ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giacomo Matteotti, un faro per lo stato di diritto. Scritti nei cento anni dal suo omicidio per ordine di Benito Mussolini, è il titolo del Primo Fascicolo del 2025 di Giustizia Insieme, a disposizione delle lettrici e dei lettori. La cura è di Riccardo Ionta, con contributi di Giovanni Canzio, Floriana Colao, Costantino De Robbio, Licia Fierro, Enrico Manzon, Margherita Occhilupo, Simone Pitto, Giuliano Scarselli e Francesco Tundo. Con questa pubblicazione la nostra Rivista continua a promuovere lo studio del pensiero e degli scritti di Giacomo Matteotti, a ricordare la sua figura essenziale nella storia del Novecento europeo, e il suo sacrificio.
Introduzione di Enrico Manzon
Nell’anno del centenario dal brutale assassinio, Giustizia Insieme ha aperto i suoi spazi telematici al ricordo di Giacomo Matteotti. È stato triste, ma doveroso. È stato facile: Matteotti era una grande persona, che con il suo sacrificio ha segnato il ‘900 italiano e non solo. La sua è una testimonianza indelebile di quanto valga la libertà. Allora, oggi, sempre.
È un ricordo particolarmente significativo in un tempo, quale quello in cui viviamo, nel quale fosche nubi si addensano sulla Costituzione repubblicana. Un patto di convivenza che è costato molte altre vite dopo quella di Giacomo Matteotti e siglato tra costituenti che, in vario modo, avevano condiviso la lotta per liberare l’Italia dall’oppressione nazifascista ossia da quel
male contro il quale si era battuto, a costo della vita, Matteotti medesimo.
Partendo dal suo martirio, i contributi degli Autori generosamente impegnatisi in questa iniziativa editoriale – che ancora
ringraziamo – ne hanno messo in evidenza il contesto, i presupposti diretti, le conseguenze politiche e giudiziarie. Peraltro, oltre la memoria dell’evento, si è cercato di fare luce sul grande spessore dell’intellettuale e del giurista, nella sua poliedricità, indagando anche gli aspetti meno noti. Ne è uscito un ritratto a tutto tondo, una narrazione non ritualmente encomiastica, ma viva, espressione di una profonda riconoscenza ed allo stesso tempo di un apprezzamento altrettanto intenso per il valore politico di Giacomo Matteotti. Un valore difficilmente riscontrabile nei tempi moderni, se non del tutto scomparso.
Questa pubblicazione riassuntiva è dunque anzitutto un ulteriore, sentito, tributo alla persona tragicamente scomparsa 101 anni fa. Ma è anche uno strumento di analisi del presente che, come detto, proietta ombre cupe sul futuro della Nazione. Quasi un vichiano ricorso storico, declinato nella “modernità”.
Si è detto che la Storia è una maestra che ha pochi e disattenti allievi. La strada sulla quale si vuole incamminare il Paese non pare più essere quella di Bruxelles – quella della democrazia, dei diritti, delle libertà – ma quella di Budapest ossia della compressione di tutto quello che è l’essenza dello Stato costituzionale di diritto, quale fondato dopo il Secondo conflitto mondiale. È verso est che le riforme costituzionali in itinere porteranno, qualora malauguratamente dovessero essere approvate e referendariamente confermate. Ma questo non è ancora detto, non è ancora fatto. Le coscienze autenticamente democratiche devono mantenersi sveglie e vigili. Non devono dimenticare quanto sangue, quanta fatica, sono costati il nostro equilibrio costituzionale e la costruzione europea. In questo senso, l’esempio di Giacomo Matteotti è un faro sempre acceso, che Giustizia Insieme, anche con questa pubblicazione, vuole preservare e ravvivare.
Sommario: 1. AI Act e settore amministrativo: molti interrogativi, poche risposte – 2. Frammenti di disciplina, vuoti di regolazione ed il pericolo di un tracollo delle garanzie: il caso della riserva di umanità e della trasparenza algoritmica – 3. Il problema dell’ammissibilità di un intervento regolatorio nazionale in tema di automazione decisionale amministrativa a mezzo di intelligenza artificiale – 4. Un (possibile) tracciato per aprire la via “italiana” per l’intelligenza artificiale nel procedimento amministrativo.
1. AI Act e settore amministrativo: molti interrogativi, poche risposte
Nel giugno scorso si è finalmente giunti all’approvazione del Regolamento Europeo sull’intelligenza artificiale[1].
La comunità dei giuristi ha atteso con trepidazione un momento che è stato vissuto come un traguardo storico che ha posto l’Unione europea all’avanguardia mondiale[2].
Ciò è valso anche per gli amministrativisti[3] travolti, ormai da più di un lustro[4], da una nouvelle vague di studi sul tema.
Le speranze di trovare nel legislatore europeo le risposte ai tanti interrogativi che si agitano attorno al tema sono state, tuttavia, largamente disattese. Tanto che forse, oggi, ci troviamo dinanzi ad un framework regolatorio complessivamente più incerto rispetto a quello sinora offerto dalla giurisprudenza e dalla normativa speciale[5].
Non si può, infatti, mettere seriamente in dubbio che l’AI Act si rivolga (anche) alle pubbliche amministrazioni. In questo senso è schierata la quasi totalità dei primi commentatori[6]. Questi fanno condivisibilmente leva, in particolare, sulle nozioni di “fornitore” e “deployer” ex art. 3, par. nr. 3) e 4) che menzionano espressamente anche l’“autorità pubblica”[7].
Ma, se la platea soggettiva del Regolamento ricomprende certamente, seppur in una veste specifica, gli operatori pubblici, appare chiaro che la sua disciplina non è stata concepita né elaborata tenendo a mente le peculiarità del settore amministrativo[8].
Ciò discende, a ben vedere, dalla criticità che affligge, al fondo, la scelta regolatoria unionale: coltivare l’ambizione di disciplinare in maniera “orizzontale” il fenomeno e farlo, tuttavia, con lo strumento del regolamento.
E, infatti, è quasi superfluo osservare che l’intelligenza artificiale, come tecnologia di base dal potenzialmente sterminato campo di applicazione costituisce un oggetto sfuggevole che può essere imbrigliato solo a mezzo di una normazione minima per principi che deve necessariamente trascendere i tratti distintivi dei diversi settori ordinamentali[9].
Ne è, così, uscita fuori, almeno nella specifica prospettiva dell’amministrativista, una disciplina che soffre di evidenti vuoti di regolazione.
Il che emerge con chiarezza se ci si sofferma sulle concrete ricadute della stessa meditando su cosa accadrebbe ove, all’indomani dell’entrata in vigore del Regolamento[10], ci si trovasse ad applicare quest’ultimo, in ragione dell’efficacia diretta di molte delle sue disposizioni, alla vita dell’amministrazione.
2. Frammenti di disciplina, vuoti di regolazione ed il pericolo di un tracollo delle garanzie: il caso della riserva di umanità e della trasparenza algoritmica
Per saggiare l’impatto che la nuda disciplina del Regolamento avrebbe nel settore amministrativo, prima di approfondire due aspetti puntuali, giova rammentare succintamente quali sono i suoi capisaldi.
Lo scheletro dell’AI Act poggia, in particolare, sulla categorizzazione dei sistemi di intelligenza artificiale che segue un risk based approach[11] e che ha lo scopo di tracciarne il diverso regime giuridico.
Questi, fatte salve alcune categorie peculiari[12], sono suddivisi in quattro tipologie: i sistemi “vietati” ex art. 5 del Regolamento; i sistemi “ad alto rischio” ex art. 6 del Regolamento; i sistemi ex art. 50 “a rischio limitato” rispetto alle esigenze di trasparenza; tutti gli altri sistemi considerati “a rischio minimo”[13].
Le prime due sono costruite secondo una logica di stretta tassatività e trovano una disciplina specifica. la terza opera de residuo rispetto alla precedenza e non trova, ad opera del Regolamento, un regime giuridico ad hoc.
Nella prospettiva che qui interessa, l’art. 6 del Regolamento rappresenta il vero perno di questa categorizzazione perché individua, in un certo senso, il suo cuore precettivo[14].
La disposizione in parola individua i sistemi di intelligenza artificiale “ad alto rischio” a mezzo del rinvio esterno all’Allegato III[15]. Quest’ultimo, a sua volta, reca un’elencazione, dal tenore certamente tassativo, di sistemi di IA che “sono considerati ad alto rischio”[16].
Ebbene, non può sfuggire, come pure notato da taluno in dottrina, che in detta elencazione un po’ farraginosa rientrano certamente alcuni campi propri dell’azione amministrativa[17]. Ne è un esempio, tra gli altri, l’all. III par. 5 lett. a) il quale contempla “sistemi di IA destinati a essere utilizzati dalle autorità pubbliche o per conto di autorità pubbliche per valutare l'ammissibilità delle persone fisiche alle prestazioni e ai servizi di assistenza pubblica essenziali, compresi i servizi di assistenza sanitaria, nonché per concedere, ridurre, revocare o recuperare tali prestazioni e servizi”[18].
Manca, per contro, una previsione di portata generale che consideri “ad alto rischio” ogni sistema di intelligenza artificiale impiegato a supporto dello svolgimento di funzioni pubblici e nell’esercizio di poteri autoritativi. Ciò emerge con nettezza se si opera un raffronto con il settore “giustizia” in relazione al quale è rintracciabile, invece, una disposizione di tale tenore[19]. Inoltre, non può obliterarsi, nel corso del travagliato iter che ha condotto all’adozione dell’AI Act, è stato pure proposto (ma non approvato) un emendamento con il quale inserire, su modello di quanto previsto per l’attività giudiziaria, anche i sistemi di IA serventi l’attività amministrativa tra quelli ad alto rischio[20].
L’intenzione del legislatore europeo recepita nella versione finale del Regolamento pare, dunque, sia stata quella di non qualificare, in generale, l’impiego dell’IA a sostegno dell’azione amministrativa come “ad alto rischio” salvo che per quei specifici casi tassativamente indicati all’allegato III (tra cui, ad esempio, il sopra citato all. III par. 5 lett. a)[21].
Facilmente intuibili sono le non trascurabili conseguenze di questa scelta.
Il primo e più evidente riflesso è dato dalla frammentazione del regime giuridico[22]. Infatti, solo per i sistemi di IA impiegati nello svolgimento delle funzioni amministrative che siano espressamente inquadrabili tra quelli “ad alto rischio” troverà applicazione la disciplina prevista all’uopo dal Regolamento.
Ciò si traduce, all’evidenza, in mancanza di una qualificazione in termini generali, in un’elevata incertezza applicativa che potrebbe, specie in un primo momento, frenare il ricorso allo strumento dell’intelligenza artificiale. E, infatti, occorrerà di volta in volta chiedersi se un dato impiego dell’IA nel settore pubblico ricada in una delle fattispecie, talvolta, sfumate, dell’allegato III[23].
E, se si pone mente alla circostanza che buona parte delle disposizioni che compongono lo statuto dei sistemi “ad alto rischio” risulta dotato di efficacia diretta, è facile immaginare che queste incognite applicative possano alimentare anche il contenzioso attorno all’attività amministrativa automatizzata.
Ma la ripercussione più delicata della scelta regolatoria del legislatore europeo attiene al livello di guarentigie che l’AI Act finirebbe con l’accordare. Seguendo la logica al fondo della quadripartizione su cui si fonda il Regolamento, i sistemi di IA impiegati nello svolgimento delle funzioni amministrative che non siano qualificabili come “vietati” ex art. 5 né “ad alto rischio” ex art. 6 sono destinati a rientrare nella categoria di quelli “a rischio limitato” ovvero, de residuo, in quella dei sistemi “a rischio minimo” per cui non è opera una disciplina ad hoc, salva la possibilità di un’estensione su base volontaria del regime legale dei sistemi “ad alto rischio” attraverso lo strumento dei codici di condotta di cui all’art. 95, par. 1, del Regolamento[24]. Il che importa l’inoperatività della safeguards previste dal Regolamento.
Eppure, non v’è dubbio che vi siano moltissime possibili applicazioni dell’IA nel settore pubblico non rientranti nell’elencazione di cui all’allegato III ma destinate ad incidere ugualmente in maniera significativa su diritti e libertà fondamentali dell’individuo[25].
Queste, nonostante la loro delicatezza, soffrirebbero così il depotenziamento (o forse più propriamente l’azzeramento) delle garanzie già costruite a livello nazionale dapprima da dottrina e giurisprudenza e poi recepite nella normativa speciale dal legislatore[26].
Sono due i profili più eclatanti.
La garanzia della “supervisione umana” ex art. 14 del Regolamento[27] opererebbe solo per gli impieghi da parte della pubblica amministrazione – che costituiscono invero una netta minoranza - inquadrabili tra quelli dell’allegato III. Fuori di tale limitato campo non opererebbe, pertanto, il principio di non esclusività algoritmica[28] e sarebbe tradita la “riserva di umanità”[29].
Non opererebbero neppure, e questo è l’altro aspetto critico, le garanzie in materia di trasparenza algoritmica poste dall’art. 13[30] ma, al più, solo quelle (assai più lasche ed eventuali, per i soli sistemi “a rischio limitato”) di cui all’art. 50 in tema di “Obblighi di trasparenza per i fornitori e i deployers di determinati sistemi di IA”.
È chiaro che una simile ricostruzione, specie ove non si dovesse lasciare spazio di correzione al legislatore nazionale, innescherebbe profonde tensioni anche con principi supremi di rango costituzionale. Ciò vale sia con riguardo alla “riserva di umanità”, che gode di copertura costituzionale agli artt. 2, 54, 97 e 98 Cost. e sovranazionale all’art. 1 della Carta di Nizza[31], che alla trasparenza algoritmica[32].
Uno scenario, questo, che potrebbe addirittura condurre all’attivazione dei contro-limiti[33] ovvero spingere la giurisprudenza interna a battere, rispetto al Regolamento, la strada del rinvio pregiudiziale di validità dinanzi alla Corte di giustizia facendo leva, come parametro di diritto unionale primario, sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sulla[34].
3. Il problema dell’ammissibilità di un intervento regolatorio nazionale in tema di automazione decisionale amministrativa a mezzo di intelligenza artificiale
Il rischio di un generalizzato abbattimento delle garanzie rende massimamente opportuno (e forse addirittura impone) un intervento regolatorio nazionale a corredo dell’AI Act.
Queste considerazioni non esonerano certo il giurista dall’interrogarsi se siffatto intervento regolatorio sia, però, anche ammissibile nel quadro dei rapporti tra diritto nazionale e diritto unionale. Trattasi, invero, di questione che involge anzitutto la struttura del sistema delle fonti di un ordinamento che, anche nel campo amministrativo, è oramai multilivello.
L’esistenza o meno di un margine regolatorio in favore del nostro legislatore interno è, peraltro, tema, come segnalato dalla dottrina più attenta[35], di stringente attualità.
E ciò non solo per la prossima entrata in vigore della parte del Regolamento che si occupa dei sistemi di IA “ad alto rischio” ma perché, nel maggio 2024, in concomitanza con l’organizzazione del G7 a presidenza italiana, è stato presentato un disegno di legge di iniziativa governativa avente ad oggetto “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”[36]. In esso campeggia, peraltro, all’art.13, una disciplina relativa all’“Uso dell'intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione” che recepisce l’idea dell’esistenza di una riserva di umanità a portata generale nell’ambito delle funzioni amministrative automatizzate e che ribadisce la centralità delle garanzie in tema di trasparenza algoritmica[37].
Il pericolo di una sovrapposizione con l’AI Act (nel frattempo adottato) è stato, invero, avvertito sin da subito dal legislatore nazionale il quale, non solo ha escluso espressamente tela evenienza in sede di analisi tecnico normativa ma ha anche inserito un riserva espressa di prevalenza del diritto unionale[38].
A ciò ha fatto seguito, nell’ottica della leale cooperazione, l’apertura di un carteggio con la Commissione su alcuni profili del disegno di legge.
Gli esiti del confronto sono ancora provvisori e riservati ma non condurranno, con ogni probabilità, a risposte nette specie con riguardo, per quanto qui più interessa, l’aspetto dell’uso dell’intelligenza artificiale da parte della pubblica amministrazione in quanto quest’ultimo non sembra aver formato direttamente oggetto dell’interlocuzione.
In un quadro in evidente evoluzione non sembra, tuttavia, possa tacersi l’esistenza di una serie di dati che potrebbero spingere ad escludere l’ammissibilità di un intervento regolatorio nazionale in tema di automazione decisionale amministrativa a mezzo di intelligenza artificiale.
In primo luogo, è quasi superfluo rammentare che il legislatore europeo ha optato per l’utilizzo di un regolamento adottato attraverso una procedura di tipo legislativo.
Ci si confronta, pertanto, con una fonte di diritto derivato del diritto dell’Unione Europea che presenta le note caratteristiche di cui all’art. 288 T.F.U.E..
Il Regolamento è, in particolare, atto a portata generale, vincolante in tutti i suoi elementi e, soprattutto “direttamente applicabile” negli Stati membri.
La sua diretta applicabilità importa che esso non necessita, almeno di regola, di attuazione a livello nazionale[39].
Deve, tuttavia, aggiungersi che la base giuridica specifica per l’adozione dell’AI Act è stata rappresentata dall’art. 114 T.F.U.E. inserito nel Capo 3 del Titolo VII della Parte Terza del Trattato, il quale disciplina gli strumenti di “Ravvicinamento delle legislazioni” volti alla realizzazione degli obiettivi di cui all’art. 26 (cioè “l'instaurazione” e il “funzionamento del mercato interno”)[40].
Pur se in questa specifica ottica sembra, come detto, che il Regolamento sia nato con l’ambizione di offrire una regolazione di portata generale ed orizzontale del fenomeno dell’intelligenza artificiale[41]. Ciò è desumibile, in particolare, oltre che dai Considerando[42], dalle disposizioni relative al suo campo oggettivo di applicazione e, segnatamente, dall’art. 2, par. 3, secondo periodo, del regolamento che esclude dallo stesso il solo settore militare[43].
È lo stesso Regolamento, peraltro, a disciplinare, in taluni casi, i rapporti con il legislatore nazionale. Vi sono, infatti, sparse per l’AI Act disposizioni puntuali che consentono ovvero autorizzano l’intervento nazionale anche in deroga alla disciplina regolamentare. Ne è un esempio l’art. 5, par. 5 in tema di l’uso di sistemi di identificazione biometrica remota “in tempo reale”[44]. Valorizzando siffatte disposizioni si potrebbe, quindi, sostenere, seppur in maniera formalistica, che ubi lex voluit dixit ubi non voluit tacuit con la conseguenza di escludere ogni margine di regolazione nazionale fuori dei casi espressamente individuati dalla fonte unionale.
Infine, nell’ammettere la possibilità di intervento del legislatore dello Stato membro ci si deve confrontare con il concreto rischio di sovra-regolamentazione della materia anche nelle forme del cd. “gold plating”. Un fenomeno, questo, da scongiurare perché reca con sé incertezze applicative e mette in pericolo la stessa primazia del diritto dell’Unione[45].
4. Un (possibile) tracciato per aprire la via “italiana” per l’intelligenza artificiale nel procedimento amministrativo
Nonostante i possibili indizi di segno contrario indicati al paragrafo precedente, sembrano nettamente prevalere gli elementi che depongono nel senso dell’ammissibilità di un intervento del legislatore nazionale in subiecta materia.
Anzitutto, non può trascurarsi che, come già evidenziato, la base giuridica di adozione dell’AI Act è rappresentata dall’art. 114 T.F.U.E. e che, quindi, in disparte dal tipo di strumento normativo prescelto, la prospettiva resta pur sempre quella di “ravvicinamento” (e non di una radicale uniformazione) delle discipline nazionali[46].
Peraltro, come pure accennato, lo scopo del Regolamento, reso esplicito anche dal suo art. 1, par. 1, è “migliorare il funzionamento del mercato interno e promuovere la diffusione di un'intelligenza artificiale (IA) antropocentrica e affidabile, garantendo nel contempo un livello elevato di protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, compresi la democrazia, lo Stato di diritto e la protezione dell'ambiente, contro gli effetti nocivi dei sistemi di IA nell'Unione, e promuovendo l'innovazione”[47].
Se ne può trarre che l’IA è vista dal legislatore europeo essenzialmente come res[48] e, specificatamente, come prodotto del mercato in particolare nell’ottica di assicurare la libera circolazione[49]. In tale ottica, statica e non dinamica, è posta la disciplina unionale che guarda quale oggetto della sua regolazione lo strumento[50] e non anche, salvo alcuni specifiche applicazioni più delicate[51], l’uso dello stesso. È chiaro come il confine tra questi due piani non sia sempre netto e che, talvolta, disciplinare lo strumento in sé equivale anche a regolarne in qualche misura anche l’uso[52]. Ne è riprova la circostanza che l’art. 1, par. 2 del Regolamento si propone di stabilire, tra l’altro, con un approccio che sembrerebbe onnicomprensivo, “regole armonizzate per l'immissione sul mercato, la messa in servizio e l'uso dei sistemi di IA nell'Unione”.
Ma per quanto qui più interessa, sembra si debba necessariamente prendere atto che, come pure osservato in dottrina, la disciplina posta dall’AI Act, specie con riguardo al piano dei possibili usi dello strumento, non è esaustiva[53] ma necessita di attuazione dando vita ad una armonizzazione non massima[54].
Di ciò sembra in qualche misura consapevole lo stesso legislatore dell’AI Act tanto da prevedere al Considerando 153 che “Gli Stati membri svolgono un ruolo chiave nell'applicare ed eseguire il presente regolamento. A tale riguardo, è opportuno che ciascuno Stato membro designi almeno una autorità di notifica e almeno una autorità di vigilanza del mercato come autorità nazionali competenti al fine di controllare l'applicazione e l'attuazione del presente regolamento”[55].
Su altro versante va, altresì, preso atto che la disciplina dettata dal Regolamento esplica la sua forza, in ragione dell’assetto complessivo dei rapporti tra livello nazionale e unionale, in un campo naturalmente limitato.
In primo luogo, non è superfluo rammentare che il criterio fondamentale di riparto delle competenze normative tra Unione e Stati membri previsto dall’art. 5 T.U.E. è rappresentato dal principio di attribuzione e che, a fronte di quest’ultimo, non è rinvenibile una base giuridica generale in materia di disciplina dell’attività amministrativa[56].
Se è vero che il legislatore europeo spesso pone frammenti di disciplina procedimentale lo fa, tuttavia, nell’esercizio di specifici titoli competenziali e con un approccio che deve essere di self restraint ispirato al rispetto del principio di autonomia procedurale[57]. Nel caso di specie, sembra, peraltro, difficile sostenere che una base giuridica, come quella prima rammentata, di mera armonizzazione e che guarda al funzionamento comune possa essere “stirata” fino a tal punto da consentire di occupare trasversalmente l’ambito materiale del procedimento amministrativo ogni qual volta venga in rilievo in esso l’impiego dello strumento dell’intelligenza artificiale.
In secondo luogo, occorre fare i conti con l’art. 2, par. 3, dello stesso AI Act. Secondo tale disposizione “Il presente regolamento non si applica a settori che non rientrano nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione e, in ogni caso, non pregiudica le competenze degli Stati membri in materia di sicurezza nazionale, indipendentemente dal tipo di entità incaricata dagli Stati membri di svolgere compiti in relazione a tali competenze”. Ne consegue che la forza vincolante del regolamento risulta in ogni caso limitata ai casi in cui la P.A. agisce in settori disciplinati dal diritto dell’Unione e, quindi, solo nei casi di “amministrazione indiretta” ovvero “congiunta”[58] in cui le autorità amministrative nazionali fanno diretta applicazione del diritto unionale. Fuori tale campo non v’è alcun problema, neppure astratto, di compatibilità tra un’eventuale disciplina nazionale e l’AI Act.
Infine, non deve dimenticarsi che, come emerge anche dai primi Considerando al Regolamento, la tutela dei diritti umani, pur non costituendo la base giuridica dell’intervento normativo europeo, rappresenta uno dei suoi principali orizzonti. Sicché l’ammissibilità di un intervento regolatorio nazionale a corredo dell’AI Act deve essere necessariamente valutata anche in ragione della capacità di implementare ed innalzare, in un’ottica multilivello, la soglia di tutela offerta dall’ordinamento rispetto a tali posizioni subiettive fondamentali[59].
In altri termini, pare che vadano apprezzate favorevolmente iniziative legislative in grado di correggere quello che è stato definito, in maniera severa ma efficace, con una metafora che strizza l’occhio al mondo dell’architettura, il “brutalismo” della nascente disciplina europea in materia di tecnologie digitali[60].
In un quadro così frastagliato e complesso, sembra peraltro che l’individuazione di un margine di regolazione dell’impiego dell’IA nel settore amministrativo in favore degli Stati membri possa passare per il crinale che corre tra i fenomeni, vicini ma differenti, della c.d. “armonizzazione spontanea” e del c.d. “gold plating”.
Come ha avuto occasione di osservare la dottrina più attenta[61], il c.d. gold plating concerne tipicamente il momento attuativo del diritto dell’Unione europea ed è caratterizzato dall’imposizione, da parte del legislatore nazionale, di oneri normativi, amministrativi e burocratici ulteriori rispetto a quelli espressamente richiesti dall’atto unionale[62]; sicché esso è un concetto che può essere inquadrato entro un più generale discorso di better regulation.
Il fenomeno dell’armonizzazione spontanea, invece, non concerne il momento attuativo del diritto dell’Unione, consistendo piuttosto in un allineamento della disciplina interna a quella di derivazione “eurounitaria” anche nei casi in cui quest’ultima non opera. La differenza con il gold-plating è, pertanto, evidente atteso che nel caso dell’armonizzazione spontanea il legislatore non ha alcun dovere di recepimento o di attuazione ma sceglie di “ispirarsi” alla normativa europea nel disciplinare una fattispecie interna a cui non si applicherebbe il diritto dell’Unione, con ciò ponendo in essere un vero e proprio processo di “spontaneous europeanisation” o uno “spill-over effect” del diritto europeo[63].
Nell’ottica propria dell’“armonizzazione spontanea” può, in particolare, essere letto un intervento del legislatore dello Stato membro che si sostanzi nell’estensione delle safeguards previste per i sistemi ad alto rischio anche fuori del campo di naturale applicazione dell’AI Act e, quindi, più segnatamente, non solo oltre lo steccato del già ricordato art. 2, par. 3 (id est anche ove la pubblica amministrazione nazionale non faccia applicazione in sede di amministrazione indiretta del diritto unionale), ma anche al di là delle ipotesi di attività amministrative tipizzate come ad “alto rischio” dall’Allegato III al Regolamento medesimo[64]. Una logica, quella del volontario innalzamento delle guarentigie, che fa capolino anche nel testo del Regolamento col meccanismo dei codici di condotta ex art. 95, par. 1[65].
Si potrebbe, tuttavia, obiettare che, attraverso una simile estensione, si finisca in qualche modo con il superare la scelta politica compiuta dal legislatore europeo[66]. Una scelta che potrebbe essere stata espressa anche “in negativo” e cioè nel senso che, qualificando come ad “alto rischio” solo taluni sistemi tassativamente individuati, questi ha voluto, al contempo, escludere che lo siano (e che lo possano essere) quelli non inseriti in tale elencazione. Il che equivarrebbe a dire che al fondo del Regolamento vi è l’intenzione che i sistemi di IA non qualificati espressamente come ad alto rischio debbano restare, sempre e comunque, assoggettati ad una disciplina più lasca (o meglio di sostanziale libertà).
Posta in questi termini la questione, il vero punto su cui riflettere diviene quello della individuazione dello scopo finale del Regolamento.
In particolare, v’è da chiedersi se il suo fine ultimo sia la promozione del ricorso allo strumento dell’IA (anche per evitare che la sua regolazione sia da freno allo sviluppo del settore) oppure, anzitutto, quello di costruire una disciplina minima comune a garanzia di diritti fondamentali e libertà anche esportabile fuori dei confini del continente europeo[67].
La risposta, ancora una volta, non è scontata perché si ammanta di valutazioni politiche tanto più che, come detto, sia nei considerando che nel corpo della disciplina del Regolamento fanno capolino entrambi i suddetti scopi.
E, allora, l’aspetto su cui meditare attiene più precipuamente è la ricerca di un punto di equilibrio tra questi due opposti poli.
Con ogni probabilità questo difficile compito sarà affidato, come accaduto per altri delicati snodi del tortuoso processo di integrazione unionale, al dialogo tra Corti nazionali (costituzionale e di ultima istanza) e Corte di giustizia[68].
In attesa di tali risposte è, però, tempo di cominciare ad immaginare concretamente una “via italiana” all’impiego dell’intelligenza artificiale nel settore pubblico[69]. E farlo velocemente, prima della completa entrata in vigore dell’AI Act, sotto la irrinunciabile guida dei principi costituzionali ed europei mettendo saldamente al centro riserva di umanità e trasparenza algoritmica.
Quanto al modo, la delicatezza, nell’attuale frangente storico, dei rapporti tra Unione e Stati membri suggeriscono un approccio forse più dimesso rispetto a quello finora seguito in cui ci si concentri, non tanto (e non solo) sulla costruzione di una disciplina di portata generale ed orizzontale che rischia di “doppiare” quella europea[70], ma su interventi più puntuali e circoscritti, quasi chirurgici, sul testo della l. n. 241 del 1990[71].
Il cantiere può dirsi aperto.
Lo scritto è stato redatto nell’ambito del progetto di ricerca «Algorithmic tools for citizens and public administrations», finanziato dallo spagnolo Ministerio de Ciencia e Innovación (PID2021-126881OB-I00).
[1] Regolamento (UE) 2024/1689 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 giugno 2024che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale e modifica i regolamenti (CE) n, 300/2008, (UE) n, 167/2013, (UE) n, 168/2013, (UE) 2018/858, (UE) 2018/1139 e (UE) 2019/2144 e le direttive 2014/90/UE, (UE) 2016/797 e (UE) 2020/1828 (regolamento sull'intelligenza artificiale), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea Serie L del 12 luglio 2024.
[2] Facendo dell’Unione un “gigante” della regolazione che però resta un “nano” sul piano della tecnologia a cospetto di Stati Uniti e Cina, le quali seguono approcci profondamente differenti (come ricordato da ultimo da L. Torchia, Pubblica amministrazione e transizione digitale, in Giorn. dir. amm., 6, 2024, 729). Il quadro è, peraltro, in continua evoluzione e si lega al complessivo scenario geopolitico (su questa dimensione di confronto tra “potenze” si veda il volume di Limes, L’intelligenza non è artificiale, 12, 2022). Si pensi, ad esempio, al brusco cambio di rotta impresso dalla presidenza Trump che, all’indomani dell’elezione ha ritirato l’executive order “on the Safe, Secure, and Trustworthy Development and Use of Artificial Intelligence” emanato di dal suo predecessore il 30 ottobre 2023. Quanto all’impatto che la regolazione della tecnologia può avere sulla distribuzione della ricchezza e sulla necessità di una visione inclusiva del digitale che non alimenti ulteriormente le diseguaglianze si veda il fondamentale lavoro di D. Acemoglu e S. Johnson, Potere e progresso. La lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità, Milano, 2023.
[3] Tra i numerosi studi in tema si segnalano, senza pretesa di esaustività, B. Marchetti, Intelligenza artificiale, poteri pubblici e rule of law, in Riv. it. dir. pub. com., 1, 2024, 49 e ss.; G. Lo Sapio, L’Artificial Intelligence Act e la prova di resistenza per la legalità algoritmica, in Federalismi, 16, 2024; S. Francario, La decisione amministrativa automatizzata secondo il Regolamento UE 2024/1689, in questa Rivista, 31 ottobre 2024; A. Cerrillo i Martínez, El impacto del Reglamento de Inteligencia Artificial en las Administraciones públicas, in Revista Jurídica de les Illes Balears, 26, 2024; I. Hasquenoph, Commande publique : quels enjeux au lendemain du règlement européen sur l'intelligence artificielle?, in AJ Collectivités Territoriales, 2025, 147; A. G. Orofino, Tra obiettivi perseguiti e problemi irrisolti: l’impatto dell’IA Act sull’assetto regolatorio dell’informatica pubblica, in corso di pubblicazione su Contratto e impresa.
[4] Invero, in Italia le prime riflessioni risalgono a oltre trenta anni fa (A. Predieri, Gli elaboratori elettronici nell’amministrazione dello Stato, Bologna, 1971, p. 52; G. Duni, L’utilizzabilità delle tecniche elettroniche nell’emanazione degli atti e nei procedimenti amministrativi. Spunto per una teoria dell’atto emanato nella forma elettronica, in Riv.amm.,1978, 407 ss.; B. Selleri, Gli atti amministrativi «in forma elettronica», in Dir. Soc., 1982, 133; G. Caridi, Informatica giuridica e procedimenti amministrativi, Milano, 1983, p. 145; V. Frosini, L’informatica e la p.a., in Riv.trim.dir.pubbl., 1983, p. 48; A. Usai, Le prospettive di automazione delle decisioni amministrative in un sistema di teleamministrazione, in Dir.inf., 1993, 17 ss.; tra gli studi monografici A. Masucci, L’atto amministrativo informatico. Primi lineamenti di una ricostruzione, Napoli, 1993 e U. Fantigrossi, Automazione e pubblica amministrazione, Bologna, 1993) e quella attuale è solo l’ultima stagione di un dibattito molto più articolato. Di “stagioni” di studio ve ne sono state, invero, almeno due dopo i lavori dei pionieri della materia. La prima ha avuto luogo agli inizi degli anni 2000 su stimolo della giurisprudenza amministrativa (A.G. Orofino, La patologia dell’atto amministrativo elettronico: sindacato giurisdizionale e strumenti di tutela, in Foro amm. C.d.S., 2002, 2276; F. Saitta, Le patologie dell’atto amministrativo elettronico e il sindacato del giudice amministrativo, in Dir.ec., 2003, 615; D. Marongiu, L’attività amministrativa automatizzata, Santarcangelo di Romagna, 2005; A.G. Orofino, R.G. Orofino, L’automazione amministrativa: imputazione e responsabilità, in Giorn. dir. amm., 12, 2005, p. 1300 ss.). La seconda, più recente ed ancora in corso, figlia dell’impetuoso sviluppo tecnologico degli ultimi anni, ha preso abbrivio a partire dalla seconda metà degli anni ’10 di questo secolo, è certamente più ricca dal punto di vista quantitativo ma si muove, in massima parte, ancora nel solco tracciato dai lavori precedenti. Tra questi, sempre senza pretesa di esaustività, il riferimento è, per rimanere a livello monografico a G. Avanzini, Decisioni amministrative e algoritmi informatici. Predeterminazione, analisi predittiva e nuove forme di intellegibilità, Napoli, 2019; V. Brigante, Evolving pathways of administrative decisions. Cognitive activity and data, measures and algorithms in the changing administration, Napoli, 2019; A. Di Martino, Tecnica e potere nell’amministrazione per algoritmi, Napoli, 2023; E. M. Menéndez Sebastián, From Bureaucracy to Artificial Intelligence: The Tension between Effectiveness and Guarantees, Padova, 2023.
[5] Il riferimento è, rispettivamente, alla giurisprudenza amministrativa e, segnatamente, del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2270; Cons. St., sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 8474; Cons. St., Sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881, con commento di A.G. Orofino, G. Gallone, L’intelligenza artificiale al servizio delle funzioni amministrative: profili problematici e spunti di riflessione, in Giur. it., 2020, 1738; per una descrizione del contesto in cui nascono queste pronunce si veda L. Carbone, L’algoritmo e il suo giudice, in www.giustizia-amministrativa.it, 2023) e all’art. 30 del d.lgs. n. 36 del 2023 (per la cui analisi si rinvia alle osservazioni svolte in G. Gallone, Digitalizzazione, amministrazione e persona: per una “riserva di umanità” tra spunti codicistici di teoria giuridica dell’automazione, in P.A. Persona e Amministrazione, 1, 2023, 329 e ss.; D. U. Galetta, Digitalizzazione, Intelligenza artificiale e Pubbliche amministrazioni: il nuovo Codice dei contratti pubblici e le sfide che ci attendono, in Federalismi, 12, 2023, 4 e ss.; M. Barberio, L’uso dell’intelligenza artificiale nell’art. 30 del d.lgs. 36/2023 alla prova dell’AI Act dell’Unione europea, in Riv. it. inf. dir., 2, 2023).
[6] In termini B. Marchetti, Intelligenza artificiale, poteri pubblici e rule of law, cit., 49; G. Lo Sapio, L’Artificial Intelligence Act e la prova di resistenza algoritmica, cit., 269 S. Francario, La decisione amministrativa automatizzata secondo il Regolamento UE 2024/1689, cit.; V. Neri, AI Act e diritto amministrativo, in Lavoro, diritti, Europa, n. 1, 2025; I. Hasquenoph, Commande publique : quels enjeux au lendemain du règlement européen sur l'intelligence artificielle?, cit.; A. G. Orofino, Tra obiettivi perseguiti e problemi irrisolti: l’impatto dell’IA Act sull’assetto regolatorio dell’informatica pubblica, cit..
[7] Non mancano altre disposizioni del Regolamento come, in particolare, gli artt. 27 e 86 i quali pongono a carico dei soli deployer pubblici (nonché agli incaricati di un pubblico servizio), l’obbligo, rispettivamente, di effettuare una valutazione di impatto sui diritti fondamentali e di garantire la spiegazione dei singoli processi decisionali. Osserva, peraltro, I. Hasquenoph, Commande publique : quels enjeux au lendemain du règlement européen sur l'intelligence artificielle?, cit., che “Notons qu'il ne paraît pas impossible que cette qualification de fournisseur s'applique à l'administration lorsqu'elle développe une solution d'IA en interne : le règlement y inclut en effet les « autorités publiques ». Dans ce cas, le droit de la commande publique est neutralisé”.
[8] Così G. Lo Sapio, L’Artificial Intelligence Act e la prova di resistenza algoritmica, cit., 270. In termini ancor più netti A. Cerrillo i Martínez, El impacto del Reglamento de Inteligencia Artificial en las Administraciones públicas, cit., 104, secondo cui “No obstante, a pesar del protagonismo de las Administraciones públicas en la aplicación del RIA y el impacto que la norma europea puede tener en su funcionamiento o en la toma de decisiones públicas y la prestación de servicios públicos, no podemos desconocer que el RIA no es una norma pensada para las Administraciones públicas”.
[9] A. G. Orofino, Tra obiettivi perseguiti e problemi irrisolti: l’impatto dell’IA Act sull’assetto regolatorio dell’informatica pubblica, cit., secondo cui “La poca incisività dell’IA Act è […] anche conseguenza fisiologica della difficoltà di regolazione delle materie caratterizzate da elevato tasso di tecnicismo”.
[10] Entrata in vigore che, come noto, è stata scaglionata. Al momento della pubblicazione del presente saggio risulta già (a partire dal 2 febbraio 2025) entrata in vigore la disciplina di cui all’art. 5 del Regolamento. Per la disciplina relativa ai sistemi di IA ad alto rischio l’entrata in vigore è stata invece posticipata, pur operando ulteriori differenziazioni, al 2 agosto 2026.
[11] È la più recente frontiera del “diritto del rischio” per il quale il riferimento è, tra tutti, ad A. Barone, Il diritto del rischio, Milano, 2006. Per un’analisi critica analisi dei rischi che sottende l’AI Act, in particolare rispetto alla predeterminazione dei vari livelli su base eminentemente assiologica, alla sua staticità (con conseguente aumento della probabilità che le categorie siano o “sovra” o “sotto-inclusive”, si veda C. Novelli, L’Artificial Intelligence Act Europeo: alcune questioni di implementazione, in Federalismi, 2, 2024, 95 e ss..
[12] Il riferimento è, essenzialmente, ai modelli di IA “per finalità generali” di cui agli artt. 51 e ss. del Regolamento. La nozione di “modello di IA per finalità generali” è offerta al n. 63) dell’art. 3 del Regolamento medesimo.
[13] Su questa quadripartizione si veda G. Lo Sapio, L’Artificial Intelligence Act e la prova di resistenza algoritmica, cit., 282.
[14] Per una dettagliata disamina della disposizione e, più in generale, delle tecniche di classificazione dei sistemi ad alto rischio A. Huergo Lora, Classification of ai systems as high-risk, in The EU regulation on artificial intelligence: a commentary a cura di A. Huergo Lora, Milano, 2025, 79 e ss..
[15] Invero l’art. 6 del Regolamento contempla, al par. 1 una specifica ipotesi di sistemi di IA “ad altro rischio”, dai confini alquanto sfumati e problematici. È tale, in particolare, ogni sistema che soddisfa congiuntamente le seguenti condizioni: a) deve essere “destinato a essere utilizzato come componente di sicurezza di un prodotto” ovvero essere “esso stesso un prodotto” che sia “disciplinato dalla normativa di armonizzazione dell'Unione elencata nell'allegato I”; b) deve esser, come tale, “soggetto a una valutazione della conformità da parte di terzi ai fini dell'immissione sul mercato o della messa in servizio di tale prodotto ai sensi della normativa di armonizzazione dell'Unione elencata nell'allegato I”. Il richiamato Allegato I contiene un’elencazione tassativa della “normativa di armonizzazione dell'Unione” di riferimento la quale, pur spaziando tra campi diversi (dalla “sicurezza dei giocattoli”, agli “ascensori e ai componenti di sicurezza per ascensori” fino ai “dispositivi medico-diagnostici in vitro” che non sembra in alcun modo intercettare, almeno direttamente, il campo dia zione dei poteri pubblici.
[16] Il carattere tassativo dell’elencazione discende dalla formulazione dell’Allegato III il quale pur facendo riferimento ad interi “settori” non contiene formule di riserva o di salvezza che valgano ad attribuire allo stesso valenza meramente esemplificativa (cfr. A. Huergo Lora, Classification of ai systems as high-risk, cit., 84). Giova rammentare che lo stesso Regolamento, all’art. 7, prevede la possibilità per la Commissione di apportare modifiche all’Allegato III attraverso atto delegati (e, quindi, attraverso la procedura disegnata dal successivo art. 97) “aggiungendo o modificando i casi d'uso dei sistemi di IA ad alto rischio” al ricorrere di due condizioni cumulative e, segnatamente, che “i sistemi di IA sono destinati a essere usati in uno dei settori elencati nell'allegato III” (lett. a) e che “i sistemi di IA presentano un rischio di danno per la salute e la sicurezza, o di impatto negativo sui diritti fondamentali, e tale rischio è equivalente o superiore al rischio di danno o di impatto negativo presentato dai sistemi di IA ad alto rischio di cui all'allegato III” (lett. b). Per un’analisi di questo meccanismo normativo di riferimento che non è da escludere possa essere impiegato dalla Commissione per inserire altri impieghi in campo amministrativo dei sistemi di intelligenza artificiale nel novero di quelle ad “altro rischio”, si veda, anche nei suoi rapporti con la diversa fattispecie dell’art. 6, par. 3 del Regolamento, A. Huergo Lora, Classification of ai systems as high-risk, cit., 125 e ss..
[17] G. Lo Sapio, L’Artificial Intelligence Act e la prova di resistenza algoritmica, cit., 282.
[18] Ma anche, come osserva B. Marchetti, Intelligenza artificiale, poteri pubblici e rule of law, cit., la “gestione e il funzionamento di infrastrutture critiche” ovvero per determinare l’accesso o l’ammissione agli istituti di istruzione di tutti i livelli.
[19] All. III, par. 5, lett. a) secondo cui sono considerati ad alto rischio i “sistemi di IA destinati a essere utilizzati dalle autorità pubbliche o per conto di autorità pubbliche per valutare l'ammissibilità delle persone fisiche alle prestazioni e ai servizi di assistenza pubblica essenziali, compresi i servizi di assistenza sanitaria, nonché per concedere, ridurre, revocare o recuperare tali prestazioni e servizi”. Sulle implicazioni di questa qualificazione sia consentito rinviare a G. Gallone, Riserva di umanità, intelligenza artificiale e funzione giurisdizionale alla luce dell’IA Act. Considerazioni (e qualche proposta) attorno al processo amministrativo che verrà, in Judicium, 2024.
[20] Il riferimento è all’ Emendamento 738 alla Proposta di regolamento il quale era volto a modificare il testo dell’allegato III, par. 8, lett. a) qualificando come ad alto rischio tutti “i sistemi di IA destinati a essere utilizzati da un'autorità giudiziaria o da un organo amministrativo, o per loro conto, per assistere un'autorità giudiziaria o un organo amministrativo nella ricerca e nell'interpretazione dei fatti e del diritto e nell'applicazione della legge a una serie concreta di fatti o utilizzati in modo analogo nella risoluzione alternativa delle controversie”.
[21] Per una riflessione sull’impatto dell’elencazione di cui all’allegato III nel campo della pubblica amministrazione si veda G. Barrachina Navarro, Andrés Boix Palop, The applicability of the Artificial Intelligence Act to the field of public administration and public services and special features regarding compliance: special attention to Annex III and administrative action and particularities of compliance, in The European Union Artificial Intelligence Act. A Systematic Commentary, a cura di L. Cotino Hueo, D.U. Galetta, Napoli, 2025, 383 e ss..
[22] In termini A. G. Orofino, Tra obiettivi perseguiti e problemi irrisolti: l’impatto dell’IA Act sull’assetto regolatorio dell’informatica pubblica, cit..
[23] Il Regolamento tenta di operare una qualificazione per rischiosità ex ante che però mal si concilia con la natura dinamica dei sistemi di IA (specie di machine learning) che evolvono e mutano nel tempo (così G. Lo Sapio, L’Artificial Intelligence Act e la prova di resistenza algoritmica, cit., 283). Per questa ragione lo stesso legislatore europeo ha pensato di introdurre un apposito correttivo che, però, a ben vedere, finisce con il costituire un ulteriore fattore di incertezza. In particolare, l’art. 6, par. 2 del Regolamento prevede che, a talune condizioni, anche un sistema di IA di cui all’allegato III possa non essere considerato come ad alto rischio “se non presenta un rischio significativo di danno per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali delle persone fisiche, anche nel senso di non influenzare materialmente il risultato del processo decisionale”. Un esempio, significativo per importanza, di incerta qualificazione è quello delle procedure di aggiudicazione dei contatti pubblici in relazione alla quale si vedano le considerazioni di M. Barberio, L’uso dell’intelligenza artificiale nell’art. 30 del d.lgs. 36/2023 alla prova dell’AI Act dell’Unione europea, cit., 6.
[24] L’art. 95, par. 1, del Regolamento stabilisce, in particolare, che “L'ufficio per l'IA e gli Stati membri incoraggiano e agevolano l'elaborazione di codici di condotta, compresi i relativi meccanismi di governance, intesi a promuovere l'applicazione volontaria ai sistemi di IA, diversi dai sistemi di IA ad alto rischio, di alcuni o di tutti i requisiti di cui al capo III, sezione 2, tenendo conto delle soluzioni tecniche disponibili e delle migliori pratiche del settore che consentono l'applicazione di tali requisiti”. Come notato da A. Nicolás Lucas, Codes of conduct and guidelines, in in The EU regulation on artificial intelligence: a commentary a cura di A. Huergo Lora, Milano, 2025, 540, i codici di condotta sono espressione della self regulation che accompagna la globalizzazione. Essi sono “set of principles, guidelines, and ethical standards designed to guide the development, deployment, and responsible use of Artificial Intelligence systems”.Una parte della dottrina (G. Barrachina Navarro, Andrés Boix Palop, The applicability of the Artificial Intelligence Act to the field of public administration and public services, cit., 385) ha sostenuto la possibilità di praticare una simile soluzione anche nel campo amministrativo, di estendere volontariamente, in tutto o in parte, ai sistemi di intelligenza artificiale qualificati come a basso rischio le guarentigie previste per quelli ad alto rischio “through codes of conduct”. Tuttavia, pare che il ricorso a strumenti regolatori atipici e dall’incerta natura giuridica, oltre ad accentuare la frammentazione dello statuto dell’azione amministrativa (rimentendo l’adozione delle guarentigie di cui al capo III, sezione 2, alla scelta dei singoli deployer- amministrazioni) possa entrare in tensione con il principio di legalità in senso “sostanziale” (abbracciata anche dalla giurisprudenza costituzionale nel noto arresto Corte cost., 4 aprile 2011, n. 115) che deve presiedere allo svolgimento dell’azione amministrativa. Il travagliato rapporto tra principio di legalità e digitalizzazione delle funzioni amministrative è stato indagato, con particolare riferimento al rapporto con le regole tecniche da F. Cardarelli, Amministrazione digitale, trasparenza e principio di legalità, in Dir. inf. e inf., 2015, 238 ss.. Il rapporto tra legalità ed automazione amministrative rappresenta, invece, il nucleo delle riflessioni di S. Civitarese Matteucci, «Umano troppo umano». Decisioni amministrative automatizzate e principio di legalità, in Dir. pubbl., 1, 2019, 5 ss..
[25] Impatto di cui è consapevole lo stesso legislatore europeo atteso che all’art. 27 del Regolamento stabilisce, solo per taluni sistemi di IA ad alto rischio, l’obbligo del deployer pubblico (e del privato incaricato di un servizio pubblico) di effettuare una valutazione di impatto sui diritti fondamentali.
[26] Preoccupazioni condivise da I. Hasquenoph, Commande publique: quels enjeux au lendemain du règlement européen sur l'intelligence artificielle?, cit., che prospetta il pericolo di una “under regulation” osservando che “Surtout, le règlement édicte des obligations spécifiques à l'égard des SIA à haut risque, mais les exigences qu'il pose à l'égard des autres SIA sont finalement assez limitées. Par ailleurs, il prévoit des dérogations: un SIA figurant sur la liste de l'annexe III ne sera pas considéré comme étant à haut risque «lorsqu'il ne présente pas de risque important de préjudice pour la santé, la sécurité ou les droits fondamentaux des personnes physiques, y compris en n'ayant pas d'incidence significative sur le résultat de la prise de décision»”.
[27] Sul punto si rinvia a G. Lazcoz Moratinos, Human oversight (article 14), in The EU regulation on artificial intelligence: a commentary a cura di A. Huergo Lora, Milano, 2025, 243 e ss..
[28] Concetto impiegato per la prima volta da A. Simoncini, L’algoritmo incostituzionale: intelligenza artificiale e il futuro delle libertà, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 1, 2019, 69 e successivamente richiamato dalla fondamentale pronuncia del Cons. St., sez. IV, 8 aprile 2019, n. 2270, cit..
[29] Il conio dell’espressione “riserva di umanità” (in spagnolo “reserva de humanidad”) la si deve a J. Ponce Solè, Inteligencia artificial, Derecho administrativo y reserva de humanidad algoritmos y procedimiento administrativo debido tecnológico, in Revista General de Derecho Administrativo, 50, 2019. Essa, nel suo significato minimo, coincide con il divieto di esercizio delle potestà amministrative in forma totalmente automatizzata senza alcun apporto da parte della persona fisica ed esprime, di riflesso, l’idea dell’esistenza a livello costituzionale e sovranazionale di una sfera minima ed incomprimibile di appannaggio dell’individuo (sul punto sia consentito rinviare a G. Gallone, Riserva di umanità e funzioni amministrative. Indagini sui limiti dell’automazione decisionale tra procedimento e processo, Milano, Cedam, 2023). Su cosa intenda il diritto europeo per decisione completamente automatizzata si veda, seppur con riguardo al disposto dell’art. 22 G.D.P.R. e all’applicazione fattane dalla giurisprudenza unionale C. Silvano, La nozione di “decisione completamente automatizzata” sotto la lente della Corte di Giustizia: il caso Schufa, in CERIDAP 4, 2024, 270 e ss.
[30] Nonché l’ancor più pregnante “Diritto alla spiegazione dei singoli processi decisionali” e, segnatamente, ad ottenere “spiegazioni chiare e significative sul ruolo del sistema di IA nella procedura decisionale e sui principali elementi della decisione adottata”, sancito dall’art. 86 del Regolamento solo in favore della persona che sia interessata da “una decisione adottata dal deployer sulla base dell'output di un sistema di IA ad alto rischio elencato nell'allegato III, ad eccezione dei sistemi elencati al punto 2 dello stesso, e che produca effetti giuridici o in modo analogo incida significativamente su tale persona in un modo che essa ritenga avere un impatto negativo sulla sua salute, sulla sua sicurezza o sui suoi diritti fondamentali”. Sulle garanzie di trasparenza previste dall’AI Act si rinvia a A. Palma Ortigosa, Transparency and proivisions of informatiuon to deployers (article 13), in The EU regulation on artificial intelligence: a commentary a cura di A. Huergo Lora, Milano, 2025, 79 e ss..
[31] Il fondamento costituzionale e sovranazionale della “riserva di umanità” è stato approfondito in G. Gallone, Riserva di umanità e funzioni amministrative, cit., 41 e ss..
[32] Per un’ampia analisi della dimensione costituzionale ed europea del principio di trasparenza tra Trattati, Carta di Nizza e C.E.D.U. si veda A. G. Orofino, La trasparenza oltre la crisi. Accesso, informatizzazione e controllo civico, II ed., Bari, 2020, 47 e ss. e 193 e ss.. In giurisprudenza queste radici sono state analiticamente in Cons. St., Ad. plen. 4 aprile 2020, n. 10, par. 22.3 e ss.. Sul ruolo della trasparenza come bilanciamento dell’automazione cfr. anche A. Corrado, La trasparenza necessaria per infondere fiducia in una amministrazione algoritmica e antropocentrica, in Federalismi, 22 febbraio 2023.
[33] Un istituto, quello dei “contro-limiti”, nato nella riflessione dottrinaria (P. Barile, Rapporti tra norme primarie comunitarie e norme costituzionali e primarie italiane, in Comunità int., 1966, 14) e che ha vissuto nella giurisprudenza, soprattutto in epoca recente, specie dopo le novità introdotte dal Trattato di Lisbona, una vita alquanto travagliata, divenendo terreno di confronto tra Corte costituzionale e Corte di giustizia (cfr. per un quadro di insieme A. Lo Calzo, Dagli approdi giurisprudenziali della Corte costituzionale in tema di controlimiti alle recenti tendenze nel dialogo con le Corti nel contesto europeo, in Federalismi, 13 gennaio 2021).
[34] La dignità è assunta a pietra angolare anche dei cataloghi sovranazionali di diritti umani essendo posta in apertura tanto della Dichiarazione universale dei Diritti Umani del 1948 quanto della Carta di Nizza. Stabilisce, infatti, l’art. 1 di quest’ultima (intitolato “Dignità umana”) che “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”. Sul ruolo e valore della Carta alla luce del nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione Europea si veda C. Salazar, A Lisbon story: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da un tormentato passato... a un incerto presente?, in Gruppo di Pisa, 3, 2011; P. Gianniti (a cura di), I diritti fondamentali nell’Unione Europea. La Carta di Nizza dopo il Trattato di Lisbona, Bologna, 2013; L.S. Rossi, Stesso valore giuridico dei Trattati? Rango, primato ed effetti diretti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Dir. Un. eu., 2016, 329 ss.. Per un’articolata disamina del ruolo del principio della dignità umana nella giurisprudenza della Corte di Giustizia si veda P. Mengozzi, Il principio del rispetto della dignità umana, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e la giurisprudenza della Corte di giustizia, in Annali A.I.S.D.U.E., II, Napoli, 2021, 536 ss..
[35] B. Marchetti, Intelligenza artificiale, poteri pubblici e rule of law, cit.. In senso favorevole all’ammissibilità di un intervento normativo degli Stati membri sono, nella dottrina interna, C. Burelli, Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, in Rivista Quaderni AISDUE - L’Unione europea e la nuova disciplina sull’intelligenza artificiale: questioni e prospettive, a cura di F. Ferri, Napoli, 2024; a livello europeo O. Mir Puigpelat, The impact of the AI Act o public authorities and on administrative procedures, in CERIDAP, 4, 2023, 247 e ss.; A. Cerrillo i Martínez, El impacto del Reglamento de Inteligencia Artificial en las Administraciones públicas, cit., 104, secondo cui “será necesario que las Administraciones públicas dispongan de unas normas ajustadas a los principios que guían su funcionamiento y que garanticen de manera adecuada los derechos de las personas cuando se relacionan con ellas”.
[36] È il disegno di legge Atto Senato n. 1146 presentato in data 20 maggio 2024 e annunciato nella seduta n. 191 del 21 maggio 2024 reperibile su ww.senato.it. Il 20 marzo 2025 il d.d.l. è stato approvato dal Senato della Repubblica ed è passato all’esame della Camera dei deputati.
[37] In particolare, il citato art. 13 del disegno di legge stabilisce, al suo comma 1, che “Le pubbliche amministrazioni utilizzano l'intelligenza artificiale allo scopo di incrementare l'efficienza della propria attività, di ridurre i tempi di definizione dei procedimenti e di aumentare la qualità e la quantità dei servizi erogati ai cittadini e alle imprese, assicurando agli interessati la conoscibilità del suo funzionamento e la tracciabilità del suo utilizzo”. Il comma 2, invece, afferma, sempre, in via generale, che “L'utilizzo dell'intelligenza artificiale avviene in funzione strumentale e di supporto all'attività provvedimentale, nel rispetto dell'autonomia e del potere decisionale della persona che resta l'unica responsabile dei provvedimenti e dei procedimenti in cui sia stata utilizzata l'intelligenza artificiale”.
[38] Così a pag. 35 degli atti relativi al disegno di legge in parola laddove si afferma che “L’intervento è compatibile con l’ordinamento europeo” e che esso “Non si sovrappone all’emanando regolamento europeo sull’intelligenza artificiale («AI Act»), approvato lo scorso 13 marzo dal Parlamento europeo), ma ne accompagna il quadro regolatorio in quegli spazi propri del diritto interno”. Il d.d.l. prevede, poi, all’art. 1, comma 2, che “Le disposizioni della presente legge si interpretano e si applicano conformemente al diritto dell’Unione europea”.
[39] Sui caratteri dei regolamenti come fonte di diritto derivato dell’Unione Europea cfr. R. Adam – A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione Europea, Torino, 2017, 170 e ss.. Come osserva C. Burelli Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, cit., 240, ricordando che le disposizioni del regolamento producono effetti immediati negli ordinamenti giuridici degli Stati membri senza che le autorità nazionali siano tenute ad adottare alcuna misura di attuazione. Il che non esclude, tuttavia, che talune disposizioni possano richiedere, per la loro piena e corretta attuazione, l’adozione di misure di esecuzione a livello nazionale; ma sempre se dette misure “non ostacolano la sua applicabilità diretta, se non dissimulano la sua natura di atto di diritto dell’Unione e se precisano l’esercizio del margine discrezionale ad essi conferito dal regolamento rimanendo nei limiti delle sue disposizioni” (Corte giust. UE, 12 aprile 2018, C-541/16, Commissione c. Danimarca, punti 27 e 28).
[40] Oltre che, per la parte che concerne il trattamento e la tutela dei dati personali l’art. 16 T.F.U.E. (così B. Marchetti, Intelligenza artificiale, poteri pubblici e rule of law, cit.). Più approfonditamente sul tema M. Inglese, Il regolamento sull’intelligenza artificiale come atto per il completamento e il buon funzionamento del mercato interno?, in Rivista Quaderni AISDUE - L’Unione europea e la nuova disciplina sull’intelligenza artificiale: questioni e prospettive, a cura di F. Ferri, Napoli, 2024, 71 e ss..
[41] Lo definisce “trasversale” G. Lo Sapio, L’Artificial Intelligence Act e la prova di resistenza algoritmica, cit., 269.
[42] Consapevolezza che emerge, ad esempio, nel Considerando 3, laddove si afferma che “I sistemi di IA possono essere facilmente impiegati in un'ampia gamma di settori dell'economia e in molte parti della società, anche a livello transfrontaliero”. Analogamente il Considerando 8 esprime l’aspirazione di creare “un quadro giuridico dell'Unione che istituisca regole armonizzate in materia di IA per promuovere lo sviluppo, l'uso e l'adozione dell'IA nel mercato interno, garantendo nel contempo un elevato livello di protezione degli interessi pubblici, quali la salute e la sicurezza e la protezione dei diritti fondamentali, compresi la democrazia, lo Stato di diritto e la protezione dell'ambiente, come riconosciuti e tutelati dal diritto dell'Unione”.
[43] La menzionata disposizione stabilisce, infatti, che “Il presente regolamento non si applica ai sistemi di IA se e nella misura in cui sono immessi sul mercato, messi in servizio o utilizzati con o senza modifiche esclusivamente per scopi militari, di difesa o di sicurezza nazionale, indipendentemente dal tipo di entità che svolge tali attività”.
[44] Vi si prevede, in particolare, che “Uno Stato membro può decidere di prevedere la possibilità di autorizzare in tutto o in parte l'uso di sistemi di identificazione biometrica remota «in tempo reale» in spazi accessibili al pubblico a fini di attività di contrasto, entro i limiti e alle condizioni di cui al paragrafo 1, primo comma, lettera h), e ai paragrafi 2 e 3. Gli Stati membri interessati stabiliscono nel proprio diritto nazionale le necessarie regole dettagliate per la richiesta, il rilascio, l'esercizio delle autorizzazioni di cui al paragrafo 3, nonché per le attività di controllo e comunicazione ad esse relative”.
[45] È il pericolo prospettato da C. Burelli Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, cit., 260, secondo cui “qualora venga imposta un’armonizzazione massima, non potendo gli Stati membri discostarsi da quanto previsto dall’atto UE, ogni eventuale sovraregolamentazione è verosimilmente fonte di una violazione del diritto dell’Unione, in quanto tale suscettibile di essere contestata con una procedura di infrazione”.
[46] In questo senso si vedano le osservazioni svolte da B. Cappiello, The EU and the AI ACT. Was it worthwhile to be the first?, in CERIDAP, 4, 2024, 235 e ss., che riflette sull’appropriatezza della scelta del legislatore unionale di impiegare la base giuridica più ampia tra quelle disponibili nei Trattati, su una materia di competenza concorrente (quale il mercato interno ai sensi dell’art. 4, par. 2, lett a) T.F.U.E.) e nella prospettiva della protezione dei diritti fondamentali (che non costituirebbe da sé una base giuridica autonoma) attraverso lo strumento del regolamento (nel mentre, di solito, si predilige, in relazione all’art. 114 T.F.U.E., l’impiego della direttiva, se del caso dettagliata).
[47] Sul ruolo dei diritti fondamentali nell’AI Act si veda E. Cirone, L’AI Act e l’obiettivo (mancato?) di promuovere uno standard globale per la tutela dei diritti fondamentali, in Quaderni AISDUE, 1, 2025, 12 e ss.. L’Autore evidenzia che nell’AI Act, i diritti fondamentali sono indicati come “interessi pubblici” (così al Considerando n. 7), “da proteggere assieme alla salute e alla sicurezza, all’interno del più ampio e generale contesto della tutela della sicurezza dei prodotti”. Ciò discende invero dalla circostanza che, in generale, il legislatore europeo è tenuto al rispetto dei diritti fondamentali nell’esercizio delle competenze che gli sono conferite dai Trattati. La caratteristica che contraddistingue il Regolamento in questione rispetto ad altri interventi normativi eurounitari è data dal fatto che “la tutela dei diritti fondamentali costituisce, assieme alla previsione di standard tecnici, lo scheletro dell’intero impianto normativo e non, invece, uno dei vari requisiti da rispettare. Il rischio per i diritti fondamentali diventa, infatti, il principale criterio per la previsione di obblighi più stringenti” (così sempre E. Cirone, L’AI Act e l’obiettivo (mancato?) di promuovere uno standard globale per la tutela dei diritti fondamentali, cit., 12). Tanto che, come accennato, l’impatto negativo di un sistema di intelligenza artificiale sui diritti fondamentali garantiti dalla Carta costituisce un co-criterio per la classificazione di una applicazione come di rischio elevato (vd. art. 6, par. 3). L’impatto sui diritti fondamentali è, peraltro, criterio da seguire nella valutazione preventiva all’impiego dei sistemi di IA ad alto rischio di cui all'articolo 6, par. 2 cui sono chiamati proprio i “deployer che sono organismi di diritto pubblico” (così l’art. 27 del Regolamento).
[48] È la prospettiva indicata anche da C. Iurilli, Il diritto naturale come limite e contenuto dell’intelligenza artificiale. Prime riflessioni sul nuovo Regolamento Europeo “AI Act”, in Judicium, 24 giugno 2024, della intelligenza artificiale come “res tecnologica” e “prodotto o bene di consumo”. In termini anche M. Inglese, Il regolamento sull’intelligenza artificiale come atto per il completamento e il buon funzionamento del mercato interno?, cit., 86. Così anche G. Barrachina Navarro, Andrés Boix Palop, The applicability of the Artificial Intelligence Act to the field of public administration and public services, cit., 365, secondo cui l’AI Act “is a regulation that, applying the lessons learned from decades of public control over safety and control requirements with regard to the placing on the market of products (or, although less frequently, the provision of services that may also entail environmental or safety problems), establishes a series of protocols and requirements typical of this field”.
[49] Così, segnatamente, la seconda parte del Considerando 1 ad avviso del quale “Il presente regolamento garantisce la libera circolazione transfrontaliera di beni e servizi basati sull'IA, impedendo così agli Stati membri di imporre restrizioni allo sviluppo, alla commercializzazione e all'uso di sistemi di IA, salvo espressa autorizzazione del presente regolamento”. Come è stato, tuttavia, condivisibilmente osservato da O. Mir Puigpelat, The impact of the AI Act o public authorities and on administrative procedures, cit., 248, “this does not seem to be aimed at preventing Member States from conditioning the use of AI systems by national public authorities, but rather at preventing them from imposing additional restrictions on the development and use of such systems in the private sector. The free movement of goods and services is conceived for citizens and businesses, not for public authorities, which cannot oppose to their national legislator that a European Regulation entitles them to develop and use a certain software system without additional limitations”.
[50] Osserva G. Lo Sapio, L’Artificial Intelligence Act e la prova di resistenza algoritmica, cit., 281, che “se il focus è il mercato dell’era digitale, si spiega perché il Regolamento abbia preso in considerazione i sistemi di IA secondo un approccio risk-based, analogo a quello seguito per la sicurezza dei prodotti pericolosi”.
[51] Non si può, infatti, negare che in taluni casi, da ritenersi eccezionali, la disciplina del Regolamento si estenda anche a particolari usi dell’intelligenza artificiale. L’ipotesi emblematica è quella dell’identificazione biometrica rispetto alla quale le intenzioni del legislatore europeo sono rese esplicite nel Considerando 39 (“È opportuno subordinare ogni uso di un sistema di identificazione biometrica remota «in tempo reale» in spazi accessibili al pubblico a fini di attività di contrasto a un'autorizzazione esplicita e specifica da parte di un'autorità giudiziaria o di un'autorità amministrativa indipendente di uno Stato membro la cui decisione sia vincolante”).
[52] Di questa opinione è B. Marchetti, Intelligenza artificiale, poteri pubblici e rule of law, cit., la quale osserva che l’effetto del Regolamento “non è solo quello di regolare il mercato comune stabilendo le condizioni in presenza delle quali i sistemi di IA, come prodotti, possono circolare ma anche l’uso che ne fanno le amministrazioni, individuando scopi proibiti e consentiti, settori di impiego e garanzie degli interessati. Così facendo l’Unione disciplina, dunque, il modo in cui il potere pubblico usa l’IA definendo diritti e garanzie dei privati di fronte ad esso”.
[53]A. G. Orofino, Tra obiettivi perseguiti e problemi irrisolti: l’impatto dell’IA Act sull’assetto regolatorio dell’informatica pubblica, cit.; La sua non esaustività emerge, peraltro, dalla circostanza che, come nota C. Burelli Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, cit., 245, l’AI Act “affida ampiamente alle future misure di attuazione della Commissione europea, che è incaricata, da un lato, di dettagliare e specificare alcuni aspetti della disciplina e, dall’altro lato e soprattutto, di aggiornarla e rinnovarla sulla base della fisiologica evoluzione tecnologica” attraverso sia “l’adozione di atti delegati (ad esempio, per aggiungere criteri di classificazione dei modelli di IA per finalità generali come modelli che presentano rischi sistemici, come disposto dall’art. 51)” che “di atti esecutivi (ad esempio, secondo l’art. 50, per approvare o specificare eventuali codici di buone pratiche a livello UE per facilitare l’efficace attuazione degli obblighi relativi alla rilevazione e all’etichettatura dei contenuti generati o manipolati artificialmente) da adottarsi ex artt. 290 e 291 TFUE”.
[54] Così C. Burelli Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, cit., 260, laddove si osserva che “l’uso del regolamento da parte del legislatore UE indurrebbe a ritenere che il grado di armonizzazione richiesto dall’AIA sia, a ben vedere, massimo […] Eppure, come si è visto, il tenore del regolamento non è eccessivamente prescrittivo e svariati spazi d’azione sono lasciati agli Stati membri, con ciò potendosi affermare che il grado di armonizzazione, se non propriamente minimo, non sia in senso stretto nemmeno massimo”. La stessa Autrice (C. Burelli, Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, cit., 250), soggiunge come l’AI Act, “lasci, su più di un fronte, un indiscusso potere discrezionale a favore degli Stati membri, che, da questo punto di vista, hanno dinnanzi a sé un atto che, per certi versi, somiglia più a una direttiva che non a un regolamento in senso stesso, per sua natura idoneo a regolare direttamente
e immediatamente (tutti) i rapporti giudici ad esso sottoposti” sicché “La sensazione è che, lungi dall’essere autosufficienti, alcune di queste norme si avvicinino, talvolta, più che altro a dei «programmi di legislazione» e, in fondo, il largo affidamento agli atti delegati e di esecuzione della Commissione, così come all’ulteriore intervento legislativo o amministrativo da parte degli Stati membri, sembra dimostrarlo”. Perviene ad analoghe conclusioni M. Inglese, Il regolamento sull’intelligenza artificiale come atto per il completamento e il buon funzionamento del mercato interno?, cit., 85, rilevando che “complessivamente inteso, l’approccio del legislatore [...] pare voler superare la rigida distinzione tra armonizzazione minima e massima in favore di un approccio maggiormente pragmatico, probabilmente dettato dall’ambito specifico oggetto di intervento normativo”.
[55] In termini C. Burelli, Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, cit., 246, che aggiunge, in proposito, che “Anche nella relazione di accompagnamento della proposta di regolamento presentata dalla Commissione, era scritto che «le disposizioni del regolamento non sono eccessivamente prescrittive e lasciano spazio a diversi livelli di azione da parte degli Stati membri in relazione ad aspetti che non pregiudicano il conseguimento degli obiettivi dell’iniziativa»” (relazione di accompagnamento alla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale e modifica alcuni atti legislativi dell’Unione, Bruxelles, 21 aprile 2021, COM (2021) 206final, spec. punto 2.4).
[56] A. G. Orofino, Tra obiettivi perseguiti e problemi irrisolti: l’impatto dell’IA Act sull’assetto regolatorio dell’informatica pubblica, cit..
[57] Come osservato da O. Mir Puigpelat, The impact of the AI Act o public authorities and on administrative procedures, cit., 249, When the debate on the suitability of adopting a European codification of administrative procedure to be observed by all national administrations when implementing Union law has arisen, significant doubts have been raised about EU competence, arguing that this would infringe the so-called institutional and procedural autonomy of the Member States, and it has been considered more prudent to limit such a codification to the procedures of the Union administration, which has the solid legal basis provided by Art. 298 TFEU. In the same vein, Art. 41 of the Charter only applies directly to the EU administration, even though the CJEU has extended the principle of good administration that emerges from it to national administrations as well. It would not make much sense that, against this background, the EU legislator would and could deprive the Member States of their competence to shape the administrative procedure to be observed by their public authorities by means of a piece of legislation such as the AI Act, which is limited to regulating a certain type of
Software”. Del resto, come notato da D.U. Galetta, L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea: Paradise Lost? Studio sulla cd. autonomia procedurale ovvero sulla competenza procedurale funzionalizzata, Torino, 2009, 2, e passim, “la nozione comunitaria di diritto procedurale è assai più ampia di quello che noi siamo tradizionalmente abituato a considerare come tale. Poiché essa include anche previsioni che, nel nostro schema mentale «di diritto nazionale», noi identificheremmo come di diritto sostanziale: ma che in una prospettiva comunitaria, rientrano, invece, nella nozione ampia di «diritto procedurale», nella misura in cui si riferiscono a strumenti giuridici idonei a sanzionare il rispetto del diritto comunitario”.
[58] Sul fenomeno, in generale, della “integrazione amministrativa” a livello unionale si vedano, a livello manualistico, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, M. P. Chiti, La pubblica amministrazione, in Diritto amministrativo europeo, 2018, 197, a cura di M. P. Chiti; H. Caroli Casavola, L’amministrazione nazionale in funzione dell’Unione Europea, in Manuale di diritto amministrativo europeo, Torino, 2024, 117 e ss., a cura di S. Del Gatto – G. Vesperini,
[59] Così espressamente il Considerando n. 2 al Regolamento secondo cui “Il presente regolamento dovrebbe essere applicato conformemente ai valori dell'Unione sanciti dalla Carta agevolando la protezione delle persone fisiche, delle imprese, della democrazia e dello Stato di diritto e la protezione dell'ambiente, promuovendo nel contempo l'innovazione e l'occupazione e rendendo l'Unione un leader nell'adozione di un'IA affidabile”. In questo senso O. Mir Puigpelat, The impact of the AI Act o public authorities and on administrative procedures, cit., 247, secondo cui “AI Act establishes minimum guarantees concerning the use of AI systems by public authorities that cannot be reduced, but which can be increased by national legislators”.
[60] La “brutalità” (“brutality”) di cui parlano V. Papakonstantinou e P. de Hert, The Regulation of Digital Technologies in the EU Actification, GDPR Mimesis and EU Law Brutality at Play, in Technology and Regulation Journal , 2022.
[61] Cfr. C. Burelli, Il gold plating e l’armonizzazione “spontanea”, due tecniche a confronto, in Riv. It. dir.pubbl. com., 5-6, 2022, 621 e ss..
[62] C. Burelli, Prime brevi considerazioni sul “ddl intelligenza artificiale”: incompatibilità o inopportunità?, cit., 248, osserva che il Regolamento “fa financo salve due ipotesi di gold-plating «autorizzato» (autorizza espressamente, cioè, l’adottabilità di misure più stringenti rispetto a quelle di derivazione “comunitaria” e, quindi, per tale ragione, non è gold-plating in senso stretto): l’art. 5, par. 5, infatti, prevede che gli Stati membri possano introdurre, in conformità con il diritto UE, disposizioni più restrittive sull’uso dei sistemi di identificazione biometrica remota a posteriori; e anche l’art. 2, par. 11, non osta «a che gli Stati mantengano o introducano disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori in termini di tutela dei loro diritti in relazione all’uso dei sistemi di IA da parte dei datori di lavoro, o incoraggino o consentano l’applicazione di contratti collettivi più favorevoli ai lavoratori»”.
[63] Così sempre C. Burelli, Il gold plating e l’armonizzazione “spontanea”, due tecniche a confronto, cit., 623, che vede il legislatore nazionale che procede sulla strada della armonizzazione spontanea un legislatore “più realista del re” che mostra a una fedeltà maggiore di quella che gli è richiesta al diritto unionale. Ne è un esempio il settore del diritto della concorrenza
[64] Così O. Mir Puigpelat, The impact of the AI Act o public authorities and on administrative procedures, cit., 247, ad aviso del quale “The free movement of AI systems that meet the requirements of the AI Act does not prevent a national (or even regional) legislator […] To extend the requirements imposed by the AI Act on high-risk systems to other types of systems used by public authorities that do not merit such a classification according to Annex III” o anche “To add further requirements to the use of AI systems by public authorities”.
[65] Meccanismo che, tuttavia, come osservato supra sub nota 24, non si attaglia alle caratteristiche proprie del settore amministrativo e che, pertanto, non può costituire la soluzione alle lacune disciplinatorie poc’anzi segnalate.
[66] Si profila, inoltre, come segnalato da A. G. Orofino, Tra obiettivi perseguiti e problemi irrisolti: l’impatto dell’IA Act sull’assetto regolatorio dell’informatica pubblica, cit., il pericolo di un “recepimento frammentario” in grado di compromettere “l’efficacia del regolamento europeo”.
[67] Scettico sulla capacità che l’Ai Act sia in grado di innescare un nuovo “Brussels effect” nel campo della tutela dei diritti fondamentali è E. Cirone, L’AI Act e l’obiettivo (mancato?) di promuovere uno standard globale per la tutela dei diritti fondamentali, cit., 18, secondo cui “l’AI Act non sembra che rifletta le caratteristiche essenziali per essere considerato uno standard globale, proprio in virtù del (solo formalmente centrale) ruolo della protezione dei diritti fondamentali nell’intera struttura del regolamento”.
[68] In questa prospettiva assume primaria importanza il dibattito attorno alla cd. “doppia pregiudizialità” rinvigorito da ultimo con la presa di posizione espressa dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 181 del 2024 sul cui impatto si veda R. Mastroianni, La sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2024 in tema di rapporti tra ordinamenti, ovvero la scomparsa dell’articolo 11 della Costituzione, in Quaderni AISDUE, 1, 2025) e sul circuito della nomofilachia unionale, specie nel riflesso che lo stesso ha sulle funzioni interne (la co-giurisdizione che accompagna e guida la co-amministrazione secondo la riflessione di A. Barone, Giustizia comunitaria e funzioni interne, Bari, 2008, 19 e ss.).
[69] La potenza dell’immaginazione (anche per il giurista) è stata decantata da G. B. Vico, uno dei più grandi pensatori italiani, lungo tutta la sua opera per giungere a La scienza nuova, costituendo punto di contatto tra razionalismo e radici classiche.
[70] Specie se si tratta, come nel caso dell’art. 13 de d.d.l. di iniziativa governativa del 20 maggio 2024, di una disciplina di principio che, come tale necessita di una specificazione.
[71] In particolare mettendo, anzitutto, mano al suo art. 1 in materia di principi (inserendo tra questi anche quello di “non esclusività algoritmica” ovvero di “riserva di umanità”) nonché al successivo art. 3-bis (prevedendo un espresso riferimento all’intelligenza artificiale quale “strumento” dell’azione amministrativa della P.A.). Un altro intervento potrebbe riguardare gli artt. 6 e 10-bis prevedendo la necessità di un intervento umano (e, segnatamente, da parte del responsabile del procedimento, nella fase predecisoria di valutazione del materiale istruttorio - e, quindi, anche del risultato computazionale offerto dall’algoritmo - ovvero, nei procedimenti ad istanza di parte, di esame delle eventuali osservazioni presentate a seguito di preavviso di diniego). In ultimo sarebbe opportuno l’aggiornamento della disciplina in tema di accesso di cui agli artt. 22 e ss. allineandola, per quanto possibile ai principi già posti dall’art. 30 del nuovo Codice dei Contratti. Suggerisce un intervento normativo a novella della legislazione interna in tema di procedimento amministrativo anche A. Cerrillo i Martínez, El impacto del Reglamento de Inteligencia Artificial en las Administraciones públicas, cit., 104, ad avviso del quale “será necesario incorporar en la legislación de régimen jurídico y de procedimiento administrativo las normas en que se concreten los requisitos, las obligaciones y los procedimientos de las Administraciones públicas en tanto que proveedoras y responsables del despliegue de sistemas de IA”.
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Capita una sera di giugno, per caso, di ascoltare un concerto fuori dall’ordinario.
Di norma non è facile scrivere la recensione di un concerto, ma questo fa eccezione. Per chi non lo conoscesse - come me prima di oggi - Nano Stern è un cantautore quarantenne cileno della tradizione folk-jazz, dotato di una voce straordinaria, una capacità strumentale alla chitarra fuori dal comune e di una grande creatività e profondità nei testi. La grande Joan Baez (con la quale Nano ha duettato in diverse occasioni, tra le quali il concerto per il suo 75° compleanno) lo ha definito il miglior cantautore cileno della sua generazione.
Trovandosi a Roma in visita da amici, Nano ha tenuto il 20 giugno un concerto, ma invece di teatri affollati come quelli che troverà ad Amburgo, Stoccolma, Boston, in Spagna, in Cile e in molte altre sedi che toccherà con il suo prossimo tour, lo ha fatto nel piccolo circolo di Santa Libbirata, La Carretteria, al Pigneto, di fronte a un pubblico di una quarantina di persone - alcuni dei quali suoi amici - tra cui, per puro caso, ho avuto la fortuna di esserci anche io.
L'artista sale sul palco canticchiando scherzosamente senza microfono "lasciatemi cantare …" (il ritornello de L'Italiano vero di Toto Cotugno), per richiamare l’attenzione del pubblico. Ma è solo un attimo e la serata prende poi subito dopo tutt’altra direzione. In effetti, il concerto è subito coinvolgente grazie alla capacità dell’artista di mixare i suoi ritmi latini con la narrazione dei brani, spiegandone in lingua italiana la genesi ed il contenuto dei testi ed insegnando al pubblico prima dell’esecuzione i ritornelli da cantare poi insieme.
Durante una performance di più di due ore il cantautore ha interpretato molti suoi brani originali, ma anche canzoni popolari della nueva canciòn chilena resi popolari in Italia a partire dagli anni ’70 soprattutto per opera dal complesso degli Inti Illimani. Molti di questi brani sono del grande cantautore cileno Victor Jara, torturato ed assassinato durante la feroce dittatura di Pinochet, ma anche brani popolari cileni e del Perù andino in lingua quechua.
I testi, ancorché cantati in spagnolo, arrivano subito al cuore. Lo scaldano.
Ascoltiamo così una serie di brani di Victor Jara come il famoso “Te recuerdo Amanda” (Ti ricordo Amanda), conosciuta in italia grazie agli Inti Illimani ed eseguita anche da Francesco Guccini in una traduzione in italiano molto fedele al testo originale. È una composizione romantica e, al tempo stesso, un inno politico che racconta di due operai i quali devono sfruttare la breve pausa di cinque minuti durante il lavoro per potersi vedere. Di questo brano lo stesso Victor Jara nel suo ultimo concerto prima di essere assassinato disse: «parla dell’amore di due operai, di quelli che voi stessi vedete per strada, e a volte non vi rendete conto di ciò che esiste dentro la loro anima». Nano Stern ne dà una rilettura struggente e intensa, restituendo tutta la delicatezza e la dignità del sentimento raccontato. La sua interpretazione, profondamente rispettosa e vibrante, riesce a far rivivere non solo la melodia, ma lo spirito stesso di Victor Jara, un canto che è insieme denuncia e carezza, memoria e speranza.
Sempre di Jara esegue poi la canzone "El derecho de vivir en paz" (Il diritto di vivere in pace), uno dei brani maggiormente emblematici della Nueva Canción Chilena, un inno potente contro l'oppressione e a favore della dignità umana e della pace. Scritta a suo tempo come atto di solidarietà con il popolo vietnamita durante la guerra, è diventata nel tempo un simbolo di pace che Nano rende attualissimo nel momento che stiamo vivendo. E ancora altri brani di Jara come “El pimiento” (il peperone), “Luchín” (dal nome del piccolo Luchino, simbolo della tenerezza nascosta nella povertà e della necessità di una società più giusta) per concludere con “La partida” (La partenza) brano solo musicale, ma così potentemente struggente e malinconico da riuscire a trasmettere senza bisogno delle parole un senso di lontananza e di esilio: un inno poetico a una resistenza silenziosa.
Nano vuole dare anche un tributo alla canzone italiana e così, pur dichiarando il suo amore per Fabrizio De Andrè, nel corso della sua performance ci fa ascoltare un brano della tradizione seicentesca veneziana cantato in italiano, trasformato e reso attualissimo attraverso la sua chitarra e la sua possente voce.
Ma sono alcuni dei brani originali del cantautore che forse regalano le emozioni più grandi, che coinvolgono e commuovono maggiormente chi ascolta. Il messaggio arriva chiaro, anche se cantato in spagnolo. Tra questi “Inventemos un pais” (Inventiamo un paese), brano fusion tra folk, rock e ritmi latinoamericani, una sorta di Lennoniana “Imagine” in salsa latino-americana, ma forse meno utopica.
Segue il brano che il cantautore scrisse per la fine di un grande amore. Nano spiega che le canzoni d’amore si riconducono, di norma, a due paradigmi Beatlesiani: She loves you (l’amore felice) e Yesterday (l’amore infelice). Questo brano si pone invece in una posizione diversa: si può anche “festeggiare” con serenità la fine di un amore che non c’è più.
Ascoltiamo poi “Lagrimas de oro y plata” (Lacrime di oro e argento) un brano basato su una mitologia andina che narra del continuo inseguimento tra il sole e la luna che porta i due astri prima a lottare tra di loro, poi a pentirsi della loro violenza e quindi a piangere facendo piovere sulla terra argento (la luna) e oro (il sole). Il brano ricorda che dietro alle ricchezze c’è sempre la violenza e conclude che oro è argento non ripagano mai il dolore che li ha prodotti.
C’è anche lo spazio per un brano un brano dedicato al tema dell’immigrazione: “Festejo de color” (Festa di colori) che racconta la forza della memoria e la dignità del migrante: «Sei arrivato da un’altra terra, lasciando indietro una vita, partendo senza un addio, in fuga da una guerra… ti do il benvenuto con affetto e fervore. Che le nostre voci si uniscano per dare vita a una canzone».
Con “Aùn creo en la beleza” (Ancora credo nella bellezza) - che richiama la delectatio victrix di Agostiniana memoria - Stern dichiara la sua fede ottimistica nella bellezza, intesa non solo come estetica, ma anche come etica, speranza e forza rigeneratrice, e nell’importanza dei piccoli gesti: «credo nelle cose sacre: il sole, la natura e tra tanta bruttezza, credo ancora nella bellezza!». “Un gran regalo”, infine, è di nuovo un ottimistico piccolo-grande inno alla resilienza emotiva, alla forza della connessione umana e alla gratitudine: «Molte volte mi sento triste, non trovo più il senso per andare avanti quando tutto spinge indietro. E guardo verso il cielo e non vedo la luce, e tocco la terra e non sento il calore, e arriva un amico e mi fa ricordare che la vita è un grande regalo». Il pubblico canta il ritornello dapprima senza pensarci troppo sù, poi con più entusiasmo la seconda volta, poi sempre con più convinzione tutte le volte successive nella quali l’artista invita a ripeterlo. Le parole toccano dentro. Ripeterle invita a riflettere su sè stessi. Qualcuno ha gli occhi lucidi e, con discrezione, asciuga una lacrima di commozione.
Il concerto si avvia così alla fine, ma il pubblico, trascinato dall’entusiasmo e dalla magia ancora viva nell’aria, a gran voce richiede il bis. Il primo è un virtuosismo alla chitarra e al flauto andino. Per il secondo Nano richiama sul palco la support band che aveva aperto il concerto (il gruppo di virtuosi strumentisti Latin Tram Quartet) ed esegue una rilettura in ritmo bossa-nova del brano “Todo cambia” dell’attivista e cantautrice argentina Mercedes Sosa.
Si chiude con Nano che si commiata dal pubblico riassumendo in tre punti la sua filosofia: cantare rende felici, cantare insieme ad altri rende ancora più felici, ma cantare le cose vere della vita è ancora meglio.
Si esce e il bicchiere di birra consumata scambiando due chiacchiere con Nano sembra avere un sapore diverso. Si torna a casa con un senso di leggerezza e di ottimismo, e anche di gratitudine, come se si fosse respirata un’aria più limpida nonostante la canicola romana.
Restano impresse e tornano alla mente le parole più belle, quelle che spesso dimentichiamo, ma che almeno una volta abbiamo sperimentato come vere: «La vita è un dono grande».
Reseña del concierto de Nano Stern, Roma, 20 de junio de 2025 (traduzione in spagnolo di Federico Bonadonna)
A veces, una noche de junio, por casualidad, se tiene la suerte de escuchar un concierto fuera de lo común.
Normalmente no es fácil escribir la reseña de un concierto, pero este es una excepción. Para quien no lo conociera —como yo antes de hoy— Nano Stern es un cantautor chileno de unos cuarenta años, proveniente de la tradición folk-jazz, dotado de una voz extraordinaria, una capacidad instrumental a la guitarra fuera de lo común y una gran creatividad y profundidad en sus letras. La gran Joan Baez (con quien Nano ha cantado en varias ocasiones, incluyendo el concierto por su 75º cumpleaños) lo ha definido como el mejor cantautor chileno de su generación.
De paso por Roma para visitar a unos amigos, Nano ofreció un concierto el 20 de junio. Pero en lugar de presentarse en teatros abarrotados como los que encontrará en Hamburgo, Estocolmo, Boston, España, Chile y muchas otras ciudades que recorrerá en su próxima gira, lo hizo en el pequeño centro cultural Santa Libbirata, La Carretteria, en el barrio de Pigneto, frente a un público de unas cuarenta personas —algunos de ellos amigos suyos— entre los cuales, por pura casualidad, tuve la fortuna de estar.
El artista sube al escenario tarareando en broma, sin micrófono, “Lasciatemi cantare…” de Toto Cutugno, para llamar la atención del público. Pero es solo un momento: enseguida la velada toma otro rumbo. De hecho, el concierto resulta envolvente desde el principio, gracias a la capacidad del artista de mezclar ritmos latinoamericanos con la narración de las canciones, explicando en italiano el origen y el contenido de las letras, e incluso enseñando los estribillos al público antes de interpretarlas, para que se cantaran juntos.
Durante más de dos horas de actuación, el cantautor interpretó muchas de sus composiciones originales, pero también canciones populares de la Nueva Canción Chilena, popularizadas en Italia desde los años 70 especialmente gracias al grupo Inti Illimani. Muchas de esas canciones son del gran cantautor chileno Víctor Jara, torturado y asesinado durante la feroz dictadura de Pinochet, así como también canciones populares de Chile y del Perú andino en lengua quechua.
Las letras, aunque cantadas en español, llegan directo al corazón. Lo calientan.
Así escuchamos una serie de temas de Víctor Jara como la célebre “Te recuerdo Amanda”, conocida en Italia gracias a los Inti Illimani y también interpretada por Francesco Guccini en una traducción italiana muy fiel al texto original. Es una composición romántica y, al mismo tiempo, un himno político que cuenta la historia de dos trabajadores que deben aprovechar una pausa de cinco minutos para poder verse. De esta canción, el propio Víctor Jara dijo en su último concierto antes de ser asesinado: “Habla del amor entre dos trabajadores, de esos que ustedes mismos ven por la calle, y a veces no se dan cuenta de lo que hay en sus almas”.
Nano Stern ofrece una versión intensa y conmovedora, que transmite toda la delicadeza y dignidad del sentimiento expresado. Su interpretación, profundamente respetuosa y vibrante, logra revivir no solo la melodía, sino el propio espíritu de Víctor Jara: un canto que es a la vez denuncia y caricia, memoria y esperanza.
Del mismo Jara interpreta luego la canción “El derecho de vivir en paz”, una de las más emblemáticas de la Nueva Canción Chilena, un himno poderoso contra la opresión y a favor de la dignidad humana y la paz. Escrita en su momento como un acto de solidaridad con el pueblo vietnamita durante la guerra, con el tiempo se ha convertido en símbolo de paz, y Nano la hace sonar muy actual, a la luz del momento que estamos viviendo.
Y aún más canciones de Jara como “El pimiento”, “Luchín” (inspirada en el pequeño Luchito, símbolo de la ternura escondida en la pobreza y de la necesidad de una sociedad más justa), hasta llegar a “La partida”, pieza puramente instrumental, pero tan profundamente conmovedora y melancólica que consigue transmitir, sin necesidad de palabras, una sensación de lejanía y exilio: un himno poético a la resistencia silenciosa.
Nano quiso rendir también un homenaje a la canción italiana y así, aunque declaró su amor por Fabrizio De André, durante su actuación interpretó una canción de la tradición veneciana del siglo XVII, cantada en italiano, transformada y llevada a la actualidad gracias a su guitarra y su poderosa voz.
Pero son algunas de las composiciones originales del cantautor las que quizás regalan las emociones más intensas, que más conmueven y envuelven al público. El mensaje llega claro, aunque esté cantado en español.
Entre ellas, “Inventemos un país”, tema fusión entre folk, rock y ritmos latinoamericanos, una especie de Imagine de Lennon en clave latinoamericana, aunque quizás menos utópica. Le sigue una canción que Nano escribió tras el fin de un gran amor. El cantautor explica que las canciones de amor suelen encajar en dos paradigmas beatlemaníacos: She loves you (el amor feliz) y Yesterday (el amor infeliz). Esta canción, en cambio, se sitúa en un punto intermedio: también se puede “celebrar” con serenidad el fin de un amor que ya no está.
Escuchamos luego “Lágrimas de oro y plata”, canción basada en una mitología andina que narra la persecución continua entre el sol y la luna, quienes primero luchan entre sí, luego se arrepienten de su violencia y finalmente lloran, haciendo llover sobre la tierra plata (la luna) y oro (el sol). La canción recuerda que detrás de la riqueza siempre hay violencia y concluye que ni el oro ni la plata compensan el dolor que los generó.
Hay también espacio para un tema dedicado a la inmigración: “Festejo de color”, que narra la fuerza de la memoria y la dignidad del migrante:
“Llegaste desde otra tierra, dejando atrás una vida, partiendo sin despedida, huyendo de una guerra… Te doy la bienvenida con afecto y fervor. Que nuestras voces se unan para dar vida a una canción”.
Con “Aún creo en la belleza” —que recuerda a la delectatio victrix agustiniana— Stern declara su fe optimista en la belleza, entendida no solo como estética, sino también como ética, esperanza y fuerza regeneradora, y en la importancia de los pequeños gestos:
“Creo en las cosas sagradas: el sol, la naturaleza, y entre tanta fealdad, ¡aún creo en la belleza!”
“Un gran regalo”, por último, es nuevamente un pequeño-gran himno optimista a la resiliencia emocional, a la fuerza del vínculo humano y a la gratitud:
“Muchas veces me siento triste, ya no encuentro el sentido para seguir cuando todo empuja hacia atrás. Y miro al cielo y no veo la luz, y toco la tierra y no siento el calor, y llega un amigo y me hace recordar que la vida es un gran regalo”.
El público canta el estribillo al principio sin pensar demasiado, luego con más entusiasmo la segunda vez, y después con creciente convicción cada vez que el artista invita a repetirlo. Las palabras tocan el alma. Repetirlas lleva a la reflexión. Alguien tiene los ojos húmedos y, discretamente, se seca una lágrima de emoción.
Así se acerca el final del concierto, pero el público, contagiado por el entusiasmo y la magia aún viva en el aire, pide a gritos un bis. El primero es un despliegue de virtuosismo a la guitarra y a la flauta andina. Para el segundo, Nano invita nuevamente al escenario a la banda de apoyo que había abierto el concierto (el grupo de virtuosos instrumentistas Latin Tram Quartet) e interpreta una versión en ritmo bossa-nova de la canción “Todo cambia” de la activista y cantautora argentina Mercedes Sosa.
Nano se despide del público resumiendo su filosofía en tres puntos:
cantar hace feliz, cantar con otros hace aún más feliz, pero cantar las cosas verdaderas de la vida es aún mejor.
Uno sale del lugar y la cerveza compartida conversando con Nano tiene un sabor distinto. Se vuelve a casa con una sensación de ligereza, de optimismo, y también de gratitud, como si se hubiera respirado un aire más limpio a pesar del calor romano.
Quedan grabadas y regresan a la mente las palabras más bellas, esas que a menudo olvidamos, pero que al menos una vez hemos experimentado como verdaderas:
“La vida es un gran regalo.”
* La foto è stata scattata da Federico Bonadonna, scrittore e antropologo, autore, tra gli altri, del libro Sulle corde del tempo. Una storia degli Inti Illimanni (Jorge Coulon).
La giustizia penale internazionale è sempre stata vista come un complemento necessario dell’ordine mondiale nato dalla Seconda Guerra Mondiale, basato sul multilateralismo e sul rispetto dei principi della Rule of Law.
Lo Statuto di Roma fu quindi salutato come uno strumento fondamentale di enforcement di quei principi, reso via via più completo per l’estensione del catalogo dei delitti nelle attribuzioni del Tribunale Penale Internazionale (International Criminal Court – d’ora in poi ICC), fino alla recente previsione del crimine di aggressione.
La ICC in realtà è solo una delle articolazioni della Giustizia penale internazionale, dovendosi considerare anche i Tribunali instituiti su deliberazione delle Nazioni Unite, Tribunali ad Hoc, o tramite la cooperazione tra le NU e Stati nazionali.
Il carattere innovativo della ICC è però costituito dalla sua stabilità e universalità e dall’affermazione di principi ritenuti viventi nel diritto consuetudinario, come la imprescrittibilità, la non amnistiabilità, l’assenza di privilegi di immunità, espressione della necessità – anche questa ritenuta consuetudinariamente vivente nel diritto internazionale – che i più gravi crimini contro l’umanità o di guerra siano perseguiti e puniti.
Tuttavia, la non sottoscrizione del Trattato di Roma da parte di nazioni particolarmente importanti, quali gli Stati Uniti, la Cina e la Russia, hanno sin dall’inizio determinato gravi difficoltà, acuitesi in tempi recenti. Difficoltà moltiplicate dal fatto che i tre Paesi appena citati sono anche componenti di diritto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, organismo cui competono significativi poteri sulla base del Trattato.
Queste difficoltà possono ritenersi anche alla base delle critiche, rivolte spesso da Paesi del c.d. Sud del Mondo, alla Giustizia internazionale, vista come rivolta esclusivamente alle violazioni che accadono in tali aree, e sostanzialmente inefficace rispetto alle potenziali violazioni dei Paesi occidentali o delle grandi potenze.
Sono, a mio parere, due i fenomeni concomitanti e interrelati che hanno determinato l’attuale grande incertezza sulla ICC
Innanzitutto, la fine della impunità – almeno per il momento sotto il profilo procedimentale – delle grandi potenze, con le misure cautelari emesse a richieste del Procuratore (Office of The Prosecutor – d’ora in poi OTP) nei confronti del Capo dello Stato in carica della Russia (Valdimir Putin) e dei Governanti israeliani (Primo Ministro Netanyahu e il Ministro Gallant); nazioni entrambe non aderenti al Trattato di Roma.
In secondo e più ampio luogo, per via della crisi dell’ordine mondiale multilaterale, per il progressivo abbandono della partecipazione negli Organi della multilateralità e per il ricorso diretto alle armi per la risoluzione delle controversie, anche territoriali.
È arduo discutere del ruolo attuale della ICC e delle sue difficoltà, senza inquadrare l’uno e le altre nella più generale e risalente crisi delle Nazioni Unite (e ora anche di altri organi del multilateralismo, come l’OMS).
Le reazioni di Stati Uniti e Russia all’avvio delle indagini costituisce un punto davvero grave, senza precedenti, nel diritto internazionale. La reazione più grave è quella della Federazione Russa, che ha emesso un ordine di cattura nei confronti di giudici della ICC. Inoltre, l’adozione di misure, peraltro di particolare gravità, adottate anche con Ordine Esecutivo dal Presidente Trump (6 febbraio 2025), colpisce non solo chi ne è diretto bersaglio, il procuratore Khan, ma tutti coloro che forniscono in qualunque modo aiuto e sostegno alla ICC. Ciò ha già determinato significative dimissioni da parte di componenti della struttura della ICC, che hanno necessità di viaggiare negli Stati Uniti o che in essi vivono.
Già in passato, nel primo mandato presidenziale, Trump aveva emesso un EO di congelamento di beni e di restrizioni in accesso e nei viaggi, nei confronti della Procuratrice Fatou Bensouda, per accertamenti su violazioni asseritamente commesse da soldati statunitensi in Afghanistan, ordine poi revocato dal presidente Biden.
Si pone quindi con urgenza il tema di come realizzare efficacemente la tutela dei giudici, dei procuratori e della struttura organizzativa, come previsto dallo Statuto di Roma.
Dal punto di vista tecnico-interpretativo, due sono i quesiti principali, emergenti anche dall’ Executive Order appena menzionato.
Il primo riguarda le attribuzioni della ICC rispetto a Paesi che non sono parte del Trattato o a cittadini di tali Paesi. La questione è stata in passato ampiamente discussa dagli organi della giustizia penale internazionale. Essa può essere considerato un tema dell’approfondimento seminariale.
Sulla base dei provvedimenti della ICC e come possibile oggetto di discussione, segnalo i criteri applicati per affermare la giurisdizione internazionale nel conflitto israelo-palestinese, considerando che Israele non è Stato parte, mentre la Palestina (a sua volta non riconosciuta da tutti i contraenti) ha accettato tale giurisdizione:
1. Crimini commessi da cittadini di Stati parte o di cittadini di Stati non parte commessi nel territorio dei primi
2. Principio di complementarità ex art. 17 (la giurisdizione nazionale prevale solo se non vi è difetto di volontà o capacità di perseguire i crimini)
3. Conflitto internazionale armato (Israele – Palestina) in parallelo a conflitto armato non internazionale (Israele – Hamas)
La questione della immunità dei Capi di Stato o di governo è anch’essa centrale, non solo per via del rifiuto della Mongolia di eseguire la misura nei confronti di Putin, ma perché costituisce un nodo fondamentale circa l’effettività dell’azione della giustizia, mentre sono in corso le condotte illecite.
Oggetto della discussione seminariale potrebbe essere quindi il rapporto tra l’art. 27, comma 2, del Trattato, che espressamente esclude l’immunità per i crimini previsti dal Trattato, e l’art. 98, che sembrerebbe prevedere un’eccezione quando ciò comporterebbe per lo Stato richiesto di agire inconsistently with its obligations under international law with respect to the State or diplomatic immunity”.
Anche su tale questione vi sono pronunce risalenti della Camera d’Appello della ICC.
Entrambe le questioni si sono poi intersecate con quella relativa all’esercizio del potere di azione. Questo è attribuito sia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che al OTP. In quest’ultimo caso emerge il tema dei criteri cui l’ufficio deve attenersi e degli strumenti volti ad assicurarne l’imparzialità.
Il punto è centrale. Ad esempio, esso è emerso a proposito della contestualità dell’azione sia nei confronti di Hamas, pur essendo evidenti le responsabilità dell’organizzazione e dei suoi capi sin dal giorno dopo gli attacchi del 7 ottobre, così come evidente la violazione di plurime fattispecie di delitti contro l’umanità e di guerra, e di Israele, le cui condotte furono successive e pongono – almeno per alcune – questioni circa l’uso da parte di Hamas di ostaggi e di strutture civili a protezione di strutture militari.
I meccanismi di selezione del Prosecutor e dello staff e di successive garanzie di stabilità, sono tali da assicurare, oltre alla professionalità, anche l’indipendenza?
L’art. 53 dello Statuto prevede criteri per l’attivazione delle investigazioni e per i casi di non esercizio dell’azione; questa previsione è poi dettagliata nelle Regulations of the Office of the Prosecutors, in particolare 29 e ss.
Oltre al controllo da parte della Sezione istruttoria della ICC (Pre-trial Chamber) sia per l’autorizzazione alle indagini sia per alcuni casi di dismissione, quali sono le misure in genere adottate? I criteri predeterminati sopra menzionati sono risultati efficaci? Le decisioni sono gerarchiche o hanno profili formalizzati di collegialità (come nel caso di EPPO)?
La ICC non dispone di proprie strutture di polizia giudiziaria, cosicché deve rivolgersi per le attività di indagine e per l’esecuzione dei propri provvedimenti, agli Stati nazionali, che sono obbligati a collaborare sulla base delle previsioni del Trattato.
Gli Stati devono, di conseguenza, adeguare la propria normativa interna per rendere possibile la più efficace delle cooperazioni.
Questo deve avvenire innanzitutto dal punto di vista sostanziale, adeguando le previsioni interne dei delitti punibili e le statuizioni sostanziali a ciò correlate (imprescrittibilità, ecc.). Anche se da un eventuale mancanza di adeguamento non deriverebbero ostacoli, trattandosi di delitti e di previsioni discendenti direttamente dal diritto internazionale, la chiara previsione dei delitti agevolerebbe la cooperazione e consentirebbe casi di diretto esercizio nazionale della giurisdizione, quando ne ricorrano i presupposti.
L’Italia ha istituito una Commissione (Commissione Palazzo - Pocar) che ha redatto un testo di possibili interventi, nel 2023 recepito in parte in uno schema di disegno di legge governativo, mai presentato in Parlamento. L’articolato della Commissione contiene molti spunti di interesse, anche al fine della interpretazione di alcune delle questioni discusse innanzi. Ad esempio, l’art. 7 comma 2, espressamente riconosce che l’immunità dei Capi di Stato non può essere opposta alla ICC (“…. fatti salvi gli obblighi di cooperazione con la Corte penale internazionale previsti dalla legge 20 dicembre 2012 n. 237 e con gli altri tribunali penali internazionali eventualmente competenti”), mentre l’art. 16 prevede che nessuno dei crimini sia prescrittibile.
Utile anche la definizione dei crimini di genocidio (declinati secondo le diverse ipotesi, risultanti dall’esperienza degli anni del dopoguerra), contro l’umanità e di guerra (anche questi ultimi dettagliatamente descritti, anche se non del tutto coincidenti con l’estensione recente nel diritto internazionale a forme di guerra e all’utilizzo di strumenti specifici). Particolarmente importante sembra la previsione e l’espressa indicazione degli elementi costitutivi del delitto di aggressione, in attuazione dell’art. 8 bis dello Statuto, previsione adottata nel 2010 e divenuta operativa nel 2018. Tale crimine, nello Statuto di Roma, come emendato, prevede una serie di garanzie aggiuntive coinvolgenti il Consiglio di Sicurezza delle UN, agli artt. 15 bis e ter.
Potrà costituire punto di discussione nell’incontro la completezza e adeguatezza dell’articolato, così come le ragioni per le quali il testo governativo è stato nella sostanza ritirato. Si intende procedere sulla strada dell’adeguamento o – in caso negativo – quali sono le prospettive alternative per recepire le indicazioni pattizie?
In conclusione, dovremmo interrogarci sulla adeguatezza dal punto di vista delle previsioni sostanziali della disciplina nazionale.
Certamente più rilevante è il tema procedurale. Al di là dei casi singoli, questo tema è da tempo oggetto sia della riflessione scientifica che del contenzioso nella ICC.
Il punto centrale è costituito dalle intrinseche caratteristiche della giurisdizione penale internazionale, che esercita un’attribuzione sovranazionale originaria e che dunque non segue strettamente le norme sulla cooperazione giudiziaria (gli Stati parte sono obbligati a fornire cooperazione piena e non valgono gli ordinari criteri di limitazione, ad esempio circa il carattere “politico” del crimine) o quelle sulla estradizione per la consegna.
Ciò porta a interrogarsi sui limiti del sindacato che può essere esercitato dagli Stati nazionali sulla legittimità e fondatezza delle richieste di assistenza o di consegna, ai sensi degli artt. 58 e 59 dello Statuto (quest’ultimo recita It shall not be open to the competent authority of the custodial State to consider whether the warrant of arrest was properly issued in accordance with article 58, paragraph 1 (a) and (b).).
Margini che, anche sulla base della giurisprudenza delle Corti, sono assai ristretti e soprattutto dovrebbero portare non al rifiuto di collaborazione ma all’interlocuzione con la ICC, cui dovrebbe spettare la decisione finale.
In questo contesto, il ruolo della valutazione politica appare essere del tutto ridotto. Anche l’esercizio dei poteri derivanti dalla tutela della sicurezza nazionale appare contenuto nella disciplina richiamata.
Qual è dunque il ruolo rispettivo dell’autorità politica (il Ministro della Giustizia, cui compete l’interlocuzione con la Corte), di quella giudiziaria nazionale e della ICC?
Quello della effettiva cooperazione degli Stati nazionali è problema che condiziona significativamente la ICC.
Nel periodo 2019 – 2020 solo il 58% delle richieste ha avuto risposta positiva. Nel periodo 2022-2023 questa percentuale è calata al 38.5% (dati estratti dal documento della IBA, Strengthening the International Criminal Court and the Rome Statute System: A Guide for States Parties Second Edition, Ottobre 2024).
In caso di mancata cooperazione, il rimedio della segnalazione all’Assemblea degli Stati parte può considerarsi effettivo? Quali sono stati gli esiti dei casi di devoluzione all’Assemblea? Esistono altri strumenti di sanzione o coercizione degli Stati nazionali?
*La Fondazione Vittorio Occorsio organizza, con Taobuk, nell’ambito del Festival 2025, un incontro cui partecipano il giudice Rosario Aitala, primo vicepresidente della Corte penale internazionale, il Viceministro Francesco Paolo Sisto, l’on.le Luciano Violante, già presidente della Camera dei Deputati, e Nicoletta Parisi, professoressa di diritto internazionale. L’incontro sarà presentato da Vittorio Occorsio e coordinato da Giovanni Salvi.
Obiettivo dell’incontro è mettere a fuoco i problemi che la transizione verso un ordine mondiale diverso da quello che ha retto il mondo dal 1945 determina per la Giustizia penale, emersi con drammatica evidenza negli ultimi anni, soprattutto a causa dei conflitti in Ucraina e in Palestina. L’approccio prescinderà dall’esame delle singole vicende per cercare di individuare le possibili prospettive.
Sommario: 1. Si riaccende la “polemica” sul contributo di Piero Calamandrei al codice di procedura civile del 1940. – 2. Colloquiano studiosi e processualisti. – 3. Il tema discìvelato: i poteri del giudice.
1. Si riaccende la “polemica” sul contributo di Piero Calamandrei al codice di procedura civile del 1940
Occupandosi della storia del diritto processuale civile nel Novecento italiano, è fatale imbattersi nel lungo e densissimo processo di lettura di Piero Calamandrei – inteso come personaggio pubblico – e delle sue opere, dottrinali e “legislative”.
Ci si potrebbe dunque chiedere perché ora uno storico del diritto intenda ripensare questo processo noto, e più volte commentato, e ritenere di poter dare un qualche nuovo contributo di conoscenza.
Forse, una domanda ancora da porsi è non tanto cosa sia stato scritto su Calamandrei o chi abbia scritto cosa, ma perché un certo studioso, in un determinato momento, abbia sentito la necessità di formulare un giudizio, trarre una conclusione, correggere un'immagine; oppure se questa lunga riflessione non sia servita (anche) a parlare di qualcos'altro, meno evidente rispetto alla formidabile vicenda storica del codice di procedura civile del 1940.
Lo spunto l'ho trovato nella rinascita di una discussione che aveva preso le mosse pochi anni dopo l'emanazione del codice di procedura civile del 1940. Questa iniziale discussione fu una vera e propria polemica sulla natura del contributo calamandreiano al codice e, dunque, sul suo “vero” orientamento politico[1].
Stavolta sul palco, assieme a Calamandrei convitato di pietra, ci sono Michele Taruffo, Franco Cipriani e Giulio Cianferotti.
È il 2009, e sulle pagine delle due più antiche e prestigiose riviste italiane di diritto processuale civile si (ri)accende una serrata discussione.
Tutto parte da un lavoro di Girolamo Monteleone, Intorno al concetto di verità “materiale” o “oggettiva” nel processo civile[2].
Si tratta di un articolo in cui l'autore riflette sul fatto che concetti appartenuti, o dati per esclusivamente appartenuti, ad ordinamenti giuridici “defunti”, come quello della DDR, non siano poi così esotici, anche in paesi di (ora) indiscussa matrice democratica, come il nostro.
Per portare a termine questa comparazione, Monteleone sceglie la teoria processualistica per come illustrata, a suo dire, da Calamandrei e da Carnacini e quella del Kellner, commentatore dell'Ordinanza della procedura civile, emanata nel 1975 nella Repubblica democratica tedesca[3].
Ebbene, a parere dell'autore, “le analogie sono impressionanti. I capisaldi teorici sono identici: l'accertamento della verità materiale, il giudice attivo dotato di ampi ed insindacabili poteri, la funzione dell'avvocato, la collaborazione tra parti e giudice, oralità-immediatezza-concentrazione, ecc.”[4].
Questa “impressionante analogia” avrebbe poi trovato soluzione con il disfacimento, da un lato, della DDR e, dall'altro, con l'entrata in vigore della nostra Costituzione.
Nelle tredici pagine del lavoro di Monteleone, Michele Taruffo viene citato una volta sola, peraltro in nota, con il suo articolo Poteri istruttori del giudice e delle parti in Europa, apparso nel 2006 sulla “Trimestrale”, assieme a quello di Chiarloni, Il presente come storia: dai codici di procedura civile sardi alle recentissime riforme e proposte di riforma, sempre sulla “Trimestrale” del 2004[5].
Se alle figure di Calamandrei e Carnacini viene tributato l'omaggio dovuto a due maestri della processualistica[6], pur velatamente “accusati” di aver traghettato nel codice del 1940 il concetto di interesse pubblico, nella citazione di Taruffo e Chiarloni sembra nascondersi un vero bersaglio, anche se diverso da quello che ci si potrebbe immaginare.
Si comincia a sospettare, in effetti, che si parli dei padri nobili per alludere a questioni concrete, molto meno storiche ed assai più tecniche.
Comunque, a distanza di pochi mesi, sempre sulla “Trimestrale”, Michele Taruffo pubblica un severissimo commento al lavoro di Monteleone, sferzando con caustica ironia sia lo studioso che le idee[7].
Torneremo più avanti sul contributo di Taruffo.
Continuiamo invece a svolgere la catena degli eventi, oramai inarrestabile.
A stretto giro, sulla rivista da lui co-fondata, appare la risposta di Cipriani[8] che pure, stimolato da Taruffo, evoca un lavoro di Giulio Cianferotti[9].
Orbene, i contendenti (Monteleone, Taruffo, Cipriani) rimangono presto in due, visto che “l'iniziatore” della polemica, Monteleone, dopo aver inviato alla “Trimestrale” una stringata replica sulle “idee confuse del Prof. Taruffo”[10], tace.
La circostanza veramente interessante è che Taruffo, rispolverando la “trita polemica” sul “Calamandrei fascista o collaboratore del fascismo”[11] ne attribuisce la paternità a Franco Cipriani e non, come sarebbe stato legittimo attendersi, anche a Giovanni Tarello.
In questo senso abbiamo parlato di una continuazione dell'originario dibattito, intendendo una parziale (forse soltanto apparente) sostituzione di uno dei primi protagonisti con un altro.
Per quale ragione Taruffo evoca il giudizio di Franco Cipriani quando, come si sa, la questione del Calamandrei “fascista” e del codice “autoritario” è inizialmente frutto della riflessione tarelliana[12]?
Nel suo notissimo lavoro del 1977[13] Tarello imputò a Calamandrei un “ambiguo relativismo”, l'essere stato cioè un antifascista (in nessun luogo troviamo diversa affermazione), fautore però di una politica del diritto più o meno direttamente mutuata da Chiovenda e, dunque, autoritaria[14].
Più precisamente, Tarello legge il lavoro di Calamandrei dedicato alla relatività del concetto di azione e giunge ad individuare “l'operazione politica” condotta dal giurista in questi termini: “gli ordinamenti in cui più si è andati innanzi nella distruzione del diritto privato e nella lotta al diritto soggettivo, insinua Calamandrei, sono due: quello germanico nazista e quello sovietico: là le nuove concettualizzazioni dell'azione sono dunque idonee come strumenti di interpretazione e descrizione dell'intero ordinamento e della sua parte quantitativamente prevalente. In Italia, invece, l'autorità dello Stato si afferma come autorità della legge: perciò la concettualizzazione di Chiovenda non solo rispecchia di fatto, quantitativamente, gli aspetti prevalenti dell'ordinamento, ma deve anche presiedere alla riforma e alla sua interpretazione”[15].
Nel 1973, nel primo numero dei “Materiali”, Tarello aveva già dedicato un lungo contributo alla figura di Chiovenda[16].
Se ne ricava un'impressione difficile da decifrare: da un lato, Chiovenda è senz'altro dipinto come l'anima antica del codice di procedura civile fascista[17]; dall'altro, è visto come il più feroce guardiano della supremazia della legge[18], della legalità, anche lui “assillato dalla legalità”, come più tardi sarà il suo allievo Calamandrei.
È stato forse Paolo Grossi, in un contributo uscito sempre nel 2009, a restituire al meglio la fede profondissima di Calamandrei nella legge[19]; qui vale la pena riportare un passaggio che ci aiuterà poi a dipanare la nostra vicenda: “egli [Calamandrei] è legalista anche perché gli fanno orrore le vicine esperienze europee totalitarie, la nazista e la sovietica, dove si ben oltre gli orientamenti del 'diritto libero' di marca kantorowicziana e dove il giudice, soltanto perché ferreamente aderente alla ideologia dominante, può permettersi un arbitrio pressoché illimitato. Calamandrei ritorna parecchie volte sul punto, facendo continui riferimenti alla Germania nazional-socialista e alla Russia sovietica, spettri da esorcizzare percorrendo una strada protetta dagli argini alti di un rigido legalismo”[20].
2. Colloquiano storici e procesualisti
Evidentemente, c'è qualcosa che non torna.
Abbiamo visto Monteleone giudicare Calamandrei come uno dei forgiatori dell'idea di giudice occhiuto e senza limiti, che facilmente può scavalcare le maglie del codice per cercare la verità anche oltre le allegazioni di parte.
Tarello invece scinde nel pensiero calamandreiano la paura dei regimi totalitari e la necessaria vocazione chiovendiana del nostro codice di procedura, baluardo (fascista?) della legalità.
Grossi trova uno dei motivi forti del legalismo di Calamandrei proprio nella volontà di prendere le distanze dalle derive del nazismo e del socialismo reale.
Riprendiamo allora, forti di questi primi indizi, il tagliente commento che Taruffo indirizza a Monteleone ed in cui si trova, ma altri ne troveremo, un'impressionante moltiplicazione di aggettivi, quasi il “cumulo aggettivale” di cui si ricorda come maestro William Faulkner[21].
Ecco dunque che Taruffo e Chiarloni sono “pericolosi eversori antidemocratici”[22]; l'accusa di fascismo, mossa a Calamandrei è (con le parole di Galante Garrone) “inconsistente, stolida e malvagia”[23]; l'iniziativa di far pubblicare in Italia I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo di Mirjan Damaška è “surrettiziamente eversiva”[24]; e viene citato Giulio Cianferotti, “uno storico serio e documentato e non mosso da pregiudizi ideologici”[25].
Il confronto tra Calamandrei, Carnacini, Taruffo, Galante Garrone, Cianferotti, Damaška, da una parte, e Monteleone dall'altra, assomiglia molto ad una crociata, in cui le forze del “bene”, sotto l'egida di un santificato Calamandrei, sfidano le forze del “male”, negatrici di una versione storica che appare dibattuta ma che, in fin dei conti, tale non dovrebbe essere.
Eppure Taruffo sceglie di chiamare in soccorso il quasi coevo lavoro di Cianferotti, lo storico “serio e documentato e non mosso da pregiudizi ideologici”.
Come dire che lo storico mosso da pregiudizi ideologici non è né serio né documentato il che, temiamo, sia conclusione un po' frettolosa.
Non vogliamo qui entrare in vicende complesse, che ci porterebbero ben fuori dalla rotta che ci siamo prefissati; dobbiamo però tenere a mente che Taruffo invoca il lavoro di Cianferotti non solo perché poggia su solide basi di ricerca ma anche perché è concepito da un autore “immune dal pregiudizio ideologico”.
Floriana Colao, nel suo contributo dedicato alla “vigilia” dell'entrata in vigore del codice di procedura civile, notava però che “la polarità tra autoritarismo e liberalismo come 'ideologie' del processo civile non sembra dunque una chiave di lettura appagante per leggere il pensiero di Calamandrei […]. Dal 1920 la mediazione tra interesse individuale e pubblico, autonomia privata e poteri del giudice, segnava l'impegno di Calamandrei nel processo riformatore approdato al codice del 1940”[26].
Il contributo di Taruffo gioca invece tutto sulla polarità (“fascisti”/”comunisti”; “buoni”/“cattivi”; “eversori”/“conservatori”) ma, per “segnare il punto”, chiama in aiuto lo studioso “non mosso da pregiudizi ideologici”.
Leggiamo allora, con le parole di Taruffo, il contributo di Giulio Cianferotti: “[l'autore] illustra una tesi di fondo perfettamente condivisibile, secondo la quale Calamandrei non solo non fu interprete di una ideologia fascista del processo civile (ideologia che – aggiungo io – non esisteva neppure), ma operò nel senso di evitare che il codice seguisse la deriva dell'ideologia nazista che – quella sì – implicava la violazione dei principi fondamentali dello Stato di diritto”[27].
Cianferotti ricostruisce il rapporto tra Calamandrei ed il codice di procedura partendo dalla “cronaca martellante” che il giurista tiene degli “attacchi che si succedevano al principio di legalità” e della “crisi dell'ordinamento giuridico contemporaneo, e di quel concetto di diritto soggettivo, che finora ne costituiva il pilastro centrale ed ora era oggetto della aperta guerra mossa dalla dottrina e dalle riforme del processo civile nella Germania nazionalsocialista e nella Russia sovietica”[28]; da questa preoccupazione, con lo sguardo volto al “pauroso orizzonte d'Oltralpe”[29], Calamandrei trae la forza per condurre “una battaglia di posizione, di difesa statica dei principi dello Stato di diritto”[30].
Secondo Cianferotti, dunque, “la tesi storiografica delle 'cattive azioni' di Calamandrei, dell'ambiguità 'dei suoi atteggiamenti culturali e dei suoi ruoli istituzionali', della sua presunta riduzione del principio di legalità, della 'autorità della legge', ad affermazione della 'autorità dello Stato', di aver partecipato alla redazione di un 'codice illiberale e autoritario' e averne scritto la Relazione ministeriale, troppo 'sfacciatamente fascista', 'dichiaratamente ed ostentatamente fascista', 'fascistissima', non pare considerare quella particolare tecnica letteraria […] 'in cui la verità sulle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe'; non pare tenere conto dei diversi livelli di senso che quella scrittura cela e disvela ad un tempo”[31].
A questo punto, dobbiamo introdurre l'ultimo studioso in gioco, ossia Franco Cipriani, considerato da Taruffo l'agitatore della polemica sul “Calamandrei fascista”.
Cipriani, nel suo intervento, si confronta molto garbatamente con Cianferotti, in parte condividendo, in parte criticando la “nuova interpretazione di Calamandrei”.
Il discorso, ovviamente, riserva considerazioni ben più caustiche all'indirizzo di Taruffo.
Cipriani tiene soprattutto a precisare di non aver mai considerato Calamandrei un fascista ma di aver semmai sostenuto che questi collaborò con il fascismo[32], collaborò alla stesura di un codice dal carattere “illiberale e autoritario”, disseminato di criticabili istituti[33] che, peraltro, nemmeno il passaggio ad uno Stato costituzionale sembra riuscito ad eliminare[34].
L'interpretazione di Cianferotti, sottolineando, secondo Cipriani, che “nel 1939-40 ci si trovava in una dittatura, di fronte alla quale Calamandrei dovette fare non poche piroette”, corrobora la sua idea: “io sto dicendo e ridicendo che Calamandrei collaborò con Grandi nel varare un codice illiberale e autoritario, ma ho sempre precisato che egli non poteva certo permettersi di rifiutare di collaborare e che il carattere illiberale e autoritario del codice non fu certo voluto o deciso da lui. Anzi, ho sempre dato atto che, dai documenti dell'epoca, risulta con innegabile evidenza che egli fece il possibile per limitare i danni per i diritti delle parti”[35].
Insomma, conclude Cipriani, “Taruffo non aveva motivo di oppormi tanto entusiasticamente l'interpretazione di Cianferotti”.
C'è però un passaggio del contributo di Cipriani che ci mette, almeno in parte, sull'avviso.
L'autore ammette che la sua interpretazione non abbia avuto grande successo tra i processualcivilisti, principalmente a causa del fatto che essi “preferiscono non ammettere che il codice fosse illiberale e autoritario: essi, infatti, pongono il codice al di fuori del tempo e dello spazio, limitandosi a ricordare che lo si varò con l'aiuto di Calamandrei, Carnelutti e Redenti, tre nomi che a loro avviso sarebbero una garanzia della assoluta neutralità ideologica del codice”[36].
Ritorna dunque il concetto di neutralità, di “neutralità ideologica”.Vi è dunque chi ha tentato di ricostruire la vicenda di Calamandrei e del codice di procedura in termini potentemente ideologizzati, come Giovanni Tarello; chi ha scisso la vicenda umana del giurista da quella legislativa, o meglio, l'operazione condotta dai tecnici del diritto da quella “di facciata”, promossa da Grandi e dal regime. E sappiamo ormai bene, proprio grazie alla riflessione di Giulio Cianferotti e Franco Cipriani, che l'insegnamento chiovendiano servì a qualcosa di “altro”, rispetto all'idea forse troppo semplice del grande maestro che addirittura precorre con la sua teoria l'inverarsi del nuovo codice di procedura[37].
Abbiamo ripercorso, seppur sinteticamente, il contenuto degli scritti che hanno animato la “seconda trita polemica” e possiamo ora chiederci se questo dialogare non abbia al suo interno anche una voce ulteriore, nascosta dal dibattito su Calamandrei ma ad esso, quasi furtivamente, intrecciata.
Cosa è accaduto nel nostro, dottrinalmente vivacissimo, anno 2009?
3. Il tema disvelato: i poteri del giudice
Cosa può aver spinto Monteleone a riflettere su analogie tra il nostro processo civile e quello della ex DDR? Cosa può aver spinto Taruffo a difendere, chiamando in aiuto Giulio Cianferotti, la figura di Calamandrei da qualunque sospetto di “fascismo” e Cipriani a ribadire la sua sostanziale estraneità a questa lettura politica del giurista fiorentino?
La risposta, forse parziale ma assai suggestiva, la troviamo nella recensione che Bruno Cavallone dedica ad un lavoro di Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, uscito per Laterza giust'appunto nel 2009[38].
Cavallone polemizza amichevolmente con Michele Taruffo, sul “tema inesauribile dell'accertamento della verità nel processo”[39] e, “polemizzando”, ci dà ottimi spunti di riflessione.
Il “tema dei poteri istruttori del giudice”, ci ricorda Cavallone, trae origine da una distinzione “inventata” dalla dottrina tedesca e coltivata anche da noi, tra “principio dispositivo” e “principio inquisitorio”, quest'ultimo da intendersi in senso solo “processuale o improprio”[40].
Cavallone racconta: “è accaduto così che, nei convegni internazionali di qualche decennio addietro, si sia spesso e ampiamente discettato dei poteri istruttori del giudice (civile), e dunque del confronto tra il giudice 'attivo' nella ricerca della verità e quello 'passivo', cioè ridotto al ruolo di spettatore inerte delle iniziative probatorie delle parti, come del discrimine più significativo tra i sistemi processuali 'privatistici' o 'individualistici' o 'liberali' (cioè conservatori) e quelli ispirati ad opposte ideologie 'pubblicistiche' o 'sociali' (dunque in linea di massima più evoluti, purché non sospettabili di 'autoritarismo', di destra o di sinistra)”[41].
Ecco dunque che alcune parti della nostra narrazione tornano in maniera inaspettata, ecco riapparire parole, aggettivi, concetti che abbiamo già incontrato: ricerca della verità, sistemi privatistici o pubblicistici, destra o sinistra.
Ma proseguiamo nella lettura di Cavallone.
Dopo aver dato atto che Taruffo conferma, anche in questo ultimo lavoro, la sua tesi tradizionale, secondo la quale l'esigenza di accertamento della verità presuppone “un incremento dei poteri del giudice”[42], l'autore ricorda opportunamente che nel codice del 1940, tacciato di autoritarismo anche per aver previsto, giust'appunto, un rafforzamento dei poteri del giudice[43], non vi era traccia di elementari strumenti di accertamento probatorio, come ad esempio quello di poter ordinare alle parti l'esibizione di documenti citati ma non prodotti[44].
Si giunge così ad un'equazione (apparentemente) solida, ovvero maggiori poteri del giudice uguale codice autoritario, o la sua variante politica, ovvero Calamandrei “ideatore” del codice autoritario uguale Calamandrei fascista.
È immediata la reazione di fastidio che proviamo di fronte a questa semplificazione, che però ci induce a domandarci come mai si sia finito con il mescolare, assai malamente, una questione di tecnica giuridica, come l'articolazione dei poteri istruttori del giudice, con quella del giudizio (politico) su Piero Calamandrei.
È ancora Cavallone a darci un buon indizio.
“A questo punto mi sembra però doveroso esprimere a Michele consenso e solidarietà su due non trascurabili aspetti delle sue posizioni […]. Il secondo concerne […] le polemiche riaccesesi in questi anni, nella dottrina italiana e in quella iberica, circa il presunto significato 'autoritaristico' e 'antidemocratico' dei poteri istruttorii del giudice civile. Anche qui credo che Taruffo abbia ragione nel negarlo, e abbia fatto bene (in uno scritto recentissimo) a difendersi vivacemente dalle accuse di vetero-comunismo rivoltegli da quelli che egli definisce 'neo-vetero-liberali' […].
All'inasprimento e alla scarsa chiarezza di questo dibattito hanno probabilmente contribuito due importanti fattori negativi. L'uno, di carattere storico-politico, è quello dell'essersi la polemica intrecciata con quella relativa alla matrice culturale del codice Grandi […], e alla coerenza politica e morale di Piero Calamandrei, che di quel codice fu 'relatore' e in larga parte estensore”[45].
Dunque l'idea di partenza, che dietro le varie polemiche su Calamandrei si celasse altro, trova almeno parziale conferma.
Parziale nel senso che discutere su Calamandrei non serve a “nascondere” un altro tema, come avevamo ipotizzato, bensì discutere su Calamandrei – almeno in un dato periodo della dottrina processualcivilistica italiana – equivale a discutere del tema dei poteri istruttori del giudice[46].
Naturalmente, ne discutono appunto i processualcivilisti che a volte, lo abbiamo visto, coinvolgono anche gli storici del diritto.
Riprendendo il contributo di Taruffo sui poteri probatori delle parti e del giudice, si capisce però che questa commistione è epistemologicamente sterile e del tutto inidonea a descrivere sia i modelli processuali che la forma di Stato in cui questi modelli si sono collocati.
Secondo Taruffo, infatti, “non esiste alcuna connessione tra l'attribuzione al giudice di più o meno ampi poteri di iniziativa istruttoria e la presenza di regimi politici autoritari ed antidemocratici […]. Ancora una volta, tuttavia, emerge l'esigenza fondamentale di evitare confusioni concettuali ed ideologiche: un sistema può non ispirarsi all'ideologia del liberalismo ottocentesco, senza con questo cessare di essere democratico, e soprattutto senza diventare autoritario o totalitario sol perché si attribuisce al giudice un ruolo attivo nell'acquisizione delle prove”[47].
Si capisce che Taruffo, inizialmente, sarebbe propenso a tralasciare del tutto il complicato intreccio tra tecnica processuale, ossia poteri del giudice, e politica legislativa, ossia Piero Calamandrei.
Però poi, nel 2009, anche lui non può fare a meno di gettarsi in questa irresistibile controversia, spiegando di fronte al lettore la scacchiera con i bianchi e con i neri.
È possibile dunque che la citazione del lavoro di Cianferotti, lo studioso scevro da pregiudizi ideologici, abbia consentito a Taruffo di “giocare” la grande partita dell'interpretazione di Calamandrei, anche con uno strumento concettuale di non esclusiva appartenenza processualcivilistica e, dunque, con uno strumento non segnato dal binomio tecnica/politica del diritto.
Alla fine, che sia questo un intreccio più o meno inossidabile, ce lo ricorda proprio il nostro convitato di pietra.
Nel 1951, parlando della teoria di un “maestro del liberalismo processuale”, James Goldschmidt, Calamandrei dice che “nel processo civile […] due concezioni si contrastano il campo (ma spesso vengono a patti e se lo dividono): quella che affida la ricerca della verità alla responsabilità e alla discrezione del giudice, dinanzi al quale le parti appaiono come oggetto passivo di indagini alla mercé dell'interesse pubblico, e quella che affida lo svolgimento del processo soprattutto allo stimolo dei contrapposti interessi di parte, e che conta, per la riuscita della giustizia, sulla collaborazione e sulla responsabilità dei contendenti […]. È noto che questi due modi di concepire la amministrazione della giustizia (il processo inquisitorio e il processo dispositivo), sono proiezioni nel campo della tecnica processuale di due diversi modi di concepire lo Stato e le relazioni che passano tra l'interesse pubblico e l'interesse individuale, tra l'autorità e la libertà dei cittadini”[48].
Siamo però oramai fuori dalla drammatica stagione della dittatura e della guerra e al Calamandrei dell'ultimo scorcio nessuno rimprovera forse più nulla.
Anzi, proprio la scelta di rileggere la teoria processualistica del Goldschmidt dà ragione a Paolo Grossi, quando afferma che “ora, davanti all'osservatore lucido del proprio tempo c'è solo la storia, la storia di tutti i giorni con il suo fardello di miserie reali, con i suoi segni che l'intellettuale è chiamato a leggere malgrado il loro messaggio disperante”[49].
E questa maggiore semplicità – che non è ovviamente semplicismo ma straordinaria capacità di lettura e di sintesi – si ritrova anche in uno degli ultimi contributi di Piero Calamandrei sul giudice istruttore.
Siamo nel 1955 e si parla ancora di concezione pubblicistica e privatistica del processo civile, di come il codice del 1942 sia un codice ispirato alla prima concezione, “per la quale anche il processo civile persegue uno scopo di pubblico interesse”[50].
Però si parla anche di avvocati che rimpiangono il codice del 1865, quando si poteva “fare tranquillamente l'avvocato” rimanendo nel proprio studio “a ricevere i clienti e a studiare le cause”[51].
Oppure di giudici istruttori che “o per timidezza o per comodità, non si servono neanche dei poteri che hanno”, nonostante alcuni avvocati li considerino “espressione di un eccessivo autoritarismo”[52].
L'occhio di Calamandrei contempla, ormai con la veggenza dei saggi, ciò che pure si cela dietro alle grandi battaglie ideologiche, politiche e dottrinali.
Non ci sono solo le umane piccolezze, ma è importante non dimenticarle: “la conclusione di queste mie osservazioni vuole essere ancora una volta un richiamo alla sincerità e alla chiarezza di idee”[53].
Speriamo di aver dato seguito meglio possibile al monito di Piero Calamandrei.
[1] Sul punto si vedano almeno M. Taruffo, La giustizia civile in Italia dal '700 ad oggi, Bologna 1980; G. Tarello, Dottrine del processo civile. Studi storici sulla formazione del diritto processuale civile, Bologna 1989; F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi. La procedura civile nel Regno d'Italia (1866-1936), Milano 1991; Id., Piero Calamandrei e la procedura civile, Napoli 2009; Id., Piero Calamandrei, la Relazione al re e l'apostolato di Chiovenda, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LI (1997), pp. 749-765. Per una primissima indicazione bibliografica, G. Stanco, Il processo civile in Italia e la dicotomia tra diritto pubblico e diritto privato (XIX-XX sec.), in “Judicium Il processo civile in Italia e in Europa”, 2021 [https://www.judicium.it/wp-content/uploads/2021/12/G.-Stanco-1.pdf].
[2] In “Rivista di diritto processuale”, LXIV (2009), pp. 1-13.
[3] “Si è qui scelto il pensiero di due autorevoli rappresentanti della nostra dottrina processuale sia perché essi rappresentano in modo esemplare una concezione del processo e della giurisdizione civili tutt'ora ben presente e seguita, sia perché essa ebbe sicuramente ad influenzare la stesura del codice, come fedelmente testimonia la sua relazione di accompagnamento” (ibid., p. 8).
[4] Ibid., p. 8.
[5] In realtà, M. Taruffo, Poteri probatori del giudice e delle parti in Europa, in “Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile”, LX (2006), pp. 431-432; S. Chiarloni, Il presente come storia: dai codici di procedura civile sardi alle recentissime riforme e proposte di riforma, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LVIII (2004), pp. 447-472.
[6] “Sarebbe, però, ingeneroso criticare con il facile senno di poi quei nostri maestri predecessori che maturarono le loro convinzioni in epoca diversa e in un tessuto normativo egualmente diverso da quello odierno. Non si può rimproverare loro di non aver saputo prevedere il futuro, e quindi restano immutati, pur nel dissenso, la devozione ed il rispetto loro comunque dovuti” (G. Monteleone, Intorno al concetto cit., p. 11).
[7] M. Taruffo, Per la chiarezza di idee su alcuni aspetti del processo civile, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LXIII (2009), pp. 723-730. Segue una postilla, a firma di Federico Carpi ed Umberto Romagnoli, ad ulteriore difesa del maestro Tito Carnacini, pure tirato in ballo da Monteleone.
[8] F. Cipriani, Una nuova interpretazione di Calamandrei, in “Il giusto processo civile”, III (2009), pp. 947-959.
[9] G. Cianferotti, Ufficio del giurista nello Stato autoritario ed ermeneutica della reticenza. Mario Bracci e Piero Calamandrei: dalle giurisdizioni d'equità della grande guerra al codice di procedura civile del 1940, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 2008 (37), pp. 259-323.
[10] L'intervento di Taruffo viene giudicato “uno scomposto e pesante attacco personalistico dai toni sempre scortesi o eccessivi, talvolta fin'anche ingiuriosi” (G. Monteleone, Le idee confuse del Prof. Taruffo, in “Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile”, 2009 (LXIII), p. 1139.
[11] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 724.
[12] Bisogna naturalmente tenere a mente che “definiva 'oggettivamente' vicini al fascismo i giuristi che si discostavano dalla concezione liberale ottocentesca del processo G. Tarello, Quattro buoni giuristi per una cattiva azione […]. Soprattutto Cipriani verso la fine degli anni Ottanta ha insistito sul contributo di Calamandrei ad un codice autoritario” (F. Colao, Piero Calamandrei e la “vigilia” della riforma della giustizia civile. Dalla Prolusione del 1920 per “Studi Senesi” al codice del 1940, in “Rivista di Studi Senesi” CXXXII (2020), p. 33 nt. 122).
[13] G. Tarello, Quattro buoni giuristi per una cattiva azione, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, VII (1977), pp. 147-167.
[14] “Nella formazione spirituale del Calamandrei erano stati operanti non pochi elementi (l'autoritarismo statalistico, il nazionalismo, l'élitismo) che sarebbero di lì a poco confluiti nell'ideologia del regime fascista. Anche le prime prese di posizione politiche del giurista (l'acceso interventismo, e poi le simpatie nazionalistiche e l'antisocialismo) erano quelle comuni a tanti membri della giovane borghesia del periodo della prima guerra mondiale, destinati a divenire gli operatori ed i quadri del regime fascista. Al fascismo tuttavia Calamandrei non solo non aderì (se non formalmente, quando ciò divenne obbligatorio pena la perdita della cattedra), ma anzi ne fu tenace e più tardi tenace e coraggioso e cospirativo avversario” (ibid., p. 158).
[15] Ibid., pp. 161-162. Il riferimento è a P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, ora in Id., Opere giuridiche, vol. I, Roma 2019, pp. 427-449.
[16] G. Tarello, L'opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, I (1973), pp. 681-787.
[17] “L'opera di Chiovenda si colloca chiaramente agli albori di una tendenza ideologica e istituzionale, nell'Italia del primo ventennio del secolo, al ribaltamento dei presupposti e dei principi organizzativi dello stato liberale, nella direzione di una organizzazione statale autoritaria […]. Non intendo fare qui la storia della fortuna di Chiovenda; essa coincide con la storia della riforma del processo civile del regime fascista” (ibid. p. 787).
[18] “Con un codice di procedura semplice quale quello di allora […], preparava, col 'sistema', una legislazione che con la scusa di dare più poteri direttivi al giudice lo avrebbe costretto in una fitta maglia di formule legislative concettualistiche tali da rendergli difficile capire quando il potere c'è e quando non c'è; e, con una legge processuale onnipervadente, il giudice avrebbe avuto con l'apparenza di più potere direttivo ben maggiore soggezione alla legge processuale” (ibid., p. 760).
[19] P. Grossi, Lungo l'itinerario di Piero Calamandrei, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, LXIII (2009), pp. 865-885.
[20] Ibid., pp. 873-874.
[21] “Da un po' dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfield chiamava ancora l'ufficio perché così l'aveva chiamato suo padre - una buia stanza calda senz'aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati” (W. Faulkner, Assalonne, Assalonne!, Milano 2001, p. 1).
[22] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 724.
[23] Ibid.
[24] Ibid., p. 726.
[25] Ibid., 725.
[26] F. Colao, Piero Calamandrei e la “vigilia” cit., pp. 26-27.
[27] M. Taruffo, Per la chiarezza cit., p. 725.
[28] G. Cianferotti, Ufficio del giurista cit., pp. 273-275.
[29] Ibid., p. 330.
[30] Ibid.
[31] Ibid., pp. 289-291.
[32] “Taruffo non ha precisato quando e dove avrei parlato o scritto di 'Calamandrei fascista', ma non credo che avrebbe potuto farlo, perché io, in verità, non solo non ho mai fatto una simile affermazione, ma ho sempre tenuto fuori discussione che Calamandrei non è mai stato fascista. Ho invece più volte detto e scritto che Calamandrei collaborò col fascismo, ma trattasi di un'affermazione che non so come possa essere seriamente contestata, atteso che è storicamente certo che egli collaborò col guardasigilli fascista Dino Grandi nella preparazione del c.p.c. del 1940, dell'ordinamento giudiziario del 1941 e del c.c. del 1942” (F. Cipriani, Una nuova interpretazione cit., p. 947).
[33] “Giudice istruttore, valanga di termini perentori, preclusioni, nullità ed estinzioni, poteri discrezionali del giudice, anche di ordinare l'ispezione corporale dei terzi, sostituzione delle sentenze appellabili con le ordinanze inimpugnabili, divieto di impugnare immediatamente le parziali, ivi compreso quelle su domanda”( ibid., p. 955).
[34] Si pensi all'art. 70, che prevede la partecipazione obbligatoria del pubblico ministero, ad esempio, nelle cause matrimoniali o relative allo stato ed alla capacità delle persone e che gli consente di intervenire “in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse”. L'art. 118, che consente al giudice di disporre ispezioni corporali sulle parti e sui terzi; se si rifiuta la parte, può essere condannata al pagamento di una pena pecuniaria “da euro 500,00 a euro 3.000”, se si rifiuta il terzo, la pena è compresa va da “euro 250 a euro 1.500”. Si noti che l'inserimento della pena pecuniaria per il terzo risale al 2009, mentre quella per la parte al 2022 (!). L'art. 128 dispone che l'udienza sia pubblica “ma il giudice che la dirige può disporre che si svolga a porte chiuse, se ricorrono ragioni di sicurezza dello Stato, di ordine pubblico o di buon costume. Il giudice esercita i poteri di polizia per il mantenimento dell'ordine e del decoro e può allontanare chi contravviene alle sue prescrizioni”.
[35] F. Cipriani, Una nuova interpretazione cit., p. 958.
[36] Ibid. p. 959.
[37] Ibid., pp. 955-957.
[38] B. Cavallone, In difesa della veriphobia (considerazioni amichevolmente polemiche su un libro recente di Michele Taruffo), in “Rivista di diritto processuale”, LXV (2010), pp. 1-26. A cui risponde M. Taruffo, Contro la veriphobia. Osservazioni sparse in risposta a Bruno Cavallone, in “Rivista di diritto processuale”, LXV (2010), pp. 995-1011.
[39] Ibid., p. 1.
[40] “Personalmente ho sempre preferito la equivalente distinzione di Benvenuti tra il 'metodo dispositivo' e il 'metodo acquisitivo', più idonea a sottolineare che, in un 'processo di parti', anche il giudice più freneticamente attivo nell'acquisizione delle prove non può 'inquisire' proprio nulla” (ibid., pp. 12-13).
[41] Ibid., p. 13.
[42] Ibid., p. 14.
[43] Taruffo è chiaro nel ritenere che “Chiovenda non muove da un'ideologia autoritaria […], ma dalla convinzione che senza un più robusto esercizio dell'autorità dello Stato nel processo – attraverso un più spiccato ed attivo ruolo del giudice, in un procedimento strutturalmente rinnovato – questo non potrebbe mai diventare uno strumento efficiente per l'amministrazione della giustizia” (M. Taruffo, La giustizia civile cit., p. 190). Del resto Calamandrei, nel decennale della morte di Chiovenda, aveva già affermato che “c'è veramente nella sua dottrina […] la sintesi di due esigenze, l'incontro delle quali riproduce, nel microcosmo del processo, la dialettica del progresso sociale: l'oralità, la semplicità delle forme, l'immediato contatto tra le parti e il giudice costituiscono la garanzia pratica della libertà individuale, che trova nel processo, senza l'ostacolo di insidiosi formalismi, la agevole salvaguardia del diritto soggettivo; ma, d'altro lato, il dovere di lealtà processuale, i poteri dati al giudice per chiarire d'ufficio la verità, e la disciplina della iniziativa privata messa a frutto come forza motrice per raggiungere fini di interesse pubblico, rappresentano la garanzia della giustizia, intesa come esigenza di solidarietà e di reciprocità sociale” (P. Calamandrei, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937-5 novembre 1947), in “Rivista di diritto processuale”, 1947, p. 178.
[44] “Commentando l'art. 281 ter c.p.c., ho tra l'altro criticato il fatto che il nostro legislatore non abbia ivi parallelamente previsto anche il potere del giudice di ordinare d'ufficio l'esibizione dei documenti menzionati dalle parti ma non prodotti (previsione già assente, del resto, anche da quel 'manifesto inquisitorio' che è, per il processo del lavoro, l'art. 421 c.p.c., con il risultato che quel giudice, teoricamente autorizzato ad assumere qualsiasi iniziativa, non può in realtà assumere, secondo la giurisprudenza, nemmeno questa, pur così modesta e ragionevole (al contrario di quel che tranquillamente facevano i giudici ordinari, in assenza di qualunque previsione normativa a riguardo, nel vigore del codice paleo-liberale del 1865)” (B. Cavallone, In difesa cit., p. 15).
[45] Ibid., p. 16.
[46] Sul problema della ricerca della verità ed anche sulla sostanziale vicinanza tra istruttoria civile e penale, Calamandrei ammoniva che “la contrapposizione tra verità reale e verità formale, colla quale qualche processualista ha creduto di esprimere in formula sintetica una essenziale diversità di oggetto tra l'istruttoria penale e l'istruttoria civile […], non corrisponde in alcun modo alla vera natura dei due processi, i quali, sia pur servendosi di diversi metodi d'indagine, mirano allo stesso unico scopo che è la ricerca della verità, della verità semplice ed una, senza aggiunte e senza qualifiche. Le restrizioni che alla libera indagine del giudice sono poste nel processo civile, e specialmente nel processo a tipo dispositivo, non mirano infatti a render meno penetrante e meno esauriente la ricerca della verità, ma mirano anzi a utilizzare come strumenti di indagine, più sensibili e più solleciti di ogni sagacia del giudice, i vigili interessi delle parti contrapposte, ciascuna delle quali, per mettere in evidenza quella parte di verità che le giova, è pronta a prender su di sé, con impareggiabile zelo, il compito della investigazione” (P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in “Rivista di diritto processuale civile”, XVII-XVIII (1939), pp. 114-115.
[47] M. Taruffo, Poteri probatori delle parti e del giudice in Europa, ora in AA.VV., Le prove nel processo civile. Atti del XXV Convegno nazionale. Cagliari 7-8 ottobre 2005, Milano 2007, p. 73.
[48] P. Calamandrei, Un maestro del liberalismo processuale, ora in Id., Opere giuridiche, vol. X, Roma 1919, pp. 323-324.
[49] P. Grossi, Lungo l'itinerario cit., p. 882.
[50] P. Calamandrei, Il giudice istruttore nel processo civile, ora in Id., Opere giuridiche, vol. V, Roma 2019, p. 646.
[51] Ibid., p. 645.
[52] Ibid., p. 647.
[53] Ibid.
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