ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Al convegno Attorno a questo corpo dalle mille paludi, titolo preso in prestito da un verso di Amelia Rosselli, sarà presentato il libro di Donatella Stasio L’amore in gabbia.
In effetti tra le mille paludi attorno al corpo, la palude che, più di ogni altra, offre la plastica rappresentazione dell’impedimento al corpo è la palude simboleggiata dalla gabbia.
Nel libro di Donatella Stasio la gabbia è un emblema così come un emblema è l’amore, quale rappresentazione unificante di plurime possibili interrelazioni salvifiche.
Il saggio di Stasio è una rassegna sugli ostacoli al corpo: dalla restrizione nella cella di isolamento in cui viene rinchiuso Gianluca, ancora adolescente a Fossombrone, “venti ore al giorno in isolamento”, all’isolamento affettivo della sua infanzia, cucciolo di una madre “rigida di metallo, che non scalda ma grazie a un biberon meccanico nutre”, la mamma scimmia dell’esperimento scientifico di Harry Harlow.
La lettura ti conduce attraverso un viaggio evocativo e stimolante nel corso della quale si passano in rassegna gabbie potenziali e reali, volontarie, imposte o eventuali: la famiglia, la droga, il carcere e la dannosa assenza di relazioni affettive.
L’autrice non limita il suo obiettivo al racconto di «cosa significhi, nella vita di un essere umano, tenere in gabbia, insieme al corpo, anche la mente e il cuore, chiudere tutto a doppia mandata e buttare la chiave», ma va oltre e punta il dito sulle criticità della nostra società e su come siano stati messi «“in gabbia” altri diritti di libertà riconosciuti dalla Corte costituzionale ma sgraditi alla maggioranza: il diritto al suicidio assistito in presenza di determinate condizioni; il diritto dei figli di coppie omogenitoriali di essere riconosciuti da entrambi i genitori che li hanno voluti cresciuti; il diritto delle madri di condividere realmente la scelta del cognome, materno o paterno, da attribuire ai figli, fin dalla nascita, e, in caso di disaccordo, di assegnare loro il doppio cognome».
L'Io come ha scritto Freud si oggettivizza nel corpo. L’Io «è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venire considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo».
La proiezione psichica della superficie del corpo è influenzata dalle relazione affettive, la madre di morbida pezza, che scalda ma non nutre dell’esperimento di Harry Harlow conferma in maniera lampante che “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Vangelo Matteo 4, 4 e Luca 4, 4), la parola dalla bocca di Dio, secondo una visione laica e contemporanea, altro che non è che l’amore dell’uomo, la solidarietà, la capacità di ascoltare di offrire, di relazionarsi in modo altruistico.
Gianluca che rappresenta il corpo del detenuto, per tornare al fil rouge del convegno, un corpo affatto dissimile dal corpo del migrante – ristretto solo perché cerca un mondo – o dal corpo prigioniero – ristretto perché è un soldato mandato a combattere.
Nella narrazione di Donatella Stasio il corpo di Gianluca in carcere soffre perché è rinchiuso, perché viene picchiato negli angoli in cui l’occhio della telecamere di sorveglianza non arriva e dagli stessi che dovrebbero proteggerlo, perché viene svegliato dai cani a scopo punitivo, perché la sua cella viene violata quanto all’intimità degli oggetti da perquisizioni violente, perché non ha un luogo dove rimanere in intimità, perché se sfiora il visitatore durante i colloqui il sorvegliante di turno lo sgrida.
Gianluca in carcere è un corpo sofferente perché abusato nella sua dignità.
«Avevo dolori fisici inenarrabili, ero bloccato in ogni parte del corpo, duro come un pezzo di legno. Non perché non fossi allenato, figuriamoci! Ma perché il mio corpo si prendeva la responsabilità di proteggermi dagli abusi, dalla mia emotività inesistente», scrive Gianluca a Donatella.
Gianluca dopo la prima volta diventa un recidivo.
La recidivanza è il più grave tradimento della nostra Costituzione, il più grosso smacco al principio rieducativo della pena. È singolare come l’attenzione al principio rieducativo della pena sia condizionato dall’ideologia politica, come l’asperità o meno del trattamento penale del recidivo dipenda dal colore della bandiera del politico di turno. Il confronto tra la dottrina sulla recidiva del fascista Manzini e la teoria del socialista Matteotti (che nella sua breve esistenza scrisse un saggio ancora attuale sul trattamento penale del recidivo) offre un’idea plastica di come l’idea della punizione sia connaturale al fascista e come quella della rieducazione sia invece connaturale al socialista.
Per fortuna la nostra bella Costituzione ha consacrato il principio rieducativo della pena. La più bella Costituzione del mondo, come scrive Donatella Stasio, è una Costituzione percorsa dal filo dell’impellenza delle relazioni sociali. Il primo richiamo alla comunità di sentimenti lo troviamo all’art. 2 che consacra i doveri della solidarietà politica, economica e sociale come doveri inderogabili e poi all’art. 3 si rinviene il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In questo contesto dovrebbe orientarsi il principio rieducativo della pena ma i principi non vanno al passo delle situazioni di fatto, o meglio queste non si adeguano da sole ai principi costituzionali. Occorre uno sforzo che non si riesce a fare o che non si vuole fare, di qui l’enorme importanza della sentenza della Corte Costituzionale sull’intimità affettiva.
Come scrive Stasio: «In carcere, l’intimità, l’affettività, la sessualità non sono considerate espressioni della personalità umana, tanto meno un diritto. Sono un lusso, addirittura un privilegio, e chi ha violato la legge – dal mafioso al ladruncolo, dal tossicodipendente allo straniero, dal detenuto di Alta sicurezza a quello comune – non ha diritti né privilegi né lussi, non merita niente, neppure di respirare. E che “intima gioia”, che godimento questa mancanza d’aria, specie per i “più pericolosi”, abbiamo sentito dire da un sottosegretario alla Giustizia del nostro governo.»
A questa manifestazione di intima gioia, negazione assoluta della dignità umana, mi piace contrapporre un’immagine salvifica. L’immagine è quella di Papa Francesco che lava i piedi dei detenuti di Rebibbia.
Restituiscono dignità all’uomo le mani del Papa sui piedi di corpi rinchiusi e rendono il valore di quei corpi inestimabile, così come deve essere il valore di ogni corpo umano. Chissà quanto è stato emozionante quel contatto fisico per il detenuto e per i presenti che hanno sentito tangibile l’amore esondante dal gesto purificatore che restituiva la dignità all’uomo senza condizioni. «Perché voi e non io», diceva Papa Francesco ogni volta che varcava il portone pesante di un carcere. Un mantra che lo accompagnava nel suo pellegrinare fra gli ultimi, portando speranza, scambiando i suoi occhi con i loro, «facendo sua la storia di ogni persona detenuta». Nessuno deve sentirsi uno scarto secondo la dottrina di Papa Francesco, eppure Gianluca dice di sé «sono stato un prodotto di scarto di questa società per talmente tanti anni che ancora oggi il dolore di quell’ambiente abusante è così vivo dentro di me da farmi sentire un bambino abbandonato tra i tanti, un numerino senza storia, un racconto di poco conto da non dire per non impietosire.»
Negli ultimi anni l’articolo 27 della Costituzione è stato sfregiato dal disinteresse dei governanti. Il sovraffollamento carcerario colloca l’Italia al fanalino di coda dei Paesi europei e così il numero dei suicidi in carcere.
Niente investimenti, niente politiche di depenalizzazione anzi, all’opposto, la maggioranza al governo dall’insediamento non fa che aumentare il numero dei reati, e con il decreto legge sicurezza sono stati introdotti quattordici nuovi reati e sono state aggravate le pene di quelli esistenti – sono questi i reati proprio dei poveri cristi – .
I detenuti aumenteranno. Il decreto-legge sicurezza determinerà l’effetto esattamente opposto a quello propugnato dal decreto perché, come scrive Donatella Stasio la «pervasività fa sì che le patrie galere restituiscano alla “società civile” non persone libere, ma reduci. Che tornino a delinquere oppure no, sono dei reduci. Che abbiano pene lunghe o brevi da scontare, prima o poi tornano a casa – sempre che restino vive e che abbiano una casa –, ma tornano devastate dagli abusi consumati dal carcere. Sono come quei soldati ai quali la guerra ha strappato gambe, braccia, occhi: mutilati nel corpo e nella dignità, amputati dei sentimenti, della sessualità, della capacità di amare, della libertà.»
Ma in questa nostra epoca caratterizzata dalla cultura dello scarto desertificata dal valore del rispetto della dignità umana, noncurante del dovere inderogabile della solidarietà, un passo avanti è stato fatto grazie a un magistrato di sorveglianza, Fabio Gianfilippi, – lo stesso che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale – e alla pubblico ministero Michela Petrini che hanno imposto l’attuazione della storica sentenza della Corte Costituzionale n.10/2024, contenente la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 18 nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia.
Come ci ricorda Stasio un tentativo in tal senso fu messo in pratica dal 1952 al 1960, da Eugenio Perucatti che diresse il carcere per “l’ergastolani” nell’isola di Santo Stefano, al largo di Ventotene, il carcere che – guarda caso – fu smantellato dal governo Tambroni (governo democristiano sostenuto con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano con il quale il partito Fratelli d’Italia ha in comune pure il simbolo della fiamma tricolore).
Come scrive Donatella Stasio «La sentenza sull’affettività – la numero 10 del 2024 – ha suscitato scandalo e ilarità nel fantastico mondo della società civile, dove tanti, troppi, “godono” se i detenuti non respirano e vengono privati di momenti d’amore. Di quel “godimento” si nutrono le destre, che ne vanno fiere pubblicamente – è questo il dato politico nuovo rispetto al passato – e tanto basta a spiegare il lungo boicottaggio della sentenza della Corte, così come delle altre che riconoscono diritti fondamentali ideologicamente sgraditi alla maggioranza.»
La stanza dell’amore è il punto di arrivo di un percorso il cui punto di partenza si rinviene nella nostra bella Costituzione, oltre che nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo; si tratta di applicazione minima, ma essenziale, del principio secondo il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La costrizione delle emozioni e dei sentimenti – ce lo dice la Corte costituzionale – costituisce un trattamento contrario al senso di umanità.
Dell’intimità in carcere Gianluca, alla domanda di Donatella, risponde «non si fa» e chiarisce «Qualunque essere umano è in grado di astenersi dalla sessualità per anni senza patire, non è che i detenuti sono una specie a parte che se non eiacula ogni tot muore. La filmografia pop americana è tossica. Il carcere è un luogo di espiazione dove calarsi in una dimensione di intimità con se stessi, di ricerca, di comprensione». Donatella è spiazzata «l’adesione convinta dei detenuti al “non si fa”, al “non sta bene”. L’accettazione, anzi, di più, la convinzione che “non sta bene” e dunque “non si fa” – baciarsi, abbracciarsi, toccarsi o semplicemente sfiorarsi con i propri fidanzati o le proprie fidanzate.»
Anche attraverso la negazione del rapporto affettivo si lede la dignità umana e la lesione subìta da Gianluca è ancora sotto la sua carne cicatrizzata. Racconta il dolere derivante dalla violazione dell’intimità dei colloqui, «brandelli galeotti di affettività settimanale relegata a un’ora di orologio con parenti stretti, amori, conviventi vere o fasulle». «Spesso», racconta, «le guardie interrompevano malamente quei momenti, sostenendo che qualcosa non andava bene; sbattevano le chiavi sul vetro della sala colloqui o direttamente sul tavolo intorno al quale eri seduto a parlare. Era il loro modo di richiamarti all’ordine, anche sulla scadenza dell’orario di visita. Gesti brutali, piccole e grandi angherie, gratuite, umilianti, impossibile non coglierle se stai chiuso lì dentro. Io le ho sofferte tantissimo, così tanto da tenermi volutamente a distanza da tutto ciò che potesse provocarle. Ai colloqui diventavo glaciale pur di non essere disturbato dalle guardie, da quella vista indiscreta, da quei gesti intrusivi e violenti sulla mia intimità. E anche da possibili sanzioni disciplinari.»
Nessuna emozione nessun sentimento nessun contatto sono le regole detenuto affinché sia garantita la pax carceraria; l’effetto collaterale è l’ablazione dei sentimenti e delle relazioni, effetto che determina l’analfabetismo delle emozioni, l’opposto di quello che serve al processo di rieducazione, e ciò in quanto «Il carcere che funziona è quello che produce libertà, come usava dire Alessandro Margara. E la libertà sta dentro i corpi, le menti e i cuori. La realtà è ben altra: la pax carceraria si nutre di subcultura che più o meno tutti, operatori e detenuti, finiscono per respirare, assimilare e condividere. È stato così anche per Gianluca, uno delle migliaia di allievi formatisi alla scuola del carcere. I suoi principali maestri sono stati detenuti mafiosi o dell’Alta sicurezza, il regime detentivo speciale destinato ai detenuti considerati particolarmente pericolosi o che hanno commesso reati gravi, con i quali ha convissuto per circa sei anni, quand’era poco più che un adolescente.»
Gianluca sull’intimità in carcere dopo la prima risposta riflette ancora e poi ci ripensa occorre lavorarci, la stanza dell’amore produrrà i suoi effetti.
Donatella Stasio offre al lettore una lucida analisi politica che non può non condividersi: «Il carcere racconta molto dello stato di salute di una democrazia. Il paesaggio contemporaneo delle prigioni italiane è fatto di corpi ammassati, sempre più giovani e sempre più vecchi, provati da tossicodipendenze, malattie mentali e psichiche, e dalla povertà; ma è fatto anche di corpi senza più vita, suicidati o deceduti, in numeri senza precedenti. Un contenitore nel quale buttare anche il dissenso e, più in generale, tutto ciò che non si vuole o non si sa affrontare – dai migranti al disagio sociale – e che perciò va chiuso in gabbia, possibilmente “a marcire”, cavalcando l’inganno secondo cui solo la gabbia garantisce legalità e sicurezza. Un totale rovesciamento della prospettiva democratica secondo cui le priorità sono il rispetto della dignità della persona, i suoi diritti, la sicurezza sociale.»
Ma Gianluca ce l’ha fatta, il carcere di Bollate ha impedito che ricadesse di nuovo nell’errore.
Una cosa è certa: le persone cambiano la storia dei singoli e pure quella dei popoli; questo ci deve far sentire tutti responsabili, attivi e propulsivi e disponibili, pronti a fare quello che in certi momenti occorre fare, in questo senso certamente Stasio ha adempiuto alle sue responsabilità di giornalista scrivendo questo bellissimo saggio.
«Una persona è sempre fatta da tante persone che l’hanno aiutata e amata», ha detto Ana Lydia Sawaya, professoressa dell’Università di San Paolo del Brasile, il giorno della sua consacrazione monacale.
Il libro di Stasio non racconta soltanto la storia delle periferie e dell’abbandono sociale; Gianluca non te lo racconta soltanto, ma te lo fa incontrare. Un uomo fatto dalle persone che lo hanno aiutato e amato.
Ente locale in dissesto e provvedimento di acquisizione sanante: profili di competenza.
di Giuseppe Piluso
Sommario: 1. Premessa - 2.Analisi del quadro normativo - 3. L’orientamento “formale”: la competenza è della gestione ordinaria dell’Ente - 4. L’orientamento “sostanziale”: la competenza è dell’Organo Straordinario di Liquidazione - 5. L’orientamento che distingue la competenza amministrativa da quella contabile.
1. Premessa
Il presente lavoro illustra la problematica concernente l’individuazione dell’organo competente ad adottare il provvedimento di “acquisizione sanante”, ai sensi dell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001, ove l’Ente locale abbia deliberato il dissesto finanziario e il fatto dell’ “occupazione sine titulo” sia intervenuto in epoca antecedente.
Per affrontare questo argomento si analizzerà, in una prima parte, la disciplina sul dissesto degli enti locali con particolare riguardo alla previsione secondo cui l’organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente ad “atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato”.
In una seconda parte, al fine di determinare con esattezza quali debiti siano correlati ad “atti e fatti di gestione”, si analizzeranno gli interventi del legislatore, della giurisprudenza amministrativa e contabile attraverso le soluzioni ermeneutiche adottate per giungere all’individuazione dell’organo competente.
Un primo orientamento “formale” e, per così dire, contabile di debito, ha ritenuto di attribuire la competenza ad adottare il provvedimento di “acquisizione sanante” agli organi “ordinari” dell’Ente, ossia il Consiglio Comunale.
A questo intervento sono susseguite ulteriori opzioni ermeneutiche.
Ad avviso di una esegesi spiccatamente “sostanziale”, sostenuta dalla Plenaria del Consiglio di Stato, la competenza andrebbe attribuita, invece, all’Organismo Straordinario di liquidazione, in quanto correlata al “fatto” dell’occupazione intervenuto prima della dichiarazione di dissesto.
Da ultimo si analizzerà una diversa soluzione “intermedia”, sostenuta in alcune recenti pronunce del Tar Sicilia e Tar Campania e considerata da chi scrive più ragionevole e in linea con il sistema normativo, che opera una necessaria distinzione tra la competenza amministrativa in ordine alla scelta di acquisire o restituire il bene, da attribuire alla gestione ordinaria, e quella contabile di “liquidazione del titolo di spesa”, di competenza, invece, dell’Organismo Straordinario di liquidazione.
2. Analisi del quadro normativo
Per poter individuare l’organo deputato ad adottare il provvedimento di “acquisizione sanante”, ex art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001, occorre un inquadramento delle disposizioni normative inerenti lo stato di dissesto finanziario dell’Ente e, in particolare, il riparto di competenze che il legislatore delinea per i crediti e debiti tra organismo straordinario di liquidazione e organi istituzionali dell’Ente.
In secondo luogo, occorre coordinare la disposizione sull’ “acquisizione sanante” con la disciplina che il legislatore prevede nel caso di dissesto.
La disciplina sul dissesto finanziario degli enti locali è contenuta all'interno del titolo VIII del decreto legislativo n. 267 del 2000 e ha come scopo il ripristino degli equilibri di bilancio e della ordinaria funzionalità degli enti locali in grave crisi finanziaria, al fine di assicurare, in via mediata, la tutela di interessi primari, relativi al buon andamento, alla continuità dell'azione amministrativa e al mantenimento dei livelli essenziali delle prestazioni.
Uno degli aspetti più controversi è sicuramente rappresentato dalla distinzione tra i debiti di competenza della gestione ordinaria, rimessi agli organi istituzionali dell'ente e perciò azionabili dai creditori con le procedure ordinarie, e i debiti di competenza della gestione liquidatoria, rientranti nella massa passiva di competenza dell'organo straordinario di liquidazione (OSL) e, pertanto, non passibili di esecuzione coattiva ai sensi dell’art. 248 TUEL.
Le disposizioni del testo unico degli enti locali dalle quali bisogna prendere le mosse sono gli artt. 252 e 254 che disciplinano, nel dettaglio, la procedura per la formazione e la rilevazione della massa passiva, l’acquisizione e gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento, anche mediante l’alienazione dei beni patrimoniali, e la liquidazione e pagamento della massa passiva.
L’art. 252 comma 4 prevede che “l’organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente a fatti e atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”.
L’art. 254 comma 3 disciplina, nel dettaglio, la procedura per la formazione e la rilevazione della massa passiva.
Nel piano di rilevazione della massa passiva adottato dall’organo straordinario di liquidazione vengono inclusi:
A seguito del definitivo accertamento della massa passiva e dei mezzi finanziari disponibili, l’organismo straordinario di liquidazione è tenuto a predisporre il piano di estinzione delle passività.
La difficoltà interpretativa nella lettura di queste disposizioni ha indotto il legislatore ad intervenire con una disposizione di interpretazione autentica volta a chiarire la locuzione “atti e fatti di gestione” utilizzata per individuare la competenza dell’Organismo Straordinario di liquidazione.
Con l’art. 5 comma 2 del d.l. 29 marzo 2004, n. 80 conv. con mod. dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, il legislatore chiarisce che “ai fini dell'applicazione degli articoli 252, comma 4, e 254, comma 3, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si intendono compresi nelle fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque, non oltre quella di approvazione del rendiconto della gestione di cui all'articolo 256, comma 11, del medesimo testo unico”
Il legislatore interviene, con la predetta disposizione, al fine di perimetrare l’ambito di rilevanza dei fatti genetici delle passività da prendere in considerazione ai fini della rilevazione della massa passiva, tenendo conto della natura e delle circostanze temporali di maturazione del debito.
Tuttavia, tale intervento normativo, seppur in apparenza chiaro, non ha consentito di dirimere la questione interpretativa circa l’esatta portata dell’espressione “atti e fatti di gestione” verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi del bilancio riequilibrato.
Questa espressione aveva indotto, infatti, la Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per la Campania con la deliberazione 132/2018 a chiarire che dovesse interpretarsi “in base ai noti canoni ermeneutici generali di cui all’art. 12 delle preleggi secondo l’uso comune delle espressioni usate dal legislatore e dunque, nel caso, secondo le ordinarie conoscenze giuridiche della materia alla quale tali elementi normativi appartengono, ossia secondo le comuni conoscenze del diritto privato”.
La Corte richiama la distinzione tra atti e fatti giuridici.
Sul piano della teoria generale del diritto privato, i fatti a cui l’ordinamento riconosce la capacità di produrre effetti giuridici si dividono in “atti” e “fatti” a seconda della presenza o meno di una volontà nella produzione degli effetti.
In questo senso, tipico atto produttivo di effetti giuridici “voluti” è il contratto quale “accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.
Diverso dall’atto è, invece, il “fatto giuridico” che è da intendersi come qualsiasi accadimento naturale o umano dal quale possano derivarne effetti giuridici: vi rientrerebbe qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto da risarcire ex art. 2043 c.c..
Chiarita la nozione di “atti o fatti” occorre, tuttavia, considerare che il legislatore, nella disposizione dell’art. 5 del d.l. 80/2004 sopra indicata, si riferisce testualmente ai “debiti correlati ad atti o fatti di gestione”.
È proprio questa correlazione, tra il concetto di “debito” e quello di “atto o fatto” che lo ha generato, ad aver dato luogo a diverse opzioni ermeneutiche
La questio iuris nasce, in sostanza, dal diverso approccio contabile oppure sostanziale con il quale si voglia intendere la predetta locuzione e, in particolare, quando si voglia intendere il momento genetico dell’obbligazione.
Come si vedrà nel proseguo della trattazione, se si richiama un concetto formale, pecuniario e, per così dire, contabile di debito sarà irrilevante il momento in cui il fatto causativo del danno si è verificato, dovendosi piuttosto riferire al momento in cui l’esposizione debitoria del Comune sia divenuta certa liquida ed esigibile.
Leggendo, al contrario, la disposizione con un approccio cosiddetto “sostanzialistico” la competenza dell’O.S.L. dovrebbe riferirsi a tutti quei debiti le cui poste contabili siano eziologicamente e funzionalmente ricollegabili ad un atto o fatto di gestione antecedente alla dichiarazione di dissesto (e cioè al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato), indipendentemente dal momento in cui si siano manifestati contabilmente quale posta passiva pecuniaria.
Questo quadro normativo va coordinato con la disposizione sull’acquisizione sanante dell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001.
Con tale istituto il legislatore ha introdotto un procedimento espropriativo “eccezionale” per far fronte ad un illecito perpetrato dall’Amministrazione in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o di dichiarazione di pubblica utilità, consentendo di acquisire il bene immobile al proprio patrimonio indisponibile, previa corresponsione al proprietario del valore venale del bene oltre un indennizzo, per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito, nell’importo del dieci per cento stabilito dalla legge.
La Pubblica Amministrazione è tenuta ad illustrare le attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustifichino l’emanazione di questo provvedimento di acquisizione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati, mediante “un percorso motivazionale rafforzato ed assistito da garanzie partecipative rigorose, che dimostrino in modo chiaro che l’apprensione coattiva si pone come una scelta estrema laddove non sono ragionevolmente praticabili soluzioni alternative”. [1]
Come chiarito dalla Corte costituzionale - con la sentenza 30 aprile 2015, n. 71 – nell’escludere che l’art. 42 bis del D.P.R. n. 327 del 2001 si ponesse in contrasto con l’art. 42 Cost., il legislatore ha introdotto “una procedura espropriativa che, sebbene necessariamente “semplificata” nelle forme, si presenta “complessa” negli esiti, prevedendosi l’adozione di un provvedimento specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione".
Si tratta, pertanto, di un procedimento ablatorio sui generis “caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc)”.[2]
La natura giuridica del provvedimento acquisitivo, che non ha valore meramente dichiarativo ma costitutivo, ha posto, pertanto, la giurisprudenza dinanzi a due diversi orientamenti: un primo orientamento che ha privilegiato l’aspetto contabile in forza del quale non si accerterebbe un debito preesistente ma piuttosto lo si determinerebbe ex novo e un secondo orientamento che, al contrario, ha dato rilevanza al fatto generatore dell’obbligazione ossia l’occupazione del suolo fonte di un illecito permanente.
In queste due diverse prospettive, che saranno appresso analizzate, occorre tenere conto dei due diversi aspetti, amministrativo e contabile, in forza dei quali l’Ente svolge una duplice attività: la prima consistente nell’esercizio della discrezionalità amministrativa nel valutare di acquisire il bene o restituirlo e una seconda di carattere meramente contabile volta all’effettiva liquidazione del titolo di spesa che costituisce condicio iuris per l’acquisizione al patrimonio indisponibile dell’ente.
Questa distinzione sarà approfondita nel paragrafo dedicato all’orientamento seguito dalla giurisprudenza del Tar Sicilia e Campania che ha innovato il panorama interpretativo con una soluzione che, a parere di chi scrive, è senza dubbio più ragionevole e coerente con il quadro normativo vigente.
3.L’orientamento “formale”: la competenza è della gestione ordinaria dell’Ente
Per un primo orientamento, rappresentato da pronunce del Consiglio di Stato e del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, la competenza ad adottare il provvedimento di acquisizione sanante, nonché gli ulteriori atti contabili di effettiva liquidazione e pagamento del debito correlato, spetterebbe agli organi istituzionali dell’Ente e quindi alla gestione ordinaria. [3]
La locuzione “fatti ed atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato”, utilizzata dal legislatore nell’art. 252 comma 4 del d.lgs. n. 267/2000 per individuare la competenza dell’organo straordinario di liquidazione, farebbe richiamo ad “un concetto formale, pecuniario e, per così dire, contabile di debito”.
Questa interpretazione troverebbe fondamento proprio nell’art. 5 del decreto legge 29 marzo 2004, n. 80, convertito con la legge 28 maggio 2004, n. 140, secondo cui i debiti correlati ad “atti e fatti di gestione” verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato rientrano nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione solo “se accertati”.
Con tale espressione il legislatore non avrebbe esteso le attribuzioni dell’Organismo Straordinario di Liquidazione fino ad includere nella massa passiva debiti ancora in via di accertamento e, pertanto, privi dei caratteri di certezza, liquidità ed esigibilità.
La norma avrebbe inteso, piuttosto, far richiamo non al momento in cui il fatto si è verificato bensì “al successivo momento in cui la posizione debitoria del Comune, intesa come posta passiva di carattere pecuniario, sia divenuta certa, liquida ed esigibile”.
Così, in forza dell’art. 252 comma 4 e 254 comma 3, rientrano tutti i debiti di bilancio e fuori bilancio anteriori all’anzidetto termine di approvazione del bilancio riequilibrato, a quelli derivanti da procedure esecutive estinte dipendenti da transazioni compiute dal commissario liquidatore e vanno esclusi i debiti il cui titolo sia ancora in fase di formazione perché privi della certezza che la legge richiede.
In altri termini, occorre ricercare il momento in cui si è perfezionato il credito nei suoi caratteri di certezza, liquidità ed esigibilità e non il momento genetico del fatto a cui l’obbligazione è correlata.
Secondo i Giudici, proprio la natura giuridica del provvedimento ex art. 42 bis del D.P.R. 327/2001 ben si attaglierebbe a questa interpretazione: l’emanazione di un provvedimento di acquisizione sanante dopo la dichiarazione di dissesto (ossia dopo il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato) non accerterebbe un debito preesistente ma, piuttosto, lo determinerebbe ex novo, quantificandone anche l’ammontare.
Si tratterebbe, in sostanza, di un provvedimento avente natura costitutiva (di una posta passiva prima inesistente) e non ricognitiva (di un debito preesistente).
Ciò sarebbe confermato dal fatto che il provvedimento adottato produce un effetto traslativo ex nunc, disponendo pro futuro.
Pertanto, ad avviso di questo indirizzo, compete agli organi istituzionali dell’ente in dissesto decidere se restituire il fondo o, in alternativa, emanare il provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis.
In quest’ultimo caso la scelta di acquisire il bene determinerebbe la costituzione ex novo di una posta passiva, comportando che i relativi oneri gravino solo ed esclusivamente sul bilancio ordinario dell’Ente.
L’organo straordinario di liquidazione avrebbe competenza solo per il pagamento di quei debiti pecuniari già sorti, ossia quelli in cui la fattispecie costitutiva si sia integralmente realizzata.
In questi termini, l’art. 42 bis nel disciplinare le poste indennitarie da corrispondere per il soddisfacimento del privato distingue, oltre al ristoro per l’esproprio parametrato al valore venale del bene, anche ulteriori somme parametrate al cinque per cento annuo corrispondente al risarcimento per l’occupazione illegittima e al 10% del valore venale per ristorare il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale.
Di conseguenza, gli organi ordinari dell’Ente sarebbero tenuti a corrispondere il valore venale del bene, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale nonché l’ulteriore somma dovuta per il ristoro dell’occupazione illegittima dopo il 31 dicembre, precedente a quello dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, e sino alla data di emanazione del provvedimento di acquisizione.
Secondo il Consiglio di Stato, nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione rientrerebbe, invece, soltanto la corresponsione del risarcimento del danno da occupazione illegittima per ogni anno di occupazione antecedente all’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
In definitiva, l’obbligazione indennitaria non potrebbe considerarsi, sotto alcun profilo, alla stregua di un debito preesistente al dissesto in quanto sarebbe solo l’atto discrezionale di acquisizione a far nascere il debito peraltro collegato ad un effetto traslativo non retroattivo.
Accogliere questa interpretazione non è di poco conto perché renderebbe inapplicabile anche il principio, sancito dall’art. 248 comma 2 del testo unico degli enti locali, che vieta di intraprendere o proseguire azioni esecutive a carico dell’Ente per debiti correlati alla procedura liquidatoria.
4. L’orientamento “sostanziale”: la competenza è dell’Organo Straordinario di Liquidazione
Altro orientamento, di natura spiccatamente sostanziale, attribuisce all’Organo Straordinario di liquidazione la competenza ad adottare sia il provvedimento di acquisizione sanante sia i conseguenti atti di liquidazione correlati.
I giudici prescindono dal momento in cui il debito è sorto contabilmente quale posta passiva pecuniaria, piuttosto fanno richiamo al momento in cui il si è verificato il “fatto o atto” eziologicamente riconducibile alla manifestazione contabile.
Secondo un’importante pronuncia del Consiglio di Stato, intervenuta nel 2018, è irrilevante indagare sulla liquidità ed esigibilità del credito prima o dopo la dichiarazione di dissesto perché “anche i debiti dell’ente locale che diventano liquidi ed esigibili dopo il dissesto entrano nella massa passiva e nella liquidazione concorsuale se derivano da fatti e atti di gestione anteriori alla dichiarazione di dissesto”.
A questa conclusione giunge anche l’Adunanza Plenaria, con la pronuncia n. 15 del 2020, secondo cui, operando una interpretazione coordinata degli articoli 252, 254 del testo unico degli enti locali e dell’art. 5 comma 2 del decreto legge n. 80/2004, rientrano nella competenza dell’O.S.L. non solo le poste passive già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto ma “anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se stricto jure sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta e immediata di atti e fatti di gestione pregressi alla dichiarazione di dissesto”. [4]
Il percorso logico-giuridico seguito dai Giudici amministrativi si fonda su tre argomentazioni: letterale, contabile e teleologico.
Sul piano letterale il provvedimento di acquisizione sanante ha per presupposto “l’indebita utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”.
In tal senso, l’art. 42 bis comma 4 del D.P.R. 327/2001 statuisce che il provvedimento di acquisizione sanante deve indicare “le circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”.
In questi termini, se è pur vero che il provvedimento acquisitivo non accerta un debito preesistente ma lo determina ex novo, non avendo carattere ricognitivo bensì costitutivo, tuttavia, risulta certamente correlato ad atti e fatti di gestione verificatisi prima del 31 dicembre antecedente all’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
Anche sul piano contabile la conclusione non può essere diversa: se i fatti sono cronologicamente ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, il successivo provvedimento che fa sorgere il titolo di spesa non può che essere imputato alla gestione liquidatoria.
Peraltro, la stessa Corte Costituzionale, nella pronuncia del 21 giugno 2013 n. 154, relativa ad analoghe disposizioni (art 4 comma 8 bis ultimo periodo d.l. 2/2010, conv. in l. n. 42/2010) per le obbligazioni della gestione commissariale del Comune di Roma, sosteneva la coerenza e legittimità di una norma che – in una procedura concorsuale quale quella del dissesto - ancori ad una certa data il fatto genetico dell’obbligazione.
Sarebbe, invece, del tutto irragionevole far dipendere l’imputabilità, alla gestione commissariale o alla gestione ordinaria, dal momento in cui si forma il titolo esecutivo.
La Plenaria svolge anche un ulteriore passaggio, che sarà oggetto di successivo approfondimento, secondo cui “non solo il debito viene imputato al bilancio della gestione liquidatoria sotto il profilo amministrativo – contabile, e non a quello della gestione ordinaria, ma anche la competenza amministrativa ad emanare il provvedimento che costituisce il titolo di spesa deve essere attribuita al Commissario liquidatore, in quanto è quest’ultimo soggetto che deve costituire la relativa partita debitoria del bilancio da lui gestito”.
La competenza dell’Organismo Straordinario di Liquidazione sarebbe coerente anche sul piano dell’interpretazione teleologica: le norme sul dissesto finanziario, essendo preordinate al ripristino degli equilibri di bilancio degli enti locali in crisi, mediante un’apposita procedura di risanamento, delineano una netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente.
E quest’ultima sarebbe pregiudicata se in essa confluissero anche debiti imputabili alla gestione “fallimentare” che ha portato alla dichiarazione di dissesto.
I Giudici di Palazzo Spada osservano, infatti, che la ratio della normativa sul dissesto, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali, può produrre effetti positivi “solo se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’Ente possano essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento sia successivo” con l’unico limite rappresentato dall’approvazione del rendiconto della gestione che segna la chiusura della gestione liquidatoria.
Le argomentazioni svolte dall’Adunanza Plenaria trovano eco anche nella giurisprudenza della Corte dei Conti.
Con deliberazione della Sezione Autonomie n. 12 del 2020 la Corte dei Conti ha affrontato il tema del previo riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del consiglio comunale ai fini dell’inserimento nel piano di rilevazione.
La Corte, nel disattendere le conclusioni della Sezione rimettente e nell’affermare la competenza esclusiva dell’O.S.L. a riconoscere il debito fuori bilancio, ha analizzato le norme sul dissesto ritenendo che le disposizioni che regolamentano l’attività dell’organo straordinario di liquidazione costituiscano un vero e proprio “microsistema extra ordinem” informato al principio della par condicio creditorum ed alla tutela della concorsualità.
Nello specifico, la Corte dei Conti definisce l’O.S.L. quale “dominus esclusivo della peculiare procedura finalizzata al risanamento dell’Ente” e come tale assume anche il ruolo di organo sostitutivo di quelli ordinari dell’Ente, titolare di elevati poteri organizzatori. Secondo i Giudici contabili una “netta cesura” tra le due gestioni sarebbe, peraltro, deducibile proprio dalla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5 comma 2 del decreto legge 29 marzo 2004 n. 80 conv. dalla legge 28 maggio 2004 n. 140.
La gestione dissestata prevede “non solo procedure straordinarie ad hoc per il dissesto ma anche competenze straordinarie ad hoc ed un organo straordinario ad hoc, in funzione sostitutiva di quelli ordinari”.
In linea con la ricostruzione dei giudici amministrativi anche il giudice contabile rileva, pertanto, come “la norma di interpretazione autentica sia espressione della volontà del legislatore di rendere quanto più ampia la competenza dell’organo straordinario di liquidazione”.
A distanza di poco meno di due anni, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato si è ritrovata, tuttavia, a dover affrontare nuovamente la questione, già esaminata nella pronuncia n. 15 del 2020.
Con ordinanza di rimessione veniva proposta una rimeditazione della questione alla luce dei principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, già sanciti nella sentenza De Luca contro Italia.[5]
Per la sezione rimettente l’avvio della procedura di dissesto finanziario a carico di un ente locale e la nomina di un organo straordinario di liquidazione, nonché l’interpretazione autentica svolta con l’art. 5 del decreto legge 80/2004, sarebbero in contrasto con i principi di protezione della proprietà e di accesso alla giustizia riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo tutte le volte in cui occorrerebbe attendere l’esito del procedimento di riequilibrio per ottenere il pagamento dei debiti accertati giudizialmente.
Pertanto, dovrebbe essere ripensata la disciplina normativa sul dissesto e in particolare “il principio secondo cui tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’Ente vanno attratte alla competenza dell’O.S.L. benché il relativo accertamento giurisdizionale o amministrativo sia successivo”.
Nel caso affrontato dai Giudici di Palazzo Spada l’ente aveva dichiarato il dissesto finanziario e, in seguito, si era formato un decreto ingiuntivo non opposto dichiarato esecutivo, cui conseguiva il ricorso per ottemperanza dinanzi al Tar Lazio.
Trattandosi di provvedimento giurisdizionale, intervenuto in relazione a fatti precedenti alla dichiarazione di dissesto finanziario, non potevano essere intraprese o proseguite azioni esecutive ai sensi dell’art. 248 comma 2 del testo unico degli enti locali.
Di conseguenza, in ossequio al principio di par condicio creditorum e di tutela della concorsualità, non poteva essere intrapreso neanche il ricorso di ottemperanza quale misura coattiva di soddisfacimento del credito.
Per questi motivi la Sezione rimettente chiedeva all’Adunanza Plenaria di individuare una soluzione interpretativa che potesse rendere conforme gli articoli 252 comma 4 del d.lgs. 267/2000 e 5 comma 2 del d.l. 80.2004, convertito nella legge n. 140/2004, ai principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
L’Alto Consesso ripercorre gli interventi normativi e giurisprudenziali, sopra delineati, e ribadisce che, alla luce del dettato normativo, ove gli atti e fatti cui è correlato il provvedimento giurisdizionale sono imputabili al periodo anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, l’atto che fa sorgere il titolo di spesa non può che essere di competenza della gestione liquidatoria, a condizione che sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256 comma 11.
Peraltro, nella ricostruzione dei giudici di Palazzo Spada, il debito viene imputato sia finanziariamente sia sotto il profilo amministrativo alla gestione dell’O.S.L. e da ciò ne deriva anche il divieto di intraprendere procedure esecutive fino all’approvazione del rendiconto della gestione.
Anche sul piano teleologico i Giudici ripercorrono quanto già statuito nella precedente Plenaria n. 15/2020 secondo cui le norme sul dissesto finanziario hanno un preciso obiettivo, quello del ripristino degli equilibri di bilancio degli enti locali in crisi mediante un apposita procedura di risanamento; inoltre, tali disposizioni delineano una netta separazione tra la gestione passata e quella corrente che sarebbe, quest’ultima, pregiudicata se in essa confluissero anche debiti sostanzialmente imputabili alla precedente gestione amministrativa.
Opinando diversamente, ossia imputando alla gestione corrente i titoli di spesa accertati con provvedimento successivo alla dichiarazione di dissesto (pur se correlati a fatti anteriori), si metterebbe “a rischio l’esercizio delle stesse funzioni e dei servizi fondamentali svolti dal Comune” che non potrebbe sostenere sul piano finanziario i costi di tali funzioni e servizi, essendo di fatto in uno stato di insolvenza.
Alla luce delle argomentazioni espresse, i Giudici rigettano anche i possibili dubbi di legittimità costituzionale: lo scopo di ripristinare gli equilibri di bilancio e quindi di normalità finanziaria e di capienza finanziaria, che altrimenti sarebbe compromesso dai debiti sorti nel periodo antecedente, risulta prevalente rispetto agli interessi individuali e patrimoniali dei privati, ancorché accertati con provvedimento giurisdizionale.
Anche sul piano del contrasto con i principi della CEDU la Plenaria esprime parere contrario.
Come è noto, in forza dell’art. 117 comma 1 della Costituzione, nasce un dovere per il legislatore ordinario di non violare le previsioni contenute in accordi internazionali. Le norme della C.E.D.U. assumono, pertanto, il ruolo di norme interposte di livello subcostituzionale che, da una parte, sono idonee a fungere da parametro di costituzionalità, dall’altra, sono esse stesse oggetto del giudizio di costituzionalità in quanto la Costituzione non può di certo essere integrata da fonti che ne violino i valori precettivi.
Pertanto, anche le norme sul dissesto, che comportano una netta separazione tra gestione passata e gestione corrente con l’attribuzione della competenza all’O.S.L. per i titoli di spesa correlati a fatti anteriori all’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato, devono essere interpretate alla luce dell’art. 117 comma 1 della Costituzione e della CEDU.
Ove si ravvisi un contrasto con i parametri della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la soluzione non potrà che essere la rimessione alla Corte Costituzionale per valutarne la conformità al dettato costituzionale ex art. 117 comma 1 Cost..
I Giudici, tuttavia, non hanno rinvenuto tale contrasto nell’ipotesi, avanzata dall’ordinanza di rimessione, in cui lo stato di dissesto, non essendo a priori limitato temporalmente, “potrebbe determinare una espropriazione sostanziale del diritto di credito del privato, le cui azioni esecutive sarebbero paralizzate sine die”.
Infatti, i possibili effetti deteriori per il privato creditore “deriverebbero non dal dato normativo bensì dalla gestione concreta della procedura liquidatoria”.
Il legislatore, nel disciplinare la netta separazione tra le due gestioni, avrebbe avuto di mira l’esigenza di assicurare massima certezza e maggiore rapidità nella soddisfazione del ceto creditorio dell’ente locale nel rispetto dei principi ordinatori delle procedure concorsuali.
La gestione liquidatoria sarebbe – secondo il Supremo Consesso – analoga alla gestione del fallimento privatistico, anche esso non soggetto a termini finali certi, senza che per questo si sia dubitato della legittimità costituzionale.
In tal senso, i giudici richiamano gli interventi normativi del d.lgs. n. 77 del 1995 e del relativo decreto correttivo (d.lgs. 11 giugno 1996, n. 336) che hanno previsto alcune cause di prelazione dei crediti, la predisposizione da parte dell’O.S.L. di un piano di rilevazione dei debiti recante l’elenco di quelli esclusi dalla massa passiva della procedura, finalizzato all’erogazione del mutuo con la Cassa depositi e prestiti, e il pagamento in acconto dei debiti inseriti nel piano di rilevazione, interventi questi che hanno intensificato il processo di omologazione tra dissesto degli enti locali e fallimento privatistico.
Inoltre, la normativa sui ritardi nelle transazioni commerciali prevederebbe una compensazione pecuniaria (attraverso gli interessi di mora) offerta al credito per sopperire al rischio dell’attrazione alla gestione liquidatoria.
In forza di tali considerazioni, i Giudici concludono per escludere il contrasto con la Costituzione, sia in via diretta sia indiretta, attraverso il parametro ex art. 117 comma 1 Cost., riconfermando che nel procedimento di dissesto sussista “un equilibrato e razionale bilanciamento, a livello normativo, con la necessità, da un lato, di ripristinare la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni e i servizi indispensabili per la comunità locale, e, dall’altro, di tutelare i creditori”.
L’opzione ermeneutica seguita è, pertanto, quella di ritenere che le disposizioni sopra esaminate abbiano inteso concentrare, in capo alla gestione straordinaria, tutte le poste debitorie comunali, causalmente e funzionalmente correlate a scelte e condotte gestionali anteriori al dissesto, a prescindere dalla relativa qualificazione giuridica, dall'eventuale sopravvenienza al dissesto e dall'intervenuta emanazione, in proposito, di pronunce giurisdizionali
5. L’orientamento che distingue la competenza amministrativa da quella contabile
Nonostante l’intervento nomofilattico della Plenaria del Consiglio di Stato, l’orientamento cosiddetto “sostanziale” non sembra aver sopito i dubbi sull’organo competente ad adottare il provvedimento di acquisizione sanante in regime di dissesto.
La Sezione Autonomie della Corte dei Conti, con una importante pronuncia di coordinamento della giurisprudenza contabile, pur affermando di concordare con l’orientamento dei Giudici Amministrativi, ha apportato alcuni correttivi.[6]
In via generale la Corte riconosce il principio di diritto, secondo cui rientra nella competenza dell’Organismo Straordinario di liquidazione gestire i debiti correlati a prestazioni di servizio professionale contrattualizzate entro il 31 dicembre dell’esercizio precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, ma ne esclude alcune fattispecie.
Si tratta di quei casi in cui la particolare struttura del contratto o il carattere continuativo o periodico delle prestazioni determini la manifestazione degli effetti economici, connessi all’esecuzione, successivamente alla stipula del contratto.
In queste ipotesi, i giudici della Corte dei Conti si distanziano dal principio espresso dall’Adunanza Plenaria ritenendo che, per i contratti a prestazioni periodiche o continuative, attribuire la competenza all’O.S.L. in forza del solo aspetto genetico dell’obbligazione andrebbe a ledere “il diritto dei creditori con l’effetto di paralizzare anche l’erogazione dei servizi resi dalla gestione ordinaria che, proprio attraverso il dissesto finanziario, ha inteso ritrovare la propria serenità finanziaria”.
Il percorso logico giuridico, seguito dai giudici contabili, evidenzia che non occorre andare incontro alla metodologia contabile applicata nel tempo “bensì al fatto gestionale che ha determinato, in concreto, un arricchimento patrimoniale dell’ente ovvero un suo impoverimento (nel caso di sopravvenienze passive)”.
Solo in questo modo, nei contratti di durata, verrà garantita la par condicio creditorum e la regolare prosecuzione dell’attività di competenza dell’amministrazione ordinaria.
La Corte dei Conti aggiunge che “la corretta tenuta della contabilità armonizzata agevola ma non sancisce – da sola- l’esclusione o meno dalla massa passiva di fatti e atti verificatisi prima dell’esercizio di efficacia della dichiarazione di dissesto.
Ciò che determina l’attrazione nella massa passiva è il fatto di gestione che abbia, in concreto, determinato una manifestazione economica (costo), con conseguente arricchimento o depauperamento patrimoniale”.
In tal modo, i giudici contabili escludono una interpretazione letterale della norma dell’art. 5 comma 4 del decreto legge n. 80 del 2004 che “finirebbe per imputare al dissesto tutta una serie di contratti che spaziano dai rapporti di lavoro alle prestazioni periodiche e continuative (acqua, luce e gas), dai contratti di mutuo ai contratti di locazione o di leasing, dai contratti di manutenzione pluriennale ai contratti per forniture di beni e servizi aggiudicati e vigenti per le quali si è in presenza di “obbligazioni giuridicamente perfezionate” le cui dimensioni finanziarie ed economiche non si sono ancora manifestate o, comunque, esaurite”.
Di conseguenza, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del decreto legge 29 marzo 2004 n. 80, vanno attratte alla competenza dell’O.S.L. tutte le prestazioni riferibili a contratti ad esecuzione istantanea e contratti a prestazioni periodiche o continuative che sono state già eseguite e per le quali non sia invocabile un rimedio risolutorio o restitutorio. Quindi andrà svolta una valutazione in concreto della natura del contratto: ad esempio, anche nel caso di una consulenza questa potrà avere la natura di contratto ad esecuzione istantanea o differita che si esaurisce in un’unica prestazione, ovvero di un contratto di durata le cui prestazioni vanno rese nel tempo. E in quest’ultimo caso le prestazioni realizzatesi dopo il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato saranno da imputarsi sul bilancio della gestione ordinaria.
L’intervento della Corte dei Conti rappresenta, pertanto, un’erosione, almeno con riguardo alle fattispecie dei contratti di durata, di quel principio sancito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui in capo all’Organismo Straordinario di liquidazione va attribuita un’ampia competenza per tutti i debiti correlati a “fatti e atti di gestione” antecedenti all’ipotesi di bilancio stabilmente riequilibrato.
Anche sul piano della competenza amministrativa alcune recentissime pronunce del Tar Sicilia e Campania hanno manifestato una distanza rispetto a quanto statuito dai Giudici di Palazzo Spada accogliendo una nuova analisi della fattispecie concreta che ha portato ad aderire ad una soluzione intermedia e, in parte, differente dai due orientamenti analizzati nei paragrafi precedenti.
I giudici siciliani e campani operano una necessaria distinzione tra la competenza amministrativa, in ordine alla scelta di acquisire o restituire il bene, da attribuire alla gestione ordinaria e la competenza contabile di “liquidazione del titolo di spesa” di spettanza, invece, dell’Organismo Straordinario di liquidazione.
L’opzione seguita non è altro che l’evoluzione del principio, già sancito dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui gli organi istituzionali devono occuparsi del “futuro” dell’ente, attraverso la gestione ordinaria, mentre gli organi di liquidazione devono gestire “il passato” procedendo a ripianare il pregresso indebitamento.
In questo quadro, la scelta dell’Amministrazione di restituire il bene, previa sua riduzione in pristino stato, ovvero di acquisirlo ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 42 bis o ad altro titolo, non può che afferire alla gestione “futura” dell’ente.
Questa conclusione trova concordi i giudici su un principale argomento legato alla natura discrezionale della scelta amministrativa sottesa all’acquisizione sanante.
A questo va aggiunto una ulteriore argomentazione che seppure non fatta propria dai giudici, appare inestricabilmente connessa alle finalità perseguite con la procedura di acquisizione sanante.
Come è noto, la vicenda dell’occupazione (quale che sia la sua forma di manifestazione: di fatto, occupazione usurpativa o occupazione acquisitiva) ha per presupposto una condotta illecita dell’Amministrazione volta a comprimere il diritto di proprietà del privato che può venire meno, tra i vari modi, anche mediante l’acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis del D.P.R. n. 327/2001.
Ebbene, il legislatore disciplina tale modalità acquisitiva chiarendo che può essere svolta solo dopo che siano “valutati gli interessi in conflitto”.
Proprio questo giudizio valutativo, anche in un ente in regime di dissesto, non può essere sottovalutato.
Infatti, l’art. 42 comma 2, lett. l), del d.lgs. n. 267/2000 riserva ogni decisione in materia di acquisti e alienazioni immobiliari al consiglio comunale.
Il Consiglio di Stato che si è pronunciato su tale norma ha chiarito che “secondo tale disposizione devono essere adottati con delibera consiliare gli acquisti e alienazioni immobiliari, le relative permute, gli appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta, del segretario o di altri funzionari, includendo così anche l'ipotesi di acquisto di immobili disciplinata dall' art. 42 -bis del D.P.R. n. 327 del 2001”. [7]
L’attribuzione di tale scelta al Consiglio Comunale è correlata ad un’amplissima e rilevante discrezionalità[8] in capo all’organo di indirizzo, in coerenza con l’esigenza di valutare l’esistenza di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” volte all’acquisizione, anche all’esito di un’effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati.
Questo concetto è stato ribadito dalla recentissima pronuncia del Tar Sicilia del 2024, secondo cui “l’amministrazione è chiamata ad assumere preliminarmente una decisione frutto di un giudizio di natura discrezionale non riconducibile alla mera liquidazione di crediti di natura patrimoniale (derivanti o meno da titolo giudiziario) né consistente nella diretta emanazione di un atto amministrativo che contempli il titolo di spesa, rispetto alla quale il dissesto dell’ente non può determinare effetti preclusivi”[9].
L’attribuzione della competenza ad adottare tale scelta discrezionale in capo al Consiglio Comunale è giustificata, secondo la predetta pronuncia, dalla natura “esclusivamente tecnico contabile” dell’attività posta in essere dall’O.S.L. che, in quanto tale, è priva dei connotati della discrezionalità amministrativa.
In tal senso si è espresso anche il Tribunale amministrativo della regione Campania, in una pronuncia del 30 giugno 2023, nella quale ha aggiunto che l’organo straordinario di liquidazione “sarà eventualmente competente all’esito della scelta discrezionale (tra la restituzione e l’acquisizione) che il Comune deve tutt’ora compiere e dai cui dipendono anche la natura e l’entità delle conseguenti obbligazioni, di facere e di dare, queste ultime sole di competenza, anche amministrativa, della commissione di liquidazione”.[10]
Questa giurisprudenza che ha prospettato il dualismo di competenze (amministrativa e contabile) pone, come detto, a fondamento di questa opzione ermeneutica, la diversa natura delle scelte adottate dalla gestione ordinaria rispetto a quelle dell’organo liquidatore che opererebbe, invece, solo “mere valutazioni di ordine tecnico contabile in sede di ricognizione della situazione debitoria dell’Ente”.
Tale conclusione trova conforto anche in pronunce recenti del Consiglio di Stato secondo cui “l'organo di liquidazione non effettua mai valutazioni caratterizzate da discrezionalità amministrativa, a fronte delle quali sarebbero configurabili posizioni di interesse legittimo, ma compie meri accertamenti o, tutt'al più, valutazioni di ordine tecnico, nei confronti delle quali si pongono e permangono situazioni di diritto soggettivo”. [11]
Lo Scrivente, nel redigere il presente lavoro, ha ritenuto di particolare rilievo anche un ulteriore aspetto di natura teleologica non considerato da questa giurisprudenza: l’interesse pubblico perseguito dai due attori della gestione dell’Ente in fase di dissesto è sicuramente differente.
Nel caso dell’O.S.L., infatti, il fine del risanamento dell’ente sul piano contabile permea ogni atto amministrativo adottato.
Agli organi istituzionali dell’Ente, invece, spetta, perseguire, nell’ambito della gestione ordinaria dell’ente, anche finalità di pianificazione e valorizzazione del territorio che non possono essere rimesse ad un organo liquidatore.
Il provvedimento di acquisizione sanante, nonostante il termine generalmente utilizzato per la sua definizione, non costituisce una sanatoria quanto piuttosto un procedimento espropriativo semplificato che unisce in sé la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio.
Muovendoci in tale cornice, laddove debbano essere adottate scelte discrezionali funzionali al miglior perseguimento dell’interesse pubblico comunale quale, ad esempio, una pianificazione urbanistica che consenta alla cittadinanza di disporre di infrastrutture sociali e sportive, queste non potranno che essere rimesse all’organo deputate a farle, ossia il Consiglio Comunale.
Al contrario, l’interesse pubblico perseguito dall’Organismo liquidatore è sicuramente quello di risanamento dell’ente e della “gestione pregressa” al fine di consentire la continuità di esercizio dell’Ente locale.
La dottrina più recente ha, peraltro, definito lo stretto legame tra espropriazioni e pianificazione nella materia urbanistica quale emblema della discrezionalità più ampia che in qualsiasi altro ramo della pubblica amministrazione.
D’altronde il potere comunale di autodeterminarsi in ordine all’assetto e utilizzazione del proprio territorio trova il fondamento costituzionale negli art. 5 e 114 comma 2 della Costituzione.
Nel caso in cui l’Ente nel procedere all’acquisizione al proprio patrimonio di un bene del privato conseguente alla realizzazione di un’ opera pubblica non potrà che effettuare valutazioni concernenti “le attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” che richiedono una complessa valutazione di elementi che non sono riducibili all’esclusiva convenienza economica e alle conseguenze finanziarie, ma anche agli interessi pubblici da soddisfare, alla limitatezza delle risorse e agli interessi privati pregiudicati.
Motivi questi che non possono che far ritenere, sul piano amministrativo, la competenza in capo alla gestione ordinaria.
Per quanto concerne, invece, l’aspetto contabile la competenza permane in capo all’Organismo Straordinario di liquidazione.
Infatti, in consonanza alla giurisprudenza costituzionale e alle pronunce della Plenaria sopra esaminate, la procedura di risanamento divisata dalle norme inerenti il dissesto recate dal Titolo VIII, Capi II-IV del d.lgs. 267/2000, risulta informata all’esigenza di assicurare il ripristino degli equilibri di bilancio degli enti locali in crisi, “in guisa da impedire che debiti sostanzialmente imputabili alle precedenti gestioni amministrative confluiscano nella gestione corrente”, onde assicurare, per il futuro, la sostenibilità finanziaria del bilancio e la par condicio creditorum.[12]
Tale opzione ermeneutica, tracciata dalla giurisprudenza in esame, risulta coerente anche con quell’orientamento della giurisprudenza amministrativa che distingue l’ammissibilità del giudizio di ottemperanza nei confronti di un ente in dissesto a seconda che debba essere adottato un obbligo di “facere” o di “dare”[13] .
Difatti, ove l’Amministrazione debba, in forza del decisum, esercitare un potere di natura discrezionale non riconducibile alla mera liquidazione di crediti di natura patrimoniale, derivanti o meno da titolo giudiziario, risulta ammissibile il ricorso in ottemperanza.
Di contro, ove si tratti di obblighi di liquidazione di un credito di natura pecuniaria il ricorso dovrà dichiararsi inammissibile per effetto dell’art. 248 comma 2 del d.lgs. 267 del 2000 in forza del quale non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti dell’ente per i debiti che rientrano nella gestione liquidatoria.
In considerazione di quanto fin qui esposto, non seguire l’orientamento dell’Adunanza Plenaria e optare per la distinzione tra competenza amministrativa e contabile ha sicuramente il pregio di consentire all’Ente locale la possibilità di deliberare l’“acquisizione sanante”, esprimendo una scelta tipica di discrezionalità amministrativa, in coerenza con i propri obiettivi strategici.
E, in accordo con l’orientamento della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, i debiti correlati a “fatti o atti” di gestione potranno, invece, essere correttamente imputati, secondo un criterio sostanziale e non formale o pecuniario, all’organo liquidatore.
[1] Cfr. ex multis: Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 1340 del 2020 in www.giustizia-amministrativa.it
[2] Cfr. Cons Stato, Ad. Plen., sent. 9 febbraio 2016 n. 2 in www.giustizia-amministrativa.it
[3] Cfr. Cons. Stato, IV, ord. 22 luglio 2019 n. 5139, Cons. Giust. Amm. Sicilia, sent. 31 luglio 2017 n. 367 in www.giustizia-amministrativa.it
[4] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. 9 aprile 2018, n. 2141 in Foro it., 2018, III, 302;
[5] cfr. sent. Corte Edu 24 settembre 2013, n. 43780/2004, De Luca c. Italia
[6] Cfr. Corte dei Conti, Sez Autonomie, delib. n. 21 del 18 dicembre 2020;
[7] cfr. ex plurimis: C.d.S., sez. IV, 10 maggio 2018, n. 2810; T.A.R. Toscana, sez. I, 15 maggio 2020, n. 572; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 6 dicembre 2019, n. 698 in www.giustizia-amministrativa.it
[8] cfr. Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71; C.d.S., ad. plen., 9 febbraio 2016, n. 2 in www.giustizia-amministrativa.it
[9] Cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. V, sent. 18 marzo 2024, n. 997 in www.giustizia-amministrativa.it
[10] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, sent. 30 giugno 2023, n. 3950 in www.giustia-amministrativa.it
[11] cfr. ex multis Cons. Stato Sez. V, Sent., 19 luglio 2022, n. 6238; Consiglio di Stato, Sez. V, 2 ottobre 2012 n. 5170; TAR Campania Napoli, Sez. V, 20 febbraio 2020 n. 811 e 3 maggio 2019 n. 2353; TAR Piemonte, Sez. II, 17 aprile 2014 n. 6739
[12] Cfr. Corte cost., 21 giugno 2013, n. 154;
[13] Cfr. ex plurimis C.G.A. Sicilia, sent. 8 aprile 2024, n. 285 in www.giustizia-amministrativa.it;
1. Sono molteplici i profili problematici del decreto-legge sulla sicurezza pubblica del Governo presieduto da Giorgia Meloni (d.l. n. 48/2025). Si può dire che esso sfida irrimediabilmente le caratteristiche essenziali del sistema delle fonti, dell’equilibrio dei poteri del governo parlamentare, e della dialettica tra “autorità” e “libertà” disegnati dalla Costituzione. C’è una stretta connessione tra le tre dimensioni: l’una è legata all’altra, sicché le critiche che riguardano un aspetto si riverberano sugli altri in maniera necessaria e inscindibile, aumentando il tasso di problematicità di scelte legislative che, singolarmente assunte, potrebbero anche avere una ragione politica di sostegno, ma che, tutte insieme, non ne manifestano alcuna se guardate con le lenti della Costituzione. La politica, quella nobile arte del governo di una società, non può sfuggire alle maglie della “Repubblica”, che assicura tutte le manifestazioni concrete della sovranità popolare alle “forme” e ai “limiti” stabiliti dalla Costituzione.
Titolo e Preambolo del d.l. denunciano un contenuto plurimo ed eterogeno: sicurezza pubblica, tutela del personale in servizio, vittime dell’usura, ordinamento penitenziario da un lato; misure di prevenzione e contrasto al terrorismo e criminalità organizzata, beni sequestrati e confiscati e controlli di polizia (capo I); sicurezza urbana (capo II); tutela personale delle Forze di Polizia, Forze Armate, Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, organismi dei servizi segreti (capo III); vittime dell’usura (capo IV); ordinamento penitenziario (capo V) dall’altro.
Si può obiettare che la giurisprudenza costituzionale ha fino ad ora permesso anche una decretazione d’urgenza dal contenuto non omogeneo e “connotata da notevole latitudine” (sent. n. 146/2024), se – questo l’aspetto che emerge – tra le diverse disposizioni sussiste un legame teleologico, una “omogeneità di scopo”, dando luogo a una “normativa unitaria sotto il profilo della finalità perseguita” (sent. n. 151/2023). Questa precisazione esprime tutte le difficoltà del giudizio di legittimità costituzionale sulla politicità irrelata alla decretazione d’urgenza e, quindi, le contraddizioni che lo stesso giudice delle leggi non riesce a oltrepassare. Resta da dimostrare, tuttavia, che, nel nostro caso, quella condizione sia stata soddisfatta. Quale sarebbe questa ratio? Potrebbe esserlo il cappello, bon à tout faire, della “sicurezza pubblica”?
È stato sostenuto, molto efficacemente, che questo d.l. sarebbe manifestazione di una “ossessione securitaria” del governo e della sua maggioranza parlamentare (V. Manes). Si tratta di un giudizio senza appello. Ma questa lettura, politologica, non può valere a condannare il d.l. in punto di illegittimità. Anzi, rischia di conseguire un esito opposto, contribuendo ad assolverlo, proprio perché potrebbe rappresentare l’alibi politico e la trama unitaria per giustificare le molteplici disposizioni che ne costituiscono l’ossatura.
Nondimeno, nella Relazione di accompagnamento si legge che l’obiettivo è quello di colmare “lacune e criticità” delle normative in materia di politica della pubblica sicurezza coerenti con gli indirizzi del governo “in ambito securitario”. Il ricorso al d.l. serve per “una immeditata e più incisiva risposta sanzionatoria e dissuasiva nei confronti di gravi fenomeni delinquenziali che rappresentano una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica, determinano una crescente percezione di insicurezza tra i cittadini ed espongono, inevitabilmente, a grave pericolo l’incolumità fisica delle Forze di polizia”.
Una simile giustificazione, se ha un senso sul piano soggettivo dei motivi, non può risolvere la questione della ricerca di una ratio obiettiva alla decretazione d’urgenza e alle disposizioni di carattere ordinamentale che essa introduce. Solo guardando alle nuove fattispecie in materia penale, sono stati contati 11 nuovi reati e 11 nuove circostanze aggravanti. Non era mai accaduto che con un d.l. si modificasse in modo così generoso il nostro sistema sanzionatorio criminale. Se in passato, in questo e in quel precedente, non sono mancati d.l. in materia penale e con disposizioni che, come stavolta, sono entrate in vigore immediatamente, il d.l. n. 48/2025 rappresenta certamente un unicum per la latitudine e l’intensità punitiva esercitati in sol colpo.
2. Sulla sussistenza dei presupposti costituzionali va notato che nel Preambolo – senza alcuna motivazione specifica, come esigerebbe l’art. 15 della legge n. 400/1988 – si gioca con le parole, a volte ritenendo (solo) la “necessità ed urgenza” (riferita alle materie dei capi 1, 2 e 5), a volte considerando la “straordinaria necessità ed urgenza” (in ordine ai contenuti dei capi 3 e 4). Le opposizioni parlamentari hanno denunciato l’assenza dei presupposti, per il fatto di avere, il governo, trasferito i contenuti di un progetto di legge (AC n. 1660, di iniziativa dello stesso esecutivo) in un d.l. prima che quello fosse approvato in via definitiva, “scippando” il Parlamento dei suoi poteri legislativi (la “trasposizione” è avvenuta in passato altre due volte: d.l. n. 149/2013, d.l. n. 238/2000).
Si è realizzata, di nuovo, quella trasformazione del d.l. in un “improprio disegno di legge ad urgenza garantita”, stigmatizzato dalla giurisprudenza perché “sacrifica in modo costituzionalmente intollerabile il ruolo attribuito al Parlamento nel procedimento legislativo” (sent. n. 146/2024).
La contraddizione tra le due vie (legge o decreto) non giustifica la decretazione d’urgenza. A maggior ragione per la gravità delle conseguenze derivanti dall’applicazione immediata delle nuove fattispecie penali. La disomogeneità dei procedimenti sostiene – e, aggiungo, a fortiori – la tesi delle opposizioni parlamentari. Se rapportiamo questo d.l. n. 48/2025 alla prassi delle ultime legislature, emergono le fratture, sempre più larghe, tra il modello costituzionale e la realtà. La decretazione d’urgenza è lo strumento privilegiato di legislazione (oltre il 39% del totale sono leggi di conversione), portato ad effetto mediante votazione di questioni di fiducia (oltre il 59% delle conversioni), sfruttando la scorciatoia del “monocameralismo alternato” (nella XIX Legislatura ha riguardato la totalità dei d.l. approvati dal governo, in tutto 93 casi). Da questo punto di vista, il d.l. n. 48 è solo l’ultimo, e il più grave, in ordine di tempo, di una serie ormai lunghissima di violazioni della Costituzione scritta e performativa.
Le forze di resistenza effettiva sono state, finora, totalmente insufficienti. La giurisprudenza costituzionale, nel campo dei vizi di forma, ha manifestato un atteggiamento di self restraint che non si rinviene nella medesima misura in altre circostanze, nelle quali, di fronte a esigenze sostanziali di protezione dei diritti, viceversa, il “suprematismo giudiziario” ha mostrato i suoi muscoli, ai limiti dello sconfinamento. La politicità della valutazione sui presupposti ha condotto a rendere effettivi i “limiti” costituzionali più volte richiamati solo in situazioni marginali e a fronte di violazioni abnormi: il divieto di reiterazione, la caducazione di singole disposizioni (di d.l. o della legge di conversione) per “evidente” mancanza dei presupposti, la necessaria “omogeneità” tra la causa e il contenuto della decretazione. Ciò nonostante, resta lo sfondo costituzionale che quella giurisprudenza lascia intravvedere, senza riuscire a osservarlo e a giustiziarlo fino in fondo.
3. La pretesa “equiparazione” tra legge ordinaria e decreto-legge è il frutto di una lettura che fraintende il testo della Costituzione, finendo per giustificare la prassi, con il richiamo alla stessa Costituzione, ridotta, però, ad un “pezzo di carta” avente solo valore “riflessivo” della realtà.
Il rapporto tra legge ordinaria e decretazione “avente forza di legge” è quello che corre tra una regola e la sua eccezione. Fin dall’incipit, infatti, l’art. 77 Cost. ricorda che il “governo non può senza delegazione delle camere adottare decreti aventi forza di legge”. La disciplina della decretazione d’urgenza, da questo punto di vista, rappresenta un’eccezione all’eccezione. Non c’è bisogno di ricordare che questo rapporto riflette le caratteristiche del governo parlamentare, che affida alle Camere la funzione legislativa (art. 70 Cost.), e al governo, in situazioni particolari, l’esercizio di poteri di normazione primaria comunque subordinati alla o condizionati dalla legge del Parlamento (artt. 76 e 77 Cost.). Il Parlamento, cioè, come luogo di rappresentanza di tutti gli interessi della Nazione (sent. n. 192/2024), e non solo quelli della maggioranza parlamentare – che, comunque, non è mai il mero riflesso della volontà del governo (anche se taluno risolve la fusione tra la maggioranza parlamentare e il governo in un atteggiamento di servile genuflessione della prima verso il secondo) – nel quale tutte le forze politiche e, soprattutto, le minoranze e l’opposizione devono essere dotate di poteri e strumenti in grado di contrastare le decisioni dell’indirizzo politico governativo.
Le caratteristiche “formali” del d.l., del resto, contraddicono una normazione primaria avente le caratteristiche di quella di cui qui discutiamo. Il d.l. è fonte di “provvedimenti provvisori”, ossia non di norme generali ed astratte, ma, all’opposto di ben diverse “misure concrete” di immediata applicazione senza intermediazione normativa, la cui efficacia è in ragione di un caso straordinario e nei limiti di esso e, perciò, naturalmente “provvisoria”. I decreti-legge non sono adeguati a sostenere normazioni destinate a durare stabilmente. La loro forza deve essere, comunque, necessariamente proporzionata e sufficiente all’emergenza che si tratta di fronteggiare. Su questo punto, la Corte costituzionale ha fatto davvero poco: l’unico caso è stata l’illegittimità della riforma delle province mediante un d.l. annullato proprio per l’insostenibilità costituzionale di introdurre norme stabili con un atto precario (sent. n. 230/2013). Un caso unico? Non è altrettanto eclatante un d.l., come il n. 48/2025, che riscrive – addirittura – molte norme penali che limitano le libertà fondamentali della persona umana?
4. La prassi dell’abuso della decretazione d’urgenza, del monocameralismo alternato e di fatto, delle questioni di fiducia sistematiche, trasforma il governo parlamentare in una forma di “tirannia della maggioranza” contro la quale la Costituzione deve (tornare ad) essere un baluardo insormontabile e, soprattutto, effettivo. Il common (non)sense delle forze politico-parlamentari su questi elementari principi di diritto costituzionale che, quando sono al governo inopinatamente se ne dimenticano e quando all’opposizione altrettanto improvvisamente se ne rammentano, dimostra la “forza negativa” di una convenzione materiale del tutto contra Constitutionem, diventata, per quell’accordo tacito dei partiti, difficilmente sovvertibile. Contro la quale, però, non solo dobbiamo resistere come cittadini, ma come giuristi dobbiamo lottare in nome del “diritto”, l’etica della nostra professione.
Se la Corte costituzionale dichiara la sua impotenza, appare difficile pretendere che a tale situazione supplisca il Presidente della Repubblica. Nessuno può escludere che, in concreto, non siano occorsi interventi (non pubblici, come di consueto) di moral suasion. Ciò che il Presidente della Repubblica fa o non fa è comunque molto, anche se non è sufficiente. Nondimeno, rebus sic stantibus, è credibile che il ruolo politico-costituzionale del Capo dello Stato possa spingersi fino alla soglia di alterare gli equilibri raggiunti, su questi problemi, dalle forze politiche, dal Parlamento e dal governo? Come potrebbe un Capo dello Stato di una Repubblica parlamentare invertire una prassi su cui la classe politica e le stesse istituzioni rappresentative hanno vedute sostanzialmente convergenti? È la “forza normativa” del fatto, lo ripeto, che sta avendo il sopravvento sulla Costituzione scritta e performativa. Il problema, uno dei tanti, è come invertire questo paradosso.
5. L’altro grave vulnus di questo e di tanti altri d.l. è la scrittura di norme materialmente penali. La critica, ovvia e scontata, è che così facendo si viola la riserva di legge assoluta stabilita dall’art. 25.2 Cost. Anche questa argomentazione mostra l’usura alla luce di una prassi istituzionale di segno diametralmente opposto.
S’è certificato (dal Comitato per la legislazione) che, solo in questa Legislatura, sono stati 6 (su 94 emanati) i d.l. contenenti disposizioni penali (nella precedente erano 12 su 146). La latitudine del d.l. n. 48/2025 non è stata finora mai raggiunta, come ho ricordato. La contro obiezione, ora come ieri, da parte dell’attuale maggioranza e del suo governo e di quelli precedenti, è che l’equiparazione tra legge ordinaria e decreto-legge permette di rispettare la riserva di legge.
Nella giurisprudenza Corte costituzionale convivono due argomenti. In uno dei suoi precedenti più impegnativi si può leggere che “non si può affermare, in linea di principio, che i decreti-legge non possano toccare fattispecie e sanzioni penali”. Altrimenti “verrebbe introdotto un limite al contenuto dei decreti-legge non previsto dall’art. 77”, un limite, si aggiunge, “che non può essere desunto dal principio di riserva di legge in materia penale”, perché tale riserva è “osservata anche da atti aventi forza di legge (cfr. sent. n. 194 del 1974), purché nel rigoroso rispetto dei presupposti costituzionali inerenti” (sent. n. 330/1996, p. n. 3.1). In un altro caso, invece, l’art. 25 Cost. è interpretato come un “principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione” (sent. n. 230/2012, p. n. 7).
Ancora una volta siamo al cospetto di una contraddizione retorica che “nol consente”. Dal punto di vista del giudice delle leggi, però, sarebbe opportuno scegliere in via definitiva quale delle due letture è quella più aderente alla ratio della Costituzione. Una strada da seguire è quella di ribaltare il ragionamento svolto fino ad ora. Non si deve partire dal rapporto tra riserva di legge e decretazione d’urgenza, ma proprio dalla cornice costituzionale di quest’ultimo. Solo riconoscendo che il d.l. è un’eccezione alla legislazione parlamentare si può contestare credibilmente la non assimilabilità tra l’una e l’altra al fine di ricorrere alla sanzione penale. Del resto, il discorso non può essere limitato, esclusivamente, all’interno di un ragionamento intorno alle fonti del diritto, alle riserve di legge, al rapporto tra atti normativi. La “forma” delle fonti presuppone, ancora una volta, determinati rapporti tra i poteri di governo e, cosa per nulla trascurabile come dirò tra poco, una specifica dialettica tra autorità e libertà.
Se la Corte volesse davvero ergersi a “custode della Costituzione” dovrebbe sfruttare l’occasione che le si presenterà a breve per dichiarare, anziché di questa o di quella disposizione, l’illegittimità radicale di un decreto-legge che altera tutti i postulati che sorreggono l’esercizio di questo potere eccezionale, in sé, e in un ambito come quello delle norme incriminatrici.
La forma repubblicana e democratica esige il primato dei valori della persona umana e la determinazione di limiti ai diritti fondamentali mediante atti legislativi che siano il riflesso di tutte le forze politiche e non solo espressione dell’arbitrio di una maggioranza politica e del suo governo. Per questo le riserve di legge sono, innanzitutto, il riconoscimento della funzione legislativa esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70), che solo previa delega legislativa (con determinazione di “principi e criteri direttivi”, per un “tempo limitato” e “oggetti definiti”) o in “casi straordinari di necessità ed urgenza” possono essere affidate a decisioni del governo. La responsabilità di quest’ultimo, nel definire i presupposti della decretazione, non fa venire meno la forza prescrittiva dei principi costituzionali. Mette in moto, per un verso, i meccanismi del controllo politico, della maggioranza e dell’opposizione. Non impedisce, non può farlo, di sottoporre ad uno scrutinio stretto di costituzionalità il rispetto del quadro costituzionale dei valori sostanziali e formali della Repubblica democratica.
Si aggiunge, ad esempio nella Relazione del Comitato per la legislazione, che l’immediata entrata in vigore delle nuove fattispecie penali finirebbe per violare il criterio della previa conoscibilità delle regole, integrando un’ipotesi di “ignoranza inescusabile”, secondo la notissima sent. n. 364/1988 sull’imputabilità penale.
È un argomento serio, ma spuntato. Ancora una volta è la prassi che “nol consente”. Tutti i decreti-legge in materia penale del passato hanno dato luogo a nuovi reati (o aggravanti) di immediata applicazione (come le altre disposizioni). L’argomento, inoltre, determina un cortocircuito. Se la conoscibilità delle norme penali sfavorevoli giustifica l’esistenza di un ragionevole lasso di tempo tra la previsione e la sua efficacia (anche al fine, va aggiunto, di rendere edotte le forze dell’ordine delle nuove fattispecie e per consentire al mondo giudiziario di adeguarsi), come rendere compatibile una simile finalità con l’immediata entrata in vigore del decreto-legge? È evidente che le due esigenze non possono essere conciliate ricorrendo all’art. 77 Cost. Il problema vero, quindi, è un d.l. in materia penale. Proprio le caratteristiche costituzionali di questo mezzo eccezionale di produzione del diritto, la cui forza sta proprio nell’immediatezza della risposta normativa di fronte a casi straordinari di necessità ed urgenza, ne provano la radicale inadeguatezza per offrire risposte sanzionatorie penali a problemi sociali ritenuti cruciali.
Va aggiunto, sviluppando questo ragionamento, che l’imputabilità di un reato è l’altra faccia della sussidiarietà tipica del diritto penale sostanziale: come si può ritenere logicamente compatibile un d.l. (che non abbia le caratteristiche di cui all’art. 77 Cost.) con la concezione che considera la sanzione penale l’extrema ratio cui l’ordinamento ricorre per proteggere la società?
6. Una questione sulla quale, ciò nonostante, non si è adeguatamente riflettuto è la causa su cui il d.l. n. 48/2025 si regge. Quella che dovrebbe rappresentare la ragion d’essere della disciplina, che – secondo il governo – potrebbe mettere al riparo la decretazione da eventuali censure di legittimità costituzionale. Mi riferisco al significato da dare alla “sicurezza pubblica” quale presupposto giustificativo. Questo è il nodo di tutta la vicenda.
Non c’è dubbio che la valutazione sia una questione squisitamente politica, rimessa agli organi titolari dell’indirizzo di maggioranza. Il problema è il senso costituzionale della sicurezza pubblica. Stanno ritornando al pettine, con questo d.l., alcune questioni fondamentali, che vanno alle radici del costituzionalismo. Non c’è bisogno di scomodare Thomas Hobbes per ricordare che la safety of the people è la stessa ragion d’essere dello stato moderno. Fatto si è che la sicurezza è un concetto vago, indeterminato, polisemico, che si presta a qualsiasi utilizzo. Già questo profilo dovrebbe giustificarne un uso molto osservato, ben lontano da quella “ossessione sicuritaria” sventolata come un vessillo dell’insicurezza collettiva da parte del principe di turno.
Se dagli usi impropri e politicamente orientati si passa al diritto costituzionale vigente si può notare che la sicurezza pubblica ha uno statuto giuridico definito, che non corrisponde affatto ad una sorta di “trump card” che può essere calata in qualsiasi occasione, a discrezione di chi è stato scelto dal popolo per governare. È ancora il valore costituzionale della “Repubblica democratica” che non lo permette.
La sicurezza è certamente uno dei valori costituzionali. Ma il suo “peso” in rapporto agli altri valori è quello proprio dei “concetti-limite”. Una dottrina della Costituzione come tavola di valori o di principi “equipollenti”, in cui tutti sono bilanciabili, non consente risposte soddisfacenti a questo proposito. È un tema su cui insisto ma, temo, senza troppo seguito. Eppure.
Se nel linguaggio comune sicurezza equivale, in negativo, ad assenza di pericolo e, in positivo, a certezza, in quello giuridico il concetto assume un senso differente se riferito alla sfera privata o alla sfera pubblica. Nella Costituzione essa si trova codificata in entrambe le dimensioni.
Nella sfera pubblica la sicurezza può significare “sicurezza della Repubblica” e “ordine e incolumità pubblica” (non mi occupo della nozione nuova e per certi versi ambigua di “sicurezza urbana”, il cui significato è talora fatto coincidere con quello di ordine pubblico e sicurezza, talora con il più duttile concetto di “governo di prossimità”). Nella prima accezione, la nozione indica un’esigenza di protezione dell’unità e dell’integrità della Repubblica democratica, sia all’esterno, sia all’interno, quale precondizione per l’esistenza di una comunità politica, di uno stato, di una Costituzione. Nella seconda, sicurezza equivale ad uno stato di pacifica e ordinata convivenza. Secondo un’interpretazione che può ritenersi ius receptum in dottrina e nella giurisprudenza – con riferimento all’ambigua nozione di “ordine pubblico” che ha finito per assorbirne le manifestazioni – l’unico modo di rendere costituzionalmente conforme il concetto è quello di tradurlo in senso “materiale” e non “ideale”. La ragion d’essere di norme sulla sicurezza come incolumità pubblica è quella di vietare azioni che possano ledere in concreto beni fondamentali (vita, libertà, proprietà). In questa accezione stretta, la sicurezza pubblica non solo rileva come uno dei compiti dello stato e del diritto (art. 117.2, lett. h), ma è specificatamente assunta dalla stessa Costituzione quando se ne serve per individuare i “limiti” che possono essere legittimamente e in casi limite posti ad alcuni diritti di libertà. Così, l’art. 14.3 quando prevede che “gli accertamenti e le ispezioni” nel domicilio privato possono essere disposti “per motivi (…) di incolumità pubblica” purché “regolati da leggi speciali”; l’art. 16 quando dice che “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salve le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi (…) di sicurezza (…), aggiungendo che “nessuna restrizione può essere determinata per ragioni politiche”; l’art. 17, in materia di libertà di riunione, quando esplicita che per quelle “in luogo pubblico deve essere dato preavviso alla autorità, che possono vietarle solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”; infine quanto alla libertà di impresa economica privata l’art. 41.2 allorché impone che non possa svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza”. Solo la riduzione semantica del “limite implicito” del cosiddetto ordine pubblico al suo significato materiale e non ideale può giustificare restrizioni della fondamentalissima libertà di manifestazione del pensiero, la cui piena garanzia è il termometro di una democrazia effettiva.
Nella dimensione “privata”, la sicurezza va connotata diversamente, a seconda che riguardi la persona umana oppure le sue azioni. Nel primo caso il concetto coincide con la sfera della sicurezza personale, presidiata dalla garanzia dei diritti di libertà personale, domicilio, circolazione e soggiorno, libertà e segretezza delle comunicazioni private. Nel secondo, essa riguarda la sicurezza nello svolgimento di attività umane, come quella sportiva, lavorativa, di istruzione, formazione e ricerca, di intrapresa economica ecc.
7. A quali di questi significati si rivolge il d.l. n. 48/2025? Si parla genericamente di “sicurezza pubblica”: secondo l’intentio, essa concernerebbe la prima delle due dimensioni.
Il punto chiave, però, di là della qualificazione e della latitudine, è che l’interpretazione-attuazione che ne viene data con questo provvedimento è esattamente rovesciata rispetto alle traiettorie della Costituzione. Per essere chiari. In base alla nostra Carta non solo il rapporto tra libertà e sicurezza va inteso in termini di regola a eccezione, ma la sua soluzione va risolta, caso per caso, in maniera proporzionalmente adeguata, nel senso che quanto maggiore è il limite che la sicurezza pubblica richiede nei confronti della sfera della libertà (individuale, sociale, politica), tanto maggiore deve essere la ragione obiettiva che la sorregge. Viceversa, in molte fattispecie del d.l. è la sicurezza pubblica la norma, e l’eccezione è la garanzia dei diritti della persona. Il solo fatto, poi, di evocare una qualsiasi motivazione in termini di sicurezza pubblica viene ritenuta necessaria, sufficiente, e proporzionata a restringere fondamentali diritti della persona. È la più plateale vittoria della forza sulla forma del potere.
Lasciamo ai sociologi e ai criminologi la dimostrazione circa la corrispondenza (astratta o effettiva) tra l’allarme sociale evocato dal governo e la risposta securitaria offerta dal d.l. Quel che mi interessa sottolineare è che in molte delle nuove fattispecie penali la dialettica sicurezza-libertà sia proprio in quei termini invertiti rispetto a quelli di cui la Costituzione ci parla.
I nuovi reati “antiterrorismo” (art. 1) sono la punizione del “terrorismo della parola o dello scritto”: colpiscono chi si procura o detiene o divulga scritti contenenti informazioni su armi, esplosivi et similia. Potrebbe essere perseguito anche uno studente o uno studioso che sta svolgendo ricerche. Si puniscono penalmente, al pari di atti di violenza, fatti di mera disobbedienza civile: come i sit-in contro la costruzione della “tav” (sostituendo la sanzione amministrativa con la reclusione sino a un mese e la multa fino a 300 euro: art. 14), o come le proteste pacifiche negli istituti penitenziari, accomunando alle “rivolte violente” le “condotte di resistenza passiva”, anche quoad poenam ma del tutto irragionevolmente e sproporzionatamente (art. 26). Lo stesso può dirsi per l’assimilazione circa la partecipazione ad “una rivolta” di gruppi di stranieri nei centri di trattenimento (che non sono carceri!) tra “atti di violenza”, “minaccia” e, ancora, “resistenza passiva” (art. 27). Superando lo stesso Codice Rocco si prevede la possibilità di disporre la detenzione (in istituti di custodia attenuata) di donne incinte e madri con prole fino a un anno senza nessun riguardo per i valori della maternità e della neonatalità (art. 15). Gli altri reati e le aggravanti, che portano ad inasprimenti sanzionatori davvero importanti, hanno il senso di restringere i margini delle libertà costituzionali di soggetti vulnerabili, in maniera ingiustificata e sproporzionata se si applicano, caso per caso, oltre al buon senso, i criteri della giurisprudenza costituzionale. Per non parlare della misura di prevenzione del “Daspo Urbano”, oltre che a prostitute, accattoni, ubriachi estesa ai soggetti denunciati o condannati anche con sentenza non definitiva nel corso dei 5 anni precedenti (art. 13).
Le norme, poi, che si riferiscono a speciali forme di tutela nei confronti delle forze di polizia, delle forze armate, dei vigili del fuoco, si presentano del tutto ingiustificate se, per farlo, si assume la categoria della sicurezza pubblica come incolumità dei cives. Il nuovo reato di “lesioni semplici” ai danni di ufficiali e agenti (art. 20), gli incrementi sanzionatori e le sanzioni pecuniarie per il depauperamento e l’imbrattamento di beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche (art. 24), la tutela economico-legale per agenti e militari (estesa al coniuge o al convivente del dipendente deceduto, artt. 22 e 23), la tutela delle funzioni istituzionali della Guardia di finanza e delle Forze di polizia che partecipano a missioni internazionali (art. 29 e 30), l’ampliamento delle condotte scriminabili per gli agenti dei servizi di intelligence mediante l’ampliamento dei reati per i quali non è opponibile il segreto di Stato (art. 31), l’autorizzazione al porto d’armi “senza licenza” per gli agenti di pubblica sicurezza quando non in servizio (art. 28), mirano all’incolumità pubblica o alla protezione dei titolari della “forza pubblica”? Dov’è finita quella cultura liberale che aveva ispirato i fondamenti del diritto penale europeo a partire dal nostro Cesare Beccaria?
8. Il fondo del d.l. n. 48/2025 è disvelato. La ratio che ne sorregge la disciplina positiva non è la garanzia dell’incolumità pubblica nel senso costituzionale, ma la “sicurezza dell’autorità” e l’ “insicurezza” di emarginati, fragili, donne, minorenni, migranti, resistenti e oppositori, innalzando limiti arbitrari e sproporzionati all’esercizio di alcune libertà fondamentali, da quella di manifestare liberamente il proprio pensiero, alla libertà di riunione in tutte le sue forme, alla libertà di impresa economica privata (vedi la norma che vieta qualsiasi attività dedicata alla produzione della canapa: art. 18). Un vulnus all’essenza di una democrazia, che proprio le minoranze e le opposizioni dovrebbe presidiare. Se la Costituzione fosse stata considerata, nessuna o quasi delle disposizioni approvate e convertite in legge sarebbe stata scritta così. Ma la prassi politico-parlamentare e il clima complessivo del Paese non lo consentono.
È stato detto che, in molti casi, si tratta di disposizioni prive di effetto, di difficile se non impossibile applicazione. Che però determineranno – va aggiunto – un ulteriore incremento del contenzioso, e aumenteranno, anziché ridurre, l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. È del pari chiaro che molte delle previsioni, specie quelle in materia penale, per evidenti ragioni di (non) offensività, indeterminatezza e (non) proporzionalità sanzionatoria saranno destinate a cadere di fronte alla giurisprudenza costituzionale sull’individualizzazione della responsabilità penale.
Il vero problema di questo testo è che rappresenta una minaccia tutt’altro che astratta ma molto concreta nei confronti dello stato di diritto e della garanzia dei diritti di libertà, Uno schiaffo alla Repubblica democratica e alla sua Costituzione. E, quindi, una violenza esercitata nei confronti dei cittadini, cui si promette, in cambio di una minore libertà, una protezione niente affatto rassicurante mediante “il braccio violento di un decreto-legge”.
Sul tema si veda anche: Sul Pacchetto sicurezza varato con decreto-legge, La “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Note critiche a partire dal D.d.l. “Sicurezza” di Antonio Fabio Vigneri, Il DDL Sicurezza e il carcere di Fabio Gianfilippi, Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria, È compito della Repubblica. Note sul DDL Sicurezza di Enrico Grosso.
Contributo già apparso qui https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/it/la-lettera/04-2025-il-decreto-legge-sicurezza/rovesciare-la-costituzione-performativa-sicurezza-in-cambio-della-liberta.
QUESITO n. 1
Il primo dei quattro referendum sul lavoro si propone di ottenere la abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti introdotta con il decreto legislativo n. 23 del 2015.
Con questa riforma è stato istituito il cosiddetto contratto a tutele crescenti che si applica ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015. Il contratto a tutele crescenti è un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che non ha alcuna differenza sostanziale con il normale rapporto di lavoro dipendente: l’unica differenza è rappresentata dalla disciplina sul licenziamento illegittimo.
Sul punto occorre chiarire subito un dettaglio non insignificante: quando si discute di tutela contro il licenziamento, non ci si riferisce a un qualunque recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, ma solo all’espulsione illegittima del lavoratore. Il licenziamento motivato e legittimo non dà luogo a reintegrazioni o risarcimenti. Il licenziamento contro il quale sono previste tutele è solo quello nullo o illegittimo.
Attualmente ai dipendenti assunti dalle imprese con più di 15 dipendenti prima del 7 marzo 2015 si applica l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla riforma Fornero nel 2012, mentre ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 si applica la normativa che il referendum intende abrogare.
Nella sua versione originaria, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sanciva una regola molto semplice: in caso di licenziamento illegittimo sia per motivi formali che per motivi sostanziali il lavoratore aveva sempre diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno patito pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla reintegrazione effettiva.
In sostanza si tratta di una forma di risarcimento in forma specifica o tutela reale che ripristina la situazione di fatto precedente all’atto illecito. Il ripristino della situazione precedente all’illecito non esclude comunque il risarcimento dell’ulteriore danno patrimoniale o non patrimoniale eventualmente subito. Con la tutela per equivalente, invece, si rimedia al pregiudizio subito dal lavoratore solo attraverso la elargizione di una somma di denaro.
La riforma Fornero del 2012 prima ed il Jobs act successivamente nel 2015 hanno marginalizzato la reintegrazione, configurando il risarcimento del danno (la c.d. tutela per equivalente) come ipotesi generale di rimedio al licenziamento invalido: la reintegrazione è stata prevista infatti solo in casi eccezionali. Tale capovolgimento di prospettiva è stato fortemente ridimensionato a seguito di numerose sentenze della Corte costituzionale.
Attualmente, dunque, la normativa del 2015 applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 prevede:
a) per tutti i casi di licenziamenti discriminatori e nulli per le varie ipotesi di violazione di norme imperative prevista dalla legge la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi dalla data del licenziamento alla data della effettiva riammissione in servizio (norma applicabile anche nella ipotesi di datori di lavoro con meno di 15 dipendenti);
b) per i licenziamenti illegittimi intimati per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo e giusta causa) la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un massimo di 12 mensilità nel caso in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore e nella ipotesi in cui la contrattazione collettiva preveda per quel determinato illecito contestato in modo specifico una sanzione conservativa (tale ipotesi è stata aggiunta per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 129/2024): in sostanza nei casi in cui il datore di lavoro licenzia il lavoratore per una condotta per la quale il codice disciplinare prevede espressamente una sanzione conservativa, la conseguenza sanzionatoria è la reintegrazione, mentre per tutte le altre ipotesi residue è previsto un indennizzo tra un limite minimo di 6 ed un limite massimo di 36 mensilità di retribuzione quantificato sulla base dell’anzianità di servizio e di altri criteri;
c) nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (il c.d. licenziamento per motivi economici ed organizzativi) è prevista, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 128/2024, la reintegrazione con il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un limite massimo di 12 mensilità nella ipotesi in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, mentre negli altri casi, come ad esempio nella ipotesi di mancata ricollocazione del lavoratore in mansioni equivalenti oppure in mansioni inferiori, al lavoratore spetta solo l’indennizzo sempre con i limiti tra 6 e 36 mensilità;
d) per i licenziamenti collettivi (ossia i licenziamenti previsti per le ristrutturazioni aziendali e le riorganizzazioni del lavoro) il solo indennizzo (sempre con il limite minimo di 6 ed il limite massimo di 36 mensilità) sia per i casi di violazione delle procedure sindacali che per i casi di violazione dei criteri di scelta.
Nel caso in cui il referendum raggiungesse il quorum e avesse esito positivo, anche ai dipendenti assunti a partire dal 7 marzo 2015 si applicherebbero le misure sanzionatorie disciplinate dall’art. 18 Stat. Lav., così come modificato dalla “Legge Fornero” del 2012 che si applicano attualmente ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Ebbene la c.d. riforma Fornero, così come rimodulata a seguito di alcune sentenze della Corte Costituzionale, ha previsto
e) per tutti i casi di licenziamenti discriminatori e nulli per violazione di norme imperative previste dalla legge la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi dalla data del licenziamento sino alla data della effettiva reintegrazione (norma applicabile anche nella ipotesi di datori di lavoro con meno di 15 dipendenti);
a) per i licenziamenti soggettivi e per giusta causa la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi con un limite massimo di 12 mensilità, quando viene accertata l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore o quando il Giudice rileva la applicabilità al fatto contestato di una sanzione conservativa, anche nella ipotesi in cui l’addebito contestato non sia tipizzato in modo specifico dal contratto collettivo applicato, nonché il solo indennizzo con un limite minimo di 12 ed un limite massimo di 24 mensilità nelle ipotesi residue;
b) per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un massimo di 12 mensilità, quando viene accertata l’insussistenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro o la violazione dell’obbligo di ricollocazione in azienda, mentre l’indennizzo con un limite minimo di 12 ed un limite massimo di 24 mensilità di retribuzione per tutte le altre ipotesi;
c) per i licenziamenti collettivi per ristrutturazione e riduzione del personale la reintegrazione per i soli casi di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e l’indennizzo da 12 a 24 mensilità di retribuzione per i casi di violazione delle procedure sindacali.
Ebbene sussistono ancora differenze di trattamento a seconda che si applichi l’art. 18, così come modificato dalla riforma Fornero oppure il D.Lgs. n. 23 del 2015.
Infatti il decreto n. 23 del 2015, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 129 del 2024), prevede la reintegrazione nella ipotesi in cui il fatto contestato sia insussistente o il contratto collettivo preveda per quella specifica condotta in modo espresso una sanzione diversa dal licenziamento, come il rimprovero scritto, la multa o la sospensione dal lavoro: ciò significa che per un inadempimento lieve, non specificatamente contemplato dal contratto collettivo tra le sanzioni conservative (e ciò accade frequentemente, in quanto le clausole dei contratti collettivi sono spesso generiche), il licenziamento, pur essendo illegittimo, può non comportare la reintegrazione, ma un semplice indennizzo.
Ad esempio il lavoratore, assunto dopo il 7 marzo 2015 e licenziato per un ritardo anche minimo nell’inizio della attività lavorativa, se il ritardo non è contemplato in modo espresso dal contratto collettivo applicato come ipotesi di illecito disciplinare cui applicare una sanzione conservativa come la multa o la sospensione dal lavoro, può ottenere giudizialmente un semplice indennizzo, mentre nella stessa ipotesi il lavoratore, assunto prima del 7 marzo 2015 cui si applica l’art. 18, può ottenere la reintegrazione sul posto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni.
Inoltre con il Jobs Act spetta al lavoratore il semplice indennizzo e non la reintegrazione nella ipotesi di licenziamento per motivi economici o organizzativi, ad esempio per soppressione del posto di lavoro o riorganizzazione della struttura, anche quando viene provato in giudizio che il datore di lavoro avrebbe potuto collocare il dipendente in altro posto disponibile (cd. violazione dell’obbligo di repechage).
Ugualmente al lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 spetta il solo indennizzo e non la reintegrazione nel caso di un licenziamento collettivo in cui vengono violati i criteri di scelta previsti dalla legge, come l’anzianità di servizio o i carichi di famiglia.
Non è pertanto corretto affermare che, con l’eventuale successo del referendum ed il conseguente ritorno alla disciplina Fornero, i lavoratori nella ipotesi di licenziamento illegittimo otterrebbero sempre e comunque solo un indennizzo tra le 12 e le 24 mensilità, ossia una tutela deteriore rispetto all’importo previsto dal Jobs Act a titolo di indennizzo tra un limite minimo di 6 ed un limite massimo di 36 mensilità. Come è stato rilevato, il rimedio dell’indennizzo è divenuto un rimedio assolutamente residuale, in quanto, a seguito delle numerose sentenze della Corte Costituzionale che si sono succedute negli ultimi anni, lo schema che prevedeva l’indennizzo come rimedio generale e la reintegrazione come ipotesi sanzionatoria eccezionale è stato integralmente capovolto: la reintegrazione rappresenta attualmente il rimedio tendenzialmente generale sia con riferimento all’impianto normativo previsto dalla riforma Fornero che in relazione al Jobs Act.
A tal proposito occorre anche ricordare che il lavoratore, a seguito della sentenza del Giudice che dispone la reintegrazione, preferisce nella maggioranza dei casi non rientrare in azienda ed esercitare la c.d. opzione alternativa, sostitutiva della reintegrazione, che prevede a carico dell’ex datore di lavoro il versamento di 15 mensilità di retribuzione, oltre il pagamento delle retribuzioni con i versamenti contributivi.
È evidente, dunque, che se vi sono più possibilità normative di ottenere la reintegrazione (nella disciplina della riforma Fornero le possibilità di ottenere la reintegrazione sono più accentuate rispetto al c.d. Jobs act), più alta è la possibilità per il lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere con la opzione sostitutiva un ristoro economico più corposo.
QUESITO n. 2
La norma interessata dal quesito è l’art. 8 della L. 604/1966: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”
La norma citata disciplina le sanzioni del licenziamento disciplinare ed economico dichiarato illegittimo applicabili ai datori di lavoro con un numero di dipendenti inferiore a 15 assunti prima del 7 marzo 2015 e che, se avesse successo il referendum di cui al quesito n. 1, si applicherebbe anche ai dipendenti assunti dal 7 marzo 2015
Orbene la norma in questione prevede esclusivamente un indennizzo con un limite minimo di 2,5 ed un limite massimo di 6 mensilità di retribuzione. La norma prevede la possibilità dell’innalzamento del limite massimo a 10 e 14 mensilità, ma tale ipotesi può verificarsi solo in alcuni casi, ossia quando il lavoratore ha un’anzianità di servizio di 10 anni per elevare il tetto a 10 mensilità e di 20 anni per elevare il tetto a 14 mensilità e che sia dipendente di un datore di lavoro che occupa più di 15 prestatori di lavoro se distribuiti su più unità produttive collocate in comuni diversi e nel complesso fino a 60 dipendenti.
Nel caso in cui il referendum raggiungesse il quorum e avesse esito positivo, il Giudice che ritenesse illegittimo il licenziamento potrebbe condannare il datore di lavoro a un risarcimento a partire da 2,5 mensilità senza un tetto massimo. In sostanza il Giudice in questa ipotesi accerterebbe il danno effettivo che il licenziamento provoca in capo al lavoratore.
Sicuramente un tetto massimo di sei mensilità per lavoratori che hanno una anzianità di servizio notevole è ben poca cosa, dal momento che molto spesso le imprese con meno di 15 dipendenti hanno una caratura economica e finanziaria superiore alle imprese con più di 15 dipendenti.
Il rischio paventato da alcuni secondo cui il Giudice del lavoro, nella ipotesi di superamento del quorum e vittoria del sì, possa riconoscere un risarcimento sproporzionato ed eccessivo appare infondato, in quanto la norma che residuerebbe dalla abrogazione imporrebbe comunque al lavoratore l’onere di provare il danno in concreto effettivamente subito. È evidente che il datore di lavoro avrebbe sempre l’onere di provare il c.d “aliunde perceptum”, ovvero la riduzione del danno derivante dalla circostanza che il lavoratore ha percepito altri redditi dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Inoltre va ricordato che il giudice è sempre tenuto a spiegare con la motivazione le ragioni per le quali ha deciso di optare per quella determinata quantificazione, tenendo conto della anzianità di servizio del lavoratore, delle dimensioni dell’impresa e del numero dei dipendenti della stessa.
Peraltro la stessa Corte costituzionale ha affermato che, anche per i lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti, il risarcimento deve essere effettivo e dissuasivo verso la tenuta di condotte illecite.
Ed allora non si comprende per quale ragione alla ipotesi del danno derivante dal licenziamento illegittimo non debba applicarsi lo stesso principio che si applica in ogni ipotesi di danno provocato da un terzo. Se infatti il proprietario di un fondo che subisce un danno ad un immobile di proprietà da parte di un terzo che ha attraversato il fondo ha il diritto di pretendere dal soggetto danneggiante il risarcimento integrale del danno effettivamente subito, lo stesso principio civilistico di copertura integrale del danno effettivamente subito deve valere anche per il rapporto di lavoro.
QUESITO n. 3
La norma interessata dal terzo quesito referendario è l’art. 19, primo comma, del d.lgs. n. 81 del 2015 “Apposizione del termine e durata massima”: “1. Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all'articolo 51; b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il ((31 dicembre 2025)), per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori.”
Il terzo quesito è finalizzato ad ottenere l’abrogazione di alcune porzioni di disposizioni dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, ossia la norma che stabilisce le condizioni alle quali è possibile assumere un lavoratore con un contratto a termine.
In base alla disciplina vigente più volte modificata nel 2023 e nel 2024 l’assunzione a termine può avvenire senza la necessità di specificare alcuna motivazione o giustificazione per i primi 12 mesi. Una volta superato tale termine, e comunque nel rispetto del limite massimo di 24 mesi, è possibile per un datore di lavoro assumere con un contratto a termine solo al fine di sostituire lavoratori assenti e nei casi previsti dalla contrattazione collettiva, oppure ancora sino alla fine dell’anno 2025 per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle singole parti.
In sostanza, con il superamento del quorum e l’eventuale vittoria dei sì, l’utilizzo del contratto a termine sarebbe sempre subordinato alla esplicitazione di motivi specifici indicati dalla legge, ossia ragioni sostitutive di altri lavoratori assenti ad esempio per maternità, ferie, infortuni, aspettative o altro e nei casi previsti dagli accordi sindacali stipulati con le associazioni sindacali più rappresentative.
La novità della eventuale abrogazione sarebbe il venir meno della possibilità di assumere a termine senza alcuna motivazione per il periodo di 12 mesi. Attualmente infatti tali assunzioni non devono essere motivate.
Non vi è alcun dubbio che nel nostro ordinamento giuridico il contratto a tempo indeterminato rappresenti la forma comune dei rapporti di lavoro ed il contratto a termine una eccezione: è chiaro l’intento perseguito dai promotori del referendum di limitare il più possibile il ricorso da parte dei datori di lavoro al lavoro precario. Tuttavia la possibilità di ricorrere al contratto a termine per un anno senza l’onere di addurre motivazione appare un giusto compromesso tra le esigenze di tendenziale stabilità del posto del lavoro di lavoro del lavoratore e le esigenze di flessibilità perseguite dal datore di lavoro.
QUESITO n. 4
La norma interessata dal referendum è l’art. 26, comma 4, del d.lgs 81/2008: “Ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, l'imprenditore committente risponde in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell'Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA). Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.
L’art. 26 del Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è la norma che si occupa dei problemi di sicurezza che si pongono in caso di affidamento in appalto o subappalto di lavori, servizi e forniture all'interno dell’azienda o nell'ambito dell'intero ciclo produttivo della committente: il presupposto della applicazione della norma è che il committente abbia la disponibilità dei luoghi in cui si svolge la attività appaltata.
Il comma 4 prevede che il committente degli appalti, ossia la società che sceglie l’impresa appaltatrice risponda, insieme all’appaltatore o subappaltatore, dei danni alla salute con riferimento agli importi non coperti dalle indennità previdenziali ai dipendenti che operano nell’ambito dei lavori appaltati e che subiscano infortuni o contraggano malattie professionali in tale contesto ambientale: si pensi al danno alla salute permanente, al danno alla salute temporaneo, oppure al danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa.
In sostanza questa disposizione esclude la responsabilità solidale del committente in caso di infortunio subito da un lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, quando l’infortunio derivi da rischi specifici propri dell’attività dell’impresa esecutrice. Se l’evento lesivo è imputabile esclusivamente a un rischio tipico dell’appalto, il committente non ne risponde.
Ad esempio se una società della grande distribuzione affida la ristrutturazione di un proprio supermercato ad una impresa edile e un muratore dipendente di quest’ultima subisce un infortunio o muore durante la fase della demolizione o della costruzione, in base alla normativa attualmente vigente la società in questione non è tenuta a risarcire i danni all’operaio infortunato o alla sua famiglia in caso di decesso.
Con il successo del referendum la responsabilità si estenderebbe anche ai danni da violazione delle misure di sicurezza su tali rischi specifici ovviamente sempre in relazione a quelle attività che si svolgono nei luoghi a disposizione del committente.
L’idea che il committente debba rispondere, insieme all’appaltatore, dei danni subiti dal lavoratore, anche quando non ha una responsabilità diretta, potrebbe non essere ritenuta giusta, anche se occorre ricordare che la responsabilità risarcitoria solidale rappresenta anche uno strumento di tutela del lavoratore che non ha alcuna possibilità di intervenire sulla scelta dell’appaltatore e sull’organizzazione dell’appalto.
La responsabilità solidale può anche costituire uno stimolo per le società committenti a selezionare le imprese più affidabili ed a non utilizzare l’appalto come uno strumento per perseguire solo risparmi sul costo del lavoro. Per i lavoratori la estensione della responsabilità solidale comporterebbe anche una maggiore possibilità di tutela in quei casi di infortuni o malattie professionali non indennizzati perché l’appaltatore o il subappaltatore è insolvente (ipotesi non infrequente).
Tutti i contributi sui referendum dell'8 e del 9 giugno 2025 apparsi sulla nostra rivista si possono trovare qui.
Immagine: Diego Velázquez, Filatrici (La favola di Aracne), 1655, olio su tela, Museo del Prado, Madrid.
Sommario: 1. Il quesito referendario – 2. La normativa interessata dall’intervento abrogativo: la legge n. 91/1992 e i requisiti d’accesso alla cittadinanza per naturalizzazione – 3. La normativa di risulta in caso di approvazione del referendum – 4. Per un esercizio consapevole del diritto di voto: le effettive tempistiche di concessione della cittadinanza e il contesto europeo.
1. Il quesito referendario
Con più decreti del Presidente della Repubblica pubblicati in Gazzetta Ufficiale n. 75 del 31 marzo 2025, sono stati indetti cinque referendum abrogativi. Ai primi quattro, omogenei per materia in quanto tutti attinenti a norme in materia di diritto del lavoro e volti ad un ampliamento delle tutele dei lavoratori, se ne affianca un quinto che riguarda il diverso tema, da anni in discussione nel dibattito pubblico italiano, della modifica dei requisiti di accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri residenti sul territorio.
Il titolo del quesito assegnato dall’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione[1], che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo, è il seguente: “Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”.
Questo il testo del quesito referendario, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza nr. 11/2025: «“Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole "adottato da cittadino italiano" e "successivamente alla adozione"; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: "f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.", della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza"?».[2]
2. La normativa interessata dall’intervento abrogativo: la legge n. 91/1992 e i requisiti d’accesso alla cittadinanza per naturalizzazione
Le disposizioni interessate dalla proposta di referendum abrogativo sono dunque quelle di cui alle lettere b) ed f) dell’art. 9, comma 1 della legge n. 91/1992, intitolata “Nuove norme sulla cittadinanza”.
La legge n. 91/1992 è un testo normativo fondamentale nell’ordinamento italiano, in quanto deputata alla disciplina dei criteri di acquisto della cittadinanza. Il principale tra questi criteri è il cosiddetto “ius sanguinis”, per cui è cittadino italiano il soggetto nato da un cittadino italiano[3]; il nostro sistema privilegia dunque l’acquisto della cittadinanza per discendenza, in contrapposizione con quegli ordinamenti che al contrario associano l’acquisizione della cittadinanza al fatto della nascita nel territorio dello stato (cosiddetto “ius soli”), al di là di ogni considerazione della cittadinanza dei genitori[4]. Si possono poi richiamare, quali ipotesi di maggior rilievo ed applicazione concreta, l’acquisto della cittadinanza dello straniero per matrimonio o unione civile con cittadino italiano[5] e del minore straniero per adozione da parte di cittadini italiani[6]. È poi prevista anche una forma di acquisto della cittadinanza per nascita sul territorio italiano, ma solo per il caso in cui i genitori siano ignoti, apolidi o non in grado di trasmettere la propria cittadinanza (diversa da quella italiana) ai figli sulla base delle leggi dello Stato di cui sono cittadini[7] (si può parlare, pertanto, di una forma di ius soli “marginale”[8]).
L’articolo 9 della legge 91/1992 disciplina invece le modalità di acquisto della cittadinanza per “naturalizzazione”; di seguito si riporta il testo del primo comma dell’articolo, interessato dal quesito referendario:
“1. La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno:
a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall'articolo 4, comma 1, lettera c);
b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione;
c) allo straniero che ha prestato servizio, anche all'estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato;
d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica;
e) all'apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica;
f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”
L’articolo in questione è chiaro nel riconoscere la natura discrezionale del potere dello Stato di riconoscimento della cittadinanza allo straniero (come si evince dall’espressione “La cittadinanza italiana può essere concessa”): anche nel caso in cui questi sia in possesso dei requisiti delineati, in via alternativa, dalle lettere da a) ad f), non acquisisce automaticamente il diritto alla cittadinanza; lo straniero si troverà “solo” nelle condizioni di poter presentare una richiesta di concessione della cittadinanza per naturalizzazione, e la sua pretesa in tal senso nei confronti dell’autorità amministrativa viene qualificata in termini di interesse legittimo.[9] Nelle ipotesi delineate da ciascuna di queste disposizioni, infatti, come valorizzato dalla giurisprudenza di legittimità, resta in capo all’autorità amministrativa una valutazione di opportunità del riconoscimento della cittadinanza, che tiene conto di tutti gli aspetti da cui si può desumere che il richiedente sia effettivamente integrato nella comunità nazionale, sotto molteplici profili: conoscenza e osservanza delle regole giuridiche, assimilazione dei valori costituzionali e della cultura.[10]
In punto di requisiti di ammissibilità della richiesta di cittadinanza, poi, occorre effettuare alcune precisazioni. Innanzitutto, ove l’articolo 9 della legge 91/1992 richiede la “residenza legale sul territorio”, si riferisce non al periodo di soggiorno regolare dello straniero sul territorio, ovverosia alla mera titolarità di un permesso di soggiorno, essendo infatti necessario che lo straniero sia altresì iscritto all’anagrafe della popolazione residente. Nonostante la disposizione non lo espliciti, è poi ulteriormente necessario che la residenza legale sul territorio non sia interrotta, ad esempio a causa di un periodo di residenza all’estero.[11]
Un ulteriore requisito per la naturalizzazione è stato poi introdotto con il c.d. “Decreto Sicurezza” (D.L. n. 113/2018, convertito in legge n. 132/2018) ed è oggi previsto all’art. 9.1 L.91/1992, che subordina la concessione “al possesso, da parte dell'interessato, di un'adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER)”.
Nonostante la legge non contempli espressamente ulteriori presupposti di ammissibilità della richiesta di cittadinanza per naturalizzazione, in realtà la valutazione amministrativa tiene conto anche dell’adeguatezza del reddito dello straniero richiedente, in quanto con l’acquisto della cittadinanza lo straniero diventa destinatario degli obblighi di solidarietà economica e di partecipazione alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva di cui rispettivamente agli artt. 2 e 53 Cost. Nello specifico, la capacità contributiva del richiedente è valutata sulla base dei parametri di cui all’art. 3 del D.L. n. 382/1989, convertito in L. 8/1990 (in tema di esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria da parte dei titolari di pensione di vecchiaia). La giurisprudenza[12]ritiene poi applicabile anche alle domande di cittadinanza per naturalizzazione anche l’art. 6 della legge 91/1992, dettata in materia di domande di cittadinanza per matrimonio, per cui l’accesso alla cittadinanza è precluso in presenza di precedenti penali per uno o più dei delitti individuati al primo comma dell’art. 6 o di “comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica”[13], ovverosia di valutazione di pericolosità sociale del richiedente.[14]
3. La normativa di risulta in caso di approvazione del referendum
Il referendum sulla cittadinanza propone l’abrogazione di due norme del comma 1 dell’art. 9 legge n. 91/1992: la lettera f), di cui si richiede la totale eliminazione, e alcune parole della lettera b). Per quanto concerne l’intervento sulla lettera b), di seguito si pongono a confronto i testi della disposizione ante e post intervento referendario:
Testo attuale: “1. La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno: […] b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione.”
Testo come eventualmente modificato per effetto dell’approvazione del referendum cittadinanza: “1. La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno: […] b) allo straniero maggiorenne che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni.”
Obiettivo di strutturare il quesito in tal modo, prevedendo dunque due abrogazioni contestuali, di cui una totale ed una effettuata con la tecnica del “ritaglio”, ovverosia andando a intervenire su di una disposizione eliminandone specifiche parole in modo che essa assuma altro e diverso significato, è ottenere una normativa di risulta omogenea. Si raggiunge infatti al contempo il duplice risultato:
-dell’eliminazione del requisito di 10 anni di residenza legale sul territorio italiano per la concessione della cittadinanza allo straniero proveniente da uno Stato non appartenente all’Unione Europea;
- dell’estensione anche a questa categoria di stranieri del diverso presupposto per la concessione della cittadinanza della residenza legale sul territorio ininterrotta per 5 anni, previsto con riferimento a ben tre categorie di stranieri nella legge 91/1992: oltre ai cittadini di Stati extraeuropei maggiorenni adottati da cittadino italiano (l’ipotesi di cui all’art. 9 comma 1 lettera b), la disposizione su cui incide il “ritaglio” dell’abrogazione referendaria), anche gli apolidi (art. 9, comma 1, lett. E) e i cittadini di Stati extraeuropei cui è riconosciuto lo stato di rifugiato (art. 16, comma 2)[15]
Tale modifica non va in alcun modo ad incidere sulla caratterizzazione della concessione della cittadinanza come potere discrezionale dello Stato nei termini già chiariti: non è introdotto alcun diritto soggettivo dello straniero legalmente residente per cinque anni sul territorio all’acquisizione della cittadinanza italiana. Permangono altresì gli ulteriori requisiti di ammissibilità della richiesta di naturalizzazione già esaminati: residenza legale ininterrotta, reddito adeguato, conoscenza della lingua italiana, assenza di precedenti penali e di pericolosità sociale.
L’abrogazione referendaria, pertanto, ha quale unico effetto di dimezzare il periodo di tempo trascorso il quale lo straniero proveniente da paesi extra europei e legalmente residente in Italia può richiedere la concessione della cittadinanza.
4. Per un esercizio consapevole del diritto di voto: le effettive tempistiche di concessione della cittadinanza e il contesto europeo
Un importante aspetto di cui occorre tener conto, ai fini di comprendere l’effettivo potenziale impatto dell’approvazione del referendum sulla cittadinanza, è rappresentato dalle tempistiche attualmente necessarie per il riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione. Decorso il termine di 10 anni di residenza legale, dalla data di presentazione della domanda decorre poi il termine per la conclusione del procedimento previsto dall’art. 9 -ter della legge 91/1992, come modificato da ultimo dal D.L. 21 ottobre 2020, n. 130 (convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 173), e fissato in ventiquattro mesi prorogabili fino al massimo di trentasei mesi (nel caso in cui l’istruttoria sulla sussistenza dei requisiti richieda tempi più tempo per la sua conclusione), dunque un termine particolarmente lungo. Peraltro, per le domande presentate prima dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 9-ter di cui al D.L. 130/2020, il termine si estende a quarantotto mesi (quattro anni), in forza della disciplina precedentemente vigente.[16]
Tali tempistiche non subirebbero alcuna modifica in forza dell’approvazione del referendum, che non incide sull’art. 9-ter.: anche in caso di effettivo dimezzamento del tempo di residenza minima sul territorio, l’effettivo riconoscimento della cittadinanza per lo straniero extracomunitario non interverrebbe, di fatto, che dopo sette o financo otto anni di residenza regolare sul territorio.[17]
Si deve ulteriormente tener conto del fatto che la previsione di un requisito di residenza minima di 10 anni per l’accesso alla cittadinanza colloca l’ordinamento italiano tra i Paesi europei con la legislazione più restrittiva in materia di naturalizzazione, accanto ad Austria, Lituania, Slovenia e Spagna; peraltro, significativa è la recente innovazione normativa operata dalla Germania, che ha ridotto il requisito della residenza da 8 a 5 anni.[18]
In relazione a tale contesto, lo strumento referendario, per quanto per sua natura affatto adatto a realizzare una riforma organica della disciplina della cittadinanza, riforma di cui peraltro è evidentemente sentita la necessità nel dibattito pubblico e politico (ne può essere ritenuta segnale la recentissima approvazione del d.l. 28 marzo 2025, n. 36, pubblicato nella G.U. n. 73 del 28 marzo 2025, che introduce “disposizioni urgenti in materia di cittadinanza” e in particolare di trasmissione della cittadinanza iure sanguinis[19]), rappresenta tuttavia un importante mezzo, nell’inerzia del legislatore, per rinnovare l’ordinamento nazionale nella direzione di un adeguamento della disciplina agli standard europei, oltre che ad un contesto culturale e sociale nazionale profondamente mutato rispetto agli anni di approvazione della legge 91/1992.
[1] V. Ordinanza nr. 12/2024
[2] V. GU Serie Generale n.75 del 31-03-2025
[3] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 1 comma 1 lett. a
[4] Cf. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova 19759, 125 s
[5] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 5
[6] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 3 comma 1
[7] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 1 comma 1 lett. b
[8] Sul tema delle possibili declinazioni del requisito dello ius soli per l’acquisto della cittadinanza, v. ALESSIO RAUTI, Lo ius soli in Italia: alla vigilia di una possibile svolta?, in Rivista AIC, 2017, n. 3
[9] Cfr. CHIARA CUDIA, Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione e questioni di giurisdizione: alla ricerca della legalità sopita”, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2022, n. 2
[10] Come chiarito da Cass. civ., SU, 21 ottobre 2021, n. 29297
[11] Cfr. IRENE MARCONI, Cosa significa cittadinanza per naturalizzazione in Italia, https://www.altalex.com/, 15/10/2019
[12] Ex multis, Cons. St., sez. III, 14 maggio 2019, n. 3121
[13] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 6 comma 1 lett. c)
[14] Cfr. IRENE MARCONI, Cosa significa cittadinanza per naturalizzazione in Italia, cit.
[15] Cfr. PAOLO BONETTI, Il referendum popolare abrogativo in materia di cittadinanza italiana: ammissibilità e significato costituzionali, in Osservatorio Costituzionale, 2025, n. 3
[16] Cfr. http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it
[17] Cfr. ALBERTO GUARISO, Il referendum sulla cittadinanza, https://www.questionegiustizia.it/, 24/04/2025
[18] Cfr. LORENZO PICCOLI e altri, Il referendum sulla cittadinanza in Italia: un’opportunità per allinearsi all’Europa, https://firenze.repubblica.it/, 27/05/2025
[19] Cfr. VINCENZO ANTONIO POSO, Il referendum sulla cittadinanza. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Francesca Biondi Dal Monte e Giacomo D’Amico, 22/05/2025.
Tutti i contributi sul referendum del 8-9 giugno 2025 si possono trovare qui.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.