ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I viaggi missionari e le traversie giudiziarie di Paolo. Un pericoloso agitatore. “Civis romanus sum”
Rimanendo fedeli alla cronaca di Luca in Atti degli Apostoli, scopriamo che i primi guai di Paolo di Tarso con la giustizia iniziano nel corso del secondo viaggio missionario, che egli decide di compiere per far visita e rafforzare le comunità gesuane formatesi nell’area ricompresa tra la Cilicia, la Panfilia (regioni anatoliche collocabili nell’attuale Turchia meridionale), e l’isola di Cipro, durante la sua prima missione. Paolo, come di consueto assecondando una visione notturna, si spinge però ancora più a nord, in direzione della Troade (l’attuale penisola di Biga, sempre in Turchia), salpando da lì verso l’Ellade ed intraprendendo la predicazione in Macedonia, che era provincia romana.
A Filippi, principale città macedone, durante la predicazione, mentre è accompagnato dall’apostolo Sila, anch’egli romano, viene avvicinato da “una serva posseduta da uno spirito di divinazione” (Atti 16,16), che attraverso i suoi vaticini procurava un gran guadagno ai suoi padroni. La donna prende a seguirli per giorni, gridando alla gente che i due sono servi del signore venuti ad annunciare la via della salvezza. La cosa indispettisce non poco Paolo, che la sottopone a un esorcismo (pratica straordinariamente frequente nel Nuovo Testamento), per liberarla dal demone che la possedeva. L’accaduto suscita però la reazione dei padroni della posseduta, i quali – temendo la perdita economica – trascinano Paolo e Sila in piazza e li presentano prima ai capi della città (arcontes), poi ai magistrati (strategoi) accusandoli di predicare riti inaccettabili e non leciti ai romani. Indotti dall’insurrezione della folla, i magistrati ne ordinano la pubblica fustigazione dei due con verghe e la carcerazione.
Da un punto di vista giuridico la ricostruzione appare dotata di una certa verosimiglianza, essendo gli strategoi certamente identificabili con i pretori, una delle magistrature giudiziarie più prestigiose sin dall’età repubblicana. Durante il principato e più ancora nel basso impero le prerogative della carica si erano ridotte a meri ruoli di mantenimento dell’ordine pubblico e il numero dei pretori era stato gradualmente aumentato. Ma si trattava comunque di un ufficio che, sebbene oneroso (alle funzioni pubbliche era necessario provvedere con proprie risorse), era molto ambito in quanto poteva dare accesso al senato.
Nell’arrestare Paolo e Sila, i pretori di Filippi fanno uso della loro potestà di coercitio, un potere ampiamente discrezionale in cui rientravano sia la fustigazione (verberatio) che l’arresto (in vincula ducere), esercitato per reprimere fatti dannosi per l’ordine pubblico. Pur non trovando limiti giuridici chiari, l’applicazione di tali misure sanzionatorie nei confronti dei cittadini romani doveva comunque conseguire ad un pubblico dibattimento. Sul principio della pubblicità, e dell’approvazione del verdetto da parte di una assemblea popolare, basava anche la provocatio ad popolum, che consentiva ai cittadini di sottrarsi alla sanzione della pena capitale decisa da un magistrato, istituto definitivamente introdotto nell’ordinamento dalla Lex Valeria del 300 a.C.
Nel caso di Filippi tuttavia, l’intervento dei pretori si direbbe principalmente destinato a sedare un improvviso tumulto di folla individuando e catturandone i responsabili (e verosimilmente vergandoli sul posto), senza la formulazione di una vera e propria imputazione. Tanto più che i romani non erano soliti interferire in questioni di natura religiosa, come quelle che – in questo caso – sembravano essere state denunciate dalla popolazione pagana, secondo cui i due cristiani diffondevano riti illeciti.
Va detto oltretutto che Paolo in un primo momento tace la propria condizione di civis romanus, salvo rivendicarla il giorno successivo, quando già i pretori – forse convinti anche da un terremoto notturno e dalla conversione con battesimo del carceriere – ne avevano disposto la liberazione. Egli rifiuta di essere rilasciato di nascosto, denuncia il fatto che lui e Sila sono stati vergati ed incarcerati senza processo pur essendo romani, e pretende che i magistrati vengano a liberarli di persona. I pretori, informati dai littori, secondo quanto riporta da Luca “ebbero paura quando seppero che si trattava di cittadini romani”, e si precipitano a portargli le proprie scuse, pur chiedendo loro di allontanarsi dalla città.
L’episodio, oltre a mostrare il carattere coriaceo di Paolo, rende evidenti le straordinarie garanzie legate allo status di cittadino romano, ed il conseguente rispetto per l’individuo e la sua incolumità da parte delle autorità, anche nei punti più remoti dell’Impero. La Lex Iulia de vi publica, emanata nel 17 a.C., puniva infatti disciplinarmente i magistrati che adottavano sanzioni coercitive nei confronti di un romano non ancora giudicato. Viene però spontaneo chiedersi come si potesse dimostrare di essere romani. La questione non è risolta in modo definitivo. Il conseguimento della cittadinanza attraverso il servizio militare, per esempio, prevedeva il rilascio di un diploma in bronzo, che poteva essere esibito. C’è anche da rilevare come l’Impero potesse contare su un sistema anagrafico efficiente, fondato su frequenti censimenti. E spesso ai cittadini che si mettevano in viaggio attraverso altre aree territoriali era necessario ottenere il rilascio di un lasciapassare. Nel caso di Paolo, però, sembra che per dimostrare di essere cittadini romani, o quantomeno per istillare il dubbio nelle autorità, potesse essere sufficiente dichiararlo. L’ipotesi non è del tutto balzana, essendo altamente probabile che l’informazione fosse controllabile, con conseguenze nefaste in caso di una attestazione falsa.
Spostatisi a Tessalonica, Paolo e Sila vengono nuovamente presi di mira, stavolta dagli ebrei raccolti presso la sinagoga locale, che li trascinano davanti alle autorità cittadine (in quest’occasione Luca utilizza peraltro il termine “politarcas”), tentando di facilitarne il compito attraverso la chiara indicazione dell’ipotesi di reato: “essi agiscono contri i decreti di Cesare, dicendo che c’è un altro re, Gesù” (Atti, 17:7). Si rivela così la specifica fattispecie che poteva interessare le autorità romane portando i cristiani alla condanna. Si trattava evidentemente del reato di lesa maiestas, lo stesso che era stato contestato a Gesù di Nazareth, la cui imputazione era stata chiaramente trascritta nel cartello affisso alla croce. Nel caso di Cristo era lui stesso ad essersi autoproclamato re, in spregio all’autorità del Princeps romano, ma si trattava probabilmente di una fattispecie duttile, idonea ad essere utilizzata in tutti i casi di comportamenti che attentassero alla sacralità della persona dell’imperatore. Condotte che dovevano essere trattate con una certa indulgenza laddove si limitassero a questioni di natura ideologica o religiosa e non tracimassero in un incitamento alla ribellione, o comunque in un pericolo per l’ordine pubblico, come doveva essere invece avvenuto nel caso del nazareno.
È anche vero che il termine “politarcas”, utilizzato da Luca è difforme da quello di “strategoi”, con cui ci si riferiva ai pretori di Filippi, il che non contribuisce alla chiarezza. Il politarca era una magistratura tipica della Macedonia romana del primo secolo, il cui ruolo era assimilabile a quello del prefetto, cui non sarebbero ricollegabili poteri di natura giudiziaria. È possibile però ritenere che a Tessalonica Paolo e Sila – nonostante l’attenta formulazione da parte dei membri della sinagoga del reato che si assumeva integrato – non vengano neanche condotti dinanzi ad autorità romane. I due si salvano grazie al pagamento di una cauzione (più verosimilmente una ammenda), versata da Giasone, che a Tessalonica li ospitava, ottenendo sul posto l’immediato rilascio.
Paolo finisce nei guai poco dopo anche a Corinto, dove era rimasto un anno e mezzo a predicare nella sinagoga locale, con un discreto successo, culminato nella conversione di Crispo, definito in Atti “capo della sinagoga” (Atti 18,8). La comunità giudaica del posto però, probabilmente stanca delle interferenze, ritenendo favorevole il momento politico, lo conduce a forza al cospetto del nuovo proconsole della provincia di Acaia, Lucio Giunio Gallione, che era poi il fratello di Seneca. Gallione peraltro si disinteressa radicalmente della disputa (“Se si tratta di questioni intorno a parole, a nomi e alla vostra legge vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste cose”), allontanando i questuanti dal tribunale. Il racconto di Luca appare attendibile. L’ indubbia l’esistenza storica di Gallione, risultante da più fonti, consente di inquadrare cronologicamente l’evento nell’anno 51 o 52 d.C. Anche il fatto che Paolo sia stato portato al suo cospetto è perfettamente verosimile: il vastissimo imperium del proconsole, al quale spettava per un anno il governo delle province pacificate, comprendeva senz’altro un ampio potere giurisdizionale.
Ad Efeso il proselitismo di Paolo trova invece, ancora, la reazione dei pagani. Le conversioni avevano rovinato gli affari degli artigiani locali, che fabbricavano e vendevano oggetti sacri in onore della dea Diana, protettrice della città. Si era sollevato un tumulto contro i cristiani. Ma in questo caso Paolo, dopo aver rischiato il linciaggio assieme ai suoi compagni di viaggio macedoni, Alessandro, Gaio e Aristarco, viene salvato dall’intervento del cancelliere dell’assemblea cittadina (il grammateos), che riporta la folla alla calma ricordando il rischio delle rappresaglie delle autorità in caso di manifestazioni sediziose.
Ma tutto ciò è niente, a fronte di quanto gli capiterà di lì a poco a Gerusalemme.
Ultimo atto. Paolo a Gerusalemme.
Salpato dall’Ellade (Atti, 21), Paolo giunge a Tiro, in Libano, e da lì a Cesarea. Nonostante i numerosi tentativi di dissuaderlo da parte dei discepoli che incontra sul tragitto, sale a Gerusalemme, comincia immediatamente la predicazione in sinagoga. La reazione degli ebrei ortodossi non tarda a farsi sentire. Si continuava a ritenere inaccettabile l’allargamento ai pagani del messaggio cristiano, ma l’altra accusa – ben più grave – rivolta a Paolo, era quella (secondo Luca falsa) di avere consentito l’ingresso al Tempio di Trofimo di Efeso, un greco che faceva parte del suo seguito. La folla lo afferra e lo espelle dalla sinagoga chiudendone le porte. Mentre sta per avere inizio il linciaggio, viene avvisato del tumulto un tribuno della coorte (chiliarco), Claudio Lisia, il quale provvede al formale arresto di Paolo, e – resosi conto delle difficoltà di ricostruire un’accusa chiara – lo conduce nella fortezza. Lo scopo, secondo Luca, era quello di “interrogarlo a colpi di flagello” al fine di sapere quale motivo la folla gridava contro di lui.
La dinamica degli avvenimenti narrata da Luca ha un certo grado di verosimiglianza. Il tribunus cohortis, era uno degli ufficiali superiori dell’esercito romano, comandante della coorte urbana, ovvero dell’unità di polizia cittadina, e la fortezza di Gerusalemme (che era poi la Torre Antonia), dove anche Cristo fu condotto davanti a Pilato, era la sede della guarnigione romana e del procuratore, collocata sul lato nord del Tempio, a controllare la città.
Paolo viene legato con delle cinghie, ma proprio nel momento in cui la situazione sta volgendo al peggio, l’arrestato si rivolge al centurione che gli è accanto dicendogli: “Potete voi flagellare un cittadino romano non ancora giudicato?”, paralizzando la scena. Il centurione corre a riferire al tribuno la notizia. La circostanza semina quindi il terrore sia trai suoi carcerieri che nel tribuno, ed imprime una svolta notevole all’iter giudiziario, in quanto – stando a quel che ci dice Luca – da quel momento l’incolumità di Paolo verrà concretamente garantita dall’esercito. Claudio Lisia lo farà proteggere sia il giorno successivo, quando i saducei tenteranno di linciarlo durante una seduta al Sinedrio, dove era stato condotto dibattere le accuse che gli erano rivolte, sia due giorni dopo, quando Paolo stesso, venuto a sapere che i sacerdoti stavano organizzando il suo omicidio, manda il nipote a chiedere aiuto al tribuno che ne dispone infine l’immediata traduzione notturna, con una scorta di 500 militari, a Cesarea, sede del governatore Felice.
Si può chiaramente comprendere come Luca, che molto sembra porre l’accento sull’odio selvaggio montato trai sacerdoti nei confronti Paolo, stia implicitamente descrivendo il passaggio ad un'altra fase processuale, il che è anche evidenziato dal fatto che il prigioniero viene accompagnato da una lettera di Claudio Lisia al governatore, in cui il tribuno ha annotato brevemente gli avvenimenti e le ragioni dell’arresto di un cittadino romano. Cesarea sarà infatti la sede processuale dove il governatore, Marco Antonio Felice (effettivamente procuratore della Giudea dal 52 al 62 d.C.), darà inizio al dibattimento. Non senza avere citato in giudizio anche i suoi accusatori.
Ora, è evidente, e numerosi romanisti lo hanno spiegato, che non si possano trattare gli Atti degli Apostoli come un documento adatto ad una ricostruzione giuridica attendibile del processo di Gerusalemme a Paolo, essendo chiaro che l’intento dell’autore era radicalmente destinato a scopi apologetici e religiosi. Tuttavia nel racconto di Luca si può intravedere la struttura costitutiva di un processo penale davanti al governatore provinciale, nel primo secolo.
Si inizia cinque giorni dopo (Atti, 24), quando i detrattori di Paolo si presentano, il sommo sacerdote Anania in testa ed alcuni anziani al seguito, assieme a Tertullo, l’avvocato da loro ingaggiato per l’occasione. Di Tertullo non si sa nulla, se non quello che di lui è scritto in Atti. Si può però ipotizzare che fosse stato scelto perché romano, esperto in legis actiones: il profilo adatto a formalizzare l’accusa nei confronti di Paolo. La strategia di Tertullo nella sua requisitoria iniziale non si rivela però efficace. L’ipotesi criminosa prospettata non è infatti stavolta il reato di lesa maiestas, ma in sostanza quello di seditio. Tertullo pone cioè l’accento sul fatto che Paolo sarebbe in fomentatore di disordini trai giudei, e l’apostolo si difenderà affermando una assoluta carenza di prove, atteso il fatto che nel momento in cui era stato arrestato al Tempio “non c’era folla né tumulto”. L’accusa, continua Paolo, è stata mossa dagli anziani senza portare testimoni, ed è probabilmente una rappresaglia per la sua posizione sulla questione della resurrezione dei morti, cui i saducei non credevano. Il passo mette in chiara evidenza la natura ancora solidamente accusatoria della procedura criminale adottata in provincia nel I secolo, basata sull’accusatio privata, portata in questo caso dai rappresentanti del Sinedrio.
Il governatore Felice, che a quanto dice Paolo era ben addentro le questioni della setta gesuana, si limita a sottoporre Paolo ad una libertà vigilata (“ordinò che fosse custodito, lasciandogli una certa libertà”), di fatto evitando la decisione in punto di responsabilità. Una scelta – secondo Luca – imputabile al fatto che Felice voleva ottenere da Paolo del danaro per la tutela con cui lo avvantaggiava. Una ‘sospensione processuale’ che secondo quanto riportato in Atti, dura oltre due anni, fino all’insediamento del nuovo governatore Porcio Festo.
Porcio Festo, pressato dai sacerdoti perché si affretti a ricondurre Paolo da Cesarea a Gerusalemme per condannarlo, prende tempo, profilando a Paolo stesso la possibilità di essere giudicato a Gerusalemme. L’apostolo – ancora una volta straordinario avvocato di sé stesso – rifiuta decisamente, affermando che le accuse sono false e che comunque il processo, nel caso, dovrà proseguire dove si trova incardinato, ossia davanti al tribunale di Cesare. Paolo, teme però a quel punto che Festo abbia le mani legate, e che le cose stiano volgendo al peggio, e sceglie lo strumento dell’appellatio ad Cesarem, la cui straordinaria formulazione è riportata in Atti 25, 10-12, accolta da Festo con l’icastica formula: “Cesarem appellasti; ad Cesarem ibis”. La richiesta formalizzata da Paolo costringe Festo a farlo condurre a Roma.
Dopo un funestissimo viaggio navale di tre mesi, Paolo sbarca a Pozzuoli, e di lì si dirige a Roma, dove gli viene concesso di abitare dove vuole, sorvegliato da un soldato di guardia. Paolo non perde tempo ed instancabilmente, a soli tre giorni dall’arrivo, convoca i principali rappresentanti della comunità giudaica locale, presso i quali doveva comunque possedere prestigio, riprendendo così l’attività di predicazione.
Così si concludono gli Atti degli Apostoli, solo aggiungendo che Paolo trascorse due anni in quell’abitazione, “annunciando il regno di Dio senza impedimento” (Atti 28, 30-31). Nulla si dice di più sulla prosecuzione del processo, sebbene alcuni ipotizzino che il riferimento temporale riguardi un termine di comparizione oltre il quale l’accusa, se non coltivata a Roma dall’attore, decadeva, con conseguente proscioglimento della parte presente.
La notizia del successivo martirio di Paolo, si rinviene per la rima volta in una lettera di papa Clemente I risalente alla fine del primo secolo, ed è poi riferita 300 anni dopo da Eusebio di Cesarea, che la colloca nel periodo del regno di Nerone.
La notifica dei motivi aggiunti tra garanzia del contraddittorio e diritto di difesa (Nota a Tar Sicilia, Palermo, sez. IV, sentenza 10 febbraio 2025, n. 328)
di Pierandrea Corleto
Sommario: 1. La vicenda. 2. Premessa introduttiva. – 3. I motivi aggiunti: un breve inquadramento storico-normativo. – 4. La notifica dei motivi aggiunti. – 5. L’interpretazione favorevole al proponente: il caso della sanatoria per raggiungimento dello scopo. – 6. La soluzione adottata dal Tar Palermo con la pronuncia n. 328/2025 e la necessaria accettazione del contraddittorio. – 7. Riflessioni conclusive.
1. La vicenda
Con la sentenza in esame, il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia si è espresso sull’eccezione di inammissibilità dei motivi aggiunti notificati presso la sede della società resistente, nonostante la stessa si fosse regolarmente costituita in giudizio, pertanto in violazione degli artt. 43 c.p.a. e 170 c.p.c. i quali dispongono che, dopo la costituzione in giudizio dell’ente tutte le notificazioni debbono essere effettuate al procuratore costituito.
Si riassume per sommi capi la vicenda che ha dato origine alla decisione in commento. Con ricorso introduttivo ritualmente notificato parte ricorrente è insorta avverso il provvedimento dell’amministrazione comunale, con cui è stato imposto alla stessa di continuare a garantire il Servizio di Igiene Ambientale del relativo Comune “..per il periodo dal 1 maggio 2021 al 30 aprile 2021 ... alle medesime condizioni dell’appalto in essere e secondo le prescrizioni e i vincoli del Capitolato Speciale d’Appalto..” e per l’accertamento dell’obbligo a riconoscere e corrispondere alla stessa società ricorrente la revisione del canone e/o il giusto corrispettivo per l’espletamento del Servizio integrato di gestione rifiuti per l’intero periodo d’interesse, adeguandolo secondo l’indice FOI/ISTAT e parametrandolo all’effettivo costo del personale e dei mezzi.
Nel caso di specie, la società ricorrente gestiva in subappalto il Servizio di Igiene Ambientale del Comune in forza di regolare contratto sottoscritto con l’aggiudicataria originaria del bando.
Orbene, l’esigenza provvedimentale del Comune sorgeva a seguito della delibera della amministrazione di procedere ad un nuovo affidamento, tramite gara, del relativo servizio di gestione dei rifiuti. All’esito di due gare andate deserte, il servizio veniva aggiudicato ad una ditta la quale, in seguito, risultava destinataria di un provvedimento interdittivo antimafia. Pertanto, il contratto di affidamento del servizio non veniva realmente stipulato in favore della nuova società aggiudicataria.
Nonostante la successiva sospensione cautelare del provvedimento antimafia, l’aggiudicataria non aveva comunque provveduto a sottoscrivere il contratto: determinando il Comune a emettere l’ordinanza impugnata che ha imposto alla ditta ricorrente – come detto, da lungo tempo affidataria del servizio di gestione integrata dei rifiuti del Comune – di proseguire nell’attività alle medesime condizioni previste nel contratto d’appalto originario.
Oltre ai corrispettivi antieconomici, parte ricorrente ha lamentato l’assenza dei presupposti per intervenire extra ordinem a sostegno dell’ordinanza emessa, contestando la circostanza secondo cui non fosse possibile individuare un nuovo gestore del servizio. Il provvedimento impugnato veniva, così, tacciato di difetto di istruttoria e carenza di motivazione atteso che il Comune sceglieva la ricorrente senza addurre adeguata motivazione, in ossequio anche alla delibera ANAC che ha ripetutamente chiarito come la c.d. “proroga tecnica”, nella specie imposta con provvedimento di urgenza, può ammettersi solo ove strettamente necessaria per il tempo utile al reperimento di un nuovo contraente. Ne deriverebbe, a dire della ricorrente, l’evidente violazione, fra gli altri, dei principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza enunciati dal Codice dei contratti pubblici.
Con motivi aggiunti parte ricorrente ha, poi, impugnato i due successivi provvedimenti di proroga tecnica, di analogo contenuto rispetto al provvedimento oggetto di impugnazione originaria, ma riferiti a periodi temporali successivi alla prima ordinanza sindacale.
Tutto ciò premesso, in seguito alla costituzione del Comune, anche la società intimata si è costituita in giudizio e, depositando memorie e documenti, ha insistito per il rigetto nel merito delle avverse censure eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità dei ricorsi per motivi aggiunti, in quanto i due rispettivi atti introduttivi erano stati notificati presso la posta elettronica certificata della società e non presso il procuratore costituito in giudizio.
2. Premessa introduttiva
Prima di entrare nel merito della questione processuale di cui si occupa la sentenza commentata, è opportuna una breve ricostruzione introduttiva circa le peculiarità del quadro normativo-interpretativo di riferimento.
Il processo amministrativo, nonostante la sua idoneità a incidere su situazioni di pubblico interesse, è soggetto al principio della domanda. A seguito di un articolato percorso evolutivo, che affonda le sue radici nell’istituzione della Quarta sezione del Consiglio di Stato e che ha portato, tra l’altro, alla riforma dell’art. 111 Cost., esso si è gradualmente trasformato in un vero e proprio processo giurisdizionale innanzi a un giudice terzo e imparziale: a garanzia del giusto processo e della posizione di uguaglianza delle parti coinvolte[i].
Da queste brevi considerazioni derivano tre profili, i quali rappresentano la più intima specificazione del processo amministrativo: l’iniziativa processuale, l’oggetto del giudizio e la disponibilità dell’azione.
Andando con ordine. Il primo profilo concerne l’instaurazione del processo. Il giudice amministrativo può esercitare le sue funzioni solo in conseguenza della proposizione di un ricorso di parte. Ne deriva, a differenza del procedimento amministrativo, la non configurabilità di un processo avviato officiosamente[ii].
Ancora, ai sensi dell’art. 34 c.p.a., il giudice amministrativo è tenuto a pronunciarsi esclusivamente “nei limiti della domanda”. Quest’ultima è, infatti, contenuta nel ricorso introduttivo e può essere eventualmente integrata tramite la presentazione di motivi aggiunti, dal ricorso incidentale, nonché, nei casi di giurisdizione esclusiva sui diritti soggettivi, dalle cc.dd. domande riconvenzionali[iii]. Il corollario appena enunciato è riassumibile nel c.d. divieto di ultrapetizione[iv].
Infine, l’attuazione del principio della domanda riconosce alla parte ricorrente la possibilità di rinunciare ai singoli motivi di impugnazione, se non addirittura all’intero ricorso; fatti salvi i diritti delle altre parti che dimostrino l’interesse alla prosecuzione del giudizio[v].
A completamento del quadro appena delineato interviene, facendone da cornice, il principio del contradditorio: quest’ultimo è disciplinato dall’art. 101 c.p.c. ed è riconosciuto a livello costituzionale dal già citato art. 111 Cost.
Con specifico riferimento al processo amministrativo, ai sensi dell’art. 27 c.p.a., il giudice non può esprimersi sulla domanda se prima non è stato regolarmente integrato il contraddittorio tra le parti[vi]. Questo è validamente “costituito quando l’atto introduttivo è notificato all’amministrazione resistente e, ove esistenti, ai controinteressati”.
Orbene, ai sensi dell’art. 46 c.p.a. le parti intimate, nel termine prestabilito decorrente dalla notificazione del ricorso, hanno il diritto di costituirsi, in qualità di possibili destinatari di effetti diretti o indiretti, nel giudizio instaurato.
Quale precipitato logico deriva, in capo a queste, la facoltà di presentare memorie difensive, istanze, documenti ed eventualmente indicare i mezzi di prova ritenuti opportuni.
La costituzione in giudizio avviene, salvo rare eccezioni, a mezzo di difensore tecnico nominato in forza di regolare procura. Da questo momento in poi, il difensore riveste la funzione di vicario, sostituendo processualmente la parte convenuta in giudizio.
La norma, insieme al già citato principio del contraddittorio e, dunque, alle regole tese a disciplinare la valida instaurazione del processo, rappresenta il corollario del più noto principio enunciato dall’art. 24 Cost.: la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento[vii].
Alla luce di quanto premesso, vengono in questa sede in rilievo i motivi aggiunti e, nello specifico, la disposizione che ne regola la notifica all’interno del processo amministrativo.
Secondo l’art. 43 c.p.a.: “i ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte. Ai motivi aggiunti si applica la disciplina prevista per il ricorso, ivi compresa quella relativa ai termini. Le notifiche alle controparti costituite avvengono ai sensi dell’articolo 170 del codice di procedura civile. Se la domanda nuova di cui al comma 1 è stata proposta con ricorso separato davanti allo stesso tribunale, il giudice provvede alla riunione dei ricorsi ai sensi dell’articolo 70”[viii].
Accanto al dato meramente testuale, il contributo intende tuttavia esaminare il diritto vivente relativo alle conseguenze processuali e sostanziali che si verificano qualora i motivi aggiunti siano stati notificati solo alle parti reali, persona fisica o persona giuridica, e non ai procuratori per loro già costituiti in giudizio. Accanto all’incertezza del diritto derivante dalla simultanea presenza di orientamenti giurisprudenziali di diverso tenore si cercheranno di illustrare, altresì, le ragioni a sostegno dell’interpretazione ritenuta, a opinione di chi scrive, conforme a tutelare il diritto di difesa all’interno del processo amministrativo.
3. I motivi aggiunti: un breve inquadramento storico-normativo
Di conio giurisprudenziale[ix], i motivi aggiunti divengono istituto del diritto positivo con la Legge 21 luglio del 2000, n. 205.
Ai sensi dell’allora novellato art. 21 della legge n. 1034/1971, “tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti”.
Dalla lettura della norma si comprende sin da subito che la riforma non ha rappresentato, a differenza della sua secolare elaborazione giurisprudenziale, una semplice trasposizione dell’istituto nella disciplina legislativa[x]. Invero, mentre i motivi aggiunti tradizionalmente comportavano l’ampliamento della causa petendi del ricorso originario, permettendo di aggiungere nuovi motivi a quelli già dedotti contro l’atto oggetto di impugnazione, ciò che il legislatore ha invece consentito, attraverso “l’impiego della forma incidentale propria dei motivi aggiunti, è l’ampliamento del petitumdel ricorso, e dunque l’impugnazione di atti diversi da quello già investito del gravame”[xi].
Di portata innovativa, la norma rispondeva all’esigenza di assicurare e rendere ammissibile l’impugnazione di atti sopravvenuti in pendenza del ricorso, intervenuti tra le stesse parti e connessi al provvedimento impugnato originariamente[xii].
L’intera l. n. 205 del 2000, all’interno della quale si inserisce la novella, mirava infatti a riformare il processo amministrativo nel suo complesso: con il duplice obiettivo di aumentare e migliorare le forme di tutela del privato, assicurando, al tempo stesso, una maggiore celerità nel riconoscimento della tutela stessa.
Nel caso di specie il legislatore ha così aderito, di concerto all’introduzione di istituti quali il nuovo rito avverso il silenzio e le decisioni in forma semplificata, a una corrente giurisprudenziale minoritaria[xiii] che vedeva, nella proposizione di motivi aggiunti “impropri”[xiv], un mezzo idoneo per assicurare vantaggi alla speditezza del procedimento innanzi al giudice amministrativo.
Nonostante il chiaro progresso in termini di effettività della tutela – con annesso il superamento di una concezione irragionevolmente tesa a mantenere inalterato il petitum così come originariamente concepito nel ricorso principale – la disciplina appena introdotta non risultava però esente da incongruenze.
La disposizione è stata, infatti, oggetto di un dibattito dottrinario ampio e vivace.
Questo si è concentrato principalmente sulla mancata statuizione normativa dei motivi aggiunti “propri”[xv] – ammessi a quell’epoca esclusivamente dalla prassi giurisprudenziale[xvi] – e sulla espressa previsione di una necessaria connessione soggettiva degli stessi rispetto al processo pendente: tesa a escludere la proponibilità dei motivi aggiunti avverso atti connessi in cui difettava il requisito dell’identità di parti[xvii].
Le citate incongruenze possono dirsi oggi superate dall’attuale formulazione della disposizione, così come concepita dal D.lgs. n. 104/2010.
Ora, il vigente art. 43 c.p.a. attribuisce al ricorrente, principale o incidentale, lo strumento processuale deputato a introdurre nel giudizio nuove ragioni a sostegno delle domande già introdotte o, ancora, domande nuove purché in connessione con quelle già proposte[xviii].
Ne deriva, dunque, un’espressa previsione normativa[xix] e un’equiparazione, acquisita almeno relativamente al regime giuridico[xx], dei c.d. motivi aggiunti “propri” – avverso i medesimi atti e finalizzati all’introduzione di vizi ulteriori rispetto a quelli già individuati – e di quelli “impropri” – finalizzati, invece, all’impugnazione di atti sopravvenuti purché oggettivamente connessi[xxi].
Quanto alla prima tipologia di motivi aggiunti, il legislatore ha così inteso riconoscere piena tutela normativa a quelle situazioni in cui, dalla produzione di nuovo materiale documentale da parte dell’amministrazione o da vicende di natura extraprocessuale[xxii], emergano ulteriori profili di illegittimità del provvedimento impugnato con ricorso principale: rendendo così possibile per il ricorrente la proposizione di nuove ragioni, in fatto o in diritto, a sostegno della propria pretesa sostanziale.
Quanto alla relativa disciplina processuale, la disposizione di cui all’art. 43 c.p.a. opera un rinvio alle norme in tema di ricorso, ivi comprese quelle relative ai termini. Pertanto, oltre ai medesimi requisiti formali e agli stessi limiti dimensionali[xxiii], restano ferme le regole in tema di decadenza: non è consentita, per mezzo dei motivi aggiunti, l’impugnazione di nuovi atti o l’introduzione di nuove censure di fronte all’intervenuta decadenza derivante dallo spirare dei termini per la proposizione del giudizio impugnatorio[xxiv].
4. La notifica dei motivi aggiunti
Lo strumento processuale prevede al secondo comma dell’articolo di riferimento una precisa modalità di perfezionamento della notifica dello stesso.
In quanto istituto di natura impugnatoria nuova, i motivi aggiunti necessitano di essere appositamente notificati ai destinatari: sono pertanto inammissibili i motivi aggiunti introdotti per mezzo di mera memoria difensiva non notificata[xxv].
Orbene, intervenendo nell’ambito di un giudizio già avviato, quanto alla modalità della notifica, l’art. 43 rinvia espressamente all’art. 170 c.p.c.[xxvi]: recante “notificazioni e comunicazioni nel corso del procedimento”.
Secondo la disposizione normativa: “dopo la costituzione in giudizio (165, 166 c.p.c.) tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito (84 c.p.c.), salvo che la legge disponga altrimenti”.
È di immediata evidenza l’obbligo per le parti processuali di notificazione e/o comunicazione nel corso del giudizio di tutti gli atti processuali, recanti tali prescrizioni, al procuratore costituito nel domicilio eletto[xxvii].
La norma sancisce e conferma il principio della c.d. “sostituzione procuratoria”: spetta al procuratore la conduzione del processo e l’esercizio di quei poteri di cui diviene titolare a seguito del conferimento della procura.
Attesa l’intervenuta instaurazione di un rapporto professionale tra questi due soggetti – funzionale alla risoluzione di un contenzioso avente, specialmente dopo gli interventi del legislatore del 2000 e del 2016, un carattere unitario pur se teso a investire nuove determinazioni amministrative – ai sensi dell’art. 84 c.p.c. al difensore costituito per mezzo di regolare procura è, pertanto, attribuito il c.d. ius postulandi: identificabile nel potere di compiere e ricevere in luogo e in nome della parte tutti gli atti del processo ad essa indirizzati.
Questo potere deriva direttamente dalla legge e assegna al difensore la più ampia discrezionalità tecnica nell’esplicazione della sua attività professionale. Il procuratore sarà, pertanto, legittimato a impostare la lite e a, eventualmente, modificare la condotta processuale a seconda degli sviluppi in concreto della controversia.
Dal quadro normativo ora esposto deriva, pertanto, l’inammissibilità dei motivi aggiunti notificati alle sole parti reali, persona giuridica o persona fisica, di fatto regolarmente rappresentati in giudizio e costituiti per mezzo di procuratore.
Secondo la disciplina contenuta all’art. 43 c.p.a., infatti, incombe su chi intende proporre motivi aggiunti l’onere di verificare la costituzione delle parti e di provvedere conseguentemente alla notifica del nuovo atto presso il domicilio del difensore nominato nella relativa procura.
Ne consegue, inoltre, che qualora l’Amministrazione resistente benefici del patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, tutte le notifiche andranno effettuate presso la difesa erariale, ciò varrà nello specifico sia per il ricorso introduttivo, sia per i motivi aggiunti. Diversamente, sarà questo il caso delle amministrazioni non statali o di amministrazioni che godono del patrocinio facoltativo, varranno le medesime accortezze pocanzi illustrate utili anche al perfezionamento della notifica nei confronti dei cc.dd. controinteressati.
5. L’interpretazione favorevole al proponente: il caso della sanatoria per raggiungimento dello scopo
Ora, per quanto premesso, nonostante le disposizioni codicistiche paiano fornire un quadro piuttosto definito, si rileva nella pratica la presenza di un panorama interpretativo alquanto variegato. Accanto a un orientamento giurisprudenziale particolarmente rigido, improntato con fermezza ad assicurare il pieno rispetto di una norma diretta a garantire il diritto di difesa per mezzo della notifica all’avvocato costituito in giudizio[xxviii], si colloca un filone interpretativo, in sanatoria, largamente condiviso dalla giurisprudenza amministrativistica.
Secondo quest’ultimo orientamento – confermato anche dal Consiglio di Stato[xxix] – la notifica effettuata alle sole parti non è condizione di inammissibilità dei motivi aggiunti qualora parte resistente replichi all’atto impugnatorio.
Dopo un breve richiamo all’art. 170 c.p.c., la citata pronuncia del Consiglio di Stato estende al caso di specie un principio di diritto. Seppure la norma letta nel suo tenore testuale non sembra ammettere equipollenti, secondo i Giudici di Palazzo Spada si rende doverosa una interpretazione della stessa, con sua conseguente applicazione, alla luce dei principi dettati dagli artt. 156 e 160 del codice di procedura civile. Norme alla quale il codice del processo amministrativo rinvia per mezzo del c.d. “rinvio esterno” operato dall’art. 39, comma 2, del c.p.a.
Andando con ordine. In forza dell’art. 160 c.p.c., la notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data, salva l’applicazione degli articoli 156 e 157.
L’art. 156 c.p.c.[xxx] appena richiamato, stabilisce, a sua volta, per quanto di nostro specifico interesse che, la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.
Ciò premesso, secondo la citata pronuncia del Consiglio di Stato, dal quadro normativo ora esposto, “si ricava che in assenza dell’espressa previsione (tanto nell’art. 43 del cod. proc. amm., quanto nell’art. 170 del cod. proc. civ.) della comminatoria della nullità della notificazione eseguita, nel corso di un procedimento già in atto, a un soggetto diverso da quello indicato (il procuratore della parte), spetta al giudice accertare se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui era destinato e, in caso positivo, escludere il pronunciamento della ipotizzata nullità”.
Dunque, se i motivi aggiunti (notificati solo alla parte reale) sono oggetto di replica e/o controdeduzioni in giudizio dalle controparti deve intendersi raggiunto lo scopo della notifica ed è, dunque, ammissibile il relativo gravame[xxxi].
Apparentemente di analogo contenuto, si è tuttavia inserito nel dibattito interpretativo un orientamento specificativo, qui sintetizzabile in una pronuncia del Tar Lombardia[xxxii], che arricchisce di ulteriori elementi la tesi del raggiungimento dello scopo.
Nello specifico, i Giudici milanesi – questa volta concludendo per l’inammissibilità dei motivi aggiunti, in quanto l’avvocatura erariale, già costituta in giudizio, con memoria depositata non ha preso posizione sulle doglianze articolate con i motivi aggiunti formulati dalla parte ricorrente – hanno inteso esprimere un categorico indirizzo interpretativo.
La sanatoria per raggiungimento dello scopo opera anche se effettuata al solo fine di eccepire la nullità dell’atto non notificato al procuratore costituito. Circostanza questa, necessaria e sufficiente al fine di dedurre la conoscenza dell’effettivo contenuto delle doglianze formulate con i motivi aggiunti e, pertanto, idonea a salvarne gli effetti processuali.
In altre parole, secondo la pronuncia del Giudice lombardo, nel caso di specie non risulterebbe inferibile il “raggiungimento dello scopo” poiché l’unico atto versato in giudizio a seguito dei motivi aggiunti rivestire carattere neutro “concretando [tale atto] un dovuto adempimento processuale in vista della udienza pubblica di discussione del gravame originario, […] sfornito di qualsivoglia argomentazione volta a contrastare l’atto recante motivi aggiunti irritualmente notificato presso la sede reale” di parte resistente.
I limiti di quest’ultima impostazione sono evidenti: l’inammissibilità per nullità della notifica diverrebbe rilevabile esclusivamente d’ufficio, ogni forma di “denuncia” del difetto di notifica implicherebbe una dimostrazione di conoscenza e dunque di “sanatoria” del gravame.
6. La soluzione adottata dal Tar Palermo con la pronuncia n. 328/2025 e la necessaria accettazione del contraddittorio
In adesione all’indirizzo del “raggiungimento dello scopo”, si inserisce la sentenza in commento, in cui il Tar Palermo è stato chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti di ammissibilità dei motivi aggiunti, per poi scrutinare l’effettiva sanabilità degli stessi.
Secondo i Giudici siciliani, il vizio della notificazione deve considerarsi sanato dalla difesa nel merito dei ricorsi che la società resistente ha svolto per mezzo di memoria difensiva.
In questa direzione, nonostante nell’atto difensivo venga sollevata l’eccezione di nullità della notifica, la difesa svolta nel merito delle questioni oggetto di giudizio dimostra che lo scopo a cui la notifica dei motivi aggiunti era diretta deve essere considerato effettivamente raggiunto.
Sul punto è richiama la giurisprudenza della Cassazione civile secondo la quale il vizio della notifica è sanato con la costituzione, anche tardiva, della parte in giudizio, e tale effetto si produce anche quando questa è compiuta con il solo scopo di far valere il vizio suddetto[xxxiii].
Nello specifico, la Corte di Cassazione ha avuto modo di sottolineare, per segnare la differenza tra una notifica inesistente e una notifica nulla, che “la notificazione dell’atto di impugnazione è inesistente, con conseguente insanabilità ex tunc, soltanto allorché la relativa abnormità sia tale da non consentirne in alcun modo l’inserimento nello sviluppo del processo, sicché, ove il vizio attenga alla fase della consegna, è inesistente la notificazione fatta a soggetto o in luogo totalmente estranei al destinatario, mentre è nulla, e suscettibile di sanatoria, quella effettuata in luogo o a persona che, pur diversi da quelli indicati dalla norma processuale, abbiano – in base ad una valutazione ex ante avente ad oggetto l’astratto raggiungimento dello scopo nonostante il vizio della notificazione - un qualche riferimento con il destinatario”[xxxiv].
Nel caso di specie, secondo i Giudici amministrativi, trattasi di una nullità della notifica sanabile in quanto il destinatario della stessa è stata la parte del giudizio in luogo al suo rappresentante processuale, inoltre non è rappresentato nella memoria difensiva depositata né vi si può desumere che la parte abbia subito alcun vulnus al proprio diritto di difesa a causa della mancata notifica al procuratore, anzi, le argomentazioni spese nel merito del giudizio dimostrano l’esatto contrario, ossia la valida istaurazione del rapporto processuale anche in relazione ai motivi aggiunti notificati all’ente.
Ne deriva che, se i principi civilistici richiamati sono consolidati con riferimento all’atto fondamentale nella costituzione del rapporto processuale quale la costituzione in giudizio della parte, a maggior ragione possono soccorrere nel caso di specie in cui il rapporto processuale tra le parti era già validamente costituito in virtù della corretta notifica del ricorso introduttivo, riguardando il vizio la notifica di motivi aggiunti rispetto ai quali la parte ha potuto diffusamente dispiegare le proprie difese.
In questa direzione il Tar Palermo era già intervenuto in precedenza: tracciando le basi dell’orientamento interpretativo oggetto di successivo consolidamento[xxxv].
In particolare, in seguito ad apposita eccezione di inammissibilità dei motivi aggiunti per nullità della notifica effettuata alle sole parti reali, i Giudici siciliani della prima sezione hanno rimarcato la circostanza secondo cui “l’art. 43, co. 2, cod. proc. amm. stabilisce che «Le notifiche alle controparti costituite avvengono ai sensi dell’articolo 170 del codice di procedura civile», cioè al procuratore costituito”.
Ciò posto, dalla lettura della pronuncia, assume carattere dirimente la condotta processuale delle parti. Nel caso di specie, infatti, parte resistente e controinteressata, attraverso memorie depositate successivamente alla proposizione del ricorso per motivi aggiunti, hanno eccepito l’inammissibilità ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 43 cod. proc. amm. e 170 cod. proc. civ., senza tuttavia accettare il contraddittorio sull’atto. Sicché, è stato escluso che lo stesso abbia comunque raggiunto lo scopo cui era diretto.
Lo scopo tipico dei motivi aggiunti non può dirsi raggiunto senza l’accettazione – quantomeno tacita[xxxvi] – del contraddittorio, nel caso di specie, non deducibile dalla semplice eccezione in rito di parte resistente.
Ancora, secondo i Giudici siciliani, il ricorso per motivi aggiunti non presentava neppure i requisiti per essere considerato quale autonomo gravame.
Detto ricorso, al di là della mancata articolazione dei fatti di causa, a dire del Collegio, difettava di una nuova e autonoma procura: risultando strutturato quale accessorio al ricorso introduttivo e, pur contenendo ulteriori motivi di doglianza, di mera riproposizione dei motivi già dedotti con il ricorso introduttivo.
Anche sulla base di queste ulteriori considerazioni la sentenza ha concluso confermando e dichiarando l’inammissibilità dell’atto processuale.
Se ne ricava, pertanto, un ulteriore profilo. Fatta salva l’operatività del combinato disposto degli artt. 43 c.p.a e 170 c.p.c., secondo i Giudici siciliani l’ammissibilità dei motivi aggiunti “impropri”, erroneamente notificati alle sole parti reali, deve passare anche dalla verifica della “capacità” del gravame, accertata la sussistenza dei rispettivi requisiti di validità previsti, di assumere rilevanza autonoma[xxxvii].
In altri termini la notifica alle sole parti reali, mancando una espressa accettazione del contradditorio sull’atto viziato nella notifica, sarebbe giustificata e ammissibile solo nel caso di nuova impugnazione finalizzata a far sorgere un giudizio separato e autonomo[xxxviii].
Alla luce del principio di economia processuale, è tuttavia necessaria un’ulteriore precisazione diretta a limitare e restringere l’applicazione della tesi ora esposta. La “clausola di salvezza” è ammissibile solo nel caso di impugnazione di nuovi “provvedimenti diversi da quelli impugnati con il ricorso principale”[xxxix].
7. Riflessioni conclusive.
Si può tentare ora di tracciare una minima ricostruzione in chiave conclusiva.
Chiariti i profili caratteristici dei motivi aggiunti all’interno del processo amministrativo, si è qui inteso riconoscere la presenza di orientamenti contrastanti in tema di inammissibilità della notifica degli stessi alle parti reali in luogo dei procuratori regolarmente costituiti in giudizio.
Se è vero che la pronuncia di inammissibilità di un atto impugnatorio rappresenta nella sostanza una statuizione a contenuto sanzionatorio, è tuttavia necessario evidenziare l’insostenibilità del contrasto giurisprudenziale.
Sarebbe, infatti, opportuno assicurare anzitutto una unità di orientamenti, la cui assenza è fattore di incertezza[xl] e apre la via a possibili violazioni del diritto di uguaglianza processuale.
Questo porta con sé numerosi problemi di paralisi difensiva e di connessi favoritismi per una o per l’altra parte, a seconda che il giudizio sia sorto innanzi a collegi propensi ad accogliere la clausola del “raggiungimento dello scopo”.
L’avvocato costituito in giudizio si troverà, così, di fronte a un bivio problematico, dipendente dall’orientamento seguito dal Giudice adito: astenersi da ogni atto processuale normalmente auspicabile avverso il gravame, mai notificato al difensore, o richiedere l’inammissibilità dei motivi aggiunti viziati da nullità della notifica.
Passando ora al merito della vicenda sono opportune alcune ulteriori riflessioni a valenza conclusiva.
Nell’opinione di chi scrive, la trasposizione generalizzata dell’orientamento teso alla salvezza degli effetti per “raggiungimento dello scopo”, senza la garanzia della espressa e volontaria accettazione del contraddittorio, adduce evidenti limitazioni e vulnera al diritto di difesa di parte resistente, dei controinteressati e anche del ricorrente stesso nel caso di motivi aggiunti proposti a seguito di ricorso incidentale[xli].
La sanatoria per “raggiungimento dello scopo” nasce, nel diritto processuale civile, per sanare quelle irritualità commesse da parte ricorrente nelle ipotesi in cui parte resistente si sia ugualmente costituita in giudizio.
Per “raggiungimento dello scopo” si vuole intendere quella capacità dell’atto e, più nello specifico, della notifica di informare i soggetti interessanti dell’effettiva apertura di un giudizio astrattamente idoneo a coinvolgerli. La sanatoria deriverebbe, pertanto, dalla idoneità della notificazione, seppur irregolare, a rendere edotte le altre parti permettendone ugualmente di costituirsi in giudizio e, conseguentemente, di esercitare il diritto di difesa.
Lo scopo della notifica di un atto a contenuto impugnatorio non è soltanto portare a conoscenza del destinatario la domanda di controparte, bensì anche – anzi, soprattutto – disporre il destinatario nelle condizioni di difendersi in giudizio, permettendogli il compimento dell’attività processuale conseguente alla ricezione dell’atto tramessogli.
Nel caso di specie, trattandosi di notifica di motivi aggiunti alla parte già costituita in giudizio, questa interpretazione sanante obbligherebbe il procuratore costituito, al quale non vengono garantiti i termini a difesa previsti a seguito della proposizione di motivi aggiunti e decorrenti dal perfezionamento rituale della notifica, di astenersi da ogni funzione difensiva[xlii] in attesa di in una pronuncia di inammissibilità da parte del Giudice che ne ravvisi il difetto di notifica.
Il Giudice amministrativo sarebbe così, di fatto, l’unico vero titolare del potere di eccepirne il difetto.
Ne deriverebbe, pertanto, una completa inutilità del richiamo contenuto nell’art. 43 c.p.a. e la conseguente inutilizzabilità della disposizione di cui all’art. 170 c.p.c.: soprattutto nel processo amministrativo dove, a seguito dell’avvento del Processo Amministrativo Telematico (PAT), opera l’obbligo di deposito telematico di tutti gli atti processuali[xliii].
In ragione della ipotetica pronta conoscibilità di ogni atto processuale, il passo verso il superamento di ogni forma di notifica a seguito dell’apertura del fascicolo telematico potrebbe comportare, tra l’altro, un rischioso e alquanto gravoso onere difensivo di accertamento senza termine di possibili depositi da parte dei partecipanti al processo amministrativo.
Orbene, riconoscere alla mera conoscenza aliunde dell’atto notificato da parte del destinatario, quand’anche provata, il dedotto effetto sanante della nullità della notifica di un atto processuale “significherebbe ammettere un’indiscriminata surrogabilità e disapplicazione dei procedimenti notificatori disposti dal legislatore, con il conseguente rischio di totale incertezza in ordine alla legale conoscenza degli atti e con evidente violazione dell’art. 24 Cost.”[xliv].
Ciò rende quantomeno perplessa l’interpretazione forzatamente garantista nei confronti della sola parte notificante, che va a discapito delle altre parti processuali.
[i] Per un’accurata ricostruzione sull’evoluzione del processo amministrativo e, in particolare, sulla dicotomia tra concezione oggettiva e soggettiva, fra tutti, sia consentito il rimando a F. Saitta, Vicinanza della prova e codice del processo amministrativo: l’esperienza del primo lustro, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., n. 3/2017, 911 ss. L’A. occupandosi del tema dell’onere della prova, esordisce alludendo alle ambiguità di fondo del processo amministrativo, ove, alla luce degli sviluppi storici e normativi, emerge tra tutte la problematica iscrizione dello stesso alla giurisdizione di diritto soggettivo. Ancora, in Id., Interessi diffusi e legittimazione a ricorrere: una questione da rivedere, in Aa. Vv., Riprendiamoci la città. Manuale d’uso per la gestione della rigenerazione urbana, 2023, 231 ss., l’A. occupandosi poi della tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, esordisce rinviando a uno studio di E. Romani, Il principio dello sviluppo sostenibile nella sua dimensione processuale: suggestioni per una legittimazione a ricorrere uti civis, in P. Pantalone (a cura di), Doveri intergenerazionali e tutela dell’ambiente. Sviluppi, sfide e prospettive per Stati, imprese e individui(Atti del Convegno di Milano, 7 ottobre 2021), in Dir. econ., 2021, numero monografico, 204, secondo cui la tematica necessiterebbe di “rinvenire un contemperamento tra l’esigenza di evitare un’eccessiva generalizzazione della legittimazione a ricorrere – che rischierebbe di trasformare il sistema processuale amministrativo in una giurisdizione di tipo oggettivo, allontanandolo dalle direttrici costituzionali contenute negli artt. 24 e 103 Cost. – e l’esigenza di garantire al contempo un effettivo accesso alla giustizia, presupposto imprescindibile per assicurare una protezione «piena» ai suddetti interessi”.
Sul rapporto tra impronta soggettiva e tutela della situazione giuridica dedotta e ispirata al principio di effettività della tutela si vedano ancora: V. Domenichelli, La trasformazione in senso soggettivo della giurisdizione amministrativa: una conquista irrinunciabile del processo amministrativo, in F. Francario - A.M. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017, 329 ss.; V. Domenichelli, Il principio della domanda, in questa Rivista, n. 1/2020, 26 ss.; N. Paolantonio, La dicotomia tra giurisdizione soggettiva e oggettiva nella sistematica del codice del processo amministrativo, ivi, n. 2/2020, 237 ss.
Da ultimo, si veda F.G. Scoca, Il principio della domanda nel processo amministrativo, in Corr. giur., n. 12/2015, 1600 ss., il quale affronta la questione facendo discendere la natura soggettiva della giurisdizione amministrativa dal principio della domanda vigente nella disciplina del processo amministrativo e, ancora, dal carattere di processo di parti del processo amministrativo.
[ii] Sul tema si veda anzitutto M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, 1983, 330 ss. Nella sua opera il Maestro individua tra i principi generali del processo amministrativo quello della domanda e dell’iniziativa di parte, evidenziando il corollario del divieto di qualsiasi attività officiosa da parte del Giudice amministrativo, fatta eccezione per i cc.dd. poteri istruttori dello stesso. Su questo crinale, secondo M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2019, 486 ss., è dallo stesso Codice che può ora ricavarsi l’accoglimento di una concezione soggettiva della tutela giurisdizionale amministrativa. In questo senso, secondo S. Franca, La conversione dell’azione tra potere officioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in questa Rivista, n. 1/2024, 141 ss., il principio della domanda “rappresenta plasticamente la definitiva affermazione di un modello di giurisdizione a trazione soggettiva, ossia di un modello di giurisdizione che, pur non epurando integralmente elementi di oggettività, si segnala per la sua strumentalità alla tutela di posizioni giuridiche soggettive. In questo senso, il principio della domanda rappresenta il sintomo della realizzazione del modello di tutela giurisdizionale sancito dalla Carta costituzionale, in particolare agli artt. 24 e 113 Cost.”.
A completamento del quadro appena descritto e con specifica attenzione al profilo dell’iniziativa si vedano ancora: A. Cassatella, Legittimazione a ricorrere e norme di garanzia, in questa Rivista, n. 4/2022, 773 ss., secondo l’A., “individui, formazioni sociali ed amministrazioni possono agire innanzi al giudice solo se la loro iniziativa è posta a tutela di situazioni soggettive già garantite dalle norme sostanziali”; M. Ramajoli, L’atto introduttivo del giudizio amministrativo tra forma e contenuto, ivi, n. 4/2019, 1051 ss., nella quale è esposto il concetto della c.d. doppia funzione dell’atto introduttivo inteso quale atto d’impulso e, al contempo, quale limite al dovere decisorio del giudice amministrativo; e, ancora, V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, ivi, n. 2/2014, 341 ss., nella quale si approfondisce il tema delle condizioni dell’azione e, pertanto, della connessa ammissibilità e idoneità del ricorso di parte a introdurre il processo amministrativo.
[iii] In dottrina, con specifico riferimento all’istituto dei motivi aggiunti si veda C. Mignone, Il ricorso integrativo (ovvero i falsi motivi aggiunti) nel processo dinnanzi ai Tribunali Amministrativi, in Foro Amm., n. 12/2002, 4174 ss. L’A. afferma che il processo amministrativo è divenuto un giudizio sul rapporto, avendo ormai ad oggetto la pretesa sostanziale. “L’avvenuta trasformazione completa dell’oggetto del giudizio discenderebbe dalla connessa possibilità di impugnare provvedimenti ulteriori e, soprattutto, di far valere connesse azioni d’accertamento e di condanna, in corso di causa”. Ancora, sull’integrazione della domanda, in generale, si veda il lavoro monografico di C.E. Gallo, La modificazione della domanda nel processo amministrativo, Torino, 1985. Già anteriormente alla L. n. 205 del 2001, infatti, la questione era emersa all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza. Tra le pronunce più rilevanti si segnalano: Cons. Stato, VI, 17 luglio 2001, n. 3962; V, 7 settembre 2001, n. 4682; Tar Lazio, sez. I, 16 gennaio 2002, n. 398.
[iv] Sull’applicabilità del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato anche nel processo amministrativo si veda tra tutti Cons. Stato, IV, 3 marzo. 2009, n. 1227, nella parte in cui è chiarito che “nel processo amministrativo l’oggetto del giudizio si configura strettamente limitato alle questioni di legittimità dell’atto in relazione ai soli motivi denunciati con il ricorso, è rinvenibile il vizio di ultra od extra petizione qualora il Giudice si sia pronunciato su un aspetto non censurato dalla parte”.
In dottrina, sul rapporto tra il principio della domanda e il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, da intendersi quest’ultimo come una delle tre articolazioni del primo, si veda ancora M. Nigro, voce Domanda (principio della), II) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., Roma, XII, 1989.
[v] Si fa riferimento all’art. 84 del D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Se ne riporta il testo per facilità di consultazione: “La parte può rinunciare al ricorso in ogni stato e grado della controversia, mediante dichiarazione sottoscritta da essa stessa o dall’avvocato munito di mandato speciale e depositata presso la segreteria, o mediante dichiarazione resa in udienza e documentata nel relativo verbale.
Il rinunciante deve pagare le spese degli atti di procedura compiuti, salvo che il collegio, avuto riguardo a ogni circostanza, ritenga di compensarle.
La rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell’udienza. Se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono, il processo si estingue.
Anche in assenza delle formalità di cui ai commi precedenti il giudice può desumere dall’intervento di fatti o atti univoci dopo la proposizione del ricorso ed altresì dal comportamento delle parti argomenti di prova della sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione della causa”.
In dottrina, sul tema della rinuncia si veda P.L. Portaluri, Il nuovo diritto procedimentale nella riforma della P.A.: l’autotutela (profili interni e comunitari), Relazione al convegno “Efficienza, legalità, controlli. Pesi e contrappesi”, Napoli, 10 giugno 2016, in federalismi.it, n. 20/2016. In particolare l’A. occupandosi dell’inattuazione della riforma del 2012 sull’obbligo di provvedere, si sofferma sul paradosso dei “provvedimenti amministrativi annullati da sentenze del TAR, cui poi sia seguita un’inspiegabile rinuncia del ricorrente – pur vittorioso – al ricorso di primo grado: in questo caso, viene formalmente meno la sentenza e il provvedimento annullato rivive, pur bollato d’illegittimità. Il fenomeno non è raro nei procedimenti di aggiudicazione di gare d’appalto”.
[vi] Sul tema si rimanda a F.G. Scoca, I principi del giusto processo, in Id. (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2020, 172-173. Il contraddittorio, per essere garantito, deve rispondere ai requisiti della completezza e della continuità. In particolare, per quanto concerne il profilo della continuità, il contraddittorio deve essere mantenuto integro per l’intera durata del processo. Ciò significa che la dialettica tra le parti deve essere organizzata razionalmente e che il “dialogo” con il giudice deve essere costante. Il contraddittorio deve essere garantito sia nella fase istruttoria, specialmente nella formazione delle prove, sia nella fase di formazione del convincimento del giudice. Dunque, in linea generale l’A. afferma che “nessuna decisione del giudice, sia istruttoria, sia di merito, possa essere adottata senza che le parti abbiano avuto modo di pronunciarsi preventivamente sulla questione da decidere”.
[vii] In merito al diritto di difesa e all’importanza dell’assistenza tecnica per mezzo di idonea figura professionale, è più volte intervenuta la Corte Costituzionale. In particolare, con sentenza del 13 maggio 1965, n. 41, la Corte ha affermato che “il diritto di difesa si configura come possibilità effettiva dell’assistenza tecnica e professionale nello svolgimento di qualsiasi processo, in modo che venga assicurato il contraddittorio e venga rimosso ogni ostacolo a far valere le istanze e le ragioni delle parti”. Con successiva sentenza del 10 novembre 1989, n. 498, la Corte ha inoltre chiarito, che il difensore è “un protagonista senza il quale, specie e tanto più nel nuovo processo, esso non può, da un certo momento in poi, nemmeno proseguire”.
[viii] Tra i riferimenti dottrinali dedicati esclusivamente all’istituto in commento si vedano in ordine cronologico: C. Mignone, I motivi aggiunti nel processo amministrativo, Padova, 1984; F. Fracchia, Motivi aggiunti, termine di decadenza e modifiche delpetitum, in questa Rivista, n. 4/1996, 683 ss.; F. Figorilli, I motivi aggiunti, in B. Sassani - R. Villata (a cura di), Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico alla legge n. 205/2000, Torino, 2001, 111 ss.; M. Ramajoli, Commento all’art. 1 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in Nuove leggi civ. comm., n. 3-4/2001, 567-574 ss.; P. Divizia, Considerazioni in tema di motivi aggiunti nel giudizio amministrativo: profili teorici e tecnica giudiziale, in Foro amm. TAR, n. 4/2003, 1427 ss.; C. Cacciavillani, Sul ricorso per motivi aggiunti di cui all’art. 21 della legge Tar, come modificato dalla legge n. 205/2000, in questa Rivista, n. 1/2005, 181 ss.; M. Trimarchi, I motivi aggiunti nel codice del processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., n. 3/2010, 945 ss.; S. Castro, Il ricorso per motivi aggiunti nel processo amministrativo, Milano, 2011.
[ix] È opinione consolidata che i motivi aggiunti entrino a far parte del rito amministrativo con la famosa pronuncia del Consiglio di Stato del 18 agosto 1905, n. 369, con cui i Giudici di Palazzo Spada ritennero ammissibile l’integrazione della causa petendi a seguito della avvenuta conoscenza di circostanze, ignorate dal ricorrente per ragioni a lui non direttamente imputabili, idonee a evidenziare nuovi vizi del provvedimento impugnato. La sentenza citata è integralmente riportata in Giust. amm., 1905, I, 353.
Quanto alle ragioni legate alla sua introduzione si veda la ricostruzione di M. D’Orsogna - F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado. La fase introduttiva, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 320 ss., spec. 353-354. Nello studio della genesi dell’istituto non possono trascurarsi le caratteristiche proprie del processo amministrativo. Quest’ultimo, retto dal principio dispositivo, individua nella conoscenza del materiale documentale – su cui si basa il provvedimento impugnato – uno dei profili fondamentali. Le aperture giurisprudenziali legate all’inserimento dei motivi aggiunti nel processo amministrativo rispondevano, così, alla necessità di “individuare soluzioni vòlte ad assicurare la realizzazione completa del più generale principio del contraddittorio, consentendo così al ricorrente di integrare l’atto introduttivo del giudizio, contenente le censure alla base della pretesa vantata, con ulteriori motivi di ricorso”.
[x] Secondo C. Mignone, Il ricorso integrato, cit., l’art. 1 della l. n. 205/2000 contemplava un istituto diverso dai motivi aggiunti, qualificabile quale ricorso integrativo, poiché costituito da petitum e causa petendi proprii. La novella avrebbe così introdotto “una sorta di ricorso cumulativo a formazione progressiva”.
[xi] In questi termini si veda C. Cacciavillani, Sul ricorso per motivi aggiunti, cit., spec. 181. Il citato art. 21 esprimeva la volontà del legislatore di favorire una impostazione che, in forza del simultaneus processus, conducesse l’organo giudicante a una decisione sulla base di una conoscenza completa ed esauriente dei fatti unitariamente considerati.
[xii] Sul tema si vedano tra tutti R. Garofoli - G. Ferrari, Codice del processo amministrativo. D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, Roma, II, 2012, 795 ss. Secondo gli Aa. la modifica dell’art. 21 ha avuto il merito di consacrare normativamente l’ipotesi di proposizione dei cc.dd. motivi aggiunti “impropri”, al fine di permettere la contestazione di atti connessi a quello sub iudice. Prima della L. n. 205 del 2000 l’istituto era infatti ammesso, esclusivamente, per la proposizione di nuove censure avverso l’atto impugnato con il ricorso originario, emerse in seguito alla conoscenza di nuovi documenti.
[xiii] In concreto, la norma rappresenta il punto di arrivo di un annoso contrasto giurisprudenziale che vedeva, da un lato, la tesi dell’inammissibilità dei motivi aggiunti (avverso nuovi provvedimenti), ai sensi dell’ipotetico vincolo derivante dall’immodificabilità del petitum così come identificato nell’atto introduttivo del giudizio (da qui, la concezione secondo cui la definizione con sentenza unica di più giudizi connessi era rimessa esclusivamente al potere di riunione ad opera del giudice competente. Cfr., ex multis: Cons. Stato, V, 14 novembre 1996, n. 1336; 18 settembre 1998, n. 1310); dall’altro, minoritario e di opposto tenore, l’innovativo indirizzo volto a riconoscere nella suddetta ammissibilità un indubbio strumento di celerità decisionale (cfr. Cons. Stato, V, 23 marzo 1993, n. 398; C.g.a.r.s., 4 novembre 1995, n. 343).
[xiv] La dicitura “impropri” risponde all’esigenza di differenziare le due possibili declinazioni dei motivi aggiunti. I primi tradizionali e di matrice pretoria, i secondi introdotti e positivizzati attraverso la citata L. n. 205/200. Come già anticipato, a differenza della fattispecie originaria, diretta ad aggiungere ulteriori motivi di gravame avverso un provvedimento già sottoposto al vaglio giurisdizionale, i motivi aggiunti “impropri” attengono alla possibilità di censurare ed estendere l’istanza annullatoria a nuovi provvedimenti: ampliando di tal guisa l’originario petitum. Quest’ultimo è, infatti, identificabile nella richiesta del ricorrente o, meglio, in “ciò che si chiede al giudice per mezzo del ricorso giurisdizionale”. Il virgolettato è di E. Mele, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2013, spec. 343.
[xv] Questa prima tipologia di motivi aggiunti (definiti anche “classici” da P. Divizia, Considerazioni in tema di motivi aggiunti, cit., spec. 1435), come già anticipato, consente al soggetto ricorrente di introdurre all’interno del giudizio ulteriori motivi o nuove censure relative a un provvedimento già impugnato. L’istituto nella sua versione tradizionale risponde all’esigenza di garantire, a seguito della conoscenza di ulteriori atti rispetto a quelli noti al momento della proposizione del ricorso, la presenza di uno strumento in grado di arricchire la propria domanda con ulteriori ragioni in fatto e in diritto: ampliando, così, il thema decidendum sul fronte della causa petendi. Quest’ultima, secondo autorevole dottrina, è individuabile nei vizi di legittimità censurati dal ricorrente. Sul tema si rimanda allo scritto di A. Police, Il cumulo di domande nei «riti speciali» e l’oggetto del giudizio amministrativo, in questa Rivista, n. 4/2014, 1197 ss. Sul tema, per completezza espositiva, si segnala l’intervento del Consiglio di Stato in adunanza plenaria, sentenza del 27 aprile 2015, n. 5. Attraverso la citata pronuncia, i Giudici di Palazzo Spada hanno infatti inteso valorizzare l’alterità tra petitum e causa petendi. “Nel giudizio impugnatorio di legittimità, l’unicità o pluralità di domande proposte dalle parti, mediante ricorso principale motivi aggiunti o ricorso incidentale, si determina esclusivamente in funzione della richiesta di annullamento di uno o più provvedimenti”.
[xvi] Sul tema della mancanza di una disciplina normativa volta a fornire le linee direttive dei motivi aggiunti “propri” era già intervenuto F. Fracchia, Motivi aggiunti, termine di decadenza e modifiche del petitum, in questa Rivista, 1996, 683 ss. Attraverso il suo articolato lavoro di ricerca l’A. operava una ricostruzione complessiva dell’istituto, soffermandosi principalmente sull’intricato tema della decorrenza dei termini per la proposizione dei motivi aggiunti.
[xvii] Sull’irragionevolezza della necessaria connessione soggettiva, si vedano: G. Abbamonte, Commento all’art. 1, L. n. 205/2000, in V. Cerulli Irelli (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2000, 204 ss.; M. D’Orsogna - F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado, cit., spec. 355-356. Secondo questi ultimi, è proprio il profilo della connessione soggettiva ad aver suscitato le maggiori perplessità in quanto, quest’ultimo, se ritenuto requisito essenziale per la proposizione dei motivi aggiunti, avrebbe escluso dal sindacato giurisdizionale una nutrita casistica di attività amministrativa: sottoponendo, così, gli interessati ad una duplicazione di giudizi, con il rischio, tutt’altro che remoto, di dare vita ad un contrasto fra giudicati. Tra gli esempi di esclusione individuati dagli Autori, venivano evidenziate: le ipotesi in cui l’esercizio dell’attività amministrativa avvenga in attuazione di provvedimenti a carattere generale, si guardi ai provvedimenti ablatori che realizzano le scelte determinate in sede di pianificazione generale; e, ancora, al caso di decisioni emanate in attuazione degli obiettivi individuati ed approvati con gli accordi di programma o in sede di conferenza di servizi, anche in detta ipotesi i provvedimenti applicativi sono adottati da autorità diversa da quella che ha determinato l’atto presupposto, con conseguente inutilizzabilità dell’istituto dei motivi aggiunti.
Per questa ragione la stessa giurisprudenza – e con essa, poi, il legislatore, con la soppressione della locuzione “tra le stesse parti” di cui al citato art. 21, l. n. 1034/’71 – iniziò ad ammetterne l’ammissibilità anche nell’ipotesi in cui differivano le Amministrazioni pubbliche coinvolte e i cc.dd. controinteressati. Sul tema si vedano in particolare: Cons. Stato, VI, 22 ottobre 2002, n. 5813; 21 novembre 2003, n. 7632; IV, 27 aprile 2004, n. 2555.
[xviii] Sul tema si rimanda a G. Taglianetti, Considerazioni in tema di motivi aggiunti e contributo unificato nel processo amministrativo. Come dare un senso compiuto al criterio del «considerevole ampliamento dell’oggetto della controversia già pendente», in Federalismi.it, n. 6/2019. L’art. 43 c.p.a. individua, così, due tipologie di motivi aggiunti: reciprocamente esclusive e congiuntamente esaustive. “Esclusive, nel senso che i motivi aggiunti non possono essere ricondotti contemporaneamente a entrambe le tipologie; esaustive, nel senso che i motivi aggiunti possono essere ricondotti soltanto all’una o all’altra tipologia”.
[xix] Cfr. F. Siciliano, Note sull’aggiunzione di motivi dopo l’entrata in vigore del Codice del Processo Amministrativo, in For. Amm. Tar, n. 4/2011, 1445 ss. Secondo l’A. il legislatore ha di fatto positivizzato, anche per i motivi aggiunti tradizionali, due requisiti da tempo stratificatisi nelle pronunce dei Giudici amministrativi, ossia: “un nesso di necessaria consequenzialità, variamente qualificabile, rispetto alla previa instaurazione di un rapporto processuale innanzi al giudice amministrativo, mediante la proposizione del ricorso principale e […] l’imprinting formale e sostanziale proprio di quel ricorso introduttivo, alla cui disciplina il Codice integralmente rinvia”.
[xx] A questo proposito, per ragioni di completezza, si evidenzia che le due tipologie di motivi aggiunti trovano diversa regolamentazione solo per quanto concerne: l’autonomia rispetto al ricorso principale, la debenza del contributo unificato e la possibilità di proposizione degli stessi in sede di appello, riservata esclusivamente ai motivi aggiunti “propri”. Sul tema si rimanda a R. Villata - L. Bertonazzi, Commento all’art. 43 c.p.a., in A. Quaranta - V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo. Commentario al d. lgs. n. 104/2010, 427 ss. Per un esclusivo approfondimento sulle problematiche legate al pagamento del contributo unificato si v. ancora G. Taglianetti, Considerazioni in tema di motivi, cit.
[xxi] Sul tema della connessione oggettiva si rimanda a R. De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentata, Milano, IV, 2017, 825 ss. Come detto, la previsione dei motivi aggiunti avverso atti connessi è stata introdotta dalla l. n. 205/2000 e poi razionalizzata dal codice del processo amministrativo. Orbene, secondo l’A. l’espressione legislativa è sufficientemente ampia e, al fine di operare una corretta definizione della nozione di connessione, rende ipotizzabili una serie di casi esplicativi della stessa. Anzitutto, “il caso più semplice è quello della «connessione infra procedimentale» che si verifica quando vengono impugnati, in tempi diversi, atti del medesimo procedimento. Ciò può accadere quando in un procedimento ci sono atti preparatori che vengono immediatamente impugnati perché di per sé autonomamente lesivi”. Segue poi, un’ulteriore ipotesi di “connessione per reiterazione provvedimentale”, individuabile nell’ipotesi in cui “l’amministrazione sostituisce l’atto impugnato, su cui pende ricorso, con un nuovo provvedimento, anch’esso non satisfattivo per il destinatario, per esempio l’atto di conferma con diversa motivazione”. Infine, una terza categoria di connessione è individuabile nella c.d. “connessione sostanziale”. Questa, “si verifica quando vi è una connessione degli interessi in gioco, anche se gli atti appartengono a procedimenti amministrativi formalmente diversi”. Un esempio chiarificatore è rinvenibile nel rilascio di concessione edilizia per un’area sottoposta a vincolo paesaggistico, da cui scaturisce il rilascio di apposito nulla osta. Nel caso di specie, vengono a delinearsi due procedimenti amministrativi differenti: quello relativo alla concessione edilizia e quello relativo al nullaosta paesaggistico. “Si può dunque ammettere la connessione e quindi la possibilità di motivi aggiunti ogniqualvolta i ricorsi, se promossi separatamente, sarebbero suscettibili di riunione, come si evince in via esegetica dall’art. 43, c. 3, c.p.a. che in caso di domande connesse proposte con separati ricorsi, ne prevede la riunione”.
[xxii] Ne parla approfonditamente P. Divizia, Considerazioni in tema di motivi aggiunti, cit. Nello specifico l’A. riassume gli insegnamenti applicati dalla giurisprudenza, volti a colmare le relative lacune legislative, in tema di introduzione di ulteriori vizi di legittimità per mezzo dei motivi aggiunti propri. Se in primo momento questa aggiunzione era ritenuta ammissibile solo in conseguenza della produzione di nuovi documenti in corso di giudizio (cfr. in tal senso Cons. Stato, Ad. Plen., 2 maggio 1960, n. 4), è ora opportuno precisare che “sia in primo grado sia dinanzi al Consiglio di Stato, la conoscenza dell’elemento o fattore che spinge alla redazione dei motivi aggiunti può avverarsi almeno attraverso tre differenti modalità: in primo luogo, a seguito di una circostanza che matura in seno al giudizio stesso (ad es. l’amministrazione resistente deposita un determinato documento che evidenzia motivi di doglianza nuovi riferitamente al provvedimento impugnato); in secondo luogo, a fronte di un evento verificatosi fra le parti di causa al di fuori del rapporto processuale (ad es. Tizio impugna l’ordinanza di demolizione, chiede ed ottiene una misura cautelare; nelle more del processo inoltra una domanda di concessione in sanatoria e l’amministrazione adotta un nuovo provvedimento di diniego, ovviamente distinto ma connesso con quello impugnato ab origine) oppure, infine, a seguito di un’acquisizione da parte del ricorrente sempre esterna al processo ma del tutto accidentale (ad es. Mevio effettua un accesso c.d. conoscitivo agli atti di un ente e rinviene un documento di vitale importanza per le sorti di una controversia pendente – per questione distinta – con la stessa amministrazione)”.
[xxiii] Quanto ai criteri redazionali e ai limiti dimensionali degli atti processuali di parte si rimanda integralmente al d.P.C.S. del 22 dicembre 2016, n. 167, adottato in attuazione dell’art. 13-ter disp. att. c.p.a.
In dottrina si v. E.M. Barbieri, Il superamento dei limiti dimensionali stabiliti per i ricorsi giurisdizionali amministrativi, in questa Rivista, n. 1/2022, 223 ss. Una volta chiarita la fonte del dovere di sinteticità nel processo amministrativo, l’A. si sofferma sulla recente ordinanza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, VI, ord. 13 aprile 2021, n. 3006), la quale “propone una interessante ed innovativa, seppure dichiaratamente provvisoria soluzione ai problemi che si presentano nel processo amministrativo quando le parti, senza essere state previamente autorizzate dal giudice, abbiano superato i limiti dimensionali che, in applicazione del principio di sinteticità, il legislatore ha ritenuto di imporre nella stesura degli atti processuali”.
[xxiv] Fatti salvi i medesimi termini previsti per la proposizione del ricorso principale, rilevano in questa sede le peculiarità legate al dies a quo di decorrenza degli stessi. Andando con ordine. Come detto, la conoscenza sopravvenuta di ulteriori atti e di ulteriori vizi legittima la proposizione di motivi aggiunti “propri”. Pertanto, il termine di sessanta giorni, nel caso di rito ordinario, come affermato da pacifica giurisprudenza decorre dalla piena conoscenza degli atti ulteriori. Sul tema, si veda tra tutte la pronuncia del Cons. Stato, Ad. Plen., del 11 marzo 1998, n. 271. Ora, nello specifico, “è principio acquisito che nel caso di deposito di documenti in giudizio, poiché è configurabile un onere del ricorrente di accertare in segreteria l’eventuale deposito, il termine per la proposizione di motivi aggiunti generalmente decorre dalla data del deposito stesso, mentre quando i termini di deposito, peraltro ordinatori, siano rimasti inosservati, non avendo il ricorrente un siffatto onere, la decorrenza del termine è legata all'effettiva conoscenza del deposito stesso, con dimostrazione di questa a carico della controparte che eccepisce la tardività” (Cfr. Cons. Stato, V, 6 luglio 2002, n. 3717). In ogni caso autorevole dottrina precisa che “i motivi aggiunti possono essere proposti fino al passaggio della causa in decisione: una volta che la causa sia passata in decisione (e sempreché ciò sia avvenuto legittimamente) i motivi aggiunti non possono più essere presentati; la preclusione non significa in tal caso decadenza, ma sull’incapacità del processo pendente a recepire nuovi motivi, tanto è vero che, dandosene gli altri presupposti, si ammettono motivi aggiunti anche in appello” (in questi termini si veda R. De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentata, cit., spec. 825).
Quanto ai motivi aggiunti “impropri”, invece, non convince la tesi della corrispondenza tra deposito in giudizio e piena conoscenza dell’atto sopravvenuto. Trattandosi di un nuovo provvedimento autonomamente lesivo, il termine decorre dalla piena conoscenza dello stesso in capo alla parte personalmente (Cons. Stato, IV, 7 settembre 2000, n. 4725). Da qui deriva la non corrispondenza dei due termini in quanto la prevista comunicazione alle parti costituite, degli atti e documenti depositati dall’amministrazione, produce la “piena” conoscenza solo in capo ai difensori.
[xxv] Non possono in questa sede ignorarsi le numerose affinità dei motivi aggiunti “propri” con l’istituto previsto dall’art. 73 c.p.a., recante “memorie difensive”. Sul tema tra tutti si veda l’attenta ricostruzione del già citato G. Taglianetti, Considerazioni in tema di motivi aggiunti e contributo unificato nel processo amministrativo, cit., spec. 4. Secondo l’A., ad eccezione della notifica alle parti costituite, sia i motivi aggiunti “propri” sia le memorie difensive: “non sono soggetti al pagamento del contributo unificato; entrambi gli atti giudiziari non richiedono una nuova procura al difensore (ciò vale, però, anche per i motivi aggiunti “impropri”); entrambi si concludono con la reiterazione della richiesta di annullamento del provvedimento, o dei provvedimenti, originariamente impugnato/i attraverso il ricorso introduttivo; entrambi possono essere proposti direttamente in appello senza che ciò comporti l’elusione del principio del doppio grado di giurisdizione”. Nonostante i numerosi punti di contatto, le memorie difensive svolgono tuttavia la funzione di suffragare, con argomenti più approfonditi e richiami dottrinari e giurisprudenziali, i motivi già prospettati con il ricorso introduttivo, essendo preclusa la possibilità di dedurre ulteriori motivi di ricorso (“nuove ragioni”) rispetto a quelli proposti ab origine. Quest’ultima eventualità è percorribile unicamente attraverso i motivi aggiunti “propri”, attraverso la quale si possono prospettare vizi diversi e ulteriori rispetto a quelli già dedotti con il ricorso introduttivo, ampliando in questo modo il thema decidendum sul fronte della causa petendi.
Ancora, sul tema si rimanda a nota giurisprudenza del Consiglio di Stato, Ad. Plen., 20 maggio 1980, n. 18. Più recentemente si veda anche la pronuncia del Tar Campania, Napoli, IV, 17 novembre 2010, n. 25190, che dichiara l’inammissibilità delle deduzioni per la prima volta formulate da parte ricorrente con memoria difensiva depositata, non potendosi con memoria non notificata alla controparte allargare il thema decidendum.
[xxvi] Se ne riporta il testo per agilità di consultazione. Art. 170 c.p.c.: “Dopo la costituzione in giudizio [165, 166 c.p.c.] tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito [84 c.p.c.], salvo che la legge disponga altrimenti. È sufficiente la consegna di una sola copia dell’atto, anche se il procuratore è costituito per più parti. Le notificazioni e le comunicazioni alla parte che si è costituita personalmente si fanno nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto”.
[xxvii] Ad analoghe conclusioni giungeva nota giurisprudenza, antecedente al d.lgs. n. 104/2010, sia in relazione ai motivi aggiunti avverso atti già impugnati, sia nel caso di censura di provvedimenti connessi. In particolare si vedano rispettivamente: Cons. Stato, V, 6 luglio 2002, n. 3717; 19 febbraio 2007, n. 831. Secondo i Giudici di Palazzo Spada “una volta radicato il contraddittorio nei confronti dell’Amministrazione e una volta che questa si sia costituita in giudizio a mezzo di difensore, correttamente i motivi aggiunti sono notificati presso il difensore stesso nel domicilio eletto; i motivi aggiunti, infatti, si configurano come mezzo di ampliamento del giudizio in corso e, quindi, come atto del giudizio stesso; sicché è da ritenersi comunque legittima e rituale la loro notificazione effettuata presso il predetto domicilio eletto dalla parte intimata anziché in quello risultante dalla relata di notifica dell’atto introduttivo del giudizio”.
[xxviii] L’indirizzo pretorio del quale si è appena detto è ricavabile da una pronuncia del Tar Lombardia, Milano, I, 24 agosto 2017, n. 1764, con la quale il Giudice amministrativo ha concluso dichiarando l’inammissibilità dei motivi aggiunti notificati presso la sede dell’amministrazione comunale resistente regolarmente costituita in giudizio a mezzo di procuratore. Nello specifico, a dire del Collegio, è pacifico che il disposto dell’art. 43, comma 2, c.p.a., attraverso il richiamo all’art. 170 c.p.c. addossi alla parte l’onere di notificare il ricorso per motivi aggiunti non presso la sede legale dell’Ente, ma presso il procuratore costituito di quest’ultimo. In quest’ottica, secondo i Giudici, la presenza di un dettato normativo di tenore inequivocabile non permette di condividere l’indirizzo giurisprudenziale che ammette la notificazione dei motivi aggiunti presso la sede legale dell’Ente, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo ex art. 156, comma 3, c.p.c., richiamato dal successivo art. 160 c.p.c. in tema di nullità della notificazione.
Se ne spiegano subito le ragioni. Secondo i Giudici lombardi, le parole usate dal legislatore nell’art. 43, comma 2, c.p.a. – “le notifiche alle controparti costituite avvengono ai sensi dell’articolo 170 del codice di procedura civile” – non ammettono una interpretazione meramente possibilistica rispetto a modalità alternative di conoscibilità dei motivi aggiunti. Se la giurisprudenza anteriore al codice del processo amministrativo (si veda, ex multis, Cons. Stato, IV, 11 ottobre 2007, n. 5354) aveva, infatti, parlato di ammissibilità della notificazione dei motivi aggiunti presso il domicilio eletto (invece di quello reale) della parte intimata, ne deriva che, se l’art. 43, comma 2, c.p.a. fosse stata la semplice codificazione scritta di questo indirizzo, la sua formulazione sarebbe stata, più plausibilmente, qualcosa del tipo “le notifiche…possono avvenire”: individuando, così, due modalità di notifica alternative ed entrambe percorribili. Al contrario, l’utilizzo della formula “avvengono” “sta ad indicare che la notificazione dei motivi aggiunti non solo è legittimamente eseguibile presso il domicilio eletto della P.A. intimata, ma deve necessariamente aver luogo presso il medesimo” (in questi termini Tar Lombardia, n. 1764/2017).
[xxix] Si veda, in particolare, Cons. Stato, IV, 20 febbraio 2019, n. 1185.
[xxx] Se ne riporta il testo per agevolare la consultazione. Art. 156 c.p.c: “Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge. Può tuttavia essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.
[xxxi] Nel caso di specie, il Consiglio di Stato conclude respingendo l’eccezione di inammissibilità dei motivi ulteriori e aggiunti per le seguenti ragioni: “l’art. 43 del cod. proc. amm. […] va letto nel senso che la modalità ordinaria di instaurazione del contraddittorio con la controparte costituita segue il principio della notificazione presso il procuratore della parte (anche per evidenti ragioni di semplificazione processuale), ma ciò, tuttavia, non osta – in difetto di espressa previsione di legge comminatoria della sanzione della nullità – all’applicazione dei principi generali della sanatoria degli atti processuali e del raggiungimento dello scopo”.
[xxxii] Cfr. Tar Lombardia, Milano, I, 7 gennaio 2020, n. 14.
[xxxiii] In questo senso si veda Cass. civile, II, 29 gennaio 2015, n. 1676 e, ancora, Cass. civile, sez. lav., 21 dicembre 2015, n. 25684.
[xxxiv] In questi termini si veda ancora Cassazione civile, n. 25684/2015, cit.
[xxxv] Cfr. Tar Sicilia, Palermo, I, 8 maggio 2019, n. 1274.
[xxxvi] È il caso della recente pronuncia del Tar Lombardia, Milano, II, 29 novembre 2022, n. 2649, nella quale il giudice, esprimendosi sull’integrità del contradditorio, ha rigettato l’eccezione di inammissibilità dei primi motivi aggiunti per notifica dei medesimi alla parte personalmente anziché al procuratore costituito come invece prescritto dagli articoli 43, comma 2, c.p.a. e 170 c.p.c. Nel caso di specie, la notifica è stata sanata secondo il principio del raggiungimento dello scopo, atteso che il Comune, già costituito, si è difeso nel merito anche sulle doglianze contenute nei medesimi motivi aggiunti: accettando tacitamente il relativo contraddittorio. Per queste ragioni, secondo i Giudici lombardi “non deve nemmeno essere disposta la rinnovazione della notifica ai sensi dell’art. 44 c.p.a., nella versione risultante dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 148/2021”. Sul tema della rinnovazione delle notifiche nulle si rimanda a E. Romani, Il regime della rinnovazione delle notificazioni nulle e il declino del principio di autoresponsabilità processuale (nota a C. Cost., 9 luglio 2021, n. 148), in questa Rivista, n. 1/2022, 119 ss., la quale affronta il problema del declino del principio di autoresponsabilità processuale. “Come testimoniato, infatti, dalla posizione precedentemente assunta dalla stessa Consulta, l’esito del giudizio di costituzionalità non era a rime obbligate: al di là dell’asserita incompatibilità con il processo amministrativo, si sarebbe potuto altresì valorizzare il fatto che la limitazione a cui era soggetta la rinnovazione nel processo amministrativo era ancorata alla inescusabilità dell’errore. A ben guardare, infatti, il sacrificio della compressione del diritto di azione ex art. 24 Cost. non era arbitrario, ma governato dal principio di autoresponsabilità della parte processuale”.
[xxxvii] A questo proposito rileva il tema della doverosità o, al contrario, della facoltatività per l’interessato di utilizzare lo strumento dei motivi aggiunti. Si veda, in particolare, M. D’Orsogna - F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado, cit. spec. 357-358. Secondo gli Aa. attraverso l’inciso “possono introdurre con motivi aggiunti nuove domande” in luogo di “tutti i provvedimenti adottati in pendenza di ricorso… sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti”, consente di qualificare questa particolare forma di impugnazione come una mera facoltà, utilizzabile alternativamente al ricorso ordinario, in luogo di un vero e proprio un onere, la cui violazione comporterebbe l’inammissibilità del ricorso proposto in via autonoma contro gli atti connessi. Come già evidenziato in passato da dottrina e giurisprudenza, la ratio dell’istituto consiste prevalentemente nella realizzazione della concentrazione processuale. Questo obiettivo e oggi ulteriormente rafforzato dal successivo comma 3 dell’art. 43 “il quale non demanda più alla valutazione discrezionale del giudice l’opportunità di riunire ricorsi, optando al contrario per un vero e proprio obbligo di quest’ultimo di trattare congiuntamente le questioni sottoposte al suo sindacato”.
Si precisa, tuttavia, che rappresenta unica eccezione all’esclusione dell’obbligatorietà dei motivi aggiunti il processo in materia di appalti pubblici. Interviene a questo proposito la pronuncia del Cons. Stato, 15 gennaio 2021, n. 610 secondo cui “è inammissibile il ricorso proposto avverso l’aggiudicazione di una gara se era stato proposto separato ricorso avverso l’esclusione dalla procedura selettiva, dovendo l’aggiudicazione essere gravata, ai sensi dell’art. 120, comma 7, c.p.a., con atto di motivi aggiunti”.
Da queste argomentazioni deriva poi un’ulteriore riflessione. L’attuale art. 43 c.p.a. non contiene elementi utili per risolvere l’interrogativo legato alla natura accessoria e alle conseguenze processuali dei motivi aggiunti in caso di inammissibilità del ricorso principale. Secondo M. D’Orsogna - F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado, cit., spec. 358, “appare più persuasiva la tesi che induce ad escludere che ad esso vada attribuita sempre ed in ogni caso natura accessoria e, conseguentemente, che vada dichiarata la improcedibilità del medesimo nell’ipotesi in cui il ricorso originario non sia suscettibile, per una qualche ragione, di essere deciso nel merito. La conformazione attuale dell’istituto induce, invece, a distinguere. L’accessorietà potrebbe, al limite, essere predicata con riguardo all’impugnazione di un atto meramente applicativo di quello originario proposta solo per far valere i vizi di illegittimità derivata da quelli già dedotti nel primo ricorso, ma non anche nell’ipotesi in cui venga in questione è un’impugnazione che, per il tipo di collegamento assunto e per il tipo di vizi dedotti, sia suscettibile di essere proposta anche in forma autonoma”. Ciò premesso, sull’ulteriore tema degli effetti della perenzione sui motivi aggiunti “impropri” si veda l’interessante riflessione di G. Ferrari, Motivi aggiunti e perenzione, in enciclopedia Treccani, 2014 disponibile al seguente link: https://www.treccani.it/enciclopedia/motivi-aggiunti-e-perenzione_(Il-Libro-dell’anno-del-Diritto)/.
[xxxviii] Sul tema si rimanda a noto filone giurisprudenziale, recentemente confermato dalla pronuncia del Tar Calabria, Reggio Calabria, I, 23 marzo 2020, n. 256. “Quanto all’eccezione di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti perché notificato alla sede dell’ente e non al procuratore costituito, secondo una condivisibile esegesi, nel processo amministrativo, ed in particolare nel rito ordinario, a tale irritualità non consegue necessariamente l’inammissibilità dei motivi aggiunti. Considerato che la domanda nuova potrebbe essere proposta anche con ricorso separato, notificato evidentemente alla parte personalmente, e potendo poi il giudice provvedere alla riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 70 c.p.a. (art. 43, co. 3, c.p.a.), risulterebbe illogico dichiarare inammissibile un ricorso che, se proposto in via autonoma, poteva essere riunito e deciso con un’unica sentenza, con un esito, dunque, sostanzialmente analogo a quello che si realizza, in termini di concentrazione processuale, con la proposizione di motivi aggiunti. Ne consegue che il ricorso per motivi aggiunti potrebbe andare indenne dalla sanzione dell’inammissibilità per omessa notifica al procuratore costituito solo laddove […] presenti i requisiti per essere considerato quale autonomo gravame, spettando sempre al giudice la qualificazione dell’azione”.
[xxxix] In particolare si veda Tar Lombardia, Brescia, I, 27 febbraio 2017, n. 274. “La giurisprudenza ha rilevato che i motivi aggiunti, allorché siano rivolti contro provvedimenti diversi da quelli impugnati con il ricorso principale, «possono non essere ritenuti inammissibili, quand’anche notificati al domicilio reale e non al domicilio eletto, a condizione che possiedano tutti i requisiti formali e sostanziali di un autonomo ricorso, e quindi che siano stati proposti sulla base di un nuovo mandato al difensore (cfr. Tar Emilia-Romagna, sez. I di Bologna, 13/10/2014, n. 963; Tar Valle d’Aosta, sez. I, 10 luglio 2013, n. 46) e che presentino una compiuta esposizione delle censure, non bastando una reiterazione delle stesse mediante un generico richiamo al ricorso introduttivo» (Tar Sicilia Catania, sez. III – 9/8/2016 n. 2124 e la giurisprudenza ivi citata)”.
Nello stesso senso si veda anche Tar Calabria, Catanzaro, I, 9 maggio 2012, n. 434. “Una volta radicato il contraddittorio nei confronti dell’Amministrazione e una volta che questa si sia costituita in giudizio a mezzo di difensore, il ricorso per motivi aggiunti segue il procedimento per la proposizione del ricorso principale e, quindi, richiede la notifica presso il difensore stesso nel domicilio eletto, ma, nel caso specifico, poiché il ricorso per motivi aggiunti risulta essere stato proposto avverso un sopravvenuto provvedimento, l’impugnativa può essere considerata alla stregua di un ricorso autonomo, del quale conserva, in ogni caso, i requisiti di sostanza e di forma, essendo stato proposto con atto sottoscritto da difensore munito di nuovo mandato e notificato agli enti locali interessati entro il termine decadenziale. In quest’ultimo caso, dunque, il ricorso per motivi aggiunti, ancorché unito a quello principale, può seguire il procedimento per la proposizione di un autonomo ricorso e quindi può essere notificato in modo irrituale presso la sede legale dell’Amministrazione intimata e non presso il procuratore costituito”.
[xl] Sul tema della certezza del diritto si veda P.L. Portaluri, Per una vicinitas assiologica: cercando di accrescere la tutela processuale dei beni comuni, in Astrid Rassegna, n. 5/2023, spec. 2. Secondo l’A. “la costruzione assiologica dell’ordinamento comporta una conseguenza necessitata, che fa deragliare ancor di più dal sistema a diritto legislativo: la lotta per affermare i valori – quali che essi siano – che ne costituiscono l’ossatura. Il che rischia di imprimere una torsione innaturale al diritto giurisprudenziale, che diviene appunto, a sua volta, un diritto di lotta combattuta con le armi delle norme interpretate” (corsivi originali). In chiave penalistica M. Donini, Il diritto giurisprudenziale penale, in Dir. pen. cont., n. 3/2016, spec. 23, parla di “lotta ermeneutica contro fenomeni che non si ritengono adeguatamente tutelati dalla legge”.
[xli] Sulla diffusa “giurisprudenzializzazione” del diritto contemporaneo e sui problemi ad essa connaturati, si veda G. Pino, La certezza del diritto e lo Stato costituzionale, in Dir. pubbl., 2018, 517 ss., spec. 542 ss. Secondo l’A. vi è “il rischio che il diritto dello Stato costituzionale diventi non solo sempre più giurisprudenziale, ma anche sempre più sapienziale (nel senso di «tecnico», esoterico, iniziatico) […] con evidenti ripercussioni sul valore della certezza del diritto, tanto più quando la pratica dell’interpretazione conforme si spinge fino alla disapplicazione della legge da parte dei giudici comuni”. Sia qui consentito il richiamo anche a M. Luciani, L’eclissi della certezza del diritto, in Libero osservatorio del diritto, 2015: “La tecnica di normazione per princìpi implica un tasso maggiore di incertezza nel riferimento alla Costituzione e suggerisce la distinzione tra attuazione e applicazione della Costituzione”. In chiave almeno teorica, “la prima dovrebbe essere riservata al legislatore, mentre la seconda dovrebbe spettare all’amministrazione e alla giurisdizione, ma in pratica i confini si sono offuscati, per la sempre più frequente pretesa della giurisdizione (costituzionale e non) di attuare i princìpi costituzionali prescindendo dalla previa mediazione legislativa. La giurisdizione, così facendo, si impossessa di spazi che dovrebbero essere riservati alla legislazione, pretendendo di identificare direttamente i tempi e i modi dell’attuazione costituzionale”.
[xlii] È quanto avvenuto nella sentenza del Cons. Stato, V, 30 novembre 2020, n. 7558, nella quale è stata affermata l’operatività del principio della sanatoria della nullità per raggiungimento dello scopo. Nel caso di specie, secondo i Giudici, la società controinteressata nonostante fosse già costituita per resistere al ricorso principale avverso la proposta di aggiudicazione, ha mostrato di conoscere sia l’udienza fissata per la camera di consiglio (anche) sui motivi aggiunti, che il contenuto del ricorso per motivi aggiunti. Questa sarebbe desumibile in ragione della comparsa all’udienza, anche se soltanto al fine di eccepire, con dichiarazione resa a verbale dal difensore, la nullità della notificazione del ricorso per motivi aggiunti.
[xliii] Sul tema del creazionismo giudiziario e della c.d. “crisi della legge” si v. F. Saitta, Regole processuali, indeterminatezza e creazionismo giudiziario, in questa Rivista, n. 2/2024, 261 ss. Secondo l’A. le ragioni della fuga verso un diritto sempre più giurisdizionale sono svariate. Il progressivo indebolimento del potere legislativo che ne deriva, ha reso a tutti evidente che “l’interpretazione – qui intesa in senso ampio, «come attività compiuta dal giudice al fine di risolvere il caso a lui sottoposto», ergocomprensiva «di quelle attività (per esempio colmare le lacune e risolvere le antinomie) che sarebbe preferibile chiamare di integrazione e che presuppongono l’interpretazione intesa come determinazione e attribuzione di significato alle disposizioni normative» – appare un’operazione non equiparabile a quella conosciuta dai giuristi del passato : se il significato della legge non è più «quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» (art. 12, comma 1, delle Preleggi), significa che – come ben diceva un compianto semiologo – si è ormai pervenuti ad una «sovra-interpretazione»”.
Il fenomeno è reso ancora più complesso quando questo nuovo modo di porsi del Giudice finisce per generare mutamenti e adattamenti anche delle norme processuali. Sul tema si vedano: C.E. Gallo, Linee per una riforma non necessaria ma utile del processo amministrativo, in Il processo, 2020, 347 ss.; P.L. Portaluri, Ascendenze del creazionismo giurisprudenziale e ricadute sul processo amministrativo: il controllabile paradigma dell’accesso al giudice, in questa Rivista, n. 2/2021, 232 ss.
[xliv] In questo senso si veda Cons. Stato, VII, 17 novembre 2022, n. 10111. I Giudici di Palazzo Spada sull’eccezione di presunta conoscenza del ricorso, hanno poi specificato che “laddove la notifica sia affetta da nullità, essa può ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo solo allorquando il destinatario abbia compiuto l’atto successivo che nella serie processuale rappresenta la conseguenza necessaria dell’atto viziato”.
Guerra. Una brutta parola. Designa la cosa peggiore che gli esseri umani possono infliggere agli altri esseri umani. Ed a sé stessi. La morte non naturale, la fame, le malattie sono endemiche nella vita degli uomini, ma con la guerra tutto questo è moltiplicato, amplificato.
Liberazione. Una bella parola. È l’oppressione del male che se ne va, il sollievo dell’anima, la gioia della libertà ritrovata.
Dunque la guerra è il male, la liberazione il bene: com’è possibile che possano associarsi?
Eppure nella storia dell’umanità ciò è accaduto molte volte. Quando ai popoli oppressi, da un altro popolo o da una parte dello stesso popolo, non è data un’altra possibilità, allora la guerra di liberazione diviene inevitabile.
È ciò che accadde in Italia negli anni Quaranta del secolo scorso. Prima vent’anni di oppressione fascista, poi la guerra di aggressione di altri popoli, infine un repentino cambiamento delle alleanze, finalmente dalla “parte giusta” della Storia, ma con il nemico, straniero e italiano, in casa. Un nemico feroce, che non se ne voleva andare, che contrastava le armate alleate metro per metro.
Uno Stato dissolto, un esercito sbandato: cosa potevano fare gli italiani?
Tutti hanno subito gli eventi, alcuni hanno continuato a stare con gli oppressori, altri hanno scelto di combatterli, a Sud e a Nord della linea mobile del fronte. Come partigiani, come soldati dell’Esercito cobelligerante, come internati militari. Con le armi e senza.
L’ 8 settembre 1943 è stato il momento della scelta. E da quel momento è iniziata la guerra di liberazione, il riscatto della nazione. È durata quasi 21 mesi. È stata durissima, cattiva anche più di una guerra convenzionale. La guerra è guerra. In guerra non ci sono “buoni” e “cattivi”, ma soltanto chi è dalla parte giusta e chi da quella sbagliata.
I resistenti hanno combattuto per liberare il popolo italiano dallo straniero occupante e dalla dittatura fascista. Non è dubbio che la loro era la parte giusta.
I morti di quella guerra, come tutti i morti, meritano rispetto. Quelli, italiani e stranieri, che per la libertà hanno combattuto e combattendo sono morti meritano onore e affetto. È a loro che dobbiamo la nostra libertà; è anche per loro che abbiamo il dovere di preservarla, così come è splendidamente espressa nella Costituzione repubblicana.
Ottanta anni dopo, in un tempo incerto e pieno di ombre, la memoria dei liberatori è quanto mai – ma ancor più – viva nelle nostre menti e nei nostri cuori.
Immagine: Valentino Petrelli, Milano, 26 aprile 1945 via Wikimedia Commons.
Si veda anche Il 25 aprile e la nostra Costituzione di Paola Filippi, Il 25 Aprile: un valore assoluto di Licia Fierro,Il Significato del 25 aprile di Antonella Dell'orfano.
Di sicuro non era il 25 aprile 1945, doveva essere uno dei giorni immediatamente successivi, quando via via tutto il Nord venne liberato dalla presenza dei tedeschi. Ma ricordo bene che mia madre venne a prendermi a scuola – così come fecero molti altri genitori – per portarmi nella piazza principale di Canelli in Piemonte, dove allora vivevamo. E dove avrebbe parlato il Comandante Rocca, il capo dei nostri partigiani. Nel mio ricordo, fiabesco, è rimasta l’immagine del Comandante Rocca come se fosse non su un palchetto, ma sull’albero principale della piazza e di lì si rivolgesse a tutti noi. Ci disse che la guerra era finita, che avremmo costruito insieme una nuova Italia e pronunciò le parole che negli anni successivi sarebbero diventate la leva più potente verso l’unità europea, “mai più guerre fra noi”.
Fu un discorso breve, ma in ciò che ci disse erano racchiusi i due legati, i due grandi legati, che la Resistenza ci avrebbe lasciato. Il primo è quello di averci evitato il destino che ebbe allora la Germania, fornendoci una classe dirigente per la nuova Italia che gli alleati avrebbero riconosciuto, riconoscendole il diritto di guidare la transizione sino ad organizzare una Assemblea Costituente, che ci avrebbe dato, in piena e sovrana autonomia, la nostra Costituzione (tante volte mi è capitato di farlo notare a chi dice di riconoscersi nella Costituzione, ma di non condividere la Resistenza). Non so se il nostro Rocca ne era consapevole, ma di una tale consapevolezza si trovano comunque le tracce. Basta leggere, ad esempio, la Relazione sulla propria attività della Giunta provvisoria di governo della Repubblica dell’Ossola (la si trova nel libro a cura di Aldo Aniasi, “Ne valeva la pena. Dalla Repubblica dell’Ossola alla Costituzione repubblicana”, Biblion Ed., 2024). In essa si legge che «a opera degli autorevoli testimoni si diffuse in Svizzera e negli altri paesi europei l’opinione che gli italiani, pur lasciati a sé soli, e in condizioni difficilissime, hanno tuttavia la capacità di vivere liberamente, ordinatamente provvedendo all’amministrazione del loro paese. Fu, insomma, una efficacissima propaganda di italianità…che ha contribuito a risollevare il nostro popolo nella considerazione straniera!». Sappiamo che non tutti gli alleati erano d’accordo su ciò che si venne decidendo. È nota la preferenza del Regno Unito, di Winston Churchill, per la continuità monarchica. Ma nessuno volle opporsi alle decisioni sovrane del popolo italiano, guidato allora dai partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, i partiti della Resistenza.
Il secondo legato, che arrivò a farsi sentire in tutta Europa, vissuto e animato da tutti coloro che di quella terribile guerra avevano subito le conseguenze, fu l’impegno a mettere i nostri Stati insieme, non più l’uno contro l’altro. I progetti di unità europea non furono un’invenzione del Secondo dopoguerra. Lo stesso Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941, deve molto alle analisi e alle proposte che Luigi Einaudi aveva già formulato nel 1919. Ma la Prima guerra mondiale, che pure aveva sollecitato Einaudi e altri a progettare l’Europa unita, non riuscì a creare la forza necessaria a rimuovere gli ostacoli che il nazionalismo opponeva alla radice stessa dei progetti europeisti. Tant’è che dopo di essa furono proprio i nazionalismi a prevalere, sino a portare alla Seconda guerra mondiale. Furono le tragedie immani che essa produsse a generare la forza che era mancata in passato. Era ancora il giugno del 1945 quando a S. Francisco si riunirono i “popoli delle Nazioni Unite decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra” e quindi ad “unire le nostre forze per mantenere la pace”. E nacque, appunto, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, con l’ambizione di sottrarre agli Stati membri le decisioni sui conflitti armati, affidandole al suo Consiglio di Sicurezza.
Quella promessa le Nazioni del mondo non l’hanno mantenuta. Ma l’integrazione europea, nata in modo meno immediato e più laborioso di quanto fosse accaduto per l’Onu, la sua promessa l’ha invece mantenuta. Il suo vero atto fondativo è la dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, con la quale la Francia propose di mettere insieme la produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio, facendo sì che “una qualsiasi guerra tra Francia e Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. Nacque su questa base la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, seguita poi dalla Comunità Economica Europea, sino all’attuale Unione. Una costruzione piena di limiti e difetti. Ma radicata e cresciuta quanto basta da avere cancellato la guerra reciproca fra quegli stessi Stati che, in passato, con le loro guerre avevano insanguinato il mondo intero.
C’è chi osserva che non è solo così nobilmente endogena la spinta che ha generato la costruzione europea. La prima assemblea degli europeisti, quella dell’Aja del 1948 non generò nessuna assemblea costituente europea. E per avviare l’integrazione europea ci volle la necessità degli Stati Uniti di schierare l’Europa, Germania compresa, come argine al comunismo nella ormai avviata guerra fredda. È vero, questa è una verità innegabile che ha avuto il suo peso. Certo lo ha avuto nello smuovere la Francia. Che piegò le sue propensioni sovraniste alle ragioni della integrazione solo quando percepì che la Germania era destinata a ritornare sovrana; e a quel punto era meglio che tutte le sovranità europee, compresa quella francese, fossero imbrigliate in una rete europea, per evitare quanto accaduto in passato.
La Dichiarazione Schuman è frutto anche di questo. Ma sarebbe ottusamente cinico non vedere che c’è di più, c’è la forza degli interessi, ma c’è anche la forza dei valori comuni, che via via emergeranno, sino a diventare in primo luogo diritti degli europei, all’inizio affermati dalla Corte di Giustizia europea e poi proclamati in una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; in secondo luogo l’insieme dei principi oggi racchiusi negli artt.2 e 3 del Trattato di Lisbona, che tutti gli Stati membri sono tenuti a rispettare e che sono imposti a qualunque altro stato, che intenda entrare nell’Unione.
Sarebbe ottusamente cinico ignorare tutto questo, non solo perché ha dimostrato di esserci e di avere una sua innegabile forza coesiva. Ma perché si tratta di un patrimonio comune europeo, presente a chi scrisse il Manifesto di Ventotene, a chi, a Camaldoli, scrisse un “codice” che sarebbe diventato la base della nostra Costituzione repubblicana, a chi, in Francia come, a suo modo, anche in Germania, progettò il futuro costituzionale dei due paesi. Era il patrimonio che nutriva i tanti giovani i quali, pur potendo rimanere immersi nelle loro attività, decisero di lasciarle e di imbracciare le armi. Come Giaime Pintor, che mirabilmente lo scrive nella sua famosa ultima lettera al fratello: «Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Vent’anni fa la confusione dominante poteva far prendere sul serio l’impresa di Fiume. Oggi sono riaperte agli italiani le stesse possibilità del Risorgimento. Quanto a me… non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e la accolgo”.
Questa, dunque, fu la Resistenza e questa la Liberazione che ci dette. Tenerne vivo il legato, nelle condizioni difficili di oggi, è una missione che rimane.
Foto scattata da Livio Bobbio il 23 aprile 1945 a Canelli, sul terrazzo che si affaccia sul cortile delle ex scuole G.B. Giuliani (Archivio Giamelli-Bobbio). L'immagine di copertina che ritrae Giuliano Amato nel 2022 è di Wikimedia Commons.
Si veda anche Il 25 aprile e la nostra Costituzione di Paola Filippi, Il 25 Aprile: un valore assoluto di Licia Fierro,Il Significato del 25 aprile di Antonella Dell'orfano.
Papa Francesco ci ha lasciato un patrimonio inestimabile di sollecitazioni da porre come obiettivi di condotta.
In questa fase storica in cui tutto sembra rotolare come su un piano sempre più inclinato verso la negazione dell’inclusione, la sopraffazione del forte sul debole, la costruzione di muri e la distruzione dei ponti, ove la verità è improvvisamente scalzata dalla menzogna, in una terra rassegnata all’autodistruzione per il disinteresse verso il climate change, gli insegnamenti di Papa Francesco son da porsi come una rete di contenimento preziosa, un’ancora capace di invertire il piano inclinato, se solo riuscissimo a percepirne tutti, credenti e non credenti, l’enorme portata laica di cura per questa nostra umanità in declino.
Il primo richiamo a non rassegnarsi è quello che il Papa ha rivolto ai giovani, ma vale per tutti, quale incitazione a non arrendersi a un mondo che risuona del mantra dell’esclusione, del disprezzo della diversità, dei sovranismi, di guerre e sopraffazioni che trasudano di ingiustizia: “Per favore, non perdere la capacità di sognare: quando un giovane perde questa capacità, non dico che diventa vecchio, no, perché i vecchi sognano. Diventa un ‘pensionato della vita’. È molto brutto. Per favore, giovani, non siate ‘pensionati della vita’, e non lasciatevi rubare la speranza! Mai! La speranza non delude mai!”¹
La via da seguire, ci ha insegnato il Papa, è quella della partecipazione attiva alle istituzioni.
La “partecipazione attiva”, ha scritto va perseguita nel dialogo con le istituzioni, “facendo rete" - "ma anche facendo chiasso. È molto importante" - tra le diverse realtà ispirate alla “solidarietà” e “all’inclusione”. “In questo compito vi invito ad essere voce di tutti, specialmente di chi non ha voce. E oggi c’è tanta gente che non ha voce, tanti esclusi, non solo socialmente, per i problemi di povertà, mancanza di educazione, dittatura della droga… ma anche di coloro che non sanno sognare. Fate “rete” per sognare, e non perdere questa capacità. Sognare.”²
Il tema della partecipazione è strettamente collegato a quello della responsabilità: nessuno è solo su questa terra, nessuno è responsabile solo per sé; tutti siamo responsabili della mancata contribuzione a impedire le ingiustizie, le sopraffazioni e le esclusioni, ognuno nel proprio ruolo e ambito. Francesco ha detto: “Ciascuno di noi deve sentirsi in qualche modo responsabile della devastazione a cui è sottoposta la nostra casa comune, a partire da quelle azioni che, anche solo indirettamente, alimentano i conflitti che stanno flagellando l’umanità. Si fomentano e si intrecciano, così, sfide sistemiche, distinte ma interconnesse, che affliggono il nostro pianeta. Mi riferisco, in particolare, alle disparità di ogni sorta, al trattamento disumano riservato alle persone migranti, al degrado ambientale, alla confusione colpevolmente generata dalla disinformazione, al rigetto di ogni tipo di dialogo, ai cospicui finanziamenti dell’industria militare. Sono tutti fattori di una concreta minaccia per l’esistenza dell’intera umanità.”³
Solo la partecipazione di tutti, con il richiamato senso di responsabilità, può condurre a quella che Papa Francesco ha definito la sana politica, la politica che restituisce speranza per l’avvenire. “La società mondiale ha gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può “aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo”.⁴
La politica sana non esercita il potere come dominio. L’esempio che ha fatto il Papa quanto al potere come dominio, tratto dalla Bibbia, è quello di re Acab: “Il sovrano vuole allargare il suo giardino appropriandosi della vigna di Nabot che non vuole vendere la sua proprietà; Nabot verrà allora ucciso e Acab otterrà ciò che voleva.”⁵
La politica sana amministra per la cura dell’interesse del popolo, l’esempio della Bibbia citato dal Papa è quello di Giuseppe, figlio di Giacobbe, che “venduto come schiavo dai fratelli” viene portato poi in Egitto e, dopo varie vicende, entra al servizio del faraone che gli affida incarichi amministrativi. Francesco fa notare che “Giuseppe, che ha sofferto l’ingiustizia personalmente, non cerca il proprio interesse ma quello del popolo” e “si fa artigiano di pace”, tessendo “rapporti capaci di innovare la società”.⁶
Partecipazione, nella definizione di Papa Francesco, “significa guardare all’avvenire e investire sulle generazioni future; avviare processi piuttosto che occupare spazi”. “La vostra preoccupazione non sia il consenso elettorale né il successo personale, ma coinvolgere le persone, generare imprenditorialità - imprenditorialità, generare quello -, far fiorire sogni, far sentire la bellezza di appartenere a una comunità. La partecipazione è il balsamo sulle ferite della democrazia. Vi invito a dare il vostro contributo, a partecipare e a invitare i vostri coetanei a farlo, farlo sempre con il fine e lo stile del servizio. Il politico è un servitore”.
In quest’epoca di esclusione, di caccia agli immigranti e di torturatori impuniti, Papa Francesco ha ricordato l’importanza dell’inclusione descrivendola in maniera plastica e significativa nel gesto dello spalancare le braccia per accogliere.
"L’inclusione si manifesta nello spalancare le braccia per accogliere senza escludere; senza classificare in base alle condizioni sociali, alla lingua, alla razza, alla cultura, alla religione. Davanti a noi c'è solo una persona da amare come la ama Dio». (Messaggio del Papa per la 110° giornata del migrante e del rifugiato). Con riferimento agli immigranti il papa ci ha ricordato con semplicità e verità che la terra non è nostra e ciò impedisce in radice di escludere chi attraversa il mare per una vita migliore se non addirittura per sopravvivere. La preghiera è rivolta a Dio “Non permettere che diventiamo padroni di quella porzione del mondo che ci hai donato come dimora temporanea.”⁷
Con riferimento allo spostamento della popolazione che caratterizza i nostri anni utilizza un immagine significativa che ci unisci credenti e non credenti la frase è “ tutti noi siamo migranti in cammino su questa terra” ⁸ . Il richiamo insito in tale frase è che le ragioni che inducono le donne e gli uomini a lasciare le loro case vanno indagate, che i viaggi che intraprendono sono di disperazione e speranza che solo per la nostra casuale nascita in un luogo piuttosto che in un altro sono loro e non noi i viaggiatori disperati respinti in frontiera. L’imperativo categorico dell’inclusione presuppone chiarezza sul concetto di uguaglianza e richiede una responsabile e consapevole presa di coscienza sul fatto che viviamo in un mondo in cui ci sono nuovi schiavi che aumentano giorno dopo giorno. A questo proposito papa Francesco ci ha ricordato come “Per la società antica era vitale la distinzione tra schiavi e cittadini liberi. Questi godevano per legge di tutti i diritti, mentre agli schiavi non era riconosciuta nemmeno la dignità umana. Questo, anche succede oggi: tanta gente nel mondo, tanta, milioni, che non hanno diritto a mangiare, non hanno diritto all’educazione, non hanno diritto al lavoro: sono i nuovi schiavi, sono coloro che sono alle periferie, che sono sfruttati da tutti. Anche oggi c’è la schiavitù: pensiamo un poco a questo. Noi neghiamo a questa gente la dignità umana".⁹ L’inclusività richiede dunque il riconoscimento dell’altro come soggetto avente in nostri medesimi diritti con pretesa del medesimo rispetto, fonda come ci ha ricordato il Papa sulla sorellanza e sulla fratellanza Il rispetto e la cura dell’altro come ci ha ricordato il Papa stabilisce “una nuova cittadinanza, una nuova antropologia, quella dal cuore aperto al mondo intero. Non è più l’appartenenza a uno Stato, a una Nazione, a un’etnia o a una religione a costituire elemento di merito a pro di una cittadinanza, ma soltanto la sollecitudine di una cura, in nome del diritto di ciascuno alla dignità, del diritto a essere riconosciuto fratello. La fraternità e la sorellanza che preserva libertà e uguaglianza da individualismo e populismo trova, dunque, attuazione in un popolo, che sia modello di una nuova economia, solidale e fraterna, e, di conseguenza, modello di una nuova politica, schierata a favore della dignità di ogni persona, cioè favorevole a una governance aperta a tutti e orientata dal principio dell’opzione per i poveri. “La riuscita di una cultura dell’incontro che privilegi il dialogo come metodo, la ricerca condivisa di consensi, di accordi, di ciò che unisce invece di ciò che divide e contrappone, è un cammino che dobbiamo percorrere. Per questo dobbiamo privilegiare il tempo rispetto allo spazio, il tutto, rispetto alla parte, la realtà rispetto all’idea astratta e l’unità rispetto al conflitto" (Noi come cittadini noi come popolo, 2013).
La fraternità e la sorellanza che preservano libertà e uguaglianza da individualismo e populismo trovano attuazione in un popolo solidale: “La riuscita di una cultura dell’incontro [...] è un cammino che dobbiamo percorrere.”¹⁰
Partecipazione, inclusione e fratellanza che devono necessariamente articolarsi nel rispetto della giustizia intesa come regolazione dei rapporti “Senza giustizia non c’è pace. Infatti, se la giustizia non viene rispettata, si generano conflitti. Senza giustizia, si sancisce la legge della prevaricazione del forte sui deboli”, nonché giustizia intesa “come virtù che non riguarda solo le aule dei tribunali, ma anche l’etica che contraddistingue la nostra vita quotidiana. Stabilisce con gli altri rapporti sinceri: realizza il precetto del Vangelo, secondo cui il parlare cristiano dev’essere: «“Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5,37). Le mezze verità, i discorsi sottili che vogliono raggirare il prossimo, le reticenze che occultano i reali propositi, non sono atteggiamenti consoni alla giustizia. L’uomo giusto è retto, semplice e schietto, non indossa maschere, si presenta per quello che è, ha un parlare vero. Sulle sue labbra si trova spesso la parola “grazie”: sa che, per quanto ci sforziamo di essere generosi, restiamo sempre debitori nei confronti del prossimo. Se amiamo, è anche perché siamo stati prima amati”.
“L’uomo giusto vigila sul proprio comportamento, perché non sia lesivo nei riguardi degli altri: se sbaglia, si scusa. L’uomo giusto si scusa sempre. In qualche situazione arriva a sacrificare un bene personale per metterlo a disposizione della comunità. Desidera una società ordinata, dove siano le persone a dare lustro alle cariche, e non le cariche a dare lustro alle persone. Aborrisce le raccomandazioni e non commercia favori. Ama la responsabilità ed è esemplare nel vivere e promuovere la legalità. Essa, infatti, è la via della giustizia, l’antidoto alla corruzione: quanto è importante educare le persone, in particolare i giovani, alla cultura della legalità! È la via per prevenire il cancro della corruzione e per debellare la criminalità, togliendole il terreno sotto i piedi".
Ancora, il giusto rifugge comportamenti nocivi come la calunnia, la falsa testimonianza, la frode, l’usura, il dileggio, la disonestà. Il giusto mantiene la parola data, restituisce quanto ha preso in prestito, riconosce il corretto salario a tutti gli operai – un uomo che non riconosce il giusto salario agli operai, non è giusto, è ingiusto – si guarda bene dal pronunciare giudizi temerari nei confronti del prossimo, difende la fama e il buon nome altrui” (Udienza generale Mercoledì, 3 aprile 2024).
Papa Francesco non si è sottratto dall'affrontare la questione epocale del climate change con riferimento alla quale si assiste al disinteressamento e negazionismo, tanto più grave quest’ultimo in quanto operato da chi molto potrebbe fare.
A riguardo il Papa ha scritto “Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti”. Il Papa l’ha chiamata “una malattia silenziosa” che trova le sue radici in un modello di sviluppo insostenibile. Di fronte alla crisi climatica “non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. L’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti” ¹¹ (“Laudate Deum” diffusa il 4 ottobre 2023)
L’esempio dei suoi giorni di vita la sua presenza tra i fedeli, nonostante la malattia la sua strenua volontà di offrire sé stesso fino all’ultimo respiro per invocare la pace per la martoriata Ucraina e per la strage dei palestinesi “cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!» è stata la sua ultima invocazione, insieme a quella in favore dei migranti con la quale ha stigmatizzato il disprezzo del quale la nostra società li fa oggetto.
Rimarrà impresso nella nostra memoria l'aggettivo ignobile utilizzato nella benedizione Ubi et Orbi per qualificare la drammatica situazione umanitaria di Gaza, una pulizia etnica senza precedenti della quale l’occidente è incapace di farsi carico.
¹ Francesco. (2023, 16 novembre). Discorso ai membri del Consiglio Nazionale dei Giovani d’Italia. Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana.
² Francesco. (2021, 11 novembre). Discorso alla Rete Nazionale del Servizio Civile.
³ Francesco. (2023, 8 dicembre). Messaggio per la 57ª Giornata Mondiale della Pace 2024.
⁴ Francesco. (2015). Laudato Si’, n. 191.
⁵ Francesco. (2019, 16 settembre). Omelia, riflessione su 1 Re 21.
⁶ Francesco. (2019, 1 gennaio). Messaggio per la 52ª Giornata Mondiale della Pace.
⁷ Francesco. (2024). Messaggio per la 110ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato.
⁸ Francesco. (2022, 29 settembre). Discorso alla Pastorale per i Migranti.
⁹ Francesco. (2020, 16 dicembre). Udienza generale: Catechesi sul Magnificat.
¹⁰ Francesco. (2020). Fratelli Tutti, n. 217.
¹¹ Francesco. (2023, 4 ottobre). Laudate Deum.
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