ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il terzo comma dell’art. 81 della Costituzione recita: “Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”.
Tutte le spese pubbliche entrano nel bilancio dello Stato e a ogni uscita deve essere necessariamente correlata un’entrata. Questa è, d’altro canto, la ragione per la quale l’art. 81 della Costituzione chiede l’indicazione di impegno, il quale vale sia per le leggi ordinarie che per le leggi costituzionali quando queste importino maggiori spese.
La legge di revisione costituzionale approvata il 30 ottobre 2025 sarà sottoposta al referendum (un referendum costituzionale e quindi senza la necessità del raggiungimento del quorum) il quale si svolgerà presumibilmente nel marzo 2026. Qualora non dovesse prevalere il NO, detta riforma determinerebbe un significativo aumento della spesa pubblica dovuto alla creazione di altri due organi di rilevanza costituzionale analoghi all’attuale unico Consiglio Superiore della Magistratura nonché di un’Alta Corte Disciplinare[1]. Tuttavia, la legge di revisione costituzionale, nella sua formulazione attuale, non contiene alcuna indicazione della valutazione dei costi aggiuntivi e dei mezzi per far fronte ad essi.
Appare dunque importante provare a valutare tali costi in modo da informare gli elettori italiani anche degli aspetti economici collegati alla riforma rispetto alla quale dovranno esprimersi in primavera.
In effetti, la questione della spesa pubblica interessa i cittadini italiani forse di più che non le carriere dei magistrati essendo essi già sottoposti a una pressione fiscale tra le più alte d’Europa[2].
Per avere un termine di paragone utile, vale la pena ricordare l’ultima revisione costituzionale approvata dagli elettori: quella del 2020, che ha ridotto il numero dei deputati da 630 a 400 ed il numero di senatori elettivi da 315 a 200.
Scopo dichiarato di tale legge era proprio quello di contenere la spesa pubblica. In effetti, al referendum tenutosi il 20 ed il 21 settembre del 2020, i cittadini italiani hanno condiviso tale esigenza di riduzione della spesa pubblica espressa dal legislatore confermando la legge con il 69,96% dei SI contro il 30,04 % dei NO. Il costo totale lordo annuo per ciascun parlamentare si aggira oggi intorno ai 168.000 euro, a cui si devono però aggiungere i costi per il funzionamento delle strutture e i contributi previdenziali a carico dell'istituzione, i costi indiretti come il personale di supporto aggiuntivo, la gestione degli uffici, e i costi a lungo termine come i vitalizi. Ciò porta il costo unitario a circa 200.000 euro annui. In conseguenza di ciò, la diminuzione di 335 parlamentari che gli elettori italiani hanno approvato con il referendum del 2020, ha comportato un risparmio per le casse dello stato che può essere stimato intorno ai 67 milioni di euro all'anno.
E’ interessante confrontare tale risparmio, con l’aumento di spesa che sarebbe prodotto dalla riforma costituzionale sulla carriera dei magistrati oggetto della prossima consultazione referendaria.
Facciamo un po’ di conti e vediamo nel dettaglio quali spese aggiuntive comporterebbe l’attribuzione a tre organi, dei compiti che attualmente sono svolti da uno solo.
Innanzitutto, lo stanziamento annuale per il funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura ammontava nel 2024 a circa 43 milioni annui [4], ma tale cifra è di recente cresciuta a seguito della Sentenza della Corte Costituzionale n. 135 del luglio 2025 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, del decreto-legge n. 66/2014, nella parte in cui fissava un limite massimo retributivo fisso e onnicomprensivo di 240.000 euro lordi annui per i dipendenti pubblici e quindi per quello che riguarda la componente laica del Consiglio Superiore della Magistratura. Possiamo quindi stimare che attualmente lo stanziamento annuale si debba aggirare intorno ai 47-50 milioni annui, una cifra che, moltiplicata per tre, salirebbe ad almeno 141 milioni con un incremento a causa della riforma di 94 milioni all’anno.
A questi costi va aggiunto quello relativo ai due immobili che dovrebbero aggiungersi alla sede dell’attuale Consiglio Superiore della Magistratura, il quale occupa il palazzo Bachelet in Roma. Infatti, se passasse la riforma, ne occorrerebbe uno per il Consiglio Superiore dei Pubblici Ministeri e un altro per l’Alta Corte Disciplinare.
Vediamo di quantificare anche tali costi.
Il canone di locazione per palazzi paragonabili al complesso di Palazzo Bachelet comporterebbe costi estremamente elevati. Dovrebbe trattarsi, infatti, di palazzi di prestigio (dovendo ospitare organi di rilevanza costituzionale, presieduti dal Presidente della Repubblica) e di grandi dimensioni dovendo includere una grande sala per l’assemblea plenaria, almeno una decina di sale per le attività delle Commissioni, uffici per i consiglieri e assistenti, uffici per il personale di supporto e amministrativo nonché cortili per le macchine di servizio e di regola per i funzionari. Si possono stimare tali costi con una cifra che si aggira attorno ai 4 milioni annui, o più, a seconda delle caratteristiche dell’immobile[5], con un aggravio quindi di circa 8 milioni annui rispetto alla spesa attuale. A questo si devono sommare i costi di adeguamento e allestimento, stimabili fino a 6 milioni di euro per ciascun edificio, cioè altri 12 milioni complessivi nel primo anno.
A conti fatti quindi l’effetto della triplicazione dei Consigli Superiori comporterebbe una spesa aggiuntiva di più di 114 milioni il primo anno e di 102 milioni all’anno a regime.
Di conseguenza, se l’esito del referendum non dovesse essere quello della vittoria del NO, la riforma costituzionale inciderà in negativo sulla spesa pubblica più di quanto non abbia inciso in positivo la riduzione del numero dei parlamentari di cui si è detto sopra il cui risparmio si è limitato a solo 67 milioni annui.
Si può naturalmente discutere sull’opportunità politica della riforma, ma non si può ignorare il suo impatto economico.
In un Paese in cui la pressione fiscale resta tra le più elevate d’Europa, e nel quale ogni intervento legislativo viene valutato anche alla luce del suo costo per i cittadini, appare singolare che una riforma tanto rilevante non sia stata accompagnata da alcuna analisi finanziaria.
Spetterà ora agli elettori, attraverso il referendum, valutare non solo il merito istituzionale del progetto, ma anche il prezzo che esso richiederebbe alla collettività.
[1] Attualmente la funzione disciplinare è esercitata da una sezione del CSM presieduta da un componete eletto dal parlamento e composta da un componente eletto dal parlamento, un magistrato di legittimità, due giudici di merito e un Pubblico Ministero. Si tratta di funzione giurisdizionale e le sentenze che emette sono ricorribili per Cassazione.
[2] Il 42.8% in Italia contro il 33.9% della media OECD e il 40.4% della media UE. Fonte OECD.
[3] Si consulti il sito https://www.camera.it/leg19/383?conoscerelacamera=4
[4] Si veda anche in proposito l’articolo apparso su Panorama https://www.panorama.it/attualita/politica/costi-csm
[5] Fonte: Osservatorio del Mercato Immobiliare di Roma. Tra l’altro, in base a un calcolo basato sui dati i palazzi storici e di prestigio richiedono inoltre un'alta manutenzione e offrono servizi esclusivi (ascensore, parcheggio, finiture di lusso, a volte giardini o cortili interni) difficilmente potrebbe essere inferiore a 350.000 euro al mese.
Ampiezza e portata della domanda formulata con il ricorso per l’ottemperanza: alcune brevi riflessioni (nota a T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 22 settembre 2025, n. 16354)
Sommario: 1. Breve inquadramento del tema. – 2. Il perimetro dell’azione di ottemperanza: note preliminari. – 3. L’oggetto dell’azione di ottemperanza a partire dalla sentenza del TAR Lazio. – 4. Conclusioni.
1. Breve inquadramento del tema.
La pronuncia del T.A.R. Lazio, Roma in commento rappresenta, nell’economia della vasta produzione pretoria in materia di ottemperanza[1], un momento di doverosa riflessione con riferimento all’ampiezza e alla portata delle domande agitate con il relativo ricorso nonché all’oggetto stesso del giudizio di che trattasi, avuto riguardo, in particolare, alla sorte di tutti quei profili che, acquisiti in causa, assumano rilievo impeditivo rispetto alla soddisfazione della pretesa azionata.
Anzitutto, in via preliminare, preme evidenziare che la vicenda trae origine da quanto appresso sintetizzato. Il ricorrente - titolare di concessione per occupazione del suolo pubblico - ha agito per l’ottemperanza della sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, n. 17063/2024, ove il giudice amministrativo ha parzialmente annullato il provvedimento della P.A. con cui, nel respingere un’istanza di adeguamento e ampliamento della concessione, ha altresì revocato la precedente concessione. Con specifico riferimento al rigetto - da parte dell’Amministrazione - della istanza di ampliamento richiesta dal ricorrente, il giudice di prime cure ha respinto le censure sollevate avverso il parere negativo formulato dalla Soprintendenza capitolina, mentre ha confermato i vizi agitati nella valutazione resa dalle altre strutture amministrative coinvolte, censurando, soprattutto, il modus procedendi, a causa del quale, in sostanza, il privato istante - per comprendere se e come fosse possibile realizzare un ampliamento della concessione - si era trovato costretto a presentare un progetto “al buio”, senza poter interloquire con gli uffici competenti e ottenere indicazioni.
Il ricorrente ha lamentato, quindi, in sede di ottemperanza, la mancata esecuzione della sentenza cit., deducendo di aver inviato nuovamente - a seguito della pronuncia - un progetto di revisione all’Amministrazione, chiedendo adeguato contraddittorio, senza tuttavia ottenere risposta alcuna. L’Amministrazione, costituitasi in giudizio, ha eccepito l’improcedibilità del ricorso, deducendo che - nelle more della lite e in esecuzione della sentenza in epigrafe - era stata rilasciata la concessione al ricorrente per l’occupazione di suolo pubblico permanente, confermando il rigetto del progetto di ampliamento sulla base del parere della Sovrintendenza capitolina previamente acquisito. Il ricorrente, adunque, insistendo nella domanda di ottemperanza, ha chiesto dichiararsi la nullità per violazione/elusione del giudicato del provvedimento appena citato, nella parte in cui respinge l’istanza di ampliamento (relativa a nuove ipotesi progettuali, mai vagliate dalla Soprintendenza) in quanto adottato senza alcun contraddittorio procedimentale, nonostante le statuizioni del giudice amministrativo sul punto.
Il giudice dell’ottemperanza, viste le posizioni supra, ha quindi rilevato - nell’accogliere le mende del ricorrente - che il provvedimento sopravvenuto della P.A. deve ritenersi «nullo per violazione/elusione del giudicato, ed improduttivo di effetti, nella parte in cui respinge l’istanza di ampliamento della concessione presentata dal ricorrente, perché con l’adozione dello stesso la P.A. si è limitata a richiamare il parere negativo della Sovrintendenza capitolina già previamente acquisito»; per contro, dalla ottemperanda sentenza, «scaturisce un vincolo conformativo per la P.A. con riguardo al modus procedendi per l’esame della domanda di ampliamento, nel senso che occorre avviare un dialogo collaborativo[2]con l’istante al fine di individuare congiuntamente le modalità tecniche e concrete per eventualmente modificare la concessione in essere».
2. Il perimetro dell’azione di ottemperanza: note preliminari
Anzitutto, come noto, nell’ambito del giudizio in oggetto[3], il c.p.a. ha cristallizzato la c.d. “polisemia” dell’ottemperanza (al di là della distinzione inerente alla riconducibilità dell’“attuazione” richiesta ad una “esecuzione” della sentenza o provvedimento equiparato[4]), con susseguenti più ampi ambiti di conformazione della successiva azione amministrativa in dipendenza del giudicato medesimo[5].
A tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, c.p.a. proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”[6]: anche questo non presenta caratteristiche che consentano di ricondurlo, in senso sostanziale, al novero delle azioni di ottemperanza[7]. Ciò emerge anzitutto dalla stessa terminologia usata dal legislatore, il quale - lungi dall’affermare che è l’azione di ottemperanza ad essere utilizzabile in questi casi - afferma che è il ricorso introduttivo del giudizio di ottemperanza (cioè l’atto processuale) ad essere a tali fini utilizzabile, ma risulta anche chiaro dalla circostanza che, a differenza dell’azione di ottemperanza, che è naturalmente esperita dalla parte già vittoriosa nel giudizio di cognizione o in altra procedura a questa equiparabile, in questo caso il ricorso appare proponibile dalla parte soccombente[8].
L’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 e ss. c.p.a. (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, comma 4, c.p.a.), porta ad affermare la nota polisemicità del giudizio e dell’azione di ottemperanza, dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria[9], il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato[10], e la cui comune giustificazione si rinviene nell’effettività della tutela giurisdizionale, pure alla luce dell’art. 24 Cost.
Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 c.p.a., deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto[11].
Ora, riconosciuto il carattere polisemico dell’azione di ottemperanza e la sua funzione naturale ed unitaria di strumento processuale di conformazione al giudicato dell’azione amministrativa ad esso conseguente, la giurisprudenza[12] ha individuato - per quanto qui di immediato interesse - pure i presupposti perché vi sia la conversione del rito in quello ordinario di cognizione, quando il giudice dell’ottemperanza non ritiene nullo (per elusione o violazione del giudicato) l’atto sopravvenuto, in particolare rilevando la necessità della sua impugnazione nel termine di decadenza (e non in quello, più lungo, di prescrizione dell’actio iudicati). Si è stabilito, quindi, non solo la necessaria proposizione di una specifica domanda, perché il giudice dell’ottemperanza possa dichiarare la nullità del provvedimento violativo o elusivo del giudicato, ma si è identificato nel giudizio di esecuzione la sede processuale naturale dello scrutinio dell’esatta conformazione dell’Amministrazione agli obblighi nascenti dal giudicato, riconoscendo chiaramente (ancorché implicitamente), l’automatica riconducibilità, entro il petitum dell’azione di ottemperanza[13], di tutte le domande logicamente implicate dalla richiesta al giudice della più completa e satisfattiva attuazione del dictum giudiziale[14].
L’oggetto del giudizio di ottemperanza, quindi, è rappresentato dalla puntuale verifica dell’esatto adempimento dell’obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione; detta verifica comporta per il giudice dell’ottemperanza un’attività di interpretazione del giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del comando, attività da compiersi esclusivamente sulla base della sequenza “petitum - causa petendi - motivi - decisum”[15] e alla luce dello stesso quadro processuale che costituito il substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si chiede l’esecuzione. La giurisprudenza, poi, ha altresì sottolineato che i vizi di violazione e di elusione del giudicato non sono configurabili quando la pronuncia del giudice comporti “margini liberi di discrezionalità”, in relazione ai quali l’Amministrazione può imporre nuovamente l’assetto di interessi che più ritiene congruo per l’interesse pubblico affidato alle sue cure, salvo il rispetto delle statuizioni di natura conformativa derivanti dall’impianto motivazionale del giudicato, al di fuori delle quali una situazione di inottemperanza non è neppure configurabile[16]. In altre parole, deve escludersi che qualsiasi ulteriore esercizio del potere amministrativo, collegato in qualunque modo ad una precedente pronuncia giurisdizionale, sia sottoponibile al sindacato di merito del giudice dell’ottemperanza[17].
Ebbene, nello svolgimento delle verifiche affidategli, il giudice dell’ottemperanza è chiamato in primo luogo a qualificare le domande proposte, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece riguardano il prosieguo dell’azione amministrativa e traendone le conseguenze necessarie sul piano del rito e dei poteri decisori[18]: nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emesso dall’Amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, ne dichiara la nullità; in caso di rigetto dell’azione di nullità, egli dispone la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione, ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a.
Dunque, alla configurabilità di differenti situazioni in sede di attività di esecuzione del giudicato e perciò di rinnovo della funzione amministrativa, in esito al giudicato di annullamento, corrisponde la linea di demarcazione tra azione di ottemperanza ed azione impugnatoria. In particolare, in caso di atti emanati nell’esercizio di una funzione connotata da discrezionalità, si ha violazione od elusione del giudicato solo qualora l’atto ulteriore contenga una valutazione contrastante con le statuizioni in esso contenute; ove invece i vizi ineriscano unicamente allo spazio valutativo rimesso dalla pronuncia di annullamento all’autorità amministrativa nel riesercizio della sua funzione, si configurano vizi di legittimità denunziabili in via cognitoria-impugnatori[19].
Al fine, quindi, di configurare un vizio di elusione o violazione del giudicato, non è sufficiente che l’azione amministrativa posta in essere dopo la formazione del giudicato intervenga sulla stessa fattispecie oggetto del pregresso giudizio di cognizione o alteri l’assetto di interessi definito. Al contrario, è necessario che la P.A. eserciti la medesima potestà pubblica, già esercitata illegittimamente, in contrasto con il contenuto precettivo del giudicato (cioè con un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza), così integrando una violazione del giudicato, ovvero che l’attività asseritamente esecutiva della P.A. sia connotata da un manifesto sviamento di potere diretto ad aggirare l’esecuzione delle puntuali prescrizioni stabilite dal giudicato[20], in tal guisa integrando l’ipotesi di elusione del giudicato. In altri termini, solo nel caso in cui dal giudicato scaturisca un obbligo così puntuale da non lasciare margini di discrezionalità in sede di rinnovazione, l’assunzione di provvedimenti in violazione di tale obbligo può essere fatta valere con il giudizio di ottemperanza, o nell’ambito dello stesso; se invece rimangono margini di discrezionalità, in cui sono stati esternati ulteriori e diversi motivi negativi, si è al di fuori dello spazio coperto dalla sentenza e gli atti successivamente emanati dalla P.A., pur riferiti ad un’attività rinnovata ora per allora, sono soggetti all’ordinario regime di impugnazione, in quanto è configurabile solo un vizio di legittimità, rilevabile e prospettabile nelle sedi proprie.
3. L’oggetto dell’azione di ottemperanza a partire dalla sentenza del TAR Lazio
Muovendo immediatamente alla pronuncia in commento, ivi si segnala, anzitutto e come detto supra, che oggetto dell’azione di ottemperanza è l’attuazione del giudicato, a fronte di una condotta dell’amministrazione che lo viola o lo elude tanto in modo inerte, quanto con l’adozione di provvedimenti aventi tale effetto[21]. Ciò premesso, come sottolineato pure dal Collegio nella pronuncia in commento, si deve quindi reputare che la domanda formulata con il ricorso per ottemperanza investa ogni profilo, purché acquisito in causa, che assuma rilievo impeditivo rispetto alla soddisfazione della pretesa azionata. In tale direzione, invero, l’art. 114, comma 4, lett. b) c.p.a. ha - a tal fine - attribuito al giudice dell’esecuzione il potere di rilevare d’ufficio eventuali nullità di atti che si frappongono all’attuazione del comando giudiziale, anche al di là dei limiti generali posti all’azione di nullità dall’art. 31 c.p.a.
Non a caso, l’art. 112 c.p.a. si limita a stabilire le condizioni di ammissibilità del ricorso per ottemperanza e, per quanto qui interessa, richiede la formulazione della domanda di attuazione dei provvedimenti indicati al comma 2, mentre l’art. 114, comma 4, c.p.a. descrive la latitudine dei poteri del giudice, in caso di accoglimento del ricorso.
In altri termini, adunque, come rilevato nella pronuncia in commento, «il giudice dell’ottemperanza è investito, per un verso, della potestà della cognizione piena del rispetto del giudicato e, quindi, della regola di azione stabilita con il dictumdella decisione di cui si domanda l’esecuzione e, per un altro verso, ove ne ravvisi la mancata attuazione, la violazione o l’elusione, dei poteri dispositivi catalogati all’art. 114, comma 4, c.p.a.».
Si consideri che la titolarità e l’esercizio di tali poteri si rivela, peraltro, del tutto funzionale alla compiuta attuazione del decisum (in un’ottica di piena effettività della tutela[22]) e alla conseguente conformazione ad esso dell’azione amministrativa e, come tale, automaticamente implicata dalla proposizione dell’azione di giudicato. Si consideri, non a caso, che kl giudizio di ottemperanza si svolge attraverso una triplice operazione logico-giuridica, comprensiva delle seguenti fasi: (i) interpretazione del decisum giurisdizionale (per l’appunto), al fine di individuare il comportamento doveroso per l’Amministrazione; (ii) accertamento del comportamento in effetti tenuto dall’Amministrazione; (iii)valutazione della conformità del comportamento tenuto dall’Amministrazione rispetto a quello che la medesima avrebbe dovuto tenere. L’attività di interpretazione del decisum giurisdizionale si sostanzia proprio attraverso la descrizione del contenuto dispositivo dei capi di pronuncia rispetto ai motivi di impugnazione dell’atto, secondo il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, ma non si esaurisce in essa. L’attività interpretativa è infatti indirizzata all’individuazione del contenuto precettivo della “regola del caso deciso”, con effetto conformativo sulla futura riedizione del potere, che potrà esprimersi senza limitazioni nel tratto lasciato libero dal decisum giurisdizionale, mentre resterà astretta dai vincoli nascenti dalla decisione, ovverossia dalle regole e principi sulla base dei quali il giudice della cognizione ha stabilito che il rapporto giuridico in contestazione fra le parti debba trovare la propria regolazione. In questo senso, l’attività di interpretazione del decisum è sempre attività di regolazione del rapporto giuridico, perché nel giudizio di cognizione la regula iuris è stabilita, mentre nel giudizio di ottemperanza, quella medesima regola è concretamente applicata[23].
Pertanto, perché il ricorso per ottemperanza risulti idoneo ad investire il giudice adito delle potestà cognitive e dispositive sopra indicate, è sufficiente che la causa petendi e il petitum siano coerenti con l’art. 112 c.p.a. e risultino adeguatamente dettagliati nell’atto introduttivo del giudizio ovvero (qualora il provvedimento elusivo sia sopravvenuto) in un successivo atto difensivo, perché il giudice dell’ottemperanza sia ritualmente investito del potere di dichiararne la nullità, ai sensi del combinato disposto degli artt. 21 septies della l. n. 241/1990 e 114, comma 4, lett. b), c.p.a.
Del resto, la peculiare giurisdizione di ottemperanza attribuita al giudice amministrativo presenta caratteri specifici in virtù dei quali non è, peraltro, nemmeno esclusa l’ingerenza del giudice nel merito dell’agire della P.A., giacché al medesimo giudice è espressamente attribuito un potere di giurisdizione anche di merito (art. 7, comma 6, c.p.a. e art. 134 c.p.a.), con possibilità non solo di sostituirsi all'amministrazione - nominando, ove occorra, un commissario ad acta a norma dell'art. 114, comma 4, lett. d), c.p.a.[24] - ma anche di procedere alla determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo ed alla emanazione dello stesso in luogo dell'amministrazione. Non a caso, in particolare, l’art. 114 c.p.a, da un lato, non limita il potere di emanazione diretta del provvedimento amministrativo interamente satisfattorio ai soli casi di attività vincolata della pubblica amministrazione, dall’altro, rimette al giudice amministrativo il potere di decidere, in relazione alla particolarità della fattispecie concreta, se adottare esso, nel caso di persistente inadempimento, le misure più idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento o l’emanazione dello stesso al posto dell’amministrazione ovvero se nominare un commissario ad acta[25].
Da qui discendono, peraltro, anche ulteriori - parallele e convergenti - riflessioni. In sede di ottemperanza alla sentenza sul silenzio, visto quanto supra, va da sé che non vi è, quindi, spazio per poter vagliare e valutare le modalità esecutive adottate, posto che la pronuncia impone solo uno specifico obbligo di provvedere, ma con contenuto non predeterminato, non trattandosi di atto vincolato. L’esecuzione della sentenza sul silenzio ha, cioè, una portata limitata in quanto la verifica dell'ottemperanza non può che limitarsi a verificare l'emissione di un provvedimento in linea e coerente con i presupposti individuati, spostandosi ogni verifica sulla legittimità dei provvedimenti della P.A. nella sede propria del giudizio impugnatorio[26]. Il che, invero, induce a interrogarsi - sebbene non sia questa la sede per ogni e più ampia considerazione in merito - pure sulla natura del commissario ad acta in simili scenari[27], dal momento che mentre nell’ambito del rito ordinario è assodato che detta figura sia un ausiliario del giudice, nel rito del silenzio tale commissario conserva delle proprie peculiarità, godendo di poteri ben più ampi rispetto alla pronuncia di mero accertamento dell’obbligo di provvedere (a mo’ di attività sostitutiva “piena”[28]). In questi casi potrebbe opinarsi che il commissario ad acta non sia tanto un ausiliario del giudice[29] ma, piuttosto, un vero e proprio ausiliario dell’amministrazione[30], in quanto ha l’obbligo non di adottare direttamente il provvedimento, visto che la sentenza non si può pronunciare in luogo dell’amministrazione, ma solo di adoperarsi affinché siano adottati tutti i presupposti affinché l’amministrazione si pronunci (es. convocazione della conferenza di servizi, ecc.)[31].
4. Conclusioni.
Alla luce di quanto sopra esposto, si ritiene, quindi, percorribile la soluzione dell’ammissibilità e, in ogni caso, della procedibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art.112 c.p.a. pur se non vi sia stata l’impugnazione del provvedimento sopravvenuto elusivo del giudicato, non potendosi ravvisare qualsivoglia preclusione o decadenza processuali in conseguenza della mancata impugnazione.
L’art. 112 c.p.a., infatti, si limita a stabilire le condizioni di ammissibilità del ricorso per ottemperanza - rito a dir poco elastico - e, per quanto qui di interesse, richiede la formulazione della domanda di attuazione dei provvedimenti indicati al comma 2, mentre l’art. 114, comma 4, c.p.a. descrive la latitudine dei poteri del giudice, in caso di accoglimento del ricorso. La lettura coordinata e sistematica delle due disposizioni vincola l’interprete a slegare - almeno, in parte, ossia nei sensi di cui supra - l’esercizio dei poteri (d’ufficio) attribuiti al giudice dell’ottemperanza dall’art.114, comma 4, c.p.a dal principio della domanda, tranne che per i casi espressamente previsti. Anzi, la lett. e) - sulla necessità di una specifica domanda per le astreintes[32] - costituisce un ulteriore riscontro all’opzione ermeneutica secondo cui per l’esercizio degli altri poteri ivi previsti non è necessaria la richiesta del ricorrente, in coerenza con la tradizione dell’istituto (rimessa alle ricostruzioni del giudice amministrativo) e con il noto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. La titolarità e l’esercizio di tali poteri, adunque, si rivela, come evidenziato nella pronuncia del TAR Lazio, del tutto funzionale alla compiuta attuazione del decisum (in un’ottica di piena effettività della tutela) e alla conseguente conformazione ad esso dell’azione amministrativa e, come tale, automaticamente implicata dalla proposizione dell’azione di giudicato.
Perché il ricorso per ottemperanza risulti, quindi, idoneo ad investire il giudice adito delle potestà cognitive e dispositive sopra indicate, è sufficiente - preme ribadire nuovamente - che la causa petendi e il petitum siano coerenti con l’art. 112 c.p.a. e risultino adeguatamente dettagliati nell’atto introduttivo del giudizio. Quanto alla causa petendi, è sufficiente che il ricorrente indichi il provvedimento di cui chiede l’attuazione e deduca la sua mancata esecuzione, mentre, in ordine al petitum, basta che, nelle conclusioni, chieda, senza l’uso di formule sacramentali, l’adozione dei provvedimenti più utili per disporre l’ottemperanza. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui sia sopravvenuto (al giudicato ed al ricorso d’esecuzione) un provvedimento che il ricorrente reputi violativo o elusivo del decisum, non è necessaria la sua formale impugnazione perché il giudice dell’ottemperanza sia ritualmente investito del potere di dichiararne la nullità. Se l’atto elusivo è stato emesso prima della proposizione del ricorso, non è indispensabile che il ricorrente indichi, nella sua epigrafe, gli estremi del provvedimento sopravvenuto come oggetto di impugnazione (né che ne deduca esplicitamente l’invalidità radicale, nel corpo dell’atto, né, infine, che nelle conclusioni domandi formalmente la declaratoria della sua nullità), mentre - se l’atto elusivo è stato emesso nel corso del giudizio d’ottemperanza - per la sua contestazione non occorre un atto notificato, bastando comunque una memoria difensiva (non rilevando la verifica del perimetro dei poteri del giudice e l’ambito di applicazione dell’art. 73, comma 3, del c.p.a., quando il ricorrente nulla abbia dedotto avverso l’atto emesso nel corso del giudizio d’ottemperanza, che risulti elusivo).
Compete, in definitiva, al giudice, una volta riscontrato il carattere violativo o elusivo (del giudicato) del provvedimento adottato dall’Amministrazione dopo che la decisione da eseguire è divenuta irrevocabile e che sia stato proposto il giudizio d’ottemperanza, adottare tutti i provvedimenti, tra quelli elencati all’art. 114, comma 4, c.p.a., che risultino strumentali alla più compiuta attuazione delle statuizioni contenute nel dictum giudiziale, ivi compresa, ovviamente, la dichiarazione della nullità dell’atto sopravvenuto con esso confliggente. Particolarmente significativo, in tal senso, risulta altresì il confronto tra l’art. 31, comma 4, del c.p.a. (che l’ultimo periodo dichiara espressamente inapplicabile al giudizio d’ottemperanza, che così non è sottoposto al principio dispositivo che connota in termini generali l’azione di nullità in sede cognitoria), e l’art. 114, comma 4, lett. b), c.p.a. Tale confronto evidenzia proprio la diversa modulazione del potere d’ufficio del giudice di dichiarare la nullità in cui si imbatta nella decisione di una causa: nel primo caso, infatti, il rilievo d’ufficio è un’eccezione, rigorosamente delimitata, al principio della domanda che, in linea di massima, informa di sé anche l’art. 31; nel secondo, viceversa, esso è regola fondamentale e ineludibile del giudizio ex art. 114, tanto che il legislatore ha disposto che il principio della domanda (evidentemente rispetto alla nullità di un atto sopravvenuto) non trova applicazione in sede di ottemperanza, neppure in quei sensi attenuati in cui esso è stato tratteggiato ai fini dell’azione cognitoria ex art. 31.
Ne consegue, in conclusione, che la mancata proposizione, con atto notificato, di una domanda intesa all’accertamento della nullità del provvedimento sopravvenuto (ed elusivo del decisum di cui si chiede l’attuazione) non impedisce lo scrutinio del merito dell’azione di giudicato e, soprattutto, non preclude al giudice la declaratoria (d’ufficio) della nullità dell’atto elusivo.
[1] Sul giudizio di ottemperanza nella sua evoluzione storica, cfr., fra i contributi più risalenti, R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 78 ss.; Aa.Vv., XXXVII Convegno di studi amministrativi sul tema “il giudizio di ottemperanza”, Milano, 1983; F. Bartolomei, Giudizio di ottemperanza e giudicato amministrativo, Milano, 1987, nonché, più recentemente, L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003; B. Marchetti, Sub art. 112 e seguenti, in G. Falcon, B. Marchetti, F. Cortese (a cura di), Commentario breve al Codice del processo amministrativo, Padova, 2021, 874 ss.; C. Delle Donne, L’esecuzione: il giudizio di ottemperanza, in B. Sassani, R. Villata, Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, 1243 ss.; G. Mari, Il giudizio di ottemperanza, in M.A. Sandulli (a cura di), Il giudizio amministrativo. Principi e regole, Napoli, 2024, 663 ss.
[2] Con la conseguenza che, evidenzia il giudice amministrativo, la rinnovata istanza del privato per ottenere l’ampliamento «avrebbe dovuto essere diversamente esaminata sotto il profilo procedimentale, in contraddittorio collaborativo con il privato, nel senso chiarito nel dictum, poiché è esattamente in questo che si concreta l’effettività della tutela che il Tribunale ha assicurato all’istante sulla istanza di ampliamento».
[3] Sempre attuali sono le riflessioni in argomento di M. Nigro, Il giudicato amministrativo ed il processo di ottemperanza, in Aa.Vv. Il giudizio di ottemperanza, Atti del XXVII Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna, 17-19 settembre 1981, Milano, 1983, 73 ss.; F. Bartolomei, Giudizio di ottemperanza e giudicato amministrativo, Milano, 1987, 50 ss.; G. Corso, Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, Milano, Giuffrè, 1989,; A. Pajno, Il giudizio di ottemperanza come giudizio di esecuzione, in Foro amm., 1987, 1648 ss.
[4] In dottrina si è molto discusso e si discute ancora se il ricorso per l’ottemperanza dia luogo a un giudizio di esecuzione o di cognizione. Si è affermato ad esempio (Nigro) che, con riferimento all’ottemperanza delle sentenze del giudice ordinario, si tratterebbe di un giudizio eventualmente di esecuzione e necessariamente di cognizione (il giudice deve, in sostanza, integrare la statuizione del giudicato civile che ha ad oggetto non già l’illegittimità dell’atto, ma la lesione di un diritto. In relazione alla decisione giurisdizionale amministrativa (che ha già demolito l’atto) il giudizio mirerebbe invece a rendere concreto il contenuto della sentenza, adeguando lo stato di fatto alla statuizione di diritto e, quindi, avrebbe natura di giudizio di esecuzione e solo eventualmente di cognizione. Si veda pure E. Casetta, F. Fracchia, Giustizia amministrativa, Milano, 2018, 290 ss.
[5] Come chiarito da C.E. Gallo, Ottemperanza (giudizio di), in Encicl. giur., Milano, Giuffrè, 2008, Annali, II, 818 ss., «il giudizio di ottemperanza può consistere vuoi nell'attuazione di statuizioni puntuali contenute nel giudicato, rispetto alle quali occorre una semplice attività materiale o giuridica esattamente delineata nel giudicato stesso; vuoi nella individuazione, al termine di un'autonoma fase di cognizione in cui il giudice è chiamato a definire un assetto di interessi, di quale sia il portato del giudicato, con una pronunzia che può avere un contenuto caducatorio, e perciò costitutivo, oppure conformativo, e perciò condannatorio»; F. Manganaro, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in Dir. Proc. Amm., 2018, 534 ss.; E. Picozza, Il processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2009, 122 ss.
[6] Si veda M. Ricciardo Calderaro, Ottemperanza di chiarimenti e appellabilità della decisione, in Giustizia Insieme, 2020, ove si evidenzia come, ferma restando la regola generale della impugnabilità di tutte le decisioni rese dal giudice di primo grado in sede di ottemperanza, «per comprendere se una sentenza di ottemperanza resa su una richiesta di chiarimenti è appellabile è necessario valutare il contenuto concreto delle statuizioni in essa contenute. Se le statuizioni hanno effetti meramente esecutivi e la pronunzia si caratterizza per un’indole segnatamente non decisoria e tanto meno definitiva, questa non potrà considerarsi appellabile, secondo i principi processuali generali che affermano la non impugnabilità, salvo che non sia diversamente disposto dalla legge, dei provvedimenti non decisori e comunque non definitivi quali sono i provvedimenti esecutivi».
[7] Come evidenziato da P.M. Vipiana, L’ottemperanza al giudicato amministrativo fra l’attività del commissario ad acta e quella dell’amministrazione “commissariata”, in Urb. e app., 2015, 1049 ss., la fase dell’ottemperanza è fondamentale nel processo amministrativo, in quanto serve ad assicurare l’effettività del dictum del giudice, nell’ambito dell’equilibrato assetto tra giudicato e riedizione del potere amministrativo. Peraltro, F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2016, 1025 ss., osserva correttamente come «nel sistema tradizionale, dunque, il giudizio di ottemperanza non nasce per garantire l'esecuzione forzata di sentenze di condanna, ma come strumento volto a garantire l'effettività della tutela costitutiva di annullamento erogata in fase di accertamento dal giudice amministrativo».
[8] Per un approfondimento, V. Lopilato, Giudizio di ottemperanza, in P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, 1067 ss., spec. 1091; A. Falchi Delitala, Il giudice dell'ottemperanza come gestore naturale dell'esecuzione della sentenza, in Foro amm.-C.d.S., 2013, 3, 1846 ss. spec. 1858-1859; R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. Proc. Amm., 1989, 2, 369 ss.
[9] Chiarisce G. Adamo (contributo al corso di formazione “Dialogo tra giurisdizioni”, Palazzo Spada, 13 novembre 2023) che le disposizioni del c.p.a. in materia rappresentano la negazione della possibilità di adottare un modello chiuso di giudizio di ottemperanza perché questo «non sarebbe funzionale allo scopo di attuare nella realtà il iussum iudicis: autorizzano a livello legislativo il giudice a svolgere tutte quelle indagini, gli accertamenti e le procedure che sono necessari per l’attuazione della sentenza. È un’opzione logicamente conseguente all’origine non codicistica del diritto processuale amministrativo che è il frutto di soluzioni escogitate, testate sul campo e selezionate nell’esperienza viva del giudice speciale».
[10] Si veda Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2, in giustizia-amministrativa.it. L’esordio della motivazione della decisione dell’A.P. raccoglie peraltro alcuni rilevanti principi sottesi alla nozione di giudicato, dalla necessità di conferire adeguata effettività alle sentenze del giudice amministrativo alla ragionevole durata dei processi ad evitare inutili duplicazioni di accesso alla tutela giurisdizionale. Lo sviluppo argomentativo della pronuncia, nella parte in cui si è dedicata a ricostruire il sistema introdotto dal nuovo codice, ha messo in evidenza un dato che appartiene ormai al patrimonio comune di dottrina e giurisprudenza e cioè che il codice del processo amministrativo sembra mostrare un favor per la concentrazione nell'alveo del giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che sorgono dopo un giudicato che siano afferenti alla sua esecuzione. Su questa premessa, l’A.P. ha tuttavia precisato che «ciò non implica che qualsiasi provvedimento adottato dopo un giudicato, e in conseguenza di esso, e che non sia satisfattivo della pretesa del ricorrente vittorioso, debba essere portato davanti al solo giudice dell'ottemperanza». Di conseguenza, si è statuito che si debba agire di fronte al giudice dell'ottemperanza se il provvedimento sia contestato perché disattenda o applichi scorrettamente i precetti che dal giudicato derivano, e non ove esso, intervenendo su profili non interessati dal giudicato, appaia invece come autonomamente lesivo. In tale ultimo caso, non sarebbe stato corretto che fosse il giudice dell'esecuzione a verificarne la legittimità, non restando circoscritta la controversia all'interno della dimensione oggettiva del giudicato e dei suoi effetti. In questi termini, S. Valaguzza, Contro il supposto superamento della teoria mista per definire la giurisdizione degli atti del commissario ad acta, in Dir. proc. amm., 2015, 4, 1391 ss.
[11] Secondo A. Cassatella, Ottemperanza e poteri del giudice, in Giustizia Insieme, 2024, in ottemperanza, la corrispondenza fra chiesto e pronunciato può riguardare la delimitazione dell’oggetto del giudizio in rapporto al comportamento inadempiente dell’amministrazione, ma non pare estendersi alla conformazione delle tecniche di tutela previste dall’art. 114, comma 4, c.p.a., se non in rapporto all’erogazione di astreintes. Il giudice esercita, pertanto, poteri officiosi e di stretto merito. A quanto consta, il tema non è particolarmente sviluppato in giurisprudenza, per quanto sotteso a T.R.G.A. Trento, 02 agosto 2021, n. 128; Id., 12 luglio 2019, n. 102.
[12] Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2 nonché Cons. Stato, Sez. III, 26 maggio 2016, n. 2769, in giustizia-amministrativa.it.
[13] Restano estranee all’oggetto dell’ottemperanza le situazioni in cui il giudice si sia limitato ad annullare il provvedimento per vizi attinenti ad una fase procedimentale antecedente a quella della formazione del materiale istruttorio e dall’esercizio delle prerogative dell’amministrazione, che conserva pertanto una più ampia potestà decisionale, non surrogabile in ottemperanza, ma suscettibile di autonoma cognizione nel momento di riesercizio del potere. Così, nel caso di vizi di incompetenza, o di omessa comunicazione di avvio del procedimento tale da incidere sul contraddittorio procedimentale, o, ancora, di mancata acquisizione di atti endoprocedimentali (pareri, nulla osta) capaci di incidere sul contenuto della decisione, specie se a contenuto tecnico o discrezionale. In dottrina, C.E. Gallo, Il contraddittorio nel giudizio di ottemperanza: un problema aperto, in Foro amm.-C.d.S., 2009, 2, 1264 ss.
[14] Secondo F. Figorilli, La difficile mediazione della Plenaria fra effettività della tutela e riedizione del potere nel nuovo giudizio di ottemperanza, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2, in Urb. e app., 2013, 952 ss., il Codice sembra ridefinire il giudizio per l’esecuzione del giudicato come una sorta di contenitore in grado di offrire una serie di strumenti, tra loro profondamente diversi, a disposizione della parte che vuole conseguire l’utilitas consacrata dalla pronuncia divenuta cosa giudicata. Ed invero, «all'interno dello schema proposto dall'art. 112, comma 2, c.p.a., è possibile rintracciare una pluralità di azioni che possono ben contenere tutte le sfumature in passato prospettate dalla giurisprudenza sulla natura dell'istituto».
[15] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20 novembre 2017 n. 5339. Si rammenta in tale pronuncia, peraltro, come la violazione del giudicato sussiste ove il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale, o si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla decisione del giudice, invece l’elusione del giudizio è configurabile quando la P.A., pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue lo scopo di aggirarle dal punto di vista sostanziale e in tal modo giunge surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 02 ottobre 2020, n. 5779; Id., 04 giugno 2019, n. 3747; Id., 30 ottobre 2018, n. 6175, tutte in giustizia-amministrativa.it).
[16] Così Cons. Stato, Sez. III, 28 novembre 2018, n. 6764; nello stesso senso cfr. Id., Sez. VI, 12 luglio 2019 n. 4917, in giustizia-amministrativa.it.
[17] Un caso particolare si evince in V. Brigante, Giudizio di ottemperanza nei confronti di comune in stato di dissesto, in Giustizia Insieme, 2025, ove si segnala che, con riferimento all’ammissibilità del giudizio di ottemperanza nei confronti di un’amministrazione che versi in una condizione di difficoltà finanziaria, «l’azione di ottemperanza dovrebbe essere preclusa sino all’approvazione del piano di riequilibrio, poiché la stessa è equiparata, come noto, a una procedura esecutiva. Il ricorso è inammissibile, sul piano logico prima che giuridico, poiché non avrebbe senso consentire un giudizio esecutivo destinato ex lege alla sospensione fino alla definizione, in termini positivi o negativi, della relativa situazione temporanea di squilibrio finanziario. Non sarebbe, infatti, assicurata la pretesa creditoria oggetto della stessa azione proposta in giudizio». In sostanza, le situazioni debitorie degli enti locali, regolate dal titolo VIII del T.U.E.L., non dovrebbero inibire in radice il giudizio di ottemperanza, che può proseguire fino all’adempimento di obblighi di fare, per poi paralizzarsi quanto agli obblighi di dare. L’obbligo di fare però - che nell’ipotesi indagata potrebbe riguardare la restituzione di suoli oggetto di occupazione illegittima, previo ripristino originario stato - a ben vedere potrebbe comportare, in ogni caso, un aggravio finanziario, un’ulteriore spesa per l’amministrazione. In giurisprudenza, T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 13 novembre 2024, n. 3777, in giustizia-amministrativa.it.
[18] Cfr. T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 29 novembre 2023, n. 1379; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 25 gennaio 2023, n. 541; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 8 ottobre 2022, n. 11098, in giustizia-amministrativa.it.
[19] In dottrina, L. Galli, I poteri del giudice dell’ottemperanza tra esecuzione delle sentenze amministrative ed effettività della tutela, in Dir. Proc. Amm., 2024, 367 ss.; A. Travi, In tema di ricorso per ottemperanza, in Foro it., 9, 2023, 386 ss.; F. Saitta, L'attuazione dei provvedimenti del giudice amministrativo: l'azione di ottemperanza tra codici e giurisprudenza, in Dir. proc. amm., 2024, 3, 547 ss.
[20] Ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 21 luglio 2015, n. 3592; Id., Sez. V, 27 maggio 2014, n. 2730, in giustizia-amministrativa.it.
[21] È stato chiarito, infatti, come: (a) il giudizio di ottemperanza ha la precipua funzione di un controllo successivo del rispetto, da parte dell’Amministrazione, degli obblighi derivanti dal giudicato, al fine di attribuire l’utilità spettante alla parte vittoriosa in sede di cognizione (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 30 agosto 2013, n. 4322); (b) tale verifica sull’esatta attuazione del giudicato implica la precisa individuazione del contenuto degli effetti conformativi derivanti dalla sentenza di cui si chiede l’esecuzione (per tutte Cons. Stato, Sez. V, 14 marzo 2016, n. 984); (c)con il rimedio dell’ottemperanza può essere lamentata non solo la totale inerzia dell’Amministrazione nell’esecuzione del giudicato, e, cioè, la mancanza di qualsivoglia attività esecutiva, ma anche la sua attuazione inesatta, incompleta o elusiva; realizzata, cioè, con l’adozione di atti che violano o eludono il comando contenuto nella sentenza di cui si chiede l’esecuzione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6501; Id., Sez. V, 04 giugno 2019, n. 3747, nonché, la fondamentale pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 1984); (d) il provvedimento sopravvenuto al giudicato dev’essere impugnato nell’ordinario termine di decadenza, con una (nuova) azione di cognizione e di annullamento, quando se ne deduca l’illegittimità per la violazione di regole di azione estranee al decisum della sentenza da eseguire, mentre l’atto asseritamente emesso in violazione o in esecuzione del giudicato dev’essere impugnato con il ricorso per ottemperanza nel termine di prescrizione dell’actio iudicati, in quanto nullo ai sensi dell’art.21 septies della l. n. 241/1990 e dell’art. 114, comma 4, lett. b), del codice del processo amministrativo (Cons. Stato, Sez. III, 29 ottobre 2018, n. 6130; Id. Sez. V, 23 maggio 2011, n. 3078), salve le regole sulla conversione del rito, in presenza dei relativi presupposti (su cui Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2). In tema, si vedano anche Cons. Stato, Sez. V, 11 gennaio 2023, n. 384; Cons. Stato, Sez. II, 14 novembre 2022, n. 9939; Cons. Stato, Sez. III, 22 maggio 2016, n. 2769 (tutte in giustizia-amministrativa.it).
[22] Da ultimo cfr. pure A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo. II.1. La situazione giuridica a rilievo sostanziale quale oggetto del processo amministrativo, Torino, 2022, 243 ss.; S. Vaccari, Il giudicato nel nuovo diritto processuale amministrativo, Torino, 2017, 258 ss.
[23] È noto, a questo proposito, l’indirizzo esegetico, costantemente seguito dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui la dinamicità e relativa flessibilità che caratterizzano la sentenza amministrativa, nel costante dialogo che la stessa instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo, permettono al giudice dell'ottemperanza non solo di completare la decisione con nuove statuizioni integrative della pronuncia, ma anche di specificarne la portata e gli effetti conformativi (ex multis, Cons. Stato, Ad. plen., 09 giugno 2016, n. 11, e giurisprudenza ivi citata). Il suddetto meccanismo, va soggiunto, non opera al di fuori del sistema, e cioè in maniera straordinaria e avulsa dalle regole ordinarie che governano il processo di cognizione, ma solo nei limiti in cui sia predicabile la cognizione esecutiva. La sentenza amministrativa costituisce, infatti, titolo per l’azione esecutiva, non per la prosecuzione del giudizio di cognizione, e il giudizio di ottemperanza è volto a tradurre in atto le statuizioni già contenute, ancorché implicitamente o prospetticamente, nella sentenza definitiva, senza che si possa incidere sui tratti liberi dell’azione amministrativa, lasciati “impregiudicati” dalla decisione, e nei limiti in cui l’ulteriore svolgimento dell’azione sia comunque già desumibile, nei suoi tratti essenziali, dalla sentenza da portare ad esecuzione (fra le tante, Cons. Stato, Sez. VII, 3 aprile 2023, n. 3409 e Id., Sez. V, 08 luglio 2021, n. 5196).
[24] Si veda R. Fusco, Il sindacato giurisdizionale sulla riedizione del potere amministrativo a seguito del giudicato, in Dir. Proc. Amm., 2024, 2, 67 ss.
[25] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 06 novembre 2017, n. 26259; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, 10 luglio 2021, n. 212, in giustizia-amministrativa.it.
[26] Sul punto, Cons. Stato, Sez. III, 01 settembre 2025, n. 7169, in giustizia-amministrativa.it.
[27] Sulla natura del commissario, cfr., recentemente, L. Galli, I poteri del giudice dell’ottemperanza tra esecuzione delle sentenze amministrative ed effettività della tutela, in Dir. Proc. Amm., 2024, 2, 367 ss.; T. Tornielli, La figura del commissario ad acta e la garanzia di effettività della tutela tra rito contro il silenzio e giudizio di ottemperanza, in Dir. Proc. Amm., 2023, 156 ss.; in giurisprudenza, sulle implicazioni della qualificazione del commissario ad acta quale ausiliario del giudice, ai sensi dell’art. 21 c.p.a., e dell’attività conseguente, cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 25 maggio 2021, n. 8, in giustizia-amministrativa.it.
[28] M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. Proc. Amm., 2014, 709 ss., evidenzia come l'effetto conformativo della sentenza avverso il silenzio è pressoché nullo, limitandosi alla mera necessità di provvedere; l'attività richiesta al commissario risulta invece di tipo sostitutivo pieno, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione giudiziale se non per quanto attiene all'accertamento dell'obbligo di provvedere; della stessa opinione, anche se riferita alla disciplina antecedente al Codice, A. Travi, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, 3, 233 ss.
[29] A seguire Cons. Stato, Ad. plen, n. 8/2021 cit., in termini generali, il potere amministrativo da sostituire rappresenta non solo il limite dell’intervento del giudice dell’ottemperanza ma anche l’aspetto che lo connota, di talché, allorquando non si tratta di esercitare detto potere, viene meno la stessa ragion d’essere del rimedio di cui agli artt. 112 e ss. c.p.a, e che l’unico spazio di manovra lasciato dal giudizio d’ottemperanza, riguarda i soli casi in cui l’adempimento della sentenza richiede l’adozione di atti esecutivi sui beni e/o sui crediti del debitore. Il commissario ad acta, dunque, essendo organo straordinario del giudice, deputato a adottare, in luogo dell’Amministrazione, gli atti e i provvedimenti tipici di quest’ultima, diviene intestatario dei soli poteri che facevano capo all’amministrazione inottemperante. Esso, in sostanza, può muoversi solo e soltanto entro le soglie degli atti che farebbero capo al giudice stesso e dell’Amministrazione dalla quale il giudice dell’ottemperanza mutua i propri poteri attraverso il riconoscimento della giurisdizione di merito; tant’è che «il commissario ad acta potrà essere chiamato ad adottare atti dalla natura giuridica e dal contenuto più vari: da quelli volti al pagamento di somme di denaro, cui l’amministrazione è stata condannata, ai provvedimenti amministrativi di natura vincolata, che trovano già nella sentenza che ha concluso il giudizio di cognizione la propria conformazione; fino ai provvedimenti di natura discrezionale, che solo eventualmente possono trovare nella sentenza ragioni e limiti della valutazione e della scelta che il commissario deve effettuare in luogo dell’amministrazione» (Ad. plen. supra citata).
[30] Ci si riferisce qui all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che nella sentenza n. 7/2019, ha en passent evidenziato come il commissario ad acta avrebbe una «duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione». Cfr. S. Tarullo, Il giudizio di ottemperanza, in F.G. Scoca (a cura di),
Giustizia amministrativa, Torino, 2011, 589 ss., dove si legge che «al commissario ad acta non già la natura di organo straordinario dell’amministrazione (come pure da alcuni sostenuto in passato), bensì quella di organo ausiliario del giudice, in quanto è il giudice che nomina il Commissario, dal giudice questi deriva i propri poteri di sostituzione, ed è sempre il giudice, investito del compito di dirigere l’esecuzione, ad indirizzare ed orientare la sua attività».
[31] Si badi che l’Ad. plen. n. 8/2021 - sul punto - ha però evidenziato che il fondamento del potere esercitato dal commissario ad acta non è il medesimo del potere di cui è titolare l’amministrazione, poiché il primo si colloca nella decisione del giudice, il secondo nella norma che lo attribuisce all’amministrazione. Il primo ha la sua “giustificazione funzionale” nell’effettività della tutela giurisdizionale, conferendo alla parte vittoriosa in giudizio quella attribuzione che risulta satisfattiva della propria posizione giuridica per la cui tutela essa ha agito; il secondo, nella cura dell’interesse pubblico che costituisce, al contempo, fondamento genetico dell’attribuzione e funzionalizzazione dell’esercizio del potere.
[32] Si veda T.A.R. Campani, Napoli, Sez. III, 25 gennaio 2023, n .549; Id., Sez. VI, 2 maggio 2018, n. 2942; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 26 settembre 2016, n. 1852; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 5 novembre 2014, n. 11099, tutte in giustizia-amministrativa.it.
La società filosofica italiana promosse nella metà degli anni ’80 del secolo scorso un’inchiesta sul futuro della Filosofia nei licei italiani. In quell’occasione avvalendosi anche del Patrocinio del Ministero della Pubblica Istruzione, la Società elaborò un questionario molto complesso e lo propose all’attenzione di un campione di mille docenti su tutto il territorio nazionale. I risultati dell’Inchiesta furono pubblicati da” Laterza” nel 1987 a cura di L. Vigone e C. Lanzetti. Da quel lavoro emergeva un quadro abbastanza omogeneo dei desideri e delle tendenze del corpo docente italiano nell’insegnamento della Filosofia: l’approccio diretto alle fonti, l’analisi dei problemi senza perdere di vista l’assetto storico-cronologico, la necessità di studiare di più gli autori maggiori, una più elastica interpretazione dei programmi ministeriali, un più attento collegamento della Filosofia alle altre materie di studio e all’attualità. I docenti invocavano per il rinnovamento della didattica della disciplina corsi di aggiornamento e una sperimentazione vivificata dal rapporto più diretto con istituti e personale qualificato. In sostanza si auspicava un serio impegno a ricercare nuovi strumenti per una didattica in grado di guidare gli studenti alla lettura delle opere filosofiche. Che cosa è cambiato da quel rapporto così bene illustrato dai curatori? Io credo che non siano intervenuti grossi mutamenti per quel che attiene i desideri e gli orientamenti del corpo docente e che siano invece intervenute novità negli strumenti e nella politica scolastica. Innanzi tutto i libri di testo. C’è stata negli ultimi dieci anni una proliferazione di nuove edizioni di manuali. Molti, per carità, ben fatti e ben presentati. Quasi tutti costruiti con l’intento di articolare percorsi problematici affiancati da pagine e pagine tratte dalle opere degli autori. Scopo nobilissimo ma spesso disatteso dai risultati: una storia delle idee presentate come piccole o grandi isole, con brutto termine “decontestualizzate”. L’assetto storico-cronologico è stato via via minimizzato fino a ridursi in alcuni manuali a piccole note a margine! Questa operazione era stata già attuata in campo letterario e aveva avuto un grande e tuttavia effimero successo. Io sono convinta che il metodo si debba necessariamente costruire sui contenuti e che i contenuti non possano essere avulsi dal contesto storico in cui certe costruzioni teoriche hanno rappresentato e rappresentano risposte storicamente determinate a problemi concreti. La Filosofia può dirsi il regno dell’astratto, ma l’astrazione è un risultato. E senza partire dal concreto davvero i giovani troveranno sempre più inaccessibile questo mondo e gli adulti, burocrati non acculturati, ne approfitteranno per decretare la scomparsa progressiva dalle nostre scuole dell’insegnamento della Filosofia come in parte è avvenuto in Germania con pessime conseguenze. Non mi piace ripetere le grandi e pur fondate apologie del valore formativo della Filosofia, la certezza consolidata che i grandi logici, fisici, giuristi o chi per loro non sarebbero tali senza essere comunque “filosofi”. Era scritto sulla Porta dell’Accademia:” Non entri chi non è matematico”. Vorrei, invece, proporre qualche riflessione di più modesto profilo ricordando un’esperienza che, per rinnovare gli strumenti della didattica, vide protagonista il liceo classico in cui ho insegnato nei primi anni duemila. Rispondendo all’invito di Rai Educational, i nostri alunni prepararono una serie di puntate del programma culturale “Il Grillo”. La varietà e complessità delle tematiche inizialmente aveva spaventato anche i più bravi…ma di alcuni problemi non sappiamo nulla, sulla modernizzazione dell’Italia e sulla Imprese abbiamo cognizioni vaghe, Croce non lo abbiamo ancora studiato…” e via discorrendo. Le perplessità erano del tutto legittime, ma poi quegli stessi ragazzi un po' aiutati dai filmati, un po' spinti a letture specifiche dagli autori e dagli insegnanti, furono capaci di interagire con filosofi, uomini politici, scienziati, letterati, giornalisti…meglio di tanti adulti ricchi di cognizioni tecniche ma poveri di pensiero. Voglio dire che fin dagli ultimi anni della scuola superiore appare evidente la differenza strutturale tra quelli che hanno letto e compreso qualche pagina di Platone e quelli che neppure ne immaginano l’esistenza. Smettiamola dunque con questa illusione di nuovismo, con la corsa alle mode e all’imitazione di modelli considerati più vicini alle esigenze del mondo digitalizzato. Quali modelli? Quello americano, cinese, indiano? Questi sono stati già nel passato gli effetti del provincialismo, delle mode appunto, e oggi sono espressione delle pretese del mercato allargato, di un mercato globale sempre meno controllato che mangia le teste come un risorto orribile Leviatano. Incontrarsi tra i popoli per dialogare ognuno con i suoi strumenti, con il retaggio ineliminabile del suo passato, con la ricchezza del suo linguaggio e della sua filosofia. Questo bisogna insegnare, ognuno come può, come tanti bravi ciabattini. Perché la Filosofia (e Croce in questo aveva ragione) scaturisce sempre dalla vita e i problemi non sono isole nell’oceano senza sponde, sono espressioni concrete delle domande eterne che gli uomini si pongono mentre lavorano e producono, mentre scoprono nuovi cieli e costruiscono macchine, alcune così potentemente distruttive. Anziché tecnicizzare e aziendalizzare i licei classici (come appare evidente nelle nuove politiche scolastiche), inseriamo lo studio della Filosofia in tutti gli istituti, perché al di là dei massimi sistemi è assurdo che uno nato in Italia non sappia neppure cosa significhi Magna Graecia. O pensiamo davvero di sclerotizzare le differenze proprio a partire da chi studia e da chi non studia determinate discipline? Nelle scuole regionali, specie quelle leghiste del nord quale cultura si costruirà? I bianchi poveri e gli immigrati li cuciniamo tutti nel grande calderone delle professionali, i figli ricchi della borghesia ignorante nelle scuole private, e chi resta? C’è solo un grande impegno per evitare che gli studenti, nella rinata apologia di Dio Patria e Famiglia, siano educati all’affettività, al riconoscimento guidato delle distorsioni della sessualità in un Paese dove le donne vengono massacrate un giorno sì e l’altro pure? E che dire del controllo dell’attività didattica e della libertà di insegnamento anche attraverso un revisionismo storico del tutto ideologico? Immagino i salotti “culturali” del prossimo futuro come copie di Porta a Porta. Un incubo. È dunque un dovere morale resistere al nuovo oscurantismo di questi tempi durissimi in cui molti ministri in carica, pure loro, non hanno mai studiato, e si sente, la Filosofia.
Immagine: Giuseppe Le Grù e Innocenzo Ceppi, Allegoria della Filosofia, 1755-1761.
Pubblichiamo l'appello a tutela della indipendenza dei magistrati della Corte Penale Internazionale che ha già tra i suoi firmatari numerosi docenti universitari, avvocati, giuristi, magistrati e ricercatori di tutta Europa.
Nel pdf allegato si trova il testo dell'appello in diverse lingue. Per aderire https://forms.gle/5h31AFns3NBi3JxA9.
Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni ai magistrati della Corte penale internazionale che hanno emesso il mandato di arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Con queste misure, sono stati inseriti nella stessa blacklist che comprende individui associati al terrorismo.
Si tratta di provvedimenti unilaterali e punitivi, la cui unica origine è la ritorsione contro una decisione giurisdizionale.
Le conseguenze sono immediate e gravi. Tra l’altro, a causa dell'interconnessione tra banche americane ed europee, i magistrati colpiti dalle misure ritorsive non possono più utilizzare carte di credito e le possibilità di effettuare bonifici sono fortemente limitate. Inoltre, la quasi totalità dei servizi digitali è loro inaccessibile, essendo questi per lo più statunitensi. La loro vita quotidiana risulta così profondamente compromessa.
Si tratta di una vicenda inaudita per gravità, ma finora le istituzioni europee hanno mantenuto il silenzio.
Tutti gli Stati membri dell'Unione hanno ratificato lo Statuto di Roma, che è il presupposto della giurisdizione della Corte penale internazionale. È qui però in gioco un valore fondativo dell'identità europea: l'autonomia e l’indipendenza della funzione giurisdizionale sono il fondamento dello Stato di diritto, parametro essenziale delle nostre democrazie.
A prescindere dall’opinione che ciascuno può avere sul contenuto del mandato di arresto, è necessario prendere atto dell’intollerabile clima di intimidazione generato dalle misure ritorsive nei confronti della CPI, che rischia di incidere profondamente sull’operatività della Corte e sull’indipendenza dei magistrati, ben oltre il caso specifico. Gli altri magistrati della CPI vengono avvisati che, in caso di decisioni sgradite, potrebbero essere chiamati a pagare un prezzo a titolo personale
Se chi indaga o giudica in materia di crimini internazionali viene sanzionato e le istituzioni europee restano in silenzio, a sgretolarsi non è soltanto la giustizia internazionale: è la credibilità dell’Europa come spazio nel quale il diritto viene garantito.
Per queste ragioni, chiediamo che le istituzioni europee adottino con urgenza tutte le misure necessarie per tutelare l’indipendenza dei magistrati della Corte penale internazionale e per garantire che nessuna forma di rappresaglia contro l’esercizio della funzione giurisdizionale resti senza risposta.
To:
President Roberta Metsola and the Members of the Bureau of the European Parliament
Subject: Urgent EU action to safeguard the independence of ICC judges targeted by US sanctions
Dear President Metsola,
Dear Vice-Presidents and Quaestors,
The United States has imposed sanctions on the magistrates of the International Criminal Court (ICC) who issued the arrest warrant for Benjamin Netanyahu for war crimes and crimes against humanity. These unilateral and punitive measures, the sole purpose of which is retaliation against an impartial judicial act, have placed the affected magistrates on the same financial blacklist as individuals deemed to be terrorists.
The consequences are immediate and grave. American and European banks are closely connected. Thus, among other penalties, the affected magistrates can no longer use credit cards, or receive bank transfers. Moreover, almost all digital services are inaccessible to them, as these are mostly based in the United States. Their daily lives are significantly disrupted.
This is an unprecedented use of government-initiated sanctions. However, to date, European institutions have remained silent.
All EU member states have ratified the Rome Statute, which is the legal foundation for the jurisdiction of the International Criminal Court. At stake here is nothing less than a fundamental value of European identity and democracy: the rule of law and the autonomy and independence of the judicial system on which the rule of law depends.
Regardless of one's opinion on the content of the arrest warrant, it must be acknowledged that the climate of intimidation generated by retaliatory measures against the ICC cannot be tolerated. That climate risks profoundly undermining the ICC's operations and the independence of its magistrates, well beyond the specific case involved. The unmistakable message to all ICC magistrates is that, in the event their decisions are unwelcome in certain quarters, the magistrates themselves will be personally sanctioned solely for performing their judicial duty.
If those investigating or adjudicating international crimes are personally sanctioned, yet European institutions remain silent, not only international justice suffers. Such silence calls into serious question Europe’s own dedication to the rule of law.
For these reasons, we call on the European institutions to urgently take all necessary measures to protect the independence of the International Criminal Court's magistrates and to ensure that no form of reprisal against the exercise of judicial office goes unanswered.
L’altro è il limite che continuamente ci interroga. Così Emmanuel Levinas identifica nell’alterità quella ineludibile, incontournable, possibilità di uscire dalla monoteticità, dalla normatività internalista, per porsi in un dialogo che innanzitutto è domanda, dubbio. È nel limite che l’altro individua che è data la possibilità stessa di riaffermare ciò che al di sotto di ciascuna identità – sia essa soggettiva, sia essa intersoggettiva – condivide con l’altra (identità).
Ci pare quantomai attuale e promettente tornare sulla esperienza, la parola e l’azione istituzionale di Giovanni Gronchi partendo da questa premessa. Una premessa che permette di situare le riflessioni che seguono in relazione sia alla dimensione dell’altra parte come limite e come forza in quanto bilanciamento, sia alla dimensione della necessità.
Camminare col pensiero lungo il percorso tracciato dalla esperienza istituzionale e culturale di Giovanni Gronchi significa riflettere innanzitutto sul tema della trasformazione del sistema giuridico e politico italiano su tre livelli, quello delle dinamiche fra posizioni culturali interne al partito politico, quello delle dinamiche fra profili istituzionali dei componenti delle istituzioni di rango costituzionale di carattere collegiale e collettivo, quello delle dinamiche fra organi di rango costituzionale nella prospettiva storica della progressiva – e faticosa – attuazione delle previsioni normative incardinate nella Costituzione Repubblicana.
In altri termini leggendo trasversalmente al decennio che va dal 1955 al 1965 i discorsi di Gronchi e ricostruendo alla luce di questi le azioni istituzionali in materia di promozione della attuazione della Costituzione repubblicana si nota che il tema del bilanciamento come effetto – auspicato ed auspicabile – dell’esistenza dell’altra parte tocca:
Su questi tre livelli diremo esemplificando in breve.
Gronchi nasce a Pontedera nel 1887. Nel 1919 partecipa alla fondazione del Partito Popolare Italiano. Eletto deputato in una Italia che già vive in una cultura carsicamente scossa da sentori di contrazione delle garanzie libera-costituzionali, viene nominato Sottosegretario all’Industria e al Commercio nel 1922, la cui posizione ricopre sino a quando – come è noto a seguito del Congresso tenutosi a Torino dove il Partito Popolare Italiano prende una posizione di non collaborazione con il governo i rappresentanti del Partito si ritirano dalle loro cariche.
L’esperienza istituzionale si ripresenta nel 1944 quando Gronchi viene nominato Ministro dell’Industria e del Commercio e nel 1946 quando eletto deputato alla Assemblea costituente, si avvia ad attraversare con crescente rilievo la vita delle nascenti istituzioni democratiche. Tale percorso trova il punto di apogeo prima nella carica di Presidente della Camera dei deputati nel 1948 e nel 1955 nella elezione – inattesa – come Presidente della Repubblica.
Le parole chiave che si trovano in questo breve ma già indicativo excursus biografico sono capaci di tratteggiare e di evocare quelli che saranno temi presenti nella agenda dell’azione di promozione della attuazione della Costituzione, l’importanza dell’economia, del raccordo fra centro e realtà del territorio del paese, la vivacità della cultura intra-partitica, la apertura inter-partitica in una prospettiva di realizzazione dello spirito stesso della Costituzione repubblicana – comune ai diversi partiti e per ciò stesso, con Levinas, capace di essere meglio attuata proprio nel dia-logos con l’alterità – ed infine la convinta adesione alla interpretazione della figura della Presidenza della Repubblica in una ottica di garanzia e elemento propulsore – le due cose mai essendo in contraddizione – della vivace, partecipata, evolutiva, e radicata nella società realizzazione della Costituzione.
Per suffragare la tesi che il titolo delle riflessioni qui tratteggiate già rivela si procede su tre passi, che corrispondono ai tre livelli di cui sopra:
La questione dell’adeguamento
Il Presidente svolgerà «una insostituibile funzione per far sì che l’ordinamento giuridico venga impegnato nell’accompagnare senza intralci e senza ritardi […] le trasformazioni economiche e sociali». Ed anche nella chiusura del discorso sottolinea: «Io compirò quanto la Costituzione mi impone […] mi sia vicino il Parlamento”. L’importanza del fattore “attore” ossia della dimensione individuale nell’inverare l’ordinamento costituzionale ricorre già nella modalità con la quale Gronchi pensa ed interpreta il ruolo dei partiti politici nel sistema democratico, a partire dal ruolo che egli ritiene debba svolgere la Democrazia Cristiana. Afferma: “da tutti i partiti politici, ed in specie dalla D.C. deve essere considerato impegno indilazionabile il completare questo ordinamento secondo Costituzione, la quale ha voluto dettare le norme e i limiti per i tre poteri che sono alla base dello Stato”. Fra quei limiti uno è rappresentato dalla Corte Costituzionale. Il CSM sarà il formate istituzionale del connubio fra diversità alterità collegialità e garanzia che l’ordinamento attraverso l’azione legislativa accoglie nella democrazia italiana. Il richiamo al ruolo dei partiti politici va inteso in quel raccordo che Gronchi ritiene necessario con la vita del paese, raccordo che la organizzazione partitica è chiamata a realizzare e garantire.
Gronchi ebbe forte sensibilità per l’adeguamento evolutivo della Costituzione proprio interpretando il suo ruolo Presidenziale. L’effettiva attuazione della Costituzione è problema che interessa la generalità dei cittadini, dirà. Pertanto, come Capo dello Stato non può non rendersi attivamente sensibile alla stessa. Trattasi di questione super partes, che attraversa la vita dei partiti politici e li accomuna, pur nelle loro diversità. È solo così che le istituzioni diventano feconde. Tale loro capacità generativa è necessaria perché lo Stato e la società – nelle parole di Gronchi Presidente – siano in una dinamica virtuosa e moderna.
Questa viva vox è una ars generativa.
Il tema dell’attuazione
Appena eletto Presidente della Repubblica Gronchi indirizza un saluto al III Congresso Nazionale Giuridico Forense, il 21 settembre 1955. Nell’esprimere i suoi “cordiali sentimenti” il Presidente aggiunge: “desidero a questi associare un caldo augurio perché gli avvocati e i procuratori – dalle cui file viene un contributo così assiduo e così vasto alle più importanti attività della vita nazionale e la cui alta missione di umanità si affianca, in armonica collaborazione, a quella del giudice per le supreme finalità della giustizia – possano raggiungere proficue intese. Se si uniscono queste parole a quelle pronunziate in occasione dell’VIII Congresso Nazionale dei Magistrati del 6 aprile 1957 si trova il connubio che è in oggetto delle nostre riflessioni. Augura Gronchi che “i lavori che si iniziano conducano ad un sempre più efficiente adeguamento dell’ordine giudiziario ai principi solennemente fissati dalla Costituzione”.
Il binomio fra adeguamento e attuazione che si fa e si invera ad opera degli attori istituzionali – così come nella giurisdizione è solo per tramite della leale collaborazione basata su comuni valori fra parti dinnanzi ad un terzo che professionalmente condivide lo stesso riconoscimento del valore della Costituzione con le parti giacché se sul piano funzionale si resta nel perimetro delle proprie attribuzioni nel più alto ed astratto piano dei valori orientativi si è appartenenti allo stessi sistema demo-costituzionale – si trova qui. Nella Presidenza di Gronchi tale binomio segnerà il ritmo e la direzione dei suoi passi verso la realizzazione – la attuazione – di ciò che la Costituzione prevede.
Al tempo presente l’accostamento della semantica dell’efficienza a quella della evolutività – efficiente adeguamento – appare particolarmente rivelatore. Gronchi mette l’accento sull’efficienza di un processo che non ha per sua natura un punto di fine, non è teleologico. Non si tratta di efficacia, ma di efficienza, quella che il Presidente auspica. Si tratta cioè dell’auspicio che le forze politiche si rendano non solo responsabili della prima traduzione adeguatrice della Costituzione ma anche promotrici della stessa. Si tratta di un auspicio che nasce dalla esperienza dei ritardi di cui Gronchi ha potuto essere attento osservatori e attore suo malgrado della attuazione dell’articolo 134 che voleva la creazione della Corte costituzionale.
L’urgenza attuativa – così potremmo definire la concretizzazione di quella viva vox constitutionis di cui Calamandrei apprezza profondamente le pronunzie – si fa ancora più forte con il proseguire del mandato Presidenziale. Il 19 marzo del 1958 Gronchi scrive al primo Presidente Eula della Suprema Corte di Cassazione e al Procuratore Generale presso la Cassazione, Pafundi, in merito alla approvazione della legge che alfine istituisce il Consiglio Superiore della Magistratura: “con l’attuarsi della norma costituzionale [i magistrati italiani] vedono rafforzata, nell’autonomia e nel prestigio, la loro alta funzione”. Sia qui permessa una digressione sul tema del prestigio e dell’alta funzione.
I bilanciamenti e le “altre parti” nel dettato costituzionale e nel funzionamento degli organi dello Stato
Come detto l’azione istituzionale di Giovanni Gronchi è segnata da una attenta e puntuale sensibilità per la questione del buon funzionamento dell’ordinamento. Non si tratta soltanto di incardinare e mettere al sicuro nelle norme di rango costituzionale quelle condizioni formali che attengono alla esistenza stessa della forma di regime politico democratico e alla impronta valoriale repubblicana. Si tratta anche – e soprattutto – di renderne la vita possibile ed efficace. Come Presidente della Camera dei Deputati prima e come Presidente della Repubblica la proattiva ideazione e la moral suasion esercitata a ché le forze politiche convergessero verso soluzioni istituzionali orientate rispetto ai principi di cui sono costanti. Richiamiamo qui quel tratto costante dell’agire di Gronchi con riferimento a quattro temi: la realizzazione della riforma regolamentare alla Camera con l’inserimento della Conferenza dei Capigruppo, l’esperienza fatta relativa alla creazione della Corte costituzionale ed in particolare alla vexata quaestio della elezione dei giudici “parlamentari” con connessione alle tensioni interne al sistema partitico italiano; la istituzione e l’insediamento del Consiglio Superiore della Magistratura; la realizzazione del decentramento regionale. Ci si limita a tratteggiare il pensiero di Gronchi a titolo esemplificativo di quella che, a tutti gli effetti, è una postura di carattere valoriale, culturale, ancor prima che politica e sostanziale.
Il Consiglio Superiore della Magistratura
È certamente il percorso di creazione e di insediamento del CSM che permette di vedere nelle azioni e nei discorsi di Gronchi Presidente della Repubblica il tratto più evidente della sua visione e della interpretazione non solo del ruolo della Presidenza della Repubblica ma anche del principio di bilanciamento. Sono la “autonomia e l’indipendenza” così Gronchi nel suo discorso di insediamento “che derivano dalla divisione dei poteri che vanno poste al vertice dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Ognuna di queste parole è performativa. Farà, appena giunto al Quirinale, sì che il principio di divisione dei poteri e di bilanciamento che ne deriva attraverso la esistenza stessa dell’altra parte sia la ratio essendi della autonomia nelle rispettive prerogative delle istituzioni. Appare ante litteram ma estremamente promettente la visione di una relazione causale, peraltro comprovata dalla ricerca comparata sul funzionamento dei sistemi politici e, con particolare rilievo, dei sistemi giudiziari, di cui oggi disponiamo, che vede la freccia dell’influenza – e quindi della garanzia – andare dalla condizione del bilanciamento verso l’autonomia e non viceversa. Ciò a richiamare quanto la esistenza dell’altra parte sia necessaria per la qualità dell’istituzione sia essa monocratica sia essa collegiale che sta di qua dal limite e proprio per quel limite e in virtù di quel limite si trova a potere essere garantita, quasi confortata nella certezza non tanto del non errore, ma della possibilità effettiva di continuo e perpetuo miglioramento nell’autonomo perimetro del proprio funzionamento così come sancito dalla Costituzione. È con queste premesse che Gronchi si appresta ad incoraggiare l’uscita dallo stallo della legge che deve istituire il Consiglio Superiore della Magistratura, legge che arriverà come è noto solo dieci anni dopo l’inizio del funzionamento effettivo delle istituzioni democratiche. Ciò è tanto più forte nel caso del CSM in quanto Gronchi vede un congelamento dei lavori parlamentari e nel discorso di insediamento da Presidente della Repubblica neoeletto auspica il disgelo costituzionale, così come lo definisce Alessandro Pizzorusso. Si trattava di sciogliere il nodo della maggioranza parlamentare che al centro aveva approntato i lavori preparatori di uno Schema legislativo del CSM già nel 1951. Il disegno di iniziativa parlamentare del 1952 finì tuttavia per restare bloccato. Ed è proprio seguendo – forte della esperienza fatta nella precedente carica di Presidenza della Camera – l’iter legislativo, promuovendo una tempistica certa ed effettiva – le parole tornano – che Gronchi riesce ad esercitare quella “più-che-moral-suasion” che molti videro come la capacità di inverare (nel senso di fare diventare vera) la Costituzione Repubblicana. Si ritrovano nel discorso inaugurale di Gronchi tutti i pilastri della sua cultura constitutional-politica. Ricordando l’azione della Costituente sottolinea quanto sia stato importante lo sforzo di assicurare la autonomia e l’indipendenza dei giudici, garantendo la unitarietà del corpo giudiziario. Ed è proprio attraverso la figura del Presidente – che Presiede il CSM – che la legge istitutiva garantisce quel bilanciamento e quel raccordo con gli altri poteri dello Stato nei quali si combinano la esistenza effettiva dell’altra parte con l’uscita dall’isolamento nel rispetto delle autonomie di carattere ordinamentale.
Una attualità che non è congiunturale
Un equilibrio costituzionale non statico. La frase di Gronchi che data del 1959 non può non essere qui richiamata. Si tratta di un equilibrio. Si tratta di una dinamica. La conditio sine qua non di tale dinamica è l’esistenza dell’altra parte. Non si tratta solo di pesi e di contrappesi. Si tratta di giocare un “gioco” interistituzionale la cui somma è sempre positiva perché nessuno dei giocatori assorbe, per così dire, l’altro.
Nel discorso di insediamento del neo istituito Consiglio Superiore della Magistratura ricordando che il CSM non è organo ignoto al diritto positivo italiano – ma implicitamente già individuando nel diritto vivente una diversità che segna un cambio di paradigma entro cui la norma positiva di rango costituzionale si radica – Gronchi afferma: “ben diverso [da quello previsto in periodo pre-Repubblicano n.d.r.] si presenta invece il Consiglio Superiore della Magistratura previsto dalla Costituzione, diversità nei suoi componenti, per un terzo estranei all’ordine giudiziario, diversità nelle attribuzioni, non più in prevalenza consultive, ma di governo dell’ordine”. Siamo al 18 luglio del 1959.
Letto questo passaggio con una prospettiva scientifico-culturale attenta a ciò che resta per ragioni scientifiche ed oggettive al di là delle situazioni che congiunturalmente si presentano nella storia di un sistema politico la parola diversità appare di straordinaria forza euristica. Essa coglie quella necessità di una dialettica con l’altra parte, che sia incardinata sia a livello di strutture – fra organi dello Stato – sia a livello interno alla struttura – per esempio, in questo contesto, nella diversità dei componenti. La ratio scientifica induce a mantenere un piano di astrazione sufficiente da potere “navigare nel tempo”. Al di là delle forme organizzative la necessità dell’altra parte appare di garanzia al buon funzionamento del sistema. Sempre nello stesso momento di alta allocuzione dinnanzi al CSM istituzione che Gronchi promosse fortemente si trova l’espressione forse più sinteticamente esemplificativa del pensiero dell’allora interprete del Quirinale: “Il rapporto interorganico [corsivo di chi scrive] – strutturale – che ne deriva, trasformandosi in collaborazione funzionale tra le istituzioni supreme, consente di attuare nell’adeguamento continuo della realtà giuridica alle mutevoli realtà politico-sociali in cui si identifica l’aspetto più positivo della nuova Costituzione”. In tal senso quella alterità è prevenzione dell’isolamento e della – in letteratura comparativa così definita – balcanizzazione degli organi dello Stato, soprattutto di quelli che sono chiamati ad esercitare una funzione di oversight, ovvero di bilanciamento, la cui legittimazione si fonda sulla terzietà.
Quel principio che tende a non ridurre la terzietà all’isolamento appare capace di “navigare nei tempi e negli spazi”. Perché isolamento non si dà nella realtà. Gronchi lo afferma. La Costituzione lo insegna. Per garantire che le interazioni siano sempre inserite in un sistema dove è possibile prendere quelle distanze anche dalla posizione monotetica e internalista che apparirebbe autoreferenziale sarà dunque una altra parte – parte dell’insieme basato su valori comuni – ma altra per diversità – sia per meccanismi di legittimazione, sia per forme di professionalità, sia per rispondenza e accountability. È l’altro che mi impone essendoci la responsabilità di etica pubblica. Il pluralismo che è prodromico all’ammissione della necessità di una evoluzione. Non è mai una evoluzione che obbedisce a logiche puramente endogene. Sarebbe un monologo. Non è mai una evoluzione che obbedisce a logiche puramente esogene. Sarebbe un dominio. È un dialogo fra alterità. Che si riconoscono. Si rispettano. Si aspettano. Co-partecipano di un destino comune (cum-parte).
Nulla ci appare più attuale.
Il testo integrale sarà pubblicato in "Giovanni Gronchi fra politica ed istituzioni, Atti del Convegno Roma 6 novembre 2025 Associazione Vittorio Bachelet". In corso di pubblicazione.
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