ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il referendum abrogativo del D. Lgs. 4 marzo 2025, n. 23 sui licenziamenti nell’ambito del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (c.d. Jobs Act)
V. A. Poso. Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data12 aprile dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024).Il primo, sinteticamente denominato dai promotori “Reintegro-Licenziamenti” ha ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?». Il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro tutelato”, è inteso, in estrema sintesi, ad ottenere la “reintegrazione” nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo con l’abrogazione totale del c.d. Jobs Act (d. lgs. n. 23/2015) in materia di licenziamenti, che si applica ai lavoratori (non tutti) assunti dopo il 7 marzo 2015. Dico in estrema sintesi perché anche il Jobs Act prevede, in alcuni casi e a determinate condizioni, la tutela reintegratoria piena, come quella statutaria dell’art. 18; e disciplina anche altri istituti, sempre connessi alla materia dei licenziamenti.
Chiedo, in particolar modo, ai giuslavoristi in cosa consiste la disciplina normativa oggetto di referendum. Innanzi tutto, un quadro sintetico dei soggetti ai quali si applica, spiegando, anche, le ragioni di politica del diritto poste a fondamento di questa riforma, che, a torto o a ragione, è stata definita “epocale”, considerata la resistenza, per oltre quarant’anni, della tutela, reale e piena, approntata dallo statuto dei lavoratori con l’art. 18, nonostante le modifiche introdotte dalla l. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Riforma Fornero).
M. T. Carinci. Con il cd. Jobs Act il Governo dell’epoca - Presidente del Consiglio on. Matteo Renzi - ha modificato profondamente le tutele previste per il licenziamento individuale per i dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015, superando in modo inequivocabile la centralità della tutela reale riconosciuta - a partire dall’entrata in vigore dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 - come cardine del sistema rimediale per il licenziamento contra legem (nullo, ingiustificato o viziato dal punto di vista procedurale) da parte di datori di lavoro di dimensioni medio-grandi.
È vero che la cd. Legge Fornero del 2012, nel modificare l’art. 18 St.lav., aveva già inciso su quel principio, introducendo diverse ipotesi in cui il rimedio previsto è solo indennitario. Tuttavia, nella lettura poi fornitane dalla giurisprudenza - ed in coerenza con i principi insiti nel sistema - la tutela reale nell’art. 18 St.lav. post l. Fornero aveva continuato a rimanere centrale. Viceversa, nelle realtà di più piccole dimensioni fin dall’entrata in vigore della l. 604/1966, salvo il caso del licenziamento nullo, la tutela prevista per il licenziamento viziato è sempre stata ed è poi sempre rimasta solo di tipo economico.
Il Jobs Act, dunque, da una parte - opportunamente - riunifica in un unico testo normativo la disciplina del licenziamento individuale nel suo complesso, quale che siano le dimensioni occupazionali del datore di lavoro, superando così la separazione tra le discipline basata sul requisito dimensionale, dall’altra - con una scelta a mio parere discutibile e come subito dirò non idonea agli scopi che si prefiggeva - capovolge la prospettiva statutaria per i lavoratori assunti da datori medio-grandi dopo il 7 marzo 2015: la tutela riconosciuta dalla legge per il licenziamento individuale privo di giustificazione o affetto da vizi formali o procedurali è per tutti i lavoratori, anche se dipendenti da datori di lavoro con un maggior numero di occupati, una tutela esclusivamente economica e per di più molto contenuta.
Nel nuovo sistema, dunque, la reintegrazione diviene inequivocabilmente marginale, trovando applicazione solo nei casi più gravi in cui il licenziamento viene ritenuto (maggiormente) lesivo della dignità della persona del lavoratore: il licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale.
Perché dunque il legislatore del Jobs Act compie questa scelta “epocale”?
Due erano gli obiettivi dichiarati (come si evince dall’art. 1, co. 7, l. delega 183/2014): in primo luogo “fluidificare” il mercato del lavoro, rendendo meno costoso il turn over fra i lavoratori occupati e quelli in cerca di occupazione; in secondo luogo, ridurre la “segmentazione” (realizzatasi in particolare in conseguenza della “riforma Biagi”, D. Lgs. 276/2003) fra i lavoratori più tutelati assunti con il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e quelli meno tutelati, soprattutto giovani, assunti, di regola, con una miriade di contratti atipici e flessibili. Quegli obiettivi vengono perseguiti nella sostanza abbassando le tutele - ed i costi - del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato soprattutto con riguardo al licenziamento (ma non solo: si pensi alla rivisitazione in senso “flessibilizzante” della disciplina dello ius variandi o dell’ampliamento del potere di controllo a distanza del datore di lavoro), e, al contempo, trasferendo parte dei costi connessi alla ricerca di un posto di lavoro sulla fiscalità generale (tramite il rafforzamento dei servizi per l’impiego, la previsione di un contratto di ricollocazione, ecc.).
Sullo sfondo della riforma aleggiava tuttavia un’ulteriore idea e cioè che l’abbassamento dei costi connessi al licenziamento potesse avere anche riflessi positivi sull’occupazione nel suo complesso, inducendo i datori di lavoro ad assumere di più, e potesse in definitiva stimolare, in uno con l’accresciuto potere di fatto del datore nell’ambito del rapporto, la produttività del lavoratore.
I fatti però hanno dimostrato che l’obiettivo occupazionale non poteva essere perseguito con quegli strumenti: le regole giuslavoristiche di per sé non possono certo creare nuova occupazione; per raggiungere un tale risultato servono infatti strumenti di politica economica.
D’altra parte, la produttività del lavoro dipende innanzitutto dal tipo di produzioni e servizi, a più o meno alto valore aggiunto, che caratterizzano un certo sistema economico, nonché dal tipo di professionalità posseduta dai lavoratori che operano in tali settori, da formare ed aggiornare costantemente con investimenti specifici da parte delle imprese. Insomma, neppure la produttività del lavoro è promossa o favorita dall’abbassamento delle tutele per il licenziamento, ma richiede di essere sostenuta con altri strumenti volti a stimolare investimenti sulla formazione del lavoratore ed a fidelizzarlo.
Il Jobs Act, dunque, non ha raggiunto gli obiettivi che dichiarava di perseguire, né poteva raggiungerli.
Al contrario, esso ha determinato una ulteriore segmentazione del mercato del lavoro (fra lavoratori più protetti, i “vecchi assunti” fino al 7 marzo 2015, e quelli meno protetti, i “nuovi assunti”) finendo per promuovere un modello di impiego il cui “cuore” non è la valorizzazione di chi lavora ma, piuttosto, una più spinta “precarizzazione” e soggezione ai poteri (di diritto e di fatto) del datore di lavoro.
In effetti parte della dottrina ha fin da subito rimarcato - a mio parere a ragione - che la riforma violasse il principio di uguaglianza posto dall’art. 3 Cost., poiché nessuna ragionevole giustificazione sorreggerebbe la scelta del legislatore di tutelare in modo più blando - a fronte dei medesimi vizi dell’atto di recesso - i lavoratori assunti, anche nella stessa azienda, prima o dopo una certa data. Com’è noto, però, C. Cost. 194/2018, ha respinto la questione di incostituzionalità dell’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015 (nel testo sia antecedente che successivo al d.l. cd. 87/2019, cd. “Decreto Dignità”) per violazione del principio di uguaglianza (una posizione analoga sarà poi assunta da C. Cost. 7/2024 con riferimento alla disparità di tutela in punto di violazione dei criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi fra lavoratori assunti fino o dopo il 7 marzo 2015).
La Corte costituzionale, pur dando atto che la tutela per il licenziamento ingiustificato posta dal D. Lgs. 23/2015 è deteriore rispetto a quella posta dall’art. 18 St.lav., ha ritenuto infatti che il criterio temporale prescelto dalla legge per l’applicazione delle tutele (la data di assunzione del lavoratore) trovi ragionevole giustificazione nello «scopo, dichiaratamente perseguito dal legislatore, di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (così C. Cost. 194/2018, punto 6), scopo che viene coerentemente perseguito favorendo coloro che a partire da una certa data possano effettivamente aspirare all’assunzione a tempo indeterminato.
Nonostante la presa di posizione della Corte - in qualche modo necessitata, a meno di non voler giungere alla demolizione dell’intera riforma - sul punto il dibattito non si è sopito, ed a ragione. La Consulta si è infatti limitata a valutare l’astratta corrispondenza fra lo scopo dichiarato dalla legge e la fissazione dello spartiacque temporale senza valutare però, da una parte, se lo scopo astrattamente perseguito sia stato poi raggiunto in concreto in modo ragionevole e, dunque, con strumenti adeguati (conclusione del tutto discutibile come ho già sottolineato) e, dall’altra - soprattutto -, senza considerare in alcun modo il vero nocciolo della questione e, cioè, se le disparità di trattamento sul piano sostanziale fra lavoratori assunti fino o dopo il 7 marzo 2015 - anche se tutti dipendenti da uno stesso datore di lavoro e dunque oggettivamente equiparabili - possa trovare esaustiva ed adeguata giustificazione in una astratta finalità di promozione dell’occupazione prescindendo da altri aspetti cruciali in gioco. In particolare, la questione che rimane ancora da sciogliere è se la tutela della persona del lavoratore, esposta al potere di diritto e di fatto del datore di lavoro nell’ambito di una medesima organizzazione, possa essere ragionevolmente differenziata dalla legge senza considerare la dimensione imprescindibile di potere propria dell’atto di licenziamento.
Alla luce di tutto ciò ritengo che il referendum promosso dalla CGIL per l’abrogazione del Jobs Act, ove accolto, possa determinare effetti positivi per il sistema nel suo complesso: la congiuntura economica, sociale e geopolitica che stiamo vivendo richiede, infatti, una forte coesione sociale e, dunque, una particolare attenzione a quella componente essenziale della nostra società costituita dai lavoratori subordinati.
Rafforzare le tutele del licenziamento - snodo cruciale per l’effettivo godimento di tutti i diritti di cui il lavoratore è titolare nel corso del rapporto - è a mio parere un segnale importante in questo momento storico per riaffermare la centralità della persona che lavora quale parte integrante e determinante del sistema economico-sociale del Paese.
B. Caruso. La collega Maria Teresa Carinci ha ben sintetizzato i presupposti di politica del diritto che hanno indotto la CGIL a indire un referendum popolare di abrogazione della parte relativa ai licenziamenti del Jobs Act. Va, però, ricordato che il Jobs Act costituisce un complesso di interventi ad ampio spettro (contratti flessibili, regolazione del mercato del lavoro, controlli a distanza ecc.) che hanno introdotto riforme, ancora vigenti, che non hanno riguardato soltanto il licenziamento, molte delle quali neppure i governi di segno politico diverso dal famigerato “governo Renzi” hanno mai provato ad abrogare.
Si può contestare, nei presupposti di policy e negli effetti, quella stagione legislativa, ma non si può negare il fatto che, soprattutto se si confronta con il piccolo cabotaggio delle politiche del lavoro attuali, il Jobs Act fu un tentativo organico di riforma della legislazione del lavoro, in parte riuscito in parte no, ma che ridurre a un tentativo di liberalizzazione del mercato del lavoro di stampo neoliberista appare un po’ riduttivo.
Come pure va ricordato che molti economisti che parteciparono alla stesura di quelle norme - non certamente di scuola neoliberista o neoclassica (per esempio M. Leonardi e T. Nannicini) - segnalano che il Jobs Act non ha prodotto l’ondata di licenziamenti che i giuristi apocalittici avevano pronosticato.
A dirla tutta, poi, i problemi che oggi affrontano le imprese, ma persino le pubbliche amministrazioni - anche in ragione di complesse ragioni strutturali di tipo economico, demografico e tecnologico - sono esattamente agli antipodi della maggiore o minore libertà di licenziare, e si concentrano sul versante dell’offerta di lavoro. È acclarata, infatti, statisticamente la situazione di grave carenza di forza lavoro che gli uffici di recruitment delle imprese devono gestire, sia relativamente alle professionalità ricercate e adeguate al mutamento tecnologico, sia in termini assoluti in ragione della riduzione progressiva, per la notte demografica che il sistema Italia sta attraversando ormai da anni, di persone disponibili ad essere assunte; e tale gap, come gli statistici e i demografi ci dicono, viene solo in parte colmato dagli immigrati. È questo il vero problema del mercato del lavoro e delle imprese, oggi.
A fronte di questa dura e concreta realtà non voglio dire che il referendum abrogativo del Job Act costituisca una “arma di distrazione di massa”, ma certamente se ne evidenziano le valenze politiche e simboliche piuttosto che i concreti effetti giuridici. Anche la formulazione del quesito molto semplificato rispetto al precedente sempre sui licenziamenti, ha una funzione suggestiva e quasi pedagogica rispetto all’elettorato.
Al contrario di altri referendum complessi e inintelligibili anche agli addetti ai lavori, e quindi di fatto “elitari”, il referendum sul Jobs Act, nella sua eccessiva semplificazione, più che un referendum popolare politicamente sembra essere un referendum populista (il populismo secondo note analisi politologiche non è solo di destra ma anche di sinistra).
Del resto, un grande sociologo del lavoro scomparso, come Aris Accornero, definiva la reintegrazione e l’art. 18 dello Statuto una sorta di tabù (A. Accornero, A. Orioli (con la collaborazione di), L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, Laterza, 1999) sottolineandole le valenze ideologiche che, dopo la oceanica manifestazione di Roma del 23 marzo 2002 all’insegna del “giù le mani dall’art. 18”, si erano fortemente esaltate. La verità è che, dopo gli interventi ripetuti della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, pensare di abrogare il Jobs Act, come risposta ai problemi (enormi) del lavoro oggi, alcuni dei quali come quello che ho prima segnalato agli antipodi della libertà o meno di licenziare, equivale (gli animalisti mi passino la metafora) a un cacciatore miope che, in una battuta di caccia grossa, scambiasse un placido gattone con una tigre (probabilmente anche di carta).
Con questo non voglio dire che l’attuale quadro normativo sul sistema di sanzioni contro il licenziamento illegittimo non necessiti di una semplificazione e di una razionalizzazione normativa, anche per dare maggiore certezza agli operatori economici e agli stessi lavoratori (con i colleghi del “Gruppo Freccia Rossa” stiamo lavorando su questo); ma penso che tale compito debba essere, in un sistema normale, affidato al legislatore (già chiamato direttamente a intervenire dalla Consulta quanto meno sulla questione delle regime sanzionatorio nelle piccole imprese) e non ai giudici o al corpo elettorale; in una democrazia rappresentativa che funzioni, tale compito spetta agli organi di governo e al parlamento.
Oltretutto mi chiedo, e molti osservatori si sono concentrati su questo, se portare indietro le lancette alla legge “Fornero” (per altro non all’art. 18 dello Statuto come un cultore “duro e puro” della reintegrazione, come il segretario della CGIL Maurizio Landini, avrebbe dovuto pretendere), senza ulteriori aggiustamenti, sia davvero una mossa conveniente; e ciò anche in ragione del fatto che il Jobs Act è in alcuni passaggi (per esempio per il regime indennitario forte o, come ricorda la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 12/2025 sulla ammissibilità dei quesiti referendari al punto 4.5,) più favorevole ai lavoratori in materia di licenziamento per mancato superamento del comporto, per disabilità e nelle organizzazioni di tendenza, e posto pure che la differenza regolativa in ragione dell’entrata in vigore sta progressivamente attenuandosi, proprio per il trascorrere del tempo (si calcola che la legge Fornero si applichi ormai a una quota residuale di lavoratori).
Il dibattito, dunque, come sottolinea Maria Teresa, non si è sopito. Ma rispetto ai reali problemi in gioco esso è in parte artefatto, in parte ridondante, in parte troppo acceso nei toni se si guarda ai possibili effetti di natura tecnica, invero secondari soprattutto se riferiti a un quadro normativo già ampiamente rimaneggiato dai giudici. L’indizione del referendum è una legittima opzione politico-costituzionale, ma in tal caso, abbastanza irrilevante quanto ai mutamenti regolativi sostanziali che potrebbe produrre se il corpo elettorale si dovesse pronunciare positivamente; si configura invece come una scommessa politica, o un azzardo, dell’attuale gruppo dirigente della CGIL che soltanto l’esito dirà se fondata o meno.
Se volessi sintetizzare con riguardo agli effetti regolativi, direi con Shakespeare, Much ado about nothing.
M.T. Carinci. Vorrei replicare brevemente ad alcune delle osservazioni appena avanzate da Bruno Caruso, circa l’inutilità del referendum sulla scorta della duplice considerazione che altri sono i problemi del diritto del lavoro di oggi e che il risultato concreto che ne conseguirebbe dopo il riassetto della disciplina già compiuto dalle Corti sarebbe modesto, se non addirittura controproducente per i lavoratori.
Credo innanzitutto che non si possa imputare al referendum - la cui portata può essere solo abrogativa – di non rispondere agli “enormi problemi” del lavoro di oggi. Di ciò dovrebbe infatti farsi carico il legislatore, che invece non ha neppure iniziato a mettere mano al riordino della disciplina dei licenziamenti, nonostante le esplicite sollecitazioni della Corte costituzionale, in particolare per quanto riguarda le piccole imprese. Allo strumento referendario, dunque, non si può certo imputare di non fare ciò che non può fare!
Ben venga a mio parere invece una presa di posizione popolare su una questione cruciale come la disciplina del licenziamento che cerchi di rimettere al centro dell’agenda politica i problemi del lavoro.
In secondo luogo, penso che l’abrogazione del Jobs Act considerato nel suo complesso - con la conseguente riespansione dell’art. 18 post legge Fornero e della l. 604/1966 - comporti due risultati molto positivi: la riunificazione delle tutele senza distinzioni in conseguenza della data di assunzione ed un effettivo rafforzamento delle tutele per i lavoratori. È vero, come illustrerò meglio in seguito (in particolare v. risposta alla domanda 8), che per alcuni aspetti la tutela arretrerebbe, ma nel suo insieme essa risulta rafforzata specie con riguardo al licenziamento ingiustificato che costituisce l’ipotesi più frequente di illegittimità, con benefici effetti di sistema sull’effettività di tutti diritti riconosciuti al lavoratore nel corso del rapporto di lavoro. È infatti ben noto che la tutela del licenziamento costituisce la chiave di volta per assicurare l’effettivo esercizio da parte del lavoratore di tutti i diritti propri del rapporto di lavoro.
V. A. Poso. Nel testo originario della riforma come era configurato il sistema delle tutele?
M. T. Carinci. Come anticipato, nel sistema del Jobs Act, superando le ambiguità della legge Fornero, la tutela indennitaria diviene la regola e la tutela reintegratoria l’eccezione.
La prima, dunque, avrebbe dovuto trovare generale applicazione, salvi i casi in cui la legge non avesse espressamente disposto l’applicazione della tutela reale, nella versione “forte” (prevista per il licenziamento nullo: discriminatorio; “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”; privo di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore; e - in virtù di una condivisibile lettura - irrogato in caso di mancato superamento del periodo di comporto) o “attenuata” (prevista nel solo caso del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo soggettivo in cui “fosse direttamente dimostrato in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”).
Ogni altra ipotesi, incluse tutte quelle di licenziamento ingiustificato non eccettuate o del licenziamento “con violazione del requisito di motivazione” o della procedura prevista dall’art. 7 St.lav. ricadevano nell’alveo della tutela puramente economica.
Quanto a quest’ultima, divenuta appunto di generale applicazione, nella versione originaria del Jobs Act risultava assai ridotta per l’operare congiunto delle modalità di calcolo rigidamente fissate dalla legge, che ne determinavano la crescita automatica in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore, e della fissazione di importi minimi e massimi assai contenuti. L’esiguità dell’indennità risarcitoria risultante dall’applicazione di tali parametri ne faceva per questo, in molti casi, uno strumento inadeguato sia sul piano deterrente-sanzionatorio - per scoraggiare il datore dal commettere l’illecito e poi punirlo - che risarcitorio - per ristorare adeguatamente il lavoratore per il danno subito.
È noto come la Corte costituzionale abbia poi inciso in modo significativo su questo quadro, sia rivisitando le modalità di calcolo della indennità, sia ampliando - a mio parere del tutto condivisibilmente - i confini della tutela reale. Il Jobs Act, infatti, nella sua versione originaria, nel tentativo di rendere centrale la tutela indennitaria, violava per molti aspetti vincoli di sistema.
È bene ricordare comunque come la Corte in molte occasioni abbia ribadito al contempo che la tutela reale non è di per sé costituzionalizzata e, dunque, che la scelta fra tutela reale ed indennitaria è rimessa alla discrezionalità del legislatore (v. fra le tante C. Cost. 46/2000; C. Cost. 194/2018; C. Cost. 59/2020; C. Cost. 128 e 129/2024), purché però la tutela prescelta sia “adeguata” e “sufficientemente dissuasiva” (C. Cost. 128 e 129/2024), avendo riguardo alla singola forma di tutela in sé considerata (C. Cost. 194/2018 e 150/2020), e purché la graduazione delle tutele sia ragionevole in rapporto alle varie tipologie di vizi, tanto all’interno dello stesso disposto normativo (C. Cost. 59/2021 e 125/2022), quanto a fronte della disciplina dei licenziamenti nel suo complesso (C. Cost. 7/2024). A queste condizioni, dunque, la tutela indennitaria può essere scelta come “tutela regolare” dalla legge.
Se questo ha sempre costituito lo sfondo del ragionamento della Consulta, sono però proprio le scelte concretamente compiute dal Jobs Act nell’articolare la linea di distinzione fra tutela reale ed obbligatoria e nello strutturare quest’ultima a risultare in contrasto con principi cardine del nostro sistema costituzionale. Rimandando alle prossime risposte a questa intervista un più articolato richiamo alle pronunce della Corte costituzionale, si vuole qui sottolineare - a titolo di esempio delle enormi contraddizioni ed aporie insite del Jobs Act- l’insostenibilità sistematica della distinzione tracciata in punto di tutele fra licenziamento ingiustificato perché privo della ragione soggettiva - che avrebbe dato luogo in caso di insussistenza del “fatto” alla reintegrazione - e licenziamento privo della ragione oggettiva di tipo economico - che avrebbe dato luogo in caso di insussistenza del “fatto” solo alla tutela indennitaria (sul punto C. Cost. 128/2024). Come è infatti possibile a fronte di un licenziamento comunque privo di giustificazione (e dunque in ogni caso “acausale”) differenziare la sanzione in dipendenza unicamente della giustificazione formalmente addotta dal datore ma, in concreto, insussistente? Ciò non comporta rimettere al datore stesso la scelta della sanzione da applicare e, dunque, in ultima analisi svilire il principio di necessaria giustificazione del licenziamento?
È dunque proprio per la non linearità e coerenza delle scelte concretamente compiute che il Jobs Act è rimasto esposto agli “strali” della giurisprudenza ed alle pronunce della Corte costituzionale.
B. Caruso. Approfitto ancora della funzione civetta della risposta di Maria Teresa e mi aggancio alla sua per riflessioni ulteriori sulla domanda.
Il quadro sistemico delineato da entrambe le riforme della disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo si è assestato su un punto di non ritorno, come ho detto prima ormai accettato anche dai più radicali sostenitori della cultura della reintegrazione: dalla opzione statutaria del rimedio unico (l’antico art. 18), al sistema plurale: a “ogni licenziamento la sua sanzione”.
La dialettica tra indennizzo e reintegrazione, che il Jobs Act ha innescato in maniera più radicale della riforma Fornero, non ha dunque riguardato il criterio della disseminazione delle sanzioni in ragione della diversa fattispecie espulsiva; bensì la calibratura e la ponderazione tra i due rimedi; detto altrimenti, il reciproco rapporto di regola ed eccezione.
Se nel regime “Fornero” non era del tutto chiaro quale fosse la regola e quale l’eccezione, individuandosi per alcuni un sostanziale e armonico equilibrio tra i due rimedi (Riccardo Del Punta); per altri (Arturo Maresca) - e per una certa fase almeno anche per la Suprema Corte - l’indennizzo come regola e la reintegra come eccezione, proprio tale incertezza (anche in ragione delle prime interpretazioni “correttive” della giurisprudenza di merito), indusse il legislatore del Jobs Act a rompere l’equilibrio e a delineare, con maggiore nettezza, un regime di prevalenza dell’indennizzo sulla reintegrazione.
Quel che è avvenuto dopo è noto: la Cassazione stessa e soprattutto la Corte costituzionale hanno giocato non semplicemente di cacciavite ma anche di pialla, e l’equilibrio perduto con il Jobs Act - tra ipotesi di reintegra e di indennizzo - è stato in larga misura ripristinato, se non addirittura capovolto a favore della reintegra, al punto, ma questo è un altro discorso, che appare dubbio che possa ancora considerarsi attuale l’indirizzo della Corte di cassazione sulla prescrizione che considera la data cessazione del rapporto di lavoro come termine a quo della prescrizione sul presupposto che sarebbe venuto meno, per le riforme attuate, la tutela reale in via generalizzata e quindi il regime di stabilità.
Persino la summa divisio - che era l’imprinting del Jobs Act - tra licenziamenti disciplinari, ove poteva operare una ipotesi, ancorché residuale, di reintegra attenuata (l’insussistenza del fatto contestato) e tutta l’area dei licenziamenti economici (per giustificato motivo oggettivo e collettivi), assistiti soltanto dal rimedio indennitario ancorché forte (36 mensilità come tetto massimo), è stata messa in discussione dalla Corte Costituzionale (con la sentenza n. 128/2024, che ha reintrodotto la reintegra anche nella ipotesi acclarata di insussistenza del giustificato motivo oggettivo).
Certamente, ed è un dato da non trascurare, rimane indiscussa, anche per l’avallo della Corte costituzionale (sent. n. 7/2024), la scelta del Jobs Act di collocare l’intera disciplina dei licenziamenti collettivi nell’alveo della tutela indennitaria (ricordo che la legge Fornero prevedeva la reintegrazione nella ipotesi di violazione dei criteri di scelta). Onde sui licenziamenti collettivi l’eventuale abrogazione del Jobs Act avrebbe certamente un effetto ripristinatorio della reintegra almeno per l’ipotesi di violazione dei criteri di scelta.
Allo stato attuale, dopo l’ampio rimestio ortopedico, quale sia la regola e quale l’eccezione tra i due rimedi è davvero difficile da discernere.
Il quadro regolativo è ormai divenuto altamente frastagliato e complesso; esso è costituito da regole incerte, orientamenti giurisprudenziali antitetici e sentenze ortopediche dei giudici costituzionali che, a loro volta, potrebbero dare la stura a possibili orientamenti di merito difformi: si pensi ai problemi interpretativi che apre la sentenza n. 129/2024 con riguardo alla lettura delle clausole contrattuali sulle fattispecie disciplinari “aperte” ovvero dettagliate e precise nei contorni.
Risulta pertanto urgente un intervento razionalizzatore del legislatore, tecnicamente attrezzato, e non certo del corpo elettorale attraverso lo strumento referendario, inadeguato alla bisogna per la sua natura binaria: si/no.
Una dimostrazione in vitro, di quanto sostenuto, deriva proprio dall’osservazione di un effetto distorsivo e rifrangente di cui neppure i promotori si avvedono, e non potevano evidenziarlo anche in ragione dei limiti intrinseci dello strumento referendario. Una delle norme del Jobs Act lesiva dei diritti dei lavoratori ingiustamente licenziati e reintegrati - che riproduce tale e quale la norma della Fornero, per cui l’esito referendario non potrà comunque incidere - è quella che pone a loro carico l’alea della durata del processo; ciò al contrario dell’articolo 18 originario che la poneva, altrettanto ingiustamente, per intero a carico dei datori di lavoro: la norma che, nel caso di reintegra attenuata, pone il limite delle 12 mensilità come risarcimento massimo a favore del lavoratore reintegrato. Orbene, già con il rito Fornero, ma a maggior ragione dopo la sua abrogazione, è fatto notorio che una sentenza di reintegra interviene normalmente ben oltre 12 mesi dal licenziamento, persino in primo grado. Onde il rischio della lunghezza del processo è, oggi, a carico del lavoratore, per esperienza risultando un pallido surrogato del rito Fornero la norma processuale di accelerazione delle controversie in materia di licenziamento con richiesta di reintegrazione: art. 441bis cpc. Ciò perché in qualunque momento dovesse avvenire la reintegrazione, il datore di lavoro ha la certezza di un tetto di risarcimento (12 mensilità), mentre il lavoratore ingiustamente licenziato con reintegra attenuata, perderà, per probabilità statistica, una parte delle retribuzioni che sarebbero maturate senza il licenziamento.
Pare evidente che - senza necessariamente ripristinare un automatismo eguale e contrario e in assenza di dispositivi processuali finalizzati ad accelerare realmente la durata dei processi di licenziamento, come quello che, con tutte le aporie tecniche rilevate, era comunque costituito dal rito Fornero - si presenti l’esigenza di una riforma della disciplina che consenta almeno al giudice, discrezionalmente, di elevare la misura della indennità risarcitoria oltre le 12 mensilità magari sino a un tetto massimo in caso di reintegra “attenuata”, tenendo conto dei tempi del processo. In alternativa, riterrei più opportuno agire sul processo, abbreviandone i tempi strutturalmente: il rito Fornero andava migliorato ed emendato da alcune irrazionalità processuali, ma non semplicemente abrogato, come improvvidamente avvenuto.
M. T. Carinci. Vorrei aggiungere solo qualche parola circa l’osservazione - giustamente avanzata da Bruno - per cui anche nel nuovo sistema che si dovesse realizzare dopo il positivo esito referendario l’alea del processo tornerebbe a danno del lavoratore dal momento che l’art. 18 St.lav. oggi vigente pone il tetto di 12 mensilità al risarcimento che accompagna la reintegrazione “attenuata”.
Ricordo un suo articolo di diversi anni fa in cui si interrogava su quali modifiche fossero opportune a fronte dell’originario testo dell’art. 18 St.lav. (v. B. Caruso, Per un ragionevole, e apparentemente paradossale, compromesso sull’art. 18: riformarlo senza cambiarlo, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 140/2012). In quel contributo Bruno affermava che uno degli interventi cardine che avrebbe potuto evitare lo “smantellamento” dell’art. 18 St.lav. era da individuare nella previsione di meccanismi processuali che permettessero una definizione molto rapida delle cause in materia di licenziamento. Già allora avevo ritenuto assolutamente da condividere la sua posizione; quella soluzione avrebbe potuto evitare di imboccare la strada impervia dello “sfrangiamento” delle tutele, poi invece seguita in sede di riforme.
Concordo inoltre con lui sul fatto che per evitare l’esito di un risarcimento “inadeguato” sarebbe oltremodo opportuno che la legge demandasse al giudice il potere di calibrare l’indennità risarcitoria anche oltre il limite delle 12 mensilità, così da renderla effettivamente risarcitoria e adeguatamente dissuasiva a beneficio del lavoratore.
A ben vedere il problema della fissazione di un “tetto” alle indennità risarcitorie si pone, qui, come si è già posto in altri “snodi” della disciplina.
Mi riferisco in particolare al limite massimo dell’indennità risarcitoria prevista come “tutela regolare” ex art. 3 D. Lgs. 23/2015. Con riguardo a quella norma - con una presa di posizione a mio parere discutibile - C. Cost. 194/2018 ha ritenuto però la previsione di un “tetto” all’importo dell’indennità giustificabile alla luce del sistema, purché l’importo previsto sia “adeguato” (v. risposta alla domanda 5). A mio parere una disciplina che volesse essere coerente dovrebbe prevedere sempre la possibilità di adeguamento dell’importo dell’indennità da parte del giudice, sia nel caso in cui l’indennità affianchi la reintegrazione “attenuata”, sia - e tanto più - nel caso essa costituisca l’esclusiva forma di tutela prevista dalla legge.
V. A. Poso. Restava, comunque, la differenziazione delle tutele in base alle dimensioni del datore di lavoro, che si colloca in linea conseguente alla disposizione normativa dell’art. 18 e della l. 15 luglio 1966 sui licenziamenti individuali (ancora applicabile ai vecchi assunti).
M. T. Carinci. In effetti il Jobs Act conferma la scelta già compiuta dall’art. 18 St.lav. e dalla l. 604/1966 per i “vecchi assunti”, prevedendo che anche i “nuovi assunti” da datori di lavoro di più piccole dimensioni in ragione del numero di lavoratori occupati godano - salvo nel caso del licenziamento nullo - di una tutela esclusivamente indennitaria e per di più molto contenuta (l’importo infatti è dimezzato rispetto a quello previsto per i datori medio-grandi e non può comunque superare le 6 mensilità di retribuzione, cfr. art. 9 D. Lgs. 23/2015; viceversa l’art. 8 l. 604/1966 prevede un’indennità fra 2,5 e 6 mensilità elevabile fino 14 mensilità in dipendenza dell’anzianità del lavoratore).
Tale duplice scelta del legislatore - id est: l’esclusione della tutela reintegratoria e la previsione di una tutela indennitaria molto esigua - non è conforme alla Costituzione.
Quanto alla questione della esclusione per i datori di lavoro di più piccole dimensioni dalla tutela reintegratoria, è noto come la Corte costituzionale, più volte chiamata in passato a valutare sotto questo profilo la legittimità costituzionale dell’art. 18 St.lav., abbia ritenuto ragionevole alla luce della Costituzione quella disparità di tutele - radicata nel numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro - , vuoi per non gravare i datori di più piccole dimensioni di oneri eccessivi, vuoi per la natura fiduciaria dei rapporti di lavoro che caratterizza queste organizzazioni, vuoi per le tensioni che un ordine di reintegrazione potrebbe ingenerare in tali contesti (C. Cost. 2/1986; C. Cost. 189/1973; C. Cost. 152/1975).
Sennonché nel sistema produttivo altamente tecnologizzato di oggi non è certo il numero dei lavoratori occupati che denota le capacità economiche di un’impresa: datori di lavoro con pochi dipendenti che sfruttino le nuove tecnologie ed operino in settori economici particolarmente ricchi possono realizzare performance economiche molto più significative (fatturato; ricavi; ammontare degli investimenti, ecc.) di altri che abbiano alle proprie dipendenze molti lavoratori. Rimane, certo, la questione della difficoltà di ricostituire un sereno rapporto fra il lavoratore illegittimamente licenziato e il datore di lavoro costretto a reintegrarlo, ma è una questione che si pone anche in altre situazioni (si pensi al licenziamento nullo, discriminatorio, ecc.) in cui l’ordinamento non esita a prevedere anche per i datori di lavoro con un minor numero di dipendenti la sanzione della reintegrazione.
In breve: il parametro del numero di occupati non può più costituire nel contesto produttivo odierno il criterio per escludere l’applicazione della tutela reintegratoria, come del resto statuito da C. Cost. 183/2022 (punto 5.3. cons. dir.).
Quanto poi all’importo dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 9 D. Lgs. 23/2015, con tutta evidenza essa è troppo esigua e pertanto non in grado di svolgere la propria duplice funzione al contempo deterrente/sanzionatoria e risarcitoria del danno patito dal lavoratore. Anche su questo punto appare a mio avviso inequivocabile ed assolutamente condivisibile la posizione espressa da C. Cost. 183/2022 (punto 4.2 cons.dir.).
Tuttavia, la Corte nella pronuncia appena citata - pur segnalando l’irragionevolezza della disciplina - ha dichiarato la questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 9, c. 1, D. Lgs. 23/2015 inammissibile. Secondo la Corte, infatti, “rientra nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario”. Al contempo, però, la Corte ha rivolto un monito al legislatore affinché si affretti a fornire adeguata tutela anche ai lavoratori delle realtà di più piccole dimensioni: “la Corte non può conclusivamente esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte” (v. C. Cost. 183/2022 punto 7 cons.dir.).
Occorre inoltre ricordare che di recente il Tribunale di Livorno (con ord. 240 del 24 dicembre 2024) ha nuovamente investito la Corte della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, c. 1, D. Lgs. 23/2015.
Se dunque il referendum non avrà successo, la Consulta sarà nuovamente chiamata a pronunciarsi sul punto e, considerata la posizione tranchant già assunta, nonostante le difficoltà di rinvenire nel sistema i criteri cui il giudice dovrà poi attenersi, è prevedibile che finisca per dichiarare la norma incostituzionale.
Se viceversa il referendum dovesse avere successo gli esiti possibili sono due.
Il primo, legato all’abrogazione referendaria unicamente del Jobs Act, avrebbe come conseguenza l’applicazione alle imprese di minori dimensioni (individuate sulla base sempre del numero dei dipendenti) dell’art. 8 l. 604/1966: il lavoratore avrebbe dunque diritto ad una indennità il cui importo massimo sarebbe più alto di quello oggi previsto dal Jobs Act (fino a 14 mensilità per i lavoratori con maggiore anzianità di servizio). Viceversa, se venisse contemporaneamente approvato anche il quesito referendario rivolto all’abrogazione di parte dell’art. 8 l. 604/1966, l’esito sarebbe l’eliminazione tout court per i lavoratori delle imprese minori di ogni limite massimo al risarcimento.
B. Caruso. Il tema del rafforzamento del sistema di tutele contro il licenziamento illegittimo nelle piccole imprese, come segnala Maria Teresa, è certamente all’ordine del giorno di un possibile intervento di ritorno della Corte costituzionale - che ha già lanciato un monito in tal senso - nel caso in cui il legislatore dovesse rimanere inerte (a maggior ragione dopo la rinnovata sollecitazione del Tribunale di Livorno).
Ci sono due diverse possibilità tecniche per rafforzare la tutela dei lavoratori nelle imprese minori, lo ricorda bene la Corte costituzionale nella sentenza n. 13/2025 di ammissione del quesito. Una prima è quella tranchant, sottoposta dai promotori del referendum al corpo elettorale, e consiste nel non porre limite alcuno alla indennità risarcitoria nel caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese.
Occorre però precisare che il calcolo dei promotori del referendum, per raggiungere tale risultato, è basato su due convergenti abrogazioni, il Jobs Act per intero e l’art. 8 della 604/1966; perché se il corpo elettorale si esprimesse, cosa improbabile ma non astrattamente impossibile, in maniera asimmetrica - per esempio abrogando l’art. 8 ma non l’art. 9 del Jobs Act - l’abrogazione del primo articolo sarebbe inutiliter data, rimanendo in vigore la norma di minor favore del Jobs Act che sarebbe destinata con il tempo ad applicarsi a tutti i lavoratori. Quindi un effetto, anche se solo potenziale, boomerang.
Ma a parte questi possibili cortocircuiti connessi allo strumento referendario a cui si affidano i promotori, osserviamo da vicino i diversi dispositivi di tutela dei lavoratori nelle imprese minori.
Dicevo che il primo meccanismo è quello di un rafforzamento dell’indennizzo, escludendosi per scelta ormai consolidata nelle imprese minori la reintegra. Tale rimedio è stato ontologicamente scartato per le ragioni pragmatiche a suo tempo evidenziate dalla Corte cost.: al di là delle intrinseche difficoltà organizzative di ripristinare un rapporto di lavoro in un contesto organizzativo minore, la rottura del vincolo fiduciario è certamente più netta nelle imprese minori anche sul versante del lavoratore licenziato. È vero come dice Maria Teresa che, in astratto, l’eventuale qualificazione come nullo del licenziamento consente la reintegra anche nel contesto dell’impresa minore; ma sfido chiunque a portare un caso pratico di un lavoratore che accetta la reintegra in un micro ambiente lavorativo dopo la dichiarazione di nullità del proprio licenziamento in un contesto di relazioni personali, gomito a gomito, definitivamente deteriorate.
Detto questo, si può pensare a rafforzare la portata dissuasiva dell’indennizzo come abbiamo provato a fare come “Gruppo Freccia Rossa” (all’art. 6, comma 3, del nostro progetto è prevista “una indennità commisurata all’ultima retribuzione di cui all’art. 2121 c.c., determinata in un importo non inferiore a quattro mensilità e non superiore a dodici mensilità, nel caso di anzianità di servizio non superiore a dieci anni, e fino a diciotto mensilità, nel caso di anzianità di servizio superiore a dieci anni”). Ma ci deve essere un tetto massimo all’indennizzo, al contrario di quel che propongono i promotori, se non si vuole penalizzare eccessivamente il sistema delle piccole imprese che regge l’economia italiana, già sotto stress per i dazi di Trump.
Accarezzare, pertanto, il sogno di una indennità senza limite, lasciata soltanto alla valutazione solipsista del giudice, è opzione irrealista per un verso, e pregiudizialmente anti impresa per l’altro, che è cultura diffusa tra una parte degli intellettuali, giudici e dottrina giuslavorista italiana (come ho sottolineato altrove in un saggio a doppia firma – con Corrado Caruso, Licenziamento e «politiche» giurisdizionali del lavoro. Riflessioni interdisciplinari a partire dalle sentenze nn. 128 e 129/2024 della Corte Costituzionale), RIDL,3, 2024, I,323 e ss. (parte prima) e 4, 2024, I, 531 e ss. (parte seconda).
L’altra possibile strada di intervento a favore dei lavoratori delle piccole imprese è rivedere i criteri di individuazione della impresa minore per meglio definirne i confini allo scopo dell’applicazione dei diversi regimi di tutela: obbligatorio e reale si diceva un tempo. Suggerimenti in tal senso provengono pure dalla sentenza monito della Consulta, la n. 183/22.
Anche in ragione di ciò il “Gruppo Freccia Rossa” ha provato a trovare una soluzione congrua e realistica per una riqualificazione degli indici di accertamento della dimensione imprenditoriale che andasse oltre il numero dei dipendenti: fatturato, ricavi, investimenti e capitale ammortizzato, EBITDA, MOL, ecc. Abbiamo preso in considerazione altri contesti normativi ove la definizione di impresa minore è affidata a indici economico-finanziari, ma essi sono risultati tutti inadatti, nel contesto della disciplina dei licenziamenti. Nessuno funziona: l’unico che dà certezza è quello del numero dei dipendenti che traccia una linea di distinzione certa e relativamente immediata, perché individua una soglia netta e non finanziariamente opaca o quanto meno fluida.
Rendere più complessi gli indici di accertamento, avrebbe, come unico probabile effetto, il blocco sine die o quasi delle controversie in cui preliminarmente si eccepirebbe l’applicabilità della disciplina in ragione della dimensione d’impresa e con aumenti di costi dovuti alla necessità che il giudice avrebbe di ricorrere a onerose consulenze finanziarie specialistiche. Sull’altare del diverso accertamento della soglia di applicazione del regime di licenziamento si sacrificherebbero, allora, le ragioni di celerità dell’accertamento della illegittimità del licenziamento.
V. A. Poso. Il testo originario del d. lgs. n. 23/2015, risulta modificato ad opera di successivi interventi legislativi, ma anche per i corposi interventi della Corte Costituzionale.
Chiedo, innanzitutto, a Maria Teresa Carinci di tracciare un quadro sintetico delle riforme legislative intervenute sino alla data della comunicazione dell’iniziativa referendaria e una breve valutazione delle stesse.
M. T. Carinci. È così: il Jobs Act è stato modificato in punto di disciplina del licenziamento dapprima, in parte, dallo stesso legislatore e poi, soprattutto, da alcune importantissime pronunce della Corte costituzionale.
Quanto alle modifiche legislative, il riferimento è soprattutto al cd. “Decreto Dignità” (d.l. 87/2018 conv. in l. 96/2018), approvato dal primo Governo presieduto da Giuseppe Conte, con l’intento dichiarato di tutelare la dignità delle persone, dando un “colpo mortale al precariato” (dalla Conferenza stampa del Ministro del lavoro Luigi Di Maio del 3 luglio 2018).
Ulteriori interventi normativi, che non hanno intaccato in alcun modo la struttura del Jobs Act, hanno riguardato, invece, il raccordo fra le tutele da esso previste in tema di licenziamento collettivo ed il Codice della crisi d’impresa (art. 10 D. Lgs. 23/2015).
Soffermandosi sul “Decreto Dignità”, è noto come esso si sia limitato ad elevare (per vero in modo significativo) gli importi minimo e soprattutto massimo dell’indennità risarcitoria già prevista dal Jobs Act per il licenziamento ingiustificato (rispettivamente da 4 a 6 mensilità e da 24 a 36 mensilità di retribuzione). L’intervento è stato indubbiamente opportuno, in quanto l’importo dell’indennità che caratterizzava l’originaria versione del decreto era decisamente inadeguato per assolvere le plurime funzioni assegnatile dalla legge: risarcitoria - cioè fornire adeguato ristoro ai danni patiti dal lavoratore illegittimamente licenziato - e deterrente/sanzionatoria - cioè prevenire e punire il datore che ponesse in essere un licenziamento viziato.
Tuttavia, il “Decreto Dignità” ha, al contempo, lasciato intoccato ogni altro aspetto: non solo non ha inciso sulla scelta di porre al centro del sistema la tutela indennitaria, ma, quanto alla tutela economica, non ne ha modificato né gli importi in caso di vizio di motivazione o di procedura, né il meccanismo di calcolo, vero punto critico di questa parte della disciplina, che è pertanto rimasto ancorato in modo automatico all’anzianità di servizio del lavoratore.
In breve, l’impianto della riforma non è stato messo in alcun modo in discussione.
V. A. Poso. È, questa, una valutazione condivisibile?
B. Caruso. La prima valutazione che mi viene sul quesito posto (il quadro dello stato dell’arte della disciplina sino alla prova referendaria) è in qualche modo preliminare e di tipo politico-istituzionale: se il governo Renzi ha compiuto le nefandezze neoliberiste di cui si dice, veicolate per altro da dispositivi tecnici improbabili, non si capisce perché nessuno dei governi multicolori e arcobaleno che si sono succeduti, abbia posto mano ad una radicale riforma di quella riforma, reintroducendo la reintegra pervasiva.
Anzi il “Decreto Dignità”, richiamato da Maria Teresa, conferma una convinzione probabilmente subliminale degli stessi riformatori anti Jobs Act: e cioè che la reintegrazione, come rimedio, non è quel totem da adorare irrazionalmente, il tabù intoccabile per ragioni simboliche e politiche, potendo costituire anche l’indennizzo un rimedio alternativo, altrettanto ripristinatorio e dissuasivo.
A questo punto bisogna chiarire un passaggio: molti cultori della reintegra, senza se e senza ma, ammantano tale idolo con la tesi dell’ossequio ai sacri principi del diritto civile: se la sanzione civilistica tipica per l’inadempimento è la restitutio in integrum, scostarsi dal rimedio integralmente ripristinatorio nell’ipotesi del licenziamento illegittimo significa invertire la relazione antica tra diritto primo e diritto secondo (per cui quest’ultimo nasce storicamente non solo per specializzare ma per integrare le carenti strutture rimediali del primo nei rapporti di lavoro). Onde la reintegra non solo come rimedio normale, ma come panacea per i lavoratori, che dovrebbe soffrire al più limitatissime eccezioni (per esempio le piccole imprese).
In disparte che tecnicamente, anche in chiave di pura applicazione dei principi civilistici, questo assunto non è vero perché dogmatico in senso tecnico (non posso dilungarmi in questo); e in disparte che se così fosse non si capisce come mai in nessun sistema comparato, anche a tradizione civilistica, la reintegrazione abbia assunto questo valore taumaturgico e totalizzante che ha avuto invece in Italia; ricordo, per inciso, che la stagione dello Statuto aveva una sua ratio storica formidabile; non ontologica o dogmatica, dunque, ma socialmente e politicamente contingente, come spiegò Massimo D’Antona nella sua basilare monografia.
Dico questo perché la visione pan-reintegrazionista dei rimedi contro il licenziamento illegittimo non è condivisa neppure dai lavoratori in carne e ossa che affrontano il contenzioso giudiziale. È esperienza di qualunque avvocato (anche degli avvocati della CGIL), che si confronta con controversie in materia di licenziamento, che i clienti, nove volte su dieci, preferiscono soluzioni monetarie indennitarie, sia in fase di conciliazione stragiudiziale sia a fronte a una sentenza che consente loro la scelta se accettare la reintegra giudiziale o optare per l’indennità sostitutiva.
E tale atteggiamento non è certo espressione dell’abdicazione della classe lavoratrice alle magnifiche e progressive sorti leopardiane e all’adesione alla religione del dio denaro (i segnali di tale decadimento culturale delle classi subalterne sono altrove, basta studiare con attenzione i flussi elettorali nell’America di Trump o la base di consenso di cui gode l’attuale compagine governativa sovranista e anti europeista); ma è espressione di un approccio realistico e pragmatico. Chiudere una esperienza lavorativa ormai anche psicologicamente esaurita (la rottura del contratto psicologico) con un compenso monetario, è un atteggiamento non utilitaristico ma assolutamente ragionevole: finire per ricominciare e rimettersi in gioco altrove, a partire tuttavia da una compensazione economica non umiliante ma, appunto, equilibrata e positiva.
M. T. Carinci. Vorrei obiettare a Bruno che non mi pare che la questione sul tappeto sia se il legislatore possa scegliere fra tutela reale o obbligatoria: come ho già sottolineato è la stessa Corte costituzionale ad affermare a più riprese che la tutela reale contro il licenziamento non è costituzionalizzata.
Quello che mi sembra il referendum voglia mettere in questione è, da una parte, la coerenza delle discipline e, dall’altra, l’opportunità in questo momento storico di tutelare con forza la posizione dei lavoratori.
Il referendum intreccia questi due snodi: vuole da una parte ricomporre la “frattura” fra vecchi e nuovi assunti e dall’altra riportare al centro del discorso politico la tutela del lavoro.
V. A. Poso. Chiedo, invece, a Bruno Caruso di tracciare un quadro sintetico della giurisprudenza della Consulta nel primo “miniciclo” dal 2018 al 2021. Anche quelle che hanno rigettato le questioni di legittimità costituzionale, per completezza.
B. Caruso. Presto detto. Nel saggio a quattro mani sulla RIDL a cui ho fatto cenno, si è partiti da un quadro sinottico delle pronunce della Consulta che facilitasse anche una lettura in chiave di metodo realista del suo itinerario. Non vi è alcun dubbio che le sentenze sino al 2021, nel segno della redattrice, l’autorevole collega e amica Silvana Sciarra, hanno una impronta di policy chiara.
Dico subito che, in questo ideale primo miniciclo di sentenze della Corte, inserirei anche la n.125/2022 che ha eliminato con riguardo alla legge Fornero la qualificazione di “manifesta” con riguardo alla insussistenza del giustificato motivo oggettivo allo scopo della reintegra attenuata.
In questo primo miniciclo la Corte si muove ovviamente sulla base degli input provenienti dai giudici rimettenti, attraverso un dialogo diretto che le consente di contrastare, in prima battuta, le maggiori “durezze” regolative del Jobs Act: in particolare quel po’ di firing cost ideology a cui la riforma si ispirava con riguardo alla predeterminazione del costo del licenziamento attraverso una forma di automatismo nel calcolo dell’indennizzo entro la forbice prevista dalla legge. Ricordo, a tale proposito, che nella teorizzazione originaria del premio Nobel Jean Tirole, non avrebbe dovuto essere comunque il magistrato a fissare il costo del licenziamento; l’economista francese considerava questa una “missione impossibile” (Economia del bene comune, Mondadori, 2017, p. 263), onde tale compito sarebbe spettato direttamente alla legge o all’autorità amministrativa.
Nel Jobs Act il calcolo veniva invece affidato al giudice (e qui lo scostamento dalla firing cost theory ortodossa), ma in guisa notarile o ragionieristica; su questo vulnus alla tradizionale discrezionalità giudiziale dell’accertamento del quantum di danno (l’automatismo del calcolo), affonda il bisturi la Corte costituzionale con le due sentenze abbrivio della complessiva manipolazione ortopedica: la n. 194 del 2018 e la n. 150 del 2020. La Corte si spinge anche sino a una valutazione di merito, certamente condivisibile, circa la scarsa dissuasività e la pochezza del rimedio indennitario, soprattutto per i neoassunti.
In questo miniciclo, tuttavia, la Corte introduce pure due ragionamenti, non a caso stigmatizzati dai cultori della reintegra, che invece rendono, almeno politicamente, bilanciata l’operazione ortopedica.
Il primo relativo ai licenziamenti collettivi, ove (sentenza n. 254/20) la Corte dichiara brutalmente inammissibili le ordinanze di illegittimità relativamente alle nuove regole del Jobs Act mirate ad eliminare ogni ipotesi di reintegrazione nei licenziamenti collettivi (personalmente avevo avuto modo di criticare già le ordinanze dei giudici di Napoli e di Milano in un saggio, Il contratto a tutele crescenti nella tenaglia della doppia pregiudizialità, DML, 3, 2019, p. 381 e ss.). Il secondo argomento, in seguito più volte ripreso, va nella direzione di salvare la scelta legislativa del doppio regime in ragione del trascorrere tempo (la famosa cesura del 7 marzo 2015 per i due diversi trattamenti).
L’argomento utilizzato dalla Corte, in tale ultimo caso, non è particolarmente potente né sotto il profilo dell’argomentazione giuridica, né della finezza in punto di teoria economica: vale a dire la dichiarata, dal Governo, funzionalizzazione del discrimen temporale agli obiettivi di incremento occupazionale.
Ma la Corte manda un messaggio di carattere generale per giustificare l’operazione di bilanciamento complessiva: se un governo giustifica esplicitamente una scelta di differenziare i trattamenti (e i diritti) ratione temporis, sulla base di risultati economici attesi dalla propria misura di natura occupazionale, questa scelta non può essere contestata e va considerata costituzionalmente legittima; ove gli echi della celeberrima sentenza Mangold della Corte di giustizia dell’UE sono evidenti (CGE 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold).
Nella seconda parte del miniciclo la Corte invece si rivolge non più al Jobs act ma alla legge Fornero. Sembrerebbe un incedere sistematico rispondente ad un ordito logico e di policy: prima le discrasie costituzionali più evidenti dove operare con l’accetta; poi il lavorio affidato al bisturi o al cacciavite; se non fosse che la cronologia degli interventi è fissata dai giudici che sollevano le questioni di costituzionalità. Fatto è che nella seconda fase del miniciclo, la Corte, e la sua autorevole redattrice, si dedicano a “ripulire” la legge Fornero dagli elementi di imperfezione, imprecisione tecnica e corriva mediazione del legislatore che, pur tali, finiscono per restringere un ideale perimetro di “giusta tutela” contro il licenziamento illegittimo.
Faccio riferimento alle sentenze (la n. 59 del 2021 e la n. 125 del 2022) più debitrici delle lezioni di Gianrico Carofiglio sul lessico e sull’ecologia del linguaggio: notoriamente la Consulta cassa l’avverbio “manifestamente” riferito all’insussistenza del GMO; ma poi inopinatamente se la prende con la discrezionalità del giudice, che aveva prima difeso a proposito della determinazione del quantum dell’indennità, allorché sostituisce al verbo “potere” (nell’accezione di possibilità, libertà) il verbo “dovere” (nell’accezione obbligato a), sempre a proposito della decisione di reintegrazione nel caso del GMO semplicemente insussistente e non più manifestamente tale. Due pesi e due misure, si potrebbe dire con riguardo al valore della discrezionalità giudiziale; ma quando si tratta di strategie sostanziali di tutela - potrebbe essere questo il metro di valutazione dell’operato della Consulta - il criterio logico della coerenza può pure trascurarsi: ma sempre di manifesta illogicità si tratta.
V. A. Poso. Sono condivisibili queste osservazioni di Bruno Caruso?
M. T. Carinci. C’è del vero nella ricostruzione che Bruno propone con riferimento alle pronunce della Corte costituzionale che in questa prima fase hanno investito il Jobs Act.
La Corte demolisce, infatti, una delle scelte più dirompenti del Jobs Act relativa alle modalità di calcolo di quell’indennità risarcitoria che è stata fatta assurgere, almeno nelle intenzioni, a tutela “regolare” del licenziamento viziato - nella sostanza una sorta di firing cost destinato ad operare però solo in caso di licenziamento illegittimo e non in presenza di qualunque licenziamento anche legittimo - ritenendola in contrasto con il sistema, ma non giunge fino a mettere in discussione l’intero impianto della riforma, come invece avrebbe potuto fare se fosse stata coerente con le proprie stesse premesse e con il sistema.
Da una parte, infatti, C. Cost. 194/2018 e C. Cost. 150/2020 hanno dichiarato incostituzionale il meccanismo di calcolo automatico dell’indennizzo secondo la progressione lineare dell’anzianità di servizio e hanno rimesso di conseguenza al giudice, nell’esercizio della sua discrezionalità e sulla base di parametri già presenti nel sistema (art. 8, l. 604/1966; art. 18 St.lav.; art. 30, l. 183/2010), la concreta individuazione dell’importo dovuto al lavoratore in una forbice tra il minimo e il massimo fissato dalla legge. L’indennità risarcitoria, già significativamente elevata nei suoi importi dal c.d. “Decreto Dignità” e rimessa ora a seguito della pronuncia della Corte ad una modulazione in concreto da parte del giudice, riacquista così la possibilità di esplicare effettivamente la propria funzione al contempo risarcitoria e sanzionatorio-deterrente.
Incidendo su tale meccanismo la Corte ha dunque rafforzato significativamente questa forma di tutela in linea con i principi costituzionali, che come anticipato, pur lasciando il legislatore libero di effettuare una scelta fra tutela reale e tutela obbligatoria, gli impongono però di congegnare tutele “adeguate” e “ragionevoli”.
Rimane però sul tappeto la questione del limite massimo fissato dalla legge all’importo dell’indennità: in alcune ipotesi (per es. in presenza di un’elevata anzianità del lavoratore, quando vengano in considerazione datori di lavoro di grandi dimensioni, in ipotesi in cui il danno patito dal lavoratore sia elevato, ecc.) il “tetto” posto dalla legge potrebbe costituire ostacolo al pieno dispiegarsi della funzione risarcitoria e sanzionatorio/deterrente che caratterizzano l’indennità. È con riferimento a questo aspetto che, a mio avviso, la Corte non porta il ragionamento fino alle sue estreme (ma coerenti) conseguenze le quali avrebbero richiesto che, pur con adeguata motivazione ed in casi estremi, quel limite potesse essere ritenuto superabile dal giudice.
C. Cost. 194/2018, infatti, pur ritenendo di non essere stata investita dal giudice remittente della questione, afferma però esplicitamente che la misura massima prevista dalla legge (nel testo originario pari a 24 mensilità ed a seguito del “Decreto Dignità” pari a 36 mensilità) realizza in ogni caso un “adeguato” contemperamento degli interessi in gioco, bilanciando adeguatamente il diritto al lavoro, da una parte, e la libertà di iniziativa economia, dall’altra. L’affermazione non è motivata e lascia dunque perplessi. Né la Corte ha ritenuto di valorizzare l’art. 24 della Carta Sociale Europea pure invocato dal giudice remittente come intrepretata dal Comitato europeo dei diritti sociali (l’organo deputato ad interpretare la Carta) che ritiene l’indennizzo per il licenziamento “adeguato” solo qualora ristori il lavoratore da tutte le perdite economiche patite dal momento del licenziamento a quello della sentenza e non sia soggetto a limiti massimi che ne pregiudichino l’integrale ristoro.
Per quanto riguarda l’altro passaggio compromissorio di C. Cost. 194/2018 si è già detto (v. riposta alla domanda 1) e concerne la ritenuta legittimità costituzionale, con riferimento al principio di uguaglianza, dello “spartiacque temporale” per l’applicazione del Jobs Act costituito dalla data di assunzione del lavoratore, (ritenuto dalla Corte, con una motivazione non convincente, giustificato dallo «scopo, dichiaratamente perseguito dal legislatore, di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione»).
Tuttavia, è evidente che l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale su questo punto avrebbe comportato la demolizione dalle fondamenta del Jobs Act.
B. Caruso. Mi limito a replicare che in altri sistemi (per esempio quello francese ma pure quello spagnolo) non è che i limiti massimi siano molto più alti, anzi; e comunque il discorso è chiuso dal c.d. “Decreto Dignità” che porta questo limite a 36 mensilità, tendenzialmente per tutti. Se sono queste le preoccupazioni di Maria Teresa, per paradosso, dovrei invitarla a votare contro l’abrogazione del Jobs Act, ma credo che in tal caso non gradirebbe il ragionamento per paradossi e preferirebbe quello tutto politico Landiniano…
V. A. Poso. Ci sono, poi, le pronunce del secondo “miniciclo” dal 2022 al 2024 (anche oltre la data di presentazione della richiesta referendaria). Chiedo, questa volta, a Maria Teresa Carinci di tracciare un quadro sintetico di queste decisioni della Corte Costituzionale.
M.T. Carinci. Anche in questa seconda “stagione” la Corte mette pesantemente in discussione le scelte del Jobs Act soprattutto con riguardo alle tutele da riconoscere al licenziamento individuale viziato. Tuttavia, in questa fase lo fa riespandendo in più ambiti la tutela reale a scapito della tutela indennitaria, senza però giungere a smantellarne l’impianto dalle fondamenta (come invece a mio parere avrebbe richiesto una lettura coerente del sistema), anzi, tentando al contrario di ricondurre a coerenza e razionalità l’impianto dell’intera disciplina dei licenziamenti individuali posto dal Jobs Act e dall’art. 18 St.lav. post legge Fornero.
Nel far ciò tuttavia la Corte, adotta soluzioni interpretative discutibili, contraddittorie rispetto alla propria precedente giurisprudenza e, a mio parere, nemmeno coerenti con il sistema.
La rassegna è assai complessa e articolata.
La prima pronuncia su cui intendo soffermarmi non pone a dire il vero i problemi segnalati, ma si mostra coerente con l’impianto dell’ordinamento. C. Cost. 22/2024, infatti, dichiara incostituzionale per eccesso di delega l’art. 2 D. Lgs. 23/2015 includendo così - sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale già affermatosi come prevalente - nello spettro della tutela reintegratoria “piena” tutte le ipotesi di nullità dell’atto di licenziamento “espressamente” (nullità testuali) o non “espressamente previste” (nullità virtuali): le prime si realizzano quando la disposizione imperativa violata contempla l’espressa e testuale sanzione della nullità; le seconde ricorrono quando sia possibile rinvenire, comunque, dal carattere imperativo della norma violata la conseguente sanzione di nullità. All’esito di tale pronuncia non solo il campo di applicazione della tutela reale “forte” si amplia significativamente, inglobando ipotesi prima incerte o discusse (si pensi al licenziamento ritorsivo, al licenziamento per motivo illecito, al licenziamento per frode alla legge, al licenziamento pretestuoso) ma, soprattutto, si allinea a quanto previsto dall’art. 18 St.lav.
C. Cost. 22/2024 realizza dunque in punto di nullità quel riassetto complessivo del sistema cui prima facevo cenno.
In seguito, C. Cost. 128/2024, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, c. 2, del Jobs Act nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria “attenuata”, riservata dalla norma alle sole ipotesi di licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, statuisce che essa debba essere riconosciuta, in luogo di quella meramente indennitaria originariamente prevista, anche nelle ipotesi di licenziamento per g.m.o. di tipo economico “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale rimane estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore”.
L’ipotesi del “fatto materiale insussistente” cui si applica la tutela reale “attenuata”, dunque, viene identificato dalla Corte nella carenza di due dei tre elementi che per costante orientamento della giurisprudenza compongono la fattispecie del g.m.o. di tipo economico: la riorganizzazione dichiarata dal datore di lavoro, ma poi non effettivamente realizzata, ed il nesso causale fra la riorganizzazione e mansioni del lavoratore. Per la Corte rimane, invece, estranea all’area di applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” l’ipotesi di insussistenza del cd. repêchage.
C. Cost. 128/2024 - tanto più se letta congiuntamente alla sentenza “gemella” 129/2024 - a mio parere è sorretta dall’intento politico di ricondurre per quanto possibile ad armonia il sistema di tutele del licenziamento nel suo complesso, mantenendo al contempo fra i due plessi normativi (id est: lo Statuto, da una parte, ed il Jobs Act, dall’altra) quel décalage di tutele voluto dal legislatore del 2015 per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro degli outsider.
A questo obiettivo di fondo però le due sentenze “gemelle” del 2024 sacrificano la coerenza della disciplina del licenziamento.
Partendo dalla prima delle due pronunce va osservato come C. Cost. 128/2024 - pur chiarendo in modo del tutto condivisibile che il licenziamento per g.m.o. per “fatto materiale insussistente” è in realtà un licenziamento acausale (o pretestuoso), cioè privo di una qualunque ragione giustificatrice prevista dalla legge ed indistinguibile come tale da un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo privo di giustificazione - non ritiene poi, contraddittoriamente, di riconoscere per l’ipotesi di insussistenza del g.m.o. comprensivo di tutti i suoi elementi costitutivi (riorganizzazione, nesso causale e repêchage) sempre la medesima tutela reintegratoria, escludendo dal raggio della tutela reale “attenuata” l’insussistenza del repêchage.
Ma com’è possibile sanzionare diversamente un licenziamento in ogni caso acausale, quale che sia l’elemento strutturale del g.m.o. che risulti carente, se è vero, come la stessa Corte aveva in precedenza affermato (v. C. Cost. 59/2020 e 125/2021) che, sulla scorta del diritto vivente (v. Cass. 4509/2016), il g.m.o./causa/ragione dell’atto di recesso è composto in modo inscindibile da quei tre elementi consustanziali e fra loro inestricabili: la riorganizzazione, il nesso causale e il cd. repêchage?
D’altra parte, penso fermamente che il legislatore non possa modulare a suo piacere la nozione di g.m.o. di tipo economico, adottandone una più incisiva a fronte dell’art. 18 St.lav. ed una più blanda a fronte del Jobs Act, così da riconoscere nei due casi differenti tutele. Se infatti è vero che la ragione che caratterizza il licenziamento per ragioni economiche è di tipo tecnico-organizzativo (così anche C. Cost. 128/2024, punto 5.1 cons. dir.) - nel senso che l’ordinamento consente al datore di recedere dal contratto al fine di modificare la componente personale della propria organizzazione, licenziando quei lavoratori le cui mansioni si dimostrino non più utili nella sua nuova struttura (art. 3 l. 604/1966 ed art. 41 Cost.) - il repêchage non può che costituirne elemento consustanziale, necessario ed ineliminabile. Esso infatti non aggiunge alcunché alla ragione tecnico-organizzativa voluta dalla legge, ma ne denota unicamente l’effettività, imponendo al datore che dichiara la sussistenza di una ragione tecnico-organizzativa di dimostrare, poi, che essa ricorre nel caso concreto e, cioè, che le mansioni dei lavoratori licenziati, come dal datore stesso dichiarato, effettivamente non possono più essere impiegate nella nuova struttura da lui stesso liberamente predisposta, perché nessuna posizione a cui quel lavoratore possa essere adibito risulta in quel momento vacante. Che le cose stiano così lo testimonia del resto – seppur in modo contraddittorio - anche C. Cost. 128/2024 laddove afferma che il cd. repêchage “trova la sua giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro, che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale” (C. Cost. 128/2024 punto 5.3 cons. dir.).
Dunque, anche C. Cost. 128/2024 – come già C. Cost. 22/2024 - riespande la tutela reale nel Jobs Act, in parallelo con le previsioni dell’art. 18 St.lav., senza però in questo caso ricalcarne appieno l’estensione.
Anche C. Cost. 129/2024 - sentenza interpretativa di rigetto - con un percorso simile a quello della sua “gemella” opera un’estensione, questa volta in via interpretativa, della tutela reale ad un’ipotesi originariamente non contemplata dall’art. 3, c. 2, D. Lgs. 23/2015.
La Corte, infatti, respinge la questione di costituzionalità dell’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015 nella parte in cui non prevede la tutela reintegratoria attenuata anche per il licenziamento disciplinare irrogato per un “fatto materiale” in relazione al quale la contrattazione collettiva preveda al contrario sanzioni conservative (come invece esplicitamente previsto dall’art. 18 St.lav.), fornendone però un’interpretazione adeguatrice. Contrariamente all’interpretazione consolidata in giurisprudenza, infatti, per la Corte il “fatto materiale contestato” la cui carenza determina l’applicazione della tutela reale non solo ricomprende il fatto giuridico dell’inadempimento (cd. “fatto materiale legale”), ma ad esso va equiparata l’ipotesi d’inadempimento sussistente e specificamente tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione di una sanzione solo conservativa (“fatto materiale convenzionale”). Ciò per evitare il contrasto della norma con l’art. 39 Cost. di cui il codice disciplinare è assai spesso espressione.
L’equiparazione fra art. 18 St.lav. e Jobs Act però anche su questo punto non è completa. Per la Corte infatti non ogni licenziamento irrogato in violazione di clausole del codice disciplinare contrattuale va ricondotto ai sensi del Jobs Act all’area di applicazione della tutela reale, ma unicamente quel licenziamento che violi clausole che tipizzino in modo specifico la condotta inadempiente del lavoratore punendola con sanzioni conservative; ne rimarrebbero escluse, viceversa, i casi di licenziamenti disciplinari irrogati in violazione di clausole generali o elastiche del contratto collettivo. Ciò perché l’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015 - come si evince dalla specificazione per cui è preclusa ogni valutazione di proporzionalità - vuole che la sanzione più grave, la reintegra, si applichi solo nei casi in cui il datore consapevolmente violi la legge o il contratto collettivo, vuoi perché licenzi il lavoratore in assenza di un qualunque inadempimento, vuoi perché lo licenzi in presenza di un inadempimento esplicitamente considerato dal codice disciplinare convenzionale meno che “notevole”, anzi - secondo le parole della Corte - “fatto assai lieve” (punto 9.3 cons. dir.).
Ancora una volta la Corte costituzionale, dunque, ricrea un parallelismo fra Jobs Act e art. 18 St.lav., mantenendo però al contempo un gap fra i due plessi normativi e le tutele da ciascuno assicurate al lavoratore. A mio parere l’interpretazione qui adottata dalla Corte ancora una volta non è condivisibile: come si può sostenere, alla luce del principio di ragionevolezza, che solo la violazione di clausole puntuali del codice disciplinare pattizio può dar luogo alla tutela reale e non anche la violazione di clausole generali o elastiche? Le clausole generali o elastiche, infatti, non solo sono a pieno titolo espressione dell’autonomia negoziale collettiva protetta dall’art. 39 Cost., ma risultano assai spesso imprescindibili per predisporre un codice disciplinare adeguatamente articolato a fronte di obblighi del lavoratore a loro volta individuati tramite disposizioni ampie o generali (quali per es.: la diligenza, la buona fede, ecc.). Ragionare nei termini indicati dalla Corte implica, dunque, una drastica compressione dell’autonomia delle parti sociali in pieno contrasto con l’art. 39 Cost., autonomia che verrebbe incanalata e costretta verso un modello regolativo non voluto dagli agenti negoziali ed in molti casi neppure praticabile in concreto.
Insomma, la Corte costituzionale con queste pronunce compie a mio parere una chiara operazione di salvataggio del Jobs Act in punto di disciplina dei licenziamenti individuali anche a costo di forzare i limiti del sistema.
Al “miniciclo” 2022-2024 vanno ascritte - oltre alla pronuncia “monito” C. Cost. 183/2022 sui piccoli datori di lavoro di cui si è già detto - anche due ulteriori sentenze di rigetto, una ancora dedicata alle tutele previste per i licenziamenti individuali e la seconda ai licenziamenti collettivi. Entrambe respingono le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici remittenti alla luce della ratio del Jobs Act, cioè delle finalità occupazionali perseguite con la riforma. Ritengo - come ho già rilevato con riferimento a C. Cost. 194/2018 - che la posizione della Corte sia discutibile, sia perché lo strumento prescelto per raggiungere lo scopo di incrementare l’occupazione (diminuire le tutele del licenziamento per i “nuovi assunti”) non è di per sé adeguato, sia perché la Corte omette di considerare la dimensione di potere dell’atto di licenziamento e di valutare la soluzione legislativa anche in questa prospettiva. Una osservazione, quest’ultima, che ha tanto più rilievo quando a fronte di una stessa procedura di licenziamento collettivo due lavoratori, ugualmente licenziati in violazione dei criteri di scelta, siano passibili di diverse tutele in ragione della data di assunzione.
C. Cost. 44/2024, si pronuncia ancora una volta sulla legittimità costituzionale del Jobs Act in punto di disciplina dei licenziamenti individuali, respingendo le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015 per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., ritenendo conforme alla ratio della legge delega l’estensione della disciplina del Jobs Act anche ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 da datori di lavoro di più piccole dimensioni, datori che però dopo quella data in virtù di nuove assunzioni abbiano raggiunto le soglie occupazionali proprie dei datori medio-grandi. Per la Corte la scelta discrezionale compiuta sul punto dal legislatore è in linea con lo scopo perseguito dalla legge delega (quello di incentivare l’occupazione) dal momento che “per il datore di lavoro di una piccola impresa la prospettiva che, superata la soglia dei quindici dipendenti nell’unità produttiva, la disciplina dei licenziamenti individuali fosse la stessa (quella del decreto legislativo) per tutti i suoi dipendenti - sia neoassunti, sia già in servizio - rappresentava uno stimolo (o il venir meno di un freno) alle nuove assunzioni” (punto 11).
C. Cost. 7/2024 respinge le questioni di costituzionalità proposte con riferimento alla disciplina dei licenziamenti collettivi, ritenendo in particolare conforme a Costituzione la scelta compiuta dal Jobs Act di prevedere la sola tutela indennitaria per la violazione dei criteri di scelta di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Com’è noto l’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015, dispone infatti per tutti i licenziamenti effettuati per “motivi economici” la tutela meramente indennitaria, con la conseguenza che in caso di violazione dei criteri di scelta mentre i “vecchi assunti” godono ancora della tutela reale prevista dall’art. 18 St.lav., i “nuovi assunti” beneficiano invece solo della tutela indennitaria posta dal Jobs Act. Ne deriva che lavoratori coinvolti in una medesima procedura di licenziamento collettivo, in ipotesi di violazione dei criteri di scelta, beneficeranno ora della tutela reale (“vecchi assunti”), ora della tutela indennitaria (“nuovi assunti”) a seconda del puro dato estrinseco costituito dalla data di assunzione.
Questa pronuncia ha fatto molto discutere ed a ragione: la disparità di trattamento fra “vecchi” e “nuovi assunti” è qui particolarmente evidente e ancor più difficilmente giustificabile.
V. A. Poso. Bruno Caruso, condividi queste valutazioni di Maria Teresa Carinci?
B. Caruso. Ho già avuto modo di confrontarmi a fondo con le due sentenze (la n. 128 e la 129 del 2024) che caratterizzano il secondo miniciclo, i cui snodi decisionali sono stati bene descritti da Maria Teresa e pertanto non li ripercorro. Lasciami però dire che le critiche che formula ad alcune posizioni della Corte sono espressione in vitro della “cultura della reintegra”. Essa suona più o meno, salve varianti più o meno radicali, nel seguente modo: occorre riportare le lancette della storia ai tempi della reintegrazione se non come rimedio unico, tendenzialmente tale; ogni accomodamento mediatorio, ancorché al rialzo come quello effettuato dalla Corte nel secondo miniciclo, è da rifiutare; per cui ben venga il referendum spazzatutto.
Anziché, dunque, plaudire all’operazione della Corte, la cultura della reintegra indugia, invece, sulle difformità, a questo punto residuali, rispetto all’obiettivo di integrale ripristino del regime Fornero, criticando, il non pieno ossequio della Consulta al diritto vivente giurisprudenziale precedente, quello almeno considerato più garantista: la posizione sul repêchage e l’orientamento restrittivo sulle clausole contrattuali. È chiaro allora che quando la Consulta concede il dito all’opzione ipergarantista, i cultori di quest’ultima finiscono per pretendere tutta la mano.
Eppure, nel secondo miniciclo (il ciclo del Giudice Giovanni Amoroso che succede al ciclo della Giudice Silvana Sciarra) il tentativo di operare un bilanciamento complessivo “al rialzo”, vale a dire, a favore della reintegrazione come regola, è ancor più evidente. Lo riconosce pure Maria Teresa: le tre sentenze simbolo di questo miniciclo, tutte del 2024, (la 22, la 128 e la 129) altro non sono che un tentativo abbastanza riuscito (anche se certamente foriero di aporie) di riaccorciare le distanze tra legge Fornero e Jobs Act, intaccando punti qualificanti della riforma Renzi molto di più di quanto sia avvenuto nel miniciclo Sciarra; in particolare: a) la distinzione netta dei rimedi tra licenziamenti per ragioni soggettive (ove opera il doppio regime di reintegra) e licenziamento economico, dove scompare la reintegra; b) la eliminazione della doppia ipotesi di reintegra attenuata nel licenziamento soggettivo; c) la previsione solo delle nullità manifeste e non di quelle virtuali.
Ci sarebbe stato materiale per essere più che soddisfatti con riguardo all’opzione del rientro nel regime di reintegrazione come regola; eppure i cahiers de doléances si spingono sino al punto di rivendicare l’intangibilità di un dogma dottrinale e giurisprudenziale (perché tale è la teorizzazione del repêchage come elemento integrativo della fattispecie GMO è quindi generatore di insussistenza del fatto organizzativo), onde la critica alla Consulta per averlo espunto dal perimetro del fatto insussistente e ad averlo inserito, a mio avviso correttamente, tra le ipotesi di ingiustificatezza semplice; e poi la critica all’adesione della Corte all’orientamento della Cassazione restrittivo sulle clausole tipizzate e non elastiche, che, prima facie, appare molto più razionale ed equilibrato dell’altro, più lasco, che prese il sopravvento nel torno del secondo decennio (al punto che qualcuno si è spinto a teorizzare che la Consulta non ha mai affermato una cosa del genere e che, se mai l’avesse fatto, la Cassazione dovrebbe operare un fin de non-recevoir).
Detto questo, non è che le aporie nell’itinerario della Consulta non siano evidenti; ma a mio avviso sono da considerare l’effetto di risulta del ruolo di decisore politico che si è auto attribuita, piuttosto che un risultato che promana dalle singole decisioni. Aporie di sistema più che della singola decisione.
Così è evidente che la Corte ha finito per rendere nuovamente opaca e incerta una scelta sistematica del legislatore, di fissare cioè una linea netta di demarcazione dei rimedi nell’ipotesi di licenziamenti che incidono sulla dignità della persona e licenziamenti dettati da ragioni economiche. Ha evitato di confrontarsi con il fatto che, per ragioni che è inutile qui ribadire, il recesso datoriale non è una fattispecie unica (come indulge a pensare invece anche la Corte), ma licenziamento soggettivo ed economico hanno strutturalmente rationes diverse che ne giustificano una diversa modulazione funzionale dei rimedi.
Essendo stata contestata dalla Corte costituzionale questa razionale linea di faglia individuata dal legislatore - una ragione di policy, contrabbandata per irragionevolezza intrinseca di trattamento dei due regimi di insussistenza del fatto - diventa poi difficile comprendere sul piano logico e degli interessi, e in questo Maria Teresa ha ragione, per quale motivo la Corte confermi la scelta del Jobs Act di sottrarre ad ogni ipotesi di reintegra i licenziamenti collettivi.
V. A. Poso. Qual è, in proposito, l’opinione di Andrea Morrone?
A. Morrone. Personalmente penso che la disciplina del Jobs Act sia stata manipolata dalla giurisprudenza in maniera profonda e, data la sua casualità e frammentarietà, che questa giurisprudenza abbia aumentato i margini di incertezza e di irrazionalità del diritto vivente. Gli appelli del giudice delle leggi, per una razionalizzazione della disciplina, sono importanti, ma non devono fare dimenticare quel dato, oltre al fatto che un giudice, neppure quello costituzionale, può sostituirsi al legislatore rappresentativo, né tantomeno imporgli di intervenire sulla base delle sue sollecitazioni. Come dirò più avanti, nel nostro caso questi ripetuti interventi manipolativi sul Jobs Act e sulla disciplina dei licenziamenti illegittimi non solo hanno cambiato la sostanza della disciplina vigente, ma hanno giocato anche un ruolo centrale nella valutazione di ammissibilità del referendum sul d.lgs. n. 23/2015. Il punto è capire in che senso lo hanno fatto.
V. A. Poso. Come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria sul Jobs Act? Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito è che “Il lavoro deve essere tutelato perché è un diritto costituzionale”. L’abrogazione totale del Jobs Act tutela in misura maggiore i lavoratori e realizza un mercato del lavoro più equilibrato?
M. T. Carinci. A mio parere la richiesta referendaria, ove accolta, avrebbe innanzitutto il pregio di ricondurre a maggiore ragionevolezza un sistema di tutele del licenziamento che, come ho già sottolineato, pur dopo le pronunce della Corte costituzionale, è ancora fortemente squilibrato e contraddittorio. Tutti i lavoratori, infatti, risulterebbero soggetti ad un’unica disciplina, diversificata al suo interno solo in ragione del tipo di licenziamento irrogato (individuale o collettivo) e delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro (piccolo o medio-grande) senza il discrimen costituito dalla data di assunzione. Peraltro, come già detto, sarebbe oltremodo opportuno che il legislatore - non solo a fronte del Jobs Act, ma anche dell’art. 18 St.lav. - ripensasse il criterio discretivo del numero dei dipendenti, assolutamente non più adeguato, oggi, per modulare le tutele fra piccoli e grandi datori di lavoro.
È difficile, tuttavia, dare una risposta secca alla domanda se l’abrogazione del Jobs Act comporti un miglioramento delle tutele nella prospettiva dei lavoratori. Considerando le singole disposizioni il risultato che emerge infatti è “in chiaroscuro”, dunque non esclusivamente migliorativo, ma in parte anche peggiorativo per i lavoratori rispetto alla disciplina attualmente vigente; se invece si pongono a confronto nel loro complesso i due sistemi normativi (il D. Lgs. 23/2015, da una parte, e l’art. 18 St.lav. e la l. 604/1966, dall’altra) il risultato finale mi sembra decisamente favorevole per i lavoratori.
Volendo però esaminare la situazione nel dettaglio, se si guarda ai lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro medio-grandi il risultato finale conseguente all’abrogazione del Jobs Act appare a mio parere, nel complesso, migliorativo in conseguenza della riespansione della tutela reale. Infatti, i lavoratori non solo godrebbero in caso di licenziamento nullo della tutela reale piena come del resto già oggi accade (a seguito di C. Cost. 22/2024), ma beneficerebbero altresì della tutela reale attenuata (a differenza di quanto previsto dal Jobs Act) sia in ogni ipotesi licenziamento privo di g.m.o. di tipo economico (inclusa l’ipotesi di mancato rispetto del cd. obbligo di repêchage), sia - senza che si possano porre dubbi di sorta, v. C. Cost. 129/2024 - in caso di licenziamento disciplinare posto in essere in violazione di clausole del codice disciplinare pattizio che prevedano sanzioni conservative (siano esse elastiche o puntuali). Tuttavia, al contempo, quei lavoratori non godrebbero più della tutela reale piena nel caso di licenziamento irrogato in violazione dell’art. 2110 c.c. o per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore perché, a differenza del Jobs Act, l’art. 18 St.lav. in questi casi prevede testualmente la sola tutela reintegratoria attenuata.
Viceversa, nelle altre ipotesi di licenziamento individuale ingiustificato passibili della sola tutela economica, l’importo dell’indennità è più cospicuo nel Jobs Act (fra 6 e 36 mensilità) rispetto all’art. 18 St.lav. (fra 12 e 24 mensilità), almeno nel suo importo massimo. La norma statutaria, però, confina la tutela indennitaria nel caso del licenziamento ingiustificato in ipotesi del tutto residuali (nel licenziamento individuale plurimo per motivo economico nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta; nel licenziamento disciplinare quando l’inadempimento sussista e però non risulti violata una clausola, elastica o puntuale, del contratto collettivo che contempli una sanzione conservativa), cosicché la diminuzione dell’importo massimo dell’indennità che ne conseguirebbe appare ampiamente compensato dall’espandersi dell’area della tutela reintegratoria.
Quanto ai vizi di motivazione (esclusa l’ipotesi di assenza di motivazione che dà luogo in ogni caso alla tutela reale piena) e di procedura, l’art. 18 St.lav. contempla una tutela indennitaria più alta nel minimo (fra 6 e 12 mensilità) rispetto a quella prevista dal Jobs Act (fra 2 e 12 mensilità).
Se si considera poi la tutela prevista per i lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro di più piccole dimensioni, l’applicazione della l. 604/1966 conseguente all’abrogazione del Jobs Act comporterebbe un innalzamento dell’importo massimo dell’indennità nel caso di licenziamento ingiustificato (fino a 14 mensilità in dipendenza dell’anzianità del lavoratore, contro le 6 mensilità massime previste dall’art. 9 D. Lgs. 23/2015), mentre il licenziamento affetto da vizi procedurali - in particolare per violazione dell’art. 7 St.lav. - dovrebbe a rigore essere considerato nullo con applicazione della tutela reale di diritto comune. Anche per i datori di lavoro di piccole dimensioni, dunque, l’abrogazione del Jobs Act comporterebbe un innalzamento delle tutele per i lavoratori.
Una notazione merita anche la disciplina applicabile ai lavoratori alle dipendenze di aziende di tendenza, che viceversa vedrebbero un peggioramento delle tutele loro riconosciute: mentre oggi infatti sono soggetti alla disciplina generale applicabile a tutti i datori di lavoro (art. 9, c. 2, D. Lgs. 23/2015) con l’abrogazione del Jobs Act potrebbero godere unicamente della tutela indennitaria prevista dall’art. 8 l. 604/1966 (ex all’art. 4 l. 108/1990).
Infine, con riferimento alla disciplina prevista in materia di licenziamenti collettivi, l’accoglimento del quesito referendario comporterebbe l’applicazione a tutti i lavoratori della tutela reale nel caso di violazione dei criteri di scelta; viceversa, la violazione delle procedure determinerebbe il riconoscimento di una indennità che, come per il licenziamento individuale, è (almeno nel massimo) meno cospicua (v. supra).
Alla luce di tutto ciò mi pare di poter concludere che, nel complesso, la riespansione della tutela reale e gli importi più cospicui della tutela indennitaria prevista per i piccoli datori di lavoro garantiscano effettivamente ai lavoratori una maggiore tutela.
D’altronde un assetto assolutamente coerente della disciplina dei licenziamenti non può certo essere raggiunto tramite lo strumento del referendum abrogativo - che ha il differente compito di premettere l’espressione della volontà popolare su temi che toccano da vicino la vita dei cittadini; spetta al legislatore.
B. Caruso. Mi limito a rispondere con una breve considerazione. Con tutti i distinguo sottili di Maria Teresa appare evidente come l’abrogazione del Jobs Act lungi da semplificare, razionalizzare e rendere sistematico il quadro normativo e quindi tutelare il lavoro, aggiungerebbe altre dosi di complessità a quanto già procurato dall’opera di rammendo, ricucitura e dal patchwork di risulta operato dalla Corte.
Già è complicato razionalizzare con una opera accurata e diuturna di riscrittura complessiva dei testi come abbiamo provato a fare come “Gruppo Freccia Rossa”, figuriamoci se possa avere una parvenza di sistematicità una riscrittura affidata al quesito si/no. Tutelare il lavoro come diritto costituzionale attraverso il referendum sul Jobs Act è, allora, esattamente quel che tu dici: uno slogan politico, non una seria opzione regolativa di tutela del lavoro. Il mercato del lavoro, i lavoratori in carne ossa e le stesse imprese, come dicevo all’inizio, hanno da affrontare diversi (la carenza di professionalità e di manodopera) che non uscire dal presunto inferno neoliberista procurato dal Jobs Act. Per non dire che con Trump e le politiche dei dazi, Putin e le sue guerre di annessione e i sovranismi nazional-populisti, la globalizzazione neoliberista e internazionalista è quasi persino da rimpiangere…
V. A. Poso. Passo, ora, ad illustrare, anche a beneficio dei lettori, l’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024, che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito dell’intero d.lgs. n. 23/2025, nel testo vigente, tenuto conto delle modifiche apportate dal legislatore e delle pronunce della Corte Costituzionale, di cui abbiamo detto sopra. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito è stato assegnato il seguente titolo sintetico, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Contratto di lavoro a tutele crescenti- disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione”.
L’Ufficio Centrale per il Referendum ha rilevato - a me pare correttamente - che non sussiste la condizione ostativa prevista dall’art. 38 della l. n. 352 del 25 maggio 1970, in ragione della riproposizione del quesito referendario già dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 27 gennaio 2017, n. 26, « posto che il citato articolo limita, per il periodo di cinque anni, la possibilità di promuovere nuovamente la medesima iniziativa referendaria solo nel caso in cui i cittadini si siano effettivamente espressi per il mantenimento della normativa sottoposta al loro sindacato, ovvero nell’ipotesi in cui la consultazione abrogativa sia risultata invalida ai sensi dell’art. 75, quarto comma, Cost. (n.d.r.: che ritiene necessari i requisiti del voto espresso dalla maggioranza degli aventi diritto e della maggioranza dei voti validamente espressi, limitazioni entrambe non presenti nel caso di specie (vd. ordinanze dell’Ufficio Centrale per il Referendum dell’11 dicembre 1996 e del 7 dicembre 1999, in ipotesi di quesiti referendari dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale)».
M. T. Carinci. Si tratta, anche a mio avviso, di conclusioni assolutamente lineari e condivisibili.
B. Caruso. Credo che il dato della legittimità della richiesta referendaria sia ormai in ogni caso tratto, perché ci apprestiamo a votare o a non votare, esprimendo la scelta che la Costituzione e la legge ci riservano come elettori. Per i commenti tecnici dell’ordinanza mi affido alle risposte dei colleghi giuscostituzionalisti.
A. Morrone. Quella dell’Ufficio Centrale per il Referendum è una precisazione del tutto superflua, nel caso di specie. Il quesito promosso dalla Cgil nel 2016 non solo non era formalmente identico a quello presente (che riguarda integralmente il d.lgs. n. 23/2015) ma, soprattutto, non aveva superato il giudizio di ammissibilità (sent. n. 26/2017). Quindi la fattispecie era totalmente diversa, rispetto a quella descritta dall’art. 38, l. n. 352/1970, che, appunto, si riferisce a un referendum celebrato e all’esito confermativo della disciplina sottoposta al voto, nella cui circostanza è vietata la ripresentazione della “medesima” domanda di abrogazione popolare. Perché sia stata fatta quella precisazione dall’Ufficio Centrale per il Referendum è incomprensibile: forse per dire che il quesito presente non è il medesimo quesito precedente? Cosa del tutto ovvia.
V. A. Poso L’Ufficio Centrale per il Referendum, a pag. 5 e ss. della sua ordinanza, ha dato correttamente conto di tutti gli interventi di modifica e integrazione, normativi e costituzionali, successivi alla emanazione del decreto legislativo oggetto della richiesta di abrogazione, al fine di procedere alla verifica della vigenza del testo sottoposto a referendum abrogativo (è del tutto evidente e scontato che si tratti di atto avente forza di legge, rientrante, per sua natura, nella previsione dell’art. 75, Cost. (nell’ordinanza viene richiamata la pronuncia della Corte Costituzionale n. 251 del 22 dicembre 1975), compito ad esso spettante ai sensi di quanto previsto dall’art. 32, l. n. 352/1970 (in tal senso anche Corte Cost. n. 251/1975 sopra citata). Vi chiedo se la Corte di Cassazione ha bene interpretato e applicato l’art. 39, l.cit., alla luce anche della pronuncia della Corte Costituzionale 17 maggio 1978, n. 68, tenuto conto che la richiesta referendaria ha ad oggetto il d. lgs. n. 23/2015 nel testo originario.
M. T. Carinci. A mio parere la Corte di Cassazione ha ben interpretato l’art. 39 l. 352/1970 dal momento che il quesito referendario mirava sì all’abrogazione della versione originaria del D. Lgs. 23/2015, tuttavia il testo oggi vigente - quale risultante dalle modifiche normative successivamente intervenute e dalle pronunce della Corte costituzionale sopra richiamate - non costituisce una disciplina nuova. Essa, infatti, ricalca (come riconosciuto da C. Cost. 68/1978) gli stessi principi ispiratori e gli stessi contenuti essenziali dei singoli precetti del testo originario: il Jobs Act, nella versione originaria ed in quella oggi vigente, limita la tutela reale e ridimensiona quella indennitaria (v. Cass. Ufficio centrale del referendum, ord. 12 dicembre 2024). Per tutte queste ragioni ritengo che la Corte di Cassazione correttamente abbia ritenuto legittimo il quesito referendario pur se volto ad abrogare il testo originario del Jobs Act.
B. Caruso. Anche su questo mi affido ai commenti dei colleghi giuscostituzionalisti, in ogni caso non mi pare che si possa far marcia indietro anche a non essere d’accordo con quel che dice Maria Teresa.
A. Morrone. La legge n. 352/1970 affida all’Ufficio Centrale per il Referendum il compito di verificare – oltre al numero delle sottoscrizioni necessarie per sostenere una richiesta abrogativa – la “vigenza” della disciplina oggetto della domanda. In linea di principio possono essere oggetto di abrogazione popolare solo “leggi vigenti”; non avrebbe senso sottoporre a referendum abrogativo una legislazione già abrogata. Dico in linea di principio, perché, come sappiamo, v’è almeno un precedente in cui il contenuto di tale regola non è stato seguito: mi riferisco al referendum promosso dal Partito comunista – l’unico presentato da quel partito politico nella storia dell’istituto – sulla “scala mobile”, che aveva ad oggetto una disciplina non vigente (perché il “taglio” cui si riferiva l’abrogazione popolare del cd. decreto di San Valentino riguardava i punti di contingenza già riconosciuti: sent. n. 35/1985).
Il controllo sulla vigenza della legge si è affermato in via di prassi. Esso riguarda modifiche giuridiche relative alle disposizioni oggetto della domanda popolare. Nel concetto di “modifica giuridica” vanno ricomprese sia – com’è ovvio – quelle derivanti da atti legislativi successivi all’entrata in vigore delle norme oggetto del quesito, sia fatti normativi che possono essere considerati analoghi negli effetti caducatori a quelli di un atto legislativo. In quest’ultima categoria, per prassi della giurisprudenza dell’Ufficio Centrale per il Referendum, vi cadono le decisioni di accoglimento della Corte costituzionale: la motivazione deriva dall’art. 136 Cost., laddove la previsione della nostra Carta fondamentale stabilisce, com’è arcinoto, che le pronunce di accoglimento producano l’effetto della cessazione dell’applicazione delle disposizioni dichiarate contrarie alla Costituzione (ex tunc, con le note eccezioni, derivanti dall’art. 30, l. n. 87/1953, come interpretato e applicato dalla giurisprudenza costituzionale unanime).
Ora, ogni qualvolta l’Ufficio Centrale per il Referendum riscontra che le disposizioni inserite nel quesito referendario siano state interessate da fenomeni di ius superveniens deve verificarne la perdurante vigenza. Se abrogate o dichiarate illegittime, detto Ufficio deve stabilire se esiste ancora un oggetto della richiesta referendaria e dichiarare in caso di esito positivo, in tutto o in parte, la cessazione delle operazioni referendarie. A questo proposito sorgono diversi problemi.
Il primo riguarda l’esile disciplina positiva di questo potere dell’Ufficio centrale per il Referendum. L’art. 32 non ne fa menzione, limitandosi a parlare e della correzione di eventuali “irregolarità” e della possibile “concentrazione” delle richieste referendarie che, nella medesima tornata, avessero il medesimo contenuto (letteralmente “uniformità o analogia di materia”). L’art. 39, invece, si riferisce alla “cessazione delle operazioni referendarie” susseguenti alle sole novelle legislative sopravvenute fino alla “data di svolgimento del referendum”, senza menzionare atti assimilabili, come le sentenze di accoglimento della Corte.
Su questa disposizione è intervenuta la sentenza manipolativa della Corte costituzionale (n. 68/1978) che ha stabilito, in via pretoria, l’importante regola secondo la quale non qualsiasi modifica sopravvenuta determina la cessazione delle operazioni, ma solo quelle che ne modificano i principi ispiratori o i contenuti essenziali dei singoli precetti. Se la novella non ha queste caratteristiche, l’Ucr opera il “trasferimento” del quesito dalle originarie disposizioni a quelle successive abrogative, ma solo formalisticamente e non materialmente, di quelle inserite ab origine nella domanda popolare.
La giurisprudenza dell’Ucr si è mossa in modo ondivago. Non distingue, come andrebbe fatto, tra novelle precedenti il deposito in Cassazione della richiesta referendaria (corredata delle sottoscrizioni o delle delibere regionali necessarie a sostenerla) e novelle intervenute dopo il medesimo deposito. Nel primo caso, è onere dei promotori farsi carico di formare un quesito referendario su una “legge vigente”, tenendo conto di tutte le modifiche nel frattempo intervenute (non potendosi ritenere afferente alla mera “irregolarità” la mancata menzione di novelle legislative o addirittura sentenze di accoglimento che hanno modificato il contenuto della disciplina positiva interessata dall’abrogazione popolare).
Nel secondo caso, poiché le novelle intervengono quando il procedimento di controllo è ormai avviato, grazie al deposito di una richiesta formale in Cassazione, esse sfuggono alla responsabilità dei promotori, per dipendere integralmente dall’autore della novella o dalla giurisprudenza: qui andrebbe applicato l’art. 39 della legge n. 352/1970. L’Ucr, in secondo luogo, non distingue tra novella legislativa e sentenza di accoglimento della Corte costituzionale: l’una e l’altra possono determinare la cessazione delle operazioni referendarie o la correzione del quesito. Quando corregge il quesito nella fase immediatamente successiva al deposito della richiesta, di fronte allo ius superveniens (precedente lo stesso deposito e non considerato dai promotori), si limita a riscriverlo, se l’intervento modificativo non elimina l’oggetto della domanda, facendo riferimento alle “successive modificazioni” intervenute per via legislativa (indicando gli estremi nel quesito), o i termini di riconoscimento delle sentenze manipolative della Corte costituzionale. Il trasferimento è dichiarato allorché le novelle legislative e giurisprudenziali sono intervenute dopo l’ordinanza dello stesso Ucr dichiarativa della legittimità di una richiesta referendaria, nella fase che va da quel momento sino alla “data di svolgimento” del referendum.
Detto tutto ciò, in questa tornata, l’Ucr ha arricchito la sua giurisprudenza con un nuovo “primo” precedente. Nell’ordinanza sul regionalismo differenziato (12 dicembre 2024), l’Ucr ha ritento di dover dichiarare la cessazione delle operazioni referendarie con riferimento al quesito parziale della legge n. 86/2024, per effetto di una pronuncia interpretativa di rigetto, contenuta nel lunghissimo dispositivo della sent. n. 192/2024 della Corte costituzionale.
Il fatto singolare è che l’Ucr ha ritenuto “vincolante”, al pari di una decisione di accoglimento, parificandone anche gli effetti positivi, l’affermazione secondo la quale, la devoluzione delle competenze statali a favore della regione richiedente in una materia “no-Lep” alla sola condizione che le stesse non riguardassero diritti fondamentali (civili o sociali), perché, come riconosciuto in linea di principio dalla Consulta, nessuna devoluzione è possibile senza previa definizione dei Lep da parte dello Stato se le singole funzioni trasferibili interessino un diritto fondamentale.
Qui l’Ucr ha ritenuto pienamente soddisfatto il quesito referendario parziale, che chiedeva di abrogare la previsione sulle materie “no-Lep”, che la legge n. 86/2024 sottraeva dall’applicazione della regola generale sulla determinazione previa dei Lep nei soli casi previsti dalla legge stessa.
Al di là della questione di merito, il fatto nuovo sta proprio nella circostanza, mai vista prima, dell’equiparazione, ai fini della verifica della “legge vigente”, di una decisione interpretativa di rigetto alla sentenza di accoglimento. La cosa singolare è che, nella stessa ordinanza, l’Ucr aveva ritenuto legittima e, quindi, sottoponibile al voto il referendum totale sulla legge n. 86/2024, argomentando che, nonostante l’ingente intervento demolitorio della Consulta, permanesse un “contenuto minimo” normativo che giustificava il permanere della legge, consentendone la sottoposizione al voto popolare.
Come sappiamo, però, la Consulta nella sent. n. 10/2025 ha avuto un’opinione esattamente opposta a quella dell’Ufficio Centrale per il Referendum, ritenendo, dal punto di vista materiale, che ciò che rimaneva della legge n. 86/2024, dopo la sua decisione n. 192/2024, fosse insuscettibile di essere sottoposto al voto popolare, perché il quesito era diventato oscuro, tale da confondere l’espressione del voto. A suo dire (ma in maniera del tutto implausibile), s’è aggiunto che il referendum era divenuto una sorta di plebiscito sulla previsione costituzionale stessa, disciplinante l’autonomia differenziata (l’art. 116.3 Cost.). Cosa, quest’ultima, che rendeva inammissibile la domanda popolare, perché sull’an di quella disposizione, l’unico procedimento attivabile avrebbe dovuto essere la revisione costituzionale della prescrizione.
Nel caso del referendum sul Jobs Act, inoltre, va ricordata un’altra circostanza: le modifiche operate dalla legislazione successiva e, soprattutto, dalla stessa giurisprudenza costituzionale, avevano una portata innovativa notevole. La Corte costituzionale aveva sostanzialmente riscritto il Jobs Act, rovesciandone il criterio di base (l’automatismo legale fondato sul solo indice dell’anzianità), adeguando la disciplina secondo il criterio del parallelismo delle tutele tra licenziamento discriminatorio e per ragioni economiche. La situazione, da questo punto di vista, era molto prossima a quella della disciplina dell’autonomia differenziata, riscritta dall’unica sent. n. 192/2024. Tutto questo non ha avuto rilievo nel giudizio di ammissibilità: nel caso del d. lgs n. 23/2015 la Consulta ha ritenuto ammissibile il voto, nonostante le modifiche apportate alla disciplina dal legislatore e dalla sua stessa giurisprudenza; e, va aggiunto, nonostante la disomogeneità contenutistica delle tutele apprestate dal Jobs Act nelle diverse situazioni (come dalla Consulta stessa rilevato, ma ritenuto del tutto irrilevante). Ha, viceversa, dichiarato inammissibile il referendum sull’autonomia differenziata, ritenendo che la propria sentenza avesse sostanzialmente modificato oggetto e finalità della legge n. 86/2024, rendendo, come detto, non chiaro e diverso il contento della domanda popolare.
Due pesi e due misure, per situazioni sostanzialmente analoghe.
V. A. Poso. Bisogna, allora, fare un passo indietro ed entrare nel merito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 26/2017, sopra richiamata, che ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo dell’intero d. lgs. n. 23/2015 oltre che di plurime disposizioni dell’art. 18, st. lav.
M. T. Carinci. A me pare che il quesito referendario oggi proposto sia molto diverso rispetto a quello dichiarato inammissibile da C. Cost. 26/2017.
Allora la domanda referendaria mirava, infatti, all’abrogazione non solo dell’intero D. Lgs. 23/2015, ma anche di parole, frasi, commi contenuti nell’art. 18 St.lav. nell’intento non solo di eliminare dal sistema la disciplina del Jobs Act, ma anche (interpolandone il testo) di ampliare la tutela reale prevista dalla norma statutaria ben oltre il suo ambito di applicazione originario con riferimento sia ai lavoratori coinvolti, sia alle fattispecie considerate sia, soprattutto, ai datori di lavoro di più piccole dimensioni. Proprio alla luce di ciò C. Cost. 26/2017 ritenne allora inammissibile quel quesito, considerandolo in primo luogo non abrogativo, ma propositivo (poiché, tramite l’utilizzo della tecnica del “ritaglio” di parti dell’art. 18 St.lav., mirava ad introdurre nel sistema norme non previste) e ritenendolo in secondo luogo non univoco né omogeneo (dal momento che unificava e sovrapponeva al suo interno questioni diverse - quali l’espansione della tutela reale a: diversi gruppi di lavoratori id est “vecchi” e “nuovi assunti”; un novero più ampio di vizi del licenziamento; datori di lavoro di minori dimensioni - con la conseguenza di coartare la libertà dell’elettore costretto ad esprimere un voto bloccato su tematiche non sovrapponibili).
Il quesito referendario oggi proposto - che chiede l’abrogazione di un unico testo normativo: il D. Lgs. 23/2015 nella sua interezza -, al contrario mi pare unicamente abrogativo, omogeneo e coerente se è vero che mira alla integrale abrogazione del Jobs Act, cioè di quel testo normativo che ha ridotto le tutele per il licenziamento viziato per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Nel caso di approvazione del quesito referendario si riespanderà, dunque, la disciplina attualmente vigente per i soli dipendenti assunti fino al 7 marzo 2015, cioè l’art. 18 St.lav. e la l. 604/1966, che diverrà applicabile a tutti i lavoratori a prescindere dalla data di assunzione.
B. Caruso. Sono d’accordo con le considerazioni di Maria Teresa, il quesito di oggi è molto più chiaro e conforme con la disposizione costituzionale, che presuppone che esso sia tale da rendere evidente all’elettore da dove si parte (il quadro vigente) e dove si vuole arrivare con l’abrogazione (l’effetto di risulta). Il quesito del 2017 era “furbo”, non solo poco chiaro. Si voleva riscrivere il sistema attraverso una, comprensibile solo agli esperti, operazione di taglio, cucito e ricamo, degno di una sartoria di pizzi e merletti giuridici e non di una consultazione popolare. Si mirava ad un abito sartoriale di haute couture di rigidità garantista e ben ha fatto a suo tempo la Corte costituzionale ad impedirlo.
A. Morrone. Come ricordato, il quesito Cgil promosso nel 2016 era diverso non solo contenutisticamente, ma anche formalmente. Aveva una portata fortemente manipolativa perché pretendeva, attraverso un chirurgico ritaglio di singole parole, di applicare a tutte le imprese con più di cinque dipendenti (come le agricole) il rimedio della reintegra. Un classico caso di “taglia e cuci” non vietato in generale, ma inammissibile – stando alla giurisprudenza costituzionale pregressa (come detto nella sent n. 36/1997) – allorché tenda a costruire una disposizione del tutto artificiosa, frutto della manipolazione referendaria e non della “espansione” di una regola positiva già esistente nella legislazione vigente, la cui applicazione derivi automaticamente (per i noti fenomeni di auto-integrazione dell’ordinamento giuridico) dall’abrogazione popolare.
Nella fattispecie, il quesito pretendeva di applicare a tutte le imprese la regola speciale valevole solo per le agricole (ipotesi, questa, del tutto singolare nella stessa giurisprudenza sui referendum abrogativi).
Va ricordato, anche, che, l’esito del giudizio, è stato traumatico, portando alla rinuncia, da parte della giudice relatrice, Silvana Sciarra, al compito di redigere la motivazione assunta dalla maggioranza del Collegio, scritta, invece, da Giorgio Lattanzi. Il quesito, allora, era nettamente diverso da quello promosso, in passato, dall’estrema sinistra, che pretendeva, invece, di abrogare qualsiasi criterio dimensionale al fine di generalizzare la reintegra a tutte le imprese (comprese le piccole). Soluzione, questa, che la Corte costituzionale aveva ritenuto ammissibile dal punto di vista della disciplina del referendum abrogativo (sent. n. 41/2003).
V. A. Poso. L’Ufficio Centrale per il Referendum (pagg.16 e 17 dell’ordinanza più volte citata) ha affermato che «la fattispecie razionalmente unitaria, richiamata nel quesito qui in esame (e cioè il principio abrogativo sotteso al procedimento referendario) consista nella intera disciplina del d. lgs. n. 23 del 2015, in attuazione della legge delega n. 183 del 2014, laddove “limita la tutela reale e ridimensiona quella indennitaria soprattutto per i lavoratori con anzianità di servizio non elevata». E in coerenza con questa impostazione il quesito è stato riformulato con riferimento a tutte le fonti, normative e costituzionali, successivamente intervenute, con riferimento a queste ultime, anche dopo il formale deposito della iniziativa referendaria (trattasi della sentenza n. 128/2024, della quale abbiamo detto sopra).
Condividete il percorso motivazionale dell’ordinanza alla quale facciamo riferimento?
A. Morrone. Come ho spiegato in precedenza, la decisione dell’Ufficio Centrale per il Referendum di ritenere legittima la richiesta e di riformulare il quesito è coerente con i suoi precedenti. La verifica sulla vigenza della legge è sempre stata molto superficiale, quindi, non mi stupisce la velocità in cui, pure stavolta, gli Ermellini abbiamo risolto la questione, limitandosi a richiamare le novelle e la giurisprudenza costituzionale intervenuta sulla disciplina del Jobs Act, senza addentrarsi nel dettaglio sui contenuti materiali dello ius superveniens.
In questo caso, come ho precisato sopra, la superficialità dell’Ucr ha facilitato il controllo di ammissibilità della Consulta (sent. n. 12/2025). Anche se, tuttavia, per la Corte costituzionale l’onere di motivazione avrebbe dovuto essere più rigoroso: il giudizio sull’esistenza di una matrice razionalmente unitario è stato basato, esclusivamente, sulla prevalenza della “forma” sulla “sostanza” (l’esatto opposto di quanto fatto nell’inammissibilità del quesito totale sul regionalismo differenziato, dove la “sostanza” ha prevalso sulla “forma”, ma tornerò sul punto).
M. T. Carinci. Non mi sembra ci sia nulla da eccepire al percorso argomentativo dell’ordinanza della Corte di Cassazione: il quesito proposto relativo all’abrogazione integrale del D. Lgs. 23/2015 nel testo originario mirava ad eliminare dal sistema un complesso normativo che nel suo insieme emarginava la tutela reintegratoria e riduceva la tutela indennitaria. Le modifiche in seguito intervenute al testo del Jobs Act, sia quelle operate dalla legge, che quelle conseguenti alle pronunce della Corte costituzionale, non ne hanno intaccato l’impianto di fondo, dal momento che quel testo, oggi come allora, conserva comunque una propria unitarietà, omogeneità ed un proprio comune principio ispiratore (Corte di Cassazione, Ufficio centrale del referendum 11 dicembre 1996) e, cioè, la limitazione della tutela reale a favore di quella obbligatoria e la riduzione di quest’ultima (come ho già cercato di porre in luce rispondendo alla domanda 8).
B. Caruso. Non concordo con il giudizio di Maria Teresa e ho già detto pure perché. Dopo le manipolazioni subite, il Jobs Act è ridotto a una tigre di carta neoliberista se mai si dovesse ritenere che sia stata quella l’ideologia originaria dei redattori del testo normativo. Dopo gli interventi ortopedici delle Alte Corti, la verità è che nel sistema attuale non si sa quale sia la regola e quale l’eccezione rimediale, anzi a volte domina l’incertezza pura e semplice di quale sia la regola da applicare e come.
Il referendum non risolve alcun problema; aggiungo che rischia di screditare ulteriormente questo strumento di democrazia diretta se ancora una volta si dovesse arrivare a un nulla di fatto per mancato raggiungimento del quorum di validità. Tale risultato costituirebbe un bell’assist a chi intende oggi, da altri punti di vista, screditare gli istituti procedurali della democrazia classica, in questo caso quella diretta. Servirebbe, invece, una riscrittura del Parlamento, mirata alla semplificazione e alla razionalizzazione sistemica della disciplina.
V. A. Poso. Con la sentenza n. 12 del 7 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione del Jobs Act relativo ai licenziamenti illegittimi approvato con il D. Lgs n. 23/2015, nel testo che risulta vigente all’esito delle modifiche legislative e delle pronunce della Stessa Corte, così come stabilito dall’Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte di Cassazione.
Dopo aver delineato la cornice normativa di riferimento, questa è l’argomentazione centrale della Corte Costituzionale: «L’odierno quesito referendario […] punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente: la disciplina dettata dal suddetto decreto legislativo si è affiancata a quella dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dando così luogo a «un duplice e parallelo regime» (sentenza n. 44 del 2024).
L’effetto innovativo sulla disciplina vigente, connaturale alla abrogazione referendaria, consisterebbe quindi nella «fisiologica espansione della sfera di operatività» (sentenza n. 50 del 2000) di norme già presenti nell’ordinamento, tuttora vigenti, anche se compresse, per effetto della applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum, su un ambito di efficacia limitato ai soli licenziamenti individuali dei lavoratori già in servizio alla data del 7 marzo 2015».
Quali sono le Vostre osservazioni, di carattere generale, in merito? È, quella di ammissibilità, una pronuncia attesa?
A. Morrone. Nella sent. n. 12/2025, all’esito di una ricostruzione del quadro normativo complesso, il Jobs Act viene connotato come una nuova disciplina della materia, rispetto alla “riforma Fornero”, all’art. 18 e alla legge n. 604/1966 (dando conto di una stratificazione normativa tra discipline applicabili a seconda di un differente “tempo giuridico”). Si sottolinea, in aggiunta, la disomogeneità materiale del Jobs Act in ragione dei contenuti della tutela, diversificata mediante un giudizio di valore in melius e in peius rispetto alla previgente disciplina.
Su questi due punti la motivazione presenta un cortocircuito argomentativo.
La sent. n. 12/2025 ha escluso l’esistenza di cause di inammissibilità del quesito. In particolare, l’oggetto non era né una disciplina “costituzionalmente necessaria” o “a contenuto costituzionalmente vincolato”, né priva di una “matrice razionalmente unitaria”. In entrambe le evenienze, era necessario vincere la prova opposta: si doveva, per un verso, dimostrare che l’eventuale abrogazione non avrebbe esposto il lavoratore a “una lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro” e, per altro verso, superare l’obiezione che la domanda avesse un contenuto eterogeneo proprio perché la disciplina recava tanto un “arretramento” quanto un “ampliamento” delle tutele.
Sul primo punto si afferma – vale la pena riportare il passo integrale – che il quesito “punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente: la disciplina dettata dal suddetto decreto legislativo si è affiancata a quella dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dando così luogo a «un duplice e parallelo regime» (sentenza n. 44 del 2024). L’effetto innovativo sulla disciplina vigente, connaturale alla abrogazione referendaria, consisterebbe quindi nella «fisiologica espansione della sfera di operatività» (sentenza n. 50 del 2000) di norme già presenti nell’ordinamento, tuttora vigenti, anche se compresse, per effetto della applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum, su un ambito di efficacia limitato ai soli licenziamenti individuali dei lavoratori già in servizio alla data del 7 marzo 2015”.
Sul secondo punto, la Corte ricorda che l’art. 75 Cost. permette “l’abrogazione anche totale”, compresa “anche la possibilità che il referendum investa un testo articolato e complesso, ed escludendo di conseguenza che tali caratteri di un atto siano pregiudizialmente motivo di inammissibilità del quesito”. Riconoscere che, nel caso, esiste una matrice razionale unitaria equivale ad ammettere che sussiste una finalità unitaria, “mirante all’abrogazione di un corpus organico di norme e funzionale alla reductio ad unum, senza più la divisione tra prima e dopo la data del 7 marzo 2015, della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, con la riespansione della disciplina pregressa, valevole per tutti i dipendenti, quale che sia la data della loro assunzione”.
Individuato il verso dell’abrogazione popolare, è stato possibile superare la contraddizione interna al Jobs Act laddove prevede tanto un “arretramento di tutela” quanto un “ampliamento delle garanzie per i lavoratore”. Detta circostanza, infatti, “non assume una dimensione tale da inficiare la chiarezza, l’omogeneità e la stessa univocità del quesito”, perché la domanda “chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua articolata formulazione” (enfasi non testuale). Il fine unitario giustificherebbe, quindi, il risultato di un abbassamento dei livelli di protezione. La Corte lo spiega così: i limiti costituzionali al referendum (impedire, da un lato, “la distorsione in senso plebiscitario del precipuo strumento di democrazia diretta contemplato dalla Costituzione”; e, dall’altro, “l’incisione sulla libertà del voto dell’elettore, che potrebbe maturare «convincimenti diversi» rispetto a una pluralità di questioni profondamente difformi e insuscettibili di essere ricondotte ad unità”) “non precludono l’abrogazione totale di un testo normativo che contempla soluzioni differenti (…) qualora rimanga comunque salvaguardato un nesso di coerenza tra il mezzo e il fine referendario” (enfasi non testuali).
Come si evince, in definitiva, la Corte ha ammesso che, in tale caso, la forma prevale sulla sostanza: se il quesito presenta una matrice razionale unitaria – l’abolizione di un intero corpus normativo – non rileva la materiale diversità delle garanzie apprestate nelle fattispecie astratte.
Il risultato è, quindi, esattamente opposto a quello conseguito dalla sent. n. 10/2025 sull’autonomia differenziata. Lì la sostanza ha prevalso sulla forma e per tale ragione la decisione è stata di inammissibilità. Qui, viceversa, nessun rilievo ha avuto la circostanza che la disciplina dei licenziamenti del JA fosse stata più volte modificata successivamente, soprattutto da parte della Consulta stessa (l’ultima delle pronunce sul Jobs Act, la sent. n. 128/2024, è stata pubblicata nello stesso tempo del deposito della richiesta, avvenuta il 19 luglio 2024, mentre la decisione è stata pubblicata sulla G.U. il 17 luglio, quindi, sono “coeve”) E non s’era trattato di modifiche di contorno, ma di aggiustamenti sostanziali che, per utilizzare il medesimo giudizio di valore della Consulta, sono andate verso un “avanzamento” delle tutele, la cui abrogazione, a rigor di logica, avrebbe comportato un loro “arretramento”.
Una nutrita giurisprudenza costituzionale, come abbiamo ricordato, aveva ridefinito i contenuti materiali del Jobs Act, se non di più, almeno altrettanto incisivamente come la sent. n. 192/2024 aveva fatto sulla “legge Calderoli”. Come detto, la sent. n. 194/2018 aveva svuotato la nota essenziale della “riforma Renzi”, rovesciando il criterio legale di determinazione dell’indennizzo, passato da un meccanismo automatico (la sola anzianità di servizio), ad uno discrezionale (la valutazione caso per caso del giudice sulla base di plurimi criteri oltre l’anzianità), ritenuto più adeguato a Costituzione. Le pronunce intervenute dopo quella decisione di riferimento hanno seguito una stessa linea demolitrice, modificando profondamente la disciplina del d.lgs. n. 23/2015. Ciò nonostante, la Consulta ha dato rilievo differente a questo ius superveniens nei due casi comparati. Sia detto per chiarezza. Sottolineare questi profili mi serve per mettere in evidenza le aporie argomentative e la disomogenea valutazione di due referendum molto simili per la comune confluenza, sull’oggetto del quesito, di norme positive e di norme giurisprudenziali. Non voglio, cioè sostenere che anche il referendum sul JA fosse inammissibile. Era, come correttamente riscontrato, pienamente ammissibile, solo che, a mio giudizio, era ammissibile anche quello sul regionalismo differenziato che, però, la Corte costituzionale ha ritenuto di non sottoporre al voto popolare.
M. T. Carinci. La posizione assunta oggi da C. Cost. 12/2025 nel dichiarare ammissibile il referendum non mi ha sorpreso. I soggetti promotori, memori della dichiarazione d’inammissibilità da parte di C. Cost. 26/2017, hanno attentamente ed opportunamente formulato l’attuale quesito, che risulta omogeneo, coerente, chiaro. Esso, infatti, chiede l’abrogazione integrale del D. Lgs. 23/2015, disciplina applicabile solo ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015; ne consegue, come giustamente ritiene la Corte costituzionale, che la sua abrogazione non determinerà la reviviscenza di norme abrogate, ma la mera espansione del campo di applicazione di norme attualmente vigenti, cioè l’art. 18 St.lav. e la l. 604/1966.
B. Caruso. Confermo quanto detto in precedenza. Il quesito attuale è molto più chiaro e meno subliminale o furbo di quello precedente, ma l’effetto che ne deriverebbe con riguardo alla disciplina rimediale del recesso non aiuterebbe a risolvere i nodi ancora da sciogliere.
V. A. Poso. La Corte Costituzionale ( richiamando anche la sentenza n. 56 del 2022) ha ricordato, nelle sentenze pronunciate il 7 febbraio 2025 che il referendum abrogativo non si deve trasformare «– insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (v. sentenza n. 16 del 1978, richiamata nella sentenza n. 56 del 2022), trattandosi di «un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può “introdurre una nuova statuizione, non ricavabile dall’ordinamento” referendum ex se (v. sentenza n. 36 del 1997)».
Ritenete rispettato questo limite?
A. Morrone. Su questo punto la giurisprudenza costituzionale è molto oscillante e impossibile da riassumere anche perché ondivaga e contraddittoria. Il principio generale è che il referendum sia diretto all’abrogazione totale o parziale di leggi e atti aventi forza di legge. Fuori quadro dovrebbe essere qualsiasi consultazione popolare che non avesse queste caratteristiche, senza necessariamente arrivare al “plebiscito” (la cui configurazione astratta è molto controversa), escludendo pure referendum “propositivi” (che, pure, sono molto ambigui: in che senso una domanda è “propositiva”?). Ma questo contenuto minimo costituzionale (la lettera dell’art. 75.2 Cost.) è stato riscritto in concreto dalla giurisprudenza.
La più importante innovazione del diritto vivente è il “quesito manipolativo”, l’abrogazione di disposizioni finalizzata a modificare la legislazione vigente al fine di introdurre una disciplina diversa dalla precedente e in questo senso “nuova”. Del resto, il più attento costituzionalista dei fenomeni normativi aveva notato che anche soltanto “abrogare” implica “innovare”, perché l’abrogazione non equivale a un “non disporre” ma a un “disporre diversamente” (Vezio Crisafulli nelle sue Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, 1984).
La giurisprudenza sui referendum in materia elettorale, dopo una iniziale e problematica chiusura (che non trova nessun appiglio nell’art. 75 Cost.) almeno nei confronti di referendum abrogativi “totali” (sent. n. 29/1987 sulla legge elettorale del Consiglio superiore della Magistratura), aveva ritenuto ammissibili quesiti elettorali al ricorrere di alcune condizioni (sentt. nn. 47/1991 e 32/1993 poi sempre confermate in seguito): 1) che i quesiti fossero necessariamente “parziali”, ovvero su singole disposizioni o frammenti di disposizione (e quindi “manipolativi”); 2) che dall’abrogazione parziale o manipolativa conseguisse necessariamente una “normativa di risulta” di carattere “autoapplicativo” (che, nel caso, fosse sufficiente al rinnovo dell’organo la cui legge elettorale era interessata da una richiesta di abrogazione popolare).
La conseguenza di questa giurisprudenza – estesa a tutti i quesiti parziali o “manipolativi” – è che il referendum da “abrogativo” è (pretoriamente) diventato necessariamente “propositivo”, almeno nel senso che l’abrogazione è in funzione della innovazione normativa. Chi chiede un referendum non vuole solo abolire una disciplina ma (soprattutto) sostituire quella abrogata con un’altra legislazione. Ecco, dunque: la principale responsabile della trasfigurazione del referendum, della sua originaria versione prescritta nell’art. 75 Cost., è stata la Consulta che, per evitare o limitare i referendum elettorali, ha finito per legittimare i referendum manipolativi diretti a introdurre norme mediante l’abrogazione di norme. Da qui la necessità di “correre ai ripari”, ossia la giurisprudenza successiva che esige che il referendum popolare non si trasformi in un “inammissibile” e “distorto strumento di democrazia rappresentativa”. Che il popolo sovrano non possa, mediante un referendum (abrogativo), farsi legislatore rappresentativo è scontato. Quale sia – una volta ammessi dal punto di vista della legittimità costituzionale quesiti parziali e manipolativi – il confine tra legislazione popolare e legislazione rappresentativa è impossibile da stabilire. O, meglio, dipende dalla giurisprudenza costituzionale e dalle sue volubili nuances.
I precedenti ci consegnano degli indici sintomatici, spesso rivisti, aggiustati, modificati e, quindi, tutt’altro che sicuri. Tra questi il criterio della “assoluta” novità della “norma popolare” frutto del ritaglio referendario: assoluta rispetto all’ordinamento vigente e alle sue evoluzioni positive. Non rispetto al materiale normativo esistente nell’ordinamento. Per riprendere il parallelo con il quesito Cgil del 2016, allora la volontà di applicare la reintegra a tutte le imprese commerciali con più di cinque dipendenti come per le imprese agricole è stata ritenuta inammissibilmente diretta a introdurre una regola mai esistita nell’ordinamento dei licenziamenti, attraverso vieppiù l’estensione, del tutto artificiosa, di una previsione speciale sempre riferita alle imprese agricole (in ragione delle specialità dell’organizzazione e dell’attività economica propria di queste ultime).
Nel caso del quesito presente, l’abrogazione del d.lgs. n. 23/2015 ha come obiettivo positivo l’applicazione della disciplina, da esso sostituita a partire dal 7 marzo 2015, dalla “riforma Fornero”. Una legislazione, quest’ultima, non solo esistente (ancorché non applicabile a nuovi assunti dopo quel crinale temporale), ma ritenuta utilizzabile giuridicamente proprio per colmare il “vuoto” conseguente al referendum. Come si vede, anche in questa sent. n. 12/2025, la Corte costituzionale dice che il referendum sul Jobs Act non crea in modo non consentito un vuoto, perché quel vuoto viene colmato con la “riforma Fornero”; e, si può aggiungere, è proprio questo motivo che rende ammissibile il quesito. Altrimenti – e, cioè, una mera abrogazione del Jobs Act – avrebbe lasciato privi di tutela i diritti del lavoratore ingiustamente licenziato. Il che conferma che, per la Corte costituzionale, i referendum hanno (rectius: non possono non avere) una forza manipolativa della legislazione vigente, nel senso che l’abrogazione deve mirare necessariamente all’innovazione, specie quando sono in gioco diritti fondamentali. Un altro modo per superare le colonne d’Ercole del dettato dell’art. 75 Cost.
B. Caruso. Certamente in tutta la vicenda che ha inizio con la sentenza n. 194 del 2018, e, a prescindere dall’ultima di ammissione del referendum, la Corte ha giocato nella materia una partita in proprio. Quale sia stato il ruolo della Consulta, l’hanno sintetizzato bene i colleghi costituzionalisti e con uno di loro ne abbiamo scritto nel saggio a quattro mani.
M. T. Carinci. Penso che il quesito referendario dichiarato ammissibile da C. Cost. 12/2025 non rivesta alcuna valenza propositiva che possa trasformarlo in “un distorto strumento di democrazia rappresentativa” dal momento che si limita a chiedere l’abrogazione integrale del D. Lgs. 23/2015. Né l’abrogazione del Jobs Act determinerà l’introduzione di nuove statuizioni non presenti nel sistema, bensì la mera espansione del campo di applicazione di norme vigenti, cioè dell’art. 18 St.lav. e della l. 604/1966.
B. Caruso. Su questo punto dissento da Maria Teresa. La Corte non ha svolto il ruolo di “anima bella”, custode dei valori laburisti e dei principi costituzionali, come si tende a presentarlo nella vicenda. Tutt’altro: si è “sporcata le mani” nella contesa politica, giuridica e giudiziaria; ha menato a destra e manca degli schieramenti, dettando la linea e il compromesso politico ritenuto giusto e sorbendosi, a volte, e a mio raro ricordo, anche critiche e valutazioni pesanti che ritengo ingiuste, ingenerose e a volte sopra le righe da parte di colleghi; ha bacchettato in alcuni casi i giudici rimettenti (i giudici di Napoli); altre volte li ha quasi incoraggiati ad andare oltre (il dialogo con il Tribunale di Ravenna, rimettente compulsivo ma intelligente); ha “ammonito” il legislatore quando ha ritenuto di farlo (sentenza sulle piccole imprese), si è erta a soggetto arbitratore di contrasti di indirizzi della Corte di Cassazione, come nel caso delle clausole elastiche e ne ha inteso correggere indirizzi consolidati (la posizione sul repêchage). Chiederei retoricamente a Maria Teresa ovviamente in modo assolutamente bonario e richiamando, mi si passi la dissacrazione, un famoso slogan pubblicitario di un noto amaro: cosa vuoi di più dalla vita?
V. A. Poso. Prendo a prestito le parole chiare utilizzate dalla Consulta nella sentenza n. 10 del 7 febbraio 2025 che si è espressa per l’inammissibilità della richiesta referendaria relativa alla l. 26 giugno 2024,n.86, sulla c.d. autonomia differenziata: «Per costante giurisprudenza costituzionale, il giudizio sull’ammissibilità della richiesta referendaria è volto a «verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenze n. 59 del 2022 e n. 17 del 2016)».
Sussiste, a Vostro avviso, qualcuna delle cause di inammissibilità indicate nell’art.75, c. 2, Cost., in ragione dell’oggetto del quesito riconducibile alle categorie di leggi ivi elencate, anche in via di interpretazione logico-sistematica?
M. T. Carinci. Ritengo che tutti i requisiti richiesti dalla Corte costituzionale sussistano.
B. Caruso. Concordo con Maria Teresa. Il percorso motivazionale, su questo punto, della Corte Costituzionale è coerente con la sua precedente giurisprudenza e coerente con le altre sentenze del 7 febbraio 2025.
A. Morrone. Nel caso del quesito sul Jobs Act non ritengo esistenti motivi di inammissibilità. Il quesito riguarda un decreto legislativo nella sua interezza, non ci sono ritagli di disposizioni, il contenuto non rientra nei limiti dell’art. 75 Cost. o in quelli creati, in via pretoria, dal giudice dell’ammissibilità. Come ho cercato di dire, i problemi erano altri: quelli derivanti dalla stratificazione normativa e soprattutto della giurisprudenza successiva che aveva più volte modificato il testo di quella disciplina; nonché, le contraddizioni derivanti comparando la sent. n. 12/2025 con la 10/2025 sull’autonomia differenziata.
Il punto, lo dico diversamente, è che, oggi, ancora non sappiamo il valore che possono avere le modificazioni sopravvenute della disciplina oggetto di un referendu, ai fini del controllo tanto dell’Ufficio Centrale per il Referendum quanto della Corte costituzionale. Il dato che emerge, è l’insignificanza dello ius superveniens, nel senso che ciò che conta sembra essere soltanto la disciplina positiva, quasi che delle novelle o delle modifiche poi intervenute (per abrogazione o per caducazione integrale delle norme oggetto) si dovesse tenere conto solo ai fini della correzione del quesito, dandone conto. Invero, sappiamo bene che non può essere così, e non è così: nel referendum sull’autonomia differenziata, anche se la Corte non lo dice apertamente, l’inammissibilità consegue alla sent. n. 192/2024 che, essa sì, proprio a seguire il ragionamento della decisione, ha reso incerto ex post l’oggetto della domanda di integrale abrogazione della relativa regolazione positiva.
V. A. Poso. Come sapete, la giurisprudenza della Corte Costituzionale – ci è stato ricordato anche nelle sentenze del 7 febbraio 2025 - ha ritenuto preclusa al referendum l’abrogazione di leggi costituzionalmente necessarie od obbligatorie (sentenze n. 57, n. 56 e n. 50 del 2022, n. 10 del 2020, n.15 e 16 del 2008, n. 49 del 2000 e n. 35 del 1997). Il decreto delegato oggetto di referendum incontra questo limite? Nella sentenza in esame la Consulta lo ha escluso «dal momento che l’eventuale esito positivo del referendum non determinerebbe una lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro: dall’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 deriverebbe l’applicabilità, anche ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, della disciplina dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966».
A. Morrone. Come ho cercato di dire nelle risposte precedenti, la domanda corretta, in proposito, è la seguente. Il referendum pone in questione una “lacuna di tutela” del diritto al lavoro o, piuttosto, rileva una problematica disomogeneità di tutele interne al Jobs Act? Più che la prima, è la seconda questione che avrebbe dovuto essere ponderata nel caso presente, al fine di apprezzare le conseguenze dell’abrogazione del Jobs Act, anche ai fini dell’ammissibilità. Come ho accennato e come dirò nella successiva risposta, qui la Corte ha ritenuto di accentuare il primo profilo, con la risposta che il preteso vuoto sarebbe risolto attraverso l’applicazione della disciplina della “riforma Fornero”. Mentre sulla seconda, la Corte ha solo sfiorato il nodo, anzi lo ha minimizzato, ritenendo che, nonostante la disomogeneità delle tutele esistenti nel Jobs Act, messe in chiaro anche dai colleghi giuslavoristi, la matrice razionalmente unitaria della domanda (abolire l’intero decreto legislativo n. 23/2015), fosse sufficiente a sciogliere quel nodo.
M. T. Carinci. Ritengo condivisibile la posizione espressa dalla Corte: l’abrogazione del Jobs Act non lascerebbe privo di tutele il lavoratore illegittimamente licenziato in quanto, a seguito di tale abrogazione, si riespanderebbe il campo di applicazione dell’art. 18 St.lav. e della l. 604/1966 anche ai lavoratori assunti fino al 7 marzo 2015. Tale disciplina garantisce non solo una tutela al lavoratore illegittimamente licenziato, come richiesto dalla Costituzione, ma una tutela nel complesso più incisiva di quella assicurata attualmente dal Jobs Act (v. risposta alla domanda n. 8).
B. Caruso. Ho l’impressione di aver già risposto e quindi passo per non appesantire l’intervista.
V. A. Poso. Secondo la Corte Costituzionale - premesso che l’art. 75, Cost. consente la richiesta referendaria per l’abrogazione anche totale di una legge o di un atto avente valore di legge – la matrice razionalmente unitaria è salvaguardata anche dalla presenza di un testo articolato e complesso (v. sentenza n.56 del 2022), a condizione che «il quesito incorpori «l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira (sentenza n. 29 del 1987), nel senso che dalle norme proposte per l’abrogazione sia dato trarre con evidenza “una matrice razionalmente unitaria” (sentenze n. 16 del 1978; n. 25 del 1981), “un criterio ispiratore fondamentalmente comune” o “un comune principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale” (sentenze n. 22, n. 26, n. 28 del 1981; n. 63, n. 64, n. 65 del 1990)» (sentenza n. 47 del 1991)».
Nel caso di specie che ora ci occupa viene valorizzato il profilo teleologico che mira all’abrogazione di un corpus organico di norme, funzionale alla reductio ad unum del sistema sanzionatorio applicabile a tutti i dipendenti, a prescindere dalla data di assunzione del 7 marzo 2015.
Condividete questa interpretazione della Consulta?
A. Morrone. Questa affermazione della Corte costituzionale conferma che, nella sent. n. 12/2025 (a differenza della sent. n. 10/2025), la “forma” prevale sulla “sostanza”. Quello che conta è se la richiesta referendaria abbia un fine chiaro ed evidente e che vi sia una coerenza tra l’oggetto e lo scopo dell’abrogazione popolare. Il contenuto non conta. Se così fosse stato, nulla quaestio. La giurisprudenza, tuttavia, ha fatto un’applicazione sincopata e apodittica di questo dato. Nella sent. n. 10/2025, infatti, la “sostanza” ha prevalso sulla “forma”. La Consulta ha smentito l’Ufficio Centrale per il Referendum, che aveva ritenuto esistente un fondo positivo vigente nonostante la sent. n. 192/2024, ritenendo che, proprio per effetto di quella decisione, il contenuto della disciplina positiva non fosse più tale da rendere chiaro su cosa l’elettore sarebbe stato chiamato a votare. Nella decisione sul JA è l’unità formale dell’atto oggetto di abrogazione che legittima l’ammissibilità di un voto popolare. Nonostante quel contenuto, non solo sia stato sostanzialmente riscritto, ma contenga ab origine, forme di tutela differenziate nei confronti di categorie di lavoratori interessati dalla sua applicazione.
M. T. Carinci. Mi sembra che, in linea con quanto ritiene la Corte, il quesito referendario nel chiedere l’abrogazione integrale del Jobs Act possegga quella “matrice razionalmente unitaria” data innanzitutto dalla riconduzione ad unità della disciplina dei licenziamenti per i lavoratori assunti fino e dopo il 7 marzo del 2015. A mio parere il quesito referendario - nonostante i “chiaroscuri” già evidenziati - possiede anche un’altra “ratio unitaria” che lo sorregge e, cioè, quella di rafforzare nel complesso le tutele dei lavoratori, soprattutto riespandendo l’area della tutela reale. Un profilo, quest’ultimo, però non valorizzato dalla Corte.
B. Caruso. Anche su questo punto mi limito a rinviare alle mie risposte precedenti.
V. A. Poso. Al punto 4.5. della sentenza la Corte Costituzionale prende in esame tutte le ipotesi in cui il decreto delegato comporta un ampliamento delle tutele (in controtendenza rispetto al complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita), che verrebbe meno con l’approvazione referendaria. Nonostante ciò, resterebbero comunque confermati i requisiti di chiarezza, omogeneità e univocità del quesito posto al corpo elettorale chiamato ad esprimersi a favore o contro l’abrogazione dell’intero decreto delegato, a prescindere dalla differente regolamentazione di alcune fattispecie. Scrive la Corte che nel caso di specie «riman[e] comunque salvaguardato un nesso di coerenza tra il mezzo e il fine referendario: in tal caso non si concreta un uso artificioso del referendum abrogativo (ancora, sentenza n. 16 del 1978), tale da eccedere le previsioni dell’art. 75 Cost.».
Leggete anche Voi questa linea di coerenza? Lo chiedo perché, in contrario avviso a quanto affermato dalla Corte, utilizzando le sue stesse parole, potrebbero ritenersi violati i limiti costituzionali al referendum «essenzialmente preordinati a evitare, da un lato, la distorsione in senso plebiscitario del precipuo strumento di democrazia diretta contemplato dalla Costituzione (sentenze n. 56 del 2022 e n. 16 del 1978) e, dall’altro, l’incisione sulla libertà del voto dell’elettore, che potrebbe maturare «convincimenti diversi» rispetto a una pluralità di questioni profondamente difformi e insuscettibili di essere ricondotte ad unità (ex plurimis, sentenza n. 12 del 2014)».
B. Caruso. Lascio la risposta ai colleghi giuscostituzionalisti che possono ovviamente con la loro autorevolezza dialogare direttamente con la Corte sulle questioni che poni. Dal punto di vista di noi giuslavoristi, la sentenza è ormai un dato; dobbiamo concentrarci sull’esito ed eventualmente sul dopo.
M. T. Carinci. Condivido la posizione della Corte. Come ho già illustrato in precedenza, nel suo complesso l’abrogazione del Jobs Act comporta un rafforzamento delle tutele per i lavoratori; scelta a mio avviso auspicabile.
A. Morrone. Ho già risposto: la forma prevale sulla sostanza, e la Corte riconosce la coerenza tra il mezzo e il fine. Si tratta di una soluzione “lineare” (rispetto a quelle, molto più problematiche, del passato, e a quella della sent. n. 10/2025): che sembrerebbe farci intendere che il referendum abrogativo sia una sorta di “contrarius actus”, diretto ad abolire (solo in negativo) ciò che ha posto il legislatore rappresentativo. La realtà, come ho cercato di dire, è molto più complessa di quanto appare anche da questa schematica motivazione. Condivido questa linea, ma la Corte non l’ha quasi mai seguita.
V. A. Poso. Meditando sulle precedenti risposte date da Andrea Morrone, faccio questa considerazione. La Corte Costituzionale non ha argomentato a sufficienza (come invece ha fatto nella sentenza gemella n. 10/2025 in tema di autonomia differenziata, in ragione della intervenuta sentenza n. 192 del 3 dicembre 2024, che ha dichiarato l’incostituzionalità di diverse disposizioni, rimandando al legislatore ogni opportuno intervento, nel quadro riformatore intrapreso dalla maggioranza parlamentare ora al governo) sul «massiccio effetto demolitorio» che si è riversato sul testo del decreto delegato oggetto di richiesta referendaria, in parti essenziali modificato a seguito degli interventi legislativi e delle sue stesse pronunce. Con tutto ciò che ne consegue in termini di chiarezza e semplicità del quesito referendario, sufficienti a consentirne l’ammissibilità, quanto alla possibilità di esprimere un voto libero e consapevole da parte degli elettori.
A. Morrone. Come ho precisato, proprio dal confronto delle due decisioni emergono le contraddizioni più evidenti della giurisprudenza costituzionale, in questa, e nelle tornate precedenti. Rimando alle precedenti risposte date per i dettagli.
V. A. Poso Dopo la sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si possono prospettare mi sembrano problematici, anche in ragione dei tempi ristretti, per evitare il voto popolare. Innanzitutto – si fa per ragionare a voce alta - quale potrebbe essere l’intervento del legislatore (escluderei quello demolitorio, ovviamente, anche in ragione della attuale maggioranza parlamentare al governo) sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
M. T. Carinci. Come dici, anche a me sembra decisamente improbabile che il legislatore intervenga in questo momento. Infatti, quello che sarebbe necessario per evitare il referendum - a parte l’abrogazione del Jobs Act - sarebbe la rimodulazione complessiva della disciplina dei licenziamenti per tutti i lavoratori, assunti fino e dopo il 7 marzo 2015, riconducendo ad unità il sistema delle tutele. Ciò, tuttavia, comporterebbe scelte politicamente assai delicate: decidere se posizionare il discrimen fra tutela reale ed obbligatoria nel punto fissato dall’art. 18 St.lav. o dal Jobs Act o fare scelte ancora diverse; decidere se rimodulare l’importo della tutela indennitaria; definire quali datori di lavoro debbano essere soggetti all’una o all’altra tutela, ecc.
Voglio qui ricordare l’esercizio teorico compiuto dai colleghi del “Gruppo Freccia Rossa” che di recente hanno redatto un testo di riforma offerto al dibattito della comunità accademica: quel “progetto di legge”, pur sicuramente ben congegnato sotto il profilo tecnico e completo, presta però il fianco (ed ha prestato il fianco nel convegno tenutosi presso l’Università di Bologna il 21 febbraio 2025) a molte critiche perché decisamente sbilanciato a sfavore dei lavoratori.
Su un punto in ogni caso un intervento del legislatore sarebbe urgente ed importante: nell’individuazione di nuovi criteri per segnare la distinzione fra grandi e piccoli datori di lavoro. Diversamente sarà la Corte costituzionale, nuovamente investita della questione dall’ordinanza del Tribunale di Livorno del 24 novembre 2024, a dover definire la questione (rinvio, sul punto, alle mie risposte alle precedenti domande).
B. Caruso. Ormai a votare si va, è deciso. Semmai il problema è il dopo.
A prescindere dall’esito del referendum credo che sia opportuno che il Legislatore ponga mano alla disciplina dei licenziamenti e dei suoi rimedi, anche se prevedo che questo non avverrà nel breve medio-periodo, salvo che, soprattutto sul regime delle piccole imprese, la Consulta non scuota in maniera decisiva l’atteggiamento di inerzia opportunistica del parlamento.
Dal punto di vista della razionalità di risulta del quadro normativo post referendum, prescindendo dalla razionalizzazione normativa necessaria, non so quale sia il risultato migliore, se l’abrogazione del Jobs Act o il suo mantenimento (anche ottenuto con il mancato raggiungimento del quorum che equivale, per l’effetto, alla prevalenza del no). Dico questo non in termini di opzione a favore dell’uno o dell’altro esito, ma proprio interrogandomi su quale sia la soluzione migliore sotto il profilo del valore della certezza e della razionalità sistemica del quadro regolativo.
In astratto, su questo insiste molto Maria Teresa, l’esito abrogativo potrebbe comportare un quid pluris di razionalità e certezza in ragione dell’unificazione normativa che si otterrebbe: non più due regimi, ratione temporis, ma uno soltanto. Ma se questo esito per così dire “asettico”, al di là delle diverse regole di merito, fosse l’obiettivo dei promotori, il risultato auspicato non cambierebbe molto perché il tempo andrebbe comunque verso l’unificazione dei regimi ancorché con il prevalere del Jobs Act sulla Fornero, che è invece l’esito opposto perseguito.
Ribadisco però che il referendum non è la soluzione, ma semmai il problema, meglio è un problema che aggroviglia il problema esistente e non lo risolve.
Onde l’esercizio teorico a cui ci siamo dedicati come “Gruppo Freccia Rossa” e a cui accennava prima Maria Teresa.
Non entro nel merito dei contenuti e delle proposte e rinvio i lettori di questa intervista alla lettura del testo che sarà presto pubblicato ma che è stato già fatto circolare in occasione del convegno Bolognese, anche se la nuova versione tiene conto dei rilievi tecnici costruttivi che sono stati proposti da molti colleghi in quella sede. Dico solo che il giudizio di Maria Teresa, di essere un testo sbilanciato a sfavore dei lavoratori, mi sembra non solo esso stesso sbilanciato, ma soprattutto ingeneroso nei confronti dei componenti del “Gruppo Freccia Rossa”, certamente più vicini alle posizioni pro referendum e che hanno raggiunto rispetto a coloro, come il sottoscritto, meno schierati con esse, un compromesso che ritengo ragionevole e tecnicamente adeguato. A dimostrazione che il metodo deliberativo e l’arte dell’ascolto reciproco, non scevra da ragionevoli confutazioni, serve a trovare incroci virtuosi, pur partendo da posizione distanti e apparentemente inconciliabili.
A. Morrone. Anche io ritengo ormai improbabile un intervento legislativo, è più facile contare sull’astensionismo (molto probabile anche in questa tornata, venuto meno il referendum con maggiore appeal mediatico, quello sul regionalismo differenziato). Il fatto è, per rispondere in positivo, capire quale dovrebbe essere un intervento legislativo “utile” al fine di evitare il referendum. In questo caso vale l’art. 39 della legge n. 352/1970, che chiede modifiche sostanziali (relative ai “principi fondamentali” o ai “contenuti essenziali”). Nella giurisprudenza si desume che l’intervento legislativo successivo, per bloccare il referendum dovrebbe soddisfare l’obiettivo (soggettivo? oggettivo? È incerto!) della domanda referendaria. Nel nostro caso, il minimo sufficiente, sarebbe la mera abrogazione del d.lgs. n. 23/2015.
V. A. Poso. Sono così ovvi e scontati gli scenari che si prospettano in caso di esito positivo del voto popolare? Mi sono chiesto, ad esempio, e lo chiedo a Voi, se si risolve tutto con l’azzeramene della normativa del 2015, con la semplice reviviscenza della normativa precedente anche per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Sarebbe, quantomeno, necessaria una norma transitoria.
M. T. Carinci. L’abrogazione del Jobs Act non richiede a mio parere una disciplina transitoria. Infatti, l’esito positivo del referendum non determina nel nostro caso alcun vuoto di tutela: tutti i licenziamenti irrogati dal giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto che attesta l’esito positivo del referendum (art. 37, c. 2 l. 352/1970) saranno infatti soggetti ad un sistema di tutele esaustivo e completo già vigente e dunque immediatamente operativo: l’art. 18 St.lav. e la l. 604/1966.
Ove si ravvisasse, però, l’opportunità politica di dar tempo ai datori di lavoro di adattarsi alla modifica normativa, l’art. 37, c. 2 l. 352/1970 contempla comunque la possibilità che, su proposta del Ministro del Lavoro e previsa delibera del Governo, il Presidente della Repubblica, con il decreto che attesta l’avvenuta abrogazione del Jobs Act, fissi un termine, non superiore a 60 giorni, per l’entrata in vigore dell’abrogazione (art. 37, c. 2, l. 352/1970).
B. Caruso. Ritengo altamente improbabile l’esito positivo della prova referendaria e la conseguente abrogazione del Jobs Act. Gli osservatori tendono a pronosticare un nulla di fatto conservativo per mancato raggiungimento del quorum.
A. Morrone. Non ho le idee chiare, proprio perché la ricostruzione del quadro normativo dipende essenzialmente dall’interpretazione, in assenza di un intervento di razionalizzazione del legislatore. Io penso che, all’esito positivo della consultazione, resti ferma la confusione normativa che caratterizza questa materia, dopo i ripetuti interventi positivi, le numerose pronunce della Corte costituzionale. Che, va ricordato, ha denunciato la confusione normativa della materia e, più volte, ha sollecitato l’intervento del legislatore. Un referendum abrogativo, anche letto nella direzione dell’applicazione della “riforma Fornero” in luogo della disciplina abrogata dagli elettori, non farebbe chiarezza. Penso, in particolare, che il risultato sarà quello di vedere crescere il ruolo e il protagonismo creativo del giudice del lavoro, cui, nei fatti, viene riconsegnata questa materia nelle coordinate larghe e confuse delle leggi vigenti. Sul piano della politica del diritto non vedo molte luci. Quali saranno gli effetti sul mercato del lavoro? Quali i risultati per la Cgil in termini di “forza politica”? Quali, soprattutto, i vantaggi effettivi per i lavoratori di fronte alle sfide dell’economia e della politica presenti?
V. A. Poso. Quali potrebbero essere le ripercussioni sul mercato del lavoro e, più in generale, sul tessuto sociale ed economico, in caso di esito positivo del referendum? Credo che siano maturi i tempi per realizzare una regolamentazione, organica e semplificatoria, della materia dei licenziamenti come richiesto anche dalla Corte Costituzionale nelle sentenze di monito al legislatore.
A. Morrone. L’unica conseguenza del referendum è di avere posto all’attenzione dell’opinione pubblica la necessità – che non nasce col referendum – di una profonda riforma della disciplina dei licenziamenti illegittimi, da riscrivere pienamente in linea, nell’incertezza del quadro economico generale (e non solo), con i principi della Costituzione. In questa direzione molto va fatto. I protagonisti di questa stagione sono all’altezza? Nei limiti della politica (legislativa e sindacale), quel che resta è l’egemonia della giurisdizione. Ma è questa la strada costituzionale per una tutela “eguale” del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi?
B. Caruso. Ho già risposto a questa domanda. Mi limito a richiamare lo sforzo riformatore compiuto dal “Gruppo Freccia Rossa”, anche in termini di dignitoso compromesso tra le diverse posizioni.
M. T. Carinci. Come anticipavo, diverse indagini sul campo hanno dimostrato - dopo le modifiche dell’art. 18 St.lav. ad opera della cd. “Legge Fornero” (l. 92/2012) e dell’ulteriore arretramento della disciplina ad opera del Jobs Act - che la diminuzione delle tutele per il licenziamento non determina di per sé un incremento dell’occupazione; dubito, dunque, che un irrobustimento di quelle tutele possa bloccare la crescita occupazionale con un impatto negativo sul mercato del lavoro.
Penso, invece, che l’esito positivo del referendum sarebbe un segnale importante nella direzione di una maggiore tutela del lavoro e di una rinnovata attenzione verso una componente fondamentale della nostra società: i lavoratori. Il momento storico richiede una forte coesione sociale per fronteggiare le difficili sfide che provengono da un quadro geopolitico in movimento, che richiederà prevedibilmente l’uso di ingenti risorse per la difesa.
Le leggi a tutela del lavoro - e del licenziamento in particolare - possono dare un contributo importante affinché i lavoratori possano percepirsi ed essere percepiti per quello che in realtà sono: una parte fondamentale del Paese, da proteggere e valorizzare per il loro contributo essenziale al benessere collettivo.
Immagine: Honoré Sharrer, Lavoratori e dipinti, 1943, Moma, New York.
Sommario [1]: 1. L’impatto sistematico - 2. La triade valoriale sulla quale si fonda questa decisione - 3. Riflessioni conclusive.
1. L’impatto sistematico
La Corte costituzionale con la decisione n. 33 del 2025 interviene ancora una volta[2] sulla disciplina delle adozioni per dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6, non include le persone singole residenti in Italia tra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità ad adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione. La questione di costituzionalità dell’art. 29-bis l. adoz. era stata sollevata dal Tribunale dei minorenni di Firenze con ordinanza del 20 maggio 2024[3].
La lettura della decisione che, come dirò nelle pagine seguenti, si caratterizza per una coerenza sistematica e per una composizione mirabile dei vari interessi in gioco, suscita nell’interprete sensazioni duplici. Da un lato è innegabile il plauso verso un’apertura dell’adozione alle persone singole da tempo attesa. Le aperture previste nella normativa europea[4] e internazionale[5] non avevano finora trovato riscontro nella legge italiana sull’adozione, sebbene auspicate da tempo da parte della dottrina[6] e dalla stessa giurisprudenza costituzionale[7]. Dall’altro, tuttavia, aumenta il senso di smarrimento dell’interprete e insorgono vari e tanti dubbi, tra i quali, quello della futura estensione degli effetti anche con riferimento all’adozione nazionale e alle coppie di fatto[8]. Emerge così con forza la necessità, ormai non più procrastinabile, di una revisione generale del sistema delle adozioni, da tempo auspicata e incentivata dalle recenti pronunce della Corte costituzionale[9] che hanno innovato e al contempo accorciato le distanze tra adozione piena e adozione in casi particolari. In questa sede non è possibile affrontare questo grande tema. Mi concentrerò su un altro quesito che la lettura di questa decisione solleva. Quali sono gli scenari futuri e quale impatto produrrà questa apertura nel quadro generale dei modelli di genitorialità diversi dalla genitorialità di sangue? Occorre a mio parere rispondere al quesito se l’apertura dell’adozione alle persone singole sia foriera di ulteriori aperture anche con riferimento ad altri modelli di genitorialità, quale per esempio, quella derivante da PMA, ovvero sia da ritenersi circoscritta al modello adottivo, quale modello di genitorialità connotato dal principio di solidarietà verso un minore abbandonato o comunque vulnerabile (mi riferisco in quest’ultimo caso alle ipotesi previste dall’art. 44 l. adoz. del modello dell’adozione in casi particolari). In parole povere occorre decidere se assegnare a questa importante decisione una portata circoscritta al settore delle adozioni oppure una portata sistematica più ampia volta a ricomprendere i nuovi e tanti modelli di genitorialità, correlati ai nuovi e tanti modelli familiari[10]. La tentazione di estenderne l’impatto è evidente dato che, sia nel modello genitoriale adottivo che in quello derivante da PMA, è interessato il principio di autodeterminazione, enucleato nel diritto alla vita privata dell’art. 8 della Cedu, e in quanto in entrambi i casi si tratta di stabilire quali sono i requisiti di accesso alla genitorialità. Deve dirsi che la commistione tra i due modelli di genitorialità è stato reso agevole da un percorso giurisprudenziale che, in mancanza di una disciplina ad hoc per la genitorialità di intenzione, ha fatto ricorso all’adozione, sia pure nel tipo dell’adozione in casi particolari, portando ad una inevitabile commistione tra le ragioni dell’uno e dell’altro modello[11]. È innegabile che se si fosse tentati da quest’ultima prospettiva forse verrebbe in gioco non solo il diritto alla vita privata, ma anche il diritto alla vita familiare, sia pure nella sua variante genitoriale[12], in quanto si avrebbe il riconoscimento di un ulteriore modello familiare, quello monoparentale. Occorrerebbe in tal caso chiedersi se la nozione di genitorialità sia mutata e non richieda più come in passato la presenza di due genitori di sesso diverso, ma unicamente la presenza di un focolare domestico e familiare, qualunque sia la sua composizione, che possa assicurare al bambino cura, protezione e affetto.
La necessità di rispondere a questo quesito si pone con urgenza anche considerando che a breve la Corte costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi proprio sulla legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004 nella parte in cui esclude l’accesso alla PMA alla donna single[13].
Al tentativo di rispondere a questo quesito sono dedicate le pagine che seguono. Prima di tentare, ritengo preliminare dar conto delle rationes fondanti di questa questa bella e rivoluzionaria decisione che ha il merito, oltre che di aver superato il varco dei requisiti soggettivi contenuto nell’art. 6 l. adoz., di contribuire all’avanzamento del diritto della famiglia e delle persone. Saranno proprio le ragioni della decisione che mi supporteranno nel tentativo di rispondere al quesito che ho posto.
2. La triade valoriale sulla quale si fonda questa decisione
Volendo sintetizzare le ragioni che hanno portato la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis l. adoz., come è indicato anche nel titolo di questa nota, si tratta di una triade valoriale composta da tre principi che tutti sono posti a fondamento della decisione e che dialogano tra loro: a) il principio di autodeterminazione; b) il principio di solidarietà e c) il principio del best interest of the child.
Come già accennato, si tratta di principi che non sono monadi isolate, ma dialogano l’uno con l’altro.
a) Il principio di autodeterminazione, espressione del diritto alla vita privata ai sensi dell’art. 8 Cedu, viene evocato dalla Corte quale libertà correlata ai principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 31 Cost. ed esso è il fondamento della scelta di diventare genitori, che non deve essere arbitraria e non si traduce mai in diritto alla genitorialità, diritto che la stessa Corte non ha mai riconosciuto esistente[14]. Il principio di autodeterminazione sottende diversi interessi tra i quali l’interesse del minore e, in questo caso, il principio di solidarietà. Si afferma infatti in motivazione che “se dunque la scelta di diventare genitori rientra nell’ampia nozione di autodeterminazione, quest’ultima, tuttavia, può sottendere diversi interessi”. Significativo appare a chi scrive altro passaggio in cui si sottolinea che “i presupposti costitutivi di un vincolo genitoriale non solo, infatti, coinvolgono una pluralità di interessi, ma devono essere anche orientati alla realizzazione del potenziale figlio, cui è inscindibilmente collegato il vincolo genitoriale”.
Appare allora evidente che nella ricostruzione della Corte il principio di autodeterminazione non è fine a se stesso, ma deve dialogare con altri principi, che valgono a legittimarlo e a sostenerlo. Questa sottolineatura della Corte appare a chi scrive determinante in quanto nel dibattito sulle nuove genitorialità pone uno spartiacque necessario tra le aspirazioni degli adulti e i reali interessi dei minori.
b) Altro principio che si collega all’autodeterminazione è il principio di solidarietà. Si afferma in motivazione che “il diritto alla vita privata, inteso come libertà di autodeterminazione, che si declina nel contesto in esame, quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, rendendosi disponibile all’adozione di un minore straniero…. si coniuga con una finalità di solidarietà sociale, in quanto rivolge le aspirazioni alla genitorialità a bambini o ragazzi che già esistono e necessitano di protezione”. In queste parole della Corte riecheggiano le parole della dottrina[15] che già in passato, proprio sollecitando l’apertura dell’adozione alle persone singole aveva significativamente evidenziato che “tenendo ferma la chiusura nei confronti della persona singola l’Italia si è messa in una posizione isolata rispetto a tutti gli altri ordinamenti. Si tratta di una posizione che va superata”, sottolineando che “in contrario non vale addurre l’interesse del minore alla bigenitorialità” in quanto se “è certamente più rispondente all’interesse del minore essere educato da due genitori, vivere con una persona che lo mantenga lo educhi e lo curi come un figlio è per il minore abbandonato una scelta esistenziale incomparabilmente più favorevole rispetto a quella del ricovero presso una struttura di assistenza”. La stessa dottrina non era rimasta inerte ma si era adoperata per lavorare ad un progetto di legge che includeva tra gli adottanti le persone singole, gli uniti civilmente, le coppie di fatto[16].
Molto importante è il collegamento operato dalla Corte tra autodeterminazione e solidarietà, elemento questo che rappresenta il nucleo fondante della genitorialità adottiva. Solo per questo modello di genitorialità l’aspirazione degli adulti non è autoreferanziale ma solidale, in quanto diretta a soddisfare il diritto del minore a crescere in una famiglia[17] e a non restare abbandonato. Riemerge così la vera finalità dell’istituto dell’adozione[18], che è quella di dare una famiglia a chi è stato abbandonato. È proprio questa finalità solidaristica che consente di porre una marcata linea di distinzione con altre genitorialità, come quella derivante da PMA.
c) Il collegamento tra autodeterminazione e solidarietà conduce al terzo principio, ai primi due intimamente connesso: il principio del best interest of the child, o principio del migliore interesse del minore. La Corte si pone il problema di quale sia il migliore interesse del minore abbandonato e la risposta non può che essere quella di non restare abbandonato. L’apertura verso la persona singola è una soluzione che trova piena legittimazione nell’esigenza di cura e di protezione del minore senza una famiglia. In particolare la Corte rileva come la restrizione della platea dei minori abbandonati incida concretamente sull’esigenza della loro protezione e tutela. Significativo un passaggio della Corte in cui si evidenzia che “la possibilità di incidere sull’effettività della tutela dei bambini abbandonati è un rischio riconducibile anche alla restrizione della platea dei potenziali adottanti”. Questa preoccupazione, insieme a quella già evidenziata di tutela di “bambini che già esistono e che necessitano di protezione” pone in luce la diversa declinazione che assume l’interesse del minore nella genitorialità adottiva rispetto a quella derivante da PMA, come peraltro la Corte costituzionale aveva da tempo evidenziato[19]. Nella genitorialità adottiva, sia nell’adozione piena che in quella in casi particolari, si tratta di valutare il migliore interesse di un bambino già esistente. Nella genitorialità derivante da PMA, si tratta di valutare il migliore interesse di un bambino non ancora esistente, di cui si programma la procreazione. La distinzione non è di poco conto in quanto solo nel primo caso e quindi nel modello di genitorialità adottiva, emerge il profilo solidaristico di una genitorialità finalizzata a supplire la famiglia mancante. È quindi evidente che l’adozione si pone quale strumento direttamente collegato all’interesse del minore ad una famiglia e, come è stato efficacemente affermato nell’ordinanza di rimessione alla Corte, “il minore è il vero centro di gravità dell’istituto dell’adozione”[20]. Nella genitorialità derivante da PMA, non essendo ancora esistente il minore, il suo interesse appare di difficile individuazione e spesso risulta confuso con gli interessi degli adulti.
3. Riflessioni conclusive
Fatta questa breve sintesi sulla triade valoriale che è posta a fondamento di questa decisione, tento di provare a rispondere al quesito che ho posto all’inizio di questo contributo. Alla luce delle considerazioni in parte svolte, credo che la portata innovativa di questa decisione vada limitata all’istituto dell’adozione e non sia estensibile ad altri modelli di genitorialità, quale per esempio quella derivante da PMA. Ciò perché la triade valoriale composta da autodeterminazione, solidarietà e interesse del minore a non restare abbandonato non è riproducibile per altri modelli di genitorialità, che si fondano su ragioni diverse, quale la PMA che presuppone uno stato di infertilità patologica.
È proprio la funzione solidaristica che dà legittimazione ad un modello di famiglia monoparentale che sarebbe allo stato difficilmente replicabile per altri modelli di genitorialità.
Ciò non vuol dire che il legislatore non possa in futuro ritenere che anche le persone singole possano accedere alla PMA, come avviene in altri Paesi del contesto europeo, ma questo è un altro capitolo della storia ancora da scrivere, che si fonderebbe su altre e diverse ragioni ed implicherebbe in ogni caso una riforma della l. n. 40 e dei suoi presupposti.
Il merito di questa decisione risiede proprio nel far emergere con rigore sistematico le criticità dell’attuale legge sulle adozioni e nell’evidenziare la necessità ormai non più procrastinabile di un intervento del legislatore che possa dare coerenza e armonia a questo importante modello di genitorialità che coniuga desiderio di genitorialità e dono di un focolare familiare ai bambini che sfortunamente ne sono privi.
[1] Dedico questo mio scritto al ricordo indelebile del mio adorato Papà, giurista illuminato e lungimirante, che da tempo aveva rilevato la necessità di aprire l’adozione alle persone singole, in nome del principio di solidarietà e del diritto del minore a non restare abbandonato.
[2] Nell’arco degli ultimi anni, questa è la terza decisione significativa che incide sulla disciplina delle adozioni: la n. 79 del 2022 e la n. 183 del 2023.
[3] T. Minorenni Firenze, 20 maggio 2024 che ha sollevato la questione di costituzionalità con riferimento agli articoli 2 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Cedu.
[4] V. l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1967 che, dando ingresso all’adozione quale strumento di tutela dei minori, aveva espressamente previsto l’adozione da parte dei single. V. al riguardo le osservazioni di C.M. BIANCA, Note per una revisione dell’istituto dell’adozione, pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma, Torino, 2023, 259 e ss.
[5] V. art. 2 della Convenzione dell’Aja sull’adozione internazionale.
[6] V. C.M. BIANCA, Note per una revisione dell’istituto dell’adozione, pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma, cit., 259 e ss.
[7] C. Cost. n. 183 del 1994.
[8] V. al riguardo C. 19 dicembre 2023, n. 35437, decisione che ha affermato che l’adozione estera può essere riconosciuta in Italia anche se i soggetti adottanti non sono sposati. Interessante la motivazione: «Ove ricorrano le condizioni per il riconoscimento della sentenza di adozione straniera, ex art. 41, comma 1, l. 184/1983, la mancanza di vincolo coniugale tra gli adottandi non si traduce in una manifesta contrarietà all'ordine pubblico, ostativa al suddetto riconoscimento automatico degli effetti della sentenza straniera nel nostro ordinamento, anche a prescindere e dall'accertamento in concreto della piena rispondenza del provvedimento giudiziale straniero all'interesse della minore»
[9] V. le decisioni citate alla nota 2 del testo.
[10] V. M. ACIERNO, L’autodeterminazione non egoista secondo la Corte costituzionale, in Questione giustizia 25 marzo 2025.
[11] Al riguardo è interessante rilevare che nell’ordinanza del Tribunale di Firenze (del 9 settembre 2024, cit.) che ha sollevato il problema di legittimità costituzionale dell’art. 5 della l. n. 40 del 2004 si sia fatto un rinvio proprio all’adozione in casi particolari: “L'art. 5 richiamato prevede un'irragionevole disparità di trattamento, senza che possa tale disparità essere giustificata da alcun interesse costituzionalmente rilevante, tra categorie di soggetti, a seconda che si tratti di coppia o di single, sebbene nel nostro ordinamento venga ammessa e tutelata la famiglia monogenitoriale (vedi adozione di persone singole in casi particolari) e a seconda delle risorse economiche”.
[12] Nell’ordinanza del Tribunale dei minorenni che ha sollevato il giudizio di legittimità costituzionale viene preliminarmente escluso che la questione riguardi il diritto alla vita familiare che “in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo presupporrebbe l’esistenza di una famiglia o quanto meno la potenziale relazione tra, ade esempio, un figlio nato fuori dal matrimonio e il padre naturale o … il rapporto che deriva da un’adozione legale e genuina sottolineando come l’art. 8 non garantisce ex se né il diritto di fondare una famiglia né il diritto di adottare”.
[13] La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal T. Firenze, 9 settembre 2024: “È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, l. 16 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui esclude la donna single dall'accesso alle tecniche di p.m.a. (anche eterologa maschile), poiché tale disposizione contrasta sia con gli artt. 2,3,13,32 e 117 della Costituzione che con gli artt. 8 e 14 della CEDU, configurando un'irragionevole disparità di trattamento nonché una violazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte procreative, del rispetto della vita privata e familiare e del diritto all'integrità fisica e psichica”
[14] V. Corte cost. n. 33 del 2021, n. 230 del 2020 e n. 221 del 2019
[15] Così testualmente nei passaggi indicati in corsivo, C.M. BIANCA,
[16] V. C.M. BIANCA, Proposta di Riforma sull’adozione (condivisa con gli allievi), in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma, cit., 353; ivi, 358 v. anche C.M. BIANCA, Ipotesi di revisione della disciplina dell’adozione. Questa proposta che prevedeva l’apertura alla persona singola che avesse compiuto 25 anni, alle coppie di fatto registrate da almeno tre anni e alle coppie unite civilmente da almeno tre anni. Questa proposta è stata accolta con piccolissime modifiche nel progetto di legge n. 630 presentato il 15 maggio 2018 dai deputati Rosato e altri. Si riporta qui la proposta di modifica dell’art. 6 l. adoz: “ART. 6. – 1. L’adozione è consentita alle coppie coniugate da almeno tre anni, alle coppie unite civilmente da almeno tre anni e alle coppie di conviventi di fatto che abbiano iniziato la convivenza da almeno tre anni. L’adozione è consentita anche alle persone singole di oltre trenta anni di età quando abbiano avuto un minore in affidamento familiare per almeno tre anni”.
[17] Sia consentito al riguardo il rinvio ad un mio scritto dedicato al diritto del minore alla famiglia, in cui operavo la distinzione tra il diritto preliminare alla propria famiglia di origine e al diritto succedaneo ad avere comunque una famiglia, in caso di abbandono dalla famiglia di origine, M. BIANCA, Il diritto alla famiglia, in Autorità Garante per l’Infanzia e l’adolescenza, La Convenzione delle Nazioni unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Conquiste e prospettive a 30 anni dall’adozione, Roma, 241 e ss.
[18] Così testualmente C.M. BIANCA, Abbandono del minore e diritto di crescere in famiglia: spunti in tema di adozione speciale, in Studi Sassaresi, VII, Serie III. 1979-80. Napoli, 191 e ss, con il titolo originario La situazione di abbandono: in particolare, adozione e funzione di solidarietà e poi pubblicato in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma. Scritti giuridici, Vol. I. t. 1, 605: “La situazione di abbandono costituisce il punto nodale dell’istituto dell’adozione speciale. Ciò si spiega in quanto la situazione di abbandono identifica la funzione dell’istituto, che è una funzione di solidarietà volta ad offrire al minore una nuova famiglia e ad assicurargli quell’assistenza che la famiglia di origine non ha potuto o non voluto dargli”.
[19] C. cost. n. 221 del 2019, così testualmente in motivazione: “Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo”.
[20] V. in motivazione la citata ordinanza del T. Minorenni di Firenze, 20 maggio 2024.
Immagine: Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi, olio su tela, 1555, Museo Nazionale, Poznán.
Qui la decisione commentata.
Il referendum abrogativo parziale dell’art. 26, comma 4, ultimo cpv., del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 sull’esclusione della responsabilità solidale del committente per i danni subiti dai lavoratori dipendenti delle imprese appaltatrici o subappaltatrici in caso di infortunio sul lavoro e malattia professionale.
V. A. Poso. Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data 12 aprile dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024; il deposito presso la Cancelleria della Corte di Cassazione della documentazione attestante le firme raccolte è stato effettuato il 19 luglio 2024).
Il quarto, sinteticamente denominato dai promotori “Lavoro Sicuro” ha ad oggetto il seguente quesito:
«Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?».
Secondo il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro sicuro”, il quesito è inteso, in estrema sintesi, ad abrogare la norma che esclude la responsabilità solidale delle aziende committenti nell’appalto e nel subappalto, per i danni subiti dai dipendenti dell’appaltatore e di ciascun sub-appaltatore oltre la quota indennizzata dall’INAIL o dall’IPSEMA, in caso di infortunio, quindi per il c.d. “danno differenziale” riconosciuto dal giudice a copertura dei danni ulteriori subiti in base alle tabelle civilistiche. «L’utilizzo della responsabilità solidale – che il referendum mira a ripristinare nella sua totalità - è la regola di base generale volta a impedire che le diverse forme di decentramento produttivo si risolvano nella limitazione delle tutele del lavoro, facendo sì che il committente si rivolga ad appaltatori solidi finanziariamente e in regola con le norme antinfortunistiche».
Chiedo, in particolare, a Claudio Scognamiglio di tracciare un quadro sintetico degli obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione disciplinati dell’art. 26, d. lgs. n. 81/2008 – con riferimento agli aspetti più rilevanti che qui interessano e ai principi informatori delle norme che si sono succedute nel tempo – tenuto conto delle modifiche normative nel frattempo intercorse.
Innanzitutto, quali sono gli obblighi generali che incombono sul datore di lavoro disciplinati dal comma 1 dell’art. 26 «in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima, sempre che abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o la prestazione di lavoro autonomo».
C. Scognamiglio. Ritengo utile fare una premessa. Gli obblighi per la sicurezza di cui all'art. 26 d.lgs. n. 81 del 2008, presuppongono l'interferenza tra imprese, anche in caso di mancanza di appalto. La ratio dell’art. 26, mediante il quale si impongono al datore di lavoro che si avvale di soggetti terzi obblighi informativi, di verifica e di prevenzione per la sicurezza sui luoghi di lavoro, è di fare in modo che si prevengano i rischi derivati dall'interferenza di più imprese nel medesimo luogo di lavoro. Si tratta di obblighi che possono sussistere anche se non vi è stata la stipula di un contratto di appalto, e per il solo fatto che si è realizzata un'interferenza tra le attività delle imprese (Cass. pen. n. 28616/2015).
Ciò posto, rammento che il 1° co. dell’art. 26 racchiude obblighi di verifica ed obblighi di fornire informazioni.
In particolare, per quanto riguarda il primo profilo, la norma dispone che, in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima (sempre che questa abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo), il datore di lavoro deve verificare l’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Tale verifica è eseguita attraverso 1) l’acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato, e 2) l’acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale, ai sensi dell’articolo 47 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa D.P.R. 28/12/2000, n. 445, di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 28 dicembre 2000, n. 445.
Pertanto, la citata verifica riguarda, da un lato, i requisiti generali (visura camerale), dall’altro, i requisiti tecnici. I dati emersi dalla prassi evidenziano che, spesso, l’attenzione delle imprese è focalizzata sul primo aspetto, mentre il secondo è per lo più trascurato. Ricordo che la Cassazione ha precisato, al riguardo, che il rispetto dell’obbligo di verifica relativo all’idoneità tecnico-professionale dell’impresa non può ridursi al controllo dell'iscrizione dell'appaltatore nel registro delle imprese, che integra un adempimento di carattere amministrativo, ma esige la verifica, da parte del committente, della struttura organizzativa dell'impresa incaricata e della sua adeguatezza rispetto alla pericolosità dell'opera commissionata (Cass. pen. n. 2872/2020).
Circa, invece, gli obblighi informativi, il datore deve fornire dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.
V. A. Poso. Ci sono, poi, gli obblighi, generali, di cooperazione e coordinamento che incombono su tutti i datori di lavoro, compresi i subappaltatori (in tutte le ipotesi di cui al comma 1, cit.) previsti dal comma 2 dell’art. 26, cit.; mentre il successivo comma 3 disciplina, in dettaglio, i compiti che spettano al datore di lavoro committente per promuovere la cooperazione e il coordinamento di cui al comma 2.
C. Scognamiglio. Sì, esatto. Il 2° co., in particolare, prevede che i datori di lavoro, compresi i subappaltatori, cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto, e coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell'esecuzione dell'opera complessiva.
La cooperazione ed il coordinamento, ai sensi del 3° co., devono essere promossi dal committente, elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio di infortuni e malattie professionali (con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell'impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi), un proprio incaricato, in possesso di formazione, esperienza e competenza professionali, adeguate e specifiche in relazione all'incarico conferito, nonché di periodico aggiornamento e di conoscenza diretta dell'ambiente di lavoro, per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento.
Il documento deve essere allegato al contratto di appalto o di opera e deve essere adeguato in funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e forniture.
Ricordo poi che, come prevede la stessa norma, a tali dati accedono il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e gli organismi locali delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale.
Nel caso di individuazione dell'incaricato sopra indicato o della sua sostituzione, deve essere data immediata evidenza nel contratto di appalto o di opera.
Preciso, infine, che il concetto di interferenza, ai fini dell'operatività degli obblighi di coordinamento e cooperazione è dato dal contatto rischioso tra il personale di imprese diverse operanti nello stesso contesto aziendale. Pertanto, ai fini dell’applicazione della norma, occorre aver riguardo alla concreta interferenza tra le diverse organizzazioni, che può essere fonte di ulteriori rischi per l'incolumità dei lavoratori, e non alla mera qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro - vale a dire contratto d'appalto o d'opera o di somministrazione - in quanto la ratio della norma è quella di obbligare il datore di lavoro ad organizzare la prevenzione dei rischi interferenziali attivando percorsi condivisi di informazione e cooperazione nonché soluzioni comuni di problematiche complesse (in questo senso Cass. pen. n. 9167/2018).
V. A. Poso. Con alcune importanti esclusioni, quanto all’attività di promozione della cooperazione e del coordinamento del committente (comma 3) previste dal successivo comma 3-bis (introdotto dall’art. 16,comma 3, d.lgs. 3 agosto 2009,n. 106, e poi modificato dall’art. 1,comma 1, d.lgs. 4 settembre 2024,n.135).
C. Scognamiglio. In effetti, la norma citata esclude l’applicazione del 3° co. ai servizi di natura intellettuale, alle mere forniture di materiali o attrezzature, ai lavori o servizi la cui durata non è superiore a cinque uomini-giorno, sempre che essi non comportino rischi derivanti dal rischio di incendio di livello elevato, o dallo svolgimento di attività in ambienti confinati (di cui al d.P.R. 177/201) o dalla presenza di agenti cancerogeni, mutageni, tossici per la riproduzione o biologici, di amianto o di, atmosfere esplosive o dalla presenza dei rischi particolari.
Per completezza, aggiungo che l’ultima parte di tale norma è stata recentemente modificata. Mi riferisco al d.lgs. n. 135/2024, entrato in vigore lo scorso ottobre, e che ha attuato la direttiva (UE) 2022/431 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2022 (che ha modificato la direttiva 2004/37/CE sulla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro). Tale decreto, con i suoi 22 articoli, ha introdotto, appunto, modifiche al Testo Unico sulla Sicurezza del Lavoro.
Le espressioni “agenti cancerogeni e mutageni” sono state sostituite da “agenti cancerogeni, mutageni, tossici per la riproduzione”, così comprendendo nel campo di applicazione degli obblighi antinfortunistici anche tali sostanze. Le nuove norme si sono concentrate anche sugli obblighi informativi e formativi in capo al datore di lavoro, fornendo le indicazioni sul contenimento del rischio in caso di utilizzo o produzione di sostanze tossiche per la riproduzione, e sulla redazione del documento di valutazione del rischio.
V. A. Poso. Il comma 3-ter (introdotto dall’art. 16,comma 3,d.lgs. 3 agosto 2009,n106) pone a carico del soggetto che affida il contratto la redazione del documento di valutazione dei rischi con alcuni particolari accorgimenti.
C. Scognamiglio. Il documento di valutazione rischi da interferenze (il c.d. DUVRI) deve comprendere una valutazione ricognitiva dei rischi standard relativi alla tipologia della prestazione che potrebbero potenzialmente derivare dall’esecuzione del contratto. Spetta, poi, al soggetto presso il quale il contratto deve essere eseguito, e prima dell’inizio dell’esecuzione, integrare il predetto documento riferendolo ai rischi specifici da interferenza presenti nei luoghi in cui verrà espletato l’appalto. Tale integrazione, sottoscritta per accettazione dall’esecutore, integrerà in questo modo gli atti contrattuali.
La norma fa riferimento a “tutti i casi in cui il datore di lavoro non coincide con il committente”; tale formulazione, forse poco tecnica, lascia comunque intendere che il DUVRI è necessario in ogni caso in cui può esserci una interferenza tra chi esegue l’appalto e un qualsiasi altro lavoratore.
Va poi precisato, nel solco di quanto ho accennato anche poc’anzi, che, con l’espressione “interferenza” non ci si riferisce solo ad una interazione fisica tra soggetti presenti nello stesso luogo nel medesimo momento, ma anche a quella che può avvenire in momenti, appunto, diversi.
V. A. Poso. La particolare delicatezza di questa materia emerge anche dalla necessità di indicare, nei diversi contratti, i costi della sicurezza del lavoro, che devono essere congrui, anche con divieto di procedere al ribasso. Mi riferisco alle prescrizioni contenute nei commi 5 e 6 dell’art. 26.
C. Scognamiglio. È così. Il 5° co., in primo luogo, impone che nei singoli contratti di subappalto, di appalto e di somministrazione vengano specificamente indicati, a pena di nullità ai sensi dell'articolo 1418 c.c., i costi delle misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi in materia di salute e sicurezza sul lavoro derivanti dalle interferenze delle lavorazioni. E tali costi – secondo la medesima norma – non sono soggetti, appunto, a ribasso.
V. A. Poso. Veniamo, ora, all’art. 26, comma 4, oggetto di nostro specifico interesse. Innanzitutto, il primo cpv, che nella prima parte conferma le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi. Chiedo, in particolare, a Claudio Scognamiglio una breve rassegna su questo punto, evidenziando il fondamento di questa disciplina.
C. Scognamiglio. L’art. 26 co. 4, in effetti, nel primo capoverso, fa salve le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi. Si pensi, in particolare, all’art. 29, co. 2, d. lgs. n. 276/2003 che prevede, appunto, la responsabilità solidale del committente nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto, relativamente ai trattamenti retributivi e contributivi dovuti dall’appaltatore.
Si concorda nel ritenere che il tenore letterale e la stessa ratio della norma siano diretti ad incentivare ed indurre il committente a scegliere quali appaltatori imprenditori affidabili per evitare fenomeni, anche di dissociazione tra titolarità del contratto e utilizzazione della prestazione lavorativa che andrebbero a discapito del lavoratore. La solidarietà si estende solo ai crediti maturati durante il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall'appalto stesso, esonerando il lavoratore dall'onere di provare l'entità dei debiti di ciascuna società appaltatrice.
Scopo della norma è, dunque, quello di garantire il pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, incentivando la selezione di imprenditori affidabili ed evitando, in questo modo, che i lavoratori siano penalizzati dai meccanismi di decentramento contrattuale.
La stessa Corte Costituzionale ha individuato la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente nel tentativo di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto. E tale ratio, secondo la Corte, non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell’art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento (Corte Costituzionale, n. 254/2017).
Ricordo, poi, che si tratta di una responsabilità di tipo legale che sorge, indipendentemente dal dolo o dalla colpa, al verificarsi delle condizioni poste dalla norma, e, dunque, a fronte dell’esistenza di un rapporto contrattuale riconducibile all’ambito di operatività della norma stessa e dell’inadempimento da parte del datore di lavoro dei suoi obblighi verso il lavoratore (Cass. n. 24609/2023).Presupposto soggettivo della responsabilità solidale ex art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003 è che il committente eserciti attività d'impresa ovvero, quale datore di lavoro, si serva delle prestazioni rese dai dipendenti dell'appaltatore per realizzare l'oggetto della propria attività istituzionale - prendendo parte al processo di decentramento produttivo del servizio -, restando escluso dal campo di applicazione della norma (ai sensi del comma 3-ter del citato art. 29) il committente persona fisica che non eserciti attività d'impresa o professionale (Cass. n. 19514/2023).
V. A. Poso. Con la seconda parte del primo cpv. del comma 4 dell’art. 26 si entra nel merito della questione di nostro interesse: «…l'imprenditore committente risponde in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell'Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA)».
Chiedo, in particolare, a Patrizia Tullini di illustrare questo punto, con riferimento al c.d. danno differenziale e ai criteri di quantificazione dello stesso, evidenziando, pure, il fondamento di questa disciplina.
P. Tullini. Secondo l’art. 26, comma 4, T.U. del 2008 il Committente e i soggetti affidatari rispondono in solido, nei confronti dei lavoratori utilizzati nei processi di esternalizzazione produttiva, per il risarcimento di tutti i danni che non siano stati indennizzati dal competente ente assicurativo previdenziale (INAIL e, in precedenza, IPSEMA). L’introduzione del vincolo solidale avrebbe dovuto costituire un ulteriore passo verso il completamento del complessivo regime di tutela dei c.d. lavoratori indiretti, a partire dall’ipotesi prevista dall’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 relativa alla solidarietà passiva per l’omesso pagamento dei trattamenti retributivi, contributivi e assicurativi. In passato, un significativo rafforzamento della responsabilità solidale nelle filiere di appalto era stato attuato dal c.d. Decreto Bersani (art. 35, comma 34, d.l. n. 223/2006, conv. in l. n. 248/2006), attraverso l’estensione della garanzia al mancato versamento delle ritenute fiscali e dei contributi previdenziali e assistenziali dei dipendenti dell’appaltatore, ma poi il progetto legislativo aveva subìto una battuta d’arresto con l’abrogazione di tale disciplina ex d.l. 97/2008 (conv. in l. 129/2008).
Allo stato, il regime della responsabilità solidale si presenta frammentato e privo della necessaria chiarezza. Del resto, anche il dettato dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 soffre di limitazioni applicative, sul piano soggettivo e oggettivo, talvolta poco comprensibili o poco giustificabili.
Anzitutto la solidarietà per il risarcimento dei danni vincola testualmente solo il committente che rivesta la qualifica di imprenditore, restando esonerati (oltre ai soggetti pubblici) i datori non imprenditori (mentre, per le omissioni retributive e contributive, la garanzia ex art. 29, comma 3-ter, d.lgs. n. 276/2003 è esclusa solo per i committenti-persone fisiche che non esercitino attività d’impresa o professionale). Nulla specifica la disposizione del T.U. 2008 circa la qualifica degli appaltatori e subappaltatori co-obbligati solidali. Si aggiunga che la stessa norma si riferisce espressamente solo al caso dell’appalto o subappalto, trascurando altri tipi negoziali elencati dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 e gli schemi contrattuali, anche atipici, che regolano i processi di esternalizzazione. Ma qui, forse, ragioni sistematiche e simmetria interpretativa potrebbero supplire alla scarsa attenzione legislativa.
Un’altra trascuratezza riguarda l’esclusione del lavoratore autonomo dall’applicazione della garanzia per i danni - sebbene il contratto d’opera sia menzionato persino nella rubrica dell’art. 26, T.U. 2008 - in difformità rispetto a quanto stabilito per i compensi e gli obblighi contributivi ai quali è applicabile la garanzia solidale del Committente ex art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/20023 (cfr. art. 9, d.l. 76/2013, conv. in l. n. 99/2013).
V. A. Poso. Queste osservazioni di Patrizia Tullini sono condivise?
C. Scognamiglio. Condivido la ricostruzione svolta in merito al regime attuale e alle sue lacune in termini di chiarezza e omogeneità.
Aggiungo solo che, per calcolare l’impegno economico del datore di lavoro danneggiante e degli altri soggetti solidamente responsabili verso il lavoratore, il 4°co. impone il confronto tra le due entità economiche di danno (“civile” e “previdenziale”) in quanto il residuo debito deve corrisponde all’importo che non risulti indennizzato ad opera dell’INAIL, cioè al cd. danno “differenziale”; quest’ultimo, ovviamente, esiste solo se il “danno civile concretamente risarcibile” (cioè, tenuto anche conto della riduzione dovuta all’eventuale concorso di colpa) risulti di importo maggiore di quello “previdenziale”.
V. A. Poso. Siamo arrivati alla parte della disposizione normativa oggetto della richiesta referendaria, ultimo cpv. del comma 4 dell’art. 26:« Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici». L’esonero dalla responsabilità del committente è, quindi, limitata solo a questi specifici rischi. Vi chiedo di individuare questi rischi specifici oggetto di esonero.
C. Scognamiglio. La previsione, sebbene appaia formalmente semplice, è, invero, certamente complessa nel suo divenire norma concreta. Non vi, è infatti, alcuna definizione, nel Testo Unico, dei ‘rischi specifici’.
Il medesimo d.lgs. 81/2008, all’art. 2, dedicato alle ‘definizioni’, definisce ‘rischio’ la ‘probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione’ e ‘pericolo’ come la ‘proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni’.
Si potrebbe allora affermare che i rischi specifici (o propri o esclusivi) sono quelli che derivano dalla natura dell’attività svolta dalla singola impresa e che ne rimangono esclusivi e governabili nonostante la sinergia lavorativa con altre imprese.
I rischi interferenziali, invece, sono quelli nuovi e diversi rispetto ai primi e che, operando in sinergia con gli stessi, li aumentano in apprezzabile misura, rendendoli non più totalmente governabili dalla singola impresa. Pertanto, il rischio interferenziale non è la mera somma dei singoli rischi ‘propri’ delle diverse imprese che lavorano, nella stessa area anche in tempi diversi, per concorrere al completamento dell’opera, bensì è il rischio, diverso o maggiore, che deriva ad un datore di lavoro dall’attività svolta da altri, con tempi e modalità che il primo ignora o di cui non ha piena conoscenza.
P. Tullini. Concordo sul fatto che, mancando una definizione, seppure orientativa, di rischio interferenziale e di rischio specifico, la questione applicativa risulta davvero complessa. Ed è proprio ai fini dell’operatività dell’ultimo cpv. dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 che la distinzione tra le due nozioni solleva le maggiori incertezze poiché incide sull’individuazione dell’oggetto e del perimetro della garanzia solidale.
Almeno in apparenza si tratta d’una garanzia ampia ed inclusiva in quanto riferibile – come recita l’incipit del comma 4 – a «tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dell’appaltatore o subappaltatore, non risulti indennizzato» dall’ente previdenziale-assicurativo. Ma poi il disposto interessato dal quesito referendario introduce una precisazione che ne circoscrive fortemente l’operatività considerando solo i «danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici». Dunque, la tutela risarcitoria solidale sarebbe limitata ai danni derivanti dall’interferenza pericolosa tra le organizzazioni e le attività svolte in affidamento: solo in quest’ipotesi il Committente sarebbe tenuto a risponderne.
È pur vero che i danni risarcibili potrebbero risultare in concreto abbastanza ridotti, tenuto conto che il principio di automaticità delle prestazioni assicurative riconosce il diritto all’indennizzo per infortunio e malattia professionale a prescindere dal versamento dei premi da parte del datore di lavoro, nonché a favore dei lavoratori irregolari. I danni per i quali opera il vincolo solidale dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 sarebbero solo quelli estranei al sistema previdenziale pubblico: i danni differenziali rispetto all’ammontare dell’indennizzo e quelli c.d. complementari, che sono a priori esclusi dall’assicurazione obbligatoria INAIL.
Resta, tuttavia, una palese discrasia interna alla norma. Non a caso il limite della garanzia solidale non era previsto in origine, ma risale ad una successiva modifica apportata dalla l. n. 296/2006 (art. 1, comma 910) dapprima al testo dell’art. 7, c. 3-bis, d. lgs. n. 626/1994 e poi al T.U. 2008. Con qualche ragione, diversi interpreti ritengono che il cpv. dell’art. 26, comma 4, rappresenti una negazione o una violazione dei principi direttivi posti dalla l-delega n. 123/2007 per la redazione del T.U. 2008: questa, infatti, prevedeva espressamente il rafforzamento normativo e il «miglioramento dell’efficacia» della responsabilità solidale tra Committente e appaltatori in materia di sicurezza sul lavoro (cfr. art. 1, comma 2, lett. s).
In breve, nonostante l’evoluzione del quadro legislativo, risulterebbe ancora salvaguardato il riparto delle aree di responsabilità già fissato dall’art. 5, D.P.R. n. 547/1955 che escludeva ogni responsabilità del Committente, sul piano prevenzionistico e risarcitorio, per i rischi derivanti dall’attività propria del lavoratore autonomo e dell’appaltatore. Riproponendo o comunque coltivando questa antica impostazione, la questione si sposta lungo il crinale mobile e sfuggente – come insegnano i giudici penali e del lavoro - che separa il rischio “interferenziale” e quello “specifico” dell’appaltatore, con tutte le incertezze connesse all’utilizzo di nozioni che – non solo sono prive di una definizione giuridica, ma – risultano necessariamente dinamiche e aperte allo sviluppo continuo dei modelli organizzativi e imprenditoriali.
V. A. Poso. Ritenete la disposizione normativa ora vigente corretta e coerente con il sistema degli appalti e con la regola della solidarietà che sembra assumere natura generale applicandosi anche nel caso dei contratti di sub-fornitura e in tutte le ipotesi di decentramento produttivo?
P. Tullini. A prescindere dalle evidenti disarmonie nel dettato dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008, i limiti soggettivi e oggettivi posti alla solidarietà passiva del Committente (ed eventuali subappaltatori) si pongono evidentemente in contraddizione con la disciplina dell’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003. Non è un caso che la norma in materia di sicurezza si apra con una clausola di salvaguardia («ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi …») che sottolinea l’intenzione (poi smentita dall’ultimo cpv.) di aggiungere un ulteriore ed essenziale tassello ad un sistema di garanzie sorrette dalla medesima ratio legis.
Di più, l’obbligazione solidale prevista per la filiera degli appalti è stata progressivamente estesa anche alla somministrazione di personale (cfr. art. 35, d. lgs. n. 81/2025): ovunque si realizzi l’acquisizione di lavoro indiretto o una dissociazione tra il datore di lavoro formale e l’utilizzatore delle prestazioni erogate dai lavoratori.
Ma soprattutto, va ricordata la giurisprudenza della Consulta che – nel confermare l’applicazione dell’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 nell’ipotesi del contratto di subfornitura regolato da l. n. 192/1998 - ha offerto una lettura costituzionalmente orientata di tale garanzia, precisando che la ratio – quella di evitare che i meccanismi di decentramento organizzativo si risolvano in danno dei lavoratori – non ammette esclusioni, che sarebbero invece in contrasto con l’art. 3 Cost. «atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento» (C. cost. n. 254/2017). In sostanza, secondo la Corte costituzionale la garanzia solidale rappresenta una sorta di regola di carattere generale che non tollera esclusioni ingiustificate ed è applicabile in ogni processo di decentramento ed esternalizzazione produttiva.
C. Scognamiglio. Esaminando il quesito all’interno del sistema degli appalti, come suggerisce lo stesso quesito, le valutazioni appena svolte sono senz’altro condivisibili.
Non si può tuttavia negare che, dal punto di vista del diritto ‘generale’ della responsabilità civile, la norma, così come formulata, abbia una sua intrinseca razionalità, proprio perché esclude il vincolo della responsabilità solidale con riferimento ai (soli) rischi specifici propri dell’impresa appaltatrice, quanto ai quali, dunque, il committente non potrebbe, almeno in linea di principio, operare secondo il modello ideale del cheapest cost avoider. Potrebbe allora dirsi che la risposta al quesito dipenda dall’alternativa tra l’applicazione di principi del ‘diritto primo’ della responsabilità civile o del ‘diritto secondo’, per riprendere una nota formulazione dottrinale.
V. A. Poso. A Patrizia Tullini chiedo di ricordarci, per sommi capi, le opinioni espresse dalla dottrina con riferimento alla disposizione normativa oggetto di referendum.
P. Tullini. Salvo qualche eccezione, la dottrina giuslavorista ha (inspiegabilmente) espresso un giudizio negativo rispetto alla proposta di abrogazione referendaria. L’argomento privilegiato è quello dell’ingiusta penalizzazione del Committente di un appalto genuino che, nel caso si realizzasse l’effetto abrogativo del referendum, si troverebbe esposto ad una responsabilità di tipo oggettivo per i rischi con non appartengono al ‘core’ della sua impresa. Si aggiunge che sarebbe del tutto irragionevole accollare al Committente l’onere di valutare la capacità tecnica e la sicurezza dell’organizzazione di un’impresa appartenente ad un diverso settore merceologico.
Ancora una volta, l’effettività della tutela dei lavoratori in appalto viene spostata in capo agli organi pubblici di vigilanza o, al limite, si sollecita l’introduzione di un sistema di qualificazione delle imprese che potrebbe risolvere ogni problema a monte.
Mi pare, tuttavia, che queste posizioni dottrinali evidenzino diversi equivoci. Anzitutto, la regola della responsabilità solidale non è collegata ad una fattispecie di esternalizzazione illecita e non genuina, come si desume tanto dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 quanto dall’art. 29, comma 2, d. lgs. n. 276/2003. La giurisprudenza costituzionale ha chiarito esattamente la finalità della garanzia che non assume la natura di un rimedio o una sanzione per l’ipotesi di appalto fittizio, ma è una tecnica giuridica di carattere generale (C. cost. n. 254/2017, pt. 5).
In secondo luogo, se la responsabilità solidale riguardasse solo i danni derivanti dall’omissione dei doveri tipici del Committente nella gestione dei rischi interferenziali (cioè, gli obblighi di informazione, cooperazione, coordinamento della sicurezza), l’art. 26, comma 4, T.U. 2008 risulterebbe una norma del tutto superflua. Non occorre, infatti, una disposizione ad hoc per stabilire un vincolo di solidarietà risarcitoria che deriverebbe comunque dalla violazione di obblighi connessi alla posizione di garanzia assunta ex lege dal Committente.
Appare poco coerente anche alludere ad una responsabilità di tipo oggettivo irragionevolmente accollata al Committente per i danni non indennizzati dall’INAIL. Si tratta di un’obiezione molto frequente in materia di sicurezza sul lavoro, allorché si lamenta per lo più che la responsabilità per i danni alla persona del lavoratore non potrebbero essere imputati senza la colpa del datore di lavoro. In realtà, nell’ipotesi dell’art. 26, comma 4, T.U. 2008 - come in quella speculare dell’art. 29, comma 2, d. lgs. 276/2003, in relazione alla quale peraltro non ci si interroga sulla natura oggettiva o meno della responsabilità - il legislatore ha introdotto un meccanismo di rafforzamento della responsabilità per i danni sopportati dai lavoratori coinvolti nell’appalto, al fine di dare una specifica tutela nei fenomeni economici d’integrazione verticale delle imprese e nelle operazioni negoziali che realizzano l’acquisizione di lavoro indiretto da parte del Committente.
V. A. Poso. Avete qualcosa da aggiungere a quanto esposto da Patrizia Tullini?
C. Scognamiglio. Richiamo quanto ho accennato poc’anzi circa la possibilità che un’opinione contraria all’abrogazione proposta dal referendum venga motivata sulla base di argomenti attenti ad esigenze di razionale allocazione di costi e di rischi in capo all’imprenditore committente, secondo un’impostazione ispirata al metodo interpretativo dell’analisi economica del diritto.
A. Morrone. Personalmente condivido l’interpretazione di Patrizia Tullini: la fattispecie va intesa in senso generale e non limitata solo agli illeciti; e, quindi, nella prospettiva dei promotori, il ripristino della piena responsabilità solidale è coerente con tale assunto.
V. A. Poso. Rivolgo la stessa domanda a Claudio Scognamiglio, con riferimento, però, alle applicazioni giurisprudenziali più importanti che si sono registrate a proposito della disposizione normativa oggetto di referendum.
C. Scognamiglio. La norma è stata in effetti protagonista di perplessità interpretative anche nell’ambito della giurisprudenza che ha visto contrapposte differenti posizioni; da un lato, vi è stata la lettura che ha ritenuto la limitata responsabilità solidale una mera conseguenza dell’attribuzione dei compiti di cooperazione, coordinamento contenuti nella prima parte della norma e, di conseguenza, ha circoscritto l’ambito di applicazione ai casi di violazione di tali obblighi e in caso di colpa del committente.
Una diversa lettura ha invece interpretato la responsabilità del committente come avente comunque carattere oggettivo.
Alcune pronunce della Corte di Cassazione penale hanno ritenuto che l’esclusione relativa ai rischi specifici fosse riferita non alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, ma alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale - generalmente mancante in chi opera in settori diversi - nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (Cass. pen. n. 32204/2009, Cass. pen. n. 36857/2009)
Secondo Cass. pen. n. 6857/2009 un’esclusione di responsabilità era configurabile qualora l’appaltatore avesse seguito lavori determinati e circoscritti, in piena e assoluta autonomia. È stato ritenuto, quindi, che il committente risponda soltanto ove il rischio sia palese e percepibile (Cass. n. 3784/2009), quando non abbia esercitato il necessario controllo consentendo l'inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose, e in mancanza di idonee misure di prevenzione.
La Corte di Cassazione Sez. Civile (n. 23843/2024) ha recentemente evidenziato che, in linea generale, deve rilevarsi che la responsabilità dell'appaltatore non solo non esclude quella del committente (Cass. n. 25758/2013), ma che, anzi, quest'ultima è configurabile quando vi sia stata in concreto assunzione di una posizione di garanzia e comunque, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d'appalto (Cass. pen. 12348 /2008).
La Corte, peraltro, aveva ritenuto (Cass. pen. n. 7188/2018) che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il committente, anche nel caso di subappalto, è titolare di una posizione di garanzia idonea a fondare la sua responsabilità per l'infortunio, sia per la scelta dell'impresa sia in caso di omesso controllo dell'adozione, da parte dell'appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Si è anche affermato (Cass. pen. 28728/2020) che, in materia di infortuni sul lavoro, in caso di lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto, sussiste la responsabilità del committente che, pur non ingerendosi nella esecuzione dei lavori, abbia omesso di verificare l'idoneità tecnico-professionale dell'impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati.
Aggiungo, poi, che Cass. n. 2991/2023 ha affermato che, in tema di appalto, “non è configurabile una responsabilità del committente in re ipsa e, cioè, per il solo fatto di aver affidato determinati lavori ovvero un servizio a un'impresa appaltatrice”. La responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori si estende, infatti, al committente solo se lo stesso si sia reso garante della vigilanza delle misure da adottare in tema di sicurezza sul lavoro e si sia riservato poteri tecnico-organizzativi rispetto all'opera da realizzare.
V. A. Poso. Hanno qualcosa da aggiungere, gli altri interlocutori, alla rassegna giurisprudenziale fatta da C. Scognamiglio?
A. Morrone. Se come penso, leggendo le risposte di Claudio Scognamiglio, la giurisprudenza ha applicato la disposizione vigente nel senso di ricercare una ratio alla fattispecie normativa, la domanda che ci si potrebbe fare è se questa giurisprudenza citata possa incidere sulla disciplina risultante dall’esito positivo della consultazione referendaria che, come sappiamo, tende ad allargare l’area della responsabilità solidale. Se il quesito fosse approvato, quella giurisprudenza avrebbe ancora un senso? O, viceversa, la nuova disciplina esitata dalla consultazione permetterebbe nuovi orientamenti? Mi pare che questa sia l’alternativa e che la risposta vada verso la seconda soluzione.
V. A. Poso. Come giudicate, nel merito politico e costituzionale, la richiesta referendaria sulla responsabilità per danni del committente in materia infortunistica? Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito, come abbiamo detto, è che il lavoro deve essere sicuro. Viene quindi auspicata l’estensione della responsabilità risarcitoria del committente, per assicurare una maggiore tutela dei lavoratori che deriva dalla garanzia dell’integrale copertura dei danni subiti, tanto più rilevante in caso di imprese appaltatrici di dubbia solidità o che cessino la propria attività e per evitare che, con interpretazioni riduttive della norma vigente, il committente sia sollevato dagli oneri di predisposizione delle misure di cooperazione e coordinamento in materia di salute e sicurezza previsti dall’art. 26.
Condividete la prospettazione referendaria?
A. Morrone. Personalmente penso che la risposta dipenda da una scelta di politica legislativa e che, quindi, non ci sia una soluzione costituzionalmente necessaria. Siamo nell’ambito della discrezionalità spettante agli attori sociali e politici e al legislatore. Penso che l’alternativa posta da Claudio Scognamiglio – quale diritto applicare in materia: quello “primario” o quello “secondario”? – sia perciò quella corretta per chi, consapevolmente, riterrà di partecipare al voto e di esprimersi nel merito della domanda promossa dalla Cgil. La quale, va detto, ha in sé molta “ideologia”, accentuata dall’esigenza di semplificazione mediatica, inevitabilmente connessa a una consultazione referendaria, nella quale le alternative sono solo due (o tre per chi si astiene). Il fatto che andrebbe indagato, da un punto di vista generale, è il significato (politico e costituzionale) di un referendum abrogativo (questo e tutti gli altri) promosso da un sindacato confederale dei prestatori del lavoro. Per la seconda volta dopo il 2016, la Cgil ha intrapreso, da sola, questa iniziativa, senza le altre confederazioni di categoria. Per la seconda volta lo ha fatto per ragioni politiche, che eccedono quelle sindacali.
Non si capisce, infatti, per quale motivo un sindacato debba ricorrere al referendum quando istituzionalmente dovrebbe avere a disposizione gli strumenti per negoziare con la controparte datoriale o col governo le linee di politica del lavoro che andrebbero perseguite nella legislazione. Che anche un grande sindacato (dopo la vicenda delle “piccole sigle” che avevano agito da protagoniste nella storia dei referendum abrogativi, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo Millennio) sia legittimato a proporre richieste referendarie, ovviamente, non è impedito dalla Costituzione, e la prassi lo ha ormai ampiamente confermato.
Il punto resta, però. Come gli osservatori attenti sanno bene, il referendum abrogativo è uno strumento che può fare molte cose – quando rispetta i crismi costituzionali – ma non tutto. Anzi la “forza normativa” di un referendum abrogativo, quale che sia (e sappiamo che non ci sono opinioni concordi sul punto), è condizionata dal “seguito”. Per usare una metafora calcistica, dopo che il popolo s’è pronunciato (e, questo, accade sempre), “la palla” torna nelle mani dei protagonisti, le parti sociali, il governo, il parlamento. In questo caso specifico, l’esito normativo è l’ampliamento della responsabilità. Le sue conseguenze sul sistema delle relazioni industriali, in mancanza di un chiarimento politico-legislativo, saranno rimesse alla prassi delle relazioni industriali, e alla giurisprudenza che si muoverà con la solita audacia nelle maglie delle norme vigenti, anche approfittando dell’inerzia del legislatore.
V. A. Poso. I dati degli infortuni mortali che abbiamo registrato nell’anno 2024 e nei primi mesi di quest’anno sono davvero allarmanti. E non ci sono solo questi. L’abrogazione proposta potrebbe incentivare le imprese committenti ad assumere maggiore consapevolezza, e responsabilità, nella costruzione delle catene degli appalti.
C. Scognamiglio. Purtroppo, sì. Da un punto di vista generale, ricordo infatti che il Rapporto annuale dell’attività di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro per l’anno 2024, per quanto riguarda le violazioni in materia di prevenzione, ha rilevato che il sensibile aumento degli accertamenti in materia ha dato luogo ad un corrispondente aumento degli illeciti accertati. Sono state infatti accertate n. 83.330 violazioni in materia di salute e sicurezza (+127% rispetto alle 36.680 del 2023). Il Rapporto qualifica come notevole anche l’incremento (+34%) dei provvedimenti di sospensione delle attività imprenditoriali, pari a 15.002 (massimo storico) a fronte degli 11.174 dell’anno precedente, di cui circa il 37% (5.601) determinati da gravi violazioni in materia di sicurezza. Non è scontato che, con l’abrogazione, il lavoro – parafrasando lo slogan della Cgil - diventi più sicuro. Quello che è certo è che, in caso di vittoria, i confini degli obblighi di vigilanza e di controllo in capo ai committenti, seppure in via indiretta, sarebbero riscritti ed ampliati, con un correlativo incremento dei costi, anche organizzativi ed ‘informativi’, a loro carico. È evidente, infatti, che al committente sarebbe richiesta una conoscenza maggiormente dettagliata dell’organizzazione, e dei rischi propri degli appaltatori e dei subappaltatori.
P. Tullini. Dall’eventuale abrogazione referendaria non c’è da attendersi un immediato ed automatico abbassamento dei tassi di infortuni e di malattie professionali. Va considerata la complessità dei processi economici di esternalizzazione produttiva, i quali intrecciano una pluralità di fattori che possono incidere sulla prevenzione e sulla sicurezza dei lavoratori: i nuovi business models, le trasformazioni del lavoro, gli sviluppi tecnologici e l’uso di sistemi automatizzati, le tipologie dei c.d. rischi nuovi ed emergenti, la porosità tra ambiente aziendale e ambiente esterno, l’estensione crescente di attività produttive potenzialmente rischiose ma su cui ancora mancano evidenze scientifiche consolidate.
Ci sono tuttavia fondate ragioni per ritenere che l’ampliamento della garanzia solidale per i danni alla persona potrebbe accrescere la consapevolezza e la responsabilità sociale (non solo giuridica) dei Committenti, sollecitando l’adozione di modelli organizzativi e produttivi più sorvegliati e attenti alle esigenze di protezione dei lavoratori utilizzati.
La risposta sul piano della responsabilità civile potrebbe rivelarsi più efficace sotto il profilo della prevenzione generale rispetto alla minaccia penale e della responsabilità personale del Committente, che resta comunque una risposta sussidiaria dell’ordinamento giuridico.
A. Morrone. Condivido le valutazioni di Patrizia Tullini e di Claudio Scognamiglio. Non penso che alla richiesta prescrittiva di una maggiore consapevolezza dei committenti corrisponderà, ahinoi, una riduzione degli infortuni sul lavoro. Il problema è l’organizzazione della sicurezza sul lavoro e, probabilmente, alla luce dei dati, l’effettiva applicazione delle regole, anche solo quelle, pure molto serie, esistenti, che, nella maggior parte dei casi sono ignorate, male eseguite, non applicate. L’effettività delle norme sulla sicurezza dipende da molti fattori. Il referendum non li affronta e non li può risolvere.
V. A. Poso. L’abrogazione proposta consentirebbe un allineamento rispetto alle norme che regolano in generale la responsabilità del committente per le retribuzioni e gli oneri previdenziali, che sono estesi a tutti i casi di appalto e subappalto. La responsabilità solidale diventa, quindi, la regola generale che impedisce la limitazione delle tutele sul lavoro in tutte le ipotesi di decentramento produttivo che sono fisiologiche nel nostro sistema.
È, questa, l’opinione espressa dai promotori del referendum, che, a mio avviso, può essere condivisa.
C. Scognamiglio. In realtà, già era così. Basti pensare che, come è stato ricordato poco fa, la Corte Costituzionale, nella già citata decisione n. 254/2017, aveva sottolineato che la responsabilità solidale del committente (in quel caso riferita ai trattamenti retributivi e ai contributi previdenziali) ha natura generale. E, del resto, il referendum riguarda una disposizione che non era presente nell’originaria formulazione della norma.
A. Morrone. In effetti, come è stato chiarito dalla sentenza che dichiara ammissibile il referendum, l’esito positivo dell’abrogazione popolare sarebbe proprio quello di portare in vita una disposizione abrogata dalla legislazione vigente. Quindi, proprio quell’estensione-generalizzazione della responsabilità che già l’ordinamento conosceva, e che è stata progressivamente manipolata e ridotta dalle norme successive.
V. A. Poso. Passo ad illustrare, anche a beneficio dei lettori, l’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024, che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 26,comma 4, ultimo cpv., d.lgs. n. 81/2008, come sopra meglio indicato. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito – allo scopo di consentire l’immediata comprensione del risultato perseguito dal referendum e delle conseguenze che si determinerebbero nell’ordinamento ove la richiesta referendaria, ai sensi dell’art. 75,co.3,Cost., venisse approvata – è stata assegnata la seguente denominazione sintetica, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici: Abrogazione”.
Il quesito è stato integrato, opportunamente, con l’indicazione della rubrica dell’articolo in cui è contenuto il comma di cui si chiede l’abrogazione: “ Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”.
Dato atto della sussistenza dei presupposti per dichiarare la rispondenza a legge del quesito (atto normativo avente natura ed efficacia di legge, vigenza delle disposizioni oggetto di referendum in esso contenute, in assenza di atti di abrogazione, anche parziale, e di pronunce di illegittimità incostituzionale),l’Ufficio Centrale per il Referendum ha escluso la possibilità, in applicazione dell’art. 32, comma 7, l. 25 maggio 1970, n.352, di procedere alla concentrazione della richiesta referendaria oggetto di esame con le altre tre di materia lavoristica, non ravvisandosi, tra quella in esame e le altre, eventuali uniformità o analogie di materia.
Merita di essere rilevato che il quesito ammesso risultava già integrato, al momento della proposizione, con la specifica menzione degli interventi normativi che hanno apportato le modifiche del testo ora vigente.
Mi sembra una ordinanza chiara nell’esposizione dei presupposti di legge e della specifica vicenda referendaria, del tutto condivisibile.
A. Morrone. L’ordinanza 12 dicembre 2024, sul quesito di cui discorriamo, è molto asciutta e lineare nel suo svolgimento. Ricordo che l’Ufficio Centrale per il Referendum ha il compito di verificare la legittimità di una richiesta referendaria sotto il profilo della esistenza dei presupposti (numero minimo delle firme o consistenza delle 5 delibere regionali necessarie a sostenerla) e di quello della “legge vigente”. Nel caso in cui, nella medesima tornata, esperite le verifiche di cui s’è detto, risultasse la compresenza di due o più richieste che rivelino “uniformità o analogia di materia” (art. 32, l. n. 352/1970), detto Ufficio procede alla “concentrazione” delle richieste medesime in un unico quesito. Ciò accade quando, nonostante la diversità delle richieste di referendum depositate sussista la sostanziale identità del contenuto normativo. L’esame è quindi prevalentemente materiale e non riguarda la forma, se non come mezzo al fine.
È un compito delicato che ha avuto modo, pochissime volte, di essere svolto: il caso più noto riguardava i tre quesiti in materia di abrogazione della legislazione sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1981 (la cui concentrazione, tuttavia, non venne fatta, proprio perché, nonostante l’identità formale della legge 194/1978 interessata, i quesiti – totale, massimale e minimale – non avevano il medesimo oggetto e il medesimo fine (Ufficio Centrale per il Referendum: ordinanza 15 dicembre 1980).
Gli unici casi di concentrazione hanno riguardato proprio, e all’opposto, due quesiti identici formalmente e sostanzialmente (i due quesiti per l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti e sulla legge elettorale della Camera dei deputati, presentati nel 1999, anche da due Comitati diversi: cfr. ordinanze del 7 dicembre 1999). Se si leggono i precedenti (oltre a quelli ricordati, cfr. ordd. nn. 13 dicembre 1986; 10 dicembre 2004; 7 dicembre 2010), ci si avvede come, nel nostro caso, la precisazione contenuta nell’ordinanza di cui discorriamo sia del tutto pleonastica. A parte l’identità del soggetto presentatore (che non rileva affatto), i quattro quesiti in materia di tutela del lavoro della Cgil sono diversi sia formalmente sia materialmente. Il problema della concentrazione non si doveva porre neppure per inciso.
V. A. Poso. Con la sentenza n. 15 del 7 febbraio 2025,la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della disposizione normativa in parte qua.
Questa è l’argomentazione centrale della Corte Costituzionale: «Dalla formulazione del quesito e dall’analisi della sua incidenza sul quadro normativo si evince in modo inequivocabile la finalità di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati dall’INAIL o dall’IPSEMA e di ripristinarne l’originaria ampiezza, nei termini definiti dall’art. 1, comma 910, della legge n. 296 del 2006, che non contemplava limitazioni di sorta. Con tale esito è coerente la struttura del quesito, che si rivela idonea a conseguire la finalità descritta. Abrogata la limitazione che il secondo periodo oggi prevede, il sistema si ricompone in modo armonico con il fine ispiratore della richiesta referendaria: l’imprenditore committente risponde in solido con appaltatori e subappaltatori per tutti i danni che l’INAIL o l’IPSEMA non devono indennizzare, a prescindere dall’eventuale inerenza di tali danni a rischi tipici delle attività degli appaltatori e subappaltatori. La previsione dettata dall’art. 26, comma 4, primo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 acquista così una portata onnicomprensiva e, per effetto dell’abrogazione referendaria, trovano compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce».
Quali sono le Vostre osservazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa?
A. Morrone. Tutti e quattro i quesiti in materia di “lavoro dignitoso” presentato dalla Cgil si caratterizzano per la peculiare portata normativa in senso “positivo”. Essi non sono solo “abrogativi”, ma sono soprattutto ad effetto introduttivo di norme. L’abolizione delle disposizioni oggetto delle relative domande prelude all’ingresso di un’altra disciplina, voluta dai promotori e ritenuta dai giudici costituzionali l’esito obiettivo dell’ablazione popolare. E, va precisato, che, proprio per questo motivo, sono stati ritenuti tutti ammissibili.
Insomma, la nota caratterizzante questa tornata referendaria (se aggiungiamo anche il quesito sulla cittadinanza, diretto proprio a “sostituire” il termine di dieci anni con quello ridotto a metà di cinque affinché lo straniero maggiorenne extra UE possa presentare domanda al fine di ottenere il riconoscimento dello status civitatis italiano) è che l’ammissibilità è stata concessa a quesiti referendari che mirano ad ottenere l’introduzione di norme nuove attraverso l’abrogazione di norme vigenti.
Se si legge la sent. n. 15/2025, si capisce che la regolamentazione oggi vigente (d.lgs. n. 81/2008), oggetto di abrogazione popolare, ha limitato la responsabilità solidale, prevista “senza alcuna deroga” dalla normativa precedente (art. 1, c. 910, l. n. 296/2006). In motivazione è detto apertamente che in base alla “formulazione del quesito e dall’analisi della sua incidenza sul quadro normativo si evince in modo inequivocabile la finalità di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati dall’INAIL o dall’IPSEMA e di ripristinarne l’originaria ampiezza, nei termini definiti dall’art. 1, comma 910, della legge n. 296 del 2006, che non contemplava limitazioni di sorta”.
Secondo la Corte il quesito permetterebbe di conseguire questo risultato: “abrogata la limitazione” in vigore, “il sistema si ricompone in modo armonico con il fine ispiratore della richiesta referendaria”, così trovando “compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce” (corsivi enfatizzati).
La Corte ci tiene a evidenziare, in proposito, l’alternativa “netta” sottoposta all’elettore: “il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione per i danni prodotti dai rischi tipici delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici”.
Queste parole, in definitiva, equivalgono a sostenere che dall’abrogazione popolare consegue il “ripristino” della vigenza delle norme, che le limitazioni positive, sottoposte a referendum abrogativo, avevano reso inefficaci.
P. Tullini. Con motivazione asciutta e lucida, la pronuncia della Corte costituzionale sull’ammissibilità del referendum contiene passaggi davvero significativi (e persino espliciti) in merito alla ricostruzione delle finalità della proposta e degli effetti derivanti dall’eventuale abrogazione.
Si sottolinea che i vincoli posti dalla normativa internazionale (ed europea: cfr. spec. direttiva-quadro 1989/391/CEE) «non impongono la limitazione della responsabilità dell’imprenditore committente», che è prevista invece dall’art. 26, comma 4, T.U. 2008 in conseguenza dei ripensamenti e delle correzioni del testo originario.
Il quesito referendario «tocca un aspetto puntuale e qualificante della responsabilità» solidale del Committente (sentenza n. 27 del 2017), rivelando «una matrice razionalmente unitaria»: con «chiarezza e semplicità» emerge l’obiettivo «inequivocabile» di rafforzare (e restaurare) la responsabilità per i danni arrecati ai lavoratori nella catena di appalti e non indennizzati dall’INAIL, ripristinando l’originaria ampiezza della tutela risarcitoria nei termini antecedenti alla modifica della l. n. 296/2006.
Attraverso l’eventuale effetto giuridico dell’abrogazione, «il sistema si ricompone in modo armonico» e coerente alla finalità referendaria. La previsione dell’art. 26, comma 4, primo periodo, T.U. 2008 potrebbe nuovamente acquistare una portata onnicomprensiva con riguardo alla garanzia per «tutti i danni »non indennizzati, senza rotture né sconvolgimenti sistematici, in quanto «trovano compimento le virtualità espansive di una regola che già il sistema conosce».
C. Scognamiglio. Più che attesa, direi che la pronuncia era prevedibile. Come ha precisato la Corte Costituzionale nelle considerazioni in diritto, la responsabilità solidale era già prevista, senza alcuna deroga, dall’art. 1, comma 910, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)”, che aveva introdotto un comma 3-bis nell’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, per i danni non indennizzati dall’INAIL. È poi obiettivamente incontestabile che la finalità sia quella di rafforzare la responsabilità solidale per i danni non indennizzati.
V. A. Poso. La Corte Costituzionale ( richiamando anche la sentenza n. 56 del 2022) ha ricordato, nelle sentenze pronunciate il 7 febbraio 2025 che il referendum abrogativo non si deve trasformare «– insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (v. sentenza n. 16 del 1978, richiamata nella sentenza n. 56 del 2022), trattandosi di «un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può “introdurre una nuova statuizione, non ricavabile dall’ordinamento” referendum ex se (v. sentenza n. 36 del 1997)».
Ritenete rispettato questo limite?
A. Morrone. Su questo punto la giurisprudenza costituzionale è molto oscillante e impossibile da riassumere, anche perché ondivaga e contraddittoria. Il principio generale è che il referendum sia diretto all’abrogazione totale o parziale di leggi e atti aventi forza di legge. Fuori quadro dovrebbe essere qualsiasi consultazione popolare che non avesse queste caratteristiche, senza necessariamente arrivare al “plebiscito” (la cui configurazione astratta è molto controversa), escludendo pure referendum “propositivi” (che, pure, sono molto ambigui: in che senso una domanda è “propositiva”?). Ma questo contenuto minimo costituzionale (la lettera dell’art. 75.2 Cost.) è stato riscritto in concreto dalla giurisprudenza. La più importante innovazione del diritto vivente è il “quesito manipolativo”, l’abrogazione di disposizioni finalizzata a modificare la legislazione vigente al fine di introdurre una disciplina diversa dalla precedente e in questo senso “nuova”.
Del resto, il più attento costituzionalista dei fenomeni normativi aveva notato che anche soltanto “abrogare” implica “innovare”, perché l’abrogazione non equivale a un “non disporre” ma a un “disporre diversamente” (Vezio Crisafulli nelle sue Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, 1984). La giurisprudenza sui referendum in materia elettorale, dopo una iniziale e problematica chiusura (che non trova nessun appiglio nell’art. 75 Cost.) almeno nei confronti di referendum abrogativi “totali” (sent. n. 29/1987 sulla legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura), aveva ritenuto ammissibili quesiti elettorali al ricorrere di alcune condizioni (sentt. nn. 47/1991 e 32/1993 poi sempre confermate in seguito): 1) che i quesiti fossero necessariamente “parziali”, ovvero su singole disposizioni o frammenti di disposizione (e quindi “manipolativi”); 2) che dall’abrogazione parziale o manipolativa conseguisse necessariamente una “normativa di risulta” di carattere “autoapplicativo” (che, nel caso, fosse sufficiente al rinnovo dell’organo la cui legge elettorale era interessata da una richiesta di abrogazione popolare).
La conseguenza di questa giurisprudenza – estesa a tutti i quesiti parziali o “manipolativi” – è che il referendum da “abrogativo” è (pretoriamente) diventato necessariamente “propositivo”, almeno nel senso che l’abrogazione è in funzione della innovazione normativa. Chi chiede un referendum non vuole solo abolire una disciplina ma (soprattutto) sostituire quella abrogata con un’altra legislazione. Ecco, dunque: la principale responsabile della trasfigurazione del referendum, della sua originaria versione prescritta nell’art. 75 Cost., è stata la Consulta che, per evitare o limitare i referendum elettorali, ha finito per legittimare i referendum manipolativi diretti a introdurre norme mediante l’abrogazione di norme. Da qui la necessità di “correre ai ripari”, ossia la giurisprudenza successiva che esige che il referendum popolare non si trasformi in un “inammissibile” e “distorto strumento di democrazia rappresentativa”. Che il popolo sovrano non possa, mediante un referendum (abrogativo), farsi legislatore rappresentativo è scontato.
Quale sia – una volta ammessi dal punto di vista della legittimità costituzionale quesiti parziali e manipolativi – il confine tra legislazione popolare e legislazione rappresentativa è impossibile da stabilire. O, meglio, dipende dalla giurisprudenza costituzionale e dalle sue volubili nuances. I precedenti ci consegnano degli indici sintomatici, spesso rivisti, aggiustati, modificati e, quindi, tutt’altro che sicuri. Tra questi il criterio della “assoluta” novità della “norma popolare” frutto del ritaglio referendario: assoluta rispetto all’ordinamento vigente e alle sue evoluzioni positive. Non rispetto al materiale normativo esistente nell’ordinamento.
Per ricordare il primo precedente, la sent. n. 36/1997, sul tetto alla pubblicità nelle trasmissioni della concessionaria pubblica “Rai-Tv”, l’esito del ritaglio di singole parole e dell’incollatura di frammenti superstiti, finiva per costruire una disposizione del tutto nuova ed estranea alla materia sulla quale si voleva intervenire con il quesito manipolativo. Lo stesso principio è stato confermato nella sentenza che ha dichiarato inammissibile il quesito presentato dalla Cgil nel 2016, diretto ad applicare la reintegra anche alle imprese commerciali con un numero di dipendenti superiore alle cinque unità, estendendo la norma prevista per le ben diverse imprese agricole (sent. n. 26/2017, che portò alla rinuncia della relatrice della causa Silvana Sciarra dal compito di scrivere la motivazione di inammissibilità, redatta da Giorgio Lattanzi).
Nel caso del referendum sulla responsabilità solidale del committente negli appalti, la sent. n. 15/2025 fa un’applicazione corretta dei precedenti. La manipolazione del quesito parziale non “taglia e cuce” frammenti di disposizioni al fine di creare ex novo una disciplina da applicare in luogo di quella sottoposta ad abrogazione popolare. L’obiettivo è, invece, riportare in vigore una disposizione pre-vigente, che le norme inserite nel quesito avevano a loro volta abrogato. Un ripristino o una reviviscenza di norme abrogate da norme abrogande, secondo lo schema classico tracciato da Salvatore Pugliatti nei suoi noti scritti in materia.
C. Scognamiglio. Per le considerazioni già svolte, ritengo che il limite evidenziato non possa essere considerato superato. Il referendum non introdurrebbe, infatti, e comunque, una nuova statuizione non ricavabile dall’ordinamento; piuttosto, e come si è detto, (ri)estenderebbe il campo di applicazione di una disciplina già presente, e consolidata, nell’ordinamento, pur dovendosi ribadire che la scelta di non estensione, destinata ad essere travolta da un’eventuale risposta affermativa al quesito, non è priva di una sua razionalità.
V. A. Poso. Tenuto conto di quanto ha già illustrato nella precedente risposta Andrea Morrone, una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (v. sentenza n. 57 del 2022). Qualcuno potrebbe sostenere che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (v. sentenza n. 13 del 1999), con riferimento alla espansione della responsabilità solidale del committente. E tuttavia, come scrive la Corte: «Il quesito tocca un aspetto puntuale e qualificante della responsabilità dell’imprenditore committente (sentenza n. 27 del 2017) e rivela una matrice razionalmente unitaria. Il quesito, nel suo carattere meramente ablativo, tende, pertanto, a un esito lineare e pone al corpo elettorale un’alternativa netta: il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione per i danni prodotti dai rischi tipici delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici. All’elettore è così garantita quella scelta chiara e consapevole, che il giudizio di ammissibilità demandato a questa Corte è chiamato a salvaguardare (sentenza n. 51 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto)».
Sotto questo profilo, a giudizio dei giuslavoristi, risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
C. Scognamiglio. A mio avviso, il quesito tende ad un esito netto e lineare, avendo una natura meramente ablativa; le conseguenze abrogative si concretizzerebbero in una situazione esattamente contraria (applicabilità della responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni conseguenza anche dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici) a quella prevista dalla norma oggetto del referendum (esclusione della responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici).
V. A. Poso. Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti, il referendum abrogativo delle norme in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost. (le disposizioni normative oggetto di richiesta referendaria non sono riconducibili ad alcuna delle tipologie di leggi ivi elencate, neppure a quelle ricavabili in via di interpretazione logico-sistematica); gli obblighi internazionali non impongono la limitazione della responsabilità dell’imprenditore committente, che la disciplina vigente racchiude; tantomeno risultano profili attinenti a disposizioni costituzionalmente necessarie o a contenuto costituzionalmente vincolato; sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.
A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco non solo alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle disposizioni oggetto di abrogazione, già presa in considerazione in qualche risposta precedente.
A. Morrone. La motivazione asciutta della sent. n. 15/2025 mi pare condivisibile in sé e in rapporto ai precedenti. Si tratta dell’applicazione lineare di una giurisprudenza che, almeno sul punto, può ritenersi costante. La Corte si è concentrata soprattutto sulla questione più delicata della “manipolatività” ammissibile del quesito, su cui rimando alle considerazioni fatte in precedenza. Sugli obblighi internazionali mi limito solo a notare che l’interpretazione dell’art. 75 Cost. (il divieto di referendum abrogativi di leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, la cui ratio stava e sta nella natura solo “formale” di queste leggi, che non innovano ma si limitano a rimuovere un ostacolo affinché il Capo dello Stato e, quindi, il governo possa procedere alla ratifica dei trattati previsti dall’art. 80 Cost.) è stato interpretato estensivamente fin dalla sent. n. 16/1978 (allargando il divieto, ad esempio, anche alle leggi di “esecuzione” degli obblighi internazionali, compresi i Trattati europei).
Il punto è che la linea di faglia riguarda – almeno “così è se vi pare”, a leggere i controversi precedenti – i referendum abrogativi che mettano in gioco la responsabilità internazionale dello Stato. In fondo, come lo Stato che ha sottoscritto un trattato internazionale (in forma semplificata o mediante ratifica) non può venir meno all’obbligo internazionale così assunto (anche soltanto in rapporto all’esigenza di trasfondere nell’ordinamento positivo il contenuto dell’accordo stipulato con altri stati o di non modificare la legislazione vigente in un senso contrario a quegli stessi obblighi), allo stesso modo non può farlo il corpo elettorale mediante un referendum abrogativo.
Detto questo, il punto più insidioso nella giurisprudenza riguarda il rapporto tra la legislazione interna e gli obblighi internazionali assunti dallo Stato che possono interessare indirettamente quella legislazione. Qui la casistica è molto oscura e le opinioni diverse. L’interpretazione dovrebbe essere orientata dal criterio generale che ho appena formulato e, in ogni caso, l’orientamento da seguire quello che valuta in senso stretto la responsabilità dello Stato. Insomma, a partire dalla lettera dell’art. 75 Cost. e della sua ratio, il criterio guida generale (e quello particolare, con riferimento agli obblighi internazionali ed europei) dovrebbe essere il favor referendario. Nel nostro caso, non pare venissero in rilievo obblighi internazionali di questo tipo, e la Corte ha fatto bene a non tenerne conto ai fine del decidere.
C. Scognamiglio. Per rispondere alla domanda ritengo utile ricordare, in primo luogo, che il giudizio di ammissibilità della richiesta di referendum abrogativo si propone di verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall'art. 75, secondo comma, Cost., attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario, sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall'interpretazione logico-sistematica della Costituzione, quali omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell'operazione referendaria. Come ha sottolineato la Corte Costituzionale (richiamo, in particolare, Corte Cost. n. 50/2022), la richiesta referendaria è atto privo di motivazione e, pertanto, l'obiettivo dei sottoscrittori del referendum va desunto non dalle dichiarazioni eventualmente rese dai promotori (dichiarazioni, oltretutto, aventi spesso un contenuto diverso in sede di campagna per la raccolta delle sottoscrizioni, rispetto a quello delle difese scritte od orali espresse in sede di giudizio di ammissibilità), ma esclusivamente dalla finalità "incorporata nel quesito", cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all'incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento. In questa prospettiva, sono reputati irrilevanti, in sede di giudizio di ammissibilità del referendum, i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina. Ciò che conta è la domanda abrogativa, che va valutata nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti.
Applicando tali criteri al referendum oggetto del presente confronto, condivido la valutazione della Corte. Il quesito rispetta i requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità; appare, infatti, evidente il concreto effetto dell’eventuale abrogazione.
V. A. Poso. L’approvazione della richiesta referendaria genera «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020)?
La Corte Costituzionale, nella sentenza esaminata, lo esclude, proprio in considerazione della normativa risalente nel tempo, che affermava una responsabilità solidale estesa anche al committente. E mi sembra, questa, una affermazione del tutto condivisibile, anche in base a quanto avete riferito sulla disciplina generale della materia oggetto di referendum e sul precedente assetto normativo.
A. Morrone. Come ho cercato di argomentare, la manipolazione è contenuta entro i confini di una creatività limitata al ripristino di una norma già vigente, che la disciplina sottoposta a referendum popolare vuole eliminare. Col risultato di “ripristinare” la disciplina precedente. Richiamo, in proposito, quanto ho già risposto in precedenza.
V. A. Poso. L’estensione della responsabilità solidale del committente rafforza indubbiamente la tutela dei lavoratori sul piano risarcitorio; non è detto, però, che altrettanto avvenga sul piano della tutela antinfortunistica. Senza contare le possibili ripercussioni sul piano economico dei costi nelle catene degli appalti e della convenienza dell’imprenditore a esternalizzare i cicli produttivi. Nel complesso la ritenete una soluzione positiva?
C. Scognamiglio. La soluzione potrebbe, per certi versi, ritenersi, positiva, ma certo non determinante nell’ottica della tutela antinfortunistica. In ogni caso, secondo quanto ho già ricordato, e come del resto osserva anche la domanda, non vanno trascurati, in una valutazione complessiva, anche i corollari in termini di maggiori costi ed oneri organizzativi/informativi a carico del committente.
P. Tullini. La responsabilità solidale del Committente per i danni sopportati dai lavoratori nelle catene di appalto è diretta, in primo luogo, a rafforzare la tutela risarcitoria che potrebbe essere vanificata dalla debolezza economica o dalla scarsa affidabilità delle imprese affidatarie. Tuttavia, la finalità principale della garanzia riguarda proprio la prevenzione dei rischi lavorativi.
Come purtroppo emerge dai dati infortunistici, i processi di esternalizzazione produttiva soffrono di una scarsa attenzione e, ancor più, della mancanza del necessario controllo sulle modalità organizzativo-esecutive delle prestazioni di lavoro. Il sistema prevenzionistico e quello risarcitorio, se fortemente integrati e univoci, possono rispondere ad un obiettivo comune, scolpito nell’art. 41, comma 2, Cost.
Né vanno trascurati i riflessi sul versante della trasparenza del mercato e della definizione di corretti business models da parte delle imprese committenti. È facile intuire che, per scongiurare l’alea di una responsabilità solidale per danni, i Committenti sarebbero indotti ad una più attenta selezione delle imprese affidatarie e ad una seria verifica preventiva della loro idoneità tecnico-professionale, come del resto prescrive l’art. 26, comma 1, T.U. 2008.
Non ci si nasconde il fatto che, di solito, la scelta imprenditoriale dell’esternalizzazione persegue utilità tanto sul piano della flessibilità del lavoro quanto su quello della specializzazione produttiva, ma è compito del diritto del lavoro impedire che si ottengano illeciti vantaggi sotto il profilo del risparmio dei costi del lavoro e del sacrificio della salute e della sicurezza delle persone che lavorano.
A. Morrone. Come ho detto fin dalla prima risposta, il fatto è che, in questa materia, siamo nel cuore della politica legislativa. Ritenere che dalla Costituzione discendano degli obblighi costituzionali, una sorta di contenuto costituzionalmente vincolato, equivale a fare del costruttivismo interpretativo inammissibile. La Costituzione non contiene una risposta per ogni problema politico. Fissa le traiettorie entro le quali il conflitto politico-sociale deve svolgersi legittimamente, in senso pluralistico e democratico. Sono le forze sociali, i partiti politici, le istituzioni repubblicane i soggetti deputati a realizzare i margini del disegno costituzionale.
Il quesito sugli infortuni offre una prospettiva e una risposta concreta. Una delle tante possibili, immagino, nella mens dei promotori, sulla base di considerazioni di politica del lavoro fondate su dati concreti e affidabili. Lo stesso referendum, non dobbiamo dimenticarlo, per non sopravvalutarlo oppure per non svalutarlo, è uno strumento di decisione politica. Serve per fare scegliere tra diverse (almeno due) possibilità. Gli elettori diranno la loro. Ma, ancora una volta, la decisione popolare che dovesse abrogare la disciplina vigente, estendendo la responsabilità solidale, non ha né il crisma della sua conformità a Costituzione, né, tantomeno, la sua effettività – intesa come corrispondenza concreta – sul piano dei rapporti industriali.
Nella prospettiva della Costituzione e del referendum abrogativo, posso aggiungere che il valore di una decisione popolare diretta sta proprio nel fatto che il corpo elettorale decida, e che, di questa decisione, coloro che hanno responsabilità politico-istituzionale, debbano, in qualche modo, farsi carico. Nella logica della Costituzione, il processo politico non si ferma di fronte ad un referendum, ma riprende il suo corso incessante, in una fattiva collaborazione tra i soggetti della sovranità democratica della Repubblica. Il problema che emerge nella storia del referendum è che, invece, i centri di decisione democratica sono sempre stati visti come concorrenti o alternativi a quelli rappresentativi, con una tendenza emergente a nutrire una certa diffusa sfiducia, specie da parte della classe politica dominante, nei confronti delle espressioni referendarie popolari (anche qui a corrente alternata: basti pensare all’uso strumentale di alcuni referendum nella vita politica e legislativa del Paese).
V. A. Poso. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, data la nettezza dell’alternativa proposta con il quesito referendario e considerati i tempi ristretti per il voto popolare, è certamente da escludere un intervento legislativo di contrasto dell’eventuale esito positivo del referendum.
C. Scognamiglio. Condivido questa tua osservazione.
A. Morrone. L’unico intervento che potrebbe “evitare” il referendum (nel senso di impedirne legittimamente la celebrazione) sarebbe una legislazione che recepisca in toto il “verso” della domanda popolare, ossia estenda la responsabilità nella misura indicata da essa. Ma non ci saranno leggi in proposito prima del voto. La sfida sta nel raggiungimento del quorum, il vero “nemico” di questo e di qualsiasi referendum abrogativo, vista la tendenza delle minoranze contrarie alla domanda a opporsi ad un pronunciamento popolare ricorrendo, illegittimamente, all’invito a disertare le urne. Ancora una volta, dunque, è contro l’astensionismo che si giocherà la vera sfida anche di questi referendum. Come dimostra il passato: dal 1997 ad oggi solo una volta, nel 2011, e par hazard, si è superato il quorum, e la dialettica democratica ha vinto contro il gioco sleale di chi preferisce impedirla anziché favorirla spingendo a votare gli elettori (sempre più disillusi e lontani dalla partecipazione politica).
Quand vient l’automne – più che – Sotto le foglie.
Il titolo originale dell’ultima opera di François Ozon suona più acconcio a presentare i tremori propri dell’autunno, non soltanto metaforico: i funghi, ambigui germogli, prelibati oppure esiziali, che nascono dalla decadenza, nel terriccio umido, al riparo ombroso degli alberi; la vecchiaia, la morte e i rapporti umani fragili come felci e foglie secche; il dubbio uggioso come un bosco in cui filtra una flebile luce.
Michelle (Hélène Vincent) è un’anziana signora dal passato ingombrante che, allontanatasi da Parigi e dai suoi trascorsi, vive in un pittoresco villaggio rurale della Borgogna. La sua esistenza è scandita dal lavoro nell’orto e da passeggiate con la migliore amica del tempo che fu, Marie-Claude (Josiane Balasko). La figlia parigina Valérie (Ludivine Sagnier), con la quale ha un rapporto irrisolto dovuto proprio alla precedente vita della madre, che non sa perdonarle, va a trovarla per le vacanze. Ma dopo un’intossicazione causata dai funghi raccolti nel bosco e poi cucinati da Michelle, Valérie la accusa di averla deliberatamente avvelenata. La punizione spietata sarà di non farle più vedere l’amato nipote Lucas (un Garlan Erlos discreto e convincente).
Una serie di intrecci disposti lungo la narrazione porterà a evoluzioni inattese.
Senza svelare nulla sull’intrigante srotolamento della trama, un primo elemento (ma forse non è il primo) assume significato agli occhi dello spettatore, che ancora non sospetta nulla di tutto il carico di dubbio che gli verrà di lì a poco scaricato addosso: i funghi avanzati da quel teso pranzo familiare (in cui l’unica a nutrirsene era stata la figlia Valérie) dopo un istante di titubanza verranno gettati via da Michelle rientrata in cucina.
Un film forse un poco debole sul suo lato thriller e sugli inserti fantasmatici (alla Almodóvar), convincente – bello – nella parte in cui indaga sulla complessità dei legami e sul ruolo di ciò che rimane tra una parola detta e una taciuta.
Il verdetto sulle responsabilità non potrà mai essere netto durante l’intero svolgimento della pellicola, ma a mano a mano si comprenderà che non è il giudizio, l’intenzione di Ozon. La messa a fuoco è, invece, sul viaggio emotivo lungo il quale si è condotti, tra tensioni e segreti familiari e l’insidiosa prepotenza del passato.
Infatti, ogni volta che siamo tentati di fornire un’interpretazione agli eventi, ecco che viene introdotto un nuovo elemento che scardina ogni costruzione, fino a farci sospendere il giudizio e approdare al dubbio (emblematica la frase pronunciata dal ragazzo Lucas, quando, ormai cresciuto, alla domanda della nonna se ora gli piacessero i funghi risponde “mi sono sempre piaciuti”). La visione giudicante è oltremodo limitante per leggere fino in fondo questa trama raffinata. Il giudizio, così come lo si intende secondo l’ordine morale – e giuridico –, diviene inservibile. Perché in fondo questo non è un giallo e non c’è alcun caso da risolvere.
Il passato tende a farsi motivazione del presente (la prima scena è una lettura della parabola evangelica di Maria Maddalena) e il discrimen tra bene e male si assottiglia fino a frastagliarsi e confondersi. Ozon ci conduce su questo confine sfumato, chiedendoci se il male commesso a fin di bene resta irrimediabilmente male o può assumere una valenza catartica, essendo più potente il bene che se ne trae: è sufficiente convincersene, per assolvere e sentirsi assolti? Oppure il peccato ormai commesso non può che rigenerarsi come un uroboro incapace di espiazione? Una colpa originaria si ripercuote inevitabilmente su figli irrisolti ovvero da quel male trae la propria linfa una redenzione? Insomma, nessuno può uscire veramente dalla propria ombra, alla Rilke, oppure i peccati della Maria Maddalena sono perdonati perché “ha amato molto”?
Simenon, Dürrenmatt e il cinema di Chabrol, tra le fonti ispiratrici di questo Ozon. La simbologia del fungo mi ha ricordato anche l’atmosfera del Boletus edulis di Michele Mari, racconto che spicca nella raccolta Le maestose rovine di Sferopoli per l’ironia cupa e la raffinata sagacia del narratore (di cui si apprezza, oltre al consueto linguaggio dotto e articolato, la sopraffina competenza micologica). Il frutto è un sincretismo originale tra giallo, noir (e forse mélo), con incursioni di commedia velenosa – fungina –, la cui sintesi è la prova attoriale di Hélène Vincent (e di tutti gli altri).
Un ritmo lento, delicatamente dilatato e scene in cui l’assenza di dialoghi si fa significativa amplificano alcune immagini cariche di tesa bellezza.
Protagonisti sono, dunque, il fungo (e il mistero che porta con sé fin dalla mitologia), l’autunno e l’uomo, quell’animale dalla pelle sottile, sotto la quale si scatenano reazioni impercettibili, ma rivoluzionarie.
Sommario: 1. I caratteri normativi della responsabilità amministrativa – 2. La giurisprudenza costituzionale - 3. I rapporti con la responsabilità civile – 4. ‹‹Doppio binario›› o ‹‹due volte sullo stesso binario››? – 5. La confluenza del ‹‹doppio binario›› - 6. Responsabilità civile per le ‹‹società in house›› - 7. Quale futuro per la responsabilità amministrativa?
1. I caratteri normativi della responsabilità amministrativa
La responsabilità amministrativa dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica ha trovato la sua prima formulazione nell’art. 82, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui «[l]’impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo».
La giurisdizione su questa responsabilità è demandata dall’art. 103 Cost. alla Corte dei conti.
Attualmente è regolata nei suoi profili sostanziali dall’art. 1 della legge n. 20 del 1994, mentre gli aspetti processuali sono delineati dal d.lgs. n. 174 del 2016 (Codice di giustizia contabile).
L’azione di responsabilità amministrativa è esercitata innanzi alla Corte dei conti dal pubblico ministero contabile.
I caratteri tipici della responsabilità erariale sono:
– è una responsabilità personale, sicché il relativo debito si trasmette agli eredi solo nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi;
– sotto il versante dell’elemento psicologico, è limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, restandone esclusa la colpa lieve (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994, come modificato dall’art. 3, comma 1, lettera a, del d.l. n. 543 del 1996, come convertito)[1];
– se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la rispettiva parte, sicché il debito che ne deriva dà luogo ad un’obbligazione parziaria e non solidale (art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20 del 1994);
– resta ferma l'insindacabilità nel «merito delle scelte discrezionali» (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994);
– nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità «si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole», mentre in ipotesi di «atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi» la medesima responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione (art. 1, comma 1-ter, della legge n. 20 del 1994);
– il giudice contabile può esercitare il cosiddetto “potere di riduzione” (art. 83, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto»);
– «[n]el giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità» (art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20 del 1994), dunque è caratterizzata dall’operare di una ampia compensatio lucri cum damno;
– il diritto al risarcimento del danno «si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta» (art. 1, comma 2, della legge n. 20 del 1994).
2. La giurisprudenza costituzionale
La giurisprudenza costituzionale ravvisa il carattere composito della responsabilità amministrativa, concorrendo a fondamento della stessa funzioni di prevenzione, risarcitoria e sanzionatoria (Corte cost., sentenze n. 132 del 2024, n. 123 del 2023 e n. 203 del 2022).
Più in particolare, la disciplina della responsabilità amministrativa in generale e del suo elemento soggettivo in particolare rivela una «combinazione di elementi restitutori e di deterrenza», rispondente alla «finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (Corte cost. sentenze n. 371 del 1998, n. 203 del 2022 e n. 355 del 2010).
La contemporaneità delle funzioni risarcitorie e di deterrenza della responsabilità amministrativa comporta che ad essa sia affidato non soltanto il compito di restaurare la sfera patrimoniale dello Stato, quand’anche quello di scoraggiare i comportamenti dolosi o gravemente negligenti dei funzionari pubblici, che pregiudicano il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e gli interessi degli stessi amministrati. Il punto di equilibrio ottimale postula, tuttavia, che sia altresì impedito che, «in relazione alle modalità dell’agire amministrativo, il rischio dell’attività sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento» (Corte cost., sentenza n. 132 del 2024).
Questa peculiarità dello statuto di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti ha fatto da traino alle più recenti evoluzioni della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità civile, allorché si è riconosciuto che, nel vigente ordinamento, vi sono già «disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento» e perciò sono ammessi anche risarcimenti punitivi (Cass. Sez. Un. 5 luglio 2017, n. 16601).
Potrebbe dunque dirsi non più attuale la conclusione interpretativa che rivendica una originalità per necessaria diversità tra la responsabilità amministrativa e le comuni regole della responsabilità civile alla stregua degli artt. 97 e 103, secondo comma, della Costituzione (ad esempio, Corte cost., sentenze n. 453 e n. 371 del 1998).
La Corte costituzionale, non di meno, riconosce tuttora la peculiarità della giurisdizione erariale della Corte dei conti rispetto alla concorrente responsabilità civile degli stessi agenti pubblici nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, rinveniente il proprio fondamento negli artt. 28 Cost. e 22 e seguenti del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che impone al danneggiante il risarcimento dei pregiudizi derivanti a terzi per effetto della propria condotta in forza di un illecito contrattuale (art. 1218 del codice civile) ovvero aquiliano (art. 2043 cod. civ.), rimessa al giudice ordinario.
Viene evidenziata la marcata attenzione della disciplina dell’illecito erariale all’elemento soggettivo, non solo per il requisito della condotta, commissiva o omissiva, imputabile al pubblico agente per dolo o colpa grave, ma anche perché, come prescrive l’art. 83, primo comma, dello stesso r.d. n. 2440 del 1923, la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto»: il c.d. «potere riduttivo» del giudice contabile determina una attenuazione della responsabilità amministrativa, nei singoli casi, che permette di tener conto anche delle capacità economiche del soggetto responsabile, oltre che del comportamento, del livello della responsabilità e del danno effettivamente cagionato. Sicché il danno erariale è il presupposto della giurisdizione contabile, ma non è di per sé sempre ed integralmente risarcibile (Corte cost., sentenze n. 340 del 2001; n. 183 del 2007).
Un’altra peculiarità della responsabilità amministrativa affidata alla cognizione del giudice contabile, valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale, è la regola generale della parziarietà della stessa (art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20 del 1994), essendo l’obbligo risarcitorio solidale l’eccezione (comma 1-quinquies) stabilita per i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo, a fronte dell’opposto regime operante nella responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale (artt. 1292 e 2055 cod. civ.).
Per traslato dalla diversità delle rispettive discipline che ne regolamentano l’attuazione (e, invero, pur a fronte di un’appurata sostanziale coincidenza degli elementi costitutivi oggettivi), la Corte costituzionale insiste nel ravvisare la reciproca indipendenza dell’azione di responsabilità per danno erariale promossa dal PM dinanzi alla Corte dei conti e di quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario: «[c]iò significa che un pubblico agente può essere convenuto affinché ne venga accertata la responsabilità per entrambi i titoli ovvero essere attinto da una soltanto delle due azioni, non sussistendo i presupposti per l’esercizio di entrambe, senza naturalmente che vi sia cumulo del danno risarcibile, erariale o civile››[2].
3. I rapporti con la responsabilità civile
Tanto, dunque, la responsabilità amministrativa rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti, quanto la responsabilità civile rimessa alla cognizione del giudice ordinario, cumulano, ormai, una ratio reintegratrice del patrimonio del soggetto leso ed una ratio di deterrenza e sanzionatoria dell’autore, rimanendo entrambe ancorate all’an, prima ancora che al quantum, del danno concretamente subito[3]. Il danno erariale (in forma di danno emergente, id est deterioramento o perdita di denaro, beni o altra pubblica utilità, ovvero di lucro cessante, id est mancata acquisizione di incrementi patrimoniali che l'ente pubblico avrebbe potuto realizzare) resta uno degli elementi costitutivi oggettivi essenziali della responsabilità amministrativa, insieme alla condotta e al nesso causale, nonché agli elementi soggettivi costituiti dalla qualità dell’agente e dal requisito psicologico.
L’effettivo danno erariale, il cui riscontro radica la giurisdizione contabile, può rivelarsi diretto o indiretto. È diretto il danno che cagiona immediatamente il pregiudizio economico dell’erario, senza che vi sia stato danno a terzi; è, viceversa, indiretto, quello che l’amministrazione ha patito per aver dapprima risarcito il terzo del danno causato dal dipendente.
Se manca il danno erariale, non possono svolgersi né la funzione di reintegrazione patrimoniale, né le funzioni di deterrenza e di pena della responsabilità amministrativa dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti. L’insussistenza del danno erariale e la negazione della responsabilità amministrativa discendono altresì quando il primo viene azzerato quale effetto della compensatio lucri cum danno o per l’esercizio del potere di riduzione che comunque spetta al giudice contabile.
È, dunque, la sussistenza del danno erariale il proprium della giurisdizione contabile, non potendosi essa sovrapporre né alla giurisdizione ordinaria sulla responsabilità civile correlata ad ogni attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere, né alla giurisdizione amministrativa erogatrice della tutela demolitoria e/o conformativa rispetto al provvedimento[4].
4. ‹‹Doppio binario›› o ‹‹due volte sullo stesso binario››?
La giurisprudenza della Corte di cassazione e la dottrina più autorevole tendono, in ogni modo, a smentire la tendenza osmotica funzionale fra responsabilità amministrativa e responsabilità civile.
La soluzione interpretativa tuttora più accreditata recita che non sussiste violazione del principio del ne bis in idem tra il giudizio civile introdotto dalla P.A., avente ad oggetto l'accertamento del danno derivante dalla lesione di un suo diritto soggettivo conseguente alla violazione di un'obbligazione civile, contrattuale o legale, o della clausola generale di danno aquiliano, da parte di soggetto investito di rapporto di servizio con essa, ed il giudizio promosso per i medesimi fatti innanzi alla Corte dei conti dal Procuratore contabile, nell’esercizio dell'azione obbligatoria che gli compete, poiché la prima causa è finalizzata al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell'interesse particolare della singola Amministrazione attrice, mentre l’altra, invece, è volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, con funzione essenzialmente o prevalentemente sanzionatoria (Cass. 5 settembre 2024, n. 23833; Cass. 20 dicembre 2018, n. 32929; Cass. 14 luglio 2015, n. 14632).
Ai fini del sindacato delle Sezioni Unite sul riparto di giurisdizione, si assume, così, immutabilmente che, a fronte di un atto o di un comportamento di un pubblico dipendente, che, in via di conseguenza diretta o indiretta conseguenza, cagioni un indebito esborso di denaro pubblico o la mancata percezione di somme spettanti all'amministrazione, oppure la compromissione di interessi pubblici di carattere generale, connessi all’equilibrio economico e finanziario dello Stato, la responsabilità erariale, di cui conosce il giudice contabile, e la responsabilità civile e penale, di cui si occupa il giudice ordinario, sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale. La responsabilità erariale svolgerebbe, come già detto, un ruolo prevalentemente sanzionatorio conforme ad un generale interesse pubblico all’efficienza della P.A. ed all’impiego oculato delle sue risorse, mentre la responsabilità penale perseguirebbe i reati e la responsabilità civile si interesserebbe di assicurare all’amministrazione danneggiata il pieno ristoro del suo patrimonio, secondo criteri riparatori e compensativi. L'eventuale interferenza che venga a determinarsi tra i relativi giudizi, perciò, porrebbe, secondo l’uniforme pensiero della giurisprudenza, esclusivamente un problema di proponibilità dell'azione di responsabilità da far valere davanti alla Corte dei conti (cioè di c.d. “limite interno”), senza dar luogo ad una questione di giurisdizione, a meno che non sia contestata dinanzi al giudice contabile la configurabilità stessa, in astratto, di un danno erariale, in relazione ai presupposti normativamente previsti per il sorgere della responsabilità amministrativa contestata, tanto valendo a porre una questione di giurisdizione, agli effetti dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e dell’art. 362 c.p.c., non essendo la Corte dei conti “il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni pubblici” (Cass. Sez. Un. 14 aprile 2023, n. 9988; Cass. sez. Un. 23 febbraio 2022, n. 5978; Cass. Sez. Un. 15 febbraio 2022, n. 4871; Cass. Sez. Un. 23 novembre 2021, n. 36205; Cass. Sez. Un. 4 giugno 2021, n. 15570; Cass. civ. Sez. Un. 19 febbraio 2019, n. 4883; Cass. Sez. Un. 28 dicembre 2017, n. 31107; Cass. Sez. Un. 7 dicembre 2016, n. 25042; Cass. Sez. Un. 21 maggio 2014, n. 11229; Cass. Sez. Un. 7 gennaio 2014, n. 63; Cass. Sez. Un. 28 novembre 2013, n. 26582; Cass. Sez. Un. 23 novembre 2012, n. 20728).
A conforto dell’attuale stato delle cose giurisprudenziale, nei saggi dottrinali si osserva che restano evidenti le differenze fra responsabilità erariale e responsabilità civile, la prima tuttora connotandosi per l’officiosità dell’azione promossa del Procuratore contabile; la personalità del vincolo; la limitazione alla colpa grave; l’intrasmissibilità agli eredi; i limiti alla solidarietà passiva; la valorizzazione del potere riduttivo dell’addebito. Si tratta dei capisaldi della teoria del c.d. “doppio binario”, che, in realtà, per restare nella metafora ferroviaria, è davvero antica come la prima locomotiva a vapore, e, secondo la quale, ‹‹non essendovi una giurisdizione erariale esclusiva, azione civile e azione per risarcimento da danno erariale si differenziano per natura, ratio e portata della misura restitutoria. In tal modo, viene mantenuta la responsabilità civile dell’agente pubblico verso terzi, mentre la responsabilità erariale si lega a rapporti “interni”, che trovano fondamento nel “rapporto di servizio”, assumendo così finalità deterrenti per rafforzare i doveri di diligenza nell’esercizio della funzione››[5].
Mi sembra che la tesi della inalterata ecosostenibilità della teoria del c.d. ‹‹doppio binario›› meriti, tuttavia, qualche rimeditazione.
L’assunto della solitudine per incomunicabilità tra giurisdizione contabile sul danno erariale e giurisdizione ordinaria sulla responsabilità civile, come accennato, viene ancora oggi – comprensibilmente - richiamato dalla Corte di cassazione per affermare che la deduzione di una doppia condanna per il cumulo di tali titoli non rientra fra quelle che possono sorreggere un ricorso avverso sentenza della Corte dei conti ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e 362 c.p.c., trattandosi di questione attinente non ai limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali di detto giudice, quanto alla proponibilità della domanda avanti al giudice contabile, e, quindi, ai limiti interni della sua giurisdizione, ovvero ad un error in iudicando per violazione del ne bis in idem.
Altrimenti, principi analoghi si continuano a leggere, nel decidere su motivi formulati ai sensi dell’art. 360, primo comma, c.p.c., per smentire che la Corte dei conti abbia giurisdizione esclusiva in tema di danni causati all’amministrazione del dipendente, restando la giurisdizione civile e quella contabile reciprocamente alternative ed indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale. Ne consegue che la giurisdizione della Corte dei conti per il giudizio sulla responsabilità dei funzionari che abbiano arrecato un danno all’erario è, si, speciale e particolare, ma non anche esclusiva, poiché non esclude la competenza del giudice ordinario sulla responsabilità civile, non essendovi illeciti di diritto pubblico e illeciti di diritto privato[6].
Ben diverso apparirebbe, invece, non prendere atto che:
a)sia l’azione di responsabilità amministrativa rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti su iniziativa dal pubblico ministero contabile, sia l’azione di responsabilità civile esercitata dall’amministrazione danneggiata dinanzi al giudice ordinario, seguono identiche finalità di reintegrazione del patrimonio del soggetto leso e di deterrenza e sanzione dell’autore;
2) la natura civile del giudizio di responsabilità contabile, orientato al solo risarcimento dell’amministrazione danneggiata, ne esclude la soggezione al principio del divieto di bis in idem (Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, sentenza 13 maggio 2014, Rigolio contro Italia), il quale appartiene al diritto penale e si traduce nel divieto di punire due volte un soggetto per un medesimo “fatto storico”, cioè per la stessa vicenda materiale; non ricorre pertanto in questa materia neppure la necessità della connessione sostanziale e temporale tra procedimenti sanzionatori, che governa i casi di “doppio binario” punitivo in senso proprio allo scopo di assicurare il rispetto proprio della proporzionalità della pena complessiva cumulata;
3) si pone qui, piuttosto, un problema tipico del giudicato civile, che deve essere sempre idoneo ad accertare “a ogni effetto” se ed a chi spetti il diritto al bene della vita in contesa, coprendo “il dedotto e il deducibile”, sì da a dettare una stabile, ed anzi definitiva, regula iuris nel rapporto tra le parti;
4) si tratta, in sostanza, di evitare la duplicazione delle pretese e la distorsione ultracompensativa delle conseguenti statuizioni risarcitorie che facciano capo ad un’identica vicenda sostanziale e al medesimo rapporto tra l’amministrazione danneggiata e il suo dipendente, e siano perciò inscrivibili nello stesso ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo (da ultimo, Cass. Sez. Un. 19 marzo 2025, n. 7299);
5) non rassicura, al fine di individuare un rapporto di specialità che dissolva il concorso apparente di responsabilità, l’una erariale, l’altra civile, il criterio del bene o dell'interesse protetto dalle concorrenti tutele giurisdizionali, dovendosi invece verificare che le rispettive condanne, pur coincidendo sotto il profilo dell’identità dell'avversato comportamento doloso o gravemente negligente del funzionario pubblico, si differenzino per il fatto di dar rilievo, l’una e non l’altra, ad ulteriori elementi tipizzanti[7].
5. La confluenza del ‹‹doppio binario››
A tali possibili incongruenze applicative ha meritoriamente posto rimedio in modo esplicito la più recente elaborazione della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che, pur partendo dall’assunto della diversità del rilievo, rispettivamente pubblico e privato, degli interessi tutelati dalle autonome azioni di responsabilità contabile e di responsabilità civile, ha affermato con chiarezza il limite – evidentemente interno delle concorrenti giurisdizioni, attenendo al loro modo di esercizio - del divieto di duplicazione delle pretese risarcitorie, violativa del principio di effettività del danno.
Questa evoluzione rappresenta il puntuale sviluppo della netta affermazione contenuta tra le righe nella sentenza della Corte costituzionale n. 203 del 2022, ove, come visto nelle pagine precedenti, ribadendo che il pubblico agente può essere convenuto per il danno arrecato all’amministrazione sia davanti alla Corte dei conti, sia davanti al giudice ordinario, si è utilizzato il caveat «… senza naturalmente che vi sia cumulo del danno risarcibile, erariale o civile››[8].
Si tratta di un passaggio che, invero, si apprezzava già in Corte cost. 7 luglio 1988, n. 773, ove, nel negare la illegittimità costituzionale dell'art. 26 del previgente codice di procedura penale, in relazione all'art. 489, secondo comma, dello stesso codice, che precludeva l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del giudicato penale che avesse provveduto alla liquidazione del danno in favore della Pubblica Amministrazione costituitasi parte civile, si sottolineava che «il fatto, nella sua fenomenica oggettività, è il medesimo …, e che pertanto esso non può … dar luogo ad una duplicità di pretese (e di conseguenze) risarcitorie››.
In tal senso, si è dunque precisato che «il limite del divieto di duplicazione delle pretese risarcitorie, che non incide sulla giurisdizione, impone di tener conto, con effetto decurtante, di quanto già liquidato in altra sede (contabile o civile a seconda della priorità che in concreto si riscontra fra le azioni) e che quel limite potrà essere eventualmente fatto valere dal debitore anche in sede esecutiva›› (Cass. Sez. Un. 26 giugno 2024, n. 17634; ma già, a ben leggere, in Cass. Sez. Un. 15 febbraio 2022, n. 4871; Cass. 20 dicembre 2018, n. 32929; Cass. 14 luglio 2015, n. 14632).
Rimangono alcuni punti di attrito: non esiste possibilità di coordinamento in ipotesi di contemporanea pendenza del giudizio civile e del giudizio contabile sul medesimo fatto; l’azione dinanzi alla Corte dei conti deve, poi, comunque ritenersi preclusa nel caso in cui la condanna erogata dal giudice ordinario abbia consentito l’effettiva integrale refusione del danno (così si è sostenuto, ad esempio, nella Relazione al codice di giustizia contabile, ove si affermava che il legislatore delegato avesse preso atto della impossibilità di vietare in assoluto alle pubbliche amministrazioni di intraprendere giudizi risarcitori nei confronti dei dipendenti dinanzi al giudice civile, che pur potrebbero porsi come temerari e fonte di danno aggiuntivo, oltre che di sicuro onere in ragione dei costi di difesa).
6. Responsabilità civile per le ‹‹società in house››
L’art. 12 (Responsabilità degli enti partecipanti e dei componenti degli organi delle società partecipate) del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), dispone:
1. I componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società partecipate sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house. È devoluta alla Corte dei conti, nei limiti della quota di partecipazione pubblica, la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale di cui al comma 2.
2. Costituisce danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti, ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione.
L’art. 12 d.lgs. n. 175 del 2016 ha dato attuazione all’art. 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche)[9], il quale, fra i principi e criteri direttivi del decreto legislativo per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, individuato il “fine prioritario di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela e promozione della concorrenza”, indicava “la precisa definizione del regime delle responsabilità degli amministratori delle amministrazioni partecipanti nonché dei dipendenti e degli organi di gestione e di controllo delle società partecipate” e la “eliminazione di sovrapposizioni tra regole e istituti pubblicistici e privatistici ispirati alle medesime esigenze di disciplina e controllo”.
Il problema sicuramente più delicato che la formulazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 lascia irrisolto è proprio quello della configurabilità di una responsabilità civile concorrente rispetto a quella erariale degli organi delle società in house.
La posizione originaria su cui si attestò la giurisprudenza delle Sezioni Unite si ritrova nella sentenza n. 26283 del 2013: quando la società partecipata da enti pubblici e danneggiata dai propri gestori ed organi di controllo presenta le caratteristiche di una cosiddetta società in house, occorre prendere atto che è impossibile realizzare un soddisfacente coordinamento sistematico tra l’azione di responsabilità dinanzi al giudice contabile e l’esercizio delle azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile, in quanto il danno erariale e il danno civile sono reciprocamente escludenti. Il danno cagionato dagli organi della società al patrimonio sociale, che può dar vita all’azione sociale di responsabilità ed eventualmente a quella dei creditori sociali, è sofferto da un soggetto privato (la società) e non implica alcun danno erariale, sicché è inidoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti. Risulta viceversa configurabile l’azione del procuratore contabile quando sia volta a far valere la responsabilità dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico che sia stato danneggiato dall’azione illegittima non di riflesso, quale conseguenza indiretta del pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, bensì direttamente. Dunque, per gli organi di società in house, costituendo queste mere articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non soggetti giuridici da essa autonomi, il danno eventualmente inferto al patrimonio sociale è arrecato ad un patrimonio (separato, ma) riconducibile all’ente pubblico, ed è perciò sempre erariale.
Il tema era poi al centro della questione di giurisdizione decisa nell’ordinanza delle Sezioni Unite n. 5848 del 2015 con riguardo a regolamento proposto in pendenza di un giudizio civile di responsabilità degli amministratori di una società totalitariamente partecipata da un ente pubblico. Il Procuratore generale aveva concluso per l’inammissibilità del regolamento di giurisdizione, muovendo dal presupposto che tra l’azione erariale proponibile dinanzi alla Corte dei conti e l’azione sociale di responsabilità esperibile nei confronti degli organi di società a norma del codice civile non sussista un rapporto di esclusività, bensì di alternatività. Le Sezioni Unite, al contrario, evidenziarono che la questione di giurisdizione sussisteva, in quanto alcuni dei convenuti nel processo dinanzi al tribunale civile avevano eccepito il difetto di giurisdizione, assumendo di essere in presenza di una situazione che comporterebbe la giurisdizione esclusiva del giudice contabile. Il Collegio si interrogò, allora, se, nel particolare caso di danni cagionati ad una società in house, gli specifici argomenti che hanno condotto le Sezioni Unite ad affermare la giurisdizione della Corte dei conti nelle azioni di responsabilità promosse nei confronti degli organi sociali responsabili di quei danni - implicanti l’inesistenza, almeno a questo fine, di un vero e proprio rapporto di alterità soggettiva tra la società partecipata e l’ente pubblico partecipante - non debbano al tempo stesso portare, sul piano logico, ad escludere la possibilità di una (eventualmente concorrente) giurisdizione del giudice ordinario investito da un’azione sociale di responsabilità per i medesimi fatti”. La risposta a tale quesito si rivelò, tuttavia, superflua nel caso di specie, in quanto la società di cui si discuteva era divenuta in house nel corso della sua esistenza, ma non lo era al tempo in cui i suoi amministratori e sindaci avevano tenuti i comportamenti oggetto di causa.
Dopo la ventata privatistica che investì le società a partecipazione pubblica con il d.lgs. n. 175 del 2016 (indicativi risultano i già ricordati art. 1, comma 3, e art. 14, comma 1), le ordinanze delle Sezioni Unite n. 22406 del 2018 e nn. 4883 e 10019 del 2019[10] hanno affermato l’ammissibilità della proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio e conseguentemente riconosciuto sussistente la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento ad azioni di responsabilità esercitate dai curatori dei fallimenti di società in house” nei confronti degli amministratori, dei componenti degli organi di controllo e dei direttori generali delle stesse. La scelta del paradigma privatistico, in mancanza di specifiche disposizioni di segno contrario o di ragioni ostative di sistema, comporta l’applicazione del regime giuridico proprio dello strumento societario adoperato. Gli argomenti addotti da queste decisioni delle Sezioni Unite a sostegno del c.d. “doppio binario giurisdizionale” sono già stati esaminati nelle pagine precedenti: l’azione di responsabilità per danno erariale e l’azione civile intentata dalle amministrazioni partecipanti sono reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali: la prima è volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, mentre la seconda è finalizzata al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola Amministrazione. La responsabilità contabile non può rivelarsi altrimenti paralizzante dell’attuazione della tutela dei creditori sociali. Non indurrebbe a diverso esito interpretativo il “Principio di concentrazione” sancito dall’art. 3 del d.lgs. n. 174 del 2016 (in forza del quale, “[n]ell’ambito della giurisdizione contabile, il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice contabile di ogni forma di tutela degli interessi pubblici e dei diritti soggettivi coinvolti, a garanzia della ragionevole durata del processo contabile”), giacché comunque non può darsi una pronuncia di condanna da parte della Corte dei conti in favore della società in house anziché dell’ente socio, così da offrire tutela ai creditori sociali. Il rischio della “duplicazione dei risarcimenti”, che la concorrenza delle azioni porta con sé, è problema pratico che non può incidere sull’assetto delle giurisdizioni. Si segnala, infine, l’aporia che deriverebbe dal supporre il difetto di giurisdizione del giudice ordinario adito pure quando la giurisdizione della Corte dei conti non sia stata radicata, per non aver esercitato l’azione erariale il Procuratore contabile, unico a tanto legittimato.
Anche l’ordinanza delle Sezioni Unite n. 614 del 2021 ha valutato l’eventualità che l’esclusione del rapporto di alterità soggettiva tra la società in house e l’ente pubblico partecipante conduca, attraverso l’affermazione del concorso tra la giurisdizione del Giudice contabile investito dall’azione di risarcimento del danno erariale e quello ordinario investito della azione sociale di responsabilità, ad una duplicazione di giudicati inerenti al medesimo fatto; ciò non costituisce ostacolo alla coesistenza delle azioni aventi “ad oggetto il medesimo danno”, visto che le “due giurisdizioni sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, e tenuto altresì conto della tendenziale diversità di oggetto e di funzione tra i relativi giudizi”. Sicché, “il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, e non dà quindi luogo a questioni di giurisdizione ma, eventualmente, di proponibilità della domanda …, fermo restando il limite (che può essere fatto valere, se del caso, anche in sede di esecuzione) rappresentato dal divieto di duplicazione del risarcimento, il quale impone a ciascuno dei Giudici di tener conto, nella liquidazione, di quanto eventualmente già riconosciuto nell’altra sede”.
Questo ennesimo profilo dilemmatico del tema in esame è inevitabilmente correlato al testo della norma.
Quando il primo comma dell’art. 12 del d.lgs. n. 175 del 2016 fa “salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house” intende comunque riferirsi soltanto al danno erariale (la precisazione “nei limiti della quota di partecipazione pubblica” non rileva per le società in house, ove la partecipazione è totalitaria) descritto dal secondo comma, e cioè a quello “subito dagli enti partecipanti”? Se così fosse, sarebbero estranee alla giurisdizione contabile le domande aventi ad oggetto il danno subìto dal patrimonio dalla società in house, e cioè le azioni sociali di responsabilità ex art. 2393 c.c. e le azioni di responsabilità verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c.
Se invece pure si recidesse il collegamento, di cui ai due commi dell’art. 12, tra la clausola di salvezza della giurisdizione contabile per il danno inerente alle società in house e il danno subito dai soli enti partecipanti, riferendosi al generale ambito della giurisdizione della Corte dei conti nei giudizi di conto di responsabilità amministrativa per danno all’erario, resterebbe da trovare un giudice che conosca dell’autonoma azione dei creditori sociali diretta a far valere la responsabilità degli organi della società nei loro confronti a norma dell’art. 2394 c.c.[11] Né le esigenze di effettività di tutela dei creditori sociali potrebbero ritenersi soddisfatte dall’intervento nel giudizio erariale, essendo lo stesso rimesso all’iniziativa del procuratore contabile e operando in esso la responsabilità unicamente per i fatti e le omissioni commessi con dolo o colpa grave, la trasmissibilità del debito agli eredi nei limiti dell’illecito arricchimento del dante causa e dell’indebito arricchimento degli eredi stessi, il potere di riduzione della condanna, la condanna delle più persone che abbiano causato lo stesso danno ciascuno per la parte che vi ha preso, a meno che non abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo [12].
Oltre all’azione civile e all’azione contabile, tentano, dunque, di mantenere una specie di coesistenza pacifica e diffidente, tanto in giurisprudenza che in dottrina, tesi secondo cui il danno cagionato alla società in house è indistintamente un danno arrecato all’ente pubblico, unici essendo il soggetto ed il suo patrimonio, quanto meno in termini di appartenenza, e tesi che invece individuano azioni di responsabilità volte a risarcire il danno subìto dal patrimonio dalla società in house e non anche dal patrimonio dell’ente pubblico partecipante.
7. Quale futuro per la responsabilità amministrativa?
Com’è noto, un ampissimo dibattito ha suscitato la sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024, per aver essa tracciato gli scenari del mondo ideale della responsabilità amministrativa, della quale la sentenza ha auspicato una complessiva riforma per ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le trasformazioni dell’amministrazione “di risultato”, disegnando nuovi punti di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, con l’obiettivo di rendere la responsabilità ragione di stimolo e non disincentivo all’azione, così da debellare il fenomeno della “burocrazia difensiva” ed alleviare la fatica dell’amministrare, senza sminuire la funzione deterrente della responsabilità amministrativa[13].
La sentenza n. 132 del 2024 ha suggerito: un’adeguata tipizzazione della colpa grave; l’introduzione, in aggiunta al potere giudiziale di riduzione ex post, di un limite massimo (“tetto”) ex ante oltre il quale il danno, per ragioni di equità nella ripartizione del rischio, non venga addossato al dipendente pubblico, ma resti a carico dell’amministrazione; la rateizzazione del debito risarcitorio; la previsione di fattispecie obbligatorie di esercizio del potere riduttivo; il rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti, con il contestuale abbinamento di una esenzione da responsabilità colposa per coloro che si adeguino alle sue indicazioni; la incentivazione delle polizze assicurative; l’esclusione della responsabilità colposa per specifiche categorie di pubblici dipendenti, anche solo in relazione a determinate tipologie di atti.
Da ultimo, per quanto qui più interessa, la Corte costituzionale ha segnalato al legislatore l’opportunità di «intervenire per scongiurare l’eventuale moltiplicazione delle responsabilità degli amministratori per i medesimi fatti materiali e spesso non coordinate tra loro››[14].
Lo scenario che ne emerge, ricostruito anche alla luce del convergente progetto riformatore veicolato dalla proposta di legge A.C. n. 1621, non è univoco: da un lato, le ipotesi riformatrici sembrano volte a rafforzare la dimensione prettamente pubblicistica della responsabilità amministrativo-contabile, distaccandosi dagli irrinunciabili principi civilistici del danno effettivo e dell’integralità della riparazione risarcitoria, in nome di un bilanciamento tra contrapposti interessi, parimenti meritevoli di tutela, tra la funzione deterrente della medesima responsabilità erariale e l’alleggerimento della fatica dell’amministrare; d’altro lato, si intenderebbe incentivare l’utilizzo di strumenti prettamente privatistici, quali le coperture assicurative e gli accordi di conciliazione e transazione, che suppongono diritti disponibili e comunque non possono scalfire la garanzia di responsabilità personale e diretta dei funzionari e dipendenti dello Stato nei confronti dei cittadini, a norma dell’art. 28 Cost., il che dovrebbe costituire, piuttosto, un fattore di ulteriore frammentazione dei giudizi di responsabilità dinanzi alle diverse Corti munite di giurisdizione[15].
L’indicazione della incentivazione delle polizze assicurative dovrà confrontarsi con l’esigenza di consentire la chiamata in garanzia della società assicuratrice, il che non è ammesso nell’esercizio della giurisdizione della Corte dei conti.
Nella medesima prospettiva, andrebbero valutati gli effetti della profilata tipizzazione delle ipotesi di colpa grave, le quali varrebbero nella responsabilità del pubblico dipendente verso l’amministrazione e non verso i terzi, con necessità di coordinamento rispetto alle ipotesi in cui la stessa amministrazione, condannata a risarcire il danno al terzo, agisca poi in rivalsa nei confronti dell’impiegato.
Come, poi, mettere a regime la previsione di “tetti” di responsabilità ragguagliati al trattamento economico complessivo annuo quando tra l’autore dell’illecito causativo di danno patrimoniale e l’ente pubblico che il danno subisce non intercorre un rapporto di impiego in senso proprio, oppure quando il danno sia stato cagionato ad enti pubblici diversi da quelli di appartenenza dell’agente?
Come, ancora, ipotizzare fattispecie obbligatorie normativamente tipizzate di riduzione, entro un minimo e un massimo predeterminati, nella quantificazione di un danno che già conosce un potere di riduzione discrezionale, deve tener conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o dalla comunità amministrata, e impone di condannare ogni corresponsabile per la parte che ha contribuito al fatto dannoso?
Non appare, infine, improbabile un notevole incremento dei ricorsi per cassazione contro le decisioni della Corte dei conti, volti a denunciare la violazione delle nuove disposizioni di tipizzazione della colpa grave o dei divieti di cumulo di azioni, o il superamento del “tetto” della condanna risarcitoria, o il mancato esercizio della riduzione in ipotesi obbligatoria, o il mancato esonero ex lege da responsabilità per l’adeguamento osservato alla indicazioni espresse in sede consultiva, o per l’appartenenza a taluna delle specifiche categorie di dipendenti esentati, ove tutti questi innovativi parametri si intendessero non quali limiti di merito interni alla potestas iudicandi, quanto, piuttosto, quali presupposti normativamente previsti per il sorgere della responsabilità amministrativa contestata dal Procuratore contabile, perciò integranti questioni di giurisdizione.
[1] Com’è noto, l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, ha introdotto una disciplina temporanea dell’elemento soggettivo (prorogata con successivi decreti-legge fino al 31 dicembre 2024), che, quanto alle condotte attive, ha limitato la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti alle sole ipotesi dolose. La legittimità costituzionale di tale regime normativo provvisorio, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., è stata affermata nella già “storica” sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024.
[2] Così Corte cost. 28 luglio 2022, n. 203, che ha dichiarato inammissibili, per la richiesta di un intervento additivo precluso alla Corte costituzionale, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, cod. giustizia contabile, che rispettivamente prevedono il divieto di chiamata in causa di altri soggetti non evocati in giudizio dal p.m. e impongono comunque all’autorità giudiziaria di valutare la responsabilità di tutti i soggetti concorrenti nell’illecito ai fini della decisione sull’eventuale scomputo di quote di responsabilità a carico dei convenuti. La sentenza ha osservato che la norma censurata non esclude il possibile esercizio, da parte del giudice, in caso di «fatti nuovi», del potere officioso di segnalazione al p.m., che, titolare del potere di azione, potrà invitare il terzo a dedurre, al fine di discolparsi. Se invece la ipotizzata corresponsabilità del terzo derivi da un diverso apprezzamento da parte del giudice di fatti già valutati dal p.m., è giustificato il fatto che il terzo non possa essere chiamato a intervenire in giudizio, perché significherebbe un’inammissibile estensione officiosa della domanda del p.m., senza la garanzia, per il terzo, di una previa formale istruttoria e soprattutto senza il previo invito, a quest’ultimo, a dedurre e a discolparsi. Quanto, infine, alla possibilità di un’iniziativa volontaria del terzo stesso, essa implicherebbe la costruzione di una fattispecie processuale di suo intervento in giudizio e, prima ancora, di denuntiatio litis, che appaiono scelte di sistema devolute al legislatore. Tuttavia, secondo la Corte cost., il denunciato deficit di tutela del terzo, non convenuto e il cui intervento in giudizio non può essere ordinato dal giudice, né aversi su base volontaria senza aderire alla posizione del p.m., chiama il legislatore a intervenire nella materia, compiendo le scelte discrezionali ad esso demandate..
[3] Come osserva G. Bottino, Responsabilità amministrativa per danno all’erario, in Enc. Dir., Annali, X, 2017, 761, è “non eliminabile il rapporto che intercorre tra la natura giuridica della responsabilità amministrativa per danno erariale e le funzioni ad essa ascrivibili: la riconduzione alla responsabilità civile ne accentua infatti la funzione risarcitoria, e reintegratoria, del patrimonio delle pubbliche amministrazioni danneggiate; la costruzione di una natura giuridica propria, ed autonoma, rende invece più pronunciata la funzione sanzionatoria a carico degli agenti pubblici danneggianti”.
[4] R. Alessi, Responsabilità amministrativa patrimoniale, in N.ssmo Dig. It., XV, Torino, 1957, 623: ‹‹il fondamento della responsabilità che qui si esamina è la effettiva produzione di un danno erariale, cioè la violazione del diritto dell’amministrazione all’integrità del suo patrimonio, non la mera violazione di obblighi di comportamento incombenti agli impiegati (elemento che, eventualmente, potrà porsi come causa del fatto dannoso)››. Così, ancora di recente, L. Caso, Danno erariale e burocrazia difensiva, in Rivista Amministrativa della Repubblica italiana, 2023, 11-12, 623.
Per le tesi che hanno configurato la responsabilità amministrativa come speciale responsabilità di diritto pubblico, che ha fonte nel rapporto di servizio precostituito e si sostanzia nella violazione dei relativi obblighi, costituente un illecito amministrativo, si veda F. Garri, Responsabilità amministrativa, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, 1991, 1 ss.
[5] Così nel pregevolissimo contributo di G. Rivosecchi, Il bastone e la carota. Appunti su una proposta di riforma della Corte dei conti, in Osservatorio costituzionale, 4/2024, 9, che esamina criticamente i contenuti della proposta di legge A.C. n. 1621, di riforma complessiva delle funzioni affidate alla Corte dei conti, ove si cita indicativamente, a base della teorica del ‹‹doppio binario››, M.R. Morelli, Art. 28, in V. Crisafulli – L. Paladin, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 1990, 199 e 202 ss.
[6] Le Sezioni Unite della Corte di cassazione riconoscono che la affermazione di una giurisdizione esclusiva in materia (come ad esempio sosteneva R. Alessi, Responsabilità amministrativa patrimoniale, cit., 624) e “l’eventuale ripensamento del principio del «doppio binario» … produrrebbe(ro) come effetto nella fattispecie quello dell’affermazione della giurisdizione del solo giudice contabile, giammai quello della negazione del potere di ius dicere in capo a quest’ultimo”: Cass. Sez. Un. 26 giugno 2024, n. 17634.
[7] L. Caso, Danno erariale e burocrazia difensiva, cit., 626 - 627, lamenta il ruolo passivo in cui il presunto autore del danno è relegato di fronte alla facoltà dell’amministrazione di scegliere tra la segnalazione alla Procura della Corte dei conti, la citazione innanzi al giudice civile o la costituzione di parte civile nell’eventuale processo penale, nonché il pregiudizio al diritto di difesa che lo stesso pubblico dipendente subisce allorché sia convenuto innanzi alla Corte dei conti per rispondere di un danno indiretto accertato in un giudizio civile cui egli sia rimasto estraneo.
[8] Corte cost. 28 luglio 2022, n. 203.
[9] Dichiarato costituzionalmente illegittimo, con riguardo alle lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7), nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, commi 1 e 4, della medesima legge n. 124 del 2015, prevede che il Governo adotti i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata: Corte Cost. 25 novembre 2016, n. 251.
[10] Precedute dall’ordinanza n. 24591 del 2016 e dalla sentenza n. 7759 del 2017 che, sempre con riguardo a società in house, avevano già attribuito al giudice ordinario le azioni concernenti, rispettivamente, la nomina o la revoca di amministratori e sindaci e le procedure seguite per l’assunzione del personale dipendente.
[11] Le ragioni di tutela dei creditori sociali sono state sempre poste in primo piano in dottrina per confutare le soluzioni “pan-erariali”, sottolineandosi come la separazione dei patrimoni dell’ente pubblico e della società in house serve altresì a scongiurare il rischio che i creditori sociali possano agire nei confronti del socio pubblico o che i creditori dell’ente pubblico si rivalgano nei confronti del patrimonio sociale: C. Ibba, Responsabilità erariale e società in house, cit. 13 ss.; già C. Ibba, Azioni ordinarie di responsabilità e azione di responsabilità amministrativa nelle società in mano pubblica. Il rilievo della disciplina privatistica, in Riv. dir. civ., 2006, II, 145 ss.
[12] Così C. Ibba, Responsabilità erariale e società in house, in Giur. comm. 2014, 13 ss.; “[n]on bisogna dimenticare, infatti, che la responsabilità amministrativa ha presupposti e caratteristiche che limitano l’effetto riparatorio (perché è attivabile solo in caso di dolo o colpa grave, è tendenzialmente parziaria e intrasmissibile mortis causa ed è quantificabile — e di regola quantificata — in un importo ridotto rispetto all’ammontare del danno), sicché ammetterla nei confronti degli amministratori equivarrebbe a sacrificare le finalità di riequilibrio patrimoniale proprie della responsabilità civilistica ovvero, ove si ritenesse configurabile una successiva azione in sede civile per il danno residuo, a costringere a una «moltiplicazione dei giudizi» (cosa che peraltro supporrebbe il superamento dell’esclusività della giurisdizione contabile)”.
Si vedano più di recente M. Perrino, Responsabilità degli organi di amministrazione e controllo di società a partecipazione pubblica (anche in house) e riparto di giurisdizione, in Riv. dir. soc. 1919, 15-38; F. Lorenzetti, La responsabilità degli amministratori nelle società partecipate e il riparto di giurisdizione tra la Corte dei Conti e il Giudice Ordinario, in Federalismi.it, 15 giugno 2022, 201-2019.
[13] In realtà, è già approdo raggiunto in giurisprudenza che, in tema di giudizi di responsabilità amministrativa, la Corte dei conti debba verificare pure se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, poiché la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti, secondo i criteri di efficacia ed economicità di cui all’art. 1 della l. n. 241 del 1990, senza che ciò implichi un sindacato sul merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione e, dunque, una violazione dei limiti esterni della giurisdizione ovvero della riserva di amministrazione: Cass. Sez. Un. 23 gennaio 2024, n. 2290.
[14] Estremamente critico al riguardo (come, per la verità, sull’intera sentenza) V. Tenore, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Foro it. 2024, 4, V, osservandosi che la proposta di scongiurare l’eventuale moltiplicazione delle responsabilità degli amministratori per i medesimi fatti materiali, spesso non coordinate tra di loro, è contraria al principio generale di plurioffensività delle medesime condotte, potendo lo stesso comportamento configurare, cumulativamente, un reato, un danno erariale, un illecito disciplinare e un danno civile arrecato a terzi, sicché il cumulo di reazioni non può essere precluso legislativamente se non nei casi di sanzioni della medesima natura secondo le note categorie del ne bis in idem.
I consigli somministrati nella sentenza n. 132 del 2024 sono in gran parte coincidenti con le linee in cui si articola il d.d.l. A.C. n. 1621, recante “Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale”. In proposito, F. S. Marini, La sentenza n. 132 del 2024: la Corte costituzionale sperimenta nuove tecniche decisorie, in Rivista della Corte dei conti, 2024, 4, I, 1 ss.; F. Cintioli, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi.it, 2024/19, 122 ss.; D. Palumbo, La sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024: verso un nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra la P.A. e l’agente pubblico?, in Giustizia insieme 18 novembre 2024; L. Balestra, Per un ripensamento della responsabilità erariale e, più in generale, delle funzioni della Corte dei conti, in Giur. it. 2024, 2166 ss.; G. Bottino, La «quadratura del cerchio»: amministrare per risultati, temere le responsabilità pubbliche, difendersi perché «così fanno tutti», in Giur. cost., 2024, 1619 ss.
[15] Cfr. G. Rivosecchi, Il bastone e la carota. Appunti su una proposta di riforma della Corte dei conti, cit., 21 ss.
[i] Estratto dal testo della relazione dal titolo Confronto a due voci tra Corte dei Conti e Sezioni Unite civili tenuta nel corso Le interazioni tra disciplina di contabilità pubblica e questioni civilistiche organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura e programmato nella sede di Napoli - Castel Capuano dal 14 al 16 aprile 2025.
Foto via Wikimedia Commons.
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