ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Rivista Giustizia Insieme dedicherà alcuni contributi e approfondimenti tematici in prospettiva dei cinque referendum abrogativi indetti con separati Decreti del Presidente della Repubblica in data 31 marzo 2025, con la convocazione dei comizi elettorali per i giorni di domenica 8 giugno e lunedì 9 giugno 2025 (G.U. n. 75 del 31 marzo 2025), destinati anche al voto di ballottaggio delle elezioni amministrative.
I quesiti referendari hanno ad oggetto, in estrema sintesi, l’abrogazione: a) di alcune norme sulla cittadinanza; b) del decreto delegato attuativo del Jobs Act in materia di licenziamenti illegittimi (d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015); c) della disposizione normativa sulla misura massima dell’indennità da licenziamento illegittimo nelle piccole imprese; d) di alcune norme che hanno liberalizzato i contratti a termine; e) della disposizione normativa che esonera l’impresa committente dalla responsabilità in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali.
Per completezza di documentazione pubblichiamo l’annuncio dei quesiti referendari; le cinque ordinanze depositate in data 12 dicembre 2024 dall’Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte Suprema di Cassazione, che hanno dichiarato conformi a legge le richieste referendarie; le sentenze della Corte Costituzionale del 7 febbraio 2025 (rispettivamente nn. 11,12,13,14 e 15), con le quali sono state dichiarate ammissibili le richieste di referendum popolare.
DPR indizione referendum e quesiti: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2025/03/31/75/sg/html
Le cinque ordinanze depositate in data 12 dicembre 2024 dall’Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte Suprema di Cassazione: https://www.cortedicassazione.it/page/it/ordinanze_ufficio_centrale_it_1?contentId=REF35105
Le sentenze della Corte Costituzionale del 7 febbraio 2025, con le quali sono state dichiarate ammissibili le richieste di referendum popolare.
La nuova liberazione anticipata. Dubbi e criticità.
Brevi note sulle ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale emessa dal magistrato di Sorveglianza di Napoli (ord. in data 7.3.2025) e dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto (ord. in data 25.3.2025).
Sommario: 1. Le modifiche introdotte dal legislatore in materia di accesso al beneficio – 2. I dubbi di costituzionalità. Profili di irragionevolezza e ostacoli al finalismo rieducativo della pena - 3. Il raggiungimento degli obiettivi e l’impatto sugli Uffici. Qualche considerazione.
1. Le modifiche introdotte dal legislatore in materia di accesso al beneficio
A meno di un anno dal decreto “Carcere sicuro” (DL n.92 del 5.7.2024 conv. in L. 8.8.2024 n. 112) che ha profondamente trasformato l’istituto della liberazione anticipata disciplinato dall’ordinamento penitenziario, la magistratura di sorveglianza si è rivolta alla Corte Costituzionale dubitando della conformità della nuova disciplina ai principi di finalità rieducativa della pena e di ragionevolezza sanciti dagli artt. 3 e 27 comma II della Costituzione.
Lo scopo perseguito dal legislatore, esplicitato nella Relazione di accompagnamento al decreto-legge, è quello di garantire una applicazione più efficace della liberazione anticipata, sia in favore del detenuto, sia in favore della magistratura di sorveglianza, attraverso una semplificazione della procedura che sgravi il lavoro degli uffici di sorveglianza e, al contempo dia maggiore certezza ai detenuti circa il maturare, nel corso dell’esecuzione della pena del beneficio, sia infine per evitare i rischio che il riconoscimento avvenga a troppa distanza dall’insorgere dei suoi presupposti con effetti negativi sull’accesso ad altri benefici penitenziari e sulla individuazione del termine finale della pena e, in tale ottica, si è proceduto alla modifica dell’art. 69 bis OP, che disciplina il procedimento attraverso cui si addiviene alla valutazione in ordine al riconoscimento del beneficio e all’aggiunta del comma 10 bis all’art. 656 c.p.p. che disciplina l’esecuzione delle pene detentive.
La regola generale dell’accesso alla liberazione anticipata su istanza di parte è stata sostituita dalla previsione di un intervento officioso del magistrato di sorveglianza in due momenti distinti dell’esecuzione penale. Il primo costituito dalla presentazione di istanze di misure alternative o di altri benefici, rispetto ai quali, nel computo della pena espiata o da espiare necessaria per l’accesso agli stessi, sia rilevante la liberazione anticipata. Il secondo costituito dall’approssimarsi del fine pena. In relazione a questa seconda ipotesi il comma 10 bis dell’art. 656 c.p.p. prevede che nell’ordine di esecuzione venga indicato, accanto alla cadenza pena effettiva, il fine pena “virtuale” ovvero quello risultante dal preventivo computo delle detrazioni che la persona condannata potrà ottenere durante l’esecuzione a titolo di liberazione anticipata. Il magistrato dovrà intervenire nel termine di 90 giorni antecedente al fine pena virtuale per evitare che il riconoscimento del beneficio avvenga successivamente alla scadenza della pena. La norma prevede inoltre che l’ordine di esecuzione contenga l’avviso al condannato che le detrazioni di pena indicate non saranno riconosciute se lo stesso non avrà dato prova di effettiva partecipazione all’opera di rieducazione.
Il maccanismo doppia indicazione della pena\avviso al condannato costituisce, nell’intenzione del legislatore, un accorgimento idoneo a stabilizzare i semestri di interesse e a promuovere l’adesione all’opera rieducativa.
È stato, dunque, ribaltato l’originario meccanismo secondo cui il Pubblico Ministero aggiornava l’entità della pena da espiare in corrispondenza all’emissione di provvedimenti di liberazione anticipata, in favore di un sistema che, partendo dall’indicazione della massima riduzione di pena possibile in astratto può variare nel tempo solo in termini negativi per il condannato.
Carattere meramente residuale assume, invece, l’avvio del procedimento su istanza di parte al di fuori dei momenti sopraindicati. L’istanza di parte deve essere sostenuta da uno interesse specifico, diverso da quello generico a conoscere l’andamento semestrale del proprio percorso rieducativo. Infatti, nell’ottica che anima la riforma, tale interesse deve essere sempre correlato ad ottenere un vantaggio in termini di accesso a benefici o di anticipazione della scadenza pena. Di fatto, l’unico interesse diverso da quello sotteso alle valutazioni officiose concretamente ipotizzabile, è, come indicato nella Relazione di accompagnamento al decreto legge, quello ad ottenere il c.d. scioglimento del cumulo (ovvero lo scorporo della quota pena relativa a reati che rendono più complesso l’acceso a benefici o che addirittura lo precludono).
2. I dubbi di costituzionalità. Profili di irragionevolezza e ostacoli al finalismo rieducativo della pena
La nuova normativa è oggi al vaglio della Corte Costituzionale.
Le ordinanze di rimessione dei magistrati Sorveglianza di Napoli e di Spoleto focalizzano i loro rilevi sulla parte della norma che limita l’accesso al beneficio su istanza di parte. È questa, infatti, la disposizione che maggiormente impatta sull’impianto dell’istituto, modificandone profondamente i connotati, in quanto priva le persone condannate, soprattutto quelle detenute in carcere, di uno strumento di verifica del proprio percorso e di un incentivo alla prosecuzione all’opera rieducativa
La liberazione anticipata è stata fino il beneficio cui tutte le persone in esecuzione di pena (non soltanto i detenuti in carcere) hanno avuto liberamente accesso, senza distinzione tra reati oggetto della condanna o tra differenti regimi penitenziari ed è stato anche, spesso, il primo beneficio sperimentabile dopo un periodo di esecuzione relativamente breve.
L’esperienza ci dice che la richiesta di ottenere “i giorni” - espressione di frequente utilizzata dalle persone condannate per riferirsi alla liberazione anticipata - è la prima che viene rivolta al magistrato di sorveglianza nel corso dei colloqui e che l’aspettativa della riduzione della pena che ne segue, è, per il condannato un momento importante di riconoscimento del proprio impegno anche nelle prime fasi della carcerazione ed un tassello su cui costruire la speranza di potere, in futuro, accedere ad altri più ampi benefici. L’istanza è, inoltre, il primo passo che il condannato compie verso un confronto con le istituzioni, in un’ottica di accettazione della condanna e di volontà di intraprendere un percorso rieducativo. Non è un caso, infatti, che alcuni condannati per reati correlati alla partecipazione ad associazioni criminali di stampo mafioso, manifestino la mancata accettazione delle regole dello Stato di diritto ed il rifiuto di confronto con la magistratura proprio attraverso la scelta, a volte rivendicata, di non presentare mai istanze di liberazione anticipata.
La periodicità delle istanze, correlate alla maturazione di uno o più semestri di pena, costituisce, quindi, un fattore che caratterizza il percorso rieducativo ed accompagna la persona condannata nel corso della espiazione della pena.
È significativo che la liberazione anticipata sia stata, fin dalla sua introduzione, correlata ad una valutazione frazionata dei semestri di espiazione della pena. Come ricordano entrambi i giudici rimettenti tale impostazione aveva ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale che, con la sentenza 276\1990 aveva evidenziato come la valutazione semestralizzata nella concessione della liberazione anticipata non fosse mero parametro di calcolo per effettuare le riduzioni della pena bensì “il punto di forza dello strumento rieducativo che si ricollega alle esperienze ed agli insegnamenti della terapia criminologica ... una sollecitazione che impegna le energie volitive del condannato alla prospettiva di un premio da cogliere in un breve lasso di tempo, purché in quel tempo egli riesca dare adesione all’azione rieducativa”. Osservava la Corte che “ se si dovesse riservare ad un giudizio lontano finale globale l'effettiva valutazione della partecipazione semestrale del condannato all'azione rieducativa da una parte ogni incentivo psicologico resterebbe frustrato a causa dell'incertezza che il futuro riserverebbe agli sforzi adesivi degli interessati e dall'altra resterebbero maggiormente penalizzati coloro fin dall'inizio avevano messo a disposizione tutta la loro buona volontà e ciò causa della possibilità che una cattiva prova finale per qualsiasi motivo verificatasi abbia vanificare anni di sforzi compiuti semestre per semestre e viceversa una furbesca condotta di adesioni nell'ultima fase abbia giustamente appropriare per l'intera durata della pena colui che per anni si era mostrato refrattario ogni partecipazione”.
In linea con tale impostazione le argomentazioni delle ordinanze in esame partono dal presupposto che la liberazione anticipata svolge funzioni trattamentali e di reinserimento sociale, entrambe fortemente compromesse da una obbligatoria posticipazione della valutazione della partecipazione all’opera rieducativa e degli effetti positivi che ne derivano, in prossimità della scadenza della pena.
Il magistrato di sorveglianza di Napoli osserva, infatti, che lo scrutinio periodico che accompagna il percorso del condannato consente una verifica cadenzata dell’andamento dello stesso, funzionale ad ottenere riscontri positivi e, dunque, incentivi psicologici alla partecipazione all’opera rieducativa; in caso di riscontri negativi induce a prendere atto di criticità, offrendogli la possibilità di attivarsi verso un cambiamento positivo che lo stesso possa verificare nel semestre successivo.
La riforma, in contrasto con tali principi, crea uno scarto tra condotta adesiva all’opera rieducativa e beneficio da riconoscere, incidendo così sulla progressione trattamentale e trasforma la funzione della liberazione in quella di mero computo algebrico della durata della pena e di passaggio servente rispetto all’accesso alle misure alternative e ai benefici.
Sulla stessa linea il magistrato di sorveglianza di Spoleto sottolinea che, per effetto della riforma, la persona condannata resta, anche a lungo, senza certezza che il fine pena “virtuale” sia effettivamente quello reale, non potendo accedere a verifiche periodiche, rimanendo sospeso in una situazione di incertezza che crea frustrazione e “perdendo quella relazione dialogica che gli consentiva l’interlocuzione periodica con il magistrato di sorveglianza in grado di fargli percepire immediatamente il premio di una condotta partecipativa rispetto alle regole del trattamento, sia l’eventuale gravità, al contrario, di comportamenti involutivi, intervenuti, mediante il rigetto dell’istanza”.
Da ciò deriva una vanificazione degli effetti psicologici che rafforzano i propositi rieducativi correlati alla periodicità delle valutazioni che, fino ad ora, hanno costituito “veri e propri mattoni fondativi di un più ampio edificio rieducativo” e, di conseguenza un rischio di maggiore difficoltà nell’accesso ai benefici.
Aggiunge il magistrato rimettente che siffatte criticità sono amplificate nell’attuale contesto, caratterizzato da gravi carenze di mezzi e di risorse che producono un surplus di afflittività correlato al sovraffollamento che incide negativamente sia sulle condizioni di vita dei detenuti sia sulla loro possibilità di accesso a percorsi risocializzanti.
Sotto altro profilo rileva che il disallineamento tra i momenti di intervento del magistrato e l’ambito temporale di valutazione - che, anche dopo la modifica, resta semestrale - è foriero di un’intrinseca irragionevolezza della norma. È infatti irrazionale che, a fronte di un metro di giudizio semestrale, non permanga un diritto della persona condannata a conoscere se tale porzione di pena sia stata eseguita nel rispetto di canoni di partecipazione all’opera rieducativa. Per chi, in particolare, ha fruito fino all’entrata in vigore della riforma, di valutazioni semestrali la modifica si traduce in un’ingiustificata regressione trattamentale. La persona vedrebbe infatti disconosciuto il percorso rieducativo compiuto, con violazione del principio di uguaglianza e di finalismo rieducativo, restando confinato in una situazione di attesa nell’incertezza dell’effettiva concessione che può durare anche per anni.
Osserva ancora che l’attuale impianto normativo priva il magistrato di sorveglianza di importanti elementi di conoscenza in occasione di istanze di benefici avanzate in un momento in cui sono già maturate le condizioni di ammissibilità in relazione al quantum di pena espiata o da espiare.
Entrambi i giudici rimettenti evidenziano, poi, sia pure con diverse sfumature, che il meccanismo individuato dal legislatore non risulta funzionale alla finalità di semplificazione sottesa all’intervento normativo. L’istruttoria necessaria ai fini della decisione risulterà certamente più complessa di quella attuale ed è concreto il rischio che vi siano difficoltà ad acquisire, a distanza di tempo, elementi concreti che possano consentire una valutazione per ogni singolo semestre con evidente pregiudizio per la celerità della risposta giudiziaria.
3. Il raggiungimento degli obiettivi e l’impatto sugli Uffici. Qualche considerazione
I profili di incostituzionalità rilevati nelle ordinanze sopra analizzate esprimono la preoccupazione ed il generale disorientamento che ha suscitato la riforma tra i magistrati di sorveglianza.
La sensazione è, ancora una volta, quella di una forte lontananza tra l’intervento del Legislatore e i reali problemi dell’esecuzione penale, settore i cui meccanismi di funzionamento sono conosciuti da un gruppo ristretto di addetti ai lavori e che resta un mondo a parte rispetto al resto della giurisdizione.
Non si comprende come l’irrigidimento del meccanismo di accesso al beneficio possa portare vantaggi in termini di adesione al trattamento rieducativo e di semplificazione del lavoro dei magistrati.
Si dubita, in primo luogo che l’aspirazione ad un premio in termini di riduzione pena previamente quantificata nell’ordine di esecuzione possa costituire un effettivo incentivo concreto alla partecipazione all’opera rieducativa. L’avviso contenuto nell’ordine di carcerazione introdotto dal comma 10 bis dell’art. 656 c.p.p. nulla aggiunge al patrimonio conoscitivo dei condannati, che sono perfettamente consapevoli del loro diritto alla riduzione di pena semestrale in caso di condotta adesiva al trattamento, ma per come formulato, risulta, piuttosto, un severo monito finalizzato ad evitare un allungamento del fine pena che potrebbe invece sortire un effetto negativo sul piano psicologico inducendo i condannati ad un’adesione soltanto formale trattamento rieducativo, privandolo della sua funzione di superamento delle criticità che hanno condotto alla commissione del reato.
Si osserva inoltre che, anche prima dell’intervento normativo, era frequente l’attivazione officiosa del magistrato ai fini del riconoscimento della liberazione anticipata in momenti procedimentali sensibili quali le istanze di accesso a misure alternative. In questi casi, a prescindere da istanze di liberazione anticipata, il magistrato verificava l’esistenza di semestri da valutare non soltanto nei casi in cui l’istanza appariva inammissibile sotto il profilo del quantum di pena espiato o da espiare ma anche, ove le condizioni di ammissibilità non fossero in discussione, al diverso fine di effettuare una valutazione che tenesse conto del fine pena effettivo. E ciò in quanto, come correttamente osserva il magistrato di sorveglianza di Spoleto, la misura della pena residua effettiva e non soltanto virtuale, costituisce un profilo che incide in maniera significativa sul giudizio di merito, in particolare è parametro di valutazione dell’idoneità risocializzante di un programma di misura alternativo e dei tempi di osservazione intramuraria aggiuntiva programmabili prima di un eventuale accesso a benefici. Secondo l’attuale cornice normativa, invece, ove ai fini dell’accesso a benefici l’istante non necessiti di riduzioni di pena, il magistrato, pur essendo tenuto a valutare la condotta e la positiva partecipazione all’opera rieducativa per la decisione, non potrà in caso positivo, anche riconoscere al condannato una riduzione effettiva di pena a titolo di liberazione anticipata, decisione questa che viene immotivatamente rimandata ad uno step successivo con conseguente duplicazione di giudizio.
Sotto altro aspetto la concentrazione in pochi momenti delle valutazioni della condotta, senza possibilità di interventi di parte porta con sé, pur in assenza di uno specifico intervento del legislatore in tal senso, il rischio concreto di un progressivo scivolamento verso un canone valutativo diverso da quello frazionato per semestre che governa l’istituto, ovvero verso quella valutazione globale già stigmatizzata dalla Corte Costituzionale del 1990. È assai probabile, infatti, che ove la valutazione cumulativa, a valle, di tutto o parte del periodo di esecuzione diventi la regola, sarà sempre maggiore la tendenza ad una valutazione globale delle criticità che può incontrare un condannato nel suo percorso con un’incidenza negativa di tale valutazione anche in relazione a semestri immuni da rilievi. Senza contare la perdita di quel costante strumento regolativo della condotta costituito dalle valutazioni periodiche che aiuta i condannati ad acquisire consapevolezza e responsabilità.
Molti dubbi sorgono poi sull’effettiva idoneità della nuova normativa a risolvere le criticità organizzative degli uffici di Sorveglianza.
La costruzione di un intervento officioso sostitutivo da parte del magistrato di sorveglianza, tenuto ad attivarsi entro 90 giorni dalla scadenza del fine pena virtuale sembra non considerare il dato obiettivo che gli uffici di sorveglianza non sono dotati di mezzi e sistemi per conoscere in tempo reale quale sia questo termine.
L’ufficio del Pubblico Ministero, in funzione di organo dell’esecuzione, ha finora governato il tempo di esecuzione delle pene, emettendo ordini di scarcerazione sempre aggiornati a seguito di provvedimenti di liberazione anticipata o di altre vicende esecutive. La riforma, di fatto, trasferisce tale onere di controllo alla magistratura di sorveglianza, gravandola di un compito che, da un lato, non le compete sotto il profilo sistematico dall’altro non è comunque in grado di assolvere con i mezzi a diposizione.
Il Legislatore sembra aver dimenticato che la competenza della magistratura di sorveglianza si radica in relazione a singoli procedimenti e che i condannati che nel corso dell’esecuzione della pena non hanno mai presentato istanze di alcun tipo sono sconosciuti al sistema informatico SIUS degli Uffici, con conseguente impossibilità di effettuare un monitoraggio complessivo di tutte le esecuzioni in atto.
Ma anche per i soggetti inseriti nel SIUS, sistema obsoleto ed inadeguato, non è praticabile un monitoraggio adeguato in assenza di alert che consentano di segnalare il momento a partire dal quale il magistrato deve attivarsi in via officiosa.
Per colmare tali lacune alcuni Uffici, soprattutto di piccole dimensioni, hanno individuato soluzioni “artigianali”, quali accordi con i direttori degli istituti penitenziari per l’invio di elenchi di detenuti con pene prossime alla scadenza, ma resta comunque totalmente irrisolto il problema dei condannati sottoposti a misure alternative o agli arresti domiciliari esecutivi per i quali non è chiaro con quali modalità verrà comunicato agli Uffici competenti l’approssimarsi del fine pena virtuale.
A ciò si aggiunge che il meccanismo disegnato dalla riforma volto a garantire, attraverso l’indicazione del fine pena virtuale, la stabilizzazione, fin dall’inizio, dei semestri di interesse ai fini dell’applicazione della riduzione di pena, sottende un’immodificabilità nel tempo del titolo esecutivo del tutto teorica, quando è, invece, naturale un’evoluzione dello stesso, in caso, ad esempio di sopravvenienza di nuovi titoli che contengono periodi di presofferto, con conseguente emissione di provvedimenti di cumulo che ridisegnano completamente la composizione dei semestri.
Di tutti questi aspetti la normativa sembra non tenere conto e, per un’eterogenesi dei fini, anziché semplificare complica il lavoro degli Uffici di Sorveglianza, ponendo a carico dei magistrati nuove responsabilità. Mentre con il vecchio regime, grazie alle istanze di parte, era più agevole, anche in assenza di mezzi, avere un certo controllo della scadenza delle pene e offrire risposte tempestive nella valutazione dei procedimenti di liberazione anticipata cd “liberatori”.
In definitiva un’analisi complessiva dell’incidenza della riforma sulla realtà esistente induce a constatare che gli apprezzabili intenti del legislatore - semplificazione, certezza del fine pena, contenimento del rischio di ritardi nella scarcerazione o negli accessi alle misure alternative - si sono tradotti in una normativa che ha profondamente inciso sulla natura di un beneficio cardine del sistema penitenziario, depotenziando la sua efficacia risocializzante, senza alcun reale beneficio per i diritti dei condannati e per il funzionamento degli Uffici di sorveglianza.
Sommario: 1. Il diritto della forza ed il ruolo della forza nel diritto – 2. Il discorso di Ugo Foscolo sui limiti della giustizia e la nascita degli Stati Nazione – 3. La visione del diritto come forza e la centralità della sovranità dello Stato – 4. S. Weil – 5. R. Bespaloff – 6. W. Benjamin – 7. G. Anders – 8. Conclusione in cui si dichiara un certo amore per l’ironia di Erasmo rispetto al nudo pur ammirevole realismo razionale di Machiavelli.
1. Il diritto della forza ed il ruolo della forza nel diritto
In una ormai ben nota e magistrale lezione su “Il Diritto della forza” (Lectio brevis tenuta all’Accademia dei Lincei in questa rassegna di dottrina la si trova allegata allo scritto in Risposta al Presidente Arzillo) Massimo Luciani pone una domanda che echeggia nella mente di molti in questi tempi di disfacimento dell’ordine giuridico internazionale con gli inevitabili riflessi che questo processo avrà anche sulla tenuta dei singoli Stati (proiettati verso un confronto geopolitico con dimensioni imperiali).
Tempi caotici come non pensavamo di tornare a vedere.
La domanda è questa: “se l’ordine del mondo degli uomini è ordine giuridico e se per la creazione dell’ordine giuridico occorre passare attraverso feroci delitti, quale mai pretesa regolatrice della violenza può elevare il diritto? Come può il diritto, che si vuole regolatore della violenza, esserne generato? Come può ciò che è fondato limitare e contenere ciò su cui apparentemente si fonda? Se la forza genera il diritto, se – dunque – la forza “ha” diritto nel senso che il diritto pare esserne creatura, come può darsi una forza del diritto agente al di sopra del diritto della forza?”
Il tema è affrontato da Luciani scontando l’analisi del processo di secolarizzazione descritto e studiato con profondità da M. Gauchet ne “Il disincanto del mondo”.
Quindi depurando metodologicamente la ricerca da possibili sedimenti giusnaturalistici.
Nota Luciani che i giuristi sono restii a porsi la domanda sul fondamento del diritto preferendo in fondo risolverla nella considerazione tranchant del brocardo ubi societas ibi ius, brocardo che più che rispondere alla domanda sul fondamento apre una serie di campi problematici che inducono chi si interroghi a traversare – alla ricerca della nozione di società – tutta intera la storia della teoria politica moderna o dell’antropologia novecentesca francese (al fondo della quale si incontrano le società del dono studiate da Marcel Mauss che, a ben vedere, appaiono sempre società governate dal diritto consuetudinario essendo quella di donare, nelle società primitiva, un’obbligazione consuetudinaria fondata sulla volontà di liberarsi di ogni eccedenza di beni materiali e di acquisire così potenza ed estimazione sociale).
Alla ricerca delle ragioni antropologiche del diritto Luciani menziona Plessner e la indubitabile nostalgia dell’uomo per la condizione inconsapevole dell’animale: il tutto umano “dolore per la naturalezza irraggiungibile degli altri esseri viventi”, i quali “esistono direttamente, senza sapere di se stessi e delle cose” e vede nell’uomo l’essere aperto, che sopravvive, in modo prometeico, in fondo un essere che ha bisogno di artificio per sopravvivere e, fra gli artifici prodotti, ha prodotto lo Stato con le sue caratteristiche di forza e di volontà istituzionalizzata.
La scissione – discutibile dice Luciani (e la sua notazione può essere ripresa con ragione) – fra natura ed artificio non è contestata in radice ma semplicemente rimossa nella considerazione che la vita sociale e giuridica – ed alla fine lo Stato che ne è il prodotto (in attesa di superamento probabilmente verso altre forme politiche) – non può non essere un artificio (per la distanza fra l’uomo e l’animale).
Anche nella prospettiva normativista il diritto – osserva acutamente Luciani – appare autofondato (e lontano da un radicamento naturale) ma sconta un rapporto con la fattualità nel limite dell’effettività delle norme; una fattualità che è niente altro che “una forza applicata con successo”.
I piani sui quali la questione del rapporto tra diritto e forza si pone sono tre: a) quello della generale fondazione del fenomeno giuridico; b) quello della specifica nascita e della tenuta del singolo ordinamento; c) quello della garanzia del rispetto dei precetti che il singolo ordinamento impone. Tutti e tre vengono ripercorsi evidenziando le aporie logiche alle quali portano le teoriche che hanno espunto la forza dall’elemento fondante il diritto e lo Stato (in favore di una fondazione divina o contrattuale), o hanno ricondotto a dinamiche diverse dalla forza la fondazione di singoli ordinamenti giuridici o il loro mantenimento.
Per Luciani sempre si danno nella concretezza storica ordinamenti che, espressione della volontà e degli interessi di uno o più gruppi dominanti e vincitori, godono del consenso di tutti coloro che ne fanno parte, ma sono imposti ai gruppi soccombenti con la forza del fatto. Non solo.
L’idea che gli Stati nascano e le costituzioni s’instaurino solo a mezzo di guerre o di rivoluzioni può considerarsi confermata dalla storia costituzionale solo a patto che di “rivoluzione” si assuma una nozione assai ampia: pur a limitarsi a due soli esempi, la nascita – per separazione – della Repubblica ceca e di quella slovacca, così come (lo prospettò già Santi Romano) la stessa nascita del Regno d’Italia non si spiegano facilmente con le categorie del momento rivoluzionario o della debellatio.
Con estrema coerenza Luciani conclude: “Va da sé che la posizione che ora ho descritto – e nella quale mi riconosco – è quella del positivismo giuridico, ove si postula una netta separazione fra diritto e morale, mentre va altrettanto da sé che sono logicamente possibili e sono in fatto sostenute altre posizioni, d’impronta sostanzialmente giusnaturalistica, che – invece – volentieri sovrappongono la morale al diritto” avanzando riserve sulla posizione di Radbruch.[1]
E sul diritto naturale – prendendo spunto da un passo di Benjamin – osserva sugli esiti nichilistici anche di esso “se … si ritiene che il positivismo giuridico alberghi un cuore nichilistico poiché qualunque fine, purché voluto dal nomoteta, gli è appropriato, nichilistico si deve ritenere anche il cuore del giusnaturalismo, poiché gli è appropriato qualunque mezzo, purché adatto al fine ritenuto conforme alla natura.”
Sul mantenimento dell’ordine e sul ruolo della forza c’è in Luciani una netta demarcazione fra violenza originaria e forza istituzionale stabilizzata in un ordinamento giuridico ove si scrive “la violenza, per quanto lo preceda, non può risultare in sé e per sé fondativa del diritto, perché nel momento stesso in cui si manifesta come potere essa è divenuta altro da sé, sta tutta dentro il diritto, non fuori”.
Il costituzionalismo poi non è risolto puramente nella forza: essendovi “trasferimento della forza (di tutta la forza) dagli individui alla società” si osserva che “quel trasferimento è appunto un negozio giuridico (“si nimirum unusquisque omnem, quam habet, potentiam in societate transferat, quae adeo summum naturae jus in omnia, hoc est, summum imperium sola retinebit” con parole di Spinoza). La forza costitutiva della società politica è pertanto forza, violenza, trasfigurata dal diritto. E la dimensione contrattualistica è qui recuperata anche se inscritta nel fondamento originario della forza del diritto.
Nella logica dell’ordinamento statuale – senza ancora le contemporanee garanzie costituzionali – ciò significa, in conformità ad un concezione relazione del potere che ha le sue radici nella celebre formula di Étienne de La Boétie della servitù volontaria, “munirsi di un minimo di consenso della moltitudine, senza il quale la sua forza fisica individuale, per quanto debordante, non varrebbe a nulla; prestare, dunque, un qualche pur ridottissimo ascolto alle esigenze dei subordinati”.
Ma la relazionalità del potere occulta la materialità delle strutture del potere che (è il caso del potere statuale), una volta costituitasi in quanto “condensazione” di un rapporto di forze (quello intercorrente, appunto, fra dominanti e dominati), prescinde largamente dalla soggettività degli attori e opera con un’oggettività che s’approssima a quella delle leggi naturali.
Nel nuovo mondo costituzionale che viene questa oggettività sta divenendo schiacciante.
“Gli … ordinamenti costituzionali particolari risultano a questo punto sorgere per l’effetto combinato della coazione esercitata dal gruppo dominante e del consenso che l’assiste: un consenso che è attivo nel gruppo dal fondo di ogni ordine politico-giuridico costituito dei dominanti ed è passivo in quello dei dominati, ma pur sempre consenso resta”, così conclude Luciani.
Guardando al fondo del diritto egli nota un cuore di tenebra, “un residuo di violenza” pronta a riesplodere in ogni momento, liberando dalle sue catene giuridico-positive il potere costituente per farlo riemergere dall’“abisso infinito e insondabile” in cui è relegato e dorme nelle fasi ordinarie di vita degli ordinamenti giuridici.
Si tratta di una prospettiva teorica (ampiamente condivisa, oggi, da una parte significativa della filosofia politica italiana), – egli dice – profondamente interrogante e dalla quale scaturiscono due conclusioni: a) che la pretesa regolatrice del diritto non sembra diversa da quella dominatrice della forza; b) che specificamente gli ordinamenti liberal-democratici appaiono incapaci di giustificare autonomamente il proprio fondamento.
Ma liquidata la possibilità di un ritorno della dimensione teologico-politica[2], e criticata la radice giusnaturalistica della posizione di Böckenförde, al centro dell’ordinamento campeggia – per Luciani – la pari dignità delle persone e quindi il principio di uguaglianza politica ed il principio democratico non la grammatica monadica dei diritti umani individuali, dovendo i diritti inviolabili dell’uomo fondarsi storicamente o perire.
Questo è l’hic Rhodus hic salta nel quale trova risposta la domanda iniziale.
Una sorta di chiamata alla responsabilità storica che ciascuno ha nella costruzione dell’ordine giuridico, senza fondamento precostituito né esiti garantiti.
Possiamo quindi partire da qui osservando che nel mondo che viene la forza ritorna e che tutta l’analisi brevemente ed assai sommariamente qui ripercorsa (a fronte della ricchezza delle fonti che la sostanzia) rivela la fragilità della costruzione costituzionale e – au fond – del diritto medesimo.
Come diviene possibile evitare che il diritto decada?
Naturalmente il compito è stato affidato nelle costituzioni di seconda generazione alle Corti costituzionali.
Ma essendo una chiamata collettiva quella che mi sembra sottesa allo scritto di Luciani occorre riconoscere un ruolo alla paideia – all’educazione democratica di cui discorreva John Dewey – e qui soccorre la letteratura e si incontra Ugo Foscolo, un poeta al quale molto deve la costruzione della nostra identità nazionale.
2. Il discorso di Ugo Foscolo sui limiti della giustizia e la nascita degli Stati Nazione
Nel giugno del 1809 Ugo Foscolo tenne a Pavia, in occasione del conferimento delle lauree in legge l’orazione “Sull’origine ed i limiti della giustizia”; pochi mesi dopo la sua cattedra di eloquenza fu soppressa ed egli non fu destinato ad altro incarico anche a causa “dei paradossi letterari e morali di cui ha sparso i discorsi recitati in solenni occasioni” (così si esprimeva il segretario Generale della Pubblica Istruzione).
Convinzione profonda del Foscolo è che la giustizia non è quella ideale delle scolastiche antiche ma che essa si dà solo insieme alla forza, attraverso la divisione ed il conflitto, nella dinamica della Vita più che dell’Idea.
La politica venendo prima delle astrazioni, il collettivo prima dell’individuale, la sostanza prima della forma.
Giustizia per Foscolo è il destino comune e tragicamente diviso dell’umanità.
Egli abbozza un realistico affresco dell’ingiustizia nella storia (navi negriere, servitù della gleba, le diverse forme del dominio, oggi potremmo aggiungere le sofisticate forme del dominio tecnico).
La giustizia si presenta sempre – nella storia – come giustizia ferita.
Natura ed artificio non possono disgiungersi esse si rivelano nel farsi della storia.
Natura è avidità universale, istinto di conservazione che anima ed eccita i particolari, che li spinge a contrapporsi ad altri e a riunirsi con alcuni, non in virtù di un contratto ma di concreti rapporti di interessi disuguali.
Un ordine storico perennemente conflittuale viene disegnato secondo la lectio che da Machiavelli attraverso Spinoza arriva al romanticismo europeo che ha – dopo la Restaurazione e nelle rivoluzioni del 1848 di cui Foscolo può dirsi un precursore – fondato lo Stato nazione europeo alla ricerca di un senso di giustizia come legato alla vita concreta di ciascun popolo ed al suo tentativo di venire a storica esistenza.
Un lascito storico che rischia di deperire a causa prima del globalismo ed ora del neo imperialismo.
Per questo motivo è interessante oggi rileggere il poeta.
Nell’incipit del discorso Foscolo mostra di non tenere in grande considerazione “le splendide ed infruttifere teorie della giustizia”, dichiara di volersi attenere alla “certezza del fatto” poiché in questo “viaggio oscurissimo della vita” a fare da lume è soprattutto “l’esperienza”.
Alla luce dell’esperienza Foscolo rileva che la giustizia si mostra nel mondo per una voce della filosofia metafisica che la innalza sul trono dei Numi, mentre nei fatti del genere umano si danno – nell’effettività – per suoi “coadiutori”… “la fortuna delle armi ed il calcolo dell’interesse”.
Nella più antica storia fondativa Caino uccide Abele, la legge è ferita al suo nascere e dopo quel duello fraterno gli uomini – si osserva “nacquero, vissero, morirono guerreggiando perpetuamente fra loro”.
In fondo Foscolo accetta l’argomento di Trasimaco e pensa con coerenza che “Auctoritas non veritas facit legem”.
Eppure non tutto si risolve nella violenza, nota Foscolo che nella guerra viene sempre preservato un principio di giustizia o di solidarietà: “quantunque due popoli guerreggiassero ingiustamente fra loro, ciascheduno de’ due popoli non poteva ad ogni modo non avere forza e concordia in se stesso se non in virtù di certe leggi più o meno ragionevoli, ma che aveano pur sempre la giustizia per unico fine”.
La giustizia regna tra cittadino e cittadino, tra governati e governo, tra capitano ed esercito ma è impotente fra uomo e uomo, principe e principe, fra popolo e popolo.
Il genere umano è un animale guerriero ma anche animale sociale.
La giustizia è possibile nelle società particolari dei popoli non nella società universale del genere umano.
La giustizia foscoliana è per forza infrastatuale ed è fenomeno storico che si rivela in ordinamenti particolari.
A conclusioni non diverse arriverà Rawls se si compara la sua “Teoria della Giustizia” con il lavoro su “Il diritto dei popoli”.
Il globalismo giuridico – alla luce di queste riflessioni – è stato un sogno, debole perché forse irenico, di realizzazione di una costituzione globale (Ferrajoli, “Per una Costituzione della Terra”) e di una giustizia internazionale che usa gli Stati come suoi strumenti.
La sua necessità deontica – dovuta alla necessità di adeguare gli spazi dei problemi contemporanei agli spazi della normazione andando oltre gli Stati – permane nonostante la profonda crisi in atto ma occorre prendere atto che la sua realizzazione non avverrà un percorso lineare.
È facile immaginare che l’odierna aspirazione ad una dimensione ultrastatuale della giustizia sarà frutto di un parto sofferto; come sofferta è la realizzazione della fraternità alla quale Giudo Alpa ha dedicato pagine significative nel suo libro “Solidarietà. Un principio normativo”.
La ragione di Stato ha permesso la sospensione della conflittualità (religiosa a quell’altezza di tempo) ma essa non tende – nota Foscolo – alla conservazione del genere umano ma alla conservazione di un determinato popolo.
Stabilito un diritto nell’ambito dell’esperienza di vita di un popolo, lo ius divinum si occupa della fondazione religiosa del potere, lo ius naturale del principio di autoconservazione del popolo, lo ius gentium dei patti del popolo con gli altri popoli, lo ius civile della libertà e della proprietà.
Tutte queste partizioni del diritto danno l’illusione che il debole sia protetto e che il forte debba usare del diritto e rinunciare alla forza e con ciò l’uomo non si avvede che la giustizia che egli invoca senza trovarla è spesso impossibile per effetto dell’opera incessante che la natura, basata sulla forza, ha sui costumi e così Foscolo nota che gli inglesi famosi per l’indipendenza dei giudici e dei tribunali hanno prosperato sulla schiavitù, gli asiatici mettono in condizione servile le donne, le figlie, le madri, in Russia ed in Svezia molti uomini sono servi della gleba di pochi patrizi.
Qui Foscolo afferma che è un funestissimo errore distinguere la natura dalla società (errore che ormai possiamo dire del contrattualismo politico che distingueva la società nello stato di natura e la società civile). Tutto quello che esiste è in natura e nulla esiste al di fuori della natura. Il diritto risiede nell’istinto della propria conservazione. La società si forma per effetto dell’esercizio di facoltà intermedie fra il sentire ed il ragionare. E è dominata dall’avidità universale. Le leggi sono “forgiate dall’industria e dalla spada” secondo le parole di Foscolo. Ogni legge è scritta dalla forza e mantenuta dalla forza. Non vi è equità se non quella che nasce dalla concordia degli interessi, dal timor della forza e dalla ragione di Stato.
L’uomo è abitatore di un piccolo canto della terra e confederato di una sola parte del genere umano. Solo in un ambito ristretto possono operare la compassione ed il pudore come virtù atte a temperare la forza.
La sublimità delle dottrine umanitarie sganciate dalle identità nazionali è apportatrice – secondo Foscolo – di sventure inenarrabili per il genere umano (qui la mente corre dall’orazione foscoliana alla Lettera sull’umanesimo di Heidegger).
In conclusione il diritto per Foscolo è forza, esso stabilisce istituzioni da mantenersi con la forza, queste sono radicate nei popoli e coincidono con il farsi degli Stati che fra loro concordano o si muovono guerra. La giustizia ed il diritto sono stabiliti solo all’interno della statualità (ordinamenti particolari li chiama Foscolo), processo che era ai primordi dell’Ottocento il motore della trasformazione.
Il preromanticismo di Foscolo prelude alle Rivoluzioni del 1848 ed al formarsi del progetto di Stato Nazione.
La crisi del global law evidente nella svolta americana riporta in qualche modo in auge tale visione originaria che ha accompagnato l’ascesa della borghesia capitalistica o ha altre direzioni di marcia?
3. La visione del diritto come forza e la centralità della sovranità dello Stato
Alla luce delle intuizioni potenti sulla natura del diritto del poeta ottocentesco possiamo chiederci cosa sta accadendo, come la forza agisce in questo momento nella storia forgiando il diritto.
Una prima forte tendenza è quella alla disintermediazione totale, ossia al superamento dello Stato come forma organizzativa della comunità umana.
Espressione di questa tendenza è il nuovo protagonismo di soggetti privati globali che tendono a porsi come soggetti in grado di sostituire attraverso l’uso delle tecnologie svariati servizi pubblici di tipo tradizionale (tra l’altro declinante per motivi fiscali).
Certamente si assiste per reazione ed a parziale copertura di questo processo sostanziale, ad un ritorno – di tipo ideologico – della Ragion di Stato come criterio ordinatore del caos (indotto dalla deregolazione) e ad un declino della Rule of Law globalista – disarticolata e mite – che ha iniziato a soffrire per i suoi eccessi (caotici in assenza di uno Stato mondiale e di una Costituzione della Terra come pensata da Luigi Ferrajoli).
Ciò avviene all’interno di ordinamenti democratici nei quali il residuo di presenza della Ragion di Stato è stato tematizzato in modo insufficiente (con sua riemersione non sorvegliata e fonte di tensioni fra politica dei singoli Stati e giustizia anche interrnazionale).
Il costituzionalismo multilivello poi ha degli aspetti di insostenibilità sulla domanda di giustizia (ad es. la primazia delle carte sovranazionali diviene rischio di lentezza decisionale combinata con le regole della disapplicazione e del rinvio pregiudiziale in un quadro normativo europeo sempre più alluvionale) ed appare anche squilibrato se considera che nella dimensione internazionale grandi Paesi come gli Stati uniti non hanno aderito al modello di giustizia penale internazionale che le Nazioni Unite hanno tentato di far sviluppare.
Lo stesso concetto di legge svapora nel costituzionalismo multilivello per effetto dello stratificarsi delle fonti, non solo in senso temporale ma anche secondo la loro inerenza alla dimensione sovranazionale o nazionale, con conseguente prevalenza del criterio di competenza su quello di gerarchia nella soluzione delle antinomie normative e con una strutturale incertezza del diritto che comporta la prevalenza dei principi sulle regole (frammentarie ed incoerenti) per governare la complessità.
Foscolo – in quella conferenza adombrando la necessità dello Stato Nazione – criticava come illusione di conservazione del genere umano nella sua interezza al quale l’uomo non si rivela ancora pronto.
Ciò tende a mettere in crisi il modello di espansione del giudiziario sul quale si cercava di far camminare lo sviluppo di un ordinamento internazionale incentrato sui diritti umani.
Il mercato inoltre tende a segmentarsi nuovamente per l’irrompere di nuovi istinti protezionistici dovuti al sorgere di nuove aree geoeconomiche e geopolitiche nel pianeta che rischiano di soppiantare l’egemonia occidentale e per la stessa volontà di una parte dell’occidente (gli Stati Uniti) di risolvere la crisi della bilancia e del deficit e del debito accumulato negli anni mediante il prelievo di risorse dagli Stati verso i quali hanno fatto da garante.
In questa chiave attualmente il ritorno allo Stato appare possibile ma solo in una logica neo-imperiale, non certo all’interno di una costruzione sovranazionale incompleta come l’UE ove suonerebbe come fattore di ulteriore frammentazione.
“L’industria e la spada fanno le leggi” – dice Foscolo – e quindi occorrerà seguire la dinamica dei conflitti bellici e delle competizioni economiche per comprendere come la trama di regole otto-novecentesche delle quali usiamo, andrà a modificarsi.
Lo ius gentium per dirla con Foscolo – ossia il diritto che regola i patti fra i popoli – sarà il motore della trasformazione.
Ecco che appare quindi l’idea di Europa, come dimensione di una nuova statualità più ampia di quella – ormai angusta per fronteggiare i problemi del presente – meramente nazionale.
La sovranità a questo punto o sarà europea o non sarà.
Naturalmente ciò per ora si traduce in un progetto di politica di riarmo che avvenendo a livello nazionale rischia di ostacolare il processo e di non soddisfare nemmeno le esigenze della difesa collettiva.
E se può dirsi esistente una concordia sulla formula unità nella diversità è poi sulla sua concreta declinazione che si aprono problemi non di poco momento; del tutto vaga resta la prospettiva di quale Europa perseguire: Europa fatta da un gruppo ristretto di paesi fondatori o allargata ai paesi dell’Est, costruita sulle proprie radici ebraico-cristiane o su un concetto di laicità forte inclusivo degli immigrati, Europa federale o al più confederale o solamente intergovernativa e centrata sulla governance, Europa politica che ritorni all’intervento dello Stato nell’economia e ad una logica di campioni economici europei o nazionali o tecnocratica basata sul rafforzamento della logica di mercato e di interventi antitrust che potrebbero avere effetti ancora più sbilanciati e destabilizzanti nel quadro della nuova competizione fra aree del mondo a fronte dell’assenza di intervento dell’antitrust americano; Europa protestante o cattolica; nordica o slava o latina; continentale o insulare; atlantica o mediterranea; la discussione è aperta ma gli eventi si succedono rapidamente e soccorre la lezione di Paolo Grossi alla fine ex facto oritur ius.
Tanto è appasionante – anche inquietante – ed è tutto in divenire.
Non più lo ius civile al centro delle dinamiche di cambiamento ma lo ius gentium.
Con il relativo pericolo di caduta del personalismo della nostra Carta fondamentale: le tendenze demografiche del pianeta e le guerre in corso suonano drammatica svalutazione della vita umana.
Non le rivoluzioni ma i conflitti – basati sulla industria e sulla spada – per le risorse fra aree geo-economiche e geo-politiche plasmeranno gli ordinamenti futuri alla ricerca di un nuovo ordine del mondo e di nuovi equilibri.
Il costituzionalismo irenico ed il diritto mite sembrano al capolinea ma potrebbe trattarsi solo di una battuta temporanea di arresto in vista di necessarie correzioni; certo il costituzionalismo come processo storico rivela la sua dipendenza dall’ordine internazionale e con il mutare dell’ordine geopolitico mette a nudo la sua fragilità (occorrerà seguire il dipanarsi degli eventi).
Non è una buona notizia.
Ma è la realtà.
4. S. Weil
La forza è al centro della riflessione di Simone Weil che scrive l’”Iliade o il poema della forza” sostenendo che il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza.
Possiamo – di fronte alla regressione in atto – dire che non siamo più in tempi ulissiaci ma in tempi che impongono – come fece la Weil – di rileggere l’lliade.
La forza che sottomette è il fulcro del poema nel quale l’anima umana – dice la Weil – è continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza, “trascinata, accecata dalla forza di cui crede di disporre, piegata sotto la costrizione della forza che subisce.
Ed aggiunge: “coloro che avevano sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse oramai al passato hanno visto in questo poema un documento; coloro che, oggi come un tempo, sanno discernere la forza al centro di ogni vicenda umana, vi trovano il più bello, il più puro degli specchi”.
La forza fa di chiunque vi sia sottomesso una cosa fino alla trasformazione del corpo in cadavere.
Ma la Weil nota che la forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza.
Mentre molto più varia e sorprendente è la forza che non uccide, che sicuramente ucciderà, che forse ucciderà, che è soltanto “sospesa sull’essere che ad ogni momento può uccidere”.
Questa forza muta l’uomo in pietra. La forza cosifica. Trasforma l’uomo in pietra come Niobe lasciandolo vivo.
Trasforma il diritto costituzionale dall’interno diremmo noi oggi: prevede – sotto l’usbergo dello stato di emergenza e della minaccia bellica (che risuona foscamente in tutto “1984”) – che si possa pensare che i servizi segreti contino più delle diplomazie (vediamo i servizi segreti avviare trattative di pace) che la polizia sia invocata per il mantenimento dell’ordine ed il P.M sia marginalizzato a sostenerne le ragioni in giudizio (pure adombrandosi che possa superarsi la regola costituzionale per cui dispone della polizia giudiziaria), che gli Esecutivi prendano la scena fino a svuotare il classico equilibrio collegato alla divisione dei poteri, che si verifichino “sconfinamenti sistemici” dell’economico a detrimento del politico e del politico e dell’economico a detrimento del mondo culturale.
Passa poi la Weil ad analizzare la morte di Ettore e la scena della sventura di Priamo che induce alle lacrime anche Achille per arrivare a ricordare che peggiore – rispetto a quella del padre regale che ha perso il figlio – è la situazione di tanti che – per l’operare della forza – restando vivi ma a prezzo di diventare “un compromesso fra l’uomo ed il cadavere”, senza il privilegio del dolore ascoltato, della partecipazione umana, in una sorta di rassegnata passività.
È la condizione delle masse quando la forza si scatena sul pianeta.
In nessuna occasione – dice la Weil che ha voluto conoscere la condizione operaia sulla sua pelle – lo schiavo ha licenza di esprimere qualcosa, se non ciò che può compiacere il suo padrone.
Solo un sentimento è ammesso l’amore per il padrone. Lo schiavo perde la sua vita interiore. Solo quando balena la possibilità di mutare destino ne guadagna e ne ritrova un poco.
Tale è l’imperio della forza, potente come quello della natura. Mai come nell’Iliade è stata per la Weil espressa con altrettanta amarezza la miseria dell’uomo. Non per gli effetti della forza sul corpo ma per gli effetti della forza sull’anima.
La forza schiaccia taluni ed inebria gli altri. Chi non ha coraggio né forza non conta nulla in battaglia nulla nell’assemblea. Tutti tremano quando la forza si manifesta, così Agamennone umilia Achille ma poi piange a sua volta di fronte al rovescio di fortuna dovuto all’abbandono del campo da parte di Achille. Aiace umanissimo eroe di Cardarelli, nell’Iliade incute terrore ma ne è a sua volta attraversato.[3]
Tutti sono destinati a subire violenza e dove il pensiero non ha posto non ne hanno né la giustizia né la prudenza.
Ma il movimento paradossale della forza è nella sua natura germinativa: coloro che usano la forza non sospettano – dice la Weil – che le conseguenze dei loro atti li faranno piegare a loro volta.
Vanno al di là della forza perché ignorano che essa è limitata. E quindi si espongono alla sventura. Questo castigo di rigore geometrico è l’oggetto di meditazione dell’Iliade.
Ubris.
L’Occidente per la Weil ne ha perduto il senso.
L’idea di limite, di misura, di equilibrio (nel che consiste il diritto) noi pensiamo solo che siano doti del governo della tecnica, ma i Greci pensavano fossero virtù necessarie alla vita per evitarne eccessi e dannazioni.
Le vittorie sono cose destinate a passare. Il tutto si rivela niente.
La violenza schiaccia quelli che tocca ma i vincitori ed i vinti sono pari nella miseria.
Una costante dignità nella debolezza, un uso moderato della forza sono virtù più che umane dice la Weil.
La tentazione dell’eccesso è pressoché irresistibile.
Le parole ragionevoli nei tempi di odio cadono nel vuoto.
La necessità propria della guerra è terribile, tutt’altra da quella legata alle opere della pace.
La guerra appare allora un giuoco, ma viene un giorno in cui smette di esserlo e si incontra non la morte ma la sua presenza onnipervasiva; la morte come possibile.
Qui il diritto appare fondato sulla necessità di trattenere la società dall’onni-pervasività della morte diffusa dalla guerra.
Gli uomini non sopportano di avere come avvenire la morte. La debellatio del nemico lascia la strada ad una nuova aspirazione alla vita. Ma non tutti sentono questa forza che riporta alla vita: i soldati più forti sono forze cieche, materie inerti, al pari di inondazioni, venti e bestie feroci.
Il vero scopo delle guerre è la trasformazione delle anime: una proprietà di pietrificazione delle anime, scatenata nota la Weil – “dalla leggerezza di coloro che maneggiano senza rispetto gli uomini” fino a darci “un quadro uniforme di orrore”.
Nelle guerre si esalta l’amore, per lo sposo, per il figlio, e l’amicizia fra i combattenti ma si tratta di amori attraversati da dolori inenarrabili.
E la brutalità della guerra con la distruzione di città intere non sono fatti mascherati da nulla.
La subordinazione dell’anima alla materia spira nell’Iliade. Ed il pericolo di distruzione perennemente sospeso è la vera epopea dell’Occidente secondo la Weil di cui l’Odissea è solo un’eccellente imitazione.
Il pensiero della giustizia illumina il campo di battaglia senza mai intervenirvi e la forza appare nella sua fredda durezza ed il genio greco torna nello spirito cristiano narrato nel Vangelo con la storia della Passione (l’Iliade prefigurerebbe qui il cristianesimo).
La Weil conclude con una lezione di realismo che apre alla vita: è possibile amare ed essere giusti solo se si conosce l’impero della forza e si è capaci di non rispettarlo.
Occorre solo una cosa: la forza d’animo di non mentire e non mentirsi; mai commettere l’errore di pensarsi sottratti alla miseria umana.
Nulla è al riparo della sorte e proprio per questo mai si deve ammirare la forza, odiare il nemico, disprezzare chi è soggetto alla sventura.
5. R. Bespaloff
Sempre alle origini della tormentata storia della civilizzazione europea troviamo la lettura dell’Iliade della Bespaloff.
La filosofa e musicista ebrea ucraina (allora parte della Russia poi occupata dai nazisti e rifugiata in Francia) allieva di Lev Sestov.
Per lei l’Iliade è un poema della debolezza ed il suo vero eroe è Ettore figura che apre il saggio “Sull’Iliade”, composto per figure appunto in una galleria che si apre con Ettore.
Dipinto come un uomo, e principe fra gli uomini.
Un uomo consapevole del destino che lo attende (vorremmo che la classe dirigente europea fosse dotata di questa consapevolezza e non di una sorta di leggerezza simile a quella degli Dei che nell’Iliade manovrano gli umani senza subirne le conseguenze).
Eppure – secondo Bespaloff – Ettore non è un uomo del risentimento, ma nobile in ogni più intima fibra.
Ciò perché in lui – come è evidente nel rapporto con Andromaca – in lui il coraggio non si disgiunge mai – anche in guerra – dalla volontà di felicità.
L’Iliade come poema della debolezza coraggiosa e della contemplazione della verità della forza dispiegata, prefigurata certo dalla bellezza di Elena, dalla sua solitudine fra i troiani e dal suo portamento regale ma anche dagli eserciti in campo visti fra mare ed urbe, come schiere stupende di armi luccicanti, un attimo prima dello scontro dall’alto dei bastioni della città assediata, visti da Elena e Priamo insieme, dalla bellezza e dalla saggezza dunque, che ci fanno sentire la sublimità della pace un attimo prima della guerra.
Nel Polemos, nel dispiegarsi della forza si affaccia l’Eterno per la Bespaloff.
Questa dialettica paradossale dice molto al giurista sul rapporto fra caos ed ordine, sulle sue ragioni, sull’eterna alternanza dei regimi e dei Re.
La Bespaloff coglie anche la debolezza di Achille nel pasto notturno e nel pianto con Priamo, eroe vincitore che si rende conto che gli uomini e lui per primo – Achille il distruttore – vivono tutti nell’infelicità ed è questa la vera radice dell’uguaglianza.
E continua verso la fine notando: le crisi che sconvolgono l’individuo non alterano le costanti del divenire umano.
Solo vengono interpretate diversamente: Omero guarda alla guerra ed ai suoi effetti su tante figure poetiche e si interessa all’individuo fondando il mondo occidentale, mentre Tolstoj – letto dalla filosofa ucraina – narra della guerra come un movimento storico che coinvolge le masse e travolge gli individui facendo loro scoprire la bellezza dell’Uno (Pierre Bezuchov) così restituendo la storia europea ad Oriente.
“La storia – per Bespaloff – continua ad essere un’intricata sequenza di catastrofi e tregue, di questioni poste, risolte o eluse in via provvisoria.
Eppure l’uomo che ha provato lo sconforto dell’impotenza assoluta ed è sopravvissuto a questa esperienza non si rassegna a vivere come se nulla fosse accaduto.
Tenta di continuare ad usare le risorse supreme che gli ha rivelato la disperazione.
Cerca di integrare nella durata quella fugace intensità, di catturare nella ripetizione una spontaneità ingovernabile.”
Si tratta proprio di questo.
6. W. Benjamin
Un altro pensatore che ha avuto molto chiaro il rapporto fra diritto e forza è stato Walter Benjamin nel suo “Per la critica della violenza” (nelle einaudiane opere complete si trova nel volume I).
In breve: per Benjamin la violenza è elemento sempre connesso al diritto, pur dispiegarsi di mezzi violenti nella lotta darwiniana per la sopravvivenza che fa passare ciò che è adeguato a fini naturali come giuridicamente legittimo; ovvero puro strumento variamente giustificato per fini giusti nelle concezioni giusnaturalistiche (legate alla teorica della guerra giusta); ovvero violenza monopolizzata dall’ordine del diritto quando è la violenza di Stato con conseguente spoliazione della persona nel suo diritto a perseguire fini naturali di giustizia con la violenza; la violenza è sempre qualcosa che tende a porre (nella violenza rivoluzionaria) o a conservare il diritto (nell’attività di polizia come nella pena di morte).
Se la violenza non è potere che pone o conserva il diritto rinuncia da sé per Benjamin ad ogni validità.
La dinamica della violenza è costitutiva del diritto. Il diritto è costituito dalla violenza.
Ciò finisce – dice Benjamin – per porre il diritto in una luce equivoca.
Non solo la violenza partecipa alla problematicità del diritto ossia tenta di giustificarsi in documenti giuridici o burocratici (anche quando progetta la soluzione finale ci viene fatto di osservare) ma il diritto tutto intero finisce per apparire in una luce morale così equivoca che – dice Benjamin – ci si chiede “se alla fine per comporre interessi non possa farsi altro in definitiva che ricorrere alla violenza”.
Anche quando il diritto viene fondato pacificamente e consensualmente dopo un confitto composto dai soggetti che lo hanno vissuto, la violenza permane sottostante per tutti i casi di violazione del contratto su cui la pace si fonda.
Il diritto si risolve senza mediazione nella violenza; la violenza e la forza sono niente altro che il diritto nuovo che sta affrontando le doglie del parto.
La violenza pone il diritto lo crea ma la creazione del diritto non depone la violenza la trasforma in potere.
Alla fine non è la ragione che decide della giustizia dei fini e dei mezzi ma la violenza e la forza, anche quella democratica della maggioranza (e su questo si legga G. Zagrebelsky, “Principi e voti”, Torino 2005 ove si evidenzia la differenza fra il deliberare politico soggetto alla decisione anche immotivata del conteggio della maggioranza e la decisione giudiziaria legata all’etica dell’argomentazione).
Il populismo complica il quadro con il frequente ricorso al complottismo, alla delegittimazione dell’avversario, alla continua denuncia di brogli, all’uso della violenza per contestare i risultati elettorali, all’insulto continuativo: tutti fenomeni che segnano il tramonto della ragione comunicativa habermasiana travisata ed abbandonata tuttavia si badi bene anche dal politicamente corretto che vuole sanzionare amministrativamente o penalmente il linguaggio ritenuto non canonico.
La violenza mitica esemplare nel caso di Niobe o di Prometeo diviene violenza divina nell’apocalisse che tutto cancella travolgendo una intera società per rifondarla (nella concezione biblica).
7. G. Anders
Passiamo ora a Günther Anders (“Opinioni di un eretico”, Roma Napoli, 1991).
Anders è stato un ambientalista ante litteram ed ha sposato – dopo l’uso delle atomiche – una prospettiva radicalmente pacifista per la tabuizzazione della guerra (con gli argomenti usati anche da Einstein).
Hiroshima fu per lui una frattura nella storia umana.
Il giorno a partire dal quale l’umanità era divenuta in grado di autodistruggersi seguito dalla seconda bomba come lui disse “l’assolutamente inescusabile Nagasaki”.
Egli ci parla della nostra cecità davanti all’apocalisse – termine dvenuto stucchevole perché egli dice, usato da retorica pacifista – e dice l’immoralità o colpa che caratterizzano la condizione umana del nostro tempo non risiedono nella sensualità, nell’infedeltà e nemmeno nella disonestà o nella dissolutezza o nello sfruttamento ma nella mancanza di fantasia.
In un difetto di immaginazione.
La nostra percezione non è all’altezza di quel che produciamo.
Questo può perderci.
Il rimedio è lo stimolo alla fantasia.
L’uomo di oggi può causare mostruosi genocidi per mancanza di fantasia.
Siamo immersi nella tecnica che permette cose moralmente aberranti che noi compiamo da “colpevoli innocenti”.
Oggi – lui dice – l’industria non produce armi per le guerre ma guerre per le armi (l’offerta crea la domanda). Ha bisogno della guerra per dare uno sbocco ai suoi prodotti, la divisione del mondo in Stati – di dimensioni imperiali – rende il quadro davvero complesso. Le armi sono prodotti ideali perché devono essere sostituite dopo l’uso quindi le politiche di riarmo hanno effetti benefici sul PIL.
Quando si verificano fenomeni troppo grandi perché l’ordinaria mente umana possa afferrarli allora si entra nell’ambito del sovraliminale che induce solo mutismo.
Su questo silenzio fermiamoci.
Rivolgiamo il pensiero ai sopravvissuti al lancio delle atomiche proviamo ad immaginare l’orrore nei loro sogni e chiediamoci se non sia l’ora di tabuizzare in forme nuove la guerra – quella atomica di cui dovrebbe non potersi parlare mai.
Il ripudio della guerra e della violenza di cui all’art. 11 Cost. è riuscito solo in parte perché era proceduralmente eludibile da decisioni internazionali di segno diverso ossia ripudio non assoluto ma come legato solo alla guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali.
Il monopolio della forza è stato imbrigliato nell’ONU.
La sua crisi sarà volta a costruire un nuovo ordine – speriamo più avanzato e che nasca senza troppi dolorosi travagli – all’interno del quale dovrebbe trovare spazio la tabuizzazione delle armi atomiche.
8. Conclusione in cui si dichiara un certo amore per l’ironia di Erasmo rispetto al nudo pur ammirevole realismo razionale di Machiavelli
L’autore di questo scritto consiglia di continuare a leggere “L’Educazione del Principe cristiano” insieme al “Principe di Machiavelli”.
Erasmo l’autore dell’”Elogio della Follia”, era realista non certo utopista anche se era amico di Tommaso Moro.
La follia produce le guerre, che sono «origine e campo delle imprese più lodate», affidate non a caso a «parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, indebitati e simile feccia umana», certamente non ai filosofi e ai cosiddetti sapienti, che se mettono mano agli affari di Stato combinano solo danni, e sono inabili anche alle più modeste funzioni della vita quotidiana. Per governare occorre invece ingannare il popolo, lusingarlo per acquisirne il favore, essere spinto da quella follia che è l'amore di sé, della fama e della gloria che ci fa abbandonare ogni timidezza e ci induce all'azione.
A guardar bene, la vita è una commedia dove ciascuno recita una sua parte, e non è bene strappare la maschera agli attori che stanno recitando: «tutta la vita non ha alcuna consistenza ma, tant'è, questa commedia non può essere rappresentata altrimenti», e il saggio che volesse mostrare l'autentica realtà delle cose farebbe la figura dell'insensato. L'uomo veramente prudente non deve «aspirare a una saggezza superiore alla propria sorte, ma fare buon viso all'andazzo generale e partecipare alle debolezze umane. Si dirà che questa è follia. Non lo negherò, purché si conceda che tale è la vita, la commedia della vita che stiamo recitando».
Erasmo accenna poi alle follie di diverse categorie di persone: i cacciatori, gli alchimisti, che sprecano tempo e denaro, e come loro i giocatori d'azzardo, mentre al contrario, coloro che propalano «miracoli e favolette di prodigi» hanno per scopo di «cavar quattrini, come usano principalmente preti e predicatori popolari». Ci sono poi i superstiziosi, quelli che recitano ogni giorno i salmi penitenziali, e quelli che attribuiscono a ciascun santo una particolare virtù protettrice. Del resto, questi vaneggiamenti sono autorizzati e alimentati dai sacerdoti, i quali «sanno che questa è una piccola fonte di guadagno che non finisce mai».
C'è poi la follia dei nobili, che si vantano dei loro antenati ma che non differiscono «dall'ultimo mozzo di stalla», quella dei commercianti, che benché esercitino «la più ignobile delle professioni e nella maniera più ignobile», si considerano gli uomini più importanti del mondo, come i grammatici, «sempre affamati, sempre ripugnanti», che «marciscono nel fetore e nella sozzura». I poeti credono di acquistare fama immortale, ma non fanno altro che «accarezzare le orecchie di qualunque babbeo con ciance e favolette da ridere». Ci sono poi gli scrittori, i più seri dei quali, mai soddisfatti dell'opera loro, perdono la salute e la vista senza compenso, mentre gli altri sanno che più scriveranno sciocchezze maggior successo avranno, come i plagiari, che si gloriano di una fama usurpata. Facendo la satira degli studiosi e degli scrittori, Erasmo giunge di fatto a burlarsi di se stesso, rivelando però in tal modo come sia difficile prendere completamente sul serio la sua Follia.
Tra gli eruditi, i giuristi formano migliaia di leggi «poco importa se a proposito o a sproposito» e poi ammucchiano cose su cose per rendere più difficili gli studi legali. I retori e i sofisti battagliano su «questioni di lana caprina» e si azzuffano su qualsiasi argomento «armati di tre sillogismi». I filosofi poi, benché non sappiano nulla, fanno professione di sapere tutto e «van gridando dovunque che essi vedono le idee, gli universali, le forme separate, la materia prima, le quiddità e le ecceità».
Stupenda lezione di ironia e di senso del limite, fatta da un uomo mite e non violento, animato da una profonda fede, vissuto nei torbidi del mundus furiosus.
Non smettiamo di leggerla, dalla vita interiore si ricostruirà, attraverso il dolore, il mondo ordinato che non abbiamo saputo conservare.
[1] Su Radbruch si osserva: “l’ordinamento “indegno” impiega – per quanto a fini osceni – esattamente lo stesso strumentario giuridico degli ordinamenti “degni” (e dunque non se ne differenzia per profili formali). Lo è perché l’interferenza di valutazioni morali nell’operazione di qualificazione giuridica di un ordinamento si presta agli abusi più discutibili (l’accusa di indegnità potrebbe essere rivolta da un pensiero totalitario o fondamentalista agli ordinamenti liberal-democratici con la medesima convinzione con cui Radbruch scagliò il proprio anàtema contro il nazismo)”.
[2] Anche nel fine dialogo intrattenuto con il Presidente Arzillo.
[3] Sempre obliasti, Ajace Telamonio,
ogni prudenza in guerra, ogni preghiera.
Mai non pensasti ad invocar l'aiuto
d'una benigna Dea
che ingigantir potesse le tue forze
o sottrarti sollecita al nemico.
Non avevi una madre
da impietosir l'Olimpo al tuo destino,
discretissimo eroe.
E a te non fu dato
compiere imprese stupende e gratuite,
atterrar Marte od Ettore,
o d'Afrodite il mignolo ferire,
bensì il combattimento orrido, immane,
fra soverchianti avversari,
in giorni che non s'ama ricordare.
Ogni volte che Giove era crucciato
contro gli Achei,
a te scendere in campo,
degna prole di Sisifo,
rampollo di Titani.
Quando Marte furioso conduceva
le falangi troiane
ad incendiar le navi,
tu le salvasti e Teucro.
Eri la gran riserva
nel pericolo estremo,
la resistenza, il muro, la fortezza.
Ti accoglieva ogni sera
la disadorna tenda
senza profumi
nè amorose schiave.
Là, presso il mare,
dormivi un sonno animalmente duro.
Primo fra i tuoi,
fra quanti eroi convennero sotto Ilio
non secondo a nessuno.
Ma veramente solo
ed unico tu fosti
nella sventura.
Nessun Dio ti protesse,
niuna gloria t'arrise incontrastata,
ti fu solo di scorta il tuo valore,
o fante antico.
E i Greci ti negarono quel premio
a cui tu ambivi:
l'armi d'Achille. Un maestro d'inganni
te le strappò. Ma in mare
costui le perse. E il flutto pietoso,
il mutevole flutto, più sagace
dell'umano giudizio, più costante
della fortuna,
sul tuo tumulo alfine le depose.
Pace all'anima tua
infera, Ajace.
Immagine: Pietro Liberi, Allegoria della Forza prigioniera, olio su tela, XVII secolo, Pinacoteca Egidio Martini, Venezia.
Giustizia Insieme è felice di ospitare oggi un articolo di Lavinia Parsi, già nostra autrice, dottoranda di ricerca in diritto penale presso il Dipartimento Scienze Giuridiche Cesare Beccaria dell’Università degli Studi di Milano e la Humboldt-Universität di Berlino, già Affiliate Researcher presso l'Orient Institut di Beirut, vincitrice della Quarta edizione del Premio Giulia Cavallone istituito presso la Fondazione Calamandrei.
Giulia Cavallone è stata una giovane magistrata e una studiosa del diritto penale che aveva scelto come strumento la comparazione – ossia lo sguardo rivolto a sé e all’altro con identico rispetto ed attenzione – nella convinzione che fosse il più utile, nel diritto come nella vita. Per chi non abbia conosciuto Giulia, Giustizia Insieme l’ha ricordata qui.
Il Premio voluto dalla famiglia Cavallone in memoria di Giulia è un ideale passaggio di testimone ad altre generazioni di giovani ricercatrici e ricercatori che, con il suo stesso spirito di apertura, intendano inserire nel proprio percorso accademico un periodo presso università o istituti di ricerca esteri.
Il testimone è stato raccolto da Lavinia Parsi, la cui vocazione internazionale è testimoniata dagli studi già compiuti presso l’Université Libre de Bruxelles, l’Università di Haifa, la Humboldt-Universität di Berlino, e le sue esperienze professionali presso l’Ufficio della Procura della Corte Penale Internazionale, presso il think-tank Sine Qua Non, presso gli studi legali Al Haq (Ramallah) e Adalah (Haifa), presso CCHR - European Center for Constitutional and Human Rights (Berlino), presso l'Orient Institut di Beriut.
Accogliendo Lavinia Parsi tra i nostri autori accogliamo idealmente quel respiro, che sopravvive a Giulia grazie al filo invisibile che il Premio contribuisce a tessere, legando il suo percorso interrotto a quello di Lavinia, di tutte le altre e gli altri giovani ricercatori che costruiscono la propria cultura nell’apertura e nel confronto.
Simbolo, sanzione, prevenzione: la revoca della cittadinanza in seguito alla commissione di reati nella giurisprudenza della Corte Edu
di Lavinia Parsi
Il contributo è dedicato alla questione della revoca della cittadinanza in seguito alla commissione di reati, alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In particolare, si esamina come la Corte abbia trattato il tema, segnatamente in relazione a contesti di terrorismo, con riferimento alla sicurezza nazionale e alla prevenzione di reati. Il testo analizza i precedenti della Corte Edu, evidenziando le incongruenze interpretative che emergono dalla giurisprudenza con riferimento inter alia alla procurata apolidia, alle asserite esigenze di prevenzione ed alle conseguenze prodotte in capo ai ricorrenti dalla revoca di cittadinanza. L’analisi si propone di offrire alcuni spunti riflessivi sulle implicazioni di una cittadinanza sottoposta a condizioni, sottolineando l’asimmetria tra cittadini naturalizzati e cittadini di origine, e le difficoltà derivanti da una concezione della cittadinanza che oscilla tra un’interpretazione apparentemente funzionale ed una più marcatamente simbolica.
È oggetto di discussione in questi giorni l’approvazione del c.d. “pacchetto cittadinanza”, con il quale il governo italiano ha introdotto alcune restrizioni relative all’acquisizione della cittadinanza in base al principio di ius sanguinis[1]. Tralasciando ogni valutazione rispetto all’adeguatezza dello strumento del decreto-legge per introdurre una modifica normativa di tale portata in assenza di valide considerazioni di necessità ed urgenza[2], la scelta dell’esecutivo stimola alcune riflessioni sul valore della cittadinanza, ed in particolare sulla creazione di cittadinanze diversamente “graduate”. Sulla scorta di un generico concetto politico di “italianità”, tradotto nelle previsioni normative in locuzioni come “vincoli profondi di cultura, identità e fedeltà”, si designano cioè cittadinanze caratterizzate da diversi livelli di tutela, tramite la previsione di criteri differenziati per la loro attribuzione o, viceversa, revoca. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è oggetto di crescente attenzione da parte della Corte Edu, che solo in tempi relativamente recenti ha riconosciuto che, nonostante la Convenzione Edu non riconosca un diritto alla cittadinanza, “una revoca arbitraria della cittadinanza in certe circostanze potrebbe sollevare un problema ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, a causa dell’impatto sulla vita privata dell’individuo”[3]. Sulla base dello stesso principio, la Corte ha sviluppato una giurisprudenza piuttosto eterogenea ma essenzialmente in sintonia con la tendenza manifestata dal governo italiano, di particolare interesse penalistico nei casi di revoca di cittadinanza in relazione alla commissione di reati.
Il primo caso riconducibile a questo filone giurisprudenziale può essere identificato in K2 c. Regno Unito[4], dove la Corte, dichiarando manifestamente infondato il ricorso, confermava la legittimità della revoca della cittadinanza nei confronti di un cittadino britannico-sudanese, in ragione di presunti legami con l’organizzazione Al Shabaab in Somalia. La valutazione della compatibilità della misura con la Convenzione veniva condotta attraverso due criteri mutuati dalla giurisprudenza consolidata in materia di diniego di attribuzione della cittadinanza: l’assenza di arbitrarietà (intesa come rispetto della legalità, delle necessarie garanzie procedurali, nonché diligenza e tempestività dell’azione amministrativa) e l’analisi delle conseguenze prodotte in capo al ricorrente. Pur a fronte del fatto che la revoca si fondasse su elementi probatori acquisiti dai servizi di intelligence britannici, non rivelati integralmente né all’interessato né al suo avvocato difensore, e nonostante l’intero procedimento si fosse svolto in un momento in cui il soggetto si trovava all’estero – circostanza che gli aveva di fatto impedito di partecipare attivamente al procedimento stesso – la Corte riteneva comunque sufficienti le garanzie procedurali fornite al ricorrente[5]. Rispetto alle conseguenze, invece, i giudici accoglievano la tesi del governo, secondo cui l’impatto sulla vita famigliare del ricorrente sarebbe stato relativamente ridotto poiché la sua famiglia, ed in particolare la moglie ed il figlio, avrebbero potuto fargli visita liberamente o eventualmente trasferirsi a loro volta in Sudan. Inoltre, inaugurando un’interpretazione poi costantemente mantenuta, e discostandosi dal precedente Ramadan c. Malta[6], la Corte attribuiva grande rilevanza al fatto che la revoca della cittadinanza britannica non avrebbe reso il ricorrente apolide, poiché questi aveva nel mentre ottenuto la cittadinanza sudanese[7].
Negli anni seguenti, la Corte tornava sul punto con riferimento a diversi casi che, invece, comportavano un’espulsione successiva alla perdita di cittadinanza. In Said Abdul Salam Mubarak c. Danimarca[8], per esempio, il ricorrente lasciava il Marocco all’età di 19 anni e, nel 1988, acquisiva la nazionalità danese. Nel 2015, veniva condannato in via definitiva per avere effettuato propaganda jihadista tramite dei post su Facebook; contestualmente, veniva privato della cittadinanza danese e sottoposto ad espulsione con divieto permanente di re-ingresso. In sede di valutazione delle conseguenze sulla vita del ricorrente, la Corte Edu non vedeva sproporzione tra queste ed i fatti commessi, nonostante l’interessato avesse passato la grande maggioranza della sua vita in Danimarca, non essendosi recato in Marocco dal 1989. Inoltre, nel 1988 il ricorrente aveva sposato una cittadina danese – da cui aveva avuto quattro figli – e, successivamente, un’altra cittadina danese da cui aveva avuto una figlia, nata pochi mesi dopo la decisione di espulsione. Come in K2, i giudici asserivano che nulla ostava al fatto che la seconda moglie e la figlia neonata si trasferissero a loro volta in Marocco e che, poiché la figlia era stata concepita dopo la sentenza di primo grado, “il ricorrente e la sua nuova moglie sapevano quindi che la loro vita familiare in Danimarca sarebbe stata precaria fin dall’inizio”[9]. Viceversa, venivano considerati dirimenti il fatto che il ricorrente avesse una conoscenza linguistica maggiore dell’arabo che del danese e che la seconda moglie, sposata con rito islamico, avesse a sua volta origini marocchine. In conclusione, la Corte riteneva il ricorso inammissibile perché manifestamente infondato.
Nel caso Ghoumid et al. c. Francia[10], la Corte Edu per la prima volta affrontava la questione nel merito e, tuttavia, rilevava una non violazione dell’art. 8. Il caso era stato sollevato da cinque cittadini naturalizzati francesi, privati della cittadinanza francese dopo essere stati condannati per avere fornito supporto finanziario e logistico ad un’unità islamista connessa all’organizzazione responsabile di un attentato terrorista avvenuto a Casablanca nel 2003. In tale occasione, la Corte riteneva giustificabile la revoca disposta dal Primo Ministro, previo parere del Consiglio di Stato francese, sulla base dei già citati due criteri – assenza di arbitrarietà e conseguenze in capo ai ricorrenti. In particolare, relativamente al parametro di diligenza e tempestività dell’azione amministrativa, la Corte affermava che, le circostanze eccezionali sopraggiunte – in particolare, gli attacchi terroristici verificatisi in Francia nel 2015 – fossero idonee a giustificare il lasso temporale di otto anni intercorso tra la condanna e l’istanza di revoca, legittimando una rinnovata valutazione del “vincolo di lealtà e di solidarietà esistente tra [uno Stato] e le persone precedentemente condannate per un grave reato che costituisce un atto di terrorismo”[11]. La decisione si discosta sensibilmente dall’orientamento precedente nella misura in cui riconosce che, anche in assenza di un’espulsione effettiva[12], la revoca della cittadinanza fa sì che la possibilità di permanenza del soggetto nel territorio nazionale sia significativamente indebolita[13]. Secondo la Corte, sebbene il diritto alla vita familiare dei ricorrenti tutelato dall’art. 8 Cedu non sia intaccato fino al momento dell’eventuale espulsione, la perdita della cittadinanza rappresenterebbe ipso facto la “perdita di un elemento della loro identità”[14], giustificata solo in quanto non sproporzionata alla luce della gravità dei fatti commessi.
In Johansen c. Danimarca, invece, per la prima volta il caso riguardava un cittadino che aveva acquisito la nazionalità danese sin dalla nascita, essendo nato in Danimarca da un genitore danese ed uno tunisino. Il ricorrente aveva vissuto per tutta la vita in Danimarca, essendosi recato solo sporadicamente in Tunisia, l’ultima volta nel 2006. Nel 2017, Johansen veniva condannato in primo grado a quattro anni di reclusione per avere accettato di arruolarsi con Da’esh in Siria, ricevendo addestramento in loco per sei mesi, prima di rientrare in Danimarca nel 2014. La Corte Distrettuale, con una maggioranza di dieci giudici su dodici, concludeva che la richiesta di revoca della cittadinanza contestualmente avanzata dalla Procura era priva di fondamento. La Procura proponeva appello davanti alla Alta Corte, che confermava la decisione di primo grado. Nel 2018, in seguito ad appello straordinario, la decisione veniva tuttavia nuovamente impugnata e la Corte Suprema decideva all’unanimità di revocare la cittadinanza di Johansen e decretarne l’espulsione, con divieto permanente di re-ingresso. Anche in questo caso, nulla quaestio da parte della Corte Edu rispetto all’arbitrarietà della misura. Relativamente alle conseguenze sofferte dal ricorrente, invece, i giudici chiarivano che la Corte non ha mai stilato una lista di elementi dirimenti ai fini della valutazione di legittimità della revoca della cittadinanza e che, a differenza dei casi di espulsione, nei casi di revoca non viene applicato strettamente parlando un test di proporzionalità[15]. Come nei casi precedenti, la Corte dava rilievo primario al fatto che la misura non avrebbe reso il ricorrente apolide, mentre l’attaccamento culturale e linguistico – considerato rilevante in Said Abdul Salam Mubarak – non veniva in questa sede considerato altrettanto preponderante. L’ingerenza con la vita familiare del ricorrente veniva considerata legittima ai sensi dell’art. 8 Cedu, poiché la moglie ed il figlio minore del ricorrente – entrambi danesi – avrebbero potuto fargli visita o trasferirsi con lui in Tunisia, o, “se non volevano stabilirsi in Tunisia, potevano fargli visita e comunicare con lui per telefono e su Internet”[16]. La Corte concludeva per l’inammissibilità del ricorso in quanto manifestamente infondato. Il mese seguente, confrontandosi con un caso sostanzialmente analogo, la Corte ribadiva le stesse conclusioni[17].
Lo scorso dicembre, infine, la Corte tornava ad affrontare la questione nel merito con la sentenza El Aroud e Soughir c. Belgio[18], nella quale venivano riuniti due procedimenti. In entrambi i casi, i ricorrenti erano originari di Paesi nordafricani, ma stabilitisi in Belgio sin dalla prima infanzia con le rispettive famiglie di origine, e dopo diversi anni naturalizzati belga. Entrambi venivano condannati per avere reclutato aspiranti jihadisti per unirsi ad Al-Qaeda in Iraq e in Siria e, al termine dell’esecuzione della pena, privati della cittadinanza e soggetti ad un ordine di lasciare il territorio nazionale, accompagnato da una decisione di interdizione d’ingresso per i successivi 15 anni. La Corte di Appello di Bruxelles, in particolare, asseriva che, avendo dimostrato “il più profondo disprezzo per i valori essenziali su cui si basa la società belga”, essi avevano indubbiamente mancato gravemente ai loro doveri di cittadini[19]. In questo caso, la Corte Edu riconosceva l’interferenza con la vita privata dei ricorrenti, per i quali la perdita di cittadinanza rappresenta a tutti gli effetti la perdita di un “elemento di identità”[20]. Al tempo stesso, tale ingerenza veniva considerata legittima perché prevista dalla legge, motivata da uno scopo legittimo (ossia la difesa della sicurezza nazionale e prevenzione delle infrazioni penali) e necessaria in una società democratica, al fine di tutelare la società da minacce di natura terroristica. Anche in questa occasione, in punto di conseguenze sulla vita dei ricorrenti, i giudici valorizzavano il fatto che, detenendo i ricorrenti una seconda nazionalità, il provvedimento non avrebbe avuto come esito uno stato di apolidia e che, in ogni caso, la revoca della cittadinanza non comportava automaticamente l’espulsione dal territorio[21]: sebbene, come detto, l’ordine di espulsione fosse già stato disposto, esso non costituiva infatti oggetto del ricorso. Viceversa, non veniva considerato sufficientemente rilevante il fatto che entrambi i ricorrenti avessero sviluppato in Belgio la totalità della propria vita privata e familiare: la Corte non ravvisava, pertanto, una violazione dell’art. 8 Cedu[22].
A fronte di tante divergenze interpretative, emerge in modo univoco che la Corte Edu tende a tutelare la facoltà degli Stati di attribuire o, in questi casi, revocare la cittadinanza di soggetti dotati di una seconda nazionalità al fine di tutelare la propria sicurezza nazionale e prevenire la commissione di reati. Si tratterebbe, cioè, di una misura di natura preventiva. Nella maggior parte dei casi, però, la revoca non è disposta in seguito ad una valutazione di pericolosità, né sulla base di indizi relativi alla prossima commissione di reati, ma come conseguenza di una condanna penale per fatti commessi anche molti anni prima, e per cui spesso i ricorrenti avevano già scontato la totalità della pena[23]. Vi sono poi due ulteriori elementi che mettono in luce l’incongruenza del ragionamento. Anzitutto, si osserva che la legittimità della revoca della cittadinanza è giustificata dalla Corte Edu, tra l’altro, dal fatto che da essa non discende automaticamente l’espulsione dal territorio nazionale. Tuttavia, se si ammette che la persona destinataria del provvedimento costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale, la sola revoca della cittadinanza – con la conseguente perdita dei diritti che essa comporta – appare poco efficace nel contenere tale pericolo, se non è accompagnata da un’espulsione dal territorio o da altre misure preventive. Inoltre, la circostanza della doppia cittadinanza non incide sulla valutazione di pericolosità per la sicurezza nazionale, poiché anche un cittadino dotato della sola nazionalità interessata potrebbe rappresentare lo stesso tipo di minaccia. Ammesso che un conseguente stato di apolidia avrebbe, evidentemente, un peso del tutto diverso in un giudizio di proporzionalità, parrebbe più coerente valutare gli effetti negativi che la revoca produce, in concreto ed alla luce di un’analisi complessiva, in capo all’interessato. Spesso, questi non risulterebbero meno gravi nel caso in cui un cittadino, pur non rimanendo apolide, fosse radicato in modo pieno ed esclusivo nel territorio dello Stato che dispone la revoca– come accaduto in molti dei casi trattati. Peraltro, come detto, è stata la Corte Edu stessa, in Johansen, a negare che un test di proporzionalità debba essere applicato nei casi in oggetto.
Sotto altro profilo, la Corte Edu sembra affermare un valore pienamente simbolico della cittadinanza, considerato irrimediabilmente reciso nei casi di reati di matrice terroristica, attraverso cui i ricorrenti avrebbero dimostrato “quanto poco importante fosse il loro attaccamento” allo Stato in questione e “ai suoi valori nella costruzione della loro identità personale”[24]. Tale argomentazione pare però in contrasto con l’approccio di tipo “funzionale”[25], secondo cui la revoca della cittadinanza è ritenuta compatibile con la Convenzione anche poiché non comporta necessariamente un’impossibilità di trattenersi sul territorio e/o condurre la propria vita familiare senza subire lesioni sproporzionate[26]. Il modo in cui la corte sembra oggi intendere la cittadinanza – e la relativa revoca – assume, invece, una connotazione marcatamente simbolica. Da questa impostazione discende, ancora una volta, un’evidente dissonanza: l’attribuzione di una cittadinanza “condizionata” solo ai cittadini dotati di una seconda nazionalità. Gli stessi fatti di reato non producono, infatti, effetti analoghi nei confronti dei cittadini “puramente” europei, ai quali la cittadinanza non viene revocata. È interessante notare che, in K2, il ricorrente aveva effettivamente lamentato – oltre alla violazione dell’art. 8 Cedu – anche una violazione dell’art. 14 Cedu (relativo al divieto di discriminazione), poiché un cittadino britannico sprovvisto di seconda nazionalità non sarebbe stato privato della propria cittadinanza né espulso[27]. In quella circostanza, tuttavia, la Corte ha rigettato il ricorso ex art. 35(1) della Convenzione per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, non avendo il ricorrente sottoposto la questione in termini di discriminazione all’attenzione dell’autorità giudiziaria nazionale.
Il profilo dell’uguaglianza, del resto, è stato oggetto di rilievo critico anche nell’ambito del dibattito costituzionalistico italiano relativo alla revoca di cittadinanza introdotta dal c.d. “pacchetto sicurezza”: con il d.l. 113/2018, il governo introduceva infatti all’art. 10bis un’ipotesi di revoca della cittadinanza, prevista in caso di condanna definitiva per alcuni gravi delitti contro la personalità dello Stato[28], esclusivamente per i cittadini naturalizzati italiani. In tale occasione, diversi studiosi hanno evidenziato la “palese discriminazione tra il cittadino italiano per nascita che, commettendo i reati previsti, non perderebbe la cittadinanza, e lo straniero che, acquisita diversamente la cittadinanza, in quelle ipotesi la perderebbe”[29]. In quella sede, si notava altresì come la normativa in questione non apparisse realmente orientata alla prevenzione del terrorismo[30], risultando invece caratterizzata da un “elemento discriminatorio intrinseco”[31]. Come efficacemente rilevato altrove, una cittadinanza diseguale rappresenta, in sé, un ossimoro[32], o un cortocircuito concettuale[33], poiché la nozione stessa di cittadinanza presuppone una condizione di eguaglianza tra i cittadini[34]. A ben vedere, la concezione asseritamente simbolica della cittadinanza sostenuta dalla Cedu si pone in perfetta continuità con una più ampia tendenza politica a creare diversi “gradi” di cittadinanza, o classi di cittadinanza diversamente tutelate. Le stesse critiche, infatti, ben si attagliano alle nuove restrizioni all’acquisizione di cittadinanza per ius sanguinis, il cui spirito comune è tradito dal comunicato stampa di accompagnamento, dove il Consiglio dei Ministri sottolinea che l’intervento normativo è reso necessario: “anche al fine di un allineamento con gli ordinamenti di altri Paesi europei e per garantire la libera circolazione nell’Unione Europea solo da parte di chi mantenga un legame effettivo col Paese di origine”[35]. Desta, quindi, un limitato stupore la posizione assunta dalla Corte Edu, che, anche con le più recenti sentenze, sembra aderire all’idea di una cittadinanza caritatevolmente octroyée. Si designa, cioè, solo per “lo straniero”, variamente definito, una cittadinanza che può in ogni momento essere revocata, ribadendo la sua condizione di perenne alterità e – dunque – precarietà.
[1] In particolare, il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025 contenente “Disposizioni urgenti in materia di cittadinanza” interviene sulla l. 91/1992, stabilendo che “è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all’estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza”, salvo che almeno un genitore sia italiano e nato in Italia, o sia stato residente in Italia per almeno due anni consecutivi. Un disegno di legge, approvato lo stesso giorno dal Consiglio dei Ministri, introduce l’ipotesi di perdita della cittadinanza per “desuetudine” nei confronti del cittadino italiano nato all’estero, non residente in Italia ed in possesso di un’altra cittadinanza che, successivamente alla data di entrata in vigore delle nuove norme, non mantenga vincoli effettivi con la Repubblica italiana.
[2] Il decreto-legge identifica i requisiti nel dato che: “la possibile assenza di vincoli effettivi con la Repubblica in capo a un crescente numero di cittadini, che potrebbe raggiungere una consistenza pari o superiore alla popolazione residente nel territorio nazionale, costituisce un fattore di rischio serio ed attuale per la sicurezza nazionale e, in virtù dell’appartenenza dell’Italia all'Unione europea, degli altri Stati membri della stessa e dello Spazio Schengen”.
[3] C. Edu, sez. IV, Ramadan c. Malta, 21 giugno 2016, par. 85.
[4] C. Edu, sez. I, K2 c. Regno Unito, 7 febbraio 2017.
[5] Ivi, par. 54-61.
[6] In quell’occasione, la Corte Edu aveva infatti considerato irrilevante lo stato di apolidia del ricorrente derivato dalla revoca, asserendo che: “il fatto che uno straniero abbia rinunciato alla cittadinanza di uno Stato non significa in linea di principio che un altro Stato abbia l’obbligo di regolarizzare il suo soggiorno nel Paese” (C. Edu, sez. IV, Ramadan c. Malta, 21 giugno 2016, par. 92).
[7] Ivi, par. 62.
[8] C. Edu, sez. II, Said Abdul Salam Mubarak c. Danimarca, 14 febbraio 2019.
[9] Ivi, par. 75.
[10] C. Edu, sez. V, Ghoumid et al. c. Francia, 25 giugno 2020.
[11] Ivi, par. 45.
[12] Nel caso di specie, al momento della decisione della Corte Edu, la procedura era pendente dinnanzi alla Commissione per l’espulsione. In particolare, l’8 settembre 2016 la Commissione aveva sentito gli interessati ed il 21 ottobre 2016 la Prefettura di Les Yvelines aveva comunicato il proprio parere favorevole alla deportazione.
[13] Ivi, par. 49.
[14] Ibidem.
[15] C. Edu, sez. II, Johansen c. Danimarca, 3 marzo 2022, par. 52.
[16] Ivi, par. 82.
[17] C. Edu, sez. II, Laraba c. Danimarca, 14 aprile 2022.
[18] C. Edu, sez. I, El Aroud e Soughir c. Belgio, 5 dicembre 2024. La decisione è stata fatta oggetto di rinvio dinnanzi alla Grande Camera.
[19] Ivi, par. 24.
[20] Ivi, par. 59.
[21] Ivi, par. 74-77.
[22] Si precisa che la decisione, emessa dalla Sezione I della Corte Edu, è stata oggetto di rinvio dinnanzi alla Grande Camera.
[23] Proprio questi aspetti sono stati infatti oggetto di ricorso ai sensi dell’art. 2 e dell’art. 4 del Protocollo N°7, in Ghoumid et al. e in El Aroud e Soughir. In entrambi i casi la Corte Edu ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, sostanzialmente negando la natura penale della revoca di cittadinanza.
[24] C. Edu, sez. I, El Aroud e Soughir c. Belgio, 5 dicembre 2024, par. 73.
[25] Cfr. Luigi Viola, “La revoca della cittadinanza dopo il Decreto Sicurezza”, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza 1/2021, 106.
[26] Si vedano ad esempio gli argomenti della Corte in Ramadan, par. 92 e in K2, par. 62.
[27] A ben vedere, il Regno Unito ha recentemente deciso di confermare la revoca della cittadinanza di Shamima Begum, cittadina britannica priva di seconda nazionalità e detenuta da diversi anni nel Nord-Est della Siria. Si veda: UK Supreme Court, UKSC 7, Secretary of State for the Home Department v. Begum, 26 febbraio 2021. Al termine della procedura amministrativa, i difensori di Begum hanno annunciato l’intenzione di ricorrere alla Corte Edu.
[28] Si tratta in particolare dei delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, oltre ai reati previsti dagli artt. 270 c. 3, 270ter, 270quinquies.2 e 306 c. 2 c.p.
[29] Salvatore Curreri, “Prime considerazioni sui profili d’incostituzionalità del decreto legge n. 113/2018 (c.d. ‘decreto sicurezza’)”, Federalismi.it 22/2018, 13.
[30] Davide Bacis, “Esistono cittadini ‘di seconda classe’? Spunti di riflessione in chiave comparata a margine del d.l. n. 113/2018”, DPCE Online 1/2019, 937.
[31] Ivi, 939.
[32] Alessandra Algostino, “Il decreto ‘sicurezza e immigrazione’ (decreto legge n. 113 del 2018): estinzione del diritto di asilo, repressione del dissenso e diseguaglianza”, Costituzionalismo.it 2/2018.
[33] Cristina Bertolino, “Paradossi della cittadinanza nella legge di conversione del decreto legge c.d. ‘Sicurezza’”, Federalismi.it 3/2019, 7.
[34] Si veda anche: Elisa Cavasino, “Ridisegnare il confine fra ‘noi’ e ‘loro’: interrogativi sulla revoca della cittadinanza”, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza 1/2019, dove l’autrice evidenzia in modo critico la concezione di cittadinanza come “strumento di creazione e definizione dell’altro” sottesa a questo tipo di misure.
[35] Comunicato stampa del Consiglio de Ministri n. 121, 28 marzo 2025.
Ancora di Giulia e del Premio Giulia Cavallone avevamo già parlato qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/2541-premio-giulia-cavallone-anno-2022; https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3005-premio-giulia-cavallone-anno-2023; Premio “Giulia Cavallone” – anno 2024 - www.giustiziainsieme.it; https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-innovazione/2747-navigating-the-grey-area-brevissime-riflessioni-su-ia-nuovi-dilemmi-morali-e-responsabilita-penale-di-alice-giannini; Per una giustizia dell'inumano. Riflessioni sulla codificazione italiana dei crimini internazionali - www.giustiziainsieme.it.
Criteri ambientali minimi ed eterointegrazione della lex specialis di gara (nota a TAR Napoli, sez. I, 15 gennaio 2025, n. 427).
di Giuliano Taglianetti
Sommario: 1. Premessa: le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza. - 2. Il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la pronuncia in commento. - 3. La decisione del TAR Napoli. - 4. Considerazioni critiche e possibili soluzioni interpretative.
1. Premessa: le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza
Con la sentenza in commento, la prima sezione del TAR Napoli si è pronunciata su due questioni problematiche riguardanti l’attuazione della normativa in materia di criteri ambientali minimi (d’ora in avanti, c.a.m.).
La prima questione riguarda la sussistenza o meno di un onere di immediata impugnazione del bando di gara nell’ipotesi in cui quest’ultimo non contenga alcun riferimento alle specifiche tecniche, alle clausole contrattuali e ai criteri premiali contenuti nei decreti ministeriali recanti i c.a.m..
La seconda, più complessa e problematica, attiene alle conseguenze del mancato inserimento dei c.a.m. nella lex specialis.
2. Il quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la pronuncia in commento
Prima di analizzare la sentenza in commento, è opportuno esaminare il quadro normativo e giurisprudenziale in cui essa si colloca.
L’art. 57, comma 2, d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36 (codice dei contratti pubblici) sancisce l’obbligo per le stazioni appaltanti e gli enti concedenti di inserire nella documentazione progettuale e di gara le specifiche tecniche e le clausole contrattuali contenute nei c.a.m., definiti per categorie di contratti con decreto del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica.
La definizione a livello ministeriale di determinati standard di sostenibilità ambientale ed energetica si pone l’ambizioso obiettivo programmatico di limitare l’uso delle risorse naturali e di sostituire le fonti energetiche non rinnovabili con fonti rinnovabili, nonché di ridurre la produzione di rifiuti, delle emissioni inquinanti e dei rischi ambientali, nell’interesse della collettività e delle generazioni future.
I c.a.m. consistono concretamente in indicazioni tecniche, di natura eminentemente ambientale, che le pubbliche amministrazioni devono prendere in considerazione nel momento in cui definiscono le specifiche della prestazione oggetto della gara, nonché ai fini della valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa[1].
Il processo di determinazione dei c.a.m. è stato avviato dalla legge 27 dicembre 2006 n. 296, con la quale è stata prevista l’adozione del Piano nazionale d’azione sul green public procurement (c.d. PAN GPP) da parte del(l’allora) Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (poi Ministero della transizione ecologica e, oggi, Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica).
Con decreto dell’11 aprile 2008, quest’ultimo Ministero, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze e con il Ministero dello sviluppo economico, ha approvato il PAN GPP, individuando i settori merceologici di intervento prioritario per la tutela dell’ambiente (arredi, materiali da costruzione, manutenzione delle strade, gestione del verde pubblico, illuminazione e riscaldamento, elettronica, tessile, cancelleria, ristorazione, materiali per l’igiene, trasporti) in relazione ai quali definire i c.a.m.[2].
Il legislatore ha gradualmente imposto l’applicazione dei c.a.m nelle procedure preordinate all’affidamento di contratti pubblici[3], con il duplice fine di ridurre gli impatti ambientali e di promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibili, favorendo, in tal modo, l’occupazione “verde”[4].
Dapprima, è intervenuto l’art. 18 della legge 28 dicembre 2015, n. 221, che ha introdotto l’art. 68-bis nel d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (cd. “codice De Lise”), sancendo l’obbligo di inserire nei documenti di gara le specifiche tecniche e le clausole contrattuali previste nei c.a.m. di alcuni settori come l’illuminazione pubblica, le attrezzature elettriche ed elettroniche, i servizi energetici per gli edifici pubblici[5].
Il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, come riformato ad opera del primo correttivo di cui al d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56[6], aveva stabilito espressamente che tale obbligo si applicasse agli affidamenti di qualunque importo, relativamente alle categorie di forniture e di affidamenti di servizi e lavori oggetto dei c.a.m. adottati in attuazione del vigente Piano d’azione.
Infine, la disciplina dei c.a.m. ha trovato conferma nel codice vigente (d.lgs. n. 36/2023), che impone alla pubblica amministrazione l’obbligo di inserimento nella documentazione progettuale e di gara «almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi adottati con decreto del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica» (art. 57, comma 2).
La citata disposizione è applicabile a tutti i contratti pubblici, riferendosi esplicitamente sia alle stazioni appaltanti sia agli enti concedenti, a prescindere dal loro valore[7].
La stessa norma prevede che le amministrazioni aggiudicatrici «valorizzino economicamente le procedure di affidamento di appalti e concessioni conformi ai c.a.m.»: in altre parole, si impone alla pubblica amministrazione l’obbligo di considerare i fattori ecologici e ambientali nella valutazione delle offerte, modulando discrezionalmente il peso da attribuire a ciascuno di essi in base ai principi di adeguatezza e proporzionalità.
L’attuazione della normativa in materia di c.a.m. ha posto rilevanti problematiche, soprattutto di carattere processuale, ed è stata oggetto di un ampio dibattito in giurisprudenza, che ha tentato di far luce su alcuni aspetti controversi.
Una prima questione riguarda l’ammissibilità o meno dell’immediata impugnazione della lex specialis volta a contestare l’omesso inserimento nella medesima delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei c.a.m.
Secondo un primo orientamento - più recente e, ad oggi, minoritario - il bando di gara privo di riferimenti ai c.a.m. impedirebbe la formulazione di “offerte consapevoli” da parte dei concorrenti e, pertanto, deve essere impugnato in via diretta ed immediata.
I sostenitori di questa tesi ritengono che, se la violazione dei principi in materia ambientale risulti già immediatamente evidente e percepibile al momento dell’indizione della gara, posporre l’impugnazione della lex specialis al momento dell’aggiudicazione si porrebbe in contrasto con i doveri di leale collaborazione, correttezza e buona fede (che governano sia i rapporti sostanziali sia quelli processuali)[8], nonché con i principi di economicità dell’azione amministrativa e di legittimo affidamento[9].
Tale indirizzo interpretativo sembra ricondurre l’omesso inserimento dei c.a.m. nella lex specialis alle fattispecie di «gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta» ovvero ai casi eccezionali di clausole impositive di «obblighi contra ius» [10].
Secondo un diverso (e prevalente) indirizzo interpretativo la mancata previsione dell’obbligatorietà dei c.a.m. da parte del bando, non impedendo la partecipazione alla gara e la presentazione dell’offerta, non comporta l’onere di immediata impugnazione del bando stesso[11].
Seguendo quest’ultimo orientamento un ricorso diretto ad impugnare direttamente il bando per omesso inserimento dei c.a.m. sarebbe inammissibile per carenza di interesse ad agire.
Siffatta interpretazione risulta convincente, poiché i requisiti dell’attualità e della concretezza rappresentano parti integranti e ineliminabili dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.)[12], da ritenersi sussistenti soltanto a fronte di clausole del bando escludenti o impeditive della presentazione di offerte: clausole che la giurisprudenza qualifica come tali quando limitano o rendono estremamente difficoltosa la partecipazione alla gara[13].
In effetti, anche in presenza di un bando incompleto, non è possibile escludere a priori che una delle imprese partecipanti possa comunque presentare un’offerta conforme ai c.a.m., riuscendo così ad aggiudicarsi la gara.
D’altronde, la mancata previsione dell’obbligo di presentare offerte conformi ai c.a.m. - lungi dall’impedire o rendere estremamente difficoltosa la presentazione delle offerte - potrebbe addirittura essere considerato vantaggioso dalle imprese sotto il profilo tecnico ed economico, favorendo quindi una maggiore partecipazione alla gara[14].
Di maggiore complessità e rilevanza è il dibattito in merito alle conseguenze del mancato inserimento dei c.a.m. nella legge di gara, poiché riguarda il delicato equilibrio tra la tutela della concorrenza e il perseguimento di obiettivi ambientali.
Secondo un primo orientamento, invalso prevalentemente nella giurisprudenza di primo grado, l’obbligo di rispettare i criteri minimi ambientali deriva direttamente dall’articolo 57 del d.lgs. 36/2023, che costituisce norma imperativa e cogente, e dai decreti ministeriali in essa richiamati, i quali operano indipendentemente da una loro espressa e puntuale previsione negli atti di gara (cd. tesi della eterointegrazione normativa[15]).
Di conseguenza, l’omesso inserimento dei c.a.m. nella legge di gara non implica, di per sé, l’illegittimità della stessa[16].
A supporto di ciò è stato anche invocato il principio del risultato, che porrebbe l’accento «sull’esigenza di privilegiare l’effettivo e tempestivo conseguimento degli obiettivi dell’azione pubblica, prendendo in considerazione i fattori sostanziali dell’attività amministrativa, escludendo che la stessa sia vanificata, in tutti quei casi in cui non si rinvengano obiettive ragioni che ostino al suo espletamento»[17].
Da tale impostazione deriva che «anche in assenza di un’esplicita previsione nella lex specialis», da un lato, le imprese sono obbligate «ex lege ad offrire prodotti rispondenti ai c.a.m.»,[18] e, dall’altro, le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute a verificare la rispondenza delle offerte tecniche presentate alle prescrizioni previste nei decreti ministeriali applicabili in base all’oggetto della gara.
In base a questa lettura, non è irragionevole pretendere che un operatore economico sia a conoscenza dell’esistenza e del contenuto dei c.a.m. (in ossequio al principio ignorantia legis non excusat) e che, pertanto, adegui la propria offerta ai citati criteri, in conformità al canone dell’ordinaria diligenza ex art 1176 c.c.[19]
Di conseguenza, la presentazione di offerte non conformi ai decreti ministeriali e ai relativi allegati che stabiliscono i c.a.m. giustifica l’esclusione del concorrente, anche se il rispetto degli stessi non è stato espressamente previsto nella lex specialis della gara[20].
Ciò è possibile in forza del generale meccanismo di cui agli artt. 1339 e 1374 c.c.[21].
Un’ulteriore e importante inferenza logica di tale impostazione è che l’impresa ricorrente, qualora sia in grado di dimostrare che la propria offerta sia stata comunque formulata in modo da rispettare i c.a.m., nonostante il loro omesso richiamo nel bando, potrebbe ottenere in via giurisdizionale, oltre all’annullamento dell’aggiudicazione definitiva, anche l’aggiudicazione del contratto in sostituzione della impresa aggiudicataria, ex art. 122 c.p.a.
In sintesi, accedendo a questa prima impostazione ermeneutica, l’impresa partecipante è obbligata ex lege ad offrire prodotti rispondenti ai c.a.m., anche in assenza di esplicita previsione nella lex specialis, e, in caso di mancata aggiudicazione, potrebbe agire in giudizio contestando la mancata esclusione delle offerte difformi dagli stessi c.a.m. allo scopo di conseguire la commessa, soddisfacendo così direttamente il suo interesse finale (vale a dire la stipula del contratto e l’esecuzione dello stesso).
Secondo una diversa tesi, che potremmo definire “della necessaria caducazione della procedura di gara”, l’inevitabile conseguenza del mancato inserimento dei c.a.m. nella lex specialis «è la caducazione dell’intera gara e l’integrale riedizione della stessa, emendata dal vizio in questione»[22].
Quest’ultimo orientamento intercetta le fondamentali esigenze di trasparenza dell’azione amministrativa e, quindi, di stabilità e certezza del rapporto negoziale tra la pubblica amministrazione e l’impresa aggiudicataria, oltre che di tutela del legittimo affidamento dei concorrenti nell’esercizio legittimo del potere [23].
In base a questo indirizzo interpretativo la puntuale declinazione dei c.a.m. nella lex specialis consente alle imprese partecipanti di formulare un’offerta più consapevole e più aderente alle esigenze ambientali, a vantaggio anche dell’interesse generale della collettività; essa, inoltre, favorisce una più chiara definizione dei reciproci diritti ed obblighi contrattuali, assicurando, in un’ottica di risultato, una maggiore efficacia nell’attuazione delle politiche ambientali[24].
Per inciso, è interessante osservare come il principio del risultato sia stato richiamato a supporto sia della tesi della eterointegrazione normativa (TAR Napoli, n. 377/2024 cit., secondo cui la rinnovazione della gara per l’omesso inserimento dei c.a.m. nel bando comprometterebbe l’effettivo e tempestivo conseguimento degli obiettivi dell’azione pubblica) sia della tesi della necessaria caducazione del bando di gara (Cons. Stato, n. 4701/2024 cit., secondo cui la rinnovazione della gara e la puntuale declinazione dei c.a.m. nella lex specialis comporterebbero la presentazione di offerte più adeguate al conseguimento degli obiettivi ambientali).
Il che avvalora l’idea in base alla quale il principio del risultato non è un criterio interpretativo univoco e decisivo, bensì incerto e sussidiario, prestandosi a interpretazioni differenti e, talvolta, finanche contrapposte[25].
3. La decisione del TAR Napoli.
Nel contesto così delineato si inscrive la pronuncia in commento.
In sintesi, la fattispecie sottoposta al collegio riguarda una procedura di gara indetta dall’Azienda Ospedaliera di Rilevo Nazionale (AORN) dei Colli di Napoli, preordinata all’affidamento del servizio di conduzione e manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti tecnologici a servizio delle proprie strutture.
All’esito della gara una delle imprese partecipanti impugnava la lex specialis, unitamente all’aggiudicazione definitiva[26] e a tutti gli atti di gara, contestando il mancato inserimento dei c.a.m. applicabili all’oggetto dell’affidamento.
L’amministrazione resistente e l’impresa aggiudicataria hanno eccepito, tramite le rispettive memorie, la tardività del ricorso per mancata impugnazione del bando nel termine decadenziale di trenta giorni decorrenti dalla sua pubblicazione, nonché l’infondatezza nel merito del ricorso stesso.
Nell’esaminare l’eccezione di tardività, il TAR partenopeo si è limitato a richiamare la giurisprudenza del Consiglio di Stato (in particolare, la sentenza n. 2795/2023 cit.), secondo cui l’omesso recepimento dei c.a.m. nella legge di gara non integra un vizio tale da imporre l’immediata impugnazione del bando, non essendo preclusivo della partecipazione e non precludendo la formulazione delle offerte.
Su questo punto la decisione appare condivisibile, alla luce delle argomentazioni giuridiche già sviluppate supra, al precedente § 2.
Vale la pena aggiungere che, nel caso in esame, la società ricorrente aveva partecipato alla gara e presentato un’offerta conforme ai c.a.m. di riferimento, come sottolineato più volte dal TAR Napoli.
Ciò dimostra concretamente che l’assenza di tali c.a.m. nella lex specialis non aveva ostacolato la partecipazione delle imprese alla gara né la formulazione di un’offerta “consapevole”.
Dunque, il collegio è passato ad esaminare «il principale motivo di ricorso», riguardante le conseguenze del mancato inserimento dei criteri ambientali minimi nella lex specialis.
Si è ritenuto, al riguardo, che il bando di gara, sebbene privo della concreta declinazione dei criteri ambientali minimi, non fosse illegittimo.
Sul punto, la sentenza in commento si è consapevolmente discostata dal consolidato orientamento del Consiglio di Stato in base al quale il mancato inserimento dei c.a.m. negli atti di gara postula necessariamente la caducazione della gara stessa.
Il giudici della I sezione hanno motivato il rigetto del ricorso facendo riferimento alla peculiarità della fattispecie concreta, consistente nella circostanza che la ricorrente avesse comunque formulato un’offerta conforme ai c.a.m. di riferimento, nonostante il loro omesso richiamo nel bando[27].
Il che dimostrerebbe, secondo il ragionamento posto a base della decisione, che la denunciata incompletezza del bando non ha avuto «incidenza sostanziale e lesiva»; di conseguenza - prosegue il Collegio - lo stesso non può essere considerato illegittimo, anche in virtù del principio della fiducia, il quale «pone una presunzione di legittimità dell’azione amministrativa, superabile con fondati elementi di segno opposto, da cui trarre in maniera adeguata il convincimento dell’opacità dell’operato della p.a., tale da aver precluso al privato di poter compiutamente svolgere la propria attività».
Il giudice campano ha, quindi, invocato il principio della fiducia come criterio interpretativo della lex specialis, pur essendo quest’ultima regolata, ratione temporis, dal codice del 2016.
Ha così interpretato tale principio come «una versione evoluta del principio di presunzione di legittimità dell’azione amministrativa».
A ben vedere, la pronuncia in esame, in continuità con la citata sentenza n. 377 del 2024 della medesima sezione, ha sposato la tesi dell’eterointegrazione normativa, seguendo un iter argomentativo basato non più sul principio del risultato, ma su quello della fiducia.
Siamo, dunque, di fronte all’elaborazione di una soluzione organica e meditata, dalla quale emergono molti spunti interessanti, ma anche diversi dubbi e aspetti critici.
4. Considerazioni critiche e possibili soluzioni interpretative
Le maggiori perplessità si addensano sull’iter logico seguito dal TAR Napoli per risolvere la problematica concernente le conseguenze del mancato inserimento dei c.a.m. nella lex specialis.
Il Collegio afferma la necessità di esaminare «compiutamente la fattispecie sottoposta al suo esame, senza automatismi, avendo riguardo agli elementi del caso concreto e compiendo, ove necessario, una rinnovata valutazione» (pt. 3.4.)
Tale metodo di indagine è astrattamente condivisibile.
Invero, a parere di chi scrive, la caducazione della gara e la rinnovazione della stessa non rappresentano sempre la soluzione più adeguata per la tutela del ricorrente e dell’interesse ambientale coinvolto nella procedura di evidenza pubblica: a fronte dell’omesso inserimento dei c.a.m. nella legge di gara, la decisione di caducare o meno l’intera procedura concorsuale non può prescindere da una concreta analisi delle offerte presentate.
Tuttavia, ed è questo l’aspetto che desta maggiori perplessità, l’analisi dei giudici si è concentrata esclusivamente sull’offerta della società ricorrente, senza considerare quella dell’impresa aggiudicataria.
È, invece, attraverso l’analisi dell’offerta presentata dall’aggiudicataria che si può verificare se la denunciata incompletezza del bando abbia avuto o meno un’«incidenza sostanziale e lesiva».
La criticità della sentenza riguarda, quindi, l’ordine logico e metodologico nell’analisi delle offerte presentate in sede di gara: esaminando l’offerta della società ricorrente, il giudice ha compiuto una valutazione che, logicamente, sarebbe dovuta avvenire in via eventuale, solo dopo aver verificato la rispondenza ai c.a.m. dell’offerta della società controinteressata.
Invero, ad avviso di chi scrive, in simili controversie - in cui il ricorrente contesta il mancato inserimento dei c.a.m. nel bando di gara, impugnando il bando stesso, unitamente all’aggiudicazione definitiva e a tutti gli atti della procedura - il giudice amministrativo dovrebbe innanzitutto analizzare, dandone conto in motivazione, l’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria, verificando se tale offerta sia o meno conforme ai c.a.m. di riferimento.
Si aprono, in tal modo, tre possibili scenari.
1. Qualora né l’impresa aggiudicataria né l’impresa ricorrente abbiano presentato offerte conformi ai c.a.m. l’annullamento del bando e dell’intera procedura di gara appare l’unica strada percorribile.
In tale ipotesi la normativa in tema di c.a.m. viene violata sia sotto il profilo formale (il bando di gara non contiene le specifiche tecniche e le clausole contrattuali recate dai decreti ministeriali, come prescritto oggi dall’art. 57, comma 2, d.lgs. n. 36/2023), sia sotto il profilo sostanziale (le offerte presentate dall’impresa aggiudicataria e dalla ricorrente non sono conformi ai c.a.m.); sicché l’annullamento del bando (e, “a cascata”, dell’intera procedura di gara[28]) appare un esito inevitabile.
In tale fattispecie, per un verso, non si può procedere - com’è ovvio - all’aggiudicazione della gara in capo al ricorrente, residuando in capo a quest’ultimo soltanto l’interesse strumentale alla riedizione della gara; per altro verso, appare incongruo rigettare il ricorso limitandosi ad un mero richiamo della teoria della eterointegrazione, poiché, nell’ipotesi data, anche l’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria non è conforme ai c.a.m.
2. Qualora, invece, emerga in giudizio il mancato rispetto dei c.a.m. da parte dell’impresa aggiudicataria e, al contempo, la conformità dell’offerta del ricorrente agli stessi c.a.m. il giudice dovrebbe accogliere il ricorso stabilendo se dichiarare o meno l’inefficacia del contratto eventualmente stipulato, ex art. 122 c.p.a. (ciò, naturalmente, a condizione che il ricorrente abbia presentato una idonea domanda in tal senso).
Nell’ipotesi testé prospettata, imporre a tutti i costi la rinnovazione della gara (anche in presenza di un’offerta conforme allo schema normativo di riferimento) avrebbe conseguenze inaccettabili, ponendosi in conflitto con il principio di buon andamento (e tempestività) dell’azione amministrativa, nonché con le esigenze di economia processuale (dato che la rinnovazione, anche solo parziale, della gara comporta il rischio di nuovo contenzioso), oltre che con il principio del risultato.
Quest’ultimo, infatti, può considerarsi realizzato se il contratto pubblico venga affidato direttamente (senza, cioè, la ripetizione della gara) all’impresa ricorrente che abbia ritualmente impugnato l’aggiudicazione definitiva dimostrando in giudizio (tramite schede tecniche e/o altra documentazione) di avere diligentemente formulato un’offerta conforme allo schema normativo di riferimento nonostante l’omesso inserimento dei c.a.m. nella lex specialis: il risultato avuto di mira dall’art. 57 del d.lgs. n. 36/2023 è rappresentato non già dall’inserimento formale nel bando delle clausole e delle specifiche tecniche previste nei decreti ministeriali, bensì dalla concreta attuazione delle politiche ambientali alle quali risulta funzionale la sostanziale conformità dell’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria ai criteri ambientali minimi.
A questo proposito, lo stesso Consiglio di Stato ritiene, in linea di principio, ammissibile e giustificabile l’operatività della integrazione legale del bando laddove «il rispetto della norma eterointegrante sia indispensabile al fine di garantire il raggiungimento del risultato di interesse pubblico cui è preordinato lo svolgimento della gara»[29].
Di converso, l’adesione incondizionata alla tesi della rinnovazione (parziale o totale) della procedura di gara rischierebbe seriamente di vanificare il perseguimento degli obiettivi di sostenibilità: la caducazione e la rinnovazione della procedura illegittima, pur comportando il ripristino della legalità violata, si rivelerebbero non pienamente satisfattive per il ricorrente e per l’interesse pubblico perseguito in concreto dall’amministrazione, oltre a contraddire la concezione soggettiva della giurisdizione amministrativa[30].
3. Resta infine da esaminare l’ulteriore ipotesi in cui emerga in giudizio la conformità ai c.a.m. dell’offerta presentata dall’impresa aggiudicataria.
In tale ipotesi la contestazione del bando di gara risulterebbe inammissibile per difetto di interesse ad agire, a prescindere dal contenuto dell’offerta presentata dal ricorrente.
In una simile circostanza sarebbe manifestamente iniquo annullare l’intera procedura di gara facendo ricadere sull’operatore economico diligente (l’impresa vincitrice della gara) un errore (vale a dire l’omesso inserimento dei c.a.m. nel bando di gara) commesso in primo luogo dalla stessa amministrazione.
Nelle ultime due fattispecie prospettate (in cui si ipotizza la presentazione in sede di gara di offerte conformi ai c.a.m.), l’applicazione di meccanismi di integrazione legale consente di conciliare gli obiettivi di sostenibilità ambientale con la tutela della concorrenza, comportando l’aggiudicazione del contratto in favore dell’impresa che abbia diligentemente formulato un’offerta conforme ai c.a.m. nonostante l’omesso inserimento di questi ultimi nella lex specialis.
Dunque, la tesi della rinnovazione e la tesi della etereointegrazione del bando di gara non sono necessariamente contrapposte.
L’adesione all’una o all’altra non dovrebbe dipendere da scelte aprioristiche, bensì da un’analisi minuziosa della legge di gara e delle offerte presentate dai concorrenti, oltre che dalle domande formulate dalle parti in giudizio.
La sentenza in commento, pur non risultando del tutto condivisibile per la sequenza logico-giuridica dell’analisi, riveste comunque una certa importanza, in quanto pone in luce la necessità di affrontare le problematiche legate al mancato inserimento dei c.a.m. nel bando di gara mediante un approccio analitico e privo di automatismi, valutando “caso per caso” le offerte presentate durante la gara.
[1]A titolo di esempio, si può menzionare il d.m. MASE del 7 febbraio 2023, che definisce i c.a.m. nel settore tessile. Esso prevede che le amministrazioni acquistino prodotti tessili con determinate specifiche tecniche (tessuto riciclabile o costituito da fibre naturali; assenza di sostanze pericolose; tessuti lavabili a basse temperature; indumenti riutilizzabili; tessuti con elevata resistenza ai lavaggi e all’usura ecc.) e che inseriscano nei bandi taluni sub-criteri premianti di natura ambientale (tessuti biologici; servizi post-vendita di riparazione, riciclo e riuso; utilizzo di fibre tessili riciclate; filiera produttiva responsabile ecc.). Il d.m. in parola indica anche le modalità per la verifica delle caratteristiche tecniche dichiarate dagli operatori economici nell’offerta, come il possesso di una eco-etichetta (ad. esempio, il marchio Ecolabel), la presenza di rapporti di prova o auto-dichiarazioni del produttore).
[2] Il PAN GPP è stato da ultimo aggiornato il 3 agosto 2023, con decreto del MASE, di concerto con il Ministro delle Imprese e del Made in Italy e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, alla luce dei più recenti atti di indirizzo europei e delle intervenute novità giuridiche.
[3] Per un’analisi approfondita del percorso di funzionalizzazione dei contratti pubblici all’obiettivo dello sviluppo sostenibile, anche attraverso il «sistema dei criteri ambientali minimi», v., ex multis, e. Caruso, La funzione sociale dei contratti pubblici. Oltre il primato della concorrenza?, Napoli, 2021; spec. p. 234 ss.
[4] Sul punto v. Cons. Stato, sez. V, 5 agosto 2022, n. 6934, secondo cui i criteri ambientali minimi contribuiscono a «connotare l’evoluzione del contratto d’appalto pubblico da mero strumento di acquisizione di beni e servizi a strumento di politica economica».
[5] Per completezza espositiva, è opportuno ricordare che, prima ancora, lo stesso d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 prevedeva, al primo comma del previgente art. 68, che, ove possibile, dovessero essere tenuti in considerazione gli aspetti di tutela ambientale nell’individuazione delle specifiche tecniche.
[6] Si veda T. Cellura, L’applicazione dei criteri ambientali minimi negli appalti pubblici. Gli acquisti verdi dopo il correttivo al nuovo codice degli appalti (d.lgs. n. 56/2017), Rimini, 2018.
[7] V’è da notare che l’art. 57, comma 2, d.lgs. 36/2023 non riporta il terzo comma del previgente art. 34, in forza del quale l’obbligo di contribuire al conseguimento degli obiettivi ambientali previsti dal PAN GPP vigeva per gli affidamenti di qualunque importo, introducendo in tal modo un elemento di incertezza. Tuttavia, è ragionevole ritenere che la normativa in tema di c.a.m. si applichi anche ai contratti di importo inferiore alla soglia europea: a sostegno di tale interpretazione si pongono sia la collocazione dell’art. 57 nella Parte II del Libro II – dedicata agli istituti e alle clausole comuni degli appalti – sia la previsione di cui all’art. 48, comma 3, in base al quale «ai contratti di importo inferiore alle soglie di rilevanza europea si applicano, se non derogate […], le disposizioni del codice».
[8] Sul punto, v., in particolare, M.G. Pulvirenti, Considerazioni sui principi di collaborazione e buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica, in Dir. econ., 2023, p. 130: «anche nel processo amministrativo le parti devono agire secondo buona fede. È questo il senso innanzitutto del richiamo ai doveri di lealtà e probità nel codice di procedura civile (art. 88, comma 1 c.p.c.) … Si tratta di una norma evidentemente applicabile al processo amministrativo per via del rinvio alle norme “compatibili” e alle disposizioni “espressione di principi generali” del codice di rito civile (art. 39, comma 2 c.p.a.)».
[9] Questo orientamento è stato espresso, da ultimo, da TAR Lazio, Roma, sez II-ter, 4 dicembre 2024, n. 21878, secondo cui «posporre l’impugnazione della lex specialis fino al momento dell’aggiudicazione non solo non risulta coerente, ma si pone anche in contrasto con il dovere di leale collaborazione e con i principi di economicità dell’azione amministrativa e di legittimo affidamento». In termini, cfr. TAR Lazio, Roma, sez II-ter, 6 marzo 2024, nn. 4493, 4494 e 4495; TAR Puglia, Bari, Sez. II, 28 maggio 2024, n. 675; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 2 dicembre 2024, n. 6698.
[10] Così TAR Lazio, Roma, n. 21878/2024 cit., richiamando TAR Campania, Napoli, sez. IV, 4 maggio 2023, n. 2729.
[11] V., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 3 febbraio 2021, n. 972, secondo cui la violazione dei previgenti artt. 34 e 71 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, in tema di c.a.m., non impone l’immediata impugnazione del bando di gara, non ricadendosi nei casi eccezionali di clausole escludenti o impeditive che consentono l’immediata impugnazione della lex specialis di gara. Più in particolare, secondo il ragionamento della V sezione, la partecipazione alla gara in un’ipotesi del genere non può considerarsi acquiescenza alle regole di gara; non può cioè essere qualificata come un venire contra factum proprium. In termini analoghi, Cons. Stato, sez. III, 2 novembre 2023, n. 9398; 20 marzo 2023, n. 2795; 30 dicembre 2024, secondo cui il mancato inserimento dei c.a.m. nella lex specialis non incide sulla formulazione dell’offerta, né in termini di impossibilità assoluta né in termini di condizionamento relativo.
[12]D’altronde, quando il legislatore ha inteso introdurre nel settore dei contratti pubblici una specifica ipotesi di onere di immediata impugnazione, a prescindere dalla sussistenza di un interesse ad agire attuale e concreto, ha avvertito la necessità di farlo tramite un’espressa previsione normativa: il riferimento è al previgente art. 120, comma 2-bis, c.p.a., su cui sia consentito rinviare a G. Taglianetti, La disciplina dei termini per ricorrere nel rito speciale in materia di contratti pubblici tra certezza e giustizia: considerazioni a margine dell’ordinanza della Corte di giustizia UE, 14 febbraio 2019, C-54/18, in Riv. giur. ed., n. 3/2019, p. 485 ss.
[13] Per un’elencazione delle fattispecie rientranti nel genus delle clausole immediatamente escludenti, v. Ad. Plen., 26 aprile 2018, n. 4, in Foro it. 2019, III, p. 67; per un commento alla sentenza: S. Terracciano, Immediata impugnazione dei bandi di gara: tra novità legislative e conferme giurisprudenziali, in Dir. proc. amm., 2018, p. 1438 ss.; L. Bertonazzi, Notarelle originali in tema di impugnazione dei bandi, ivi, 2019, p. 959 ss.
[14] Si consideri la possibile differenza di costi che potrebbe emergere per i partecipanti qualora fossero obbligati a utilizzare prodotti e modalità di lavorazione imposti dai c.a.m., rispetto al caso in cui, invece, fossero liberi di scegliere tra materiali e pratiche esecutive alternativi. Tale differenza potrebbe influire in modo significativo sulla competitività economica delle offerte: l’obbligo di aderire ai c.a.m. potrebbe comportare un incremento dei costi, mentre la libertà di scelta consentirebbe una maggiore flessibilità, con il conseguente vantaggio di poter ridurre le spese di partecipazione.
[15] Per una generale ricostruzione dei presupposti del ricorso all’eterointegrazione della legge di gara, v. Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3811, in Foro amm. CdS, 2013, p. 2062, ove si chiarisce che il meccanismo della eterointegrazione può operare soltanto in caso di lacune della legge di gara e non in caso di ambiguità interpretative del bando. Di talché, «solo nel caso in cui la stazione appaltante ometta di inserire nella disciplina di gara elementi previsti come obbligatori dall’ordinamento giuridico, soccorre il meccanismo di integrazione automatica in base alla normativa in materia, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione»; viceversa, prosegue la quinta sezione, «quando la legge di gara contiene disposizioni contrastanti con quanto normativamente previsto, non può disporsi l’esclusione dalla gara del concorrente che non abbia allegato quanto espressamente previsto dalla legge, dovendo tenersi conto che solo fondamentali esigenze di certezza del diritto e tutela della par condicio dei concorrenti possono impedire all’amministrazione di disattendere i precetti fissati nella normativa di gara dalla stessa formulata, in ossequio al principio di affidamento formalmente elevato al rango di principio generale dell’azione amministrativa dall’art. 1 comma 1, l. 7 agosto 1990 n. 241, che impedisce che sul cittadino possano ricadere gli errori dell’amministrazione». La dottrina ha da sempre manifestato forti perplessità in ordine alle ipotesi di inserzione automatica di clausole, nella misura in cui mettono a repentaglio le esigenze di certezza e conoscibilità delle condizioni di partecipazione, nonché l’affidamento dei partecipanti sulla loro completezza ed esaustività: per un approfondimento, cfr. E. Boscolo, Il divieto di eterointegrazione del bando: certezza e stabilità della lex specialis, in Giur. it., 1, 2018, p. 173 ss.; G. Crepaldi, Norme imperative di legge e principio di eterointegrazione del bando di gara, in Foro amm. CdS, 2007, p. 568 ss.
[16] In questo senso, cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I, 26 novembre 2024, n. 21224, secondo cui, in base all’attuale normativa, il bando di gara «deve reputarsi automaticamente eterointegrato dai menzionati criteri ambientali».
[17] TAR Napoli, sez. I, 15 gennaio 2024, n. 377, secondo cui ai fini dell’operatività dei c.a.m. è sufficiente un loro mero richiamo nella lex specialis: «l’onere di diligenza impone al concorrente di adeguare la propria offerta ai criteri ambientali minimi che la stazione appaltante non ha trascurato, e che l’operatore economico è così messo in grado di conoscere e valutare, per formulare un’offerta consapevole». In un simile contesto, proseguono i giudici partenopei, «apparirebbe ultroneo pretendere da parte della stazione appaltante la declinazione dei criteri ambientali minimi contenuti nella relativa normativa di legge, che si sostanzierebbe nell’obbligo meramente formale di riproduzione del suo contenuto, ogni qualvolta non sia dedotto e dimostrato che, con riferimento alla specificità dell’appalto o ad altre circostanze peculiari, una tale esigenza si imporrebbe, per l’impossibilità che il concorrente possa formulare un’offerta adeguata».
[18] TAR Venezia, sez. I, 18 marzo 2019, n. 329, che ha rigettato il ricorso rivolto avverso il bando di gara e l’aggiudicazione definitiva, ritenendo direttamente applicabili i criteri ambientali minimi anche in ipotesi di completa omissione dal bando di gara: «si deve ritenere che l’obbligo di rispettare i criteri minimi ambientali derivi direttamente dalla previsione contenuta all’art. 34 del d.lgs. n. 50/2016, che costituisce norma imperativa e cogente e che opera, pertanto, indipendentemente da una sua espressa previsione negli atti di gara».
[19] Su questo specifico aspetto, risulta interessante quanto evidenziato nella pronuncia in commento: «la tematica della sostenibilità ambientale degli appalti è oramai entrata a far parte di una specifica professionalità dell’operatore economico interessato, il quale appronta risorse umane e strumentali per corrispondere ai dettami di legge volti alla preservazione dell’ambiente naturale nell’affidamento di contratti pubblici».
[20] A questo proposito, cfr. TAR Toscana, Firenze, sez. III, 20 febbraio 2020, n. 225, secondo cui la conformità dell’offerta alle caratteristiche ambientali obbligatorie deve «essere esattamente documentata, senza che sussista la possibilità del soccorso istruttorio».
[21] Come osservato da S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 2004, p. 12, «l’integrazione è fuori del contratto, ma al tempo stesso ne determina l’operare; il contratto è il suo oggetto, ma alla costruzione del proprio oggetto essa non manca di partecipare. Di ciò l’art. 1374 è testimonianza eloquente, nel suo apparente contrapporre due diverse fonti degli obblighi discendenti dal contratto: quanto in esso è espresso, da un canto, e la legge, gli usi e l’equità, dall’altro». In modo non dissimile, l’art. 1339 c.c. stabilisce che le clausole, i prezzi di beni e servizi, imposti dalla legge, sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione di clausole difformi. Ne deriva che i contraenti possano vedere estesi i loro reciproci obblighi oltre quelli espressamente pattuiti: ampiamente, sul punto C. Scognamiglio, L’integrazione, in Trattato dei contratti, a cura di P. Rescigno, E. Gabrielli, Torino, 2006, 1149 ss.
[22] Così, Cons. Stato, sez. III, 14 ottobre 2022, n. 8773, secondo cui la circostanza che l’offerta della società appellante non fosse rispettosa dei c.a.m. «non configura vizio finché detta offerta era conforme alla lex specialis».
[23] Sulla relazione esistente tra affidamento, presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo e certezza del diritto cfr. G. Treves,Presunzione di legittimità degli atti amministrativi, Padova, 1936; M.S. Giannini, Atto amministrativo, in Enc. Dir., Milano, 1959, IV, p. 157 ss., spec. p. 187; F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni Trenta all’alternanza, Milano, 2001; f. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995; G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, Napoli, 2023.
[24] In tal senso, v. Cons. Stato, sez. III, 27 maggio 2024, n. 4701, secondo cui la tesi della “eterointegrazione” avrebbe l’effetto di spostare nella fase di esecuzione del contratto ogni questione relativa alla conformità della prestazione ai criteri ambientali, così contraddicendo la logica del risultato, che mira piuttosto ad una sollecita definizione, in termini di certezza e stabilità del rapporto negoziale. Secondo i giudici della III sezione «la genericità del richiamo a criteri semplicemente “non trascurati” attenua fortemente il relativo onere del partecipante».
[25] Per tale opinione, sia consentito rinviare a G. Taglianetti, Contratti pubblici e principio del risultato. Profili sostanziali e processuali, in www.federalismi.it, n. 14/2024, spec. p. 255 ss.
[26] Non è chiaro se quest’ultima fosse stata contestata per illegittimità derivata o anche per vizi propri.
[27] La conformità dell’offerta presentata dalla società ricorrente ai c.a.m. è stata più volte rimarcata dal giudice campano. In particolare, nel punto 3.6. si legge: «Come detto, la ricorrente non ha trascurato la rilevanza degli interessi in gioco, assumendo l’interesse sostanziale della stazione appaltante e facendolo proprio, nel formulare l’offerta … Tanto considerato, risulta quindi che il concorrente si sia premurato di formulare un’offerta collimante con le migliori tecniche di rispondenza all’osservanza dei criteri minimi ambientali, nella piena consapevolezza della materia e nella correlativa assunzione degli obblighi che ne derivano … Nel caso di specie, per quanto innanzi chiarito, emerge che la ricorrente abbia adeguato la propria offerta all’osservanza dei criteri minimi ambientali».
[28] Sull’effetto caducante dell’annullamento del bando di gara determinato dalla mancata inclusione dei criteri ambientali minimi, cfr. Cons. Stato, sez. III, 11 ottobre 2024, n. 8171.
[29] Cons. Stato, n. 7023/2018.
[30] Secondo un condivisibile indirizzo interpretativo, su cui sembra convergere la dottrina amministrativistica, il principio dispositivo e quello di effettività, che caratterizzano un processo ormai divenuto “di parti”, impongono al giudice, in caso di graduazione dei motivi di ricorso, di dare prevalenza al risultato maggiormente satisfattivo per l’interesse del ricorrente piuttosto che all’interesse pubblico. In argomento, cfr. V. Caianiello, Lineamenti del processo amministrativo, Torino, 1979, spec. p. 24; R. De Nictolis, L’ordine dei motivi e la sua disponibilità, in www.federalismi.it, n. 18/2010, spec. § 6; M. Ramajoli, L’atto introduttivo del giudizio amministrativo tra forma e contenuto, in Dir. proc. amm., 2019, p. 1051 ss. Sul tema, la sentenza n. 5 del 27 aprile 2015 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato funge da spartiacque: cfr., al riguardo, le osservazioni di E. Follieri, Due passi avanti e uno indietro nell’affermazione della giurisdizione soggettiva, in Giur. it, 2015, p. 2192 ss.; L.R. Perfetti, G. Tropea, “Heart of darkness”: l’Adunanza Plenaria tra ordine di esame ed assorbimento dei motivi, in Dir. proc. amm., 2016, p. 218 ss.
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