ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Stato di diritto” vs “Diritto di Stato”?
Breve report della “Relazione annuale sullo Stato di diritto 2025”
Sommario: 1.Introduzione - 2. Analisi del Sistema Giudiziario - 3. Gli altri parametri - 4. Conclusioni: “Stato di Diritto vs Diritto di Stato”.
1. Introduzione.
Lo scorso 8 luglio 2025 è stata resa nota la Sesta Relazione annuale sullo Stato di Diritto della Commissione Europea. Si tratta di uno degli strumenti preventivi di monitoraggio appartenenti al c.d. “Meccanismo per lo Stato di diritto”, volto a vagliare, ogni anno, lo Stato dell’Unione e dell’applicazione dei Trattati e, in particolare, le condizioni generali della Rule of Law in ciascuno dei ventisette Paesi membri.
Obiettivo della Relazione, che normalmente chiude la “country visit” dei delegati della Commissione e la consultazione di vari soggetti istituzionali e non, mira ad accertare il mantenimento dell’equilibrio fra poteri dello stato, a svolgere una analisi qualitativa dei progressi compiuti ed a formulare alcune raccomandazioni per garantire salute alle democrazie (liberali) che compongono l’Unione Europea. La Relazione di quest’anno, inoltre, è la prima del nuovo mandato parlamentare europeo e tiene dunque presenti gli obiettivi di salvaguardia e sicurezza del mercato unico a fronte delle nuove linee politiche stabilite dalla Presidente Von Der Leyen per il periodo 2025 – 2029.
L’analisi è svolta, come ogni anno, tenendo conto di quattro aree tematiche/ parametri ritenute dalla Commissione Europea vere e proprie “cartine al tornasole” dello Stato di diritto: il sistema giudiziario, il quadro anticorruzione, il pluralismo dei media ed altri aspetti istituzionali.
Prima di riassumere le annotazioni proposte nel Rapporto per ciascuna delle voci menzionate con riferimento all’Italia, va sottolineato che quest’anno i delegati della rappresentanza italiana alla redazione dell’analisi in questione hanno anche tenuto conto delle argomentazioni svolte, oltre che dall’Associazione Nazionale Magistrati, dai gruppi associativi che la compongono, mediante lo svolgimento di una audizione, avvenuta il 24 febbraio 2025, dei delegati di ciascuno di essi (si avrà modo di notare, in varie note riportate nella Relazione, lo specifico richiamo alle posizioni sostenute dalle singole associazioni di magistrati).
2. Analisi del Sistema Giudiziario
Come accennato, la prima parte del Rapporto riguarda l’analisi dello stato del Sistema giudiziario italiano ed è suddivisa nei paragrafi relativi all’indipendenza, alla qualità, alla efficienza dello stesso.
Quanto alla indipendenza, desta relativo sollievo apprendere dal Rapporto che “Il livello di indipendenza della magistratura percepito in Italia è ora medio tra i cittadini e rimane medio tra le imprese. Complessivamente, nel 2025 il 46 % della popolazione in generale e il 48 % delle imprese percepiscono il livello di indipendenza della magistratura come "piuttosto o molto soddisfacente".
Il cuore dell’indagine della Commissione, però, riguarda le iniziative legislative rivolte agli aspetti ordinamentali che più coinvolgono l’indipendenza dei magistrati italiani dagli altri poteri dello Stato. La Relazione, dunque, dà atto da un lato, che sia stata adottata la normazione di attuazione affinchè entri pienamente in vigore la riforma globale del sistema giudiziario, con ciò riferendosi ai Decreti del marzo 2024; dall’altro lato, che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia esercitato e normato con circolare alcuni temi chiave dell’indipendenza quali gli incarichi fuori ruolo dei magistrati, le valutazioni di professionalità (un cenno è dedicato al dibattito interno sul c.d. “fascicolo del magistrato”), il Testo Unico per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi. Il Report menziona anche le voci critiche sollevate dall’intera magistratura italiana in merito ai c.d. test psicoattitudinali, rispetto ai quali ancora nulla è stato ancora normato dal legislatore. Ed ancora, il Rapporto segnala il corso d’opera sulla riforma della c.d. “separazione delle carriere”, ben puntualizzando i reali contenuti della riforma in punto di previsione di due Consigli Superiori della Magistratura diversi, uno per giudici, l’altro per PM, dell’Alta Corte disciplinare, della riforma della procedura di designazione dei componenti del CSM. Il Rapporto non tace del sostanziale sostegno alla riforma pervenuto in specie dal Consiglio Nazionale Forense e dall’Unione delle Camere Penali, a fronte delle riserve formulate dal CSM nel suo Parere critico del’8.1.2025 e dall’Anm, con lo svolgimento di un partecipato sciopero il 27.2025.
Ed, infine, in relazione alla indipendenza, il rapporto segnala le posizioni assunte da alcuni esponenti politici rispetto a decisioni assunte con provvedimento da singoli magistrati, ricordando che “La magistratura ha espresso preoccupazioni circa la perdita del rispetto reciproco fra le istituzioni e le ripercussioni di questi episodi sulla fiducia dei cittadini nella magistratura stessa22. Secondo le norme europee, anche se criticare le decisioni giudiziarie è un aspetto normale del dibattito democratico, i poteri esecutivo e legislativo dovrebbero evitare critiche tali da minare l'indipendenza della magistratura o la fiducia dei cittadini nella stessa”.
Quanto al paragrafo dedicato alla qualità del sistema giudiziario, il Rapporto dà atto che è in corso l'assunzione di magistrati e personale amministrativo negli organi giudiziari, sebbene rimangano lacune persistenti, e che è stato apprezzato il contributo positivo degli Addetti all'Ufficio del Processo alla gestione dei procedimenti giudiziari, anche se il numero degli Addetti in funzione ha continuato a diminuire. Il Rapporto registra ulteriori progressi nell'attuazione della raccomandazione relativa al miglioramento della digitalizzazione nelle sedi penali e nelle procure, ma attesta anche che “l'Italia dispone di soluzioni digitali limitate per celebrare e seguire i procedimenti giudiziari penali” (diventa quindi noto anche in sede internazionale che “a causa di carenze relative al sistema, 87 uffici giudiziari penali e procure hanno scelto di derogare all'obbligo e hanno rimandato l'avvio effettivo dell'APP”).
Infine, in punto di efficienza, il Rapporto menziona la tendenza positiva da un lato in termini di riduzione dell’arretrato, dall’altro, di riduzione dei tempi per la definizione dei processi.
3. Gli altri parametri
Il secondo tema chiave rispetto al quale il Rapporto valuta le condizioni di permanenza ed implementazione dello Stato di diritto è quello del Quadro Anticorruzione.
Il Report prende le mosse dal riferire gli esiti delle rilevazioni di due attori/portatori di interesse, ossia di Transparency International e Eurobarometro 2025: in sostanza, “la percezione (dei portatori di interesse, n.d.r.) è che il livello di corruzione nel settore pubblico continui ad essere relativamente elevato”.
Ciò premesso, il Rapporto menziona le iniziative assunte in Italia per il contrasto alla corruzione dai vari soggetti interessati (“nel gennaio 2025 l'Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha approvato l'aggiornamento del Piano Nazionale Anticorruzione (PNA), con nuove linee guida sulle procedure semplificate per combattere i rischi di corruzione nei piccoli comuni, ed il sesto Piano d'Azione Nazionale per il governo aperto ha compreso un impegno a migliorare l'integrità nella pubblica amministrazione e una guida sull'uso di indicatori e dati aperti per prevenire la corruzione negli appalti pubblici”) e riporta l’iniziativa legislativa dell’agosto 2024 di abrogazione del reato di abuso di ufficio, poi dichiarato costituzionalmente legittimo e conforme ai principi della Convenzione dell’ONU sulla corruzione dalla Corte Costituzionale nel maggio del 2025.
L’ANAC, inoltre, ha aumentato il suo personale, ha continuato a impartire ai funzionari pubblici, insieme alla Scuola Nazionale dell'Amministrazione (SNA), corsi di formazione sulla prevenzione della corruzione ed ha aumentato le attività di vigilanza. Sono state avviate azioni per migliorare l'integrità delle forze di polizia e corsi specifici di formazione destinate ai giudici nell’ambito della Scuola Superiore della Magistratura.
Al contrario, il Rapporto menziona che:
- manca ancora all'Italia una normativa complessiva sul conflitto di interessi per i titolari di cariche pubbliche, compresi i parlamentari, pur menzionando che si registrano progressi – limitati - nell'attuazione della raccomandazione riguardante l'adozione di norme complessive sul c.d. lobbying. La mancanza di una regolamentazione generale delle attività di lobbying, quindi, continua a essere percepita come una delle principali carenze nel sistema di integrità nazionale;
- mancano progressi sulla questione del finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali mediante donazioni attraverso fondazioni e associazioni politiche poiché i progetti di legge sono ancora pendenti in Parlamento (“La pratica persistente delle donazioni private ai partiti potrebbe rappresentare un ostacolo per la responsabilità pubblica e addirittura comportare l'esercizio di un'influenza sproporzionata sul programma politico da parte dei donatori privati a seconda dell'entità del rispettivo contributo”).
Quanto, infine, al settore degli appalti pubblici, esso resta ad alto rischio infiltrazione da parte della criminalità organizzata anche attraverso il sistema di corruzione, anche se da un lato nel 2024 è stato ulteriormente rinforzato il Codice dei contratti pubblici, dall’altro l’ANAC ha esteso, nel corso della procedura, l’uso della piattaforma telematica alla maggior parte degli appalti banditi.
Il terzo settore oggetto dell’analisi del Rapporto sullo Stato di diritto è quello del pluralismo e libertà dei media.
Secondo il Report, l'autorità garante italiana AGCOM dispone di risorse adeguate per esercitare le sue funzioni in modo indipendente; la sua indipendenza di bilancio è garantita, in primo luogo, da un sistema di autofinanziamento nel settore delle telecomunicazioni, dei servizi postali, di quelli audiovisivi e delle piattaforme online. Il Report, poi, registrata alcuni progressi per quanto riguarda la raccomandazione relativa al finanziamento dei media del servizio pubblico e svolge una breve digressione sul ruolo della RAI, invitata a fornire informazioni accurate e pluralistiche. Alcuni portatori di interessi continuano d'altra parte a dirsi preoccupati dall'esposizione della RAI ai rischi di ingerenze indebite nell'ambito degli attuali quadri di governance e di finanziamento e dalla mancanza di progressi legislativi per affrontare tali questioni (“Nell'ottobre 2024 sono state presentate al Senato sei diverse proposte legislative di riforma della RAI, il cui obiettivo è riformare l'attuale sistema di governance, promuovere l'indipendenza della RAI e ridurre il coinvolgimento del Governo nelle procedure di nomina).
Di alto interesse l’affondo del Report circa il fatto che le norme sull'accesso alle informazioni giudiziarie continuino, in Italia, a destare preoccupazione tra i giornalisti. Viene, infatti, esposto che l'adozione del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188136 (la cosiddetta "riforma Cartabia") ha individuato negli uffici di Procura le uniche autorità che possono fornire alla stampa informazioni sui procedimenti penali e che successivamente siano state introdotte nuove norme, note come "riforma Nordio" 137 ed "emendamento Costa", che disciplinano l'accesso a determinate informazioni giudiziarie e la loro pubblicazione. Il Governo ritiene che tali misure garantiscano un giusto equilibrio tra la tutela della presunzione di innocenza e la libertà di stampa e di informazione; diverse voci del settore, invece, hanno affermato che dopo l'introduzione della riforma Cartabia, vi sono stati casi in cui le procure non hanno informato la stampa di fatti di potenziale interesse pubblico. Nonostante in alcune sedi giudiziarie siano stati attuati protocolli ad hoc per la gestione del momento di accesso alla informazione, i giornalisti continuano a dover affrontare sfide nell'esercizio della professione.
Per quanto riguarda, infine, la raccomandazione di riformare le norme sulla diffamazione non si è registrato alcun ulteriore progresso in tal senso.
Vengono, infine, elencate nel Rapporto le “altre questioni istituzionali relative al bilanciamento dei poteri”, fra cui la verifica dell’iter legislativo sul progetto di riforma costituzionale per introdurre l'elezione diretta del Presidente del Consiglio, la preoccupazione delle modalità di legislazione per decretazione di urgenza, la mancata esecuzione di ben 74 sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo, la mancata istituzione di una istituzione nazionale per i diritti umani.
Il Rapporto esaurisce poi la comunicazione riformulando una serie di raccomandazioni unitarie ai vari Paesi UE ed a quelli dell’ampliamento per il futuro.
4. Conclusioni
Alcune brevi considerazioni.
Innanzi alla evidente bontà dello strumento in questione per il monitoraggio e per il rafforzamento della Rule of law in ambito comunitario e nell’ottica dell’ampliamento, va altrettanto sottolineato, però, che esso è privo di una vera forza coercitiva sia rispetto alla promozione di iniziative legislative volte al consolidamento dell’equilibrio fra poteri, sia rispetto al contenimento, all’interno degli Stati, dell’emergere di norme di dettaglio che a poco a poco possono minare l’indipendenza e la pari dignità degli stessi.
Le democrazie liberali sono, infatti, realtà culturali e giuridiche non acquisite per sempre; esse, a colpi di maggioranze, possono venire minate dall’adozione di disposizioni contrastanti con il principio di autonomia ed indipendenza dei poteri, così da sostituire allo Stato di Diritto, un “Diritto di Stato” foriero di arretratezze che si ritenevano superate a partire dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti.
Le sanzioni comminate dalla Corte di Giustizia restano l’estrema ratio, ma azioni contrarie, magari annidate in disciplina di dettaglio, possono diventare latenti strumenti di depotenziamento della Rule of law. In questo senso, l’ampio coinvolgimento da parte della Commissione di attori ed interlocutori nei vari settori sensibili, non ultime le associazioni di magistrati, consente non solo alle istituzioni ed agli enti, ma anche alla società civile di rimanere fari accesi sullo Stato di diritto contro ogni forma di Diritto di Stato, veri e propri anticorpi a favore del progresso dei principi ispiratori dell’integrazione europea.
La nozione di “area idonea” tra disciplina statale e normativa regionale (nota a T.a.r. Veneto, 18 dicembre 2024, n. 2997)
di Clara Silvano
Sommario: 1. La vicenda oggetto del contenzioso. -2. Evoluzione della normativa in materia di installazione di impianti F.E.R. alla luce del riparto di competenze tra Stato e Regioni. - 3. La decisione del T.a.r. nel caso di specie. - 4. Prospettive future: il D.M. 21 giugno 2024 e la sentenza del T.a.r. Lazio del 13 maggio 2025 n. 9155.
1.La vicenda oggetto del contenzioso
La sentenza qui in esame riguarda l’installazione dei c.d. “impianti F.E.R.” in zona agricola e si rivela particolarmente interessante per l’interprete in quanto offre una possibile soluzione in caso di antinomia tra la normativa statale e quella regionale - nel caso di specie della Regione Veneto- in ordine a requisiti richiesti per l’attivazione di un impianto collocato in una c.d. “area idonea”[1].
Il ricorso che ha dato avvio al contenzioso era stato proposto da una società privata avverso il parere reso dall’Amministrazione comunale al SUAP competente recante diniego al rilascio della Procedura Abilitativa Semplificata (PAS)[2] richiesta per la realizzazione di un impianto fotovoltaico con moduli posizionati a terra della potenza di 7426 KW ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, il conseguente provvedimento di conclusione negativa della conferenza di servizi attivata nell’ambito della procedura e il contestuale ordine di non effettuare l’intervento ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 28/2011[3].
A tale ricorso accedeva altresì domanda cautelare, rigettata dal T.a.r. Veneto con ordinanza n. 123/2024[4] per mancanza di periculum in mora[5], riformata in appello dal Consiglio di Stato[6], per il quale le esigenze cautelari della ricorrente avrebbero potuto essere soddisfatte, ai sensi dell’art. 55, comma 10 c.p.a., mediante la celere fissazione dell’udienza di merito da parte del Tribunale di prime cure[7].
Il diniego opposto dall’Amministrazione comunale alla realizzazione dell’impianto fotovoltaico era fondato sulla mancata produzione nella procedura di PAS del c.d. “atto di asservimento”, non previsto dalla normativa statale, ma richiesto dall’art. 4 della L.R. 19 luglio 2022, n. 17[8] quale ulteriore “parametro per l’insediamento degli impianti fotovoltaici nelle zone classificate agricole dagli strumenti urbanistici”[9].
Nello specifico, la norma regionale subordina la realizzazione di un impianto fotovoltaico con moduli posizionati a terra in zona agricola al previo asservimento di un’area agricola pari ad almeno quindici volte l’area occupata dall’impianto, tramite la sottoscrizione di apposito vincolo pertinenziale.
Secondo la ricorrente, tale ulteriore adempimento non sarebbe dovuto, trovandosi l’impianto fotovoltaico in area classificata come idonea dalla legge statale ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 199[10] e, precisamente, in area classificata come agricola racchiusa «in un perimetro in cui i punti distino non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi i siti di interesse nazionale»[11].
L’idoneità ex lege impressa all’area dalla normativa nazionale avrebbe dovuto portare alla disapplicazione della normativa regionale che, secondo la tesi del ricorrente, potrebbe trovare applicazione solo ed eventualmente in aree diverse da quelle già individuate come idonee di diritto dalla norma statale.
Secondo il Comune, invece, la normativa regionale non metterebbe in discussione la qualificazione di “area idonea di diritto” prevista dal d.lgs. 199/2021, cui si affiancherebbe integrandone le disposizioni, nell’alveo consentito dalla potestà regionale concorrente riconosciuta nella materia di “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” dall’art. 117 della Costituzione[12] definendo indicatori di presuntiva idoneità e non idoneità e parametri specifici per talune fattispecie, perseguendo peraltro l’ulteriore finalità di tutelare il suolo agricolo.
Chiarite sinteticamente le posizioni delle parti, il T.a.r., rigettate le eccezioni in rito sollevate dal Comune[13], entra nel merito del controversia che può essere risolta «alla luce della “ragione più liquida”[14] correlata alla dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 20 del d.lgs. 199/2021, 4 e 6 del d.lgs. 28/2011, 117 e 3 Cost., 12 del d.lgs. 387/2003, della direttiva 2018/2001, del Regolamento UE 2577/2022 e della L.R. Veneto 17/2022, nonché dei criteri di risoluzione delle antinomie normative e delle linee guida nazionali di cui al D.M. 10.09.2010, rivestendo detto profilo carattere assorbente, rispetto alle altre questioni sollevate da parte ricorrente (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 5 gennaio 2015, n. 5, nonché Cass., Sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242)».
Prima di analizzare la soluzione offerta dal giudice rispetto al rapporto tra normativa statale e normativa regionale veneta in materia di localizzazione di impianti F.E.R., con particolare riguardo al caso della localizzazione degli impianti in area agricola, si ritiene utile effettuare un breve excursus normativo in materia, evidenziando in particolare l’evoluzione del ruolo riconosciuto al legislatore statale nella definizione delle c.d. “aree idonee”.
2. Evoluzione della normativa in materia di installazione di impianti F.E.R. alla luce del riparto di competenze tra Stato e Regioni
La normativa in materia di sviluppo di fonti di energia rinnovabile rappresenta un caso emblematico di regolazione “multilivello”[15], che parte dal livello internazionale[16], intercetta quello europeo[17] per poi attuarsi a livello nazionale con l’apporto del legislatore statale e di quello regionale, alla luce del riparto di potestà legislativa delineato dall’art. 117 della Costituzione[18].
Nello specifico, la disciplina interna è il frutto del recepimento della normativa elaborata a livello europeo, dal momento che l’Unione e gli Stati membri condividono la competenza in questo settore ai sensi degli artt. 4, lett. i) e 194 del TFUE[19].
L’attuazione interna segue il riparto di competenze disegnato dall’art. 117, comma 3, della Costituzione che assegna la materia “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia” alla competenza concorrente Stato-Regioni[20].
L’autonomia normativa delle Regioni è dunque delimitata dai principi statali che, in un primo tempo, erano individuati dall’art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387[21] il quale disciplinava[22]: la tipologia di procedura autorizzatoria, gli enti competenti al rilascio, il luogo di ubicazione degli impianti[23].
Con riguardo a tale ultimo aspetto qui di interesse, l’art. 12, comma 10, affidava a linee guida adottate in sede di conferenza unificata il compito di porre i criteri in base ai quali le Regioni avrebbero individuato con atti pianificatori generali, le “aree non idonee” all’installazione di impianti di energia rinnovabile[24].
Come correttamente osservato, si trattava di una disciplina relativa alla localizzazione degli impianti particolarmente articolata, che contemplava un procedimento collaborativo tra Stato e Regioni nella determinazione dei principi normativi e un successivo intervento regionale a livello amministrativo all’esito di una articolata istruttoria e a salvaguardia di interessi concorrenti[25].
Come noto, tuttavia, nelle more dell’approvazione delle linee guida suddette, avvenuta solo sette anni dopo, con il D.M. 10 settembre 2010, le Regioni hanno introdotto regole il più delle volte maggiormente restrittive di quelle statali in relazione alla possibilità di realizzare impianti F.E.R. sul territorio e, di conseguenza, penalizzanti per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Le disposizioni regionali hanno previsto divieti alla localizzazione degli impianti in assenza della cornice normativa unitaria costituita dalle linee guida, voluta dal legislatore in nome del principio di leale collaborazione[26], hanno introdotto moratorie, variamente motivate, nel rilascio dei titoli autorizzativi[27] o ancora, hanno contemplato divieti generali ed indiscriminati, sull’intero territorio regionale, alla localizzazione di impianti F.E.R.[28].
Per tali ragioni, le stesse sono state oggetto di censura da parte della Corte Costituzionale che ha difeso le esigenze di una regolazione omogenea di questo settore sull’intero territorio nazionale.
Tale tendenza[29] non è cessata nemmeno in seguito all’approvazione delle linee guida[30] previste dalla norma di legge che, ponevano in capo alle Regioni la possibilità di porre limitazioni e divieti in atti di tipo programmatori o pianificatori per l’installazione di specifiche tipologie di impianti alimentati a fonti rinnovabili, esclusivamente nell’ambito e con le modalità di cui al paragrafo 17[31].
Il paragrafo 17 indica i criteri e i principi che le Regioni devono rispettare al fine di individuare le zone nelle quali non è possibile realizzare gli impianti alimentati da fonti di energia alternativa[32] sulla base dei criteri di cui all’allegato 3. L’allegato 3 prevede, poi, che l’individuazione delle aree e dei siti non idonei alla realizzazione degli impianti in questione «deve essere differenziata con specifico riguardo alle diverse fonti rinnovabili e alle diverse taglie di impianto» e che non può riguardare «porzioni significative del territorio o zone genericamente soggette a tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, né tradursi nell’identificazione di fasce di rispetto di dimensioni non giustificate da specifiche e motivate esigenze di tutela».
La disciplina in esame ha quindi attribuito alle Regioni il potere di individuare «aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti», nel rispetto del principio di massima diffusione delle fonti rinnovabili e degli impianti F.E.R.[33].
Sull’estensione di tale potere la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 13/2014[34], ha ribadito il carattere “eccezionale” dell’attività di individuazione delle aree “non idonee” all’installazione degli impianti a F.E.R., che deve essere effettuata caso per caso, avendo (come prescritto dalle linee guida) riguardo alle diverse fonti e alle specifiche “taglie” dell’impianto e comunque solo al fine di «proteggere interessi costituzionalmente rilevanti», rimarcando la preclusione, per le Regioni, a fissare «limiti generali, valevoli sull’intero territorio regionale, specie nella forma di distanze minime» dal momento che ciò «contrasterebbe con il principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, stabilito dal legislatore statale in conformità alla normativa dell’Unione europea».
Con particolare riguardo alle aree agricole, sempre l’art. 12 ammetteva l’ubicazione degli impianti F.E..R anche in tali zone, avendo riguardo «delle disposizioni in materia di sostegno nel settore agricolo, con particolare riferimento alla valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, alla tutela della biodiversità, così come del patrimonio culturale e del paesaggio rurale di cui alla legge 5 marzo 2001, n. 57, articoli 7 e 8, nonché del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, articolo 14»[35]. L’Allegato 3 delle linee guida precisa poi che «le zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici non possono essere genericamente considerate aree e siti non idonei».
In tale quadro le Regioni potevano comunque limitare l’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, individuando aree agricole “di pregio”, «interessate da produzioni agricolo-alimentari di qualità (produzioni biologiche, produzioni D.O.P., I.G.P., S.T.G., D.O.C., D.O.C.G., produzioni tradizionali) e/o di particolare pregio rispetto al contesto paesaggistico-culturale», o prevedendo limiti anche per le altre aree agricole “comuni”, purché si trattasse di limiti ragionevoli e proporzionati e mai di divieti assoluti e aprioristici[36].
L’equilibrio disegnato dalle linee guida nazionali e dalla successiva attuazione regionale nell’ individuazione delle aree (non) idonee per la localizzazione degli impianti F.E.R. è stato di recente completamente ridisegnato dal legislatore[37], che ha invertito il previgente sistema di governo territoriale nella localizzazione delle aree idonee alla realizzazione di questi impianti[38].
Ciò è avvenuto con il d.lgs. 8 novembre 2021, n. 199 che ha recepito la Direttiva n. 2018/2001/UE “sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”, in attuazione della legge delega 22 aprile 2021, n. 53.
Nello specifico, l’art. 20 del suddetto decreto demanda a successivi decreti, da adottarsi da parte del Ministro della transizione ecologica, di concerto con il Ministro della cultura e di quello delle politiche agricole, alimentari e forestali, previa intesa in sede di Conferenza unificata, la definizione di criteri e principi direttivi per l’individuazione «delle aree idonee e non idonee all’installazione degli impianti» da parte delle Regioni.
Ai sensi del terzo comma dell’art. 20, la definizione delle disciplina delle aree idonee dovrà avvenire tenendo conto «delle esigenze di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, delle aree agricole e forestali, della qualità dell’aria e dei corpi idrici, privilegiando l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e parcheggi, nonché di aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica e verificando l’idoneità di aree non utilizzabili per altri scopi, ivi incluse le superfici agricole non utilizzabili».
La concreta individuazione delle aree idonee è poi rimessa alle Regioni, che devono provvedervi con legge[39] entro 180 giorni dall’entrata in vigore dei decreti previsti dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 199/2021[40].
La disciplina sull’individuazione delle aree idonee si chiude con due ulteriori disposizioni di chiaro favor per la diffusione degli impianti F.E.R. sul territorio: la prima, prevista dal settimo comma, per la quale: «le aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee», con ciò rimarcando la necessità che l’eventuale “non idoneità” di un’area costituisca il frutto di una adeguata istruttoria e non discende, in via automatica, dalla mancata individuazione quale area idonea.
La seconda, particolarmente rilevante ai fini della controversia posta alla cognizione del T.a.r. Veneto, è prevista dall’ottavo comma dell’art. 20 in esame, che individua alcune tipologie di aree come idonee ex lege, nelle more dell’adozione delle leggi regionali[41].
L’elenco delle “aree idonee” all’installazione di impianti F.E.R., originariamente limitato a sole due ipotesi[42], è stato ampliato dalla normativa successiva, in particolare dal d.l. 11 marzo 2022, n. 17, convertito in l. 27 aprile 2022 n. 34 (“Decreto energia”) e il successivo d.l. 17 maggio 2022, n. 50, convertito in l. 15 luglio 2022, n. 91, ricomprendendo, ai fini che qui più interessano «esclusivamente per gli impianti fotovoltaici, anche con moduli a terra, in assenza di vincoli ai sensi della parte seconda del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 le aree classificate agricole, racchiuse in un perimetro i cui punti distino non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi i siti di interesse nazionale, nonché le cave e le miniere».
L’individuazione di un’area come idonea all’installazione di impianti F.E.R. determina l’applicazione di un regime autorizzativo semplificato, con una sostanziale inversione del rapporto tra autorizzazione unica e procedure semplificate, che vengono preferite in applicazione dei criteri di proporzionalità e adeguatezza[43].
A ciò deve aggiungersi quanto contemplato dall’art. 22 del d.lgs. 199/2021, il quale prevede che: «nei procedimenti di autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili su aree idonee, ivi inclusi quelli per l'adozione del provvedimento di valutazione di impatto ambientale, l’autorità competente in materia paesaggistica si esprime con parere obbligatorio non vincolante», con una espressa ipotesi di silenzio devolutivo nel caso in cui il parere non venga reso nel termine previsto[44].
Inoltre, si prevede che il termine di conclusione della procedura di autorizzazione unica sia ridotto di un terzo[45].
Rispetto alla disciplina così delineata che, come visto, ricomprende a determinate condizioni anche le aree agricole tra le aree idonee, si deve rilevare una inversione di tendenza da parte del legislatore nazionale[46], il quale, con l’art. 5 del d.l. 15 maggio 2024, n. 63 convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 2024, n. 101, ha introdotto una serie di limitazione all’installazione di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra in zone classificate agricole dai piani urbanistici vigenti[47], che non risulta applicabile al caso di specie, in forza della disciplina intertemporale tracciata dalla disposizione suddetta[48].
Tracciata la cornice normativa relativa alla localizzazione degli impianti F.E.R. che viene in rilievo nel caso esaminato dal T.a.r., la questione interpretativa che si pone e che si rivela centrale, come si vedrà, per la risoluzione della vertenza portata alla cognizione del T.a.r. Veneto, riguarda il rapporto tra le presunzione di idoneità ex lege fissata dalla legge statale e la legge regionale che detta ulteriori requisiti per l’installazione degli impianti suddetti: in altre parole ci si chiede se la legge regionale possa legittimamente ritenere non idonee aree previste come tali in via presuntiva dalla legge statale, oppure se, come avvenute nel caso di specie, possa introdurre dei requisiti ulteriori che, limitino la localizzazione degli impianti F.E.R. in aree giudicate idonee dalla legge statale.
3.La decisione del T.a.r. nel caso di specie
La questione posta all’attenzione del T.a.r. Veneto può essere riassunta nel seguente modo: se esista o meno l’obbligo, nel caso di specie, per la ricorrente di asservire all’impianto aree ulteriori di estensione pari a quindici volte l’area occupata dall’impianto, ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. a) della L.R. 17/2022, e ciò tenendo in considerazione che l’impianto si dovrebbe realizzare in area agricola, individuata come area idonea di diritto.
Si tratta in sostanza di comprendere se l’individuazione di idoneità da parte della legge statale costituisca un “principio fondamentale” della materia che guida il Legislatore regionale nell’esercizio della propria potestà concorrente e al quale quest’ultimo deve conformarsi senza poter prevedere ulteriori condizioni che, almeno secondo la tesi della ricorrente, nel caso di specie si tradurrebbero in una sostanziale impossibilità a realizzare l’impianto anche in area considerata idonea ex lege.
Orbene, secondo un criterio di interpretazione letterale «ai fini dell’idoneità ex lege all’installazione di FER- è sufficiente verificare l’assenza dei soli vincoli contenuti nella parte seconda del codice dei beni culturali e del paesaggio (al punto c - ter la norma recita espressamente che l’area con le descritte caratteristiche è idonea “in assenza di vincoli ai sensi della parte seconda del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”)» e pertanto, implicitamente, non sarebbero ammessa la previsione di requisiti ulteriori all’installazione di impianti F.E.R. da parte della legge regionale per quanto riguarda le aree idonee.
Sempre secondo il T.a.r., la ricostruzione della normativa effettuata in forza del criterio letterale trova conforto anche alla luce della ratio dell’art. 20 del d.lgs. 199/2021 il quale, come sopra evidenziato, ha visto nel tempo un progressivo ampliamento delle aree considerate idonee ex lege e ciò per un evidente favor di recente espresso dal legislatore in materia di incentivazione alla produzione di energia da fonti rinnovabili.
L’interpretazione letterale e teleologica della normativa «depongono quindi nel senso per cui l’installazione degli impianti fotovoltaici (anche con moduli a terra) in aree considerate idonee ex lege deve considerarsi sempre consentita, senza che possano rilevare limitazioni o restrizioni imposte da normative regionali previgenti o successive all’entrata in vigore della disciplina nazionale».
Tuttavia, il T.a.r. non ritiene che la normativa regionale applicabile al caso di specie sia illegittima, in quanto sarebbe possibile una lettura integrata della normativa statale e di quella regionale in forza del quale i criteri previsti dall’art. 4 della L.R. 17/2022 varranno esclusivamente nelle aree agricole diverse da quelle “idonee di diritto”.
Orbene, tale conclusione cui perviene il Tribunale di prime cure non sembra pienamente condivisibile e ciò, in primo luogo, alla luce della concreta applicazione del requisito dell’asservimento delle aree che, come messo ben in luce dalla stessa ricorrente, «si traduce in un sostanziale divieto di installazione degli impianti in aperta violazione del divieto di introdurre moratorie dei procedimenti autorizzativi stabilito dall’art. 20, comma 6 d.lgs. 199/2021», dal momento che costringe il privato che intende realizzare un impianto fotovoltaico a terra su area agricola a procurarsi un’area quindici volte più estesa rispetto a quella effettivamente necessaria per l’installazione dell’impianto suddetto.
In altre parole, nelle aree agricole non considerate idonee ex lege dalla legge statale, la legge regionale introdurrebbe surrettiziamente un divieto generalizzato all’installazione di impianti F.E.R., imponendo ai privati che intendono realizzare l’impianto un obbligo di asservimento sproporzionato ed eccessivamente oneroso.
Tale prescrizione si pone in contrasto diretto con la giurisprudenza costituzionale che, come sopra visto, ha ripetutamente sanzionato le normative regionali che hanno introdotto divieti generalizzati all’installazione di impianti F.E.R. come di fatto si rivela quello qui in esame.
In secondo luogo, le considerazioni cui arriva il T.a.r. rispetto al rapporto tra normativa statale e regionale in materia di installazione di impianti F.E.R devono essere confrontate con le novità normative intervenute, non considerate nella sentenza qui in analisi, e con gli ultimi approdi giurisprudenziali che saranno, quindi, oggetto di analisi nel prossimo paragrafo.
4.Prospettive future: il D.M. 21 giugno 2024 e la sentenza del T.a.r. Lazio del 13 maggio 2025 n. 9155
Il rapporto tra normativa statale e regionale nell’individuazione delle aree idonee all’installazione degli impianti F.E.R. si è posto nuovamente all’attenzione dell’interprete all’indomani dell’approvazione del D.M. 21 giugno 2024 che reca, in attuazione dell’art. 20, comma 1, del d.lgs. 199/2021 “Disposizioni per l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonte rinnovabile”.
In particolare, ai fini che qui più rilevano l’art. 7 del D.M. prevede che le Regioni per l’individuazione delle aree idonee tengano conto, tra l’altro, «della possibilità di fare salve le aree idonee di cui all’art. 20, comma 8 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199 vigente alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre l’art. 7 in questione richiama quanto previsto dall’art. 5 del decreto-legge 15 maggio
2024, n. 63, che, come sopra visto, pone una disciplina restrittiva relativamente all’installazione di impianti fotovoltaici in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici[49].
Tale decreto è stato tempestivamente impugnato dagli operatori del settore, e ciò, ai fini che qui più interessa, con specifico riferimento all’art. 7 che, come visto, attribuisce alle Regioni la semplice facoltà di far salve le aree già considerate idonee dall’art. 20, comma 8, del d.lgs. 199/2021, non prevedendo, invece, l’obbligo di recepire la disposizione statale sul punto.
A tal riguardo, il Consiglio di Stato, esprimendosi in sede cautelare[50], ha ritenuto che: «la norma in questione appare – al sommario esame proprio di questa fase cautelare – non pienamente conforme all’art. 20, comma 8, del d. lgs. 199/2021, il quale già elenca le aree contemplate come idonee: in tale disciplina di livello primario non sembra possa rinvenirsi spazio per una più restrittiva disciplina regionale», sospendendo il D.M. impugnato limitatamente alla sola norma dell’art. 7, comma 2, lettera c) e chiarendo al contempo che le aree idonee rimarranno disciplinate dall’art. 20, comma 8, del d.lgs. 199/2021 stesso sino al termine di efficacia dell’ordinanza.
In sede di merito, in altro contenzioso generato dall’impugnazione del D.M. suddetto, il T.a.r. Lazio, con una recentissima e articolata sentenza[51] ha annullato l’art. 7, commi 2 e 3, del D.M. nella parte in cui non avrebbe previsto criteri sufficientemente precisi e omogenei per l’individuazione delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti F.E.R. da parte delle Regioni.
È interessante rilevare come rispetto allo specifico aspetto messo in evidenza dall’ordinanza del Consiglio di Stato e quindi su una possibile illegittimità della previsione della sola facoltà per le Regioni di tener conto delle ipotesi di idoneità ex lege previste dalla legge statale, il T.a.r. Lazio non si sia soffermato espressamente, riconoscendo tuttavia in maniera indiretta alle Regioni questa specifica facoltà.
Infatti, il giudice ha evidenziato come «la concessione della suddetta facoltà, infatti, non assicura il mantenimento della qualificazione di area idonea operata medio tempore dalla legge», con ciò dunque avallando la possibilità per le Regioni di discostarsi dall’individuazione delle aree idonee effettuate dalla legge statale.
Partendo da questo presupposto, tuttavia, il gravato decreto ministeriale sarebbe comunque illegittimo per non aver previsto alcuna misura di salvaguardia per i procedimenti di autorizzazione degli impianti F.E.R. in corso di svolgimento nelle aree idonee ope legis che potrebbero essere penalizzati da una mutata qualificazione delle aree da parte delle Regioni che potrebbero non qualificarla più come area idonea.
Occorre da ultimo segnalare, per il rilievo specifico di questo profilo in relazione all’insediabilità degli impianti in area agricola, come il T.a.r. Lazio, con altra sentenza resa nell’ambito del medesimo filone contenzioso[52], ha ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate, nei termini espressi in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, co. 1 e 2, d.l. n. 63/2024, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101/2024, nonché dell’art. 2, co. 2, primo periodo, d.lgs. n. 190/2024, per violazione degli artt. 3, 9, 11 e 117, co. 1, Cost., anche in relazione ai principi espressi dalla Direttiva (UE) 2018/2001 e dal Regolamento (UE) 2018/1999, come modificati dalla Direttiva (UE) 2023/2413, nonché dal Regolamento (UE) 2021/1119.
In particolare, il T.a.r. Lazio ha ritenuto che la disciplina censurata presenti profili di contrasto con gli artt. 11 e 117, co. 1 della Costituzione, sotto il profilo del mancato rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e, in particolare, del principio di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, derivante dalla normativa europea.
Ciò in quanto, in forza della disciplina introdotta «la generalità dei terreni classificati agricoli (circa la metà della superficie del Paese) è preclusa a qualsiasi intervento di installazione di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra che non che non consista nel mero rifacimento/modifica/ricostruzione, con conseguente preclusione all’utilizzo di nuovo terreno agricolo».
Alla luce dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale qui brevemente richiamata, de iure condendo, si dovrà attendere la riedizione del decreto con la definizione di principi e criteri direttivi maggiormente specifici, volti a indirizzare la potestà legislativa regionale nell’individuazione delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili, e prim’ancora, la pronuncia della Corte costituzionale in merito alla legittimità dell’art. 5 del d.l. 63/2024 che, quale norma statale primaria, influenza il contenuto dei decreti ministeriali di attuazione.
De iure condito, con specifico riguardo alla normativa regionale veneta, si ritiene che il previsto requisito dell’asservimento non debba trovare applicazione non solo con riferimento agli impianti da realizzarsi sulle aree idonee ex lege, come stabilito dal T.a.r., ma nemmeno per gli impianti da realizzarsi in aree agricole diverse da quelle considerate idonee dalla normativa statale.
Questo perché tale requisito si dimostra del tutto sproporzionato e vessatorio, ponendo in capo all’attuatore dell’iniziativa l’onere economico di avere un terreno che sia di estensione quindici volte maggiore rispetto a quello necessario per l’impianto, rendendo di fatto impossibile o comunque oltremodo difficile, la realizzazione di questo tipo di impianto F.E.R.
Rimane quindi ferma, a parere di chi scrive, la necessità di sottoporre la disposizione in questione allo scrutinio della Corte costituzionale, non essendo possibile, a differenza di quanto evocato dal T.a.r. Veneto, una sua interpretazione costituzionalmente orientata.
[1] Secondo l’art. 2, comma 1 lett. ggg) del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 199 per “area idonea” si intende «area con un elevato potenziale atto a ospitare l’installazione di impianti di produzione elettrica da fonte rinnovabile, anche all'eventuale ricorrere di determinate condizioni tecnico-localizzative».
[2] L’art. 4 del d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, nel prevedere che: «la costruzione e l'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili sono disciplinati secondo speciali procedure amministrative semplificate, accelerate, proporzionate e adeguate, sulla base delle specifiche caratteristiche di ogni singola applicazione» ha introdotto, accanto al regime generale dell’autorizzazione unica, quello della procedura abilitativa semplificata (PAS) e della comunicazione relativa alle attività in edilizia libera. Per quanto riguarda la PAS, la stessa era disciplinata dall’art. 6 del d.lgs. 28/2011 fino alla sua abrogazione, intervenuta per opera del d.lgs. 25 novembre 2024 n. 190 recante “disciplina dei regimi amministrativi per la produzione di energia da fonti rinnovabili”, che prevede la PAS all’art. 8. Per un’analisi approfondita di questa procedura si rinvia a G. La Rosa, La procedura abilitativa semplificata per impianti FER: dalle esigenze di semplificazione ai dubbi applicativi, in AmbienteDiritto.it, 3/2023.
[3] Il ricorso in analisi era stato posto in via principale contro una prima nota del 12 ottobre 2023 con cui il Comune di Rovigo aveva espresso il proprio parere non favorevole alla conclusione della PAS; contro la nota del 3 novembre 2023 che costituiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della PAS ai sensi dell’art. 10 bis l. 241/90 e il provvedimento recante convocazione della conferenza di servizi decisoria in forma semplificata asincrona per l’esame delle osservazioni presentate dalla Società, tutti provvedimenti fatti comunque oggetto di impugnazione anche nel successivo ricorso per motivi aggiunti che ha portato alla sentenza qui in esame.
[4] T.a.r. Veneto, ord. 23 ottobre 2024, n. 123.
[5] Il T.a.r. motiva l’assenza del periculum per il fatto che, trattandosi di un interesse pretensivo, lo stesso non avrebbe potuto trovare diretta soddisfazione dall’accoglimento della domanda cautelare. Inoltre la parte non avrebbe allegato elementi idonei a dimostrare la sussistenza di un danno grave e irreparabile derivante dall’esecuzione dei provvedimenti suddetti.
[6] Cons. Stato, ord. 7 giugno 2024, n. 2139.
[7] Rispetto a questa disposizione, vista come strumento utile «al fine di ricondurre ad equilibrio il rapporto tra ontologica strumentalità delle misure cautelari rispetto alla decisione di merito e tendenza, nella prassi, “anticipatamente decisoria” delle medesime» si confronti S. Monzani, La tutela cautelare a contenuto decisorio nel processo amministrativo, in Dir. ec., 1/2021, 129.
[8] Legge Regionale 19 luglio 2022, n. 17 avente ad oggetto “Norme per la disciplina per la realizzazione di impianti fotovoltaici con moduli ubicati a terra”. Si tratta di legge emanata «in conformità al decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 “Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità” e al decreto ministeriale 10 settembre 2010 “Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili”» mediante l’individuazione di aree con indicatori di presuntiva non idoneità nonché «in applicazione del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199 “Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”» di aree con indicatori di idoneità alla realizzazione di impianti fotovoltaici e ciò «al fine di preservare il suolo agricolo quale risorsa limitata e non rinnovabile».
[9] L’art. 4 della L.R. 17/2022 prevede per l’insediamento degli impianti fotovoltaici nelle zone classificate agricole dagli strumenti urbanistici comunali: per gli impianti di potenza uguale o superiore ad 1 MW la realizzabilità solo in forma di impianto agro-voltaico, mentre per quelli con moduli fotovoltaici posizionati a terra applicando il regime di asservimento, oggetto del presente contenzioso.
[10] Per un’analisi di questo decreto si confronti il par. 2 del presente contributo.
[11] Art. 20, comma 8, lettera c-ter) del d.lgs. 199/2021.
[12] Cfr. par. 2
[13] Nello specifico, il T.a.r. rigetta una prima eccezione di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti che, secondo l’Amministrazione resistente, si porrebbe in violazione dell’art. 43 c.p.a. per non contenere domande nuove di annullamento di atti sopravvenuti o motivi ulteriori rispetto ad atti già impugnati e ciò sul presupposto che, con il ricorso per motivi aggiunti ben si possono far valere in via derivata contro i provvedimenti sopravvenuti gli stessi motivi di illegittimità fatti valere rispetto agli atti impugnati con ricorso principale. Viene altresì rigettata una ulteriore eccezione di inammissibilità correlata alla natura endoprocedimentale degli atti presupposti alla determinazione conclusiva del procedimento e ciò per il fatto che è sempre possibile impugnare gli atti presupposti al provvedimento finale per farne valere in via derivata i vizi che quest’ultimo eredita dai primi, risultando l’inammissibilità nei soli casi in cui non sia stato impugnato anche il provvedimento conclusivo del procedimento. Infine è rigettata anche l’eccezione di tardività rispetto all’impugnazione di tali atti endoprocedimentali, già impugnati con il ricorso principale e ciò in quanto il termine di impugnazione per gli atti suddetti decorre dal momento dell’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento.
[14] Come evidenziato dall’Adunanza plenaria n. 4/2015, richiamata dallo stesso T.a.r. si tratta della possibilità «che il giudice, in ossequio al superiore principio di economia dei mezzi processuali in connessione con quello del rispetto della scarsità della risorsa-giustizia (cfr. da ultimo Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014 cit.; Ad. plen., n. 9 del 2014 cit.), derogando alla naturale rigidità dell'ordine di esame, ritenga preferibile risolvere la lite rigettando il ricorso nel merito o nel rito in base ad una ben individuata ragione più liquida “... sulla scorta del paradigma sancito dagli artt. 49, comma 2, e 74 c.p.a. ... sempre che il suo esercizio non incida sul diritto di difesa del contro interessato e consenta un'effettiva accelerazione della definizione della lite...” (Ad. plen. n. 9 del 2014 cit.), e purché sia stata preventivamente assodata, da parte del medesimo giudice, la giurisdizione e la competenza». Per un’analisi critica dell’applicazione di questo principio da parte della giurisprudenza amministrativa che ha seguito la Plenaria suddetta si confronti l’interessante contributo di G. Gallone, Criterio della “ragione più liquida” e processo amministrativo tra applicazioni giurisprudenziali ed auspici di sistema, in Dir. proc. amm., 3/2024, 619.
[15] L. Cuocolo, Le energie rinnovabili tra Stato e Regioni. Un equilibrio instabile tra mercato, autonomia e ambiente, Milano, 2011, 1 e ss. Più di recente si confronti altresì M. Battistelli, La competenza legislativa regionale in materia di energie rinnovabili al vaglio dei limiti statali e delle competenze trasversali, in Federalismi.it, 28/2024, 1.
[16] Per una ricostruzione organica sotto il profilo internazionalistico si veda S. Quadri, Energia sostenibile. Diritto internazionale, dell’Unione Europea e interno, Torino, 2012, 46 e ss.
[17] Sulle ragioni dell’ascesa a livello europeo della politica sull’energia da fonti rinnovabili si confronti M. Cocconi, Poteri pubblici e mercato dell’energia. Fonti rinnovabili e sostenibilità ambientale, Milano, 2014, 18 e ss., per la quale «è stata, in altre parole, un’applicazione dinamica e positiva del principio di sussidiarietà, ossia il riconoscimento dell’esistenza di interessi transnazionali che non possono essere disciplinati in modo soddisfacente dagli Stati membri e che, a causa della loro dimensione non più nazionale, possono essere realizzati meglio a livello comunitario a spiegare la progressiva ascesa della politica energetica in sede europea».
[18] Sulle concrete modalità di attuazione di questo riparto si confronti E. Di Salvatore, La materia della “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” nella giurisprudenza della corte costituzionale (gennaio-maggio 2010), in AIC, 4/2010. Più recentemente si confronti la ricostruzione compiuta da P. Mastellone, La disciplina in materia di fonti di energia rinnovabili e la tendenza “decentralizzante”: quale ruolo per lo Stato?, in Ceridap, 1/2024, in particolare 170 e ss.
[19] L’art. 4 TFUE prevede la competenza concorrente dell’Unione con quella degli Stati membri nel settore dell’energia, mentre l’art. 194 TFUE prevede «Nel quadro dell’instaurazione o del funzionamento del mercato interno e tenendo conto dell'esigenza di preservare e migliorare l'ambiente, la politica dell'Unione nel settore dell'energia è intesa, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, a: a) garantire il funzionamento del mercato dell’energia;b) garantire la sicurezza dell'approvvigionamento energetico nell’Unione; c) promuovere il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili; d) promuovere l’interconnessione delle reti energetiche». Per un’analisi delle competenze dell’Unione Europea nel settore dell’energia si confronti R. Miccù, Regolazione e governo multilivello del mercato europeo dell’energia, in R. Miccù (a cura di), Multilevel Regulation and Government in Energy Markets. Implementation of the «Third Package» and Promotion of Renewable Energy, Napoli, 2016, 3 e ss.
[20] Come però giustamente osservato da L. Cuocolo, Le energie rinnovabili tra Stato e Regioni, cit., 25 per comprendere l’effettivo riparto di competenze nella materia “energia” si deve tener conto anche della competenza, sempre concorrente, in materia di “tutela della salute” e di “governo del territorio”, nonché le competenze attribuite in via esclusiva allo Stato tra cui “la tutela della concorrenza” e la “tutela dell’ambiente”.
[21] Il decreto in questione è stato emanato per l’attuazione della Direttiva 2001/77/CE sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità.
[22] L’art. 15 del d.lgs. 25 novembre 2024, n. 190 ha disposto che a far data dall'entrata in vigore del decreto suddetto ai sensi dell’articolo 17, le disposizioni di cui all’allegato D, che contengono le disposizioni abrogate dal decreto suddetto, tra cui, l’art. 12 del d.lgs. 387/2003, continuano ad applicarsi alle procedure in corso, fatta salva la facoltà del soggetto proponente di optare per l’applicazione delle disposizioni di cui al presente decreto.
[23] Così M. Battistelli, La competenza legislativa regionale in materia di energie rinnovabili, cit., 3.
[24] Così precisamente l’art. 12 d.lgs. 387/2003 «In Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali, si approvano le linee guida per lo svolgimento del procedimento di cui al comma 3. Tali linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio. In attuazione di tali linee guida, le regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti. Le regioni adeguano le rispettive discipline entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore delle linee guida. In caso di mancato adeguamento entro il predetto termine, si applicano le linee guida nazionali».
[25] C. Mainardis, Competenza concorrente e fonti secondarie nel “governo” delle energie rinnovabili, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2020. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it.
[26] Corte cost. nn. 166/2009 (punto n. 6 - Regione Basilicata); 282/2009 (punto n. 4 – Regione Molise); 119/2010 (punto n. 3 - Regione Puglia); 168/2010 (punto n. 4 – Regione Valle d’Aosta); 44/2011 (punto n. 5 – Regione Campania).
[27] Corte cost. nn. 364/2006 (punto n. 3 – Regione Puglia); 282/2009 (punto n. 6 – Regione Molise); 168/2010 (punto n. 5 – Valle d’Aosta).
[28] Corte cost. nn. 124/2010 (punto n. 7 – Regione Calabria); 308 /2011 (punto n. 3 – Regione Molise).
[29] Si confronti la sentenza della Corte cost. 23 febbraio 2023, n. 27 con la quale è stato dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 della legge reg. Abruzzo n. 1 del 2022 che, proroga la moratoria già prevista per la Regione per approvare lo strumento di pianificazione contenente l’individuazione delle aree e dei siti inidonei all’installazione di specifici impianti da fonti rinnovabili. La moratoria, in particolare, confligge con la previsione di un termine massimo entro il quale concludere il procedimento unico, con le funzioni di mera accelerazione e semplificazione del procedimento di autorizzazione unica e acuendo, proprio in ragione della proroga, il contrasto con l’obiettivo acceleratorio, nonché violando gli impegni assunti dallo Stato italiano nei confronti dell’Unione europea e a livello internazionale. In termini si confrontino anche la sentenza 27 ottobre 2022, n. 221 relativa alla legge reg. Lazio n. 14 del 2021; la sentenza 21 ottobre 2022, n. 216 relativa alla legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 02/11/2021 n. 16 art. 4, co. 17; la sentenza del 13 maggio 2022, n. 121, relativa alla legge della Regione Basilicata 26/07/2021 n. 30. Per una analisi della giurisprudenza costituzionale qui richiamata e di quella ulteriore avente quale specifico oggetto le norme regionali che riguardavano specificatamente l’installazione di impianti fotovoltaici si confronti M. Romeo, La disciplina delle energie rinnovabili che coinvolgono ambiente, agricoltura e paesaggio, tra Stato e Regioni, in RivistaDGA.it, n. 2/2023, 1.
[30] La Corte Costituzionale ha attribuito alle stesse la qualificazione di “norma interposta”, la cui violazione determina un’indiretta lesione della legge statale di principio. Si confronti, ex multis, la sentenza della Corte cost., 15 gennaio 2014, n. 11, ove si legge: «le “Linee guida”, costituiscono, in un ambito esclusivamente tecnico, il completamento del principio contenuto nella disposizione legislativa. Se è ovvio che essi, qualora autonomamente presi, non possono assurgere al rango di normativa interposta, altra è la conclusione cui deve giungersi ove essi vengano strettamente ad integrare, in settori squisitamente tecnici, la normativa primaria che ad essi rinvia. In detti campi applicativi essi vengono ad essere un corpo unico con la disposizione legislativa che li prevede e che ad essi affida il compito di individuare le specifiche caratteristiche della fattispecie tecnica che, proprio perché frutto di conoscenze periferiche o addirittura estranee a quelle di carattere giuridico le quali necessitano di applicazione uniforme in tutto il territorio nazionale, mal si conciliano con il diretto contenuto di un atto legislativo. Non a caso per la loro definizione è prevista una procedura partecipativa estremamente ampia ed articolata. Poiché essi, come si è detto, fanno corpo con la disposizione legislativa che ad essi rinvia, il loro mancato rispetto comporta la violazione della norma interposta e determina, nel caso si verta nelle materie di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. e qualora la norma interposta esprima principi fondamentali, l’illegittimità costituzionale della norma censurata».
[31] Secondo G. Barozzi Reggiani, Il principio di massima diffusione delle energie rinnovabili e il bilanciamento tra valori costituzionalmente rilevanti nella disciplina delle c.d. “aree idonee”, in Riv. giur. amb., 2022, 608 «Lo schema logico e la ratio del combinato tra le disposizioni normative primarie (ed in particolare l’art. 12, comma 10, del D. Lgs. n. 387/2003) e le linee guida dalle medesime previste appare in sé chiaro: attribuire alle Regioni il potere di individuare aree nelle quali, pur non sussistendo un divieto generale di realizzazione di impianti a FER, l’ottenimento di autorizzazioni alla realizzazione di tali impianti risulti altamente improbabile per la difficile conciliabilità della realizzazione degli impianti con altri beni e valori, e in particolare quelli paesaggistici».
[32] L’individuazione della non idoneità dell’area è operata dalle Regioni attraverso un’apposita istruttoria avente ad oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, delle tradizioni agroalimentari locali, della biodiversità e del paesaggio rurale che identificano obiettivi di protezione non compatibili con l'insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione.
[33] Come osserva C. Mainardis, Competenza concorrente, cit., 1341 «i margini d’azione per ciascuna singola Regione sono rilevantissimi» anche perché «i parametri a cui rapportare la valutazione di non idoneità si presentano come particolarmente ampi (tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico-artistico-culturale), se non generici (elevata concentrazione di impianti nella medesima zona; semplici “interazioni” con altri piani, progetti e programmi): configurando dunque scelte amministrative connotate, per un verso, dalla loro natura tecnica; per altro verso, vicine per fino al merito; per altro verso ancora, e nella più stringente delle ipotesi, colle-gate a previsioni pianificatorie e programmatorie ed espressione, dunque, di una discrezionalità molto estesa ed assai difficilmente sindacabile in sede giurisdizionale».
[34] Corte Cost., 30 gennaio 2014, n. 13. Tale sentenza aveva ad oggetto la legge regionale della Campania 1° luglio 2011, n. 11 recante “Disposizioni urgenti in materia di impianti eolici” la quale, prescrivendo che la costruzione di nuovi aerogeneratori debba rispettare una distanza pari o superiore a 800 metri dall'aerogeneratore più vicino preesistente o già autorizzato, impone un vincolo ulteriore da applicarsi in via generale su tutto il territorio regionale, in violazione dei principi fondamentali contenuti nell'art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003 e nelle linee guida adottate con d.m. 10 settembre 2010.
[35] Così, specificatamente, l’art. 12, co. 7, d.lgs. 387/2003.
[36] A. di Cagno, La produzione di energia da fonte rinnovabile: tra interesse energetico, ambientale e paesaggistico, in AmbienteDiritto.it., 4/2022, 24. In giurisprudenza si confronti T.a.r. Puglia, Lecce, sez. I, 29 gennaio 2009, n. 118, per la quale: «emerge dunque dal quadro normativo sopra delineato come le amministrazioni comunali, nel favorire l’installazione di impianti di energia pulita, conservino in ogni caso un certo potere discrezionale teso a disciplinare – se del caso anche mediante atti regolamentari a carattere generale – il corretto inserimento di tali strutture nel rispetto dei fondamentali valori della tradizione agroalimentare locale e del paesaggio rurale».
[37] Evidenzia una qualche forma di continuità tra le due normative G. Barozzi Reggiani, Il principio di massima diffusione, cit., 604, per il quale «La normativa disciplinante l’individuazione di aree “idonee” all’installazione di impianti a FER è, come si accennava, di introduzione recente. Non configura, tuttavia, una “fenice comparsa dal nulla”, dal momento che, in certa misura, le radici della medesima possono rinvenirsi nella disciplina (di precedente introduzione e permanente vigenza) concernente l’individuazione di aree “non” idonee alla realizzazione di impianti a FER, di cui la normativa recente costituisce, in qualche modo, il (quasi) simmetrico contraltare, condividendo al contempo con essa la matrice genetica di fondo».
[38] F. Vetrò, Sviluppo sostenibile, transizione energetica e neutralità climatica, in Riv.it. dir. pubbl. com., 1/2022, 97, per il quale si tratta di «una scelta marcatamente innovativa che, all’evidente fine di semplificare e accelerare gli iter autorizzatori capovolge il previgente paradigma fondato sull’individuazione delle superficie e aree non idonee». In termini anche C. Vivani, La localizzazione degli impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile: transizione energetica, ambiente e paesaggio, in G.F. Cartei (a cura di), Energie rinnovabili e piano nazionale di ripresa e resilienza, Napoli, 2021, 134, il quale parla di un «cambio di prospettiva estremamente significativo».
[39] Come giustamente osservato da N. Berti, A. Bonaiti, Aspetti e problemi delle recenti riforme in tema di realizzazione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in AmbienteDiritto.it, 1/2023, 21 la scelta di ricondurre l’individuazione delle aree idonee a una legge regionale «riduce significativamente le garanzie giurisdizionali e procedurali dei cittadini, in quanto le disposizioni di legge (di localizzazione di aree idonee) – a differenza degli atti amministrativi – non possono essere impugnate direttamente davanti al tribunale territoriale, ma possono essere incidentalmente deferite al giudice costituzionale da un processo in corso, se tale processo deve essere deciso secondo la disposizione controversa; e richieder una scelta basata su criteri astratti, cioè non verificati in concreto che possono mancare del necessario adattamento a ciascuna realtà territoriale».
[40] Si tratta di un vero e proprio obbligo posto in capo alle Regioni per il quale, in caso di inerzia, è previsto l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato ai sensi dell’art. 41 della l. 24 dicembre 2012, n. 234. Per un’analisi di tale quanto
disciplina si confronti in particolare C. Tovo, Commento all’art. 41 l. 234/2012, in L. Costato, L. S. Rossi, P. Borghi (a cura di), Commentario alla legge 24.12.2012 n. 234 “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e
all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”, Napoli, 2015, 362 ss.; G. Morgese, La partecipazione degli enti territoriali italiani ai processi decisionali dell’Unione europea, in E. Triggiani, A. M. Nico, M. G. Nacci (a cura di), Unione europea e governi territoriali: risorse, vincoli e controlli, Bari, 2018, 91 ss.
[41] Si evidenzia comunque che, seppur tale disciplina sia considerata come disciplina transitoria, i decreti ministeriali di individuazione dei criteri e principi direttivi per l’individuazione delle aree idonee da parte delle Regioni, ai sensi dell’art. 20, comma 1, dovranno tenere conto espressamente anche di quanto previsto dal suddetto comma 8.
[42] Segnatamente, i siti oggetto di bonifica individuati a sensi del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (lett. b) nonché «le cave e le miniere cessate, non recuperate o abbandonate o in condizioni di degrado ambientale».
[43] Così espressamente l’art. 4, co. 2 bis, d.lgs. 28/2011 «nelle aree idonee identificate ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, comprese le aree di cui al comma 8 dello stesso articolo 20, i regimi di autorizzazione per la costruzione e l’esercizio di impianti fotovoltaici di nuova costruzione e delle opere connesse nonché, senza variazione dell’area interessata, per il potenziamento, il rifacimento e l’integrale ricostruzione degli impianti fotovoltaici esistenti e delle opere connesse sono disciplinati come segue: a) per impianti di potenza fino a 1 MW: si applica la dichiarazione di inizio lavori asseverata per tutte le opere da realizzare su aree nella disponibilità del proponente; b) per impianti di potenza superiore a 1 MW e fino a 10 MW: si applica la procedura abilitativa semplificata; c) per impianti di potenza superiore a 10 MW: si applica la procedura di autorizzazione unica».
[44] Su questi profili si confronti N. Berti, A. Bonaiti, Aspetti e problemi delle recenti riforme, cit., 18 e ss.
[45] Si chiede tuttavia giustamente G. Barozzi Reggiani, Il principio di massima diffusione, cit., 628 «quale sia il risvolto pratico-operativo immediato di tale applicazione, considerata in particolare la compressione delle tempistiche di conduzione della Conferenza forse eccessivamente consistente che essa determina rispetto ai carichi istruttori e lavorativi da cui sono oberate certe Amministrazioni».
[46] Per una analisi critica di questa disposizione normativa si confronti L. Bitto, F. Furlan La transizione dalle aree non idonee alle aree idonee tra ambiziosi obiettivi europei e cauta legislazione domestica, in Le Regioni, 3-4/2024, 521 per i quali «Le forti restrizioni all’installazione di moduli fotovoltaici a terra in aree agricole, introdotte dall’articolo 5 del decreto Agricoltura, si pongono in contrasto con alcuni principi contenuti nello stesso articolo 20 del d.lgs. 199/2021: da un lato confliggono con il comma 6 (il quale continua a prevedere che: “Nelle more dell’individuazione delle aree idonee, non possono essere disposte moratorie ovvero sospensioni dei termini dei procedimenti di autorizzazione”) poiché il divieto generalizzato e senza scadenza è chiaramente più restrittivo di una moratoria; per altro verso, si pongono in antitesi con il principio contenuto nel comma 7 (“Le aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee”), poiché non si introduce un principio per l’individuazione delle aree idonee ma si pone un limite localizzativo».
[47] Nello specifico, l’installazione di impianti fotovoltaici in area agricola risulta consentita esclusivamente:
-in siti ove sono già installati impianti della stessa fonte, limitatamente agli interventi per modifica, rifacimento, potenziamento o integrale ricostruzione degli impianti già installati, a condizione che non comportino incremento dell’area occupata [cfr. comma 8, lettera a)];
-nelle cave e miniere cessate, non recuperate o abbandonate o in condizioni di degrado ambientale, o le porzioni di cave e miniere non suscettibili di ulteriore sfruttamento), incluse le cave già oggetto di ripristino ambientale e quelle con piano di coltivazione terminato ancora non ripristinate, nonché le discariche o i lotti di discarica chiusi ovvero ripristinati [cfr. comma 8, lettera c)];
-in siti e impianti nelle disponibilità delle società del gruppo Ferrovie dello Stato italiane e dei gestori di infrastrutture ferroviarie nonché delle società concessionarie autostradali [cfr. comma 8, lettera c-bis)];
-in siti e impianti nella disponibilità delle società di gestione aeroportuale all'interno dei sedimi aeroportuali, ivi inclusi quelli all'interno del perimetro di pertinenza degli aeroporti delle isole minori, ferme restando le necessarie verifiche tecniche da parte dell'Ente nazionale per l'aviazione civile (ENAC) [cfr. comma 8, lettera c-bis1)];
-in siti privi di vincoli ai sensi della parte seconda del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 che costituiscono aree interne agli impianti industriali e agli stabilimenti, nonché aree classificate agricole racchiuse in un perimetro cui punti distino non più di 500 metri dal medesimo impianto o stabilimento; aree adiacenti alla rete autostradale entro una distanza non superiore a 300 metri [cfr. comma 8, lettera c -ter ) n. 2) e n. 3)]. Tali impianti non sono invece più ammessi nei seguenti siti:
-in siti oggetto di bonifica individuate ai sensi del Titolo V, Parte quarta, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 [cfr. comma 8, lettera b)];
-. nelle aree classificate agricole, racchiuse in un perimetro i cui punti distino non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi i siti di interesse nazionale, nonché le cave e le miniere [cfr. comma 8, lettera c -ter) n. 1)].
Il divieto si applica anche se tali aree non sono sottoposte a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, o non sono gravate da usi civici di cui all'articolo 142, comma 1, lettera h), del medesimo decreto, e anche se ricadono nella fascia di rispetto di 500 metri dei beni sottoposti a tutela ai sensi della parte seconda oppure dell'articolo 136 del medesimo decreto legislativo [cfr. comma 8, lettera c -quater)]. Infine, la norma prevede una deroga ai divieti sopra esaminati per il caso di progetti che prevedano impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra finalizzati alla costituzione di una comunità energetica rinnovabile, nonché in caso di progetti attuativi delle altre misure di investimento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e del Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR (PNC), ovvero di progetti necessari per il conseguimento degli obiettivi del PNRR.
[48] L’art. 5, comma 2, del d.l. 63/2024 prevede che: «l’articolo 20, comma 1-bis, primo periodo, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, introdotto dal comma 1 del presente articolo, non si applica ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sia stata avviata almeno una delle procedure amministrative, comprese quelle di valutazione ambientale, necessarie all'ottenimento dei titoli per la costruzione e l'esercizio degli impianti e delle relative opere connesse ovvero sia stato rilasciato almeno uno dei titoli medesimi».
[49] Identico richiamo è effettuato anche all’art. 2 del d.lgs. 25 novembre 2024, n. 190 recante “Disciplina dei regimi amministrativi per la produzione di energia da fonti rinnovabili in attuazione dell’art. 26, commi 4 e 5 lett. b) e d) della legge 5 agosto 2022, n. 118”, per il quale gli interventi di realizzazione degli impianti F.E.R. «sono considerati di pubblica utilità, indifferibili e urgenti e possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici nel rispetto di quanto previsto dall’art. 20, comma 1 bis del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199».
[50] Si tratta dell’ordinanza 14 novembre 2024, n. 4302 emanata per la modifica dell’ordinanza Consiglio di Stato sez. IV 17 ottobre 2024 n. 3867, che in accoglimento dell’appello e in riforma dell’ordinanza T.a.r. Lazio, sede di Roma, sez. III, 7 settembre 2024 n. 4082, aveva accolto ai fini di una più sollecita fissazione dell’udienza di merito l’istanza cautelare presentata dalla ricorrente. Nello specifico, il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover modificare il proprio precedente provvedimento alla luce di due diverse sopravvenienze, costituite, da un lato, dalla ritenuta impossibilità per il T.a.r. di accogliere l’istanza presentata di abbreviazione dei termini ex art. 53 c.p.a. per esigenze organizzative, dall’altro, per la predisposizione del disegno della legge regionale attuativa del decreto impugnato da parte della Regione Sardegna, in senso ritenuto sostanzialmente impeditivo delle iniziative della parte ricorrente.
[51] T.a.r. Lazio, sez. III, 13 maggio 2025, n. 9155.
[52] Si tratta della sentenza del 13 maggio 2025, n. 9164.
La riforma costituzionale della giustizia in aula senza relatore: analisi di una prassi contra Constitutionem
Sommario: 1. Introduzione: la Costituzione, la ratio, la prassi. - 2. L’assenza di mandato al relatore e i regolamenti parlamentari. - 3. La questione della revisione costituzionale.
1. Introduzione: la Costituzione, la ratio, la prassi.
L’invio del testo di una proposta di legge all’assemblea da parte della commissione in sede referente senza il mandato a un relatore è una procedura parlamentare problematica, ma non nuova. Essa si basa su una serie di disposizioni regolamentari — diverse, come si vedrà meglio infra, anche nella sostanza, tra Camera e Senato —, la cui applicazione, in via di prassi, si è ampliata fino a stravolgerne la ratio e i presupposti originari. Tanto la nascita originaria di tali norme regolamentari, quanto, soprattutto, quello delle successive prassi, è inquadrabile, più in generale, in quel processo di crisi dell’organo parlamentare, che vede l’affermarsi di un sempre «più accentuato dominio dell’esecutivo sul procedimento legislativo ed una sempre più pervasiva identificazione della funzione legislativa delle Camere con l’indirizzo politico del Governo»[1] e che, nell’ambito del bilanciamento interno al parlamento delle procedure relative all’iter legis, ha provocato un sostanziale spostamento, nell’ambito della programmazione dei lavori parlamentari — ma anche da un punto di vista sostanziale —, da una prevalenza dei lavori in commissione alla prevalenza di quelli in assemblea[2].
L’iscrizione nel calendario dell’assemblea di provvedimenti il cui esame in commissione non si è ancora concluso, anche prima della scadenza del termine per la sua conclusione, si inserisce, in tal senso, come uno strumento capace non solo di operare una compressione dei tempi dell’iter legis, ma anche, in combinato disposto con ulteriori strumenti — quali, a titolo esemplificativo, l’apposizione di una questione di fiducia su un c.d. “maxi-emendamento” —, come uno strumento capace di provocare una sostanziale sterilizzazione dei complessivi poteri parlamentari di emendamento di testi presentati dal Governo (o dalla sua maggioranza). Tali meccanismi agiscono quindi non tanto — o non solo — nei rapporti endo-assembleari tra maggioranza e opposizione, ma anche — e soprattutto — nei rapporti tra Governo e Parlamento[3].
La commissione, in tal modo, si vede spoliata sostanzialmente del suo ruolo e lesa nei suoi «poteri fondamentali»[4], attraverso un processo «il cui esito è quello, in definitiva, di far perdere di significato — quando non di eliminare del tutto — l’intera fase istruttoria»[5]. Il Governo riesce così a estendere il suo controllo tanto sull’opposizione che sulla propria maggioranza, potendo più facilmente controllare le dinamiche di un unico centro decisionale rispetto a «quasi una trentina di centri decisionali poco coordinati tra loro, la stragrande maggioranza dei quali caratterizzati, per definizione, da un approccio settoriale»[6].
Porgendo lo sguardo alle norme costituzionali, come è noto, l’art. 72 prescrive che ogni disegno di legge sia esaminato da una commissione prima di essere sottoposto al vaglio dell’assemblea («Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa…»). Tale norma non definisce un procedimento formale. Appare anzi finalizzata al fondamentale fine di «consentire all’organo deliberante di prendere le sue decisioni ex informata conscientia»[7]: in tal senso, è possibile leggere la norma come un vero e proprio divieto di discussione diretta in assemblea[8] e, quindi, si individua nella fase in commissione una «condizione di validità della successiva fase deliberante»[9].
Esplicito in tal senso era, in dottrina, già Leopoldo Elia, per il quale appariva «chiaro che una relazione orale o scritta è l’unico tramite attraverso il quale l’assemblea può essere informata dell’esame preliminare compiuto dalla commissione. Sicché la mancanza di ogni tipo di relazione (come, a maggior ragione, la mancanza di ogni esame in commissione) potrebbe comportare la invalidità del procedimento legislativo e pertanto della legge cui esso mette capo»[10].
Lo stesso articolo, al suo ultimo comma, prevede che, tra gli altri, per i disegni di legge in materia costituzionale, sia adottata la «procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera». La procedura in sede referente, unitamente all’attività consultiva che l’accompagna, rappresenta dunque una fase istruttoria necessaria del procedimento legislativo: in tal senso la riserva procedura di cui all’art. 72, ultimo comma, appare non solo una “riserva di assemblea”, finalizzata a garantire una decisione da parte del plenum delle questioni più rilevanti, quanto anche una riserva “di completezza” della procedura «normale», che consenta ai vari organi del Parlamento il più ampio coinvolgimento nel merito del procedimento legislativo, secondo le rispettive prerogative e competenze propri dei due «momenti essenziali»[11] dell’iter legis, cioè, semplificando, il momento di approfondimento, compromesso e flessibilità in commissione, il momento di decisione, trasparenza e rigidità in aula[12].
Porgendo quindi l’attenzione al fattore “tempo”, parte della dottrina ha sostenuto che dalla riserva di procedura «normale» non sia derivabile una riserva di esame «disteso» (nel senso di “lento”) dei progetti di legge, in quanto ben potrebbero qualificarsi come “urgenti” tali provvedimenti[13]. In tal senso, la riserva di procedimento «normale» stessa apparrebbe volta piuttosto alla garanzia della pubblicità del procedimento nell’ottica della tutela delle minoranze, poiché in aula vi è la presenza integrale degli schieramenti politici che non sono presenti in commissione (sia di maggioranza che di opposizione)[14]. Tuttavia, se tale è la ratio, appare chiaro come l’eventuale urgenza del provvedimento non possa comunque portare a comprimere i poteri fondamentali della commissione (ovvero quello di selezione, quello istruttorio e quello di presentazione del progetto di legge[15]), la cui presenza costituisce, in tale sede garanzia per quelle stesse minoranze: non quindi garanzia di un percorso necessariamente “lento” ma garanzia di un iter “completo”, dove l’aula è chiamata a operare «previo un esame da parte di una commissione in sede referente»[16].
Il modello di procedura legislativa di cui all’art. 72 non risulta essere, quindi, un modello a “senso unico”, di tutela del plenum dalla decisione ristretta in commissione (deliberante): appare piuttosto un modello completo e organico di bilanciamento tra esigenze contrapposte e competenze integrate, che funziona in entrambe le direzioni. Come è stato infatti evidenziato alla base di tale modello vi è «una concezione del parlamento che non sia quella di un organo di registrazione di decisioni prese in altre sedi, ma di effettiva elaborazione di testi legislativi, d’onde l’esigenza di un procedimento articolato in fasi e momenti non eliminabili»[17].
Se quindi la riserva di «procedura normale di esame e di approvazione» imposta dall’art. 72 non appare necessariamente incompatibile di per sé con provvedimenti urgenti — e quindi la stessa può essere rapida, ma deve essere completa — una indicazione in senso contrario può ricavarsi dall’art. 138 per quanto riguarda i procedimenti di revisione costituzionale (i quali costituiscono parte di quella «materia costituzionale» di cui al 72, co. 4, ma non esauriscono i casi di riserva di procedura normale, la quale, come è noto, riguarda anche i disegni di legge in materia elettorale e quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali e, infine, di approvazione di bilanci e consuntivi[18]). L’art. 138, infatti, qualifica, il fattore tempo e la “lentezza” del procedimento come fondamentali, anche a tutela e garanzia delle minoranze, ponendo la revisione della Costituzione in radicale contrasto e incompatibilità con asserite ragioni di urgenza dei provvedimenti legislativi.
2. L’assenza di mandato al relatore e i regolamenti parlamentari.
È proprio sulla base di asserite ragioni di urgenza che la prassi in commento si è venuta, originariamente, a determinare, forzando l’invio all’assemblea del progetto di legge ancor prima della scadenza del termine previsto per la fine dei lavori in commissione. La sua applicazione di è poi fatta spazio nelle dinamiche di compressione dei tempi dei lavori parlamentari, funzionali non tanto al carattere urgente del provvedimento quanto alla priorità per l’attuazione del programma di governo[19].
Per quanto la procedura in oggetto sia invalsa in entrambi i rami del Parlamento, è possibile riscontrare una differenziazione tra il regolamento della Camera e quello del Senato[20].
Alla Camera, il passaggio dalle commissioni in sede referente all’assemblea è disciplinato dall’art. 81 del regolamento che stabilisce un termine ordinario di due mesi, ridotto a un mese in caso di provvedimenti per i quali sia stata dichiarata l’urgenza o a quindici giorni per le leggi di conversione dei decreti legge.
Al Senato, l’art. 44 del regolamento prevede anch’esso, al primo comma, un termine ordinario massimo di due mesi per la presentazione delle relazioni e, al secondo comma, la possibilità per il Presidente, «in relazione alle esigenze del programma dei lavori o quando le circostanze lo rendano opportuno», di stabilire un termine ridotto, dandone semplice comunicazione all’assemblea.
La differenziazione più rilevante tra i due rami del Parlamento — oltre che a modalità di computo dei termini[21] — riguarda la previsione di cui al terzo comma dell’art. 44 del regolamento del Senato, in cui viene data esplicita disciplina della scadenza del termine, prevedendo che «Scaduto il termine, il disegno di legge è preso in considerazione, in sede di programmazione dei lavori, per essere discusso, anche senza relazione, nel testo del proponente, salvo che l’Assemblea conceda, su richiesta della Commissione, un nuovo termine di non oltre due mesi, compatibile con l’attuazione del programma dei lavori». Il regolamento della Camera, invece, non disciplina esplicitamente le conseguenze dovute alla scadenza del termine.
È chiaro come la previsione di un termine per i lavori in Commissione e l’attribuzione dei poteri al Presidente del Senato di cui all’art. 44, co. 3, tentino di trovare un equilibrio tra le opposte esigenze di approfondimento del testo e raggiungimento del compromesso politico e, dall’altra parte, di preservazione dell’iter legis da ritardi eccessivi o ingiustificati. È alla luce di ciò che va letto il potere del Presidente di cui all’art. 44, co. 2, reg. Sen., di stabilire un termine ridotto: infatti l’apposizione di un termine a giorni, se non addiruttura ad horas, può forse rappresentare un rispetto formale, ma certo non sostanziale della disciplina dei termini per i lavori della commissione[22].
A ciò si aggiunga — ed è questo il maggiore abuso — come in via di prassi si siano sviluppati in entrambi i rami del parlamento procedure per aggirare la previa scadenza del termine, sia esso ordinario o breve, in esplicito contrasto letterale con i regolamenti.
Difatti, al Senato, almeno a partire dai primi anni duemila[23], la procedura di cui all’art. 44, co. 3, è stata applicata, anche prima della scadenza del termine previsto per l’esame in commissione, per l’inserimento nel calendario dell’assemblea di specifici provvedimenti, inizialmente perché considerati “urgenti”, ma oggi, come detto, anche perché «considerati prioritari per l’attuazione del programma di governo»[24]. Analoga prassi si è sviluppata anche alla Camera, seppur sulla base di disposizioni regolamentari diverse che, attraverso il meccanismo della c.d. “doppia calendarizzazione” e una sostanziale «deviazione dal regolamento»[25], hanno portato il Presidente di assemblea ad assumere la facoltà di trasmettere un disegno di legge all’aula prima della conclusione dei lavori in commissione, con la medesima evoluzione di motivazioni.
Interessanti a tal proposito sono le argomentazioni giustificative della prassi illustrate dal Presidente della Camera nel 2011, il quale, di fronte ad ampie argomentazioni in senso contrario provenienti da un deputato della sua stessa corrente politica, giustifica l’assenza del mandato al relatore — ricorrendo a una serie di precedenti dei primi anni duemila — sulla base del fatto che, con un decreto-legge in scadenza, «la Presidenza ha la responsabilità di consentire comunque alla Camera di deliberare entro tale termine»[26].
In tal senso, anche volendo accedere a quella ricostruzione del ruolo del presidente di assemblea come garante delle condizioni di realizzazione delle finalità del programma di governo attraverso la proposizione dell’ordine dei lavori parlamentari[27], non si può non rilevare come il suo ruolo non può possa porsi contro lo stesso Parlamento, garantendo una superiorità del Governo sull’organo rappresentativo. Anzi, in una tale ricostruzione, il programma di governo può essere tutelato nonché — entro tali limiti — perseguito dal presidente d’assemblea solo in quanto esso risulti effettiva espressione della maggioranza parlamentare e si configuri come autonomo rispetto al Governo[28] — se si vuole: un programma di governo e non del Governo — nonché si collochi entro le «linee predeterminate dalla Costituzione»[29], della quale, comunque, il presidente è chiamato a svolgere un ruolo di garanzia[30].
L’applicazione di tale prassi si è andata, come accennato, espandendosi, concretizzandosi come ulteriore e determinante strumento di «supremazia dell’esecutivo sul procedimento legislativo» e di sostanziale abbandono del “metodo parlamentare” nell’approvazione delle leggi[31]. Non stupisce quindi — ma preoccupa — il frequente (ab)uso di tale prassi nell’attuale legislatura, anche in combinato disposto con gli ulteriori strumenti di condizionamento del Governo più o meno costituzionalmente problematici. Possono farsi diversi esempi: si pensi alla legge di bilancio 2025, giunta in aula al Senato senza relatore, in relazione alla quale il Parlamento soffre da tempo la compressione dei tempi dovuta alla presentazione tardiva della legge, al semestre europeo, alla questione di fiducia unita alla prassi dei maxiemendamenti che hanno portato all’aberrazione del c.d. “monocameralismo di fatto”; ovvero al più risalente decreto legge “Cutro”, giunto anch’esso al Senato senza relatore; o, infine, alla procedura aberrante del disegno di legge (prima) e decreto legge (poi) c.d. “Sicurezza” — dove il Governo ha adottato un decreto legge che ha sostituito un disegno di legge già in discussione alle Camere, in evidente spregio del requisito della straordinarietà di cui all’art. 77 Cost.[32] — giunto anch’esso al Senato senza relatore e con l’apposizione della questione di fiducia.
3. La questione della revisione costituzionale.
L’operazione appare, tuttavia, ancora più grave nel caso di un disegno di legge di revisione costituzionale. Per quanto detto e per i motivi che si illustreranno a conclusione, nell’ambito del procedimento speciale di cui al 138 Cost., l’invio del testo in aula senza previo mandato al relatore (o ai relatori, soprattutto nel caso di riforma non condivisa), fa sorgere di per sé gravi dubbi di legittimità costituzionale, che diventano difficilmente superabili nel caso dell’apposizione di un termine abbreviato (ex art. 44, co. 2) o, addirittura, dell’invio a termine non scaduto (ai sensi della descritta prassi contraria alla lettera dei regolamenti).
Sul punto è riscontrabile, invero, un (parziale) precedente: si tratta del disegno di legge costituzionale n. 1429-B (c.d. “Renzi-Boschi”) che, già approvato in prima deliberazione dal Senato e modificato in prima deliberazione dalla Camera, giunse al Senato per la nuova deliberazione senza mandato al relatore[33].
Per quanto deprecabile — come anche sottolineato dall’opposizione in tale sede — l’assenza di mandato seguiva già una previa analisi in commissione e in aula dello stesso d.d.l. costituzionale. In altri termini, la commissione referente del Senato aveva già esercitato su quel testo le proprie prerogative e l’aula l’aveva già approvato (al netto, ovviamente delle modifiche operate dalla Camera). Quanto detto non vuole essere volto a giustificare l’iter del disegno di legge costituzionale del 2015, quanto piuttosto vuole sottolineare l’ulteriore problematicità della mancata assegnazione del mandato al relatore (o ai relatori) già in prima lettura nel disegno di legge costituzionale in commento.
Basti qui sottolineare alcuni aspetti particolarmente problematici, che modificano il quadro rispetto a quanto già delineato per le leggi ordinarie: a) il fattore tempo e b) il ruolo delle minoranze nel procedimento di revisione costituzionale; nonché c) il ruolo del Governo nel perseguimento di riforme costituzionali e l’inserimento delle stesse all’interno del programma politico.
Sulla questione dei tempi della revisione costituzionale si è già accennato supra: una asserita urgenza appare incompatibile tanto con quella «tensione all’eternità» propria delle costituzioni[34], quanto con la ratio desumibile nello specifico dall’art. 138, in cui si stabilisce un termine minimo proprio a garanzia «di tempi adeguati di riflessione»[35].
Vi è poi il ruolo delle minoranze, la cui tutela costituisce uno degli aspetti fondamentali del procedimento di revisione costituzionale. In tal senso la commissione appare la sede naturale in cui trovare il compromesso politico finalizzato a raggiungere la maggiore condivisione possibile. In tal senso, la prassi di approvazione di riforme costituzionali condivise da tutte le forze politiche — prassi rotta a partire dagli anni duemila, quantomeno per i disegni “organici” di revisione — costituiva applicazione della ratio di cui al 138, di tendenza e preferibilità verso l’approvazione con i due terzi e non a maggioranza assoluta (senza contare che anche l’approvazione a maggioranza assoluta costituiva, in un sistema proporzionale, una soluzione di compromesso). In tal senso, saltare la fase in commissione e arrivare in aula già dando per scontati il voto a maggioranza e la procedura referendaria — come nelle dichiarazioni del Ministro della giustizia — costituisce una evidente violazione delle prerogative parlamentari (non nuova)[36] e impedisce alle opposizioni di avere alcuna voce in capitolo, anche, in caso di mancato accordo, attraverso una relazione di minoranza da presentare in aula[37].
Vi è, infine, il tema di fondo del revisionismo costituzionale e, quindi, del ruolo che il Governo è legittimato a svolgere nel perseguimento di riforme costituzionali e dell’inserimento delle stesse all’interno del proprio programma politico[38]. Il tema, invero, appare caratterizzare la storia costituzionale degli ultimi decenni ed è stato ampiamente analizzato dalla dottrina[39]. Tuttavia, della sua problematicità — o, se si vuole, del suo sostanziale contrasto con la Carta — non può essere lecito, nemmeno «per stanchezza»[40], tacere. In questa sede basti però rilevare il contesto in cui si inserisce l’iter della riforma costituzionale sulla magistratura: una riforma costituzionale “a colpi di maggioranza”, finalizzata a attuare un programma politico di governo in aperto contrasto con la Costituzione vigente[41].
L’evoluzione delle cose non stupisce ma preoccupa: siamo di fronte a una procedura nata sulla base di disposizioni regolamentari quantomeno problematiche dal punto di vista costituzionale, sviluppatasi in una prassi contraria alla ratio e la lettera degli stessi regolamenti, legittimata inizialmente sulla base di ragioni di urgenza o emergenza, che viene stabilizzata ed estesa ai procedimenti di revisione costituzionale, aggiungendo un ulteriore tassello a processi già in atto. Forse nulla di veramente “nuovo”, ma, ancora una volta, un passo verso lo svuotamento della Costituzione «del suo valore storico-politico, per tramutarla in uno strumento di governo ovvero di governabilità»[42]. Un passo ancora lontano dalla forma di governo disegnata dalla Costituzione. Quo usque tandem?
[1] Così C. F. Ferrajoli, Rappresentanza politica e responsabilità. La crisi della forma di governo parlamentare in Italia, Editoriale scientifica, Napoli, 2018, p. 364.
[2] Cfr., ex pluribus, L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, 3a ed., Il Mulino, Bologna, 2018, p. 211.
[3] Ivi, p. 213.
[4] P. Passaglia, Art. 72, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet, Milano, 2006, p. 1389.
[5] C. Bergonzini, I lavori in commissione referente tra regolamenti e prassi parlamentari, in Quaderni costituzionali, n. 4/2005, p. 789.
[6] L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, cit., p. 213.
[7] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Tomo ii, 9a ed., Cedam, Padova, 1976, p. 735.
[8] In tal senso A. A. Cervati, Art. 72, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli-Foro Italino, Bologna-Roma, 1985, p. 120; R. Bin - G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, 22a ed., Giappichelli, Torino, 2021, p. 374.
[9] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 735. Sul punto appare opportuno notare come pur non precisando la Costituzione i dettagli delle modalità di esame da parte della commissione referente, «si può ritenere che il giudice della costituzionalità delle leggi abbia tutti gli elementi per valutare se il precetto costituzionale è stato adempiuto, senza che sia necessario far ricorso alla disciplina regolamentare, che non dovrebbe in nessun caso essere assunta direttamente quale parametro per il controllo di costituzionalità delle leggi», così A. A. Cervati, Art. 72, cit., p. 121.
[10] L. Elia, Le commissioni parlamentari italiane nel procedimento legislativo, in Archivio giuridico “Filippo Serafini”, n. 1-2/1961, p. 72.
[11] A. A. Cervati, Art. 72, cit., p. 120.
[12] Ex pluribus, in tal senso L. Elia, Le commissioni parlamentari italiane nel procedimento legislativo, cit., pp. 78 e ss.
[13] Così P. Passaglia, Art. 72, cit., p. 1397.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 1389.
[16] Sottolinea tale aspetto A. A. Cervati, Art. 72, cit., p. 161, corsivo aggiunto.
[17] Ivi, p. 123.
[18] In realtà la sovrapposizione «tra materia costituzionale» e le leggi costituzionali o di revisione costituzionale non è pacifica in dottrina, ma che le leggi di revisione godano di una riserva d’assemblea, ai sensi dell’art. 138 ovvero del 72 appare un dato acquisito (sul punto A. A. Cervati, Art. 72, cit., p. 163).
[19] Sul punto L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, cit., p. 211.
[20] Sul punto C. Bergonzini, I lavori in commissione referente tra regolamenti e prassi parlamentari, cit., p. 790; L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, cit., p. 211; V. Di Ciolo - L. Ciaurro, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, 6a ed., Giuffrè, Milano, 2024, p. 588.
[21] Su cui V. Di Ciolo - L. Ciaurro, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, cit., p. 589.
[22] Cfr. L. Ciaurro, DDL unioni civili e criticità procedurali: 69 commi da raccontare, in Rassegna Parlamentare, n. 1/2016, pp. 103-126.
[23] Ivi, p. 590.
[24] L. Gianniti - N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, cit., p. 213.
[25] C. Bergonzini, I lavori in commissione referente tra regolamenti e prassi parlamentari, cit., p. 794.
[26] Camera dei Deputati, XVI Legislatura, Resoconto stenografico della seduta pubblica n. 437 del 22 febbraio 2011, p. 23.
[27] Sostenuta classicamente in dottrina da G. Ferrara, Il presidente di assemblea parlamentare, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 245-248.
[28] L’A. ribadirà il punto, spiegando come «l’attrazione della funzione di indirizzo politico nell’area parlamentare, per la parte che al Parlamento spetta perché titolare del potere di concedere, “accordare” la fiducia al Governo» e che non «poteva certo sfuggirmi che la scelta del sistema elettorale maggioritario avrebbe definitivamente attribuito il potere di indirizzo politico al Governo e tutto intero. Quanto alla configurazione del Presidente di Assemblea parlamentare credo quindi che la si possa ora identificare in quella del “magistrato neutrale”. Perché neutralizzato dal potere del Governo, così come lo è il Parlamento, ridotto ad esserne l’organo esecutivo per la traduzione in leggi dell’indirizzo che gli detta. Un indirizzo disponibile peraltro solo in parte, quella residua dalla cessione della sovranità statale alla Commissione dell’UE di Bruxelles e alla Banca centrale europea», così G. Ferrara, “Il Presidente di Assemblea parlamentare”, quarantotto anni dopo, in Il Filangieri, Quaderno 2012-2013, 2013, pp. 304 e 305.
[29] In tal senso G. Ferrara, Il presidente di assemblea parlamentare, cit., p. 5.
[30] Cfr. sul punto N. Lupo, Presidenti di Assemblea e la funzione (politica) di garanzia costituzionale. Rileggendo la monografia di Gianni Ferrara, in Forum di Quaderni costituzionali, n. 3/2024, p. 157.
[31] Sul punto, ex pluribus, C. F. Ferrajoli, Rappresentanza politica e responsabilità, cit., p. 374; sul punto, più in generale, pp. 367 e ss.
[32] Cfr. sul punto la relazione n. 33/2025 dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione.
[33] Senato della Repubblica, Legislatura XVII, Aula, Resoconto stenografico della seduta n. 510 del 23 settembre 2015.
[34] Così M. Luciani, Dottrina del moto delle costituzioni e vicende della costituzione repubblicana, in Rivista AIC, n. 1/2013, p. 1.
[35] Così A. A. Cervati, La revisione costituzionale e il ricorso a procedure straordinarie di riforma delle istituzioni, in A. A. Cervati - S. P. Panunzio - P. Ridola, Studi sulla riforma costituzionale. Itinerari e temi per l’innovazione costituzionale in Italia, Giappichelli, Torino, 2001, p. 45.
[36] Cfr. ex pluribus, S. P. Panunzio, Le vie e le forme per l’innovazione costituzionale in Italia: procedura ordinaria di revisione, procedure speciali per le riforme costituzionali, percorsi alternativi, in A. A. Cervati - S. P. Panunzio - P. Ridola, Studi sulla riforma costituzionale, cit., p. 123.
[37] Legge la relazione di minoranza come strumento di tutela delle minoranze, P. Passaglia, Art. 72, cit., p. 1390.
[38] Si veda, ex pluribus, G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale. Tornare ai fondamentali, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 243.
[39] Si rimanda, ex pluribus, a C. F. Ferrajoli, Rappresentanza politica e responsabilità, cit., p. 377.
[40] L’espressione, utilizzata dall’A. in un contesto differente, è di M. Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in Rivista AIC, n. 2/2016, p. 7.
[41] Sui limiti delle revisioni costituzionali di natura governativa, si veda, ex pluribus, A. Gentilini, Un altro modo per dire “NO”. Note per un giudizio “costituzionalistico” sulla riforma costituzionale in corso, in ISSiRFA – Studi e interventi, novembre 2016.
[42] G. Azzariti, Contro il revisionismo costituzionale. Tornare ai fondamentali, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 255.
Signor Ministro,
mi permetto di scriverLe nuovamente. In nome della nostra trascorsa lunga colleganza in magistratura sarò schietta come la volta precedente, pur avendo forti dubbi che Ella mi legga e ancor più che risponda a questa mia.
Le chiedo di comprendere la mia incapacità di frenare l’indignazione: la realtà è che le Sue parole continuano a stupirmi e a ferirmi, tanto che mi pongo continuamente il quesito: “Ma come è possibile che un ex magistrato ragioni così?”
Sarò più specifica. Orribile quel suo richiamo al detto latino hic manebimus optime: una chiara ammissione del Suo compiacimento per la carica che riveste e della tranquilla certezza che niente e nessuno potrà allontanarLa da via Arenula.
Il Suo commento alla relazione dell’Ufficio del Massimario della Cassazione sul Decreto legge sicurezza, definita come “un intervento che ritengo irriverente, improprio e imprudente”, e la Sua richiesta agli uffici ministeriali di acquisire informazioni sui modi di pubblicazione e diffusione del testo denotano una totale mancanza di considerazione della natura e delle funzioni di quell’importante articolazione della Corte di Cassazione.
E non posso non ricordare il Suo consiglio alle donne in pericolo di aggressione di trovare rifugio nelle chiese e nelle farmacie, quali luoghi dotati di particolare efficacia dissuasiva.
Ancora, la frase, che leggo virgolettata sui giornali, “che un magistrato si permetta di censurare su un giornale le cose che ho fatto, in qualsiasi paese al mondo avrebbero chiamato gli infermieri”, appare un condensato di arroganza e di irrisione ai diritti fondamentali delle persone, anche se sono magistrati.
Più sconcertante la recente affermazione: “il sovraffollamento è una forma di controllo sui suicidi”. Se non fossi convinta della Sua buona fede ravviserei in quelle parole un cinismo agghiacciante e una spietata manipolazione della realtà, tenuto conto che proprio la disumanità delle condizioni di vita in celle sovraffollate può essere un elemento scatenante di scelte estreme.
Potrei continuare a lungo, ma mi fermo qui, formulando un’ultima riflessione e un auspicio. La riflessione attiene al fatto che qui non si tratta soltanto di parole più o meno in libertà, ma di concetti e messaggi ai cittadini che riflettono una certa idea della giurisdizione, del rapporto tra giurisdizione e politica, del ruolo della magistratura.
L’auspicio trae spunto dall’invito da Lei rivolto ai magistrati a “pensarci dieci volte prima di mettere una persona in catene”: un’analoga cautela nell’esternare pubblicamente il Suo pensiero potrebbe essere di aiuto, sempre “per onorare quella toga che non si dismette mai”.
La prima Lettera di Gabriella Luccioli al Ministro della Giustizia è del 10 marzo 2025 e si può leggere qui.
Torno ad intrattenermi, sia pure con la massima rapidità, su Corte cost. n. 96 del 2025, dopo averne detto assai di recente [nel mio Ragionando attorno al “seguito” da dare a Corte cost. n. 96 del 2025 per le persone trattenute nei CPR, in questa Rivista, 8 luglio 2025], allo scopo di argomentare la tesi secondo cui, anche per il caso che la soluzione fatta propria dalla Consulta fosse stata diversa da quella adottata, l’esito della vicenda avrebbe comunque potuto risultare immutato.
Molte critiche sono – come si sa – cadute a pioggia sulla decisione in commento, facendosi in particolare notare che la Corte avrebbe potuto portare alle sue ultime e lineari conseguenze la tesi, con opportuni rilievi argomentata, della incompatibilità della disciplina sottoposta a giudizio con la Costituzione, specificamente in relazione all’art. 13. Insomma, il ragionamento svolto dal giudice costituzionale sarebbe stato ancora più solido se la pronunzia fosse stata di tipo ablativo.
Mi pongo, dunque, qui nei panni di coloro che non hanno risparmiato critiche pungenti alla Corte e m’interrogo su come quest’ultima, condividendone l’impostazione, avrebbe potuto darvi seguito. Faccio, perciò, mia stavolta la “tecnica” di rappresentazione scenica resa famosa dal film Sliding doors, diretto nel 1998 da Peter Howitt, sforzandomi di verificare quali avrebbero potuto essere i lineari svolgimenti dell’accoglimento delle questioni portate alla Consulta.
Ora, giusta la premessa per cui si è qui in presenza di una limitazione della libertà personale ed acclarate le carenze della disciplina in ordine ai “modi” della limitazione stessa, anziché far luogo – come ha fatto – ad una decisione d’inammissibilità, la Corte, impossibilitata a porre mano ad una puntuale e congrua indicazione degli stessi, avrebbe potuto avvalersi della tecnica decisoria dell’additiva di principio, specie per ciò che attiene al punctum crucis della questione, con riguardo cioè all’organo competente ad emettere il provvedimento restrittivo della libertà di cui all’art. 13 Cost. Ad essere, anzi, ancora più precisi avrebbe potuto dar vita ad una decisione sostitutiva di principio, indicando nel giudice al posto del prefetto l’organo in parola. Per vero, nel mio commento sopra richiamato mi sono sforzato di mostrare che siffatta sostituzione, operando su fonte di secondo grado, non avrebbe potuto aversi in sede di giudizio sulle leggi. Supponiamo, però, qui che essa ugualmente si fosse avuta o che un domani, restando immutato il quadro normativo vigente, si abbia, con conseguente rimozione immediata della previsione normativa in atto vigente.
Nulla di più, ad ogni buon conto, avrebbe chiaramente potuto dirsi nella 96, come pure in una prossima eventuale pronunzia del giudice delle leggi, in merito alla determinazione dei servizi da assicurare alle persone trattenute nei CPR, dovendosi a ciò provvedere con legge ovvero con altra fonte da questa comunque allo scopo espressamente chiamata in campo, fonte dunque anche di grado sublegislativo (nella specie, regolamentare), cui risulta congeniale la minuta indicazione dei servizi stessi.
Stando così le cose, mi preme qui fermare l’attenzione solo su un paio di punti, peraltro tra di loro strettamente connessi.
Il primo.
È noto che le pronunzie manipolative di principio si indirizzano, a un tempo, al legislatore ed ai pratici del diritto (amministratori e giudici). All’uno è fatto obbligo di dare adeguato svolgimento normativo alle indicazioni per essentialia somministrate dalla Corte; agli altri, di dare per l’intanto e ove possibile attuazione immediata e diretta alla norma o alle norme aggiunte dalla Corte. Tengo a precisare che si tratta, appunto, di un’attività di attuazione, non già di mera applicazione, richiedendo infatti, la stessa, in tesi, una produzione parimenti normativa, seppur con effetti circoscritti al caso, specificamente laddove posta in essere dal giudice comune.
Nella circostanza da cui ha avuto origine la pronunzia della Corte qui nuovamente annotata, una produzione siffatta non sarebbe stata comunque possibile, non trattandosi di estrarre dal principio somministrato dalla Corte stessa una regola puntuale e circoscritta da far valere per il caso, dal momento che la determinazione dei servizi da assicurare alle persone ristrette nella loro libertà personale – come si è venuti dicendo – avrebbe piuttosto richiesto un’articolata disciplina positiva non fattibile ad opera del giudice. Saremmo, dunque, stati in presenza di una decisione sostanzialmente destruens e minimamente construens, circoscritta per questo secondo aspetto – come si diceva – alla mera sostituzione del giudice con il prefetto, e bisognosa perciò di ricevere congruo seguito sul piano normativo al fine di potersi efficacemente implementare nell’esperienza.
Di qui, l’impossibilità per una persona ristretta per effetto di una decisione emessa da un’autorità radicalmente incompetente di seguitare a patire la limitazione della propria libertà in attesa dell’intervento regolatore da parte della legge e magari – come si è fatto poc’anzi notare – da parte altresì di atti di secondo grado idonei a dare a quest’ultima adeguato svolgimento.
Il secondo punto che mi preme qui rimarcare rimanda, poi, ad una generale questione, il cui esame ovviamente non può aversi in questa sede, di particolare rilievo per le vicende di giustizia costituzionale e di giustizia tout court; ed è quella relativa al carattere intercambiabile posseduto da alcune tecniche decisorie, in ispecie – per ciò che è ora d’interesse – da quella d’inammissibilità per rispetto del limite della discrezionalità del legislatore, contenente tuttavia l’accertamento della invalidità della normativa oggetto della questione portata alla cognizione della Corte, e dall’altra concernente le manipolazioni di principio dei testi di legge.
Sia chiaro. In occasione dell’adozione di una decisione della prima specie, in generale non si produce l’effetto che si ha in presenza di una decisione della seconda, in particolare non si offre l’opportunità a giudici ed amministratori di far luogo a quell’“attuazione” del principio di cui un momento fa si diceva. Non può, tuttavia, farsi passare sotto silenzio la circostanza per cui talora anche da pronunzie additive di principio non appare possibile – come si viene dicendo – estrarre regole immediatamente valevoli per la definizione del caso.
Dal punto di vista del legislatore, poi, laddove l’inammissibilità sia racchiusa, come qui, in una decisione d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata, l’obbligo di facere a carico del legislatore stesso si ha ugualmente. Certo, non si dispone di meccanismi sanzionatori efficaci per assicurarne l’adempimento, nessuno potendo costringere manu militari il legislatore stesso ad un facere laddove non ne abbia l’intenzione. In passato, non si è mancato, anche da parte di chi scrive, di andare alla ricerca dei meccanismi in parola e si è persino ipotizzato l’eventuale riconoscimento del risarcimento del danno a beneficio di chi possa dimostrare di aver patito dall’inerzia del legislatore un’incisione in via diretta ed immediata in un proprio diritto fondamentale. Tesi che, forse, può essere giudicata ardita e che, ad ogni buon conto, è rimasta priva di ascolto tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
Il vero è che l’unico meccanismo davvero risolutivo può metterlo in atto solo la stessa Corte delle leggi, convertendo un’originaria pronunzia di rigetto in una di accoglimento idonea a portare al rifacimento del tessuto legislativo sfilacciato e risultante da materiali normativi incompatibili con la Carta, talora anzi a questa frontalmente contrapposti. Solo che, laddove di questa eventualità non possa, per una ragione o per l’altra, aversi riscontro, è giocoforza attendere la venuta alla luce di regole adeguate allo scopo da parte del legislatore.
Si torna così al punto di partenza. L’inammissibilità per rispetto del limite della discrezionalità del legislatore, al pari dell’additiva di principio, non può in alcune circostanze dare congruo ed immediato appagamento a beni costituzionalmente protetti; ed è triste riconoscere che – come si è veduto – talora non possono darlo neppure giudici ed amministratori.
L’unico effetto utile che può discendere da una manipolativa di principio che abbia avuto ad oggetto una disposizione normativa in applicazione della quale una persona sia stata privata della libertà personale e versi in una condizione di sostanziale detenzione è la sua immediata scarcerazione. Quest’effetto tuttavia – come si è tentato di argomentare nella mia precedente riflessione sul tema – può (e deve) aversi anche in conseguenza di una pronunzia d’inammissibilità che, nondimeno, al proprio interno racchiuda l’accertamento della incostituzionalità della disciplina positiva portata alla cognizione della Consulta. Lo ha correttamente stabilito la Corte d’appello di Cagliari, Sez. distaccata di Sassari (N.R.G. 290/2025 del 4 luglio 2025), della quale mi piace qui riprodurre, ancora una volta, fedelmente il pensiero: “in assenza di quella determinazione dei ‘modi’ della detenzione, non ‘ancora’ disciplinati dal legislatore con fonte primaria, non può che riespandersi il diritto alla libertà personale, il cui vulnus è chiaramente espresso dalla Consulta, perché qualunque ‘modo’ non disciplinato da norma primaria non riveste il crisma della legalità costituzionale ed è legalmente inidoneo a comprimerla” (altri riferimenti di giurisprudenza possono ora vedersi nella relazione tematica curata dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, n. 65 del 15 luglio 2025).
Si è, ancora da ultimo, opposto (dalla relazione dell’Ufficio Massimario e Ruolo della Cassazione, sopra già richiamata) che ragionare come hanno ragionato la Corte d’Appello di Cagliari ed altri giudici ancora, equivale in buona sostanza a “sterilizzare” la diversità di effetti delle decisioni d’inammissibilità e di quelle di accoglimento. Delle due, però, l’una: o si mette in atto la soluzione dell’immediata scarcerazione di persone limitate nella loro libertà personale per effetto di norme comunque acclarate come incostituzionali oppure si tiene fermo il vigore delle norme stesse, vale a dire si considerano le stesse come esistenti, pur se contrarie a Costituzione. Nel qual ultimo caso, l’unico modo per impedire loro di spiegare effetti, perdurando la colpevole inerzia del legislatore, è quello di farne oggetto di sistematiche questioni di costituzionalità, come ancora di recente patrocinato in un commento di A. Natale, dal titolo I CPR e la Costituzione. Il rischio di una impasse. Il rischio di zone franche, apparso su Quest. giust. il 7 luglio scorso. La qual cosa, però, equivale ad ammetterne appunto l’attitudine a produrre effetti.
Qui è, però, il punctum crucis della questione ora nuovamente discussa. Nella circostanza odierna, infatti, l’utilizzo di uno strumento di normazione in premessa improprio, irrispettoso della riserva assoluta di legge stabilita in Costituzione, comporta a mia opinione la radicale invalidità della disciplina in tal modo posta. È quanto, d’altronde, risulta con molta chiarezza dal passo sopra fedelmente trascritto dalla pronunzia del giudice sardo che racchiude in sé, implicitamente ma appunto palesemente, il riconoscimento del vizio di incompetenza assoluta di qualsivoglia disciplina, presente o futura, che comporti limitazione della libertà personale, senza provenire da legge o atto a questa equipollente, ovverosia il riconoscimento della invalidità in senso forte – come l’ha qualificata R. Guastini (Dalle fonti alle norme2, Giappichelli, Torino 1992, 207 ss.) –, della nullità-inesistenza insomma, non già della mera invalidità in senso debole, equivalente alla mera annullabilità, di disposizione non primaria che ne sia affetta. Detto con parole ancora diverse ma sostanziale identità di concetto, ogni disciplina limitativa della libertà personale stabilita con fonte di grado sublegislativo e non dotata perciò di un solido aggancio in disposti di legge che vi facciano rinvio è da considerare – per riprendere termini cari ad A. Spadaro (Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, ESI, Napoli 1990, 262 ss.) – anticostituzionale, più (o anzi) che incostituzionale, radicalmente viziata tamquam non esset appunto. Ed è appena il caso qui di rammentare che siffatto vizio radicale può essere da tutti acclarato, a partire ovviametne dai giudici.
Se ne ha che, per un verso, la disciplina sublegislativa sopra richiamata non richiede di essere formalmente rimossa con un atto di annullamento (anzi, a rigore, non sarebbe possibile farvi luogo, proprio perché in sé e per sé radicalmente nulla-inesistente) e, per un altro verso, in vicende quale quella che ha dato lo spunto per questa succinta riflessione, dal punto di vista degli effetti non si ha differenza alcuna tra una pronunzia d’inammissibilità che però accerti la sussistenza di un vulnus grave recato alla Carta costituzionale ed un’additiva o sostitutiva di principio non self executing, in entrambi i casi non potendosi avere che la restituzione della libertà a chi ne è stato indebitamente privato, in attesa che veda finalmente la luce una disciplina in tutto rispettosa della Carta e posta in essere con le forme giuste.
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