ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: Premessa - 1. Il Regolamento (UE) 2024/1689: i sistemi ad alto rischio e l’amministrazione della Giustizia - 2. Il disegno di legge italiano sull’Intelligenza Artificiale e l’esigenza di rafforzamento delle garanzie costituzionali in materia di giustizia - 3. Intelligenza Artificiale e Giustizia: l’insostituibilità del giudice e l’argomentazione giuridica.
Premessa
Prima ancora dell’entrata in vigore dell’AI ACT e della presentazione alle Camere del disegno di legge di iniziativa governativa sull’intelligenza artificiale, ho avuto l’occasione di scrivere su questa rivista sull’uso dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali e della centralità del ruolo dell’interprete nella scelta del metodo e nell’argomentazione giuridica.
L’entrata in vigore del regolamento europeo e l’adozione del disegno di legge italiano di iniziativa governativa hanno sollecitato una nuova riflessione che, tuttavia, anche alla luce del quadro regolatorio attualmente esistente, conduce alle conclusioni dell’epoca che qui riporto quale cornice delle brevissime considerazioni che seguono:
“Credo in conclusione, che la totale inadeguatezza dell’intelligenza artificiale a sostituire l’argomentare giuridico derivi dalla basilare constatazione che il diritto è scienza sociale e umana, è dell’uomo e per l’uomo e che il compito dell’interprete risiede anzitutto di rendere la fredda astrattezza e generalità della legge più vicina e aderente alla concretezza, alla specificità, alla unicità ed alla umanità del fatto”.
1. Il Regolamento (UE) 2024/1689 (AI ACT): i sistemi ad alto rischio e l’amministrazione della Giustizia
Con l’AI Act[1], il legislatore europeo si è preoccupato di dettare alcune regole in materia di amministrazione della giustizia.
Già nelle considerazioni preliminari, al punto 40, si trova scritto che «alcuni sistemi di IA destinati all’amministrazione della giustizia e ai processi democratici dovrebbero essere classificati come sistemi ad alto rischio, in considerazione del loro impatto potenzialmente significativo sulla democrazia, sullo Stato di diritto, sulle libertà individuali e sul diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale». In più, sottolinea il legislatore sovranazionale, è «in particolare opportuno, al fine di far fronte ai rischi di potenziali distorsioni, errori e opacità, classificare ad alto rischio i sistemi di IA destinati ad assistere le autorità giudiziarie nelle attività di ricerca e interpretazione dei fatti e del diritto e nell’applicazione della legge a una serie concreta di fatti.».
Questa classificazione è operata dall’art. 6, co. 2, in combinato disposto con l’allegato III, n. 8.
L’articolo 6, paragrafo 2, prevede che «Un sistema di intelligenza artificiale è considerato ad alto rischio quando è destinato ad essere utilizzato come componente di sicurezza di un prodotto, o il cui utilizzo è soggetto ad obblighi di valutazione della conformità prima della messa in commercio o dell’entrata in servizio del prodotto in questione, oppure quando è elencato nell’allegato III, a meno che non sia dimostrato, in base ad una valutazione preliminare, che il sistema non comporta un rischio significativo per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali delle persone fisiche, tenuto conto della sua finalità, del contesto d’uso, della probabilità e della gravità dell’impatto.».
In sintesi, i sistemi elencati nell’Allegato III sono presuntivamente ad alto rischio, salvo prova contraria fondata su una valutazione del rischio (risk-based approach).
L’Allegato III, punto 8 definisce gli ambiti di utilizzo dei sistemi di IA ad alto rischio per l’ amministrazione della giustizia e dei processi democratici quali destinati a: a) assistere nell’interpretazione dei fatti e del diritto e nell’applicazione della legge a casi concreti, b) supportare le decisioni giudiziarie, amministrative o di tipo procedurale, c) valutare la probabilità che una persona abbia commesso un reato, d) valutare la credibilità delle prove o dei soggetti coinvolti, e) determinare sanzioni, misure correttive, misure cautelari o alternative alla detenzione.
In base al combinato disposto tra l’ art. 6(2) e l’allegato III, n. 8, quindi, tutti i sistemi IA utilizzati nel settore della giustizia come ausilio ai giudici, interpretazione delle norme, valutazione delle prove, di confezionamento di sentenze o di pene, sono “ad alto rischio”, salvo che il fornitore non dimostri che l’uso del sistema non genera un rischio significativo per diritti fondamentali, salute o sicurezza nel qual caso il sistema può non essere sottoposto agli obblighi dell’AI Act previsti per i sistemi ad “alto rischio”[2].
Dunque, il legislatore europeo, consapevole dell’impatto che l’intelligenza artificiale può avere in ambienti tanto delicati quanto importanti come l’amministrazione della giustizia, dedica il Titolo III a questi sistemi ad alto rischio prevedendo una serie di requisiti ed obblighi per accedere al mercato UE come, per citarne solo alcuni, la presenza di un sistema di gestione dei rischi, la garanzia della trasparenza delle informazioni o misure di sorveglianza umana.
In base all’AI ACT lo spettro della possibile applicazione dei sistemi di intelligenza artificiale in ambito giudiziario può essere molto ampio e l’autorità giudiziaria se ne potrebbe avvalere non solo nelle attività di ricerca e interpretazione sia dei fatti che della legge, ma anche nell’applicazione della legge a una seria concreta di fatti.
Sennonché, sia la considerazione preliminare che il n. 8 dell’allegato III utilizzano il verbo “assistere”.
Da ciò, si trae la conclusione che la finalità perseguita dal legislatore europeo esclude che i sistemi di IA possano svolgere un’attività sostitutiva. L’intelligenza artificiale è uno degli strumenti di cui può avvalersi l’autorità giudiziaria nella sua attività, ma rimane mero strumento con funzione servente e non può diventare essa stessa giudice.
A fronte di tale disciplina, buona parte della dottrina[3] ha rilevato che nonostante si tratti di sistemi ad alto rischio la disciplina del Regolamento Europeo soffre di una certa lacunosità e di un conseguenziale livello di armonizzazione non massimo, in considerazione degli spazi lasciati all’intervento legislativo degli Stati membri, sì da auspicare iniziative legislative degli Stati membri che, oltre che ammissibili nei limiti di cui all’art. 288 TFUE, sarebbero necessitate dai vuoti di regolazione della disciplina europea.
Le ragioni di tale impostazione sono qui condivise.
Nonostante il maggior dettaglio della disciplina europea per i settori ad alto rischio, non v’è dubbio che le disposizioni dedicate ai sistemi ad alto rischio trascendono i tratti distintivi dei singoli settori ordinamentali e, per quel che qui interessa, dell’amministrazione giudiziaria, determinando un’armonizzazione non esaustiva.
Nel concreto, sebbene l’AI ACT qualifica come “ad alto rischio” i sistemi di intelligenza artificiale che assistono giudici nell’interpretazione del diritto, nella valutazione di fatti, prove, responsabilità o nell’adozione di decisioni giurisdizionali, permane una certa lacunosità che riguarda essenzialmente il rapporto tra l’area delle attività strumentali e quelle riservate esclusivamente al giudice.
Così, a parere di chi scrive, i vuoti di tutela che appaiono più significativi riguardano la mancata limitazione del potere discrezionale dei giudici nazionali sull’uso dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali e, quindi, delle condizioni in cui un giudice può (o non può) fondare una decisione sul risultato generato da un sistema di IA; il mancato richiamo alle garanzie fondamentali in materia di giustizia (difesa, contraddittorio, motivazione) disciplinate dalle costituzioni nazionali ( art. 111 Cost. in Italia), dalle norme processuali e dalla CEDU (art. 6 e 13); infine, ed in linea più generale, la mancata previsione del rapporto tra giudizio umano e assistenza algoritmica e la dichiarazione di prevalenza della riserva di umanità.
2. Il disegno di legge italiano sull’Intelligenza Artificiale e l’esigenza di rafforzamento delle garanzie costituzionali in materia di giustizia.
In questi vuoti di normazione si è incuneato il disegno di legge italiano di iniziativa governativa[4] che ha ritagliato regole ad hoc per l’amministrazione della giustizia italiana.
Per l’estrema delicatezza del settore, l’iniziativa legislativa del Governo italiano si è mossa nella direzione delle prerogative costituzionali della funzione giudiziaria conformandosi, nel contempo, in un’ottica multilivello, alle prescrizioni poste dall’AI ACT per le attività ad alto rischio.
Attualmente, la disposizione approvata in seconda lettura alla Camera e che allo stato non risulta emendata nel terzo ed ultimo passaggio in Senato sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nell’attività giudiziaria (art. 15), pur usando la tecnica della normazione per principi, fornisce, una disciplina dettagliata e volta ad implementare gli spazi lasciati vuoti dall’AI ACT.
La declinazione, in quattro commi, di principi normativi sull’uso dei sistemi dell’intelligenza artificiale nell’amministrazione della giustizia, rispecchia, in realtà, l’ordine di priorità dei valori che il disegno di legge si è dato per limitare i rischi connessi all’uso dell’intelligenza artificiale nell’amministrazione della giustizia. L’articolo15 così recita:
«1. Nei casi di impiego dei sistemi di intelligenza artificiale nell’attività giudiziaria è sempre riservata al magistrato ogni decisione sull’interpretazione e sull’applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull’adozione dei provvedimenti. 2. Il Ministero della giustizia disciplina gli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale per l’organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie. 3. Fino alla compiuta attuazione del regolamento (UE) 2024/1689, la sperimentazione e l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale negli uffici giudiziari ordinari sono autorizzati dal Ministero della giustizia, sentite le autorità nazionali di cui all’articolo 20. 4. Il Ministro della giustizia, nell’elaborazione delle linee programmatiche sulla formazione dei magistrati di cui all’articolo 12, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, promuove attività didattiche sul tema dell’intelligenza artificiale e sugli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale nell’attività giudiziaria, finalizzate alla formazione digitale di base e avanzata, all’acquisizione e alla condivisione di competenze digitali, nonché alla sensibilizzazione sui benefici e rischi, anche nel quadro regolatorio di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo. Per le medesime finalità di cui al primo periodo, il Ministro cura altresì la formazione del personale amministrativo.».
La norma si apre specificando subito le attività riservate all’attività esclusiva del magistrato[5] non delegabili alle macchine. Si tratta di tutte quelle attività che implicano un processo decisionale sulla interpretazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sulla adozione di ogni provvedimento incidente sull’esito del giudizio.
L’inequivocabile senso delle parole usate al comma 1 è in ragione dell’essenza squisitamente umana del processo decisionale, attività ritenuta non minimamente riproducibile attraverso la logica simbolica e che presuppone, sempre, l’assunzione di un metodo che consenta l’individuazione della fonte regolatoria appropriata e, soprattutto, di dettare in concreto la soluzione più adatta per il caso concreto.
È il giudice che è tenuto ad interpretare la legge (il che implica una scelta valoriale da effettuarsi in coerenza col sistema ordinamentale), a valutare i fatti e le prove (il che implica apprezzamento del contesto, credibilità e rilevanza), ad adottare il provvedimento giudiziario (il che è atto tipico di autorità).
Abdicare tali attività in favore delle macchine comporterebbe il rischio di affidare la decisione a modelli “black box” non interpretabili e di svuotare la figura del giudice della sua centralità antropologica, sostituendo il processo logico con un output computazionale con il venir meno delle garanzie costituzionali (artt. 24 e 111 Cost.).
In sostanza la norma, conformemente al quadro sovranazionale, pone un principio di “riserva della giurisdizione umana” e intende presidiare proprio le attività coincidenti con quelle elencate al numero 8, lettera a), dell’allegato III dell’AI Act (Amministrazione della giustizia e processi democratici), tra le quali rientrano quelle più intimamente connesse alla decisione giudiziaria.
La formulazione del principio enunciato al comma 1 non impedisce ma consente che i sistemi di intelligenza artificiale possano essere impiegati come supporto per il lavoro investigativo che non implica l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Al fine di rimarcare il ruolo centrale del giudice, al comma 2 si ammette l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale solo nello svolgimento di attività organizzative e di supporto all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Allo scopo, il testo della norma fa riferimento alla semplificazione del lavoro giudiziario e alle attività amministrative accessorie per ricomprendere una vasta categoria di attività di supporto.
I successivi commi pongono in capo al Ministero della Giustizia sia la disciplina relativa gli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale per l’organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie, sia l’autorizzazione alla sperimentazione e all’impiego di tali sistemi con ciò volendosi sgombrare il campo dal rischio di soggettive interpretazioni sull’uso delegabile dell’intelligenza artificiale e volendosi assicurare uniformità, certezza e parità di tutti gli uffici giudiziari.
La disposizione, attuando un preciso obbligo dell’AI ACT[6], si fa carico della formazione prevedendo che il Ministro della Giustizia, nell’elaborazione delle linee programmatiche per la formazione dei magistrati (ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a) del d.lgs. 30 gennaio 2006, n. 26), promuova attività didattiche dedicate all’intelligenza artificiale e ai suoi impieghi nell’attività giudiziaria. Inoltre, per le stesse finalità, il Ministro è chiamato a curare anche la formazione del personale amministrativo della giustizia, riconoscendo quindi che l’impatto dell’IA coinvolge l’intera macchina giudiziaria, e non solo i magistrati. Tale disposizione è la conferma di quanto la formazione giudiziaria sia oggi una leva strategica dell’efficienza, della legittimazione e dell’innovazione della giustizia. E la scelta di porla in capo al Ministero della Giustizia appare dettata non solo da ragioni funzionali (art. 110 Cost.), ma anche da ragioni di politica legislativa perché è innegabile che costituisca uno strumento di politica pubblica che integra l’autonomia giurisdizionale con le esigenze di buon andamento dell’amministrazione. In un sistema multilivello complesso, come quello che include IA e diritto, la formazione consente alla magistratura e al personale giudiziario di affrontare con consapevolezza rischi e opportunità della transizione digitale.
È evidente, dunque, che nel disegnare il quadro dei principi di cui all’articolo 15, il disegno di legge italiano si è posto nel solco dei principi dettati dalla nostra Costituzione in materia di Giustizia.
Ed infatti, la visione spiccatamente antropocentrica dell’attività giudiziaria si ritrova già nella nostra Carta Costituzionale.
La centralità umana si ricava non solo dalla clausola generale dell’articolo 2 che impedisce ogni parificazione dell’uomo alla macchina ma anche al ruolo funzionalmente umano che la Costituzione riserva alla giurisdizione[7].
Il Giudice è soggetto soltanto alla legge in un’attività vincolata al ragionevole uso di principi e regole di cui si nutre quella legalità richiamata dall’art. 101 della Costituzione.
Egli è l’individuo nominato per concorso ed è anche beneficiario del principio di inamovibilità e di parità di cui all’art. 107 Cost.
Anche il modello del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. ruota intorno alla persona fisica con i necessari attributi di terzietà ed imparzialità.
Alla luce di tale contesto valoriale, ove essenziale è l’apporto umano per una decisione appropriata al caso concreto, il problema si sposta sul rapporto tra la tecnologia e l’interprete e sul metodo per pervenire ad una decisione appropriata al caso concreto alla luce delle coordinate del personalismo solidale del nostro sistema ordinamentale.
4. L’intelligenza artificiale e l’argomentazione giuridica
È ferma la convinzione di chi scrive che è importantissima una riflessione di quanti operano nel mondo della giustizia e del diritto su come si possa stimolare la più conducente implementazione dello strumentario tecnologico, migliorandone i meccanismi di funzionalità nella consapevolezza che ci troviamo di fronte a un ausilio di enorme importanza ma che non potrà mai sostituire il giudizio umano.
Come rappresentato nel precedente scritto, in questa rivista, sul tema[8], è che se appare illusorio e riduttivo esaurire il ruolo dell’interprete a quello di chi è chiamato a rinvenire la norma nella singola disposizione di legge, riducendo il procedimento interpretativo a una sorta di equazione matematica, non si giustificherebbe la pretesa di costruire la scienza giuridica esclusivamente mediante logiche simbolico-formali che recano con sé la inevitabile conseguenza di uniformare il pensiero giuridico, inducendoci alla rassegnazione dell’esistenza per il giurista di un modo obbligato di pensare.
In tali termini centrale è il tema del metodo e l’esigenza che esso sia funzionale alla ricostruzione e alla effettiva attuazione di un sistema ordinamentale le cui coordinate rimangono quelle del personalismo solidale e in cui l’individuazione della regola più adeguata al singolo rapporto giammai può esaurirsi in una dimensione puramente linguistica e meno che mai di pura logica, sia pure rivestita della dignità del sillogismo e attraverso il richiamo alla tecnica della sussunzione.
Ragionare in tali termini significa anche volersi distanziare dal pensiero di quanti ritengono che gli algoritmi che governano i software allo stato più diffusi si fondino sulla collaudata tecnica della sussunzione di cui si nutre l’art. 12 delle preleggi, nonostante ormai gran parte della dottrina civilistica italiana, tra cui voci particolarmente autorevoli[9], consideri questa disposizione obsoleta e di fatto non più utilizzabile, addirittura probabilmente incostituzionale per ragioni metodologiche certamente condivisibili.
In particolare, laddove la norma in parola enuncia come criterio sussidiario il ricorso ai principi generali dell’ordinamento, principi, per contro, da applicarsi primariamente in un sistema segnato dal pluralismo e dalla gerarchia di fonti multilivello e nel quale nessun senso ha postulare il ricorso a precise disposizioni (per analogia legis) sulle quali, viceversa, l’interprete è chiamato a esercitare a sua volta un controllo che implica inevitabilmente l’individuazione di una ratio conforme ai fondamenti del sistema stesso.
L’impostazione che porta all’individuazione della disciplina più adeguata e giusta per il conflitto da dirimere reca con sé la presa d’atto della impossibilità di considerare del tutto omologhe due fattispecie, come pure di discernere ciò che è previsto, e come tale coperto dalla disposizione, e ciò che in tesi non è previsto e pertanto è escluso dalla portata applicativa della singola regola[10].
Come significativamente osservato, una siffatta netta distinzione continua ad esprimere l’affidamento dell’interprete ad una logica puramente formale, del tutto inadeguata rispetto all’esigenza già sottolineata di mettere in comunicazione il diritto e la giustizia, mantenendo quella separazione tra la conoscenza del diritto e il fine pratico della applicazione di esso, il cui superamento è invece alla base della impostazione in esame. Autorevole dottrina afferma in proposito, assai incisivamente, che siffatta fallace separazione ci consegnerebbe una scienza giuridica che non sarebbe giurisprudenza e una giurisprudenza che in alcun modo potrebbe essere scienza[11].
Se, dunque, appare illusorio e riduttivo esaurire il ruolo dell’interprete a quello di chi è chiamato a rinvenire la norma nella singola disposizione di legge, riducendo il procedimento interpretativo a una sorta di equazione matematica, non si giustifica la pretesa di costruire la scienza giuridica esclusivamente mediante logiche simbolico-formali che recano con sé la inevitabile conseguenza di uniformare il pensiero giuridico, inducendoci alla rassegnazione dell’esistenza per il giurista di un modo obbligato di pensare.
Ecco, quindi, che si torna al metodo e alla esigenza che esso sia funzionale alla ricostruzione e alla effettiva attuazione di un sistema ordinamentale le cui coordinate rimangono quelle del personalismo solidale e in cui l’individuazione della regola più adeguata al singolo rapporto giammai può esaurirsi in una dimensione puramente linguistica e meno che mai di pura logica, sia pure rivestita della dignità del sillogismo e attraverso il richiamo alla tecnica della sussunzione.
Anche a voler ragionare in base all’attuale contesto normativo sull’intelligenza artificiale, e segnatamente, sulla previsione dell’articolo 15 del disegno di legge italiano posta in ragione dell’essenza squisitamente umana del processo decisionale, siamo tutti chiamati a rifuggire gli eccessi del razionalismo e della logica per realizzare la più alta finalità dell’ermeneutica che è quella di individuare, in una leale collaborazione tra teoria e prassi, la giusta modalità di concretizzazione di principi e regole per arrivare alla soluzione più rispondente ai valori posti alla base di quel progetto irrinunciabile di giustizia di cui l’ordinamento si nutre.
Se il compito dell’interprete ed in particolare del giudice è quello da più parti a gran voce e autorevolmente rivendicato, di andare al di là delle forme per comprendere appieno l’atteggiarsi delle relazioni nell’ambito della evoluzione dei sistemi sociali, individuando la ‘giusta’ soluzione del conflitto in rapporto ai principi e ai valori fondanti, in questa prospettiva assume particolare valenza il metodo dell’argomentare.
Eminenti personalità della nostra dottrina[12] ci hanno insegnato, infatti, che il problema va risolto nel sistema, nel pieno rispetto dei principi. E questo vale ancor più nel presente in cui si impone che buona parte della legislazione vigente, proprio perché promanante da un sistema di fonti di enorme complessità e di diversi livelli, sia interpretata, verificandone la conformità a norme sopravvenute o gerarchicamente sovraordinate, al fine di renderla applicabile a nuove fattispecie o a fattispecie che hanno acquisto, nel tempo, diversa valenza.
Ed allora l’equilibrio tra principi, e ancor più in generale tra disposizioni normative, è un equilibrio da rinvenirsi attraverso una dialettica costante tra l’ordine dei principi e la realtà del fatto, di quel fatto, senza che ovviamente ciò legittimi il superamento del diritto positivo, che anzi ne è il presupposto. La scelta ermeneutica, nel rispetto di regole e principi prefissati, presuppone la rilevanza di entrambi gli aspetti, senza che sia possibile rilevare in ciò alcuna contraddittorietà.
Cosicché, anche la definizione “metodo induttivo” – evocato dai più rispetto all’uso e all’elaborazione dei dati - appare riduttiva e parziale, giacché quando il Giudice, nella motivazione, fa riferimento ai principi, espressi o inespressi, ne riconosce la normatività e non fa altro che applicare il diritto positivo. E questo non vuol dire che la sua sia un’attività puramente dichiarativa, come non può significare che sia attività creativa, dal nulla o dal basso, perché è pur sempre vincolata al ragionevole uso di principi e regole di cui si nutre quella legalità richiamata dall’art. 101 della Costituzione.
In un sistema le cui coordinate rimangono salde, l’individuazione della regola più adeguata al singolo rapporto non può esaurirsi in una dimensione puramente linguistica e meno che mai di pura logica simbolica, sia pure con la dignità del sillogismo e della tecnica della sussunzione. Prima ancora, quindi, e di là dalle implicazioni in tema di tutela dei dati e della persona, siamo tutti chiamati a rifuggire gli eccessi della razionalità e della logica, spesso paludamento di visioni tendenzialmente nichiliste, per realizzare la più alta finalità dell’ermeneutica: quella di individuare, nel confronto con i fatti, la più alta modalità di concretizzazione di principi e regole. Quella che mette capo alla soluzione più rispondente ai valori giuridificati di cui l’ordinamento si nutre.
Così, per arrivare al cuore della riflessione che qui si tenta di fare, l’uso di algoritmi idonei a predire le soluzioni giurisprudenziali, utilizzando enorme mole di dati e metodi probabilistici o statistici, lungi dal limitarsi a ravvisare nell’argomentazione giuridica una materia logico-matematica, e prima ancora di porsi il problema del corretto trattamento dei dati che utilizza, deve tendere ad adeguarsi, attraverso lo sviluppo del ritrovato tecnologico, alle esigenze dell’oggetto stesso dell’argomentazione in parola.
Alla soluzione corretta e giusta, infatti, non può considerarsi estraneo il ricorso a quella sensibilità necessaria a cogliere le sfumature irripetibili delle dinamiche di interessi in gioco. E ancor qui mi verrebbe da chiedere se sia davvero conducente utilizzare enorme mole di dati altri o dati sintetici.
La giustizia oltre che dall’incertezza delle soluzioni, è messa in pericolo anche dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate, valide per tutti i contesti.
La certezza del diritto, peraltro, non è garantita dalla ripetitività delle soluzioni, giacché altro è affermare che la prevedibilità è utile per gli operatori, altro è pensare di costruire la scienza giuridica unicamente mediante la logica simbolica, avvalendosi dell’intelligenza artificiale laddove fosse allo stato capace riprodurre solo alcuni meccanismi intellettuali.
In altri termini, il processo mentale dell’uomo-interprete, il percorso argomentativo che mette capo alla decisione, risente di fattori che possono sfuggire alla logica sillogistica che appartengono in parte alla peculiarità del fatto, in parte ai concreti interessi delle parti e ai valori della Giustizia, in un contesto mutevole per definizione, perché soggetto alla Storia prima ancora che alle trasformazioni della Società.
In conclusione, ogni discorso sul metodo si debba compendiare nella necessità di ribadire con forza che il diritto è scienza sociale e umana, è dell’uomo e per l’uomo e che le generazioni future, quelle della società digitale e del compiuto sviluppo dei sistemi intelligenti, dovranno rimanere consapevoli del proprio ruolo, che dal punto di vista di chi scrive è quello di rendere la fredda astrattezza e generalità della legge sempre vicina e aderente alla concretezza, alla specificità, alla unicità ed alla umanità del fatto.
La tecnica, dunque, al servizio dell’uomo. Il pensiero tecnico non quale verità assoluta che ha come scopo quello di sostituirsi al pensiero umano. Lo sforzo dell’uomo deve essere quello di concepire un pensiero che si ponga al di sopra del pensiero tecnico, governandolo e ripristinando l’equilibrio turbato dalla pretesa dell’asservimento dell’uomo alla tecnica e non della tecnica al servizio dell’uomo.
Un pensiero che si ispiri all’etica di quei valori che fondano l’ordinamento giuridico vigente.
La rivoluzione digitale dell’intelligenza artificiale è in atto e occorre confidare davvero che l’umanità, come la storia dei grandi passaggi epocali dimostra, saprà certamente indirizzarla al meglio.
L’autrice è consigliera della Corte di Cassazione.
[1] [Regolamento (UE) 2024/1689 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 giugno 2024che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale e modifica i regolamenti (CE) n, 300/2008, (UE) n, 167/2013, (UE) n, 168/2013, (UE) 2018/858, (UE) 2018/1139 e (UE) 2019/2144 e le direttive 2014/90/UE, (UE) 2016/797 e (UE) 2020/1828 (regolamento sull'intelligenza artificiale), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea Serie L del 12 luglio 2024.-
[2] Nella classificazione quale sistema ad alto rischio dell’amministrazione della giustizia, l’AI ACT si pone nel solco dei principi della Carta Etica per l’uso dell’Intelligenza Artificiale nei sistemi giudiziari, adottata dalla Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ) nel 2018, documento in cui si enfatizza l’uso dell’IA come strumento di supporto e non sostitutivo del ruolo del giudice.
[3] C. Burelli, Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, Quaderni AISDUE, ISSN 2975 -2698 che, in considerazione del tenore del regolamento non eccessivamente prescrittivo, ritiene “che il grado di armonizzazione, se non propriamente minimo, non sia in senso stretto nemmeno massimo” sì da paragonare il regolamento più a una direttiva che non a un regolamento in senso stretto; per il procedimento amministrativo e le implicazioni sul piano del sistema multilivello delle fonti v. G. Gallone, L’improcrastinabile esigenza di tracciare una via “italiana” per l’intelligenza artificiale nel procedimento amministrativo. Opportunità e legittimità di un intervento regolatorio nazionale a corredo dell’AI Act, in Giustizia Insieme, maggio 2025 ove l’autore evidenzia le lacune normative dell’AI ACT nel procedimento amministrativo
[4] Il Governo italiano il 23 aprile 2024 ha approvato il “Disegno di legge per l’introduzione di disposizioni e di delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”, presentato in data 20 maggio 2024 al Senato, che lo ha approvato, con modifiche, in data 20 marzo 2025. La Camera ha poi approvato il testo, con modificazioni, in data 25 giugno 2025. Attualmente il disegno di legge è in corso d’esame in commissione al Senato in terza lettura.
[5] Il testo della norma è stato modificato al primo passaggio in Senato sostituendosi la parola “esclusivamente” con la parola “sempre”. Ciò anche per venire incontro alle osservazioni della Commissione europea che, a seguito di interlocuzioni informali, ha rilevato che l’esclusività della riserva avrebbe potuto non essere allineata con l’articolo dall’art. 6, co. 2, in combinato disposto con l’allegato III, n. 8. Nella sostanza il significato della norma non muta volendo chiaramente significare che non possono essere delegate alle macchine le funzioni essenziale dell’attività giurisdizionali che implicano una valutazione in termini decisionali.
[6] L’art. 29 Reg. (UE) 2024/1689 (Obblighi degli utilizzatori di sistemi di IA ad alto rischio), stabilisce che l’utilizzatore di un sistema di IA ad alto rischio deve «Disporre di conoscenze, competenze e formazione adeguate in merito all’utilizzo del sistema di intelligenza artificiale ad alto rischio.» e deve anche «Comprendere il funzionamento, le capacità, i limiti e i rischi del sistema, nonché essere in grado di monitorarlo e utilizzarlo in modo appropriato.»
[7] M. Luciani, La decisione giudiziaria robotica, in rivista AIC, 3, 2018, 872 e ss.; F.G. Pizzetti, La Costituzione e l’uso in sede giudiziaria delle neurosceinze (e dell’intelligenza artificiale) spunti di riflessione, in BioLaw Journal Rivista di Bio diritto: G. Gallone, Riserva di umanità e funzioni amministrative. Indagine e limiti dell’automazione tra procedimento e processo, Padova, 2023.
[8] R. D’Angiolella, L’Intelligenza Artificiale nei processi decisionali: il pericolo per la giustizia, in Giustizia Insieme, 4 novembre 2023, sull’inadeguatezza del metodo algoritmo per i processi decisionali
[9] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Cap. VIII, Il ruolo del giudice nella crisi delle fonti del diritto, pagg. 217-234, Giuffrè, Milano, 2017; Id. Intorno ai «principi generali del diritto» in Riv. dir. civ. 2016, p. 28 ss.; p. 34; P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-europeo delle fonti, V ed., Napoli, 2020, vol. II, p. 380 ss.; G. Capograssi, L’interpretazione, in Id., Il problema della scienza del diritto, Milano, 1962, p. 114; P. Femia, Decisori non gerarchizzabili, riserve testuali, guerra fra Corti. Con un (lungo) intermezzo spagnolo, in L. Mezzasoma, V. Rizzo e L. Ruggeri, Il controllo di legittimità costituzionale e comunitaria come tecnica di difesa, Napoli 2010, p. 148 ss..
[10] F. Viola, La legalità del caso, in I rapporti civilistici nell’interpretazione della Corte costituzionale. La Corte costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale, Atti del II Convegno nazionale S.I.S.Di.C., Napoli, 2007, p. 315 ss.
[11] N. Lipari, Vivere il diritto (a colloquio con Gabriele Carapezza, Figlia, Vincenzo Cuffaro e Francesco Macario) Napoli 2023, pp. 81 e 82.
[12] U. Scarpelli, Dalla legge al codice, dal codice ai principi in Riv di filosofia, 1978, p. 5 ss.; P. Perlingieri, Complessità e unitarietà dell’ordinamento giuridico vigente, in Rass. Dir. civ., 2005, p. 188 ss.; P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015, p. X, nonché G Benedetti, «Ritorno al diritto» ed ermeneutica dell’effettività, in Riv. trim dir. e proc. civ., 2018, p. 763 ss.
Giurisdizione su incarico di dirigente di struttura sanitaria complessa (nota a TAR Liguria, ordinanza 28 febbraio 2025, n. 230)
di Antonino Ripepi
Sommario: 1. Il conferimento dell’incarico dirigenziale nel settore sanitari. 2. Disamina dell’ordinanza. 3. Conclusioni.
1. Il conferimento dell’incarico dirigenziale nel settore sanitario
La disciplina della dirigenza sanitaria risulta da sempre connotata da un elevato livello di specialità e complessità, in quanto trae origine dal combinato disposto della disciplina generale contenuta nel capo II D. Lgs. n. 165/2001 e quella speciale del D. Lgs. n. 502/1992[i].
L’art. 15-ter, comma 2, D. Lgs. n. 502/1992, introdotto dal D. Lgs. n. 229/1999, precisava che il conferimento dell’incarico di direzione di struttura complessa fosse effettuato dal direttore generale sulla base di una «rosa di candidati» considerati idonei dall’apposita commissione. Sulla base di tale dato, parte della dottrina[ii] ha evidenziato il carattere fiduciario e discrezionale che caratterizzava la procedura di conferimento di incarichi di direzione di struttura complessa, in quanto il direttore generale poteva attribuire l’incarico all’uno o all’altro degli idonei con atto adottato mediante i poteri del privato datore di lavoro e in assenza di rigidi vincoli. Da ciò sarebbe derivata, sul piano strettamente giurisdizionale, l’impossibilità di configurare un diritto soggettivo alla nomina in capo ai candidati dichiarati idonei dalla commissione.
Dopo il D.L. n. 158/2012, pur essendo stato notevolmente ridimensionato, l’ambito della discrezionalità del direttore generale non è stato totalmente eliminato; infatti, la scelta finale spettava al direttore generale, che non era obbligato a nominare il candidato con il punteggio più elevato, pur essendo tenuto a motivare la scelta in caso di nomina di un candidato diverso da quello posizionatosi per primo in graduatoria[iii].
La disciplina delle selezioni per il conferimento degli incarichi di direzione di struttura complessa è oggi stabilita dall’art. 15, comma 7-bis, D. Lgs. 1992 n. 502.
Il testo della disposizione, vigente fino al 26 agosto 2022, prevedeva che la selezione avrebbe dovuto essere effettuata da una commissione composta dal direttore sanitario dell'azienda interessata e da tre direttori di struttura complessa nella medesima disciplina dell'incarico da conferire, individuati tramite sorteggio. La commissione così composta avrebbe ricevuto dall'azienda il profilo professionale del dirigente da incaricare e, sulla base dell'analisi comparativa dei curricula e dei titoli professionali posseduti, nonché dell’esito di un colloquio, avrebbe presentato al direttore generale una terna di candidati idonei. Il direttore generale, a seguire, avrebbe individuato il candidato da nominare nell'ambito della terna predisposta dalla commissione, e avrebbe dovuto motivare analiticamente la scelta di nominare uno dei due candidati che non avesse conseguito il punteggio migliore.
L’art. 20 della L. 5 agosto 2022 n. 118 ha sostituito la disciplina appena esaminata prevedendo, sostanzialmente, due fasi: la prima, di selezione dei candidati, è riservata ad una commissione composta dal direttore sanitario dell’azienda interessata e da tre direttori di struttura complessa nella medesima disciplina dell’incarico da conferire (art. 15, comma 7-bis, lettera a), del d.lgs. 502/1992). La seconda fase, di nomina, è riservata al direttore generale dell’azienda sanitaria interessata, che deve scegliere il dirigente da incaricare tra i soggetti idonei individuati dalla Commissione.
Tale novum ha posto rilevanti questioni inerenti alla fisionomia della procedura di conferimento dell’incarico e della discrezionalità del direttore generale, con conseguente fiduciarietà dell’incarico. Possiamo, dunque, esaminare tale contrasto interpretativo attraverso la lente dell’ordinanza del TAR Liguria, 28 febbraio 2025, n. 230, la quale, oltre a riassumere compiutamente la più recente giurisprudenza, rappresenta anche il primo caso di rinvio pregiudiziale ex art. 363 bis c.p.c. sollevato da un giudice amministrativo.
2. Disamina dell’ordinanza
Un primo profilo di indubbio interesse concerne la legittimazione del TAR a sollevare rinvio pregiudiziale ex art. 363 bisc.p.c. innanzi alla Corte di Cassazione.
In generale, la tesi negativa si fonda principalmente sull’argomento per cui le sentenze del giudice amministrativo possono essere impugnate dinanzi alla Corte di cassazione solo per questioni di giurisdizione. In dottrina si è così argomentato: “di tale questione pregiudiziale di rito (la giurisdizione, ndr) la S.C. – supremo organo regolatore dei conflitti di giurisdizione – può essere officiosamente investita dal giudice speciale. È dubbio, invece, che il rinvio possa concernere altre questioni: e non perché la decisione viziata da errores in iudicando vel in procedendo sia insindacabile (se non per eccesso di potere di giurisdizionale), argomento ormai privo di efficacia persuasiva dopo la riconosciuta legittimazione del giudice cautelare a provocare l’incidente interpretativo, ma perché l’interpretazione vincolante della Cassazione lederebbe l’autonomia del giudice speciale d’appello. Il T.A.R. o la sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti dovrebbe infatti applicare il principio di diritto, che il Consiglio di Stato o la sezione centrale d’appello non potrebbe disattendere”[iv].
La Corte di Cassazione, peraltro, ha già affrontato la questione dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale sollevato dal giudice tributario, ammettendola.
In particolare, gli argomenti contrari alla legittimazione del giudice tributario erano compendiabili come segue: una disposizione sostanzialmente analoga all’art. 363-bis c.p.c., originariamente inclusa nel disegno di legge di riforma del processo tributario (D.D.L. n. 2636 del 2022), è stata stralciata nel testo approvato dal Senato, unitamente a quella che prevedeva il ricorso nell'interesse della legge del Procuratore generale della Corte di cassazione contro le sentenze del giudice tributario di merito; mancanza, nella L. 26 novembre 2021, n. 206, di una specifica delega per l'introduzione di tale meccanismo nel processo tributario e mancanza di un’espressa norma di rinvio all'art. 363-bis c.p.c., nella disciplina dettata dal D. Lgs. n. 546 del 1992; netta suddivisione fra magistratura ordinaria e magistratura tributaria, ulteriormente accentuata dalla L. 31 agosto 2022, n. 130.
Tale impostazione è stata superata dalla Corte di Cassazione[v] sulla scorta del generale rinvio alle norme del c.p.c. contenuto nel D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, comma 2, che ne consente l'applicazione anche al processo tributario, per quanto non disposto dalle relative disposizioni e nei limiti della compatibilità con le stesse; inoltre, si è valorizzata l’unicità della disciplina del giudizio di cassazione, applicabile anche al processo tributario, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 62, comma 2 D. Lgs. n. 546 cit., e della collocazione topografica dell’art. 363-bis c.p.c., inserito proprio tra le disposizioni che disciplinano il giudizio di cassazione, nonché del tenore letterale della norma in esame, che nell'individuare l'organo legittimato a sollevare la questione pregiudiziale d'interpretazione fa riferimento al "giudice di merito", senza ulteriori specificazioni.
Neppure può ritenersi ostativa all'applicazione dell'art. 363-bis c.p.c., nel ragionamento della Suprema Corte, la distinzione della giurisdizione tributaria da quella civile, avuto riguardo alla comune individuazione, quale organo di vertice dell'ordinamento processuale, della Corte di cassazione, cui è attribuita la funzione di giudice di legittimità: finalità, queste, alla cui realizzazione contribuisce indubbiamente anche l'istituto del rinvio pregiudiziale, in quanto volto a sollecitare un responso anticipato della Corte in ordine ad una questione di diritto, sostanziale o processuale, non ancora risolta dalla giurisprudenza di legittimità ed avente carattere seriale, che presenti gravi difficoltà interpretative ed appaia rilevante ai fini della decisione della controversia sottoposta all'esame del giudice remittente. Pertanto, sussiste l’esigenza di estendere la funzione nomofilattico-deflattiva assegnata al rinvio pregiudiziale al giudizio tributario di merito.
Parte di tali argomentazioni favorevoli al rinvio pregiudiziale possono essere estese al giudice amministrativo, con particolare riferimento al rinvio esterno previsto dal codice di settore (per il processo amministrativo, ovviamente, il riferimento corre all’art. 39 c.p.a.) e all’esigenza di garantire la funzione nomofilattica.
In tale direzione, la dottrina favorevole all’apertura del rinvio pregiudiziale anche al giudice amministrativo ha osservato che “optando per una lettura estesa della disposizione, il raggio di operatività dell'art. 363-bis c.p.c. potrebbe ritenersi estendibile nella sua forma piena (quale che sia il tema di contrasto da sollevare): si tratterebbe di favorire così la funzione nomofilattica proprio in contesti che sarebbero altrimenti ad essa sottratti. Soluzione, quest'ultima, fondata su una logica non molto diversa da quella che giustifica l'invocabilità dell'istituto anche laddove il ricorso per cassazione non sarebbe altrimenti ammissibile o comunque dove non arriverebbe la stabilità del giudicato (come si è visto, nell'ambito della tutela cautelare, nella volontaria giurisdizione o in quella esecutiva)”[vi].
E, infatti, nel caso di specie il TAR Liguria osserva che: il quesito riguarda una questione sulla giurisdizione che è devoluta alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione e dell’art. 110 c.p.a.; l’art. 39, comma 1, del c.p.a. prevede che, per quanto non disciplinato, si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali; al giudizio sulla impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato si applicano le norme sul giudizio di cassazione, tra le quali figura anche l’articolo 363-bis c.p.c.; la Corte di cassazione rappresenta l’organo di vertice dell'ordinamento processuale, cui è attribuita la funzione di giudice di legittimità, con il compito di assicurare l'esatta osservanza, l'uniforme interpretazione della legge e l'unità del diritto oggettivo.
Si giunge, pertanto, alla conclusione secondo cui “l’istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione di diritto, previsto dall’articolo 363-bis del codice di procedura civile, è applicabile anche al processo amministrativo qualora la questione interpretativa (nella specie, attinente alla spettanza della giurisdizione sulle procedure di conferimento di incarichi direttivi di struttura sanitaria complessa ai sensi dell’articolo 15, comma 7-bis, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, come modificato dall’art. 20 della legge 5 agosto 2022, n. 118) risulti necessaria per la definizione del giudizio e sussistano difficoltà interpretative confermate da posizioni contrastanti espresse dal Consiglio di Stato”.
Nel merito, si osserva che il contrasto è effettivo e recente, come dimostrano due sentenze del Consiglio di Stato del 2024, depositate a poca distanza di tempo l’una dall’altra e pervenute a esiti argomentativi diametralmente opposti.
In ordine di tempo, nella fattispecie scrutinata da Cons. Stato, sez. III, 19 luglio 2024, n. 6534, era stata impugnata la pronuncia del TAR Puglia che declinava la giurisdizione negando la natura “concorsuale” (e, quindi, pubblicistica) della selezione in questione, relativa all’incarico dirigenziale di struttura sanitaria complessa. L’appellante deduceva che il novellato art. 15, comma 7-bis, d.lvo n. 502/1992 ha strutturato la procedura de qua in forma concorsuale, con il conseguente radicamento della giurisdizione del giudice amministrativo sulle relative controversie, in quanto la nomina del direttore di struttura complessa non avviene più sulla base di una scelta fiduciaria del direttore generale, che poteva individuare uno qualsiasi dei candidati idonei nell’ambito della terna proposta dalla commissione, ma sulla base di una procedura concorsuale per titoli e colloquio, che culmina con una graduatoria e con un vincitore della selezione; la procedura, inoltre, è aperta ai candidati esterni, non essendo riservata ai dipendenti interni all’ASL che la bandisce, per cui all’esito della selezione l’Amministrazione instaura un nuovo rapporto di lavoro con il vincitore, che potrebbe non essere già dipendente della stessa ASL.
Il Consiglio di Stato, dopo aver esaminato il quadro normativo antecedente e successivo all’entrata in vigore dell’art. 20 L. n. 118/2022, ritiene di confermare la statuizione del giudice di primo grado, in quanto i pur significativi cambiamenti di regime non hanno alterato le caratteristiche essenziali del procedimento selettivo, militanti nel senso della sua estraneità al modulo concorsuale “puro” e della loro afferenza all’ambito dei poteri datoriali di gestione del rapporto di lavoro. Infatti, permane la carenza in esso di vere e proprie “prove selettive”, incentrandosi la valutazione comparativa sui contenuti dei curricula dei candidati e rappresentando gli esiti del colloquio solo uno degli elementi da prendere in considerazione ai fini della formazione della graduatoria; inoltre, la previsione del colloquio era presente anche nello schema procedimentale previgente, senza che esso fosse ritenuto idoneo dalla Cassazione a mutare le sue conclusioni in punto di assenza nella procedura di “prove selettive”, ai fini della risoluzione della relativa questione di giurisdizione.
In ogni caso, e ciò è dirimente secondo il Consiglio di Stato, non è venuto meno il carattere “interno” della selezione, presupponente il possesso della qualifica dirigenziale – e quindi la sussistenza di un rapporto lavorativo in essere con l’Amministrazione – così come previsto dall’art. 15, comma 7-bis, lett. b) d.lvo n. 502/1992, il quale continua a prevedere, anche ai fini della perimetrazione dei destinatari della selezione, che “la commissione riceve dall’azienda il profilo professionale del dirigente da incaricare”.
Diverso è l’esito cui è pervenuto Cons. Stato, sez. III, 18 ottobre 2024, n. 8344 che, invece, ha accolto l’appello avverso la sentenza di primo grado declinatoria della giurisdizione.
Il Collegio si confronta espressamente con il precedente rappresentato dalla sentenza 6534/2024 appena esaminata, e afferma che la fattispecie concreta si pone in termini alquanto diversi dalla precedente. Infatti, nel bando analizzato dalla pronuncia n. 6534/2024 si prevedeva che il colloquio dovesse vertere genericamente sulla “valutazione delle capacità professionali del candidato nella specifica disciplina, con riferimento anche alle esperienze professionali documentate, nonché all’accertamento delle capacità gestionali, organizzative e di direzione del medesimo con riferimento alle caratteristiche dell’incarico da svolgere, rispondenti alle caratteristiche professionali determinate dall’Azienda. La Commissione terrà conto della chiarezza espositiva, della correttezza delle risposte, dell’uso di linguaggio scientifico appropriato, della capacità di collegamento con altre patologie o discipline o specialità per la miglior risoluzione dei quesiti anche dal punto di vista dell’efficacia e dell’economicità degli interventi. Il colloquio è anche diretto a testare la visione e l’originalità delle proposte sull’organizzazione della struttura complessa, nonché l’attitudine all’innovazione ai fini del miglioramento dell’organizzazione e della soddisfazione degli stakeholders della struttura stessa”.
Inoltre, il bando aggiungeva quanto segue: “nel caso la Commissione lo ritenga opportuno potrà esprimere valutazioni specifiche in merito all’idoneità dei candidati attraverso modalità che consentano di stabilire relazioni con la struttura ed il personale ad essa appartenente, anche attraverso sopralluoghi e colloqui, stabilendo i tempi di inserimento nell’ambito della procedura e dandone preventiva comunicazione al candidato, al fine di acquisire ulteriori elementi atti a permettere al candidato di esprimere nel colloquio e nella relazione la propria visione sulla conduzione della struttura. Nell’ambito della procedura selettiva e per integrare gli elementi di valutazione del colloquio, potrà essere richiesto ai candidati di predisporre, nel giorno fissato per il colloquio, una relazione scritta su temi individuati dalla Commissione. In tal caso, la relazione scritta costituisce elemento di valutazione nell’ambito del colloquio, contribuendo alla definizione del relativo tetto massimo di punteggio”.
La prova del colloquio, quindi, oltre a presentare un contenuto generico, si calava in un contesto di variabili valutative ulteriori e aggiuntive, che ne indebolivano il carattere strettamente comparativo e l’incidenza diretta sulla graduazione di merito.
Nel caso concreto esaminato dal Consiglio di Stato nella sentenza 8344/2024, di contro, il peso ponderale del colloquio è pari a quello della valutazione dei titoli (essendo entrambe le prove apprezzabili con l’attribuzione di 50 punti); inoltre, tanto la valutazione dei titoli quanto quella del colloquio risultano tassativamente orientate su una rigida elencazione di ambiti o sottocriteri - ognuno dei quali associato ad uno specifico range ponderale - non integrabili con altri parametri valutativi. A più riprese nel bando si ribadisce, infatti, che “non è consentita l’introduzione di ulteriori ambiti di valutazione all’infuori di quelli sopra indicati, né la modifica dei pesi/valori percentuali come sopra fissati”.
Si registrano, quindi, specifiche peculiarità differenziali rispetto al caso esaminato dalla pronuncia n. 6534/2024 consistenti nel maggior dettaglio dei parametri valutativi, con esclusione di criteri diversi da quelli prestabiliti, nell’assenza di possibili spazi di ponderazione integrativa e astratta da riferimenti predefiniti e, dunque, nella più rigida conformazione del potere di giudizio della Commissione. In definitiva, secondo il Consiglio di Stato, la fattispecie concreta in esame avrebbe presentato connotati di “concorsualità” tali da giustificare l’attrazione alla giurisdizione amministrativa.
Dopo avere dato conto del contrasto giurisprudenziale che abbiamo cercato di ricostruire, il TAR Liguria, con l’ordinanza in commento, osserva che il depotenziamento del carattere fiduciario della nomina non vale di per sé a sottrarre l’attribuzione degli incarichi dirigenziali all’ambito di applicabilità dell’art. 63, comma 1, D. Lgs. 165/2001, ben potendo anche il privato datore di lavoro predisporre regole per l’individuazione tra i propri dipendenti, dei destinatari degli incarichi dirigenziali. Inoltre, l’art. 63 cit. configura, in relazione alle controversie relative al conferimento degli incarichi, la giurisdizione del giudice ordinario a prescindere dalla natura discrezionale o vincolata della procedura di conferimento.
Pertanto, al fine di evitare che il protrarsi di una situazione di incertezza determini significativi pregiudizi ai danni degli interessati, il TAR Liguria sottopone la questione interpretativa dell’art. 15, comma 7-bis d.lgs. 502/92 e dell’art. 63 D. Lgs. 165/2001 in relazione alla sussistenza o meno della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di conferimento di incarichi dirigenziali di struttura complessa alla Cassazione, ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c.
3. Conclusioni.
L’ordinanza del TAR Liguria, in definitiva, si segnala per un duplice profilo: sul piano processuale, per l’affermazione – per la prima volta – della legittimazione del G.A. a sollevare rinvio pregiudiziale; nel merito, per una compiuta ricostruzione del quadro giurisprudenziale in tema di conferimento di incarichi di direzione di strutture sanitarie complesse.
Il dibattito pretorio, tuttavia, non avrebbe potuto essere compiutamente ricostruito senza fare riferimento ai concetti generali che si stagliano sullo sfondo della tematica del conferimento di incarichi dirigenziali nel settore sanitario, quali la fiduciarietà, la discrezionalità e la paraconcorsualità della procedura, che hanno un peso determinante nell’attrarre la giurisdizione verso un polo o l’altro e che, sicuramente, rivestiranno un ruolo decisivo anche nella decisione della Suprema Corte, laddove il rinvio venga ritenuto ammissibile.
[i] F. Figorilli, Il conferimento degli incarichi di direzione di struttura complessa in sanità fra equilibri consolidati e tentativi di riforma, in Nuove autonomie, 2023, 2, pp. 523-553; F. Saitta, Incarichi di direzione di struttura complessa nelle aziende sanitarie: una giurisdizione … case by case?, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni 2016, 205 ss.; E. N. Fragale, La dirigenza delle aziende sanitarie dopo la c.d. riforma Balduzzi, in Istituzioni del federalismo, 2013, pp. 551 ss.; M. Nicolosi, Incarichi di direzione di struttura sanitaria complessa e tutela risarcitoria prima della l. n. 189 del 2012 (“riforma Balduzzi”), in Arg. Dir. Lav., n. 4-5/2014; M. N. Bettini, Dirigenza sanitaria e disciplina di conferimento degli incarichi, in Lav. Prev. Oggi, 2008, pp. 555 ss.; F. Lunardon, La dirigenza sanitaria, in S. Rodotà, P. Zatti (diretto da), Trattato di biodiritto, in R. Ferrara (a cura di), Salute e sanità, Milano, pag. 325 ss.; A. Pioggia, Direzione e dirigenza nelle aziende sanitarie. Una analisi della distribuzione del potere decisionale alla luce degli atti aziendali, in San. Pubbl. Priv., 2008, pag. 5 ss.; F. Carinci, S. Mainardi (a cura di), La dirigenza nelle pubbliche amministrazioni. Dal modello unico ministeriale ai modelli caratterizzanti le diverse amministrazioni, Milano, 2005; C. Bottari, P. Tullini (a cura di), La dirigenza sanitaria. Amministrativisti e lavoristi a confronto, Rimini, 2004; R. Balduzzi, G. Di Gaspare (a cura di), Sanità e assistenza dopo la Riforma del Titolo V, Milano, 2002; A. Boscati, Norma transitoria. Norme per la dirigenza del Servizio sanitario nazionale, in F. Carinci, L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, vol. II, in F. Carinci (diretto da), Commentario di diritto del lavoro, Torino, 2004, pag. 1010; O. Mazzotta, Attribuzioni e poteri del dirigente sanitario, in Lav. Pubbl. Amm., 2003, pag. 4; L. Zoppoli, La riforma del titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i pezzi di un difficile puzzle?, in Lav. Pubbl. Amm., 2002, pag. 149 ss.; P. Lambertucci, Dirigenza sanitaria, responsabilità dirigenziale e gestione delle risorse umane: brevi appunti, in Lav. Pubbl. Amm., 2006; M. Sgroi, La dirigenza del Servizio Sanitario Nazionale, in F. Carinci, L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, op. cit., pag. 1011; L. Torchia, La dirigenza del servizio sanitario nazionale, in Sanità Pubbl., 1997, pag. 261; R. Ferrara, Organizzazione e principio di aziendalizzazione nel Servizio Sanitario Nazionale: spunti problematici, in C. Bottari, P. Tullini(a cura di), La dirigenza sanitaria. Amministrativisti e lavoristi a confronto, op. cit.
[ii] A. Riommi, La tutela giurisdizionale nel conferimento di incarichi di direzione di struttura complessa nell'ambito della sanità pubblica, in LPA, n. 4/2024.
[iii] A. Riommi, op. cit. Sul punto, non ci si può esimere dal citare Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 6 marzo 2020, n. 6455, secondo cui “La procedura per il conferimento di incarico di direttore di struttura complessa, prevista dagli artt. 15 e 15 ter del d.lgs. n. 502 del 1992, ha carattere non concorsuale, essendo articolata secondo uno schema che prevede la scelta di carattere essenzialmente fiduciario di un professionista ad opera del direttore generale della ASL, nell’ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei da un’apposita commissione sulla base di requisiti di professionalità e capacità manageriali; ne consegue che, avendo la fase di nomina carattere dominante rispetto all’intero percorso della selezione, le relative controversie, attinenti sia alla procedura di selezione (ad esempio concernenti l’accertamento del diritto al conferimento dell’incarico), sia al provvedimento discrezionale, di natura privatistica, del direttore generale, rientrano, per il principio di concentrazione delle tutele, nella giurisdizione del giudice ordinario, non potendo frazionarsi la giurisdizione con riferimento alle singole fasi del procedimento” (enfasi aggiunta). Si tratta(va), infatti, di una procedura comparativa e non certamente di un “concorso” in senso tecnico: “L’incarico di direttore (…) di struttura complessa deve essere conferito previa valutazione comparativa tra una rosa di candidati, ex art. 15-ter del d.lgs. n. 502 del 1992; tale previsione ha carattere di norma imperativa – atteso che la comparazione tra più aspiranti è funzionale ai principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione e concorre alla salvaguardia dell’interesse pubblico alla tutela della salute dei cittadini – con la conseguenza che, in mancanza del rispetto di tale procedura, l’atto negoziale di conferimento dell’incarico è nullo, e tale nullità può e deve essere rilevata d’ufficio dal giudice”[iii].
[iv] M. Cirulli, Osservazioni sull’art. 363 bis c.p.c., in www.judicium.it, 8 novembre 2024.
[v] Cass., Sez. Un., 13 dicembre 2023, n. 34851.
[vi] R. Tiscini, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione dell'art. 363-bis c.p.c. La disciplina. La casistica, in Giust. civ., 2023, 343.
Sommario: 1. L’Alta Corte disciplinare: perché? – 2. La diversità da alcune precedenti proposte. – 3. La burocratizzazione della magistratura passa anche per il nuovo sistema disciplinare. – 4. La composizione: la quota di magistrati, elitaria, minoritaria e mista. – 5. Quale sarà la sorte dell’azione disciplinare? – 6. I controlli impugnatori sulle decisioni dell’Alta Corte. – 7. L’incertezza sul futuro della giustizia disciplinare e non solo.
1. L’Alta Corte disciplinare: perché?
La riforma costituzionale della giustizia fa discutere soprattutto per la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri ma si compone di altri due capitoli, forse ancor più dannosi per l’equilibrato assetto del potere giudiziario.
Il disegno di legge che sta per raggiungere il suo finale approdo guarda anche alla giustizia disciplinare della magistratura tutta, giudici e pubblici ministeri, spogliando i due Consigli superiori del futuro di un’attribuzione tipica dei modelli di governo autonomo dell’ordine giudiziario, appunto la disciplina.
Perché lo faccia non è chiaro.
Se l’obiettivo fosse di porre fine alla cd. giustizia domestica, raccontata spesso – con troppa superficialità e mistificazione – come luogo dell’indulgenza corporativa, il prodotto non dovrebbe essere quello di un nuovo organo di giustizia a composizione prevalente di magistrati.
Se il fine fosse quello di spezzare il collegamento fiduciario, e quindi la potenziale negativa incidenza sulla imparzialità dei giudici disciplinari togati – oggi denunciata senza dati oggettivi al solo scopo di svilire l’immagine del Consiglio superiore della magistratura –, non se ne comprenderebbe il senso una volta che i due Consigli superiori che sorgeranno dalle ceneri dell’attuale saranno composti (anche) da magistrati non più eletti ma rigorosamente sorteggiati.
Non è da escludere, nella ricerca di un plausibile senso dell’estensione della riforma alla materia disciplinare – invece ignorata dagli abbinati disegni di legge di iniziativa parlamentare che hanno preceduto l’iniziativa governativa – che si sia voluto introdurre un tema in qualche modo caro al maggior partito dell’attuale opposizione politica, forse per stemperare la prevedibile contrarietà alla riforma nel suo complesso.
2. La diversità da alcune precedenti proposte
Si ricorderà che di un’Alta Corte tratta anche il disegno di legge S-94 della XIX (attuale) Legislatura[1], che la tratteggia come organo di giurisdizione per le controversie riguardanti l’impugnazione dei provvedimenti disciplinari adottati dal Consiglio superiore della magistratura, dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, dal Consiglio di presidenza della Corte dei conti, dal Consiglio della magistratura militare e dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, oltre che per le controversie riguardanti l’impugnazione di ogni altro provvedimento dei suddetti organismi riguardante i magistrati[2].
Questo disegno di legge, dunque, non sostituisce l’Alta Corte al Consiglio superiore della magistratura, e agli altri organi di governo autonomo delle magistrature speciali, che resta e restano giudici disciplinari di primo grado. Esso tenta, peraltro, una parziale unificazione delle giurisdizioni – profilo del tutto ignorato dal disegno di legge governativo che prosegue a tappe forzate la sua corsa verso il referendum confermativo – sì come molti anni prima aveva proposto il testo licenziato dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali della XIII Legislatura, istituita con l. n. 1 del 24 gennaio 1997 (c.d. commissione D’Alema). Anche al tempo si ragionava di una Corte di giustizia, a cui affidare le attribuzioni disciplinari nei riguardi sia dei magistrati ordinari, ivi compresi i pubblici ministeri, sia dei magistrati amministrativi, che era in aggiunta organo di tutela giurisdizionale in unico grado contro i provvedimenti assunti dai Consigli superiori della magistratura ordinaria ed amministrativa.
Nulla di tutto questo nell’Alta Corte del disegno Nordio-Meloni.
Questo nuovo giudice speciale, istituito soltanto per la gestione della materia disciplinare nei riguardi delle due magistrature ordinarie, giudici e pubblici ministeri – magistrature divise ma, ciò nonostante, componenti di un unico ordine giudiziario – trova l’unica sua ragion d’essere nella spoliazione di una delle attribuzioni tipiche degli organi di governo autonomo.
I due Consigli superiori, che già risulteranno indeboliti dalla separazione e soprattutto dal meccanismo del sorteggio per la selezione dei loro componenti, subiranno un significativo impoverimento funzionale, inevitabilmente destinato a ridurne l’effettivo tono costituzionale. Previsti dalla Costituzione, ma per disposizione costituzionale i due Consigli superiori patiranno un’amputazione delle competenze[3] e saranno oggetto di una spiccata diffidenza, crudamente espressa nella scelta di recidere ogni legame di rappresentanza con le magistrature “amministrate”.
3. La burocratizzazione della magistratura passa anche per il nuovo sistema disciplinare
L’istituzione dell’Alta Corte, pur priva di un autonomo senso, concorre al ridimensionamento dell’ordine giudiziario. Pensata forse – come appena prima ipotizzato – per attirare qualche consenso tra le fila dell’opposizione parlamentare, è comunque funzionale a rendere più fragile il corpo giudiziario.
Separazione delle magistrature, introduzione del concetto di carriera nel testo costituzionale – nell’art. 102, comma primo, infine si aggiunge che le norme di ordinamento giudiziario disciplinano le distinte carriere –, rafforzamento della leva disciplinare sono i pilastri di una strategia che mira a ridisegnare i confini tra politica e giustizia, nell’illusoria e fuorviante speranza che sia questa la strada da battere per restituire alla Politica il suo primato.
Il tentativo abbastanza scoperto è di sospingere la magistratura – che in questi lunghi anni di storia repubblicana si è nutrita di elaborazioni sul proprio ruolo, sulla propria funzione sociale che hanno direttamente attinto ai principi costituzionali – entro il recinto dell’agire burocratico, per ripiegarla interamente sui propri interessi di carriera, mossa dalla speranza di progressione e promozione e frenata dal timore delle punizioni disciplinari.
Non deve passare inosservato che il testo della riforma non si limita al trasferimento di competenze tra Consigli superiori e nuovo giudice speciale, ma incarica il legislatore ordinario di adeguare le leggi sulla giurisdizione disciplinare alla nuova configurazione. Certo, un adeguamento è nell’ordine naturale delle cose, per il semplice fatto che la sostituzione di un tribunale disciplinare con uno di nuova istituzione, che ingloba anche le funzioni di giudice di secondo grado, reca con sé la necessità di qualche adattamento.
Data l’ampiezza di previsione non può però escludersi che il legislatore ordinario potrà cogliere l’occasione per porre mano ad un aggravamento dell’apparato disciplinare in linea e in conformità con uno dei possibili significati della creazione di un giudice ad hoc, a null’altro votato se non alla repressione degli illeciti disciplinari dei magistrati.
È affermazione difficilmente contestabile che l’attribuzione della competenza disciplinare all’organo di governo autonomo comporti fisiologicamente una maggiore capacità di individuare, per la gran parte delle fattispecie costituite dagli illeciti funzionali, l’effettiva violazione dei doveri professionali, al di là del riscontro formale della ricorrenza degli indici esteriori della caduta deontologica.
Si può mettere a frutto, ove concorrano in uno stesso organo le funzioni disciplinari e le attribuzioni di cd. amministrazione della giurisdizione, la piena conoscenza del contesto, delle dinamiche che lo connotano, della situazione organizzativa degli uffici giudiziari, per meglio conoscere dell’illecito funzionale in addebito[4].
Se si conoscono le reali condizioni e il modo in cui operano i singoli uffici giudiziari, si può valutare con maggior aderenza alla realtà se un determinato comportamento, che in ipotesi abbia violato i doveri funzionali, meriti o meno di essere sanzionato.
Di contro, con l’attribuzione della materia disciplinare ad un organo estraneo all’organizzazione giudiziaria, privo di quell’utile bagaglio di conoscenze di contesto, è pressoché inevitabile che si giunga ad un’accentuazione del carattere repressivo del sistema disciplinare[5].
Il rischio concreto, con questo mutamento di modello, è che il sistema disciplinare potrà, nei fatti, scolorirsi in un suo tratto costitutivo, che molti anni addietro fu messo in evidenza dalla Corte costituzionale – Corte cost. n. 100 del 1981 – quando ricordò che il fondamento dell’intervento disciplinare va ricercato non già, come avviene per gli impiegati pubblici, “nel rapporto di supremazia speciale della pubblica amministrazione verso i propri dipendenti”, data la soggezione dei magistrati soltanto alla legge e a null’altro, ma nell’esigenza di garantire “il regolare svolgimento della funzione giudiziaria”, che può essere soddisfatta, si aggiunge qui, se non lo si sbilancia in direzione spiccatamente punitiva e se si conforma ogni suo aspetto all’obiettivo, finalisticamente preminente, di irrobustimento di un’adeguata (e sempre più ricca) cultura professionale.
4. La composizione: la quota di magistrati, elitaria, minoritaria e mista
L’Alta Corte sarà composta da magistrati di entrambe le magistrature (nove membri, di cui sei giudici e tre pubblici ministeri), che saranno selezionati per sorteggio, sì come quelli dei Consigli superiori, e da esperti, professori in materie giuridiche ed avvocati, in parte di indicazione parlamentare, sempre attraverso la mediazione del sorteggio, ma del sorteggio cd. temperato (tre membri), ed in parte nominati dal Presidente della Repubblica (tre membri).
Qui, a differenza che per i Consigli superiori, il ricorso al sorteggio è meno criticabile. L’Alta Corte ha infatti funzioni esclusivamente giurisdizionali, non esercita alcuna attribuzione di politica giudiziaria.
Ciò non significa che l’innovazione sia condivisibile.
Alcune ragioni di critica si situano anzitutto, come già detto, a monte, nella scelta di sottrarre la materia disciplinare al Consiglio superiore senza che se ne possa apprezzare una qualsivoglia ragione che non sia quella di deprimere il governo autonomo e inasprire i meccanismi punitivi[6]. Altre attengono, invece, alla restrizione della platea di magistrati tra cui sorteggiare i componenti dell’Alta Corte. Il sorteggio verrà fatto tra gi appartenenti alle due magistrature “con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità”.
Traspare chiaramente l’idea di una magistratura verticalmente ordinata, ove chi occupa i posti in alto della piramide orienta e controlla quanti esercitano la giurisdizione “in basso”[7].
Non v’è, infatti, altra ragione nello scegliere i componenti dell’Alta Corte soltanto tra i cassazionisti se non rimarcare un carattere latamente gerarchico, che per il vero da qualche tempo si sta già facendo strada nell’organizzazione giudiziaria. Si è, ad esempio, manifestato con la recente riforma (cd. Cartabia) dell’ordinamento giudiziario, che ha inteso riservare un ruolo nelle valutazioni di professionalità al dato dell’esito degli affari nei successivi gradi di giudizio, come se una riforma o un annullamento intervenuto nei gradi di impugnazione possano dire qualcosa, e qualcosa di utile, sulla professionalità del magistrato che ha adottato e redatto il provvedimento impugnato.
Né può pensarsi che la decisione di sorteggiare soltanto tra i magistrati con funzioni di legittimità possa spiegarsi alla luce dell’attribuzione all’Alta Corte della competenza sulle impugnazioni, con assorbimento quindi del ruolo e delle funzioni oggi esercitate dalla Sezioni unite civili della Corte di cassazione. Sul punto si tornerà a breve, ma pare assai poco discutibile che l’eventuale attribuzione del giudizio di legittimità sulle sentenze disciplinari non possa giustificare la selezione ristretta, che trascura, a questo punto del tutto irragionevolmente, le competenze professionali dei giudici di merito e l’importanza del giudizio sul merito disciplinare.
Non comporranno l’Alta Corte il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, che invece saranno componenti di diritto, ciascuno del Consiglio superiore di diretto riferimento.
L’assenza dall’Alta Corte delle figure di vertice della Corte di cassazione si spiega ricordando che la materia disciplinare già oggi, seppure attribuita al Consiglio superiore nel suo complesso, è affidata in forza di legge ordinaria alla sezione disciplinare del Consiglio superiore stesso, di cui, come di qualunque altra articolazione interna, non fanno parte né il primo presidente né il procuratore generale.
Eppure, per quanto non fosse da attendersi altro, la mancanza dei due togati rende ancor più evidente un aspetto di struttura della nuova Corte che non si vede come possa esser condotto ad un disegno di sistematica razionalità.
Si può facilmente convenire che le attribuzioni rimesse ai Consigli superiori non siano certo più rilevanti della materia disciplinare sul piano dell’effettività dei principi di autonomia e di indipendenza dei magistrati. Sul terreno della responsabilità disciplinare si sperimenta, come è facilmente comprensibile, la maggiore debolezza del magistrato raggiunto da una incolpazione per scelta ordinariamente del Ministro della giustizia. Se così è, non v’è modo di spiegare perché mai i Consigli superiori conserveranno la maggioranza numerica, nella misura di 2/3, della componente cd. togata, ulteriormente rafforzata dalla presenza del componente di diritto, e l’Alta Corte invece avrà la componente magistratuale in maggioranza sì ma di quota inferiore a 2/3 (9 su 15 componenti è quota di poco inferiore a 2/3).
Resta poi incomprensibile, e questo è il profilo critico di maggior rilievo, la vistosa dissonanza dalla dichiarata ragione di fondo del nuovo assetto costituzionale, di eliminare i luoghi in cui giudici e pubblici ministero possano contaminarsi reciprocamente. La separazione delle magistrature si sostanzia soprattutto nella creazione di due diversi Consigli superiori, per rimediare, secondo quanto reiteratamente dichiarato dai proponenti la riforma e tra questi dal Ministro della giustizia, all’eccentricità che oggi vede pubblici ministeri occuparsi, nell’ambito dell’unico Consiglio superiore, delle carriere dei giudici, e viceversa.
Ebbene, sarebbe stato coerente dividere anche gli organi della giustizia disciplinare, e non consentire la commistione di giudici e pubblici ministeri proprio nell’ambito degli affari disciplinari, ove le temute e sbandierate cointeressenze dovrebbero essere, nella distorta ottica riformatrice, ancora più di nocumento per la vagheggiata terzietà dei giudici.
Insomma, si fa tanto per separare i pubblici ministeri dai giudici, si lacera un ordito costituzionale che ha retto in questi lunghi, e non di rado bui, anni di storia repubblicana, durante i quali l’ordine giudiziario è stato messo a dura prova nel contrasto di gravi fenomeni criminali – terrorismo politico e mafia stragista – e ha svolto al meglio la sua funzione di tutela dell’ordinamento costituzionale e delle libertà di tutti, e si muta radicalmente prospettiva nella costruzione dell’Alta Corte, ove saranno apertamente tradite le aspettative riformatrici di due magistrature per compartimenti stagni.
I pubblici ministeri presenti nell’Alta Corte si occuperanno degli affari disciplinari dei giudici, e viceversa, quindi saranno i dossier più delicati, quelli disciplinari, a continuare ad essere oggetto di condivisione, senza che venga dato conto del perché ciò non dovrebbe mettere in pericolo la terzietà dei giudici, per come è raccontata dai sostenitori della riforma.
Peraltro, se nell’Alta Corte giudici e pubblici ministeri non fossero insieme, non si potrebbe affermare che il nuovo assetto assicurerà la prevalenza numerica della componente togata. Solo grazie al conteggio cumulativo (sei giudici e tre pubblici ministeri) può dirsi che anche l’Alta Corte osserverà il principio della prevalenza dei magistrati, ma il vero è che ciascuna magistratura, se isolatamente considerata come dovrebbe essere in nome della rigida separazione, si vedrà componente minoritaria, senza che sia dato comprendere la diversità di disciplina per la composizione dei due Consigli superiori che, come già detto, si occuperanno di aspetti della carriera dei magistrati di riferimento non certo di maggior rilievo ed importanza.
Infine, se si guarda ai numeri, non è difficile prevedere che nella composizione dei collegi in cui si articolerà l’Alta Corte, secondo la disciplina che verrà dettata dal legislatore ordinario, la rappresentanza dei magistrati giudicanti o requirenti potrà esser sì garantita, come prescrive espressamente il disegno di legge, ma non sempre in piena osservanza del criterio di maggioranza numerica, almeno non se le due magistrature, come pare coerente con l’intera architettura della riforma, verranno isolatamente considerate.
5. Quale sarà la sorte dell’azione disciplinare?
Il testo della riforma ovviamente tace non incidendo sulla previsione dell’art. 107, che assegna al Ministro della giustizia la titolarità dell’azione disciplinare, ma non è affar da poco prefigurarsi quale potrà essere la complessiva sistemazione dell’iniziativa disciplinare che, oggi, è attribuzione anche del procuratore generale della Corte di cassazione in forza della dell’art. 10, comma 1, n. 3 della legge n. 195/1958 (istitutiva del Consiglio superiore della magistratura).
Operata la separazione delle carriere, in modo – si è prima detto – rigido ma incoerente, potrebbe trovare valida giustificazione il mantenimento dell’azione disciplinare in capo al procuratore generale in riferimento alla magistratura requirente, ed anzi potrebbe porsi in linea con una probabile connotazione gerarchica di quegli uffici quale elemento di compensazione dell’assai poco equilibrata accentuazione della figura del pubblico ministero, addirittura rafforzata dalla creazione di un proprio Consiglio superiore in cui quei magistrati avranno, a dispetto di quanto avviene oggi, la prevalenza numerica dei 2/3 sulla componente laica.
Il rafforzamento del modulo gerarchico renderebbe del tutto coerente che il procuratore generale della Corte di cassazione, probabilmente di lì a breve elevato a figura di vertice di una struttura piramidale, abbia il potere di azione sui magistrati che occuperanno i gradi inferiori della gerarchia.
Vi sarebbe però un tratto dissonante.
Il titolare dell’iniziativa disciplinare si troverebbe ad esercitare l’azione di fronte ad una Corte composta anche da magistrati requirenti, e quindi da soggetti che, nello svolgimento delle ordinarie funzioni di pubblico ministero, si porrebbero in posizione a lui gerarchicamente sotto ordinata.
L’incongruità di una situazione di tal fatta, in cui alcuni giudici potrebbero patire una sorta di timore reverenziale per il (co)titolare dell’azione, sarebbe esaltata dalla dichiarata natura giurisdizionale della materia disciplinare e dalla conseguente necessità di predicare la terzietà anche di quel giudice secondo l’enfatizzazione artificiosa che formalmente percorre e dà fisionomia alla riforma nel suo complesso.
In riferimento, poi, alla magistratura giudicante sarebbe sistematicamente insostenibile la conferma dell’iniziativa disciplinare del procuratore generale. Alla luce del contesto delineato dalla riforma, avrebbe il senso e il sapore di una intromissione della magistratura re quirente, nella sua più alta espressione, nella vita della giudicante, che invece si è voluto nettamente separata.
Il leitmotiv dei riformatori, per quanto sgangherato, va preso sul serio, e allora se la separazione serve a porre i giudici al riparo dallo strapotere dei pubblici ministeri che, presenti nel Consiglio superiore, oggi giudicano delle loro carriere, non si potrà accettare che il vertice della magistratura requirente detenga un potere così penetrante, di sindacato sui giudici seppure in termini di richiesta di punizione rivolta all’Alta Corte.
L’attribuzione di competenze in materia disciplinare al procuratore generale, sempre in riguardo alla magistratura giudicante, potrebbe non entrare in frizione con l’architettura di sistema ove la Procura generale della Corte di cassazione dovesse essere avvicinata significativamente al Ministro della giustizia, con una conseguente perdita di autonomia decisoria ed esser ridimensionata in funzione di collaborazione servente, con imputazione al solo Ministro delle scelte di promozione dell’azione. In quest’ottica, la Procura generale sarebbe nulla più che l’esecutrice delle determinazioni ministeriali e non potrebbe aver più la contitolarità dell’azione, addirittura qualificata dall’obbligatorietà di esercizio e dall’attribuzione, in via esclusiva, del potere di indagine e di rappresentanza in giudizio.
Se, di contro, prevarrà la scelta di estromettere il procuratore generale dagli affari disciplinari dei giudici, occorrerà assicurare effettività di esercizio ai poteri di indagine e di azione del Ministro della giustizia: si può ipotizzare il rafforzamento dell’Ispettorato generale del Ministero o la predisposizione di un’apposita un’articolazione amministrativa che possa attuare le determinazioni ministeriali.
In questa eventualità, si apprezzerà comunque una compressione delle garanzie che oggi il sistema assicura. L’azione sarà concretamente esercitata non più da un magistrato in posizione di piena autonomia e di indipendenza ma da un ufficio ministeriale che, per quanto – e chissà per quanto – composto (anche) di magistrati, non potrà che connotarsi per un vincolo stretto di dipendenza, ratione materiae, dall’autorità politica[8].
6. I controlli impugnatori sulle decisioni dell’Alta Corte
Per espressa previsione della riforma, la materia disciplinare ha natura giurisdizionale. L’Alta Corte sarà un organo di giurisdizione in senso stretto e sarà competente, con una regolamentazione sulla formazione dei collegi tale da evitare incompatibilità – affidata ovviamente alla legge ordinaria –, anche per i giudizi di impugnazione contro le sentenze emesse in prima istanza.
L’impugnazione sarà ammessa, si dice testualmente, “anche per motivi di merito”, val quanto dire anche per motivi di legittimità. Di qui il quesito, di non facile soluzione, in ordine alla ricorribilità, o meno, per cassazione.
Si può infatti ragionare valorizzando la natura speciale di questa giurisdizione e quindi concludere che il ricorso per cassazione potrà essere ammesso nei limiti e con i limiti dei motivi inerenti alla giurisdizione, come oggi avviene per le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (art. 111, comma ottavo, cost.).
In questa direzione potrebbe addursi l’argomento, per il vero strutturalmente assai debole, che fa leva sui criteri di individuazione dei magistrati sorteggiabili in vista della formazione dell’Alta Corte.
Si è già detto che il sorteggio riguarderà soltanto i magistrati, sia dell’una che dell’altra magistratura, che non solo abbiano almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie ma che, in più, “svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità”. La ragione della limitazione dei sorteggiabili potrebbe essere rinvenuta proprio nella necessità di assicurare all’Alta Corte, che dovrà occuparsi anche del giudizio di legittimità, professionalità specifiche e sufficientemente formate.
Non sfugge, però, la critica che può muoversi a tale assunto, e cioè che il giudizio disciplinare ha bisogno anzitutto di competenze ed esperienze di giudizi di merito e di conoscenza della realtà organizzativa ed operativa degli uffici in cui esercitano gli incolpati che, per mero dato statistico, sono (e saranno) in numero prevalente magistrati di merito.
Resta, poi il rilievo non facilmente superabile che, per previsione costituzionale, tutte le sentenze sono passibili di ricorso per cassazione e quelle che emanerà l’Alta Corte, definite espressamente “sentenze”, non potranno sottrarsi a questo regime, in assenza di altre disposizioni del medesimo rango che espressamente deroghino a questo assetto.
Dall’inciso sopra ricordato, relativo alla competenza dell’Alta Corte per le impugnazioni delle sentenze di prima istanza “anche per motivi di merito”, non sembra dunque potersi ricavare un principio di deroga.
Esso dice soltanto che con le impugnazioni all’Alta Corte saranno deducibili tutti i vizi possibili, di merito e di legittimità, e non anche che il ricorso per cassazione, garanzia costituzionale di primaria importanza contro tutte le sentenze, resterà assorbito in quell’ampia possibilità di impugnazione.
7. L’incertezza sul futuro della giustizia disciplinare e non solo
La riforma produrrà più incertezze di quanti nodi problematici, veri o presunti, saprà sciogliere. Si imporranno nuovi equilibri che, però, la riforma costituzionale non è in grado di far intravedere sia pure nei contorni essenziali.
Alla legge ordinaria si demanda una revisione ad ampio spettro della materia, come anche della organizzazione e del funzionamento del Consiglio superiore e dell’ordinamento giudiziario nel suo complesso. Si tratta di un compito di grande rilievo, la cui esecuzione non potrà giovarsi di direttrici chiare, dato che le future previsioni costituzionali, come si è visto, non consentiranno letture coerenti[9].
Approvata la riforma, l’attuale normativa di ordinamento giudiziario diverrà provvisoria, assumerà i caratteri della precarietà, come prescritto dall’articolo di chiusura del disegno di legge, ove si assegna al legislatore il termine di un anno per adeguare la disciplina di rango ordinario alla nuova architettura costituzionale.
In quella fase si scaricheranno molte tensioni conseguenti a scelte costituzionali affrettate e assai poco ragionevoli, ma i margini per tentare anche solo parziali correzioni di tiro, e ridurre la distanza da un modello di magistrato a spiccata vocazione professionale, saranno particolarmente risicati.
Non resta che confidare nella maturità democratica del popolo che con ogni probabilità sarà chiamato a dire, con il referendum, la parola decisiva.
[1] Di iniziativa dei sen. Rossomando ed altri, del Partito democratico, componente dell’attuale opposizione parlamentare.
[2] Per A. Rossomando, Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici, Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti, in Questa Rivista, 5 aprile 2022, l’istituzione dell’Alta Corte e l’affidamento ad essa … delle impugnazioni dei provvedimenti del CSM e degli altri organi di autogoverno delle magistrature” avrebbe completato il quadro costituzionale “con il trasferimento ad un più alto livello del controllo su fondamentali decisioni riguardanti lo statuto e la disciplina dei magistrati.”
[3] R. Romboli, La riforma costituzionale della magistratura: la maschera della separazione delle carriere ed il volto della eliminazione del modello Csm voluto dal Costituente, in ordinamentogiudiziario.info, 15 luglio 2025, evidenzia “il depotenziamento… per il Consiglio attraverso la sottrazione di una funzione essenziale per il ruolo ad esso riconosciuto dalla Costituzione, attraverso le indicazioni di un modello di buon giudice da trasmettere all’ordine giudiziario.”
[4] Osserva A. Cosentino, L’Alta Corte. È davvero una buona idea?, in questionegiustizia.it., 25 marzo 2022, che “l’esercizio della potestà sanzionatoria è sinergico con l'esercizio dell'amministrazione attiva e l’una e l’altra concorrono al governo del settore presidiato; e ciò vale con maggior forza nella materia disciplinare, nella quale l'esercizio della potestà disciplinare concorre nella definizione del profilo deontologico dell’operatore del settore”.
[5]S. Bartole, L’assetto degli organi di amministrazione e giustizia disciplinare nel disegno di legge costituzionale n. 1917 sulla separazione delle carriere, in associazionedeicostituzionalisti.it, 10/24 La separazione delle carriere, 18 ottobre 2024, parla di ossessione sanzionatoria osservando che la relazione accompagnatoria, nella parte in cui sottolinea che compito dell’Alta Corte è di garantire nel massimo grado la qualità professionale e deontologica di chi esercita funzioni caratterizzate da un’estrema delicatezza, “fa passare il conseguimento delle finalità formative dei magistrati - con una evidente ossessione sanzionatoria - attraverso lo strumento disciplinare”.
[6] Per N. Zanon, Critiche e speranze intorno ad una riforma che si sarebbe voluta diversa, in ordinamentogiudiziario.info, 17 luglio 2025, l’istituzione di un’Alta Corte distinta dall’organo di governo autonomo si spiega alla luce del “rilievo dei poteri attribuiti al magistrato sulla libertà e i beni dei cittadini”, da cui si trae che “la giustizia disciplinare dei magistrati non deve necessariamente essere, o non deve continuare ad essere, una giustizia disciplinare dei pari.”
[7] N. Rossi, Il sorteggio per i due Csm e per l’Alta Corte disciplinare. Così rinascono corporazione e gerarchia, in Quest. giust., 1-2/2025, p. 114, rileva che “la giustizia disciplinare sarà dunque monopolio dei magistrati di cassazione, ripristinando una primazia – diversa da quella di natura esclusivamente giurisdizionale oggi esercitata – che riecheggia un passato lontano, nel quale gli alti gradi della Cassazione svolgevano un ruolo di vertice dell’organizzazione giudiziaria e di preminenza nel Csm e nella giustizia disciplinare.”
[8] Con riferimento all’attuale sistema E. Cesqui, Il giudizio disciplinare: l’esercizio dell’azione tra poteri, limiti e linee guida. Il ruolo della Procura generale e del Ministro della giustizia, in Il procedimento disciplinare dei magistrati, quaderno n. 8 della Scuola superiore della magistratura, pag. 25 ss., rileva che proprio per mezzo dell’iniziativa del procuratore generale si “riporta all’interno dell’ordine di appartenenza il presidio dei valori deontologici fondamentali” conferendo all’esercizio dell’azione “la piena giurisdizionalizzazione”. L’azione, infatti, spetta anche al Ministro ma egli la promuove, come precisato dall’art. 14, comma secondo, d. lgs. n. 109 del 2016, “mediante richiesta di indagini” al procuratore generale.
[9] R. Romboli, La riforma costituzionale della magistratura: la maschera della separazione delle carriere…, cit., parla della riforma nei termini di una scatola vuota, “tanti sono gli aspetti che vengono rinviati al futuro legislatore ordinario (quindi alla maggioranza parlamentare)”.
Suicidi in carcere: il ministro della giustizia corre ai ripari di Carlo Sudio
Sommario: 1. Il suicidio dei detenuti: un’emergenza e una vergogna nazionale. 2. I rimedi indicati dal Ministro: il sovraffollamento carcerario come antidoto alla solitudine. 3. La separazione delle carriere come risposta di sistema al suicidio in carcere.
1. Il suicidio dei detenuti: un’emergenza e una vergogna nazionale.
Nel corridoio principale del Tribunale di Roma, davanti all'ingresso della Camera Penale, campeggia un pannello su cui è riportato in tempo reale il numero dei detenuti italiani che si sono suicidati dal 1° gennaio del 2025.
Chiunque ha a che fare con il mondo della giustizia (magistrati, avvocati, personale amministrativo, imputati, pubblico) non può non guardare ogni giorno quel pannello e - con un brivido e un pizzico di senso di colpa - constatare quanto quel numero cambi con frequenza impressionante e cresca quasi quotidianamente.
Nel 2024 si sono suicidati 91 detenuti; nel 2025 (dato aggiornato a qualche giorno fa) già 42 persone si sono tolte la vita nelle celle del nostro paese, oltre a tre agenti penitenziari.
Il fenomeno ha assunto da tempo crisma di emergenza nazionale e rimorde nella coscienza di tutti.
L'ANM rimprovera da tempo il Governo e il Ministro della Giustizia di spendere soldi, energie e tempo in riforme dal chiaro - e ormai non più dissimulato - scopo punitivo e intimidatorio nei confronti dei magistrati, anziché dedicarsi ad affrontare emergenze come l'efficienza del processo penale e la drammatica situazione delle carceri.
Sarebbe un errore, peró, ritenere che il tema dei suicidi dei detenuti non sia ben presente nella mente del Guardasigilli.
Alcune sue recentissime dichiarazioni, apparentemente slegate tra loro, suggeriscono invece non solo che il Ministro ha ben presente la vastità e la gravità dell'emergenza, ma che ha già pensato ai rimedi per farvi fronte e alimentano la concreta speranza del prossimo arrivo di qualche provvedimento legislativo in grado di far uscire il Paese dalla tragica impasse.
Le indicazioni del Guardasigilli sono nette, se solo le si leggono con l’attenzione e il rispetto che meritano.
Dalle stesse emerge la volontà di far fronte al fenomeno secondo due direttive, da incoraggiare ed esaltare: il sovraffollamento carcerario e la separazione delle carriere.
Conviene esaminarle partitamente.
2. I rimedi indicati dal Ministro: il sovraffollamento carcerario come antidoto alla solitudine.
Il primo dei due rimedi è stato indicato dal Ministro Carlo Nordio in un’intervista al Corriere della Sera del luglio 2025.
Parlando di sovraffollamento delle carceri italiane e del numero dei suicidi dei detenuti, il Ministro ha affermato che si tratta di “due problemi gravi, ma non connessi. Anzi, paradossalmente, il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella. E’ la solitudine che porta al suicidio. Ma soprattutto la mancanza di speranza e l’incertezza del domani. Molti si uccidono proprio quando è imminente la loro liberazione”.
Risultano dunque irrefutabilmente smentiti i dati di Antigone, che si occupa di tutelare i diritti delle persone che si trovano in carcere, che ha nei suoi rapporti annuali da sempre indicato una chiara relazione esistente tra i suicidi e gli istituti penitenziari più affollati.
E’ vero invece, secondo i dati sicuramente più attendibili del Ministro, il contrario: il sovraffollamento impedisce i suicidi attraverso il controllo che i detenuti esercitano gli uni sugli altri.
Solitudine e silenzio sono le cause indicate dal Ministro. Celle in cui lo spazio vitale è ridotto oltre gli standards di tollerabilità (tanto da costringere lo Stato a innumerevoli cause civili per violazione dei diritti umani) favoriscono invece il controllo reciproco e il tempestivo intervento nel caso che qualcuno dei numerosi compagni di cella tenti di togliersi la vita.
L’intervento degli altri, è evidente, risulta favorito dal ridotto spazio da percorrere prima di giungere al malcapitato e sventarne l’intento autosoppressivo.
Né va sottolineato l’inciso finale della dichiarazione: la vera causa del fenomeno è l’incertezza del domani, non le condizioni della detenzione.
Se molti detenuti si suicidano quando è imminente la liberazione, come risulta al Ministro sicuramente da studi ed indagini approfondite, il dato deve far riflettere: forse è proprio la prospettiva di tornare a vivere in libertà, in spazi privi di quel benefico sovraffollamento e della salvifica sensazione di essere controllati dagli altri a ingenerare nel detenuto la sensazione negativa e ingenerare il panico da liberazione (sul fenomeno della “fuga dalla libertà” la mente corre all’imperituro saggio di Erich Fromm).
Mantenere la situazione di sovraffollamento nelle carceri e procrastinare la liberazione di soggetti detenuti per garantire il controllo dei loro impulsi sono dunque le direttive che emergono da queste dichiarazioni.
3. La separazione delle carriere come risposta di sistema al suicidio in carcere.
Ma v’è dell’altro.
Nelle ultime ore il Ministro è tornato a parlare di suicidi in carcere, fornendo ulteriori importanti spunti di riflessione.
Ancora una volta, a dare il la alle sue esternazioni è stata un'iniziativa dell'Anm, che ha pubblicato un vecchio documento della sottosezione veneta risalente al 1994.
Si tratta, come è noto, di una dichiarazione con cui alcuni magistrati veneti hanno ritenuto di esprimere pubblicamente la loro contrarietà alla separazione delle carriere, vera e propria ossessione del potere politico, come si vede, da oltre trenta anni.
Nulla di strano, si potrebbe osservare: la stragrande maggioranza dei giudici e pm italiani è da sempre di questa opinione, ritenendo che un organo dell'accusa formato alla cultura della giurisdizione e della prova (e non alla filosofia dell'accusare a tutti i costi e incarcerare e condannare più gente possibile) sia un bene per tutto il paese, che ne guadagna in democrazia.
L'anomalia è che tra i firmatari del documento del 1994 vi è il magistrato Carlo Nordio, in aperto contrasto con il Ministro della Giustizia omonimo che della separazione delle carriere ha fatto la bandiera della sua riforma in discussione (oddio, discussione è una parola grossa visto l'iter parlamentare portato avanti a salti di canguro e tappe forzate).
Per spiegare il clamoroso contrasto tra il magistrato e il politico, il Ministro ha rivendicato il diritto di cambiare idea (e questo è sacrosanto) ed ha giustificato il cambiamento con le riflessioni in lui scaturite dopo il suicidio in carcere di un suo indagato.
Alcuni hanno obiettato che il caso evocato è del 1993, quindi precedente il comunicato, per cui sarebbe impossibile che abbia cambiato idea per un fatto di anni prima, ma questa affermazione non coglie il punto.
La dichiarazione è invece importante perché indica una precisa direzione per il problema oggetto di questo articolo.
Se infatti il suicidio di un detenuto ha convinto il Ministro a diventare sostenitore della separazione delle carriere fino al punto da stravolgere la Costituzione per realizzare la sua riforma, questo non può che voler dire che la causa del suicidio deve essere imputata al fatto che il pubblico ministero ha fatto lo stesso concorso dei giudici e ne condivide lo stesso CSM, per di più eletto dai magistrati e non sorteggiato come si usa in tutti i concorsi di bellezza e nelle giurie delle sagre dei paesi seri.
Il punto merita approfondimento.
I sostenitori della riforma sostengono che il processo penale non è giusto in quanto i giudici tenderebbero a dare sempre ragione ai Pubblici ministeri perché condividono con loro carriera e aspirazioni: le loro sentenze e le loro ordinanze sarebbero sbilanciate in favore dell’accusa perché a chiedere condanne e misure cautelari sono loro amici e compagni di corrente.
Diamo per scontato che questo assunto sia vero…. anche se non lo è, perché smentito dalle statistiche che dimostrano che assoluzioni e rigetti, cioè i casi in cui i giudici danno torto al PM, sono pari a quelli di tutti gli altri paesi. Ma non importa, tutti sanno che non è vero e che la riforma serve ad altro. Lo ha detto chiaramente il senatore della maggioranza Marcello Pera due giorni fa: la riforma di per sé non serve se i PM non saranno responsabili verso “qualcun altro”.
Dunque non “giudici indipendenti dai PM” ma “PM dipendenti” (indovinate da chi?). Questo è il senso della riforma.
Ma non divaghiamo e torniamo al sillogismo del nostro Ministro.
Se la ragione della separazione delle carriere è motivata dall’esigenza di sottrarre i giudici dall’influenza nefasta dei Pubblici Ministeri, e se Nordio si è convinto della bontà della separazione dopo il suicidio di un indagato detenuto, questo vuol dire che – seguendo il suo ragionamento – l’indagato si è suicidato a causa dell’influenza nefasta del PM di allora sul giudice, dovuta all’unicità delle due carriere.
Dunque, la causa del suicidio è stata addebitata dal Ministro Nordio all’influenze nefasta del Pubblico Ministero omonimo sul giudice che ne ha accolto la richiesta di misura cautelare.
Separando le carriere, si impediranno eventi tragici come quello accaduto, impedendo ai futuri PM veneti (ma non solo) di fare danni irreparabili.
Né può essere trascurato l’impatto della riforma sulla mente dei detenuti.
Se è vero, come pure è stato detto da Pera nell’intervista menzionata, che la separazione delle carriere porterà ad un corpo di pubblici ministeri assetati di condanne e di misure cautelari, la conseguenza immediata sarà un aumento delle misure cautelari e delle pene richieste e irrogate.
Più detenuti, e ristretti per un periodo più lungo.
Si allontanerà in questo modo quella situazione di incertezza sul futuro e diminuiranno i momenti in cui il detenuto, prossimo alla scarcerazione, è preda della depressione tanto funesta secondo la ricostruzione del Ministro.
Anche in questo modo dunque la separazione delle carriere porterà alla drastica diminuzione dei suicidi dei detenuti.
Una svolta nella giustiziabilità climatica? Le Sezioni Unite e il caso Greenpeace vs ENI
La recente ordinanza n. 13085/2024 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pubblicata il 21 luglio 2025, segna un passaggio cruciale nella riflessione giuridica italiana sul tema della "climate litigation". La Corte si è pronunciata in merito a un regolamento preventivo di giurisdizione sollevato nell’ambito di un giudizio promosso da Greenpeace, ReCommon e diversi cittadini contro ENI, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Cassa Depositi e Prestiti S.p.A., accusati di inottemperanza agli obblighi climatici internazionali e di responsabilità per danni derivanti dal cambiamento climatico.
La causa si distingue per essere la prima, in Italia, a incardinare una domanda risarcitoria e inibitoria non solo nei confronti dello Stato ma anche di soggetti privati (ENI) e pubblici partecipati (CDP), con l'obiettivo di ottenere misure coercitive concrete in materia climatica. I ricorrenti hanno fondato la propria azione su norme di diritto interno (artt. 2043, 2050 e 2051 c.c.), su fonti costituzionali (artt. 2, 9, 32 e 41 Cost.), e su fonti sovranazionali, in particolare l'art. 8 CEDU e l'Accordo di Parigi, di cui si chiede un'efficacia diretta anche nei rapporti tra privati.
Il nodo principale affrontato dalle Sezioni Unite è stato quello della giurisdizione: la domanda rientra nella sfera del potere giurisdizionale o implica una indebita invasione delle competenze del legislatore e dell’esecutivo? La Corte ha riconosciuto la rilevanza giuridica della controversia, qualificandola come azione risarcitoria fondata sulla responsabilità civile extracontrattuale e ha affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario italiano. In tal modo, ha implicitamente riconosciuto la potenziale giustiziabilità di pretese basate sulla tutela climatica, con fondamento nei diritti fondamentali e nella responsabilità civile.
L'ordinanza si colloca nel solco di una crescente attenzione della giurisprudenza internazionale alla tutela dei diritti umani nel contesto dell'emergenza climatica, come testimoniato dalla sentenza della Corte EDU nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz c. Suisse (9 aprile 2024), espressamente richiamata dai ricorrenti.
Sebbene la decisione della Cassazione non entri ancora nel merito della responsabilità di ENI e degli altri soggetti coinvolti, essa rappresenta un passaggio fondamentale nel delineare un possibile perimetro di responsabilità anche per soggetti privati nel rispetto degli obblighi derivanti dalla crisi climatica.
Si tratta, in definitiva, di una pronuncia che, pur nella sua natura meramente processuale, apre spazi di giustiziabilità fino ad ora inesplorati nell’ordinamento italiano, e che pone interrogativi di grande rilievo su come diritto e giurisdizione possano evolvere per rispondere alla sfida epocale del cambiamento climatico.
La presente nota redazionale, finalizzata alla pubblicazione dell'ordinanza, anticipa l'approfondimento che pubblicheremo a settembre.
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