principe dell’amministrazione della giustizia penale (con percentuali del 98% dei casi) giusto grazie allo strapotere della pubblica accusa (che là si può correttamente definire così), che va a braccetto con la non obbligatorietà dell’azione penale [7]. Non vorrei fare quella fine lì [8].
E se invece andassimo a trovare altrove qualche diverso motivo dell’inefficienza del sistema giustizia italiano? Che dire delle risorse destinate alla giustizia? Ci son forse già troppi magistrati? E qui anch’essi hanno le loro responsabilità, quando qualcuno di loro ci viene a dire che in realtà siamo in perfetta media europea; sarà anche vero, ci saranno allora troppi avvocati che vogliono fare troppe cause? Però francamente… E il personale amministrativo? Com’è noto e ormai proverbiale, da noi le riforme si fanno solo a costo zero, ed infatti non finiscono mai, come gli esami di Eduardo. Allora, ancora con Gatta, una modesta proposta potrebbe essere quella di rivalutare piuttosto il ruolo del difensore: “siamo proprio sicuri che la parità delle armi tra accusa e difesa dipenda dalla separazione delle carriere e da un rafforzamento della figura del pubblico ministero e non, in ipotesi, da un rafforzamento del ruolo e della figura del difensore, magari con una unificazione delle carriere e della formazione, come avviene in altri sistemi?”.
Trovo che questo della formazione comune sia un nodo essenziale, e penso per esempio al reclutamento dei magistrati in Gran Bretagna, Germania e Francia [9], il che mi pare giustificare almeno parzialmente anche la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo (esistente sia in Germania che in Francia ed altri paesi europei, ma non esente da critiche). C’è da dire che ora anche in Italia a questo profilo sembra farsi più attenzione, più per merito delle due categorie che del legislatore, anche se di recente un chiaro invito si legge nel D.M.110/2023 sulla redazione degli atti giudiziari, dove all’art.9 , c.3, si legge che il Ministero della giustizia in collaborazione con la Scuola superiore dell’avvocatura non solo favorisce le iniziative formative sui criteri e le modalità di redazione degli atti giudiziari adottate nell'ambito della formazione obbligatoria dell'avvocatura, ma in particolare “sostiene, in materia, le iniziative formative comuni alla magistratura e all'avvocatura, anche con il coinvolgimento di linguisti”.
E noi giuristi pratici, se dobbiamo collaborare, se vogliamo collaborare, da un lato ci sarebbe da ripensare un po’ più seriamente sul posto che tocca agli avvocati nei Consigli Giudiziari, e dall’altro riflettere ancora sul tema della responsabilità disciplinare (e civile) dei magistrati, delicatissimo e a diretto contatto con quello dell’indipendenza [10].
La separazione delle carriere è peraltro solo uno dei temi della complessiva opera di riforma della giustizia. Il “movimento” che si registra in parecchi Paesi verso forme di governo che restano formalmente democratiche ma più autoritarie (in Europa pensiamo subito all’Ungheria, alla Polonia del PIS; per gli USA è strano vedere chi si meraviglia delle iniziative di Trump: non aveva letto il suo programma, probabilmente [11]) mi induce ad una considerazione che in realtà non dovrebbe sorprendermi: che cioè sono i giudici l’ultimo argine contro queste derive, e che sotto questo profilo è interesse proprio dell’avvocatura salvaguardarne l’indipendenza, per il semplice fatto che è interesse del Paese. Ogni cautela su un radioso avvenire è quindi legittima, e il rischio di inerpicarsi sulle Cime abissali di Zinov’ev più presente [12].
I dubbi aumentano quando si accenna a prossimi passi in direzione della sottrazione alle Procure del potere di direzione della polizia giudiziaria [13]. E due.
E in questi giorni si sono scatenate le critiche all’ordinanza n.5992/2025 delle S.U. civili [14] che ha reso l’apparentemente incredibile affermazione che “Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale ─ non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale” (e pensare che nella mia ingenuità tutto ciò mi pareva scontato…), critiche talmente forti da determinare la reazione della Prima Presidente. E tre.
In conclusione, non voglio ricordare – lo fanno in troppi – l’abusato detto di Agatha Christie[15], preferendo citare il James Bond di Goldfinger: “Once is happenstance. Twice is coincidence. Three times is enemy action”: ma mi si scuserà se in questo modo dovessi apparire troppo diretto.
[1] In Il Domani d’Italia, 1.6.1975: si legge nella raccolta di articoli di Santarelli Un professore innamorato de giornalismo, Edizioni Toscana Oggi, Firenze, 2024, p.54 ss. Tra i numerosi interventi è una perla rara, anch’essa purtroppo attualissima, “Eia, eia, alalà” da Avvenire del 5.3.1970, ibidem p.405.
[2] Come Tullio Padovani e Mario Chiavario.
[3] Da notizie di stampa – Il Fatto Quotidiano del 28.2.2025 – anche Guido Alpa avrebbe espresso perplessità. Il suo ricordo non ci abbandonerà: la sua presa di posizione sul tema sarebbe allora l’ultimo avviso che ci ha lasciato. Di G.Iannaccone,su questa Rivista, In difesa della funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri.
[4] https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01443762.pdf . Di Franco Coppi l’intervista a La Stampa del 30.5.2024, https://www.lastampa.it/politica/2024/05/30/news/franco_coppi_riforma_ideologica_errori_giudiziari-14345823/ Comunque pessimistiche le considerazioni di Cataldo Intrieri - http://www.libertaeguale.it/la-riforma-della-giustizia-e-lo-specchio-per-le-allodole/ - che cita Paolo Ferrua “Il circolo vizioso: dal processo accusatorio senza la separazione delle carriere alla separazione delle carriere senza il processo accusatorio. Aperta la discussione su quale sia peggio”…
[5] Ma che termini terribili usiamo, noi giuristi?
[6] L.Gatta, Separazione delle carriere e riforma costituzionale della magistratura: 20 domande per un confronto e un dibattito aperto, https://www.sistemapenale.it/it/editoriale/separazione-delle-carriere-e-riforma-costituzionale-della-magistratura-20-domande-per-un-confronto-e-un-dibattito-aperto .
[7] Per una semplice verifica in rete cfr. un articolo un poco datato (ma dopo le cose sono andate ancora peggio…) come quello di E.Viano, Plea Bargaining in the United States: a Perversion of Justice, in Revue Internationale de droit penal, 2012/1 Vol.83, p.109-145, https://droit.cairn.info/journal-revue-internationale-de-droit-penal-2012-1-page-109?lang=en&tab=texte-integral .
[8] “The US has 5% of the world’s population but 25% of the world’s prison population • 44% of Americans have a criminal record • 1 in 12 Americans, including 1 in 3 black men, have a felony conviction”: dal sito Fair Trials.org.
[9] Per una elementare introduzione v. il sito della IAC – Judicial Appointments Commission https://judicialappointments.gov.uk/ ( per England and Wales), mentre in Germania è fondamentale il concetto di “giurista unitario” v. A. Keilmann, The Einheitsjurist: A German Phenomenon , German Law Journal , Volume 7 , Issue 3 , 01 March 2006 , p. 293 – 312. Per Francia, Germania, Spagna utile il Dossier di cui alla Nota 4.
[10] Utilissima la lettura della Opinion n.27 del CCJE “on the disciplinary liability of judges” , https://rm.coe.int/opinion-no-27-2024-of-the-ccje/1680b2ca7f .
[11] Masha Gessen, che di autoritarismi se ne intende (è ben nota esperta della Russia di Putin) scriveva nel 2016 - dopo la prima elezione di Trump – alcune regole per sopravvivere alle autocrazie; la prima è “Credete all’autocrate” (The New York Review of Books, 10.11.2016). V. l’appello dell’ABA-American Bar Association del 3.3.2025 The ABA rejects efforts to undermine the courts and the legal profession, https://www.americanbar.org/news/abanews/aba-news-archives/2025/03/aba-rejects-efforts-to-undermine-courts-and-legal-profession/ . Tutti i siti citati sono stati consultati il 9 marzo 2025.
[12] “Non può andare peggio di così, disse il pessimista. Ma si che può, rispose l’ottimista”, A.Zinov’ev, Cime abissali, Adelphi, Milano, 1979.
[13] Il Foglio del 2.12.204, intervista di C.Cerasa al ministro Nordio.
[14] È il noto caso del migrante la cui libertà personale era stata illegittimamente ristretta sulla nave Diciotti.
[15] “Una coincidenza è solo una coincidenza, due coincidenze sono un indizio, tre coincidenze sono una prova" dice Poirot.
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