«La civiltà dei popoli si misura non tanto dalla bontà delle leggi che li reggono, quanto dal grado di indipendenza raggiunto dagli organi che queste leggi sono chiamati ad applicare»
PIERO CALAMANDREI, Governo e magistratura, Siena, 2021, 7
Sommario: 1. I progetti di riforma costituzionale volti a separare la carriera della magistratura giudicante da quella requirente - 2. Essi contengono, soprattutto, ulteriori modificazioni dell’ordine giudiziario di particolare allarme. Analisi di queste altre proposte di riforma - 3. Prima ulteriore proposta: la modifica della composizione dei membri del CSM - 4. Seconda ulteriore proposta: l’abolizione del principio secondo il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni - 5. Segue: la normativa e gli orientamenti che già oggi derogano a questo fondamentale principio costituzionale - 6. Terza ulteriore proposta: la riscrittura dell’art. 106, 3° comma Cost. e il venir meno della regola secondo la quale l’accesso alla magistratura ordinaria si dà solo per concorso pubblico - 7. I limiti di tali proposte di riforma - 8. Segue: i limiti alla revisione costituzionale e l’impossibilità di compromettere il principio di indipendenza della magistratura - 9. Segue: i limiti in base ai nostri valori repubblicani.
1. I progetti di riforma costituzionale volti a separare la carriera della magistratura giudicante da quella requirente
Sono in discussione da qualche anno in Parlamento più disegni di modifica della nostra Carta costituzionale sulla possibilità di separare la carriera dei magistrati giudicanti da quella dei magistrati requirenti.
A questi progetti è stato dato il nome di Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura.
Vi sono, infatti, sul tavolo, più proposte di revisione della costituzione: in tal senso possono essere ricordati i progetti A.A.C. 23, 434, e 824, che presentano testi identici, e poi la proposta A.C. 806, che presenta, rispetto a quelle, solo piccole differenze.
Tutte queste proposte prevedono di separare le carriere della magistratura giudicante da quella requirente.
Gli A.A.C. 23, 434, e 824 riproducono integralmente il testo dell’A.C. 14 della XVIII legislatura di iniziativa popolare, e si tratta di un progetto che fu esaminato dalla Commissione affari costituzionali a partire dal febbraio del 2019; le ultime proposte di riforma sono invece del gennaio 2023.
Tutte queste proposte prevedono:
a) la separazione formale dell’ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente, con previsione di distinti concorsi per l’accesso in esse;
b) e conseguentemente due diversi organi di autogoverno della magistratura, uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente.
Si prevede, infatti, una modifica dell’art. 104 Cost. che andrebbe ad affermare che: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente”; e si prevede conseguentemente un: “Consiglio superiore della magistratura giudicante” e poi, art. 105 bis Cost. un “Consiglio superiore della magistratura requirente”; e infine l’art. 106 Cost. asserirebbe che: “Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”.
In questo modo, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, da tempo da molti pretesa, si realizzerebbe in modo pieno, e senza alcun equivoco o mezza misura.
A ciò si aggiunga che i progetti di riforma in questione pretendono di modificare altresì l’art. 112 Cost. sull’obbligatorietà dell’azione penale, con un testo che disporrebbe per il futuro che: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge”.
Non solo così il pubblico ministero sarebbe in futuro un magistrato separato all’interno dell’ordinamento giudiziario, ma anche non avrebbe più la determinazione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale, le quali passerebbero nelle mani della politica, ovvero del Parlamento (rectius: del Governo), che farebbe (magari di anno in anno) una legge per stabilire quali siano i reati da perseguire con priorità e quali viceversa da collocare in lista di attesa.
Piero Calamandrei, nel 1921, scriveva che: «Dire da un lato che la giustizia è indipendente dalla politica, e dall’altra lasciare al governo la facoltà di decidere se la giustizia debba seguire il suo corso; affermare da una parte che la legge è uguale per tutti, e dall’altra lasciare al potere esecutivo la facoltà di farla osservare soltanto nei casi in cui ciò non dispiaccia al partito che è al governo, è tale un controsenso che non importa spendervi su molte parole per rilevarne tutta la enormità».
Evidentemente, dopo cento anni, siamo sempre al medesimo punto.
2. Essi contengono, soprattutto, ulteriori modificazioni dell’ordine giudiziario di particolare allarme. Analisi di queste altre proposte di riforma
Personalmente, mi sia consentito ricordare che fin dalla stesura della prima edizione del mio manuale di Ordinamento giudiziario, ovvero venti anni fa, nel 2004, presi posizione contro la separazione delle carriere, addirittura, provocatoriamente, definendo i pubblici ministeri “giudici requirenti” (pag. 155).
Negli anni, non ho poi avuto modo di mutare questa mia posizione, che anzi ho ribadito anche in un più recente saggio apparso su www.judicium.it del 9 novembre 2017, Contro la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici.
Ma non è questo, al momento, il tema che mi preoccupa.
Al contrario, desidero evidenziare che sotto l’etichetta di una modifica che riguarderebbe la separazione delle carriere, in realtà oggi si profilano modifiche dell’ordine giudiziario di più vasta e più incisiva gravità, e che viceversa non emergono né nei titoli delle proposte di riforma, che continuano a definirsi solo Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, né nel dibattito pubblico.
Conviene allora rivolgere la nostra attenzione soprattutto a quelle, perché, sommessamente, le trovo preoccupanti.
3. Prima ulteriore proposta: la modifica della composizione dei membri del CSM
La prima è questa: i progetti di riforma menzionati intendono modificare la composizione dei membri del CSM rispetto a quella esistente, e dispongono che il rapporto tra membri togati e membri laici non dovrà più essere quello di 2/3 di membri togati e un 1/3 di membri laici, così come stabilirono i nostri costituenti nel 1947, ma dovrà trasformarsi invece in un rapporto di parità, ovvero metà dei membri dovranno essere nominati tra i magistrati ordinari secondo criteri fissati dalla legge, e l’altra metà dovrà al contrario comporsi di avvocati e professori universitari nominati dal Parlamento (oppure dal Parlamento e dal Presidente della Repubblica nella misura di ¼ ciascuno).
Al riguardo, infatti, si propone di modificare l’art. 104 Cost., che al 4° comma andrebbe a statuire che: “Gli altri componenti (del CSM giudicante) sono scelti per metà tra i giudici ordinari con le modalità stabilite dalla legge, e per l’altra metà dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio”; parimenti il nuovo art. 105 bis Cost. sul CSM requirente disporrebbe che: “Gli altri componenti sono scelti per metà tra i pubblici ministeri ordinari con le modalità stabilite dalla legge e per l’altra metà dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio”.
È evidente che se la maggioranza dei membri del CSM è togata, è possibile considerare l’amministrazione della giurisdizione distanziata dall’attività politica; ma se al contrario i membri laici saranno in parità di numero rispetto ai togati, è vice-presidente resterà egualmente un membro laico, va da sé che gli equilibri dell’organo non saranno più gli stessi, e l’idea dei nostri costituenti di una amministrazione della giurisdizione non subordinata alla classe politica, se non ai governanti di turno, andrà persa.
L’incidenza della politica sulla giurisdizione, così, potremmo dire, si istituzionalizzerebbe, ed entreremo in questo modo in una nuova fase costituzionale della magistratura.
4. Seconda ulteriore proposta: l’abolizione del principio secondo il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni
La seconda importante novità, contenuta anch’essa in tutti i progetti di riforma qui a commento, è la soppressione del 3° comma dell’art. 107 Cost.
Quella disposizione recita, come è noto, che: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.
Si tratta di un momento essenziale dell’organizzazione della magistratura, volto a significare che tutti i giudici sono eguali fra loro, e sono soggetti soltanto alla legge, e che quindi la magistratura, come da più parti negli anni è stato sostenuto, costituisce funzione diffusa, priva di strutture gerarchiche.
Nelle schede di lettura su tale intervento predisposte dalla Camera dei Deputati a pag. 24 si legge che: “La modifica appare consequenziale rispetto alla separazione formale dell’ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente”.
Certamente questa contrapposizione sarà la prima che caratterizzerà i magistrati se si arriverà ad una simile riforma; tuttavia questa contrapposizione non dovrebbe egualmente impedire che i vari magistrati, ognuno nel proprio ordine, continuino poi però a distinguersi solo per diversità di funzioni.
Se si arriva, invece, all’abrogazione integrale del 3° comma dell’art. 107 Cost. senza nient’altro specificare, pare evidente che la novità può essere non solo funzionale alla nuova contrapposizione tra magistratura giudicante e requirente, ma anche idonea ad incidere sulla struttura e l’organizzazione delle due magistrature, con il rischio che a questo punto tutti gli ordini giudiziari, giudicanti o requirenti che siano, perdano il modello di magistratura diffusa fino ad oggi avuto, e si assimilino così, puramente e semplicemente, alle altre pubbliche amministrazioni.
5. Segue: la normativa e gli orientamenti che già oggi derogano a questo fondamentale principio costituzionale
Il tema, sia consentito, è di particolare delicatezza, poiché l’idea di immaginare una gerarchia nell’esercizio della funzione giurisdizionale, e di limitare la libertà dei singoli giudici di interpretare la legge, è purtroppo una realtà che già esiste; e se il valore costituzionale secondo il quale i giudici si distinguono solo per funzioni verrà meno, allora davvero si potrà immaginare un ordine giudiziario futuro con dei giudici sovra-ordinati e dei giudici sotto-ordinati, con dei giudici di serie A e altri giudici di serie B; e la novità costituzionale non inciderebbe più, solo e soltanto, sull’art. 107, 3° comma Cost., bensì anche, conseguentemente, sull’art. 101, 2° comma Cost., secondo il quale: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”; e lo scadimento del 2° comma dell’art. 101 Cost. potrebbe infine, fuori da ogni retorica, incidere altresì, a mio sommesso parere, su lo stesso 1° comma della medesima disposizione costituzionale, e per la quale “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.
Sia consentito ricordare la situazione già oggi esistente.
a) Una prima tendenza a gerarchizzare l’attività del giudice la troviamo nella legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario 17 giugno 2022 n. 71, che ha rafforzato i poteri dei capi degli uffici, prevedendo che la loro carriera dirigenziale sia subordinata alla acquisizione di competenze manageriali, alla capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici, e alla capacità di dare piena e completa attuazione a quanto indicato nel progetto organizzativo, ed inoltre ha disposto che ai fini della valutazione della professionalità di ogni singolo magistrato, oltre alla valutazione di produttività e laboriosità, va dato un giudizio con riferimento ad un fascicolo personale contenente i dati statistici, nonché possibili gravi anomalie in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o nei gradi del procedimento o del giudizio.
b) Un’altra tendenza, che si è andata via via nel tempo rafforzando, è quella per la quale l’interpretazione della legge spetta solo alla magistratura di vertice, ovvero alla Corte di Cassazione, e non a tutti i giudici; ed infatti: ba) i giudici di merito, a fronte di una nuova questione, non possano liberamente interpretare la legge ma devono (preferibilmente) rimettere la questione alla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 362 bis c.p.c.; bb) i giudici non hanno parimenti (preferibilmente) la libertà di interpretare la legge secondo Costituzione o secondo la normativa comunitaria, ma sono invece tenuti a sollevare questioni di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale o pregiudiziali comunitarie dinanzi alla CGUE; bc) e soprattutto, è opinione diffusa che il principio di nomofilachia si sia trasformato in una sorta di stare decisis di natura anglosassone, con (preferibilmente) obbligo dei giudici di merito di attenersi agli indirizzi della Corte di Cassazione senza niente osservare.
c) Una terza tendenza è quella di immaginare che il Ministro della Giustizia possa superare i limiti di cui all’art. 110 Cost. ovvero possa occuparsi non solo dei servizi attinenti alla giustizia, bensì proprio di taluni aspetti dell’esercizio della funzione giurisdizionale (per questo mi permetto di rinviale al mio Brevi note sul dimenticato art. 110 Cost., in questa rivista, ottobre 2023), in questo modo, inevitabilmente, e in una certa misura, consentendo al Ministero stesso di vigilare e contribuire alle modalità di esercizio della funzione giudiziaria.
L’abolizione del 3° comma dell’art. 107 Cost. può costituire legittimazione e rafforzamento di tutte queste tendenze, capaci di modificare la natura e la struttura della nostra magistratura.
6. Terza ulteriore proposta: la riscrittura dell’art. 106, 3° comma Cost. e il venir meno della regola secondo la quale l’accesso alla magistratura ordinaria si dà solo per concorso pubblico
La terza novità concerne la modifica dell’art. 106, 3° comma Cost., che andrebbe a disporre che: “La legge può prevedere la nomina di avvocati e di professori ordinari universitari a tutti i livelli della magistratura giudicante”.
Si ricorda che il 3° comma dell’art. 106 Cost. prevede invece che: “Su designazione del CSM possono essere chiamati all’ufficio di consigliere di cassazione per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”, e la materia è disciplinata nel dettaglio dalla legge 5 agosto 1998 n. 303.
Le differenze tra un testo e l’altro sono evidenti: ca) nel primo caso il potere di inserire in magistratura soggetti aspiranti fuori concorso è affidato al CSM, nel secondo caso viene invece trasferito alla legge, che evidentemente potrà regolare il fenomeno in modo del tutto discrezionale, non essendo fissati in Costituzione criteri per ciò; cb) nel primo caso si tratta di accedere solo presso la Corte di cassazione, mentre ora si immagina che il fenomeno possa estendersi a tutti i livelli della magistratura giudicante; cc) nel primo caso la condizione per accedere senza concorso alla magistratura è quella di aver conseguito meriti insigni, mentre oggi pare che ogni professore e ogni avvocato, anche senza meriti insigni e senza anzianità particolare, possa accedere ad ogni tipo di magistratura.
Si comprende non solo, così, come l’istituto sia stato totalmente snaturato, ma anche come vi sia in questo modo il rischio che in magistratura possano accedere soggetti privi di idonea formazione, fuori da ogni logica concorsuale, e fuori da ogni controllo del CSM.
E soprattutto può esservi il rischio, se si esce dalla logica del concorso pubblico, che vi siano un domani dei magistrati che debbano dire grazie a qualcuno per essere diventati tali.
7. I limiti di tali proposte di riforma
Alla luce di tutto questo non si tratta allora, a mio parere, di discutere se sia giusto o meno separare la carriera giudicante da quella requirente, si tratta di domandarsi che fine possa fare il nostro ordine giudiziario si dovessero approvare riforme di questo genere.
Nel nostro sistema costituzionale i tre cardini sui quali poggia il principio di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura sono quelli:
a) di avere un organo di amministrazione della giurisdizione il quale, seppur non composto di soli magistrati, sia comunque indipendente dal potere politico;
b) di avere una magistratura ordinaria alla quale si accede solo per concorso pubblico;
c) e infine di avere una magistratura soggetta solo alla legge, strutturata in modo non gerarchico, e distinta al proprio interno esclusivamente in base alla funzioni svolte.
Se queste tre caratteristiche vengono meno, la stessa idea di magistratura quale corpo che si distingue dalle altre amministrazioni dello Stato viene meno.
E io credo che una rivoluzione costituzionale di questo genere, che disegnerebbe un’altra magistratura rispetto a quella che fino ad oggi abbiamo avuto, non solo sia programma che abbiamo il dovere di osteggiare, ma anche, più radicalmente, costituisca una novità impedita nel nostro sistema repubblicano.
Ed infatti, giova ricordare, ci sono riforme della Costituzione che si possono fare, e riforme della Costituzione che non si possono fare; non tutto può essere oggetto di revisione costituzionale.
Non è forse inutile, dunque, aprire una parentesi per ricordare i limiti di revisione della nostra Carta costituzionale.
8. Segue: i limiti alla revisione costituzionale e l’impossibilità di compromettere il principio di indipendenza della magistratura
Ed infatti, seppur l’art. 139 Cost. reciti solo che: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, nessun costituzionalista ha mai pensato che fuori da questo limite tutto il resto possa essere modificato.
È evidente che in Assemblea costituente, appena usciti dalla guerra e dal fascismo, la paura del ritorno alla monarchia era forte, e questo giustificava la disposizione di cui all’art. 139 Cost., voluta tanto dalle sinistre (Togliatti), quanto dai cattolici (Dossetti, Moro).
Ma già in Assemblea giuristi di primo piano quali Piero Calamandrei sottolineavano come la rigidità della Costituzione non potesse ridursi al solo impedire il ritorno della monarchia, e doveva invece necessariamente estendersi alla immutabilità dei valori fondamentali della Repubblica e delle disposizioni relative ai diritti di libertà.
E così, facendo seguito alla presa di posizione di Piero Calamandrei, Lodovico Sforza Benvenuti sottoponeva all’Assemblea plenaria del 3 dicembre 1947, un art. 130 bis, che recitava: “Le disposizioni della presente Costituzione che riconoscono e garantiscono diritti di libertà, rappresentando l’inderogabile fondamento per l’esercizio della sovranità popolare, non possono essere oggetto di procedimenti di revisione costituzionale, tendenti a misconoscere o a limitare tali diritti, ovvero a diminuirne le guarentigie”.
L’articolo, seppur condiviso nella sostanza da tutti, non trovava tuttavia approvazione per ragioni formali, atteso che taluni sostenevano che la norma potesse essere fonte di dispute e dubbi interpretativi.
Ad ogni modo nessuno in Assemblea costituente metteva in dubbio che i diritti di libertà della persona e i principi fondamentali della Repubblica potessero essere oggetto di revisione costituzionale; ed in particolare ciò veniva sottolineato con forza in un importante intervento da Paolo Rossi.
Il tema della revisione costituzionale si rendeva poi, evidentemente, materia di dibattito dottrinale, nonché oggetto di decisione da parte della Corte Costituzionale.
Già Costantino Mortati poneva la differenza tra limiti espressi e limiti impliciti, e altri giuristi sostenevano parimenti che il limite di revisione della forma repubblicana implicasse inevitabilmente l’interpretazione del valore da dare al termine “repubblica”, dovendo esso essere necessariamente comprensivo dell’intero impianto fondamentale del sistema costituzionale.
Si sosteneva, inoltre, che questi limiti impliciti potessero poi dividersi tra limiti impliciti materiali, se ricavabili dal testo formale di altre disposizioni della carta costituzionale, e limiti impliciti sistematici, non ricavabili direttamente da specifiche norma ma desumibili dai principi fondamentali irrinunciabili della nostra organizzazione statuale libera e democratica, ovvero ancora da “quei diritti i quali, pur non essendo esplicitamente menzionati nella costituzione, risultano implicitamente tutelati sulla base del sistema di valori che essa fa proprio” (Pizzorusso).
D’altronde, sarà poi questa la posizione della Corte costituzionale, per la quale: “La costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (così Corte Cost. 29 dicembre 1988 n. 1146).
Tra questi valori fondamentali, o “valori supremi”, non può non essere ricompreso quello della divisione dei poteri, che già infatti era stato indicato come non rivedibile in Assemblea costituente da Piero Calamandrei e Lodovico Sforza Benvenuti.
9. Segue: i limiti in base ai nostri valori repubblicani
Possiamo concludere con una affermazione del tutto evidente e del tutto scontata: il nostro sistema costituzionale non può fare a meno di un suo pilastro fondamentale quale quello dell’indipendenza della magistratura.
Se nel periodo del fascismo l’amministrazione della giustizia fu, come in tutti i regimi totalitari, controllato e diretto dalle forze di Governo, la nostra Repubblica, uscita da quella esperienza, doveva, e deve ancor oggi, in modo del tutto immutato, avere necessariamente dei giudici indipendenti dal Governo; e per avere veramente dei giudici indipendenti dal Governo “non basta liberarli dal timore che il loro atteggiamento di ribellione contro gli intrighi politici possa in qualche modo danneggiarli, ma bisogna altresì togliere loro ogni speranza che un atteggiamento servile ed inchinevole possa giovare alla loro carriera futura.” (Calamandrei).
Tornare viceversa ad un sistema che richiami il passato, ove l’influenza della politica, e quindi del Governo, sulla magistratura si faccia sentire, è rivoluzione costituzionale da ritenere impossibile, qualcosa che si pone non solo in contrasto con la lettura sistematica dell’art. 139 Cost., bensì anche, e tutt’assieme, con i valori della nostra vita democratica.
E non si tratta, al riguardo, di avere opinioni di destra oppure di sinistra; le prime proposte di riforma del Titolo IV della nostra Costituzione, infatti, furono avanzate nel 2019 da forze politiche di centro sinistra, mentre le ultime, di questo anno 2023, sono state presentate da forze politiche di centro destra: è possibile in questo modo constatare, con una certa delusione, la convergenza di tutte le forze politiche in argomento.
Contro questi progetti, di destra o di sinistra che siano, dobbiamo opporre il principio irrinunciabile della separazione dei poteri e ricordare in modo netto, secondo un motto della filosofia illuminista, che difendere l’indipendenza della magistratura non significa difendere i giudici (con, alle volte, le loro arroganze nella gestione quotidiana della vita giudiziaria): significa difendere la democrazia dello Stato, significa custodire la libertà di tutti i cittadini: perché nessun avvocato avrà una funzione nel processo se il giudice che gli sta di fronte non avrà l’indipendenza del decidere, nessuno cittadino sarà mai libero se non saranno liberi i giudici, nessuno Stato potrà definirsi democratico se il suo governo pretenda di incidere nello svolgimento della funzione giurisdizionale.
Intervento tenuto il 16 novembre 2023, in Siena, nell’Aula magna del Rettorato, in occasione del convegno Il modello costituzionale di giudice alla luce delle prospettive di riforma, organizzato per il commiato da Siena del Presidente del Tribunale Cons. dr. Roberto Carrelli Palombi.