ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Lo spunto di partenza - 2. L’efficacia dissuasiva dei luoghi indicati: in particolare, Chiese e luoghi di culto - 3. L’efficacia dissuasiva delle farmacie nella commissione dei reati di violenza - 4. Conclusioni.
1. Lo spunto di partenza
L’attuale compagine governativa, come noto, non sembra avere un rapporto facile con la giustizia e in generale con il potere giudiziario.
Tale difficoltà di rapporti non deriva, come si potrebbe intuire (e persino auspicare) dalla constatazione della inefficienza generale del sistema della tutela giurisdizionale dei diritti e da divergenze tra politici e magistrati sui modi di affrontare e risolvere questa vera e propria emergenza del Paese, ma da un conclamato fastidio per l’agire di giudici e pubblici ministeri, accusati di “remare contro il lavoro del Governo del paese”[1].
In attesa di una riforma del titolo della Costituzione dedicato alla Magistratura ritenuta così impellente da superare qualsiasi esigenza di confronto parlamentare (una sorta di inedita questione di fiducia su riforma costituzionale, come è stata autorevolmente definita[2]), giudici e pubblici ministeri ancora uniti sono stati piacevolmente stimolati alla riflessione sul loro operato grazie alla dichiarazione comparsa sui giornali di oggi ed attribuita al Ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Scopo di questo breve scritto è di aderire all’invito alla riflessione scaturito dalle parole del Ministro.
Eccole: “Il funzionamento del braccialetto elettronico è molto spesso incompatibile con i mezzi di trasporto delle persone: nel momento dell’allarme nei confronti di una persona, molto spesso la vittima si trova ad una distanza non compatibile con l’intervento delle forze dell’ordine. Dobbiamo coniugare questi due elementi dando un’allerta alla vittima, affinché sia in grado - nel momento in cui coglie questo momento di pericolo – di trovare delle forme di autodifesa, magari rifugiandosi in una chiesa o in una farmacia, in un luogo più protetto”[3].
Il Ministro della Giustizia solleva dunque l’accento su un problema serio e molto avvertito in questi giorni, costituito dal vulnus di efficacia dissuasiva dello strumento del cosiddetto “braccialetto elettronico” per il contrasto alla violenza di genere.
Come noto, il dispositivo previsto dall’articolo 275 bis del codice di procedura penale è stato introdotto nel 2000 come misura aggiuntiva agli arresti domiciliari, per consentire il monitoraggio a distanza degli indagati e limitarne la libertà di circolazione in modo meno invasivo della custodia in carcere ma altrettanto efficace.
Recentemente, tale modalità di controllo è divenuta obbligatoria per le misure cautelari adottate per i reati di violenza di genere.
Applicando lo strumento elettronico al soggetto indagato per reati di genere, gli si impedisce infatti di avvicinarsi alla vittima dei suoi comportamenti delittuosi, che in questo tipo di delitti sono notoriamente soggetti a reiterazione con modalità ingravescenti fino alle conseguenze estreme della soppressione fisica della persona offesa.
Come correttamente osservato dal Ministro, notoriamente attento alle problematiche pratiche riscontrate nell’applicazione delle misure cautelari (tanto da averle praticamente abolite per buona parte dei delitti mediante l’introduzione dell’interrogatorio preventivo), l’attivazione dell’alert generato dalla trasgressione del divieto di avvicinamento alla persona offesa non dà sempre i risultati sperati a causa dell’inevitabile iato temporale tra il momento dell’allarme e quello dell’intervento delle forze dell’ordine a protezione della vittima.
In altri termini, è stato riscontrato che in alcuni casi l’attivarsi della Polizia Giudiziaria non è (né può essere) tempestivo e non impedisce che il trasgressore della prescrizione porti a compimento il proprio proposito delittuoso aggredendo nuovamente la vittima.
Per colmare questo vero e proprio vulnus che vanifica – con conseguenze a volte drammatiche – il sistema di protezione, il Ministro indica alle donne di tutta Italia un rimedio in grado di supplire alla temporanea assenza dello Stato sul luogo del delitto: il raggiungimento immediato da parte della vittima della potenziale aggressione di alcuni luoghi al cui interno risulterebbe impossibile o comunque disagevole il compimento di reati di violenza: le chiese e le farmacie.
Viene reintrodotto nel nostro ordinamento, al momento solo in via di fatto, l’antico istituto dell’ager sacrum di antichissima memoria.
2. L’efficacia dissuasiva dei luoghi indicati: in particolare, Chiese e luoghi di culto
Poiché i luoghi indicati presentano caratteristiche differenti e difficilmente assimilabili, almeno ad una prima considerazione, conviene esaminarli distintamente, partendo dalle Chiese, luoghi sacri per eccellenza nell’immaginario collettivo.
Non è chiaro se il termine evocato dal Ministro si riferisca ai soli luoghi di culto della religione cattolica o vada esteso anche a moschee, sinagoghe ed altri luoghi ritenuti sacri per altre religioni.
Nel dubbio, converrà all’interprete attenersi ad un criterio rigidamente restrittivo, anche in omaggio alla italianità che connota l’operato dell’attuale compagine governativa di cui il Ministro fa parte.
Come detto in precedenza, il concetto di ager sacrum come luogo invalicabile appartiene alla tradizione più antica del diritto romano ed indicava una porzione di territorio urbano nel quale era proibito entrare in armi.
È evidente dunque che il porsi all’interno di questo perimetro proteggeva da azioni violente, perché queste non erano considerate come aggressioni all’individuo ma vero e proprio sacrilegium.
Invero, già nei poemi omerici si rinvengono scene di esponenti di città aggredite e saccheggiate in cui i cittadini si rifugiavano all’interno dei templi per ottenere la salvezza, facendo leva sulla pietas (o sulla superstizione) dell’aggressore al cospetto del dio.
Con la caduta dell’Impero Romano, la funzione di luogo sacro come invalicabile è stata ereditata dai luoghi di culto e nei secoli si tramandano innumerevoli esempi di aggrediti che trovavano scampo all’interno delle mura di chiese e conventi.
È dunque verosimile che il Ministro faccia riferimento a tali nobili tradizioni, nella ragionevole certezza che lo stalker, il predatore sessuale o il femminicida arrestino le proprie pulsioni delittuose, non potendo perseverare nel proprio intento criminoso tra le navate di una chiesa o al cospetto di Dio, o magari sperando in una reminiscenza degli istituti antichi del quale può avere appreso l’esistenza negli anni degli studi o per proprio personale desiderio di cultura.
La storia insegna in verità che in moltissimi casi rifugiarsi nei luoghi di culto o persino ai piedi dell’altare non ha avuto l’effetto deterrente auspicato. Ma tentar non nuoce.
Inoltre, la diffusione di questo tipo di reazione potrebbe agevolare le forze dell’ordine nella ricerca dell’aggressore, poiché carabinieri e polizia potrebbero concentrare la loro attenzione ai soli luoghi di culto presenti in zona, ciò che abbatterebbe sensibilmente i tempi di intervento a protezione della vittima.
3. L’efficacia dissuasiva delle farmacie nella commissione dei reati di violenza
Più articolato si presenta necessariamente il ragionamento sull’efficacia dissuasiva delle farmacie in relazione ai reati di violenza di genere.
Il ricorso alla origine sacra della medicina e il riferimento al dio Esculapio porterebbe forse l’interprete troppo lontano, e sembra difficile ritenere che un soggetto che ha intenzione di compiere un delitto quali quelli menzionati possa arrestarsi solo tenendo a mente il serpente solitamente ricollegabile alla medicina (serpente che comunque compare, in duplice copia, nelle insegne delle farmacie moderne).
Maggiore rilevanza dissuasiva potrebbe avere la croce verde, simbolo universale delle farmacie ma istintivamente ricollegabile al segno per eccellenza della Chiesa cattolica, ciò che potrebbe indurre il reo frettoloso ad una assimilazione di tali esercizi commerciali a luoghi di culto.
In realtà, non esistono allo stato appigli idonei a giustificare l’asserita efficacia dissuasiva delle farmacie nei reati d violenza di genere: si tratta invero di luoghi solitamente affollati e ben illuminati, ma lo stesso potrebbe dirsi di un pizzicagnolo o di una tintoria.
Tra i primi commentatori dell’accostamento in esame, alcuni hanno evocato la presenza di garze e disinfettanti per tamponare gli effetti delle violenze[4], mentre altri hanno rilevato la presenza di farmaci in grado di agire, calmandoli, sugli impulsi del reo[5], anche se rimane da chiarire in che modo vittima o farmacista possano, nella concitazione del momento, convincere l’aggressore ad assumerli.
Occorrerà probabilmente anche in questo caso uno sforzo interpretativo della giurisprudenza per assegnare connotato concreto ad istituti che, seppur ancorati ad antiche tradizioni, sono da considerare di nuovo conio.
4. Conclusioni
La breve e necessariamente incompleta disamina che precede costituisce una debole e insoddisfacente risposta allo stimolo alla riflessione delle parole del Ministro.
Ciò che è possibile però sin da ora desumere è che verosimilmente si è aperta una nuova strada per il contrasto a reati particolarmente allarmanti, che richiede uno sforzo di creatività non disgiunta da competenza[6] per evitare che l’auspicio del Guardasigilli rimanga un mero sogno[7].
[1] Dichiarazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, 31 gennaio 2025, Il Fatto Quotidiano.
[2] IONTA, “Prolegomeni di diritto costituzionale moderno”, in Giustizia Insieme, 2025.
[3] Dichiarazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio, in ANSA on line, 16 maggio 2025.
[4] In tal senso PETRINI, Garze e tamponi nei reati da Codice Rosso, Giustizia Insieme 2025
[5] È la ricostruzione di REALE, nel noto pamphlet Xanax agli aguzzini, in questa Rivista, 2025
[6] L’importanza della competenza emerge dal commento di MANZON, Magistrati virtuali e intelligenza artificiale, Giustizia Insieme, 2025
[7] L’accostamento alla materia onirica si deve ad APOLLONIO, Di questi anni ed altre memorie di un giovane magistrato, in corso di pubblicazione.
Volete voi l’abrogazione… ?
Così iniziano i 5 quesiti per l’abrogazione di norme che ostacolano il diritto alla dignità del lavoro e della persona.
Sono quesiti semplici?
Tecnicamente rispondono a domande complesse che però sono facilmente comprensibili perché unificati da un unico intento: aumentare il livello di sicurezza personale e sociale dei lavoratori, diminuire le disuguaglianze e la precarietà, aumentare il livello di democrazia e di libertà del nostro Paese.
Allora è importante andare a votare?
È fondamentale non restare indifferenti e votare SÌ.
Premessa
Da quando si è appreso che tra i compiti della Scuola Superiore della magistratura vi sarebbe stato anche quello di “formare” gli aspiranti magistrati la comunità dei giuristi – forse più quella degli accademici - ho cominciato a pormi delle domande su questa nuova competenza.
Da qui la necessità di attivare un confronto fra diverse opinioni provenienti da autorevoli esponenti di quel mondo coinvolgendo personalità che da diversi osservatori hanno maturato esperienze rilevanti, tale da fornire elementi di riflessioni, suggestioni, suggerimenti, prospettive ed orizzonti rispetto al “nuovo” che non ha trovato ancora pratica attuazione.
Da qui una prospettiva rivolta all’ascolto più che alla proposta.
Per fare questo torna ancora una volta utilissima la tecnica dell’intervista e dunque della predisposizione di un gruppo di domande intese a suscitare direttamente risposte e mediatamente riflessioni.
È però non lontano dal vero, per dirla con Gadamer[1] che, se si vuole comprendere il contenuto di una proposizione essa scaturisce dalla domanda, alla quale spetta il primato nella logica, al punto che la domanda stessa “è ancora una risposta”, rispondendo all’esigenza di una ricerca mossa da un ragionamento proposto a chi è intervistato. Il primato della domanda del quale il filosofo tedesco parlava rispetto alla proposizione intendeva significare che “quando si intende una domanda, non si può evitare di porla a sé stessi.” “Sia la domanda che la risposta, in quanto proposizioni, hanno dunque una funzione ermeneutica. Tutte e due sono un rivolgersi ad altri”. Al punto che è proprio questa prospettiva a garantire la “verità” “perché questa verità è sempre situata in un orizzonte, nel quale è incluso anche colui a cui è diretta la proposizione”.
Il lavoro che segue, in cui sono state nel tempo raccolte le impressioni di Ernesto Lupo, Giovanni Canzio, Renato Rordorf, Guido Raimondi, Gabriella Luccioli, Giacomo Fumu, Umberto Scotti, Giovanni Fiandaca, Antonio Ruggeri, Antonio Carratta, Tecla Mazzarese, Elena D’Alessandro, Mario Serio, Vincenzo Cuffaro e Claudio Scognamiglio è dunque una raccolta di tante “verità” sul tema, accomunate dall’obiettivo di stimolare il confronto.
Del resto, alla domanda su cosa sia la verità Gadamer risponde con questa espressione: “Verità significa non-essere-nascosto. Presentare ciò che non è nascosto, render evidente, questo è il senso del discorso”. Ed aggiunge, ancora: “Nel nostro continuo sforzo di intendere la verità, ci accorgiamo con stupore di non potere dire la verità senza interrogare, senza rispondere e quindi senza stabilire un accordo comune. L’aspetto più sorprendente del linguaggio e del dialogo è che io stesso, nel parlare con un altro, non sono legato a quello che penso, che nessuno di noi abbraccia l’intera verità nel suo pensiero, ma che pure l’intera verità può abbracciarci entrambi nel nostro singolo pensiero.”
È dunque con lo spirito di offrire al lettore un florilegio di “verità plurali” degli intervistati sul tema del ruolo della SSM nelle attività di preparazione degli aspiranti magistrati senza che questa possano rappresentare le conclusioni che si è andato componendo questo scrigno di idee, corredato e composto, in sequenza, da un essenziale quadro normativo di riferimento[2], dalle domande e dalle risposte.
Agli intervistati che hanno avuto la pazienza e la disponibilità di dedicare il loro tempo a questa iniziativa non può che andare un caloroso ed affettuoso ringraziamento che parte dal cuore e passa dalla ragione. r.c.
Domande
1. Trovi nelle innovazioni previste per il concorso di accesso la base di un nuovo modo di fare formazione per gli aspiranti magistrati?
2. Il senso del richiamo ai principi (dell'ordinamento, costituzionali, dell'Unione europea) non scompagina il quadro della formazione?
3. Nel campo civile e penale come si dovrebbe fare, secondo te, a formare gli aspiranti per garantire quel "ruolo del giudice" che sembra emergere, nettamente, dalle modalità di svolgimento delle prove. Un giudice partecipe, critico, attivo, nell'attuazione dei diritti?
4. Quali sono i punti di forza dei moduli formativi che la SSM in atto utilizza che, a tuo avviso, potrebbero rendere appetibile la partecipazione di aspiranti magistrati ai corsi di preparazione al concorso in magistratura da questa approntati?
5. Immagini che sia uno stesso docente a dovere seguire una parte dei programmi elaborati?
6. Chi, secondo te, dovrebbe elaborare questi programmi? Sarebbe opportuno nominare esperti formatori che appunto predispongano le linee generali dei corsi nelle tre materie?
7. I docenti dovrebbero farsi loro stessi carico di elaborare tracce scritte su temi specifici ovvero dovrebbero essere, secondo te, diverse professionalità capaci di correggere le tracce ed offrire spunti di interesse al discente anche in punto di correzioni? Insomma, come potrebbe declinarsi la figura di un tutor?
8. Pensi che la partecipazione a questi corsi potrebbe danneggiare la funzionalità degli uffici di appartenenza dei soggetti nominati e, a questo punto, questa nomina creerebbe problemi di coordinamento con il divieto, in atto vigente per i magistrati ordinari, di svolgere lezioni a corsi di preparazione al concorso in magistratura?
9. Quale tipo di sinergia dovrebbe crearsi fra l’Accademia, l’Avvocatura e la magistratura (CSM) per realizzare al meglio il compito affidato alla Ssm in materia? La da più parti prospettata osmosi fra Ssm e scuole di specializzazione per le professioni forensi ti sembra un obiettivo utile e, se sì, da realizzare con quali modalità?
10. Pensi che il corso debba sperimentare nuovi percorsi metodologici di apprendimento o abbia unicamente la finalità di raggiungere l’obiettivo del superamento delle prove di concorso?
11. Il metodo di apprendimento dovrebbe prediligere la formazione a distanza o in presenza?
12. Pensi che il corso debba prevedere un tirocinio pratico negli uffici giudiziari e/o negli studi professionali di avvocato?
Risposte
Ernesto Lupo, Primo Presidente emerito della Corte di cassazione
I corsi previsti dal nuovo titolo 1-bis del d. lgs. n.26/2006, introdotto dall’art.3 d. lgs. n.44/2024, sono del tutto nuovi rispetto alla attività finora svolta dalla Scuola, perché non attengono all’aggiornamento e formazione di coloro che sono già magistrati (art.1, comma 2, del citato d. lgs. n.26). Essi devono tendere al superamento del concorso, o, con maggiore precisione, al superamento delle prove scritte, ove avviene la vera selezione dei concorrenti. Effetto indiretto è, ovviamente, la preparazione anche per il superamento delle eventuali prove orali nelle stesse materie e l’apprendimento, più in generale, di un metodo di studio idoneo alla preparazione anche nelle altre materie. Unica aggiunta alle materie delle prove scritte (diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, alla luce anche dei principi costituzionali e dell’Unione europea: art.5 del citato d.lgs. n.44/2024) mi sembra debba essere la deontologia e l’etica del magistrato: altrimenti non avrebbe senso l’affidamento del corso alla Scuola. Consegue che non sono utilizzabili i moduli formativi finora seguiti dalla Scuola.
Per l’idonea preparazione alle prove scritte del concorso sono essenziali due caratteristiche, assenti nelle scuole di specializzazione per le professioni forensi, che sono perciò fallite (i laureati che li frequentavano spesso erano iscritti anche a qualche scuola privata, mentre consideravano la scuola di specializzazione utile solo a conseguire il titolo per la partecipazione al concorso): a) la continuità didattica, b) l’effettuazione di numerosi compiti scritti (se possibile anche riproducendo le condizioni di tempo e di disponibilità di codici previste per le prove di esame), compiti che ovviamente vanno poi corretti.
La continuità didattica rileva ai fini della scelta dei docenti: uno (o al massimo due) per ogni materia, assistito dalle persone incaricate della correzione dei compiti, che devono essere da lui coordinate. La limitazione dei docenti deve consentire di realizzare anche un continuo colloquio tra discente e docente, sulla correzione dei compiti una volta effettuata, su qualsiasi domanda dello studente, ecc. Le linee generali dei corsi non dovrebbero essere molto complesse perché le prove di esame sono soltanto teoriche e la preparazione deve riguardare l’intera materia, studiata soprattutto dal punto di vista sistematico e nei principi generali. Il nuovo comma 3 del d. lgs. n.160/2006 dovrebbe evitare che si diano tracce di temi molto dettagliate, come è avvenuto negli anni recenti (spero che il CSM vigili sul rispetto della nuova disposizione). È più importante, mi sembra, il coordinamento dei diversi docenti, soprattutto della stessa materia (se, come è prevedibile, il corso sarà strutturato in diverse sedi). Imputerei questi due compiti (elaborazione delle linee generali e coordinamento dei diversi docenti) al comitato direttivo della Scuola, attraverso suoi componenti aiutati da qualche magistrato o docente esterno, stando attento a non coinvolgere molte persone perché la continuità didattica presuppone anche linee chiare e costanti.
I docenti potrebbero essere scelti anche tra i magistrati che siano recenti pensionati (non vi sono perciò compreso) con la voglia di continuare a studiare, selezionati ovviamente in modo da privilegiare la preparazione teorica rispetto alla esperienza pratica. Questa soluzione avrebbe il vantaggio di non sottrarre risorse alla attività degli uffici giudiziari, tenuto conto dell’impegno a tempo pieno che la docenza potrebbe o, a mio avviso, dovrebbe comportare.
Il numero e la localizzazione dei corsi dipendono dalla quantità dei discenti. Potrebbe essere prevista anche la partecipazione a distanza, potendosi presumere l’interesse dei partecipanti a seguire le lezioni. Esigerei invece la presenza per le lezioni relative alla deontologia dei magistrati, la quale, non essendo materia di esame, rischierebbe di non essere seguita “da remoto”.
Con riferimento alle domande sul punto, la natura soltanto teorica delle prove di esame rende non consigliabili un tirocinio pratico e l’osmosi con le scuole di specializzazione forense. Si può non condividere il mantenimento di un tipo di esame che era stato concepito con l’integrazione, dopo il tirocinio, delle prove pratiche (tre sentenze) dell’esame per aggiunto giudiziario, ma la realtà è che, per superare le prove scritte, occorre studiare sui libri di diritto (che oggi tengono conto anche della giurisprudenza) e acquisire un linguaggio tecnico idoneo a esporre chiaramente e organicamente argomentazioni giuridiche.
Giovanni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di cassazione
Ho riflettuto e provo a rispondere ai tuoi quesiti.
I tirocinanti e gli AUPP già vivono e operano insieme con i giudici e respirano ogni giorno l’aria della giurisdizione civile o penale. Non ritengo perciò proficua una loro separazione nei corsi della SSM aventi ad oggetto materie di diritto civile o penale oggetto della prova scritta per il concorso in magistratura. Agli esperti formatori sarà affidato il compito di inserire gli aspiranti in adeguati e specifici gruppi di lavoro, dove la ricchezza e la pluralità del dialogo cui parteciperanno potranno offrire loro importanti chiavi di lettura critica degli istituti e di logica del ragionamento per una esposizione chiara e incisiva. Ai candidati potrebbe essere affidato l’incarico di redigere sintetici report delle relazioni e degli interventi. Fatta eccezione per la materia del diritto e della giustizia amministrativa (ove occorre organizzare autonomi e dedicati corsi per gli aspiranti), sono quindi contrario a prassi e metodologie che vedano i candidati magistrati separati dai contesti e dalle esperienze ove si opera e si forma la comune cultura della giurisdizione. La SSM quindi come luogo di incontri qualificati e coesi, in cui si implementano le occasioni di ascolto studio ricerca riflessione crescita dei saperi del candidato.
Renato Rordorf, Primo Presidente aggiunto emerito Corte di Cassazione
1. Le prove di concorso prescritte dalla recente normativa non mi sembrano discostarsi di molto da quelle che già conoscevamo e sono propenso a credere che anche i criteri di giudizio che verranno applicati al riguardo dai futuri commissari d’esame non si discosteranno granché da quelli adoperati in passato. Il richiamo ai principi costituzionali mi appare oggi quasi un’ovvietà: nessun laureato in giurisprudenza dovrebbe ormai ignorare che la legge va interpretata ed applicata alla luce di quei principi e, quindi, un elaborato di concorso che mancasse di tenerne conto, quando l’argomento lo richieda, sarebbe già solo per questo insufficiente. E credo che lo stesso possa dirsi anche per i principi dell’Unione europea. I giudici nazionali dei paesi membri dell’Unione sono anche, com’è noto, giudici europei, chiamati perciò a dialogare con le corti di Strasburgo e Lussemburgo contribuendo con esse alla formazione del diritto vivente europeo. Come dubitare, allora, che chi ambisca a svolgere una tale funzione debba dar prova di conoscere anche i principi del diritto unionale e saperli coniugare con la normativa interna?
Per quanto appena detto, non credo proprio che il richiamo ai principi della Costituzione e dell’Unione europea “scompagini il quadro della formazione”. Anzi, mi sembra che ne costituisca un elemento fondamentale.
2. La questione, ovviamente, è qui da porre in relazione alla prospettiva didattica che il nuovo compito affidato alla SSM richiede. Ed allora, sintetizzando al massimo il mio pensiero, credo si dovrebbe porre l’accento soprattutto su quattro aspetti:
a. la necessità di intendere il ruolo del giudice in modo non burocratico e non meramente volto a realizzare una plausibile tecnica combinatoria delle diverse disposizioni normative applicabili ad una determinata fattispecie, bensì tendente ad un componimento degli interessi delle parti in causa che sia il più vicino possibile ad un criterio di giustizia (non soggettivamente inteso, ma ricavabile dai principi costituzionali e sovranazionali ai quali il nostro ordinamento di ispira);
b. il rifiuto da atteggiamenti esasperatamente formalistici, nella consapevolezza che le regole processuali sono ovviamente sempre da tenere ben presenti, ma che il giudice, se vuole essere fedele al compito affidatogli dalla società, deve fare ogni sforzo per riuscire a dare una risposta effettiva alla domanda di giustizia che gli viene rivolta;
c. l’attenzione ai precedenti, non perché li si debba sempre pigramente seguire, ma per valutarli criticamente (anche alla stregua delle specificità che ogni singolo caso presenta) ed eventualmente discostarsene solo se si è convinti di poter portare valide argomentazioni in contrario e di poterle adeguatamente motivare (e motivarle nel modo che sia il più comprensibile possibile anche per i non addetti ai lavori, ed anzitutto per le parti in causa);
d. il rispetto di tutti gli altri attori presenti sulla scena processuale, a cominciare dai difensori delle parti, evitando atteggiamenti arroganti e senza, perciò, la pretesa di “dare lezioni”, anche quando si debba rigettare una tesi difensiva più o meno audace, rimanendo sempre aperti alla discussione con i colleghi e pronti ad accettare opinioni diverse dalle proprie quando appaiono migliori.
Si capisce che dei corsi di preparazione ad un concorso debbono soprattutto fornire ai candidati gli strumenti tecnici più idonei a conseguire il risultato, ma credo che il compito formativo proprio della SSM non possa prescindere dal dare anche un minimo di indicazioni su come il futuro giudice possa essere all’altezza del ruolo che la società gli confiderà.
Mi sentirei, in generale, senz’altro di raccomandare la massima attenzione al ruolo di garanzia che non soltanto al giudice ma al magistrato in generale compete. Quanto al penale, sarebbe importante, a mio sommesso avviso, inculcare l’idea che il compito del giudice – ma anche del pubblico ministero – non è quello di combattere il crimine, bensì di garantire che la legge penale sia correttamente applicata, nel pieno rispetto tanto della indispensabile funzione punitiva (ma con finalità rieducative) dello Stato, quanto dei diritti di difesa dell’imputato e delle parti lese. La partecipazione anche di avvocati all’attività formativa dei futuri magistrati (di cui dirò poi) può assai giovare al raggiungimento di questo obbiettivo.
3. Non trovo facile rispondere neppure al quesito concernente i moduli formativi che potrebbero rendere appetibile la partecipazione di aspiranti magistrati ai corsi di preparazione al concorso in magistratura approntati dalla SSM.
Collegherei questo quesito a quello concernente la finalità dei corsi e, in particolare, se essi debbano soprattutto mirare all’obiettivo del superamento delle prove di concorso da parte dei candidati. Qui credo che davvero occorra fare un bagno di realismo. È indubbiamente auspicabile che il giovane laureato, il quale ambisca a diventare magistrato, avverta la necessità di un approccio non soltanto libresco alla professione, ma che ne intenda i valori e comprenda che l’esercizio della giurisdizione non si esaurisce nella meccanica applicazione di precetti legali che il magistrato deve ben conoscere. Tuttavia, l’esperienza delle molteplici organizzazioni di corsi di preparazione al concorso tenuti da privati dimostra che – del resto comprensibilmente – nell’aspirante magistrato fa sempre comunque premio la preoccupazione immediata di superare l’esame di concorso. Perciò, se la SSM vuole, meritoriamente, porsi l’obiettivo di competere con i corsi privati per fornire ai futuri magistrati una formazione più elevata e completa, non può trascurare che un tale obiettivo non è realisticamente raggiungibile se i corsi da essa tenuti non appariranno funzionali al superamento delle prove di concorso, quanto e più di quelli privati. Solo a questa condizione si potrà tentare di veicolare anche contenuti formativi di più alto livello.
Ciò premesso, mi pare che le modalità con le quali attualmente la SSM si rivolge ai magistrati già in servizio possano costituire certamente una buona base di partenza ma non sarebbero certo di per sé soli sufficienti, occorrendo anche insegnare ai candidati al concorso a cimentarsi con quel particolare esercizio che consiste nella redazione degli elaborati scritti: un esercizio tanto più necessario in quanto, per lo più, i neolaureati in giurisprudenza hanno con esso poca dimestichezza.
Fermo quanto sopra, sono convinto che il valore aggiunto dei corsi tenuti dalla SSM possa consistere anche nel fatto che, come poi dirò meglio tra un momento, i moduli formativi comprendano anche forme di tirocinio pratico e che si tengano anche lezioni su tematiche non sempre altrove adeguatamente approfondite, quali la teoria dell’interpretazione giuridica e la deontologia.
4. Mi sembra inevitabile che per ogni corso vi sia una pluralità di docenti, ma credo necessario che ad uno di essi sia affidato il compito di elaborare e poi coordinare le diverse attività del corso. Bisogna cercare di evitare il rischio, talvolta da me riscontrato nelle scuole di specializzazione forense postuniversitarie, di lezioni o iniziative didattiche affidate unicamente all’iniziativa di singoli docenti ma del tutto slegate tra loro. Tenuto conto della tripartizione delle prove di concorso, mi parrebbe opportuno designare tre coordinatori del corso – ai quali, volendo, si potrebbe anche dare il nome di esperto formatore o di tutor – rispettivamente incaricati di occuparsi dei settore civile, penale ed amministrativo, i quali dovrebbero farsi carico di elaborare i relativi programmi discutendone con i singoli docenti, previamente individuati (una sorta di collegio docenti), ed eventualmente aggiornandoli in fase di svolgimento. La correzione degli elaborati potrebbe esser affidata al docente che ne ha dettato la traccia (l’ideale sarebbe che gli elaborati fossero corretti collegialmente da tutti i docenti del settore, a guisa delle commissioni d’esame dei concorsi, ma temo risulterebbe troppo complicato). Il tutto, ovviamente, sotto la supervisione di un componente del direttivo della SSM, che potrebbe prendersi cura degli aspetti trasversali (quali ad esempio, quelli dell’interpretazione giuridica e della deontologia, già prima menzionati).
5. Provo a rispondere cumulativamente ai quesiti sulla collaborazione con le scuole di specializzazione forese, sulla designazione di magistrati come docenti e sulle possibili sinergie con l’avvocatura e l’accademia.
Sono assolutamente convinto della grande utilità di questa sinergia (ne ho già implicitamente fatto cenno prima, parlando della formazione del magistrato penale), ma resto dell’avviso che il nerbo dei docenti nei corsi affidati alla SSM debba esser formato da magistrati. Non perché siano più bravi degli avvocati o degli accademici, ma per la banale ragione che essi hanno avuto diretta e personale esperienza tanto delle prove di concorso quanto del successivo esercizio della professione alla quale i discenti vorrebbero accedere. La difficoltà derivante dalla disposizione che vieta ai magistrati ordinari la possibilità di svolgere lezioni nell’ambito di corsi di preparazione al concorso in magistratura mi sembra superabile con un’interpretazione che circoscriva la portata di tale divieto ai corsi privati, quella essendo – se non mi inganno – la ratio legis (si potrebbe eventualmente chiedere in proposito al CSM una delibera di indirizzo).
L’affidamento di tali docenze a magistrati comporterebbe, inevitabilmente, il loro (direi parziale) esonero dai compiti giurisdizionali, con conseguente sacrificio per le esigenze di funzionamento dei rispettivi uffici giudiziari. C’è poco da fare: la coperta è corta, ma credo ne valga la pena.
Ribadisco che la partecipazione ai corsi in veste di docenti anche di avvocati ed accademici sarebbe molto utile: quella degli avvocati per abituare i futuri magistrati a tener conto del punto di vista dell’altra fondamentale componente del mondo forense; quella degli accademici (spesso, del resto, a loro volta anche avvocati) per il necessario contributo di dottrina cui attingere nell’elaborazione delle prove di concorso.
Ho invece qualche per perplessità quanto alla prospettata osmosi con le scuole di specializzazione per le professioni forensi. L’idea di una formazione comune di magistrati ed avvocati (e magari anche notai), alla maniera di quel che accade in Germania, è in teoria molto affascinante, ma di assai difficile realizzazione allo stato del nostro ordinamento. Non mi è perciò ben chiaro come una l’anzidetta osmosi si potrebbe in concreto realizzare, anche in considerazione della diversa dislocazione geografica delle sedi universitarie che ospitano le scuole di specializzazione.
Aggiungo che, benché la mia personale esperienza con riguardo alle scuole di specializzazione forense sia alquanto risalente nel tempo, ho l’impressione che i risultati da esse conseguiti in questi anni siano molto diseguali e, nel complesso, non del tutto soddisfacenti: forse anche a causa del fatto che i docenti accademici tendono a considerare il relativo impegno come secondario rispetto ai loro tradizionali compiti universitari. Naturalmente ciò non toglie che sarebbe invece assai opportuno tenere aperto un dialogo con gli ordini professionali, ed in particolare col Consiglio nazionale forense, per possibili scambi di esperienze.
6. Quanto, infine, alla modalità di svolgimento dei corsi, privilegerei senz’altro le lezioni in presenza, che rendono più facile e sciolto il dialogo tra docente e discenti, molto importante soprattutto quando si tratta di trasmettere delle esperienze prima ancora che delle nozioni. L’uso degli ormai consueti mezzi di comunicazione a distanza può ovviamente servire, ma dovrebbe avere carattere accessorio.
Come ho già accennato, sarei senz’altro favorevole a che i corsi diano spazio anche a momenti di tirocinio pratico, la cui utilità credo sia dimostrata dagli stage fatti in uffici giudiziari da molti giovani laureati entrati poi in magistratura. È ben vero che le prove da superare per vincere il concorso conservano un carattere eminentemente teorico, ma sovente i temi proposti sono modellati su noti precedenti giurisprudenziali e le commissioni di esame sono in prevalenza composte da magistrati, abituati a confrontarsi col diritto vivente. Pertanto, anche a prescindere dall’utilità formativa del praticantato in vista del successivo esercizio della funzione di magistrato, mi pare che esso possa risultare utile pure al superamento delle prove d’esame ed altresì a comprendere in cosa davvero consiste la professione che un giovane neo-laureto aspira ad intraprendere e se egli sia fino in fondo persuaso di questa scelta di vita. Per questa ragione mi parrebbe preferibile che il tirocinio pratico degli aspiranti magistrati sia svolto presso uffici giudiziari e non presso studi di avvocato.
Guido Raimondi, Presidente emerito della Corte europea dei diritti dell’uomo, già Presidente titolare della Sezione Lavoro della Corte di cassazione
1. Direi che con le nuove norme si recupera un po’ lo spirito del concorso in magistratura quale era ai tempi della mia laurea (1975). Quando si considera funzione prevalente della prova scritta quella di “verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati”, credo si voglia privilegiare l’esigenza di una solida preparazione dei candidati a livello istituzionale, e la loro capacità di ragionamento, piuttosto che la loro conoscenza specialistica. Troppe tracce, nei concorsi degli ultimi anni, presupponevano nozioni specialistiche, se non la padronanza dei temi trattati in specifiche e complesse recenti sentenze delle Sezioni unite civili e penali della Corte di cassazione e dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Chiaramente i corsi non dovranno trascurare la giurisprudenza recente delle supreme giurisdizioni, ma credo che l’accento dovrà essere posto sulla completezza e la solidità di una preparazione istituzionale nelle tre materie oggetto delle prove scritte.
2. Non credo che il richiamo ai principi (dell'ordinamento, costituzionali, dell'Unione europea) scompagini il quadro della formazione. La dimensione costituzionale, quella del diritto dell’Unione europea, e anche quella della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che mi sembra implicitamente richiamata attraverso il riferimento all’Unione europea (art. 6.3 Trattato Unione europea) sono oramai un elemento imprescindibile nell’apprendimento di tutte le materie di diritto interno, in particolare delle tre che formano oggetto delle tre prove scritte, per cui credo che anche senza il richiamo del legislatore tutte queste dimensioni sarebbero da integrare nei futuri programmi formativi relativi ai corsi di preparazione al concorso.
3. Effettivamente dal modo nel quale il legislatore configura le prove scritte emerge l’esigenza di un giudice, come dici tu, “partecipe, critico, attivo, nell'attuazione dei diritti”. Non limiterei però questa esigenza al settore penale, ma la vedrei dispiegarsi a tutto campo in tutte le possibili attività del magistrato. Capisco che in materia penale l’attività del giudice incide più direttamente nella sfera personale dei soggetti interessati, con effetti potenzialmente devastanti, per cui questa esigenza è avvertita in modo più intenso. Credo che in tutti campi, ma probabilmente maggiormente nel settore penale, il percorso formativo debba avere cura di coltivare il messaggio della natura “umanistica del diritto”, cioè della finalità ultima di questo, che è quello di protezione sì della società, ma anche – almeno in un ordinamento come il nostro, per come è stato configurato dalla Costituzione – della persona umana e della sua dignità. Soccorre qui il riferimento che facevo all’inizio all’opportunità di integrare nei percorsi formativi la dimensione etica e quella deontologica.
4. Non posso dire di avere una conoscenza approfondita dell’offerta formativa dalla SSM. Credo però, anche in considerazione della natura specialistica di almeno la maggior parte dei moduli esistenti, che occorra progettare dei moduli totalmente nuovi, mirati, per quanto dicevo prima, al conseguimento di una solida e completa preparazione istituzionale, per cui i candidati siano effettivamente messi in grado di impadronirsi – a livello istituzionale, ma con completezza – delle materie di esame.
5. La domanda sul se debba essere uno stesso docente a dovere seguire una parte dei programmi elaborati è difficile, anche perché è legata a quella successiva sulla funzionalità degli uffici e quindi al possibile gravoso impegno per i colleghi che saranno coinvolti come docenti. Direi che, anche alla luce di quanto già detto sull’orientamento della formazione, sono evidenti i vantaggi dell’affidamento a un numero ristrettissimo di docenti (idealmente solo uno) di ciascuna delle tre materie oggetto di prova scritta. Una visione frammentata di ciascuna materia non sarebbe funzionale all’acquisizione di quella preparazione “solida e completa” cui accennavo. Per questa ragione la mia preferenza sarebbe per la scelta di docenti provenienti dall’università, da individuare in seno al Comitato direttivo. L’unico criterio dovrebbe essere quello della “chiara fama”; eviterei procedure concorsuali, a meno che non se ne possa fare a meno normativamente. L’opinione maggioritaria del Comitato dovrebbe essere una garanzia sufficiente. Il sistema della cooptazione avrebbe il vantaggio di evitare la presentazione di candidature, fonte di frustrazione per gli esclusi.
6. Sempre per le stesse ragioni legate all’orientamento generale del percorso formativo – nella mia prospettiva - credo sia veramente opportuno, ferma restando la necessità di accordare un minimo di libertà ai docenti che saranno poi nominati (nella mia prospettiva, pochissimi e luminari riconosciuti nelle loro materie), predisporre le linee generali dei corsi nelle tre materie. La libertà dei docenti non potrà essere assoluta, nel senso che i programmi dovranno garantire quella preparazione “solida e completa” più volte menzionata. Quindi sarei d’accordo sull’idea di nominare a questo scopo esperti formatori. Mi permetterei però di sottolineare l’opportunità che si tratti, anche qui, di accademici di chiara fama, dello stesso livello di quelli che saranno poi chiamati alla docenza.
7. La figura del tutor mi sembra indispensabile. Ce ne vorrebbe forse più d’uno per ciascuna materia (con specializzazioni diverse). Mi sembrerebbe però altrettanto necessaria una loro subordinazione ai docenti veri e propri. I tutor potrebbero coadiuvare i docenti nella scelta dei temi e nella correzione degli elaborati, ma le decisioni finali dovrebbero appartenere ai docenti, pochi e, auspicabilmente, eminenti.
8. Come dicevo, la mia preferenza sarebbe per docenti di provenienza accademica (immagino che la magistratura associata non sarebbe d’accordo), scelta che ovviamente taglierebbe in radice i problemi evocati. In ogni caso, la partecipazione di colleghi ai corsi su base puntuale, coordinata dai docenti, non sarebbe da escludere e sarebbe anzi auspicabile. Non credo che il divieto per i magistrati ordinari di svolgere lezioni a corsi di preparazione al concorso in magistratura, evidentemente disegnato per le scuole private, possa aver alcun effetto rispetto ai futuri corsi della SSM.
9. Naturalmente ogni forma di collaborazione e di consultazione tra tutte le entità menzionate è assolutamente opportuna, come pure la tensione verso la costruzione di una cultura comune, nella diversità dei ruoli, tra tutti gli operatori del diritto. Francamente però credo che la responsabilità finale dei futuri corsi, a tutti livelli, di ideazione, di programmazione e di realizzazione, debba restare saldamente nelle mani della SSM. Questo vale anche relativamente ai rapporti con il CSM, la cui voce deve essere ovviamente ascoltata, ma in un quadro nel quale le decisioni finali è opportuno che siano vostre, quelle cioè di una istituzione la cui vocazione è essenzialmente culturale.
10. Non mi pare che la possibile sperimentazione di nuovi percorsi metodologici sia, in sé, in contraddizione la finalità di raggiungere l’obiettivo del superamento delle prove di concorso. A meno che la domanda non sconti il rischio che i possibili nuovi percorsi metodologici siano di ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo; se è così, hai già la mia risposta: la finalità principale è quella del raggiungimento dell’obiettivo.
11. Anche la domanda sul metodo di apprendimento --formazione a distanza o in presenza-è particolarmente difficile. Ovviamente la formazione in presenza è, in sé, da preferire. Il rischio è quello di escludere potenziali candidati per ragioni essenzialmente economiche, il che andrebbe esattamente contro quanto dicevo prima sulla mobilità sociale. Anche la moltiplicazione dei corsi sul territorio sarebbe da evitare, a mio sommesso giudizio, per le considerazioni che facevo sull’eccellenza dei docenti. Forse bisognerebbe pensare, oltre che a un sistema di borse di studio, a una modalità mista, che consenta di seguire i corsi a distanza a chi non può farlo in presenza.
12. Penso, infine, che il corso per aspiranti magistrati non debba prevedere un tirocinio pratico negli uffici giudiziari e/o negli studi professionali di avvocato. La pratica verrà dopo. Prima bisogna vincere il concorso.
Gabriella Luccioli, già Presidente titolare prima sezione civile della Corte di cassazione
Nello svolgere qualche rapida considerazione in risposta ai molti e complessi quesiti rivoltimi da Roberto osservo innanzi tutto in via generale che i nuovi compiti attribuiti alla SSM dall' art. 3 del d.lgs. n. 44 del 2024 chiamano in causa la capacità dell’istituzione di fornire ai discenti strumenti di conoscenza che non possono identificarsi con quelli generalmente adottati dalle scuole private. Viene qui in gioco non tanto la idoneità a far superare le prove di concorso, e soprattutto quelle scritte, sulla base di pronostici più o meno plausibili circa la scelta dei temi, ma la finalità di fornire agli aspiranti magistrati un metodo di lavoro, una capacità di inquadramento teorico- sistematico delle questioni, una visione generale dei grandi principi che sono alla base dell’ordinamento costituzionale ed europeo. In questa impostazione ampio spazio dovrebbe essere assegnato al diritto dell’Unione europea e a quello internazionale, nonché al dialogo tra le varie Corti.
A tale impegno dovrebbe associarsi quello di insegnare la deontologia e l’etica del magistrato, con opportuni approfondimenti sia in tema di responsabilità disciplinare sia sulla natura e la funzione del codice deontologico.
Nessun rischio quindi di concorrenza con l’attività delle sempre più numerose ed attrezzate scuole private, perché ben diverso è il ruolo della Scuola in ogni momento della sua attività formativa.
Occorrerà sottoporre i discenti a numerose prove scritte, onde abituarli a scrivere di diritto ovviando alle carenze della formazione universitaria.
È importante, inoltre, che venga trasmessa ai giovani la consapevolezza del ruolo del giudice, della sua funzione di garante dei diritti costituzionalmente garantiti, della necessità di fornire una risposta di giustizia anche quando il legislatore è silente.
È importante anche che essi conoscano i precedenti non per restarne inesorabilmente vincolati, ma per saggiarne l’attualità e la valenza in un contesto sociale e culturale in piena evoluzione.
È importante ancora che riconoscano il valore della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni, ma siano capaci di affrontare con coraggio le nuove sfide che attendono i giudici soprattutto in materia di diritti fondamentali.
È altresì importante che introiettino il rispetto di tutti gli attori del processo, che riconoscano la funzione fondamentale del difensore ed imparino a coltivare l’ascolto di tutte le opinioni, anche di quelle che appaiono le più lontane.
2. Come ha osservato in un suo scritto Costantino De Robbio, un corso adeguato richiede un programma che si sviluppi almeno per un anno, con lezioni a cadenza bisettimanale. Nell' alternativa tra lezioni in presenza o a distanza, sono senz' altro favorevole alla prima ipotesi, che consente prestazioni molto più coinvolgenti e controllabili.
Gli esperti formatori dovrebbero essere distaccati presso la SSM, come avviene nel sistema francese, e predisporre le linee generali dei corsi.
Nell’ambito delle linee generali tracciate dagli esperti formatori i corsi dovrebbero essere affidati a docenti, uno per ciascuna delle materie scritte, in grado di assicurare la continuità ed il rispetto dei programmi, di elaborare tracce, individuare temi specifici e garantire la correzione delle prove scritte. Come è evidente, si tratta di un impegno gravoso, che non può cumularsi con il normale lavoro dei magistrati in servizio. Ad una opportuna riduzione per questi del carico di lavoro potrebbe associarsi un’ampia utilizzazione di magistrati in pensione, specie di quelli che hanno lasciato la magistratura da poco tempo e che hanno tenuto in passato corsi di formazione. La scelta di magistrati in pensione eviterebbe ovviamente ripercussioni sulla funzionalità degli uffici giudiziari. L' attività di ogni corso dovrebbe poi esser sottoposta alla supervisione di un componente del direttivo della Scuola. Escluderei senz' altro l’operatività del divieto di legge per i magistrati di svolgere lezioni ai corsi di preparazione ai concorsi, stante la natura istituzionale della SSM.
Credo che i moduli formativi ora adottati per i magistrati possano essere utilizzati anche su questo fronte, con le opportune integrazioni rese necessarie dalle descritte finalità dei corsi.
La sinergia tra accademia, avvocatura e magistratura sarebbe realizzata con la nomina di docenti di tutte le categorie.
Ritengo infine estremamente utile la previsione di un periodo non eccessivamente lungo di tirocinio pratico negli uffici giudiziari, da ritenere preferibile, anche per motivi di controllo e di ampiezza dell’esperienza, a quello presso studi legali.
Giacomo Fumu, già Presidente titolare quarta sezione penale della Corte di cassazione, già Presidente della Commissione di concorso per l’accesso in magistratura (D. M. 29.10.2019 e, in precedenza, D. M. 25.10.2006)
Innovazioni secondo le nuove regole: si amplifica la platea dei concorrenti; dunque, non è più necessaria una formazione “rafforzata” da esperienze professionali “specifiche” dopo la laurea; è richiesta quindi una preparazione solo teorica (essenzialmente teorica) quale solo può essere quella di chi è appena uscito dall’università (ove, peraltro, non si impugna mai la penna per sperimentare e affinare la capacità espositiva).
Comunque, una preparazione solamente teorica è quella che è stata finora sufficiente (utile) per affrontare il concorso e adeguatamente redigere la relativa prova scritta.
Prima delle recenti nuove disposizioni si possono registrare in tal senso le norme speciali varate ai tempi della pandemia, e cioè l’articolo 11 del decreto-legge numero 44 del 2021 e l’articolo 2 del decreto-legge numero 118 del 2021 nei quali espressamente si richiedeva ai candidati (riducendosi il tempo dello svolgimento della prova rispettivamente a 4 e 5 ore) l’elaborazione di “ sintetici elaborati teorici” e si prescriveva alla commissione di tenere conto in sede di correzione “ delle capacità di sintesi nello svolgimento degli elaborati”.
Le stesse norme prevedevano che le commissioni di concorso nella formulazione dei criteri per la valutazione omogenea degli scritti, dovessero tenere conto “della capacità di sintesi manifestata dal candidato”.
Nella elaborazione dei predetti criteri le ultime commissioni che hanno pubblicato il relativo provvedimento nel sito del ministero (in allegato) hanno posto l’accento proprio sulla dimostrazione di conoscenza degli istituti oggetto delle tracce e dei principi fondamentali della materia.
Dunque, preparazione teorica come base per il superamento del concorso sulla quale innestare la successiva formazione iniziale ad opera della Scuola nel corso del tirocinio. Concluderei sul punto osservando che l’obiettivo della formazione e le modalità di preparazione non sono innovati dai recenti interventi legislativi.
La conoscenza dei ed il riferimento ai principi dell’ordinamento, costituzionali, dell’unione europea (ed il Consiglio d’Europa?) hanno necessariamente sempre fatto parte del bagaglio di conoscenza richiesto al candidato. Per esempio, nel recente concorso da me presieduto è stata molto apprezzata, con riferimento al quesito sulla natura della responsabilità delle persone giuridiche, la discussione sul concetto di sanzione penale come elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Il concorso ha lo scopo di selezionare i giovani giuristi (i migliori giovani giuristi) destinati a svolgere la funzione di magistrato, la introduzione alla quale è compito della Scuola nel corso del tirocinio. Sono del parere che la preparazione al concorso si debba concentrare sulla formazione teorica, cioè sulla conoscenza degli istituti e, in particolare, dei loro collegamenti che il sistema inserisce e pretende per realizzarne l’unità.
Nei corsi svolti a Scandicci per i magistrati in tirocinio ho molto apprezzato e ritenuto utilissimi i seminari riservati ad un numero ristretto di partecipanti con la possibilità per ciascuno di interloquire. In questo ambito è destinata a produrre buoni frutti la discussione sugli argomenti ed il commento, da parte del tutor, sullo svolgimento dei “temi” assegnati in prova ai discendenti, ferma restando la necessità della interlocuzione privata fra tutor e allievo sulle questioni (pregi e difetti) più specifiche poste da ogni elaborato.
La medesimezza del docente è fondamentale. Si deve creare un rapporto personale fra docente ed allievo. Ciò implica la organizzazione di corsi con un numero ragionevole di partecipanti ed un docente – tutor - per ogni settore, con tuttavia fondamentali rapporti e sinergie fra gli esperti nelle differenti materie di prova scritta, i quali devono garantire l’insegnamento e l’apprendimento del sistema nella sua globalità e nelle sue connessioni (anche con riferimento ai principi costituzionali e dell’Unione europea, senza escludere direi quelli del Consiglio d’Europa).
Ritengo necessaria la nomina di esperti formatori che predispongano programmi e caratteristiche generali dei corsi nell’ambito delle linee guida dettate dalla Scuola, fermo restando che devono essere individuati “formatori” veramente “esperti” nella preparazione del concorso e quindi alieni dal replicare la fallimentare esperienza delle scuole di specializzazione per le professioni legali, che si sono risolte in una ripetizione disorganica dei corsi universitari, per di più affidata a docenti operanti senza un vero coordinamento tra loro.
La preparazione finalizzata a sostenere una prova di concorso così impegnativa è cosa diversa assai da un “ripasso”, seppur approfondito. È non solo studio e conoscenza, ma sviluppo della capacità di inquadramento della questione proposta, di ragionamento e lucido esame degli argomenti da trattare, di esposizione chiara e sintetica dei concetti.
Ecco perché è fondamentale il contatto frequente e diretto con il tutor che queste capacità deve sviluppare conoscendo il suo allievo. Non bastano docenti “random”.
7. Per rispondere al quesito mi richiamo a quanto detto finora. Gruppi non numerosi di discenti, tutor “dedicato” che formula le tracce, seguendo anche l’evoluzione del corso e degli argomenti trattati, che corregge gli elaborati discutendo collegialmente con il gruppo i tratti generali (eventuali mancanze) dei vari elaborati e con il singolo gli aspetti più particolari.
Così il tutor conosce meglio ogni allievo e costruisce “su misura” i suoi interventi.
8. Certamente un tutor è molto assorbito dal lavoro “sul campo”. Lo svolgimento delle lezioni, dei seminari con partecipazione collegiale degli allievi, lo studio per la preparazione delle tracce, la correzione dei compiti sono impegni direi quasi “totalizzanti”.
Dunque, mi sembra che l’ufficio giudiziario di appartenenza del tutor risenta necessariamente dell’attività così gravosa svolta da un suo componente.
Peraltro, non vedrei ostacoli nel divieto posto a carico dei magistrati per lo svolgimento di attività di preparazione al concorso.
La nuova legge (articolo 17 septies somma 2 dlgs 26/06) indica come docenti gli iscritti all’albo esistente presso la Scuola superiore, senza nessuna esclusione.
Inoltre, è pacifica la differenza fra chi insegna “in privato “, cioè sostanzialmente in forma professionale e commerciale e chi opera all’interno di un ente pubblico senza scopo di lucro. Solo ai primi è evidentemente rivolto il divieto.
9/12. Direi che la fallimentare esperienza delle scuole di specializzazione, frequentate solo per i bonus derivanti dal titolo e non per stimoli culturali (tanto che si sommava regolarmente la frequentazione di una scuola privata), ci induce a pensare di non replicarne l’esperienza e di non chiederne la collaborazione.
Avvocatura e magistratura potrebbero certo fornire validi docenti: ma attenzione - e qui rispondo anche al quesito numero 12 - con il concorso in magistratura si selezionano giuristi (giovani giuristi) che conoscano il sistema e su questo e attraverso questo sappiano ragionare e quindi affrontare qualsiasi questione giuridica, con l’aiuto delle norme (codici sono consultabili) e della preparazione generale.
Del tutto inutile che conoscano prima, frequentando uffici giudiziari e studi legali, la realtà dei decreti ingiuntivi o dei sequestri per equivalente; è la stessa ragione per cui non serviva a nulla al fine di preparare il concorso il tirocinio (allora abilitante) presso gli uffici: è la conoscenza del sistema, insieme alla capacità di inquadrare nel suo interno gli istituti, che consente al candidato di mostrare la completezza della preparazione, la razionalità dell’esposizione e l’adeguatezza del linguaggio, ciò che serve a superare la prova.
10. Il corso deve servire a sviluppare capacità e conoscenze, a formare con metodo costante giovani giuristi che possano, preparati e consapevoli, superare il concorso e quindi affrontare con solide basi il tirocinio (nella Scuola e negli uffici giudiziari) che li forgi anche come magistrati.
11. Da quanto precede è chiaro che opto per la formazione in presenza, con il contratto empatico fra docente (tutor) e discente.
Se saltiamo il rapporto “fisico” e costante fra tutor e allievo torniamo alla scuola di specializzazione ed alla sua sostanziale inutilità.
Umberto Scotti, già Consigliere delle Sezioni Unite civili e della prima sezione civile della Corte di Cassazione
A mio parere il modulo formativo da privilegiare è quello basato sul metodo dell’esperto formatore che coordina un gruppo di relazioni c.d. «frontali» su argomenti di attualità legati a un grande tema o macroarea del diritto civile, penale e amministrativo (per esempio, quanto al civile: diritti reali, obbligazioni e contratti, responsabilità civile, società associazioni e consorzi, diritti della personalità…).
I temi delle relazioni dovrebbero essere basati sugli sviluppi più recenti della giurisprudenza (per esempio pronunce delle Sezioni Unite o delle Corti europee o nuove questioni agitate nella giurisprudenza di merito).
Escluderei il metodo dei gruppi di lavoro.
Viceversa, mi parrebbe opportuno assegnare successivamente alle lezioni almeno un compito scritto per ciascuna macroarea soggetto a correzione.
Le figure professionali che occorre coinvolgere sarebbero quindi:
a) l’esperto formatore (EF)
b) il relatore sul singolo tema
c) il tutor correttore di temi scritti
Tali soggetti potrebbero in parte anche coincidere.
Secondo me la formazione dei programmi, nel senso della individuazione delle macroaree e degli esperti formatori, dovrebbe competere alla Scuola o a un responsabile generale da essa individuato.
Gli EF dovrebbero invece organizzare il programma per la loro macroarea.
Gli EF dovrebbero organizzare il corso per la loro macroarea, scegliere i temi e individuare i relatori da sottoporre all’approvazione della SSM o di chi per essa.
A mio parere le tracce dovrebbero essere scelte dall’EF con la collaborazione dei relatori scelti.
La correzione delle tracce dovrebbe essere affidata ad alcuni tutor che potrebbero coincidere con EF, relatori, della macroarea, ma potrebbero (e probabilmente dovrebbero per ragioni numeriche) essere anche ulteriori soggetti, caratterizzati da una specifica professionalità (magistrati ed ex magistrati con esperienze di formazione o di membro di commissione d’esame, ad esempio).
Ci dovrebbe essere un momento iniziale di coordinamento per concordare i criteri di correzione delle tracce.
Per risultare efficaci i tutor non dovrebbero avere che un gruppo relativamente ridotto di temi da correggere e di studenti da assistere (in un eventuale momento esplicativo delle correzioni).
Non credo che ci possa essere alcuna incompatibilità quanto allo svolgimento dell’attività di formatore ai corsi per aspiranti, ma se dubbio vi fosse va risolto normativamente.
Certamente si può fare in parte affidamento anche sugli ex magistrati, ma bisogna coinvolgere assolutamente anche i magistrati in servizio, soprattutto quelli con esperienze di formazione e i magistrati di legittimità, e non restringere la platea dei collaboratori a soli relatori provenienti dall’Accademia o dal Foro.
Per i magistrati in servizio la linea di compatibilità da seguire mi pare che dovrebbe essere quella in atto per le altre collaborazioni alle attività della SSM.
Accademia e Avvocatura dovrebbero essere coinvolte nella scelta dei relatori ma non nella individuazione dei programmi, che direi che dovrebbe competere alla SSM nella sua equilibrata composizione prevista dalla legge.
Quanto alle modalità di formazione ed alla sperimentazione di nuovi percorsi metodologici di apprendimento, direi essenzialmente, seppur non unicamente. La sperimentazione di nuovi metodi può essere utile, ma l’interesse principale dei giovani discenti è quello della partecipazione e del superamento del concorso in magistratura. Per le relazioni frontali sarebbe meglio la partecipazione in presenza, ma credo che per essere efficace si dovrebbe virare sulla partecipazione a distanza o almeno adottare un metodo misto.
La qualità e il livello del corso, così come pure gli oneri organizzativi, ne risentirebbero negativamente se si dovesse frammentare l’attività in troppe sedi territoriali.
A mio parere, sarebbe il caso di organizzare le lezioni in presenza in posti diversi facilmente accessibili in modo itinerante (qualche volta a Milano, qualche volta a Roma, qualche volta a Napoli, per esempio) con collegamento da remoto per gli altri discenti.
L’interlocuzione per la correzione dei temi dovrebbe avvenire per iscritto e via Teams.
Quanto al tirocinio pratico non lo credo essenziale. Lascerei che l’integrazione avvenga in via di fatto.
Giovanni Fiandaca, emerito di Diritto penale Università di Palermo
Premetto che le mie risposte – che seguiranno in un ordine tendenzialmente corrispondente a quello delle domande – sono certamente influenzate da due convinzioni, che ho maturato da tempo. La prima è che il tradizionale concorso di accesso alla magistratura sia del tutto inidoneo a verificare la preparazione e le attitudini dei giovani aspiranti a rivestire il ruolo di magistrato, per cui a mio avviso piccoli aggiustamenti della prova concorsuale non sono sufficienti a produrre i miglioramenti che sarebbero necessari. La seconda convinzione è che la preparazione e la formazione dovrebbero essere concepite e impartite nella maniera meno settoriale e autoreferenziale possibile, il che vuol dire con una compartecipazione equilibrata di tutti i soggetti (professori di diritto, magistrati e avvocati) che concorrono alla gestione del diritto quale impresa collettiva, senza che nessuna parte possa unilateralmente pretendere di esserne padrona. Da questo punto di vista, che alla SSM come tale sia assegnato anche il compito di svolgere corsi di preparazione al concorso in magistratura non mi sembra la migliore delle soluzioni possibili per i rischi, appunto, di eccessiva autoreferenzialità culturale e tecnica che ciò comporta.
Fatte queste premesse, rispondo alle domande specifiche.
1. La innovazione prevista dal decreto legislativo n. 44/2024, secondo cui la prova scritta ha la prevalente funzione di verificare "la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati, alla luce dei principi generali dell'ordinamento" e anche "alla luce dei principi costituzionali e dell'Unione europea", mi sembra in sé positiva a condizione di intenderla bene; vi sono anche rischi di fraintendimento, stante anche la notevole genericità della formula adottata. Si tratta a mio avviso senz'altro di un passo avanti rispetto a una prassi concorsuale che, come era ripetutamente avvenuto nel corso degli ultimi anni, tendeva a incentrare la prova scritta su micro-questioni molto specifiche, desunte da decisioni giurisprudenziali più o meno recenti: per cui la previa conoscenza da parte del candidato della problematica applicativa in questione spesso era frutto, piuttosto che di una preparazione approfondita e di ampio respiro, dell'essersi casualmente (e fortunosamente) imbattuto nel repertorio o nella rivista in cui veniva riportata.
Ma in che misura si tratti di un autentico progresso dipende, a mio giudizio, da come si intenda la capacità di "inquadramento teorico-sistematico" e di argomentare in base ai principi. Se l'idea sottostante fosse quella di riesumare modelli di astratta teorizzazione sistematica e di dogmatica concettualistica divenuti ormai obsoleti anche in sede accademica, si tratterebbe di un regresso. Limitando ad esempio il discorso al settore di mia competenza, non dico certo qualcosa di nuovo se rilevo che un sistema penale rigorosamente inteso non esiste più da tempo quale riflesso più o meno diretto di un diritto legislativo organico e coerente nelle sue varie parti, per cui si è invece assistito nel corso del tempo a una progressiva disintegrazione sistematica: sicché l'approccio teorico degli studiosi non pretende più di desumere dal diritto positivo una sistematica generale sulla base di categorie concettuali astratte, bensì tende a utilizzare i principi di fonte costituzionale ed europea per riconcepire i diversi istituti su di una base più principialista che legalistico dogmatica. È a questo mutato quadro dottrinale di riferimento che dovrebbe, dunque, essere rapportata anche la valutazione della capacità degli aspiranti magistrati di inquadramento teorico- sistematico e di argomentare in base ai principi. Con una integrazione però, a mio avviso indispensabile. Nel riconcepire cioè la prova scritta di diritto penale non si dovrebbe mai perdere di vista che gli inquadramenti teorici e l'impiego dei principi non sono fine a se stessi, ma sono pur sempre funzionali all'attività di sussunzione dei casi concreti sotto fattispecie incriminatrici o istituti di portata generale: per cui si dovrebbe altresì verificare, in sede di valutazione della prova, l'ulteriore capacità del candidato di utilizzare le premesse generali di partenza in vista della soluzione di questioni interpretativo-applicative di portata più specifica.
Una prova concepita su questa doppia falsariga consentirebbe infatti di valutare, oltre alla preparazione libresca a carattere teorico, la capacità personale di far interagire teoria e prassi applicativa.
Non so, poi, quanto sia possibile ricavare da queste rinnovate modalità di svolgimento delle prove un preciso modello (idealtipico) di giudice. A influenzare e caratterizzare i diversi modelli possibili di magistrato concorrono un insieme eterogeneo di fattori (anche di natura sistemica esterna), che ben trascendono le aspettative implicite nel tipo di esame concorsuale. Una cosa però, almeno, mi sembra certa: una prova scritta riveduta nel senso sopra auspicato non sarebbe coerente con un modello di giudice passivo, servo acritico (se non sciocco) del dettato legislativo.
2.Non ho avuto molte occasioni, in tempi recenti, di partecipare come docente a corsi di formazione organizzati dalla SSM, per cui anche per questo mi manca una sufficiente conoscenza di moduli formativi che meriterebbero di essere replicati anche nell'ambito di corsi di preparazione per aspiranti magistrati. In base alla mia passata esperienza di partecipazione a iniziative di formazione, ho peraltro maturato la convinzione che non fosse felice e produttivo il modello tradizionalmente consolidato di far interagire docenti universitari e magistrati, vale a dire con I' anticipazione all'inizio di ogni corso della dimensione teorica affidata ai primi e la successiva dimensione pragmatico-applicativa di competenza dei secondi: con questo tipo di distinzione di competenze i professori rischiano di assumere il ruolo di dotti introduttori con prevalente funzione esornativa, mentre la parte effettivamente rilevante del corso finisce con l'essere quella gestita soprattutto dai magistrati. Insomma, teoria e prassi, lungi dal comunicare realmente, restano così due circuiti separati che nella sostanza finiscono con l'ignorarsi. Non so se questo schema, secondo me abbastanza discutibile, abbia subìto modifiche grazie a nuovi moduli formativi che però non mi sono noti.
3. In linea di massi ma, sono contrario a una accentuata suddivisione dei ruoli e dei compiti, che comporta frammentazione e rischia di compromettere una visione unitaria di sintesi. Di conseguenza, non vedrei con molto favore l'attribuzione ad esperti formatori del compito di predisporre le linee generali programmatiche dei corsi, che poi spetterebbe ai docenti specificare e concretizzar e. E, d'altra parte, ritengo che docenti di verificata bravura ed elevata competenza siano in grado di elaborare programmi generali, e che sia anche opportuno che ne seguano in qualche misura la messa in opera.
4. In base a quanto ho poco prima rilevato, penso che l'elaborazione delle tracce dei tempi possa essere effettuata dagli stessi docenti.
5. Non appartenendo all'ordine giudiziario, non dispongo di dati empirici di conoscenza per rispondere con cognizione di causa all'interrogativo se la nomina anche di magistrati come docenti possa pregiudicare il funzionamento degli uffici di ap partenenza. Non vedrei invece motivi di conflitto col persistente divieto per i magistrati ordinari di svolgere lezioni nell'ambito di corsi per il concorso in magistratura, una volta che questi corsi siano organizzati da una istituzione pubblica come la SSM.
6. I1 mio punto di vista in proposito deriva da considerazioni che ho esplicitato nelle premesse di partenza, prima cioè di rispondere alle singole domande: a mio giudizio, la sinergia da perseguire non dovrebbe riproporre il consueto schema che vede la magistratura (CSM) in posizione di netta predominanza, ma dovrebbe ispirarsi a una prospettiva di collaborazione che assegna all'accademia e all'avvocatura ruoli di più equilibrata compartecipazione sul duplice fronte della individuazione dei presupposti culturali e tecnici dei corsi e della scelta delle loro modalità di svolgimento.
7. Pur non disponendo anche in proposito di dati sufficienti di conoscenza, sarei tendenzialmente scettico sulla possibilità di far più efficacemente interagire la SSM con le scuole di specializzazione per le professioni forensi.
8. Mi piacerebbe che i corsi non perseguissero la finalità limitata di far superare le prove di concorso, ma si inquadrassero in un orizzonte formativo ben più ampio tale da indurre gli aspiranti magistrati a riflettere su questioni di fondo di particolare rilievo in una democrazia costituzionale, e attinenti al significato di cultura della giurisdizione, al modo di concepire il principio della divisione dei poteri, ai possibili modelli di magistrato ecc.
Certo, possono anche sperimentarsi nuovi percorsi metodologici; ma a mio avviso, prima ancora di pensare alle metodologie didattiche, occorrerebbe arricchire il retroterra culturale complessivo che fa appunto da sfondo all'esercizio della funzione giudiziaria.
Ritengo infine che sia da privilegiare, perché risulta più efficace in vari sensi, la didattica in presenza. Sarebbe anche opportuno prevedere un tirocinio pratico.
Antonio Ruggeri, emerito di diritto costituzionale Università di Messina
Mi permetto di offrire solo qualche riflessione sul quesito relativo alla rilevanza dei principi costituzionali e dell’Unione europea nelle tracce alle quali allude la disciplina recentemente riformata relative alle prove di concorso per l’accesso alla magistratura.
La questione pone una serie di problemi di carattere teorico perché i principi generali dell'ordinamento giuridico sono come l'araba Fenice: si sa che ci sono se non altro perché ne è riconosciuta l'esistenza, ma non si sa esattamente che cosa sono. Non va dimenticato che, anche se usualmente sono richiamati come canone di interpretazione quando altri criteri più sicuri non sono in grado di risolvere un problema i principi generali dell'ordinamento giuridico non hanno solo funzione e finalità interpretative ma costituiscono un parametro fondamentale al quale le leggi statali devono sottostare, non potendo le stesse derogarvi.
Ora, quello che mi sembrerebbe importante è che nella la preparazione dell’aspirante magistrato dovrebbe essere accertata la preparazione proprio con riferimento alla conoscenza dei grandi principi che stanno a base dell'ordinamento giuridico più che andare a verificare se sono in grado di risolvere una questione minuta. Provo ad esemplificare. Non è importante che il candidato sappia qual è la distanza legale fra gli edifici o se si può aprire una finestra che dà sul fondo altrui al fine di potere fare il magistrato anche se poi i problemi che saranno chiamati a risolvere i magistrati sono spesso proprio queste questioni minute, ma il candidato dovrebbe padroneggiare proprio i grandi principi che sono il principio dello Stato di diritto, il principio della separazione dei poteri, il principio della gerarchia delle fonti. Dunque, i grandi principi che stanno alla base dell'ordinamento giuridico. Almeno questo sembrerebbe ricavarsi da quella formula. Ne consegue che anche le tracce dei temi dovrebbero essere strutturate in modo tale da verificare una conoscenza ampia dei candidati e soprattutto la capacità di fare collegamenti fra una parte e l’altra e dunque di collegare norme anche apparentemente distanti proprio per vedere a quali principi generali sono in entrambe riportabili che hanno in comune. Non a caso si parla di capacità di inquadramento teorico sistematico. Infatti, la parola sistematico ha un significato molto importante che evidenzia questo collegamento strutturale con i principi dell'ordinamento giuridico. A me pare che le tracce dovrebbero verificare questo tipo di conoscenza per cui per esempio in materia penale è ben possibile un tema che sui vari tipi di dolo e delle sue applicazioni o della colpa piuttosto che un tema dove si chiede di descrivere una fattispecie di reato del tutto specifica.
Vorrei poi aggiungere due cose.
La prima è che anche laddove si trovassero disposizioni normative che specificamente si riferiscono ad una data fattispecie le stesse vanno comunque interpretate tenendo conto dei principi come appunto il principio dello Stato di diritto nel campo civile, la buona fede, la leale cooperazione, ecc. Intendo dire che i principi generali dell'ordinamento giuridico non è che rilevano solo come dice l'articolo 12 disp. sulle preleggi al cod. civ. quando mancano le previsioni normative, ma trovano applicazione anche come norme di secondo grado, cioè come punto di riferimento in sede di interpretazione di disposizione puntuale. D'altronde anche questo è un modo di far valere l'ordinamento come sistema.
La seconda notazione. Penso sia importante non tralasciare di considerare il riferimento ai principi alla luce dei principi costituzionali e dell'Unione europea. Dalla lettura del dato normativo sembrerebbe che ci siano dei principi specifici dell’Unione europea o risultati da tradizioni costituzionali comuni dotati di una certa autonomia da quelli costituzionali. Qui si rileva una contraddizione in atto esistente, cioè, che da un lato c'è una centralità di rilievo del diritto dell'Unione europea sia dal punto di vista teorico che nella pratica giuridica; dall'altro però paradossalmente il diritto dell'Unione europea continua a essere materia non obbligatoria in molte Università e questa a me pare sia una contraddizione da sanare. A mio sommesso avviso la SSM dovrebbe esprimere un auspicio o anche solo un'indicazione ferma affinché questa materia diventi materia fondamentale.
Come che sia, sulla centralità di rilievo dei principi non avrei dubbi alla luce di quanto detto. Basti solo considerare che ogni disposizione normativa dovrebbe essere interpretata orientandola proprio verso i principi.
Esistono, d’altra parte, carenze formidabili che si rilevano proprio sul versante del raccordo fra mondo universitario dove avviene la preparazione di base dei giuristi ed il mondo della pratica del diritto, il mondo degli operatori pratici. Quando vengono definiti i titoli delle prove di concorso spesso trascurano ciò che poi il giudice dovrà fare in concreto.
Va poi considerato che la preparazione degli studenti universitari molte volte non contempla il diritto dell'Unione europea direi che siccome voi potete esprimere solo auspici per quanto riguarda la conformazione degli studi universitari per non avere potere dispositivo per un verso bisogna sollecitare un approfondimento adeguato della preparazione a livello universitario con riferimento appunto al diritto dell'Unione europea ed anche al diritto internazionale.
Vedrei per questo di buon grado che la SSM si proietti verso gli aspiranti magistrati prevedendo una sorta di corso intensivo di diritto eurounitario, con particolare riguardo ai rapporti inter-ordinamentali fra giurisprudenza Cedu e giurisprudenza Corte di Lussemburgo. Ritengo che ciò sia fondamentale come anche l’approfondimento del diritto comparato. Penso ad esempio alle c.d. cosiddette tradizioni costituzionali comuni ed a come le stesse si ricavino attraverso la comparazione dei principi costituzionali relativi ai diritti di libertà.
Tecla Mazzarese, già Ordinaria Filosofia del diritto Università di Brescia
1. Un’osservazione preliminare
La risposta alle domande in esame – quale che essa possa essere – condiziona, e non può non condizionare, il modo di affrontare e/o valutare la questione della discrezionalità / creatività / funzione supplettiva della giurisdizione riguardo a quella legislativa. Non può non condizionare, in particolare, il modo di leggere le trasformazioni già da tempo in atto nella giurisdizione e, forse, tentare di influenzarne l’evoluzione. E, a mio avviso, proprio per evitare contrapposizioni ideologiche fra (presunta) creatività del giudice e richiamo alla rigida soggezione alla legge, è necessario avere il coraggio di prendere sul serio tutti i problemi relativi all’attuale “disordinamento” giuridico e, contestualmente, quelli relativi alla proliferazione di forme di produzione del diritto nella (dis)armonica pluralità delle loro possibili interrelazioni e contrapposizioni.
2. Perplessità sull’articolo 5 del decreto legislativo 2006, n.160
E ora, per rispondere alle domande in esame, prendo le mosse dalla formulazione dell’articolo 5 del decreto legislativo 2006, n.160, distinguendo (a) perplessità relative ai termini in cui è formulato e (b) perplessità relative alle presupposizioni e/o conseguenze della sua formulazione.
Sono tre, in particolare, le perplessità relative ai termini in cui l’articolo 5 è formulato.
La prima è che l’uso di “anche”, nella parte conclusiva della formulazione dell’articolo, è spia di una valutazione sussidiaria, e per così dire secondaria, dei principi costituzionali e del diritto dell’Unione Europea nello svolgimento degli elaborati di diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo. Valutazione, questa, in sé censurabile perché non tiene conto di quanto di fatto già da tempo emerge nella giurisdizione anche ma non solo con riguardo al diritto dell’Unione Europea. E inoltre, valutazione ancora più censurabile, come si chiarirà di seguito, perché tradisce la convinzione della scarsa rilevanza del diritto non statale nelle decisioni dei giudici.
Non solo – questa è la seconda perplessità – la formulazione dell’articolo 5, oltre a tradire nella sua formulazione una sorta di sussidiarietà dei principi (costituzionali e) del diritto UE rispetto al diritto civile, penale e amministrativo, ignora platealmente qualsiasi forma di diritto non statale diverso da quello dell’UE. Nell’articolo in esame non si fa menzione, cioè, né della pluralità di forme di soft law, né della pluralità di forme del diritto internazionale dei trattati, né delle sentenze della pluralità di Corti internazionali, né delle regole relative al variegato e complesso mondo della lex mercatoria. Forme di produzione del diritto, quelle dell’EU e quelle di tutte le altre forme di diritto transnazionale e sovranazionale – soft e hard – che di fatto da tempo giocano un ruolo tutt’altro che secondario nel processo di decision making.
E, non da ultimo – questa è la terza perplessità – la menzione del solo diritto EU come forma di diritto non statale di cui tener conto nelle decisioni giudiziali è ancora più angusta e restrittiva della riformulazione, nel 2001, dell’articolo 117 della Costituzione, là dove oltre al diritto Eu esplicitamente si fa menzione degli obblighi internazionali dei quali la potestà legislativa dello stato e delle regioni deve tener conto e, quindi, di cui deve tener conto anche il giudice che è soggetto alla legge.
Due invece gli ordini di perplessità relativi alle presupposizioni e/o conseguenze della formulazione dell’articolo 5.
Il primo è che là dove l’articolo in esame parla di “inquadramento teorico-sistematico dei candidati, alla luce dei principi generali dell’ordinamento”, le presupposizioni neppure troppo implicite sono: (i) l’assunto dell’unità completa e coerente e dell’identità dell’ordinamento; (ii) l’assunto dell’univocità della gerarchia delle sue fonti (che ignora come la varietà e pluralità di fonti di produzione giuridica diverse non di rado sono fra loro in contrasto e alternative), e (iii) l’assunto dell’univocità dei termini in cui continuare ad intendere e a rivendicare la soggezione del giudice alla legge a dispetto della varietà e pluralità di fonti astatuali del diritto delle quali il giudice da tempo tiene conto anche ma non solo là dove intenda garantire la maggiore tutela di un diritto fondamentale.
E ancora, le perplessità relative alla sua formulazione congiuntamente alle perplessità relative alle presupposizioni (implicite) che essa giustifica, concorrono, le une e le altre, a denunciare che l’articolo in esame tradisce una sostanziale sottovalutazione e/o elusione della portata di quello che, con espressione felice, Giulio Itzcovich ha denominato “disordinamento giuridico”. Concorrono, in altri termini, a condividere la tesi di chi ritiene che sì, vabbè, ci sono fonti nuove e diverse ma alla fine tutto sommato nulla cambia rispetto al buon vecchio apparato categoriale fondato sull’unità e identità degli ordinamenti giuridici e agli assunti (i) - (iii) che da sempre ne accompagnano la declinazione del modello esplicativo. Al riguardo, valga per tutti, l’esplicita formulazione di questa posizione da parte di Giuseppe De Vergottini (Garanzia della identità degli ordinamenti statali e limiti della globalizzazione, 2006, p. 7), là dove, dopo aver decretato: (a) l’ovvia «banalità» del «fatto che ci muoviamo in uno spazio “globale” in cui interagiscono soggetti e interessi privati e pubblici», (b) la manifesta insufficienza della «tradizionale visione dell’ordinamento internazionale come realtà in cui si muovono soltanto gli stati e le organizzazioni internazionali tradizionali classiche» e (c) l’esistenza di «uno spazio giuridico (globale) in cui si muovono soggetti in parte nuovi, con rapporti che si regolano a prescindere dai meccanismi tradizionali del diritto internazionale», sorprendentemente (d) contesta che «concetti tradizionali dell’armamentario del giuspubblicista, quali sovranità, territorio, gerarchia di ordinamenti e fonti, siano da considerarsi non più determinanti nell’analisi dei fenomeni giuridici» e sbalorditivamente conclude che «in larga parte il concetto di globalizzazione per il diritto pubblico è privo di utilità e non ha alcuna rilevanza sulle categorie che abitualmente utilizziamo».
3. E allora?
Tutto questo per dire che sono d’accordo con la rilevanza del dubbio sollevato dalla seconda domanda in esame. Da decenni ormai, nella prassi giudiziale, il diritto internazionale – nella forma del diritto dei trattati e della giurisprudenza delle Corti internazionali – ha un ruolo, per dirla con le tue parole, che “scompagina il quadro della formazione” tradizionale dei magistrati. Un ruolo che ha non solo il diritto internazionale ma hanno anche forme altre di produzione giuridica – soft o hard – di diritto transnazionale o sovranazionale. E allora? È necessaria una formazione dei giudici che renda consapevoli i magistrati di questi nuovi tratti caratterizzanti della giurisprudenza. Che li renda consapevoli, soprattutto, della necessità di un uso avvertito di queste nuove fonti di diritto, degli effetti e della contaminazione fra fonti diverse. Che li renda consapevoli, quindi, della possibilità e/o necessità di un loro ruolo istituzionale che contempli la possibilità e/o necessità di muoversi in un contesto non più confortevolmente scandito in termini di un ordinamento giuridico completo e coerente, armonicamente caratterizzato dall’univocità della gerarchia delle proprie fonti.
Antonio Carratta, Ordinario di diritto processuale civile e Direttore del dipartimento di Giurisprudenza Università Roma Tre
Dopo l’esperienza per certi versi fallimentare delle Scuole per le professioni forensi all’interno delle Università si sta ragionando su cosa proporre ai laureati per il post-laurea. Il processo di riforma in corso dovrebbe prevedere una strutturazione di corso di durata ancora da definire con attività didattica strutturate su due anni. Negli incontri ai quali ho preso parte sia presso l'ufficio legislativo del Ministero della giustizia che al Miur l’idea sarebbe di costruire delle scuole riformate con diretta collaborazione con la SSM per i corsi di preparazione al concorso in magistratura. Sarebbe così interessante strutturare queste scuole riformande in modo tale che già costituiscano un modello su cui lavorare per future sinergie.
L'idea sulla quale stiamo lavorando è quella di costruire come un contenitore per il post lauream, al cui interno inserire attività che i Dipartimenti svolgeranno in collaborazione da un lato con i consigli dell'ordine degli Avvocati (quindi corso obbligatorio di accesso all'esame d'avvocato è di 160 ore) dall'altro lato, sul versante magistratura, con attività collegate agli incontri ed i corsi di preparazione all'esame in magistratura. Non credo abbia senso che i Dipartimenti realizzino questi corsi in solitudine. La formula che vedrei come vincente è quella della sinergia.
Ora in questa situazione ancora non definita dal punto d vista dell’Accademia, abbiamo tra l'altro ad aprile organizzato un convegno fra i vari settori scientifici proprio sul tema della formazione post lauream e del ruolo dell'Accademia nella formazione dei laureati, vista la fuga che abbiamo riscontrato in questo ambito dalle scuole di specializzazione.
Siamo ciononostante convinti che una buona formazione senza il coinvolgimento dell'Accademia non possa esserci per varie ragioni, prima fra tutte quella che la ricerca si fa in Accademia, in università. Sicché è impossibile immaginare una formazione di qualità senza un livello di ricerca qualitativamente elevato. Da qui l’idea di cui parlavo all’inizio di una riforma radicale delle scuole per le professioni forensi, proprio per riaffermare il principio fondamentale di cooperazione sia dal lato dell’Avvocatura sia dal lato magistratura con l’Accademia.
Non sembra particolarmente utile in questo momento esaminare le cause del fallimento delle scuole di specializzazione. Certo, non può negarsi che le scuole furono impostate come una prosecuzione degli studi universitari.
Ora, a me pare che la scuola superiore della magistratura sia avvantaggiata nel compito di formazione degli aspiranti magistrati proprio perché è riuscita a modulare la formazione dei magistrati a volte più sul versante teorico, altre su quello pratico, altre ancora su quello seminariale. Dunque, non vedo la formazione degli aspiranti magistrati come proiettata verso l’organizzazione di minicorsi universitari.
Il modello di riferimento dovrebbe essere, dunque, quello dei corsi di formazione organizzati dalla Scuola anche a livello decentrato con i necessari adattamenti, in considerazione dei destinatari che, appunto non sono già magistrati formati.
Quindi, esemplificando, non un corso di diritto processuale civile o di procedura penale ma corsi su temi specifici, di attualità, che potrebbero essere argomenti da sviluppare in sede di prova di concorso ma che, se anche non lo fossero, consentirebbero di trasmettere il modo attraverso il quale il discente deve prepararsi a impostare la sua preparazione per affrontare i l'esame.
In questo senso, il modello dei corsi privati per la preparazione al concorso in magistratura ha questa impostazione, prevedendo una parte teorica che però intende trasmettere una impostazione teorica che sta al centro fra teoria accademica e quella pratica, con quest’ultima espressione intendendo l’approfondimento degli orientamenti giurisprudenziali e della loro evoluzione, le obiezioni che possono esprimersi su tali orientamenti.
Gian Luigi Gatta, Ordinario Diritto penale Università Statale di Milano
Le innovazioni apportate alla disciplina delle prove del concorso sono a mio parere molto apprezzabili perché coniugano esigenze di ammodernamento (ad es., il rilievo maggiore a materie di nuova emersione e alla prospettiva dei rapporti con il diritto UE) con la migliore tradizione della formazione giuridica. A tale ultimo proposito, ritengo importante che a livello normativo si sia dato espresso rilievo, nell’ambito della prova scritta, alle capacità di inquadramento teorico-sistematico considerate prevalenti rispetto ad altri elementi, a partire dal mero possesso di nozioni. Il rilievo attribuito altresì al dominio dei principi del sistema, nella dimensione tanto interna quanto sovranazionale, è funzionale ad accertare l’attitudine dei nuovi magistrati ad applicare i pertinenti principi, facendoli vivere anche, tra l’altro, nella loro dimensione di tutela dei diritti. È ormai acquisita anche tra i penalisti l’idea di un magistrato che non si limita a evocare i principi, ma li applica nell’ambito dell’ordinario processo interpretativo. Basti pensare, tra i tanti esempi possibili, al ruolo assunto dai principi di offensività in concreto e di colpevolezza come canoni ermeneutici. In tal direzione, ritengo importante l’apporto dell’accademia, il cui compito scientifico è non solo quello di promuovere la ricerca in ambito giuridico rispetto a nuovi orizzonti problematici (come ad esempio l’intelligenza artificiale), ma anche di tramandare e sviluppare le coordinate del sistema giuridico, nel quadro costituzionale delle fonti sovranazionali. L’aspirante magistrato è stato formato dall’Università e, nell’affrontare la preparazione per il concorso, deve poter trovare una continuità sul piano del metodo e dei contenuti rispetto agli studi universitari. Ancor più oggi che è consentito l’accesso al concorso subito dopo la laurea. Penso a un candidato che si forma sui classici manuali e trattati universitari (è stato così ad esempio, per intere generazioni di magistrati, nel penale, con il Manuale di Antolisei, per fare un esempio, o con il Trattato di Manzini). Naturalmente, è fondamentale che alla preparazione teorico-sistematica si associ una conoscenza profonda della giurisprudenza, nazionale e sovranazionale. Quale che non deve farsi, a mio avviso, è ridurre la preparazione allo studio di rassegne ragionate di giurisprudenza, inseguendo l’ultima sentenza. Il candidato deve dimostrare di sapere come fare a inquadrare e risolvere un problema con argomentazioni coerenti con il diritto vivente o che se ne discostino motivatamente. Il sapere come fare è più importante del sapere, in un mondo in cui dal proprio smartphone qualunque giudice o avvocato può accedere a banche dati di normativa e di giurisprudenza. Al futuro magistrato non mancheranno le informazioni. Ne avrà anzi troppe e dovrà sapere come selezionarle, organizzarle e gestirle in modo coerente.
A mio avviso un valore aggiunto dell’esperienza della SSM è la ricchezza di prospettive che nasce dal connubio tra i docenti chiamati quali relatori a confrontarsi, anche tra loro: magistrati, di legittimità e di merito, professori universitari, avvocati ed esperti di discipline non giuridiche. L’aspirante magistrato è un laureato in giurisprudenza abituato a confrontarsi con professori universitari. Associare a quello dei professori il ruolo e il bagaglio di esperienza di magistrati e avvocati è un valore aggiunto inestimabile. Il mero approccio teorico accademico non è in grado di cogliere appieno la complessità dei temi dell’approccio giurisdizionale. D’altra parte, il mero approccio pratico rischia di essere autoreferenziale e di perdere le coordinate del sistema, fondamentali anche per favorire orientamenti e decisioni giudiziarie non contraddittorie.
Penso che, per ragioni di uniformità, i programmi debbano essere predisposti dalla SSM (così come oggi avviene per i corsi della permanente o dei MOT, ad esempio). Per ogni modulo si potrebbe incaricare un esperto formatore. Non per ogni materia, ma per ogni modulo all’interno della materia, lasciando alla SSM il compito di delineare i moduli.
L’esperienza delle scuole private di preparazione del concorso insegna che è fondamentale poter trovare in un corso di preparazione chi propone e corregge temi. Il successo dei corsi di preparazione della SSM dipenderà a mio avviso in gran parte dalla capacità di saper organizzare la somministrazione e la correzione delle tracce, attraverso vere e proprie simulazioni delle prove scritte. Il tutor dovrebbe far precedere la somministrazione delle tracce da lezioni sul metodo: su come si scrive, si struttura e si argomenta un tema in ambito giuridico. La correzione dovrebbe essere prima individuale e poi collettiva. Le prove dovrebbero svolgersi preferibilmente in presenza, replicando la situazione del concorso. Si dovrebbe assicurare un numero congruo di correzioni (paragonabile a quello delle scuole private). I tutor potrebbero essere sia magistrati sia docenti universitari, cioè le stesse figure che fanno parte per legge della commissione di concorso. Penso che per evitare questo problema la SSM possa avvalersi al 50% di magistrati e al 50% di universitari (analogamente a quanto avviene per la formazione permanente). Potrebbero essere nominati prioritariamente come tutor, tra i magistrati, i vincitori di concorsi degli ultimi 5 o 10 anni che siano posizionati nei primi 50 posti della graduatoria. La natura istituzionale della SSM e dei corsi esclude a mio avviso l’operatività del divieto di cui sopra. Si potrebbe valutare di suggerire al CSM o al legislatore la previsione di una incompatibilità tra il ruolo di tutor e di commissario del concorso (per questo ricorrere a giovani magistrati, quali tutor, potrebbe essere opportuno: non solo perché sono freschi di concorso e possono portare la loro esperienza, ma anche perché non fanno parte delle commissioni di concorso). Per un aspirante candidato magistrato è importante e molto appetibile sapere di poter avere tra i tutor dei giovani vincitori di concorso.
Ritengo fondamentale questa sinergia, per quanto detto sopra. Si potrebbero promuovere accordi di collaborazione, se del caso anche per decentrare presso le sedi universitarie alcuni corsi, ove non si intenda collocarli nelle sedi della SSM. Il vantaggio potrebbe essere quello di appoggiarsi alle strutture didattiche delle università favorendo la prossimità con i formatori decentrati della SSM e con i consigli dell’ordine degli avvocati.
Penso che le Scuole di specializzazione siano ormai fallite e debbano essere superate per come sono oggi e profondamente riformate, anche e proprio in linea con le esigenze di preparazione del concorso per magistratura. La SSM potrebbe coinvolgere ora le università (oltre ai singoli docenti) nell’organizzazione dei corsi per la preparazione al concorso.
Penso che, pur con metodi innovativi, il corso debba prioritariamente puntare al superamento del concorso. Non bisogna dimenticare la concorrenza con le scuole private, che hanno oggi il pieno e assoluto dominio del mercato della formazione per il concorso. La SSM, quale istituzione pubblica, deve offrire un “prodotto” competitivo, per costi e qualità, consentendo anche a chi ha meno risorse di poter diventare magistrato, in linea con i principi costituzionali.
Penso che sia preferibile la formazione in presenza, anche per la simulazione delle prove scritte. Non prevederei alcun tirocinio, come nelle scuole private.
Vincenzo Cuffaro, emerito di Diritto privato, Università Roma Tre
Non vedo nelle innovazioni previste per il concorso di accesso la base di un nuovo modo di fare formazione per gli aspiranti magistrati. La formazione degli aspiranti magistrati continua ad essere affidata allo studio (condotto su testi più o meno dedicati alla preparazione per il concorso) delle materie sulle quali vertono le prove. Certo, la nuova previsione che consente l’ammissione al concorso subito dopo la laurea, segna e conferma il fallimento delle precedenti esperienze (prima i test, poi la scuola ed in analogia con quanto avveniva per le altre professioni legali) escogitate come ‘filtro’ di accesso. Esperienze necessariamente destinate a fallire perché non accompagnate da un adeguato apparato organizzativo razionalmente strutturato.
La scelta di consentire l’accesso alla magistratura immediatamente dopo il termine del percorso universitario risponde ad una logica aziendalistica finalizzata al reclutamento e segna un ritorno al passato, ma ignora (volutamente?) che la formazione universitaria è insufficiente da sola a consentire di svolgere le prove scritte (non è certo una novità che, durante i corsi, allo studente non si chiede di redigere elaborati scritti, né tantomeno di predisporre testi su tracce articolate).
La riduzione del numero delle materie oggetto della prova orale dovrebbe consentire un maggior approfondimento e dovrebbe quindi tradursi in un maggior rigore nella selezione, potendo esigersi una conoscenza più approfondita delle materie. Ma si tratta di vedere come verrà attuata.
In termini provocatori, aggiungerei che occorrerebbe preoccuparsi anche della formazione delle commissioni esaminatrici, i cui componenti sono selezionati con criteri casuali, dando per presupposto che la funzione che svolgono li renda di per sé idonei a valutare i candidati, il che sovente non è.
Non credo nemmeno che il richiamo ai principi (dell'ordinamento, costituzionali, dell'Unione europea) scompagini il quadro della formazione. La conoscenza dei principi costituzionali e dell’Unione europea dovrebbe appartenere al bagaglio del laureato in giurisprudenza. Sottolineo che il condizionale è d’obbligo e rimanda ai problemi, di più vasta portata, del contenuto dei corsi universitari, delle modalità d’insegnamento del contenuto dei manuali offerti agli studenti (e taccio della qualità dei docenti).
Ben venga una formazione che faccia comprendere che le ‘materie’ non possono essere ridotte all’esegesi dei codici ed instilli negli aspiranti magistrati l’idea che anche nella fase attuativa l’ordinamento è aperto ad una pluralità di fonti (e di valori).
Piuttosto, vien fatto di chiedersi come potrebbero essere formulate le tracce delle prove d’esame (e prima delle esercitazioni) per consentire nello svolgimento la dimostrazione di quanto richiesto.
Un’altra provocazione: mi sa che nel testo della legge, il richiamo sia stato inserito solo ad pompam
Non credo che la figura del giudice che tu auspichi quale esito della formazione possa essere affidata ad una specifica modalità né verificata con le prove d’esame.
L’arte di giudicare si apprende ‘sul campo’ (rectius in aula) e la tensione all’attuazione dei diritti appartiene alle qualità intellettuali del singolo che dovrebbero affinarsi nell’esercizio delle funzioni (al riguardo, continuo a ritenere che la cancellazione del giudizio collegiale e l’enfatizzazione del giudice monocratico siano deleteri per la formazione del giovane magistrato, essendo obiettivamente insufficiente il periodo di tirocinio).
Ciò che nella formazione andrebbe spiegato è che l’amministrazione della giustizia richiede abnegazione e impegno costanti.
Confesso che ignoravo che la SSM approntasse corsi di preparazione al concorso. L’iniziativa è senz’altro auspicabile, soprattutto se affidata ad un corpo docente particolarmente preparato e motivato, consentendo agli aspiranti magistrati di formarsi acquisendo maggior consapevolezza delle questioni che dovranno poi affrontare nell’esercizio delle funzioni.
Non ritengo che debba essere uno stesso docente a dovere seguire una parte dei programmi elaborati. Se è vero che la predisposizione dei programmi può condizionare i docenti incaricati della formazione, è altresì vero che affidare alla medesima persona l’approntamento dei programmi e la loro attuazione, finirebbe per determinare un impegno assai gravoso e forse troppo assorbente. Ritengo che ad elaborare questi programmi debba essere un gruppo formato da magistrati e professori. Avendo cura che tra magistrati siano selezionati appartenenti alle magistrature di merito e di legittimità (ma forse già è così) e tra i professori quelli che coniughino attività scientifica ed esperienza professionale, e siano soprattutto attenti allo studio della giurisprudenza pratica. Sarebbe opportuno nominare esperti formatori che appunto predispongano le linee generali dei corsi nelle tre materie. Il problema, è ovvio, è quello della individuazione delle persone.
La domanda fa riferimento a ‘linee generali’ e si tratta allora di stabilire cosa si intende con tale espressione.
Poiché i corsi sono diretti alla formazione degli aspiranti magistrati, l’attenzione dovrebbe essere rivolta non solo alla conoscenza approfondita della materia (alla luce di significativi apporti della giurisprudenza) ma anche al metodo per affrontare i nuovi problemi posti dalla prassi. In questa prospettiva, il riferimento ai principi costituzionali e unionali mi sembra senz’altro prezioso.
Il docente è logicamente la figura più adatta per elaborare le tracce, svolgendo le quali il discente potrebbe esercitarsi a mettere a frutto le proprie conoscenze (auspicabilmente precedenti e comunque acquisite nel corso).
Anche a questo riguardo, accollare al docente il duplice compito di predisporre le tracce e correggere gli elaborati potrebbe risultare assai gravoso (ma certo dipende dal numero dei discenti).
Il tutor ‘terzo’ potrebbe allora svolgere il compito di revisionare gli elaborati e spiegare le eventuali manchevolezze dello svolgimento, ma dovrebbe essere in buona sintonia con il docente.
La domanda sugli effetti che potrebbero prodursi negli uffici giudiziari dai quali la SSM potrebbe attingere il gruppo di esperti per i corsi destinati agli aspiranti magistrati ed esige una risposta difficile. Il magistrato convinto del proprio lavoro potrebbe avere difficoltà a distogliersi dalle incombenze dell’ufficio. Dedicarsi seriamente alla formazione potrebbe assorbire tutte le energie a scapito del ‘servizio giustizia’. Solo persone particolarmente brave e preparate (e non mancano) riuscirebbero a conciliare le due funzioni di svolgimento dei compiti dell’ufficio e cura delle incombenze dell’insegnamento, anche se in un arco di tempo limitato.
Vorrei aggiungere che analoga considerazione vale per i professori e per gli avvocati.
Il divieto vigente per i magistrati è formulato con riferimento a corsi privati (la cui proliferazione ritengo deprecabile anche se risponde ad una domanda del ‘mercato’) e forse (ma francamente non saprei come) potrebbe essere superato rispetto a corsi organizzati dalla SSM.
Quanto alla sinergia fra l’Accademia, l’Avvocatura e la magistratura (CSM) per realizzare al meglio il compito affidato alla Ssm in materia si tratta, anche in questo caso, di un tema complesso.
Personalmente ho scarsa considerazione nell’attività didattica svolta da avvocati, non perché tra loro non vi siano persone preparate, ma perché altro è esercitare bene la professione, altro è insegnare. L’apporto della classe forense potrebbe essere fornito su singoli temi che richiedono elevata professionalità e conoscenze di materie specifiche (ad esempio, la normativa bancaria o quella antitrust ed ancora, per assonanza, l’argomento del trust) ma mal si concilia con la formazione per la preparazione di aspiranti magistrati che richiede invece un apporto sistematico.
Quanto ai rapporti fra Ssm e scuole di specializzazione per le professioni forensi, vale al riguardo la risposta data alla precedente domanda: l’obiettivo non mi sembra auspicabile.
Le scuole di specializzazione affidate agli Ordini professionali sono assai discutibili: nelle rare occasioni nelle quali ho avuto modo di assistere a corsi impartiti da avvocati, ho dovuto constatare che si esauriscono nel raccontare novità normative, con una limitata, se non inesistente, cognizione di problematiche interpretative ovvero ad esporre recenti sentenze.
Analogamente, le scuole di specializzazione affidate alle Università non mi sembra abbiano dato buona prova, risolvendosi in corsi ai quali non sono dedicati docenti specifici.
Non ignoro, tuttavia, che il problema potrebbe essere politico.
Come ho detto, l’attenzione all’approccio metodologico sarebbe auspicabile, anche se richiede un impegno particolare del corpo docente ed una consapevole disponibilità dei discenti.
Quanto al metodo di apprendimento e se dovrebbe prediligere la formazione a distanza o in presenza proponendo per la prima soluzione. La formazione a distanza è un nonsenso. Il tirocinio presso gli uffici giudiziari sarebbe utile ma credo che i problemi organizzativi siano assai complessi se non insormontabili.
Mario Serio, già ordinario di Diritto comparato Università di Palermo, componente il Garante nazionale delle persone private della libertà personale
Mi piace dirti con franchezza il mio pensiero su ciò che oggi serve al magistrato.
Quello che gli inglesi chiamano stylus curiae, cioè lo stile espositivo delle sentenze. Ed infatti, oggi riscontro un deficit di conoscenza su come vada scritta una sentenza e sulle parti che la compongono. Pur non occupandomi di penale mi capita di leggere delle esposizioni in fatto che in buona sostanza non sono altro che la trascrizione dei verbali d’udienza, cioè di ciò che hanno riferito le persone ascoltate durante il dibattimento. Ora, a me pare che questo modo di procedere non sia una forma brillante di esposizione delle ragioni, della decisione, perché si dà pericolosamente luogo alla sostituzione della motivazione con la riproposizione verbali di udienza. Personalmente sono molto più affezionato al metodo classico in cui il giudice, anche nel riportare il fatto, lo fa in forma critica sintetizzando in un periodo un singolo atto processuale in modo da mostrare di avere colto il cuore del suo contenuto. Il modo che è attualmente invalso finisce col restituire al lettore l'impressione di una rinuncia al ruolo di decisore criticamente consapevole che non sempre sembra dimostrare capacità selettiva del materiale istruttorio che è propria del giudicare. Quello che occorre salvaguardare, al contrario mi pare appunto la funzione di interpolazione tra l'atto processuale e la sua considerazione critica proprio per scongiurare i pericoli che, al contrario, sono all’orizzonte in ragione dell'avvento dell'intelligenza artificiale. È’ proprio l’interpolazione critica del giudice a dovere contrastare l’AI.
Ecco, dunque, una delle principali funzioni proprie della SSM anche e soprattutto per i futuri magistrati: una scuola che abitui il giudice a ragionare e a farsi comprendere anche attraverso il coinvolgimento di filosofi del linguaggio .E questo allo scopo di render chiaro che il giudice è saldamente al comando della barca e non può farsi trascinare dalle onde emotive o dalle ridondanze verbali La mia prospettiva di cittadino e di giurista è quella di avere un giudice del quale si sente palpitare la mente raziocinante. È desiderabile avere di fronte una persona umana con sentimenti e ragione, tra loro congruamente combinati. Ora, questa responsabilizzazione argomentativa del ruolo deve non soltanto permanere ma deve costituire il cuore dell’attività giurisdizionale proprio perché il giudice non può che continuare a caricarsi sulle spalle la responsabilità della decisione; altrimenti si porrebbe in una direzione di arretramento gravissimo sul piano della controllabilità diffusa della decisione. La Scuola Superiore della Magistratura deve dare quel valore aggiunto che non consiste semplicemente nell'approfondimento della giurisprudenza più recente o nella segnalazione della monografia più approfondita su un dato tema; dovrebbe, al contrario, offrire all’'ethos del magistrato messaggi in termini culturalmente e metodologicamente formativi. In questa prospettiva, quello dello stile è un aspetto rilevante; quello del modello comportamentale deontologicamente ispirato non è meno fondamentale. Questo, a mio avviso è il terreno che può rendere assolutamente ineguagliabile l'apporto della scuola superiore della magistratura rispetto, ad esempio, alle scuole private di preparazione al concorso, naturalmente preoccupate di diffondere la giurisprudenza più recente, essendo questo obiettivo capace di coprire solo una frazione dell’intera formazione del futuro magistrato. Il compito formativo della SSM è invece elevatissimo. Non è allettante l’idea che la scuola superiore della magistratura debba entrare in concorrenza con le scuole private. E tuttavia, pur provando un certo rammarico nell’affrontare questo argomento provo a ragionare sul come rendersi competitivi. In questa prospettiva la SSM ha i mezzi e le risorse culturali per affrontare al meglio la sfida che proviene dalle fonti sovranazionali, sensibilizzando i giovani alla loro fruizione, in modo da formare al meglio i futuri magistrati ed offrire loro un approccio sistematico alla loro futura professione. Certo, occorre fare i conti con un altro attore, rappresentato dai criteri di giudizio dei commissari concorsuali, non riscontrandosi fin qui una continuità contenutistica fra le tracce indicate negli anni dalle singole commissioni. L’assenza di un registro uniforme rende dunque complicato sistematizzare un modulo formativo costante. Ma il dato di partenza, rappresentato dalla riforma Cartabia, laddove ha previsto espressamente che le prove d'esame debbano includere anche i principi costituzionali e del diritto dell'Unione europea costituisce una conquista. Una scelta che rafforza la prospettiva di un magistrato che non sia mero applicatore della legge ma si riveli capace di inquadrare il sistema giuridico, ricostruendolo attorno ai grandi principi generali, pure di matrice sovranazionale, in modo da affrontare efficacemente le infinite diversità delle vicende che saranno sottoposte al suo esame.
Questi valori di base rappresentano, in realtà, il cuore del ruolo del giudice del futuro e del presente. Il fatto che al nuovo magistrato sia richiesta, al fine di consentirgli l’accesso in magistratura, la capacità di ragionare sui principi e di coglierne l’essenza e di governarne l’applicazione appare determinante. Mi viene in mente un costruttivo itinerario di formazione sul principio di solidarietà nelle sue concrete applicazioni nel campo del lavoro, in quello civilistico, nell’ambito dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino. Penso ancora al principio che incoraggia l'utilizzazione in forma non egoistica della proprietà, all’idea della libertà di impresa connessa ai sensi dell'articolo 41 Cost. con l'utilità sociale, alla funzione rieducativa della pena. Ecco, affrontare in blocco questi temi con i loro sicuri collegamenti al piano eurounitario diventa la sfida della SSM ed una prospettiva esaltante. Realizzare questo progetto significa rinnovare la formazione tradizionale in modo da mettere l'aspirante magistrato di fronte a nuovi e più complessi compiti non sempre e non necessariamente esercitabili soltanto con il ricorso alle banche dati giurisprudenziali Diversamente organizzando l’attività di formazione, ossia sottraendo il fondamentale tratto valoriale, sminuirebbe il ruolo genuino della SSM e la renderebbe vulnerabile nella competizione con i corsi privati di preparazione, comprensibilmente votati all’esaltazione del versante dell’apprendimento.
È da ritenere in questo senso che la sinergia con l’Accademia e l'apporto dell'avvocatura siano mezzi da dispiegare insieme all’obiettivo dell’affinamento del legal reasoning, di cui prima si è detto. Ed in questa prospettiva dovrebbe svolgersi l’attività di correzione degli elaborati preparatori, nell’auspicio che a questa stagione riformatrice del metodo formativo vogliano fattivamente partecipare sappiano e vogliano collocarsi le commissioni giudicatrici.
Elena D’Alessandro, Ordinaria di diritto processuale civile Università di Torino
I quesiti proposti sono di estremo interesse.
Mi sembra che il punto di partenza dal quale partire sia una carenza esistente attualmente nel sistema della formazione universitaria per cui i laureati aspiranti magistrati o aspiranti avvocati hanno a mio avviso tre lacune: la prima lacuna legata al non sapere scrivere. La maggior parte degli esami nell'università italiani sono in forma orale. Alcuni docenti universitari, me compresa, hanno introdotto l’esame scritto proprio per aiutare gli studenti a questo fine. La redazione della tesi non basta è troppo poco perché i ragazzi non sono stati formati, durante il periodo dell’istruzione secondaria.
Ora, di questa lacuna la scuola che si occuperà della formazione degli aspiranti magistrati dovrà tenere conto, anche se è vero che alcune università sul punto si stanno attrezzando.
Il secondo punto dal quale partire è che, secondo la mia esperienza, i laureati in giurisprudenza non hanno chiare le categorie del diritto sostanziale. Ciò si nota quando vengono a seguire il corso di diritto processuale civile perché le università sono adesso organizzate anche quelle di giurisprudenza in semestri. È una vera e propria corsa contro il tempo e per di più spesso è obbligatorio unicamente il corso di diritto privato e non quello di diritto civile, divenuto facoltativo a fronte del proliferare di un numero davvero rilevante di insegnamenti secondari, molto appetibili per gli studenti per vari ordini di ragioni.
In questa situazione, una delle priorità della formazione degli aspiranti magistrati dovrebbe dunque essere quella di offrire loro la conoscenza delle categorie. Io credo ancora che in un mondo complesso le categorie facciano la differenza, proprio perché quello che salva in un mondo complesso e appunto avere le categorie, pochi concetti ma semplici di diritto sostanziale.
Un altro grandissimo problema, il terzo, è che gli studenti non sanno approcciare il caso concreto, sanno rispondere dopo aver seguito il tutorial a una domanda aperta ma se tu poni loro un problema concreto che avrà il giudice non lo sanno approcciare. Anche questo è un problema che affonda le sue origini nell’università.
Questo è comunque il panorama degli studenti che la scuola dovrà formare per consentirgli l'accesso al concorso in magistratura. I laureati di oggi sono diversi dai laureati del nostro tempo, hanno sete di pratica e sono molto meglio predisposti verso le nuove tecnologie di insegnamento; preferiscono ascoltare un podcast, un vocale, un video piuttosto che leggersi la scheda scritta e di questo, secondo me, la formazione degli aspiranti magistrati dovrà tenere conto.
Alla domanda se i moduli formativi della SSM attuali sono compatibili con quelli che si dovranno realizzare per gli aspiranti magistrati la risposta è complessa.
Per colmare le lacune che ho provato a rassegnare la SSM credo dovrà attrezzarsi anche se ha già ha dei corsi che mette a disposizione il cui punto di forza, secondo me, è dato dal fatto che riguarda argomenti che non possono essere ignorati per superare il concorso in magistratura. Ho dato uno sguardo ai corsi che fate per i morti e ho trovato per esempio un corso sulla causalità nella responsabilità civile e quello, per esempio, è un corso utile perché fa capire all'aspirante magistrato che quel tema sicuramente non può essere ignorato.
Detto questo, secondo il mio avviso occorrerà arricchire i corsi della scuola sulle lacune che ho rassegnato, offrendo insegnamenti sul come scrivere su come ci si approccia a un caso concreto. Per questo, secondo me, è utile avere un responsabile del corso magari più di uno magari avere una terna, un magistrato o avvocato e professore responsabili del modulo di diritto civile che si impegnino innanzitutto a spiegare come si affronta la prova scritta per poi a dare i contenuti. Sul come offrire i contenuti mi sento di dire che i giovani oggi hanno bisogno un estremo bisogno di chiarezza, devono avere chiara qual è la scaletta, qual è il percorso formativo che affronteranno, qual è il punto di partenza qual è il punto di approdo, quali istituti saranno trattati. Si tratta di obiettivi che i corsi attuali della SSM ovviamente non ha ma che può certamente realizzare. Saranno fondamentali le modalità di insegnamento; secondo me la presenza di tecnici bravissimi nella SSM potrebbe favorire la realizzazione di podcast sui vari argomenti, per esempio sul tema della causalità. Se al posto di una relazione scritta si offrisse ai giovani un podcast, un video, una pillola di non più di 15/20 minuti in modo da spiegare le caratteristiche dell'istituto e poi si offre danno la bibliografia essenziale, indicando quali sono le pronunce giurisprudenziali importanti da conoscere questo podcast, questo video resterebbe a disposizione di tutti e avrebbe un valore fondamentale e lo potreste condividere anche con gli avvocati. Ma questi podcast non possono essere messi a caso a disposizione dei partecipanti, occorrerà una struttura logica, un albero che faccia capire agli studenti qual è il percorso da compiere per la preparazione. In questo la sinergia con gli avvocati è fondamentale proprio per evitare una formazione ghettizzata che distingue nettamente magistrati e avvocati. Quindi mi sento di esprimere un sì incondizionato alla sinergia fra avvocatura e magistratura in modo da offrire più punti di vista ai discenti. Per tale motivo potrebbe essere una buona idea nominare come responsabili dei singoli moduli un magistrato, un avvocato ed un professore. Anche l’idea di una didattica esperienziale mi sembrerebbe importante; costruire un processo simulato con gli avvocati potrebbe essere utile per favorire, anche a distanza, moduli formativi comuni. Se gli aspiranti avvocati si formano su questo format ridurranno gli atti di parte ed impareranno a redigere gli atti, al pari degli aspiranti magistrati che, letti gli atti ed esaminati i fatti del processo simulato, redigeranno una sentenza.
Sulla base di questo format si potrebbe pensare alla correzione degli elaborati. In una prima fase il responsabile del corso, anche il magistrato, dovrebbe poter correggere gli elaborati.
Resta da esaminare la questione relativa al divieto dei magistrati a partecipare come docenti ai corsi di formazione della magistratura che era stato pensato per i corsi privati. Ritengo che quel divieto vada delimitato e rivisto alla luce della competenza adesso attribuita alla SSM. Il magistrato che mette il suo know-how a disposizione dei giovani non mi pare un qualcosa di negativo, a parte il divieto di partecipare alla commissione di esame che almeno in una prima fase credo vada garantito.
Mi permetto, infine, di insistere sulla necessità che gli aspiranti magistrati abbiano a disposizione dei docenti capaci di offrire ai discenti la capacità di affinare la capacità di dare logicità al ragionamento. Il fatto che possano esserci UPP non credo sia significativo e possa attenuare il punto critico rappresentato dal livello di preparazione in entrata degli aspiranti magistrati.
Un’ultima amara riflessione dedicata al diritto internazionale privato. In tutte le università, prodighe nel prevedere materia facoltative le più varie fra loro non dedicano attenzione alla materia che dà delle categorie fondamentali che insegnano come approcciare un contenzioso transfrontaliero. Credo che una riflessione congiunta tra magistratura avvocatura e Accademia sia proficua. Anche a livello universitario abbiamo provato a fare qualcosa: un manuale innovativo di diritto inglese su casi specifici, coinvolgendo alcuni studenti per sentire il loro punto di vista e inserendo una serie di casi pratici per capire come approcciare un caso concreto.
Claudio Scognamiglio, Ordinario diritto privato Università Tor Vergata
Trovi nelle innovazioni previste per il concorso di accesso la base di un nuovo modo di fare formazione per gli aspiranti magistrati?
1. Credo che le innovazioni abbiano una finalità essenzialmente produttivistica, per così dire, che certamente può rendere ancora più importante il ruolo della SSM nella formazione anche in questa fase.
2. Ritengo che, accanto ad una formazione teorica il più possibile ‘dialogante’, nel senso che tenterò di chiarire infra, possano rilevare – ed anche sul punto ritornerò – momenti formativi ‘sul campo, attraverso la partecipazione – assistenze a udienze. La sensibilità del giudice nel raccogliere la prova ritengo possa essere acquisita solo in questo modo.
3. Il richiamo ai principi mi sembra che espliciti – opportunamente – un’indicazione di metodo (della formazione del magistrato, prima, e dei processi argomentativi e decisionali che quest’ultimo è chiamato a svolgere, poi) che probabilmente poteva già ritenersi presente nei più recenti approdi della comunità degli interpreti. In fondo, e senza cedere a quella che uno scrittore francese ha efficacemente definito la ‘principolatrie’, la capacità dell’interprete, e specificamente del giudice, di attingere ai principi i referenti motivazionali della propria decisione rappresenta senza dubbio un fattore di progresso nella costruzione della regola; ciò che naturalmente non vuol dire che il giudice debba ‘saltare’, ove esistente, la regola specificamente presente nel sistema per la decisione del caso, ma solo che egli deve essere pronto a guardare anche ai principi nel caso in cui sia possibile estrarre una pluralità di possibili norme dalla disposizione che viene in considerazione per la risoluzione della controversia per stabilire quale norma sia più coerente rispetto ai principi.
Dal punto di vista dell’organizzazione della formazione, le innovazioni previste renderanno sicuramente utile che, nelle singole occasioni formative, vi siano una o più lezioni calibrate specificamente sulla dimensione dei principi che possano venire in considerazione nel caso di specie.
4. Ritengo che gli aspiranti magistrati possano apprezzare in modo particolare la struttura dialogica che, nella mia esperienza, i moduli formativi della SSM hanno: struttura dialogica nel duplice senso che, su una stessa questione, intervengono – solitamente – uno studioso ed un magistrato e che vi è, al termine delle singole sessioni, uno spazio riservato alle domande del pubblico. Quanto a quest’ultimo aspetto, e benché talora – forse, e banalmente, per comprensibili ragioni di ritrosia dei partecipanti al corso a prendere la parola in pubblico – non vi siano molti interventi, ritengo che la ‘provocazione’ ai partecipanti al corso a (provare ad) argomentare anche per principi, nelle loro domande/interventi, possa aiutare a superare le ritrosie sopra accennate.
5. Certamente, potrebbe essere utile che sia uno stesso docente a dovere seguire una parte dei programmi elaborati per dare un taglio il più possibile unitario al corso, ferma restando sempre la necessità di interazione con il co – docente magistrato.
6. Naturalmente, avere un tutor – o forse, a questo punto più plausibilmente, visto che si tratta di compiti di un certo impegno, un ‘nucleo’ di tutor – che segua tutti gli aspetti indicati nel quesito potrebbe essere utile. In particolare, il passaggio della predisposizione delle tracce e della correzione degli elaborati, collocate entrambe anche all’interno di un confronto con il singolo candidato, mi pare sicuramente significativo ai fini di una preparazione ottimale dei candidati
7. Quanto agli effetti della partecipazione a questi corsi di magistrati sugli uffici di appartenenza devo riconoscere che non una conoscenza dell’organizzazione degli uffici. Credo, comunque, e per quel che concerne il divieto di cui si fa cenno nel quesito, che – data la funzione dei corsi somministrati dalla SSM e la qualificazione istituzionale della medesima – un’interpretazione razionale del divieto non dovrebbe estenderlo anche a questi corsi.
8. Non so fino a che punto una sinergia tale da implicare la partecipazione di esponenti dell’Accademia e dell’Avvocatura già in sede di macro – organizzazione dei corsi possa essere realizzata ‘a legislazione vigente’. Forse la sinergia potrebbe essere perseguita più facilmente nell’ambito dei singoli corsi, articolando, o arricchendo di ulteriori contenuti, la figura dell’esperto formatore.
9. A mio avviso, più che ad un’osmosi o ad una compenetrazione, sarebbe opportuno pensare a forme di collaborazione attuate di volta in volta sui singoli corsi. Il ‘mondo’ delle scuole di specializzazione per le professioni forensi ha conosciuto negli ultimi anni una significativa crisi, dovuta alla progressiva sottrazione alle medesime di una serie di funzioni a suo tempo assegnategli, e forse sarebbe complesso tornare indietro, da questo punto di vista.
10. Riterrei che una formazione ‘a compasso allargato’, e non appiattita sull’obiettivo del superamento del concorso, sia senz’altro da preferirsi: è vero che i vincitori del concorso fruiscono, poi, di un adeguato periodo di tirocinio, ma forse porre l’accento anche in questa fase sulla metodologia di apprendimento può rappresentare un guadagno per l’aspirante magistrato.
11. La formazione a distanza ha sicuramente pregi logistici dei quali non si può più fare a meno; credo che la soluzione migliore sia una combinazione tra le due modalità, assegnando una posizione di prevalenza a quella in presenza, che consente di realizzare al meglio il momento del dibattito e dello scambio di idee.
12. Forse più che un vero e proprio tirocinio pratico negli uffici giudiziari – per svolgere il quale ci sarà, se non erro, tutta la fase successiva all’esito positivo del concorso – vedrei con favore singoli momenti formativi negli uffici giudiziari, soprattutto per quello che concerne l’assistenza alle udienze, che può consentire di apprendere con maggiore facilità le nozioni relative all’attività istruttoria ed al ‘contatto’ del giudice con le fonti di prova. Mi parrebbero invece francamente un fuor d’opera momenti formativi presso gli studi professionali.
Le interviste nascono da conversazioni svolte a titolo personale del curatore e non sono in alcun modo riferibili alla SSM.
[1] Che cos’è la verità? in Riv. di filosofia, 1956, Torino 251 ss.
[2] Art. 4 della legge 17 giugno 2022, n. 71: Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dell’accesso in magistratura sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) prevedere che i laureati che hanno conseguito la laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni possano essere immediatamente ammessi a partecipare al concorso per magistrato ordinario […omissis.]d) prevedere che la prova scritta del concorso per magistrato ordinario abbia la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati e consista nello svolgimento di tre elaborati scritti, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e dell’Unione europea; e) prevedere una riduzione delle materie oggetto della prova orale del concorso per magistrato ordinario, mantenendo almeno le seguenti: diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto dell’Unione europea, diritto del lavoro, diritto della crisi e dell’insolvenza e ordinamento giudiziario, fermo restando il colloquio in una lingua straniera, previsto dall’articolo 1, comma 4, lettera m), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160″. Il decreto legislativo 28 marzo 2024, n. 44, ha sostituito l’art. 1 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, introducendo il nuovo comma 3: “la prova scritta ha la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati, alla luce dei principi generali dell’ordinamento, e consiste nello svolgimento di tre elaborati scritti, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e dell’Unione europea“. L’art. 3, d.lgs. n. 44/2024-Modifiche al decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26- ha previsto che al decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'articolo 2, comma 1, dopo la lettera o) è inserita la seguente: «o-bis) all'organizzazione di corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario.» b) Dopo il titolo I è inserito il seguente: TITOLO I-bis Disposizioni in tema di corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario. Cfr., poi, l’art. 17-sexies. Oggetto: La Scuola organizza corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario riservati a laureati che sono in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 73 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98 e che svolgono o hanno svolto il periodo di tirocinio formativo, oppure hanno prestato la loro attività presso l’ufficio per il processo ai sensi dell'articolo 14 del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, o presso le strutture organizzative disciplinate dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 151. La Scuola, nell'esercizio della propria autonomia, tenuto conto delle proprie risorse, stabilisce, per ogni corso, il numero massimo di partecipanti ammessi e i criteri di preferenza per il caso in cui gli aspiranti siano in numero superiore ai posti disponibili. Inoltre, l’art. 17-septies. Programma e modalità, prevede che “I corsi vertono sulle materie oggetto della prova scritta del concorso per magistrato ordinario e possono essere organizzati in tutto o in parte in sede decentrata. I corsi consistono in sessioni di studio tenute da docenti di elevata competenza e professionalità, individuati nell'albo esistente presso la Scuola. I corsi sono organizzati secondo le modalità previste nello statuto della Scuola.” Infine, l’art. 17-octies -Costi- ha disposto che “I costi di organizzazione gravano sui partecipanti in una misura che tiene conto delle condizioni reddituali loro e dei loro nuclei familiari, secondo le determinazioni del Comitato direttivo.”
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Il dovere di chiarezza della legge nella giurisprudenza della CEDU
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il concetto di “legge” – 3. L’evoluzione del concetto di qualità della legge.
1. Introduzione
Credo che il richiamo alla chiarezza della legge nel titolo del mio intervento si debba intendere un po’ come una sineddoche, nel senso che evocando il tema della chiarezza della legge nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si rinvia a un contesto più ampio, che è quello della qualità della legge, contesto nel quale la dimensione della chiarezza si accompagna a quelle, altrettanto importanti, della precisione, della prevedibilità, e anche, almeno in determinati casi, a quello della inclusione di garanzie contro i possibili abusi nell’applicazione della legge.
Nell’ambito della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (la Convenzione, CEDU), il principio di legalità appare in modo particolarmente significativo in materia penale, laddove l’art. 7 della Convenzione enuncia il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, cioè la regola per cui solo la legge – che non può essere retroattiva – può definire un reato e prevedere una pena.
Il riferimento alla “legge” (law nel testo inglese, loi in quello francese), ha un grande rilievo nell’ambito della CEDU e lo troviamo in numerose disposizioni di questo testo. Per quanto riguarda il diritto alla vita (articolo 2), la “legge” è stata individuata come fonte della protezione di questo diritto; come fonte necessaria per prevedere la pena di morte, anche se in questo caso si tratta di una norma, quella che consentiva eccezionalmente la privazione intenzionale della vita in esecuzione di un a regolare condanna, che la giurisprudenza della Corte considera implicitamente abrogata[1]; come fondamento necessario di qualsiasi privazione della vita ammessa in casi di legittima difesa proporzionale, arresto o prevenzione della fuga di persone legalmente detenute, o in casi di repressione di una rivolta o di un’insurrezione. Nell’articolo 5, la “legge” è stata indicata come fonte necessaria per la privazione del diritto alla libertà e alla sicurezza. Nell’articolo 6 (diritto a un giusto processo), si richiede che i tribunali siano istituiti dalla “legge”. Inoltre, in molte altre disposizioni della Convenzione, il fondamento nella “legge” è una delle condizioni perché misure limitative di diritti previsti dalla CEDU siano considerate compatibili con la stessa Convenzione, normalmente accanto all’esistenza di un “fine legittimo” perseguito dalla misura litigiosa e alla “necessità” della stessa misura “in una società democratica”, cioè alla sua proporzionalità. Ciò avviene nell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare); nell’articolo 9, come base giuridica per la possibile limitazione della libertà di manifestare la propria religione o le proprie convinzioni; nell'articolo 10, come fonte di possibili formalità, condizioni, restrizioni e sanzioni in materia di libertà di espressione; e, nell'articolo 11, come base legale di limiti alla libertà di riunione e di associazione. Inoltre, in alcuni Protocolli allegati alla Convenzione, la "legge" appare di nuovo nella disciplina di altri diritti fondamentali. Nel Protocollo 1, articolo 1, come base necessaria di limitazioni al diritto di proprietà; nel Protocollo 4, articolo 1, per la possibile limitazione alla libertà di circolazione; nel Protocollo 7, come garanzia procedurale nell'espulsione degli stranieri (articolo 1), come disciplina del diritto di appello in materia penale (articolo 2), come fonte di risarcimento per condanna ingiusta (art. 3).
Anche al di là di queste indicazioni specifiche nell’ambito dei singoli diritti, il principio di legalità ha una natura fondamentale come uno dei valori chiave che discendono dal concetto dello Stato di diritto, inteso come Rule of Law[2], che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo considera uno dei fondamenti di una società democratica “inerente a tutti gli articoli della Convenzione”[3].
In pratica, tutte le volte che la Corte EDU è chiamata a confrontarsi con una ingerenza nei diritti fondamentali di una persona, essa deve verificare innanzitutto se tale ingerenza abbia un’adeguata base giuridica, cioè se sia fondata sulla legge.
È bene chiarire subito un punto. L’esigenza del fondamento legale di ogni misura la cui compatibilità con la Convenzione deve essere verificata non si spinge fino a richiedere che la Corte di Strasburgo controlli la corretta applicazione del diritto nazionale da parte dei giudici domestici. Questo rimane di esclusiva competenza delle corti nazionali. La Corte europea dovrà poi appurare se la decisione dei giudici domestici sia conforme alla Convenzione oppure no. Eventuali errori dei giudici interni nell’applicazione del diritto nazionale rilevano solo in quanto si traducano in violazioni dei diritti e delle libertà protetti dalla CEDU[4], a meno che non si tratti di applicazione della legge arbitraria o manifestamente irragionevole[5].
Detto questo, si pongono essenzialmente due questioni, sulle quali vorrei oggi brevemente intrattenervi. Da una parte c’è da capire cosa si intenda per “legge” ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dall’altra quale sia stata l’evoluzione del concetto di qualità della legge, compreso l’aspetto della chiarezza, nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
2. Il concetto di “legge”
Sulla prima questione si è notato come la giurisprudenza della Corte EDU si sia oramai consolidata nel ritenere che il concetto di “legge” presente nella Convenzione, un concetto da interpretare in modo autonomo, debba intendersi in senso sostanziale e non in senso formale.
In uno studio di qualche anno fa due costituzionalisti, i professori Lupo e Piccirilli, si sono interrogati sulla questione, partendo dalla constatazione che il concetto di “legge” come viene tradizionalmente inteso nei sistemi giuridici di tradizione anglosassone, o di common law non coincide con quello accolto dalla tradizione continentale, o di civil law.
Nella tradizione di common law si intende la “legge” come un concetto ampio, che si riferisce ad ogni regola esistente, senza riguardo al modo nel quale essa si sia formata e sia entrata in vigore, e che quindi include non solo le leggi positive, ma anche il diritto consuetudinario, e anche quello di origine giurisprudenziale. Invece, nella tradizione continentale, lo stesso concetto è associato a quello di “legislazione”, ed è quindi correlato a specifiche categorie di atti normalmente approvati dal Parlamento, cioè dal potere legislativo, o in certi casi dal potere esecutivo, come in Italia nella decretazione d’urgenza o nella legislazione delegata, ma sempre con un intervento del Parlamento, preventivo, come nella legislazione delegata, o successivo come nella decretazione d’urgenza. In altre parole nell’Europa continentale il concetto di “legge” rimanda alle leggi adottate dal Parlamento o ad altri atti dotati dello stesso rango nella gerarchia delle fonti. Ne segue che nel linguaggio dei giuristi di civil law il riferirsi alla “legge” non evoca genericamente un comando giuridico, ma è una definizione tecnica di una fonte del diritto che è scritta, posta dal legislatore e “primaria”, cioè sottoposta solo al livello costituzionale[6]. Nella tradizione continentale, quindi, i riferimenti alla “legge” che si trovano nei testi normativi di livello costituzionale sono tipicamente interpretati dalle Corti costituzionali nazionali come una riserva alla legislazione di determinate materie, una riserva che quindi vuole escludere l’intervento di fonti del diritto diverse da quelle di origine parlamentare[7].
Allo stato attuale della sua evoluzione, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo può ritenersi consolidata nel suo riferirsi a un concetto pienamente sostanziale di “legge”, avendo abbandonato ogni riferimento al rango della norma di volta in volta interessata nella gerarchia delle fonti e ogni preoccupazione sulla sua origine, parlamentare, amministrativa o anche giurisprudenziale[8].
Già nella sentenza nel caso De Wilde, Ooms and Versyp c. Belgio del 1971 la Corte europea aveva considerato come base legale idonea ai sensi dell’art. 8 CEDU un arrêté royal, cioè une fonte di rango sub-legislativo, ma senza un’approfondita motivazione.
È con la sentenza The Sunday Times c. Regno Unito che la Corte di Strasburgo precisa esplicitamente, in un caso relativo all’art. 10 CEDU, che protegge la libertà di espressione, che la parola “legge” (law) nell’espressione “prescribed by law” contenuta in questa disposizione copre non solo la legge in senso formale, ma anche la legge non scritta, incluse le prescrizioni della common law.
Nel caso di specie si trattava di un’ingiunzione di non pubblicazione di un articolo sulla tragedia del talidomide imposta ad un giornale in base alle disposizioni di common law sul c.d. contempt of court, cioè, grosso modo, ostruzione alla giustizia. Il giornale ricorrente faceva valere che il concetto di contempt of court era così vago e incerto e che i principi enunciati nella decisione nazionale in esame erano così innovativi che la restrizione imposta al giornale non si poteva considerare “prescritta dalla legge” (prescribed by law) come impone l’art. 10 CEDU.
Vediamo che la prospettazione del ricorrente in questo caso abbraccia soprattutto l’altra questione di cui ci occupiamo oggi, cioè la chiarezza della legge e, più in generale, la sua qualità, ma per il momento fermiamoci al primo aspetto, quello della definizione del concetto di “legge” ai sensi della Convenzione.
Ho già anticipato la conclusione della Corte, che ha preso nettamente posizione per una concezione sostanziale e non formale della “legge”, posizione che è oggi consolidata nella giurisprudenza. La Corte ha osservato che limitare il concetto di legge a quello di legge formale sarebbe certamente contrario all’intenzione delle Parti contraenti; ritenere che una restrizione imposta in base al common law non sia “prescritta dalla legge” solo perché non è enunciata nella legislazione scritta priverebbe gli Stati parte di tradizione anglosassone della protezione di cui al secondo comma dell’art. 10 CEDU, cioè dell’applicazione delle restrizioni alla libertà di espressione che possono essere legittimamente imposte secondo la Convenzione[9]. Si tratta di un argomento che è stato considerato di natura originalista[10]perché fa leva sull’intenzione degli autori del testo da interpretare, cioè un criterio interpretativo che dovrebbe avere solo una funzione ausiliaria, ma è storicamente vero che il Regno Unito ebbe una grandissima influenza nella redazione del testo, per cui sarebbe stato veramente inconcepibile che avesse accettato di escludere dal concetto di “legge”, che finisce per delimitare l’ampiezza delle limitazioni di sovranità implicate dalla CEDU, una parte importante del proprio ordinamento giuridico. La Corte ha anche notato che lo stesso giornale ricorrente non aveva contestato l’esistenza della base giuridica della restrizione contestata nel ricorso, ma lamentava solo la mancanza di chiarezza e di precisione del principio di common law posto a base della restrizione litigiosa[11].
Con The Sunday Times la Corte ha superato un precedente orientamento giurisprudenziale, espresso nel 1978 dalla allora Commissione europea dei diritti dell’uomo, che, in un contesto diverso, cioè quello della necessaria base legale richiesta dall’art. 6 CEDU per la costituzione degli organi giudiziari, aveva inteso che riferimento alla “legge” avesse due implicazioni. Da una parte, l’esclusione di una regolamentazione da parte del potere esecutivo e, dall’altra, in modo più specifico, la necessità che in una società democratica l’organizzazione giudiziaria deve essere regolata da leggi approvate dal Parlamento[12].
Anche una regola formatasi in sede giurisprudenziale, purché la giurisprudenza sia costante e coerente, può integrare la nozione di “legge” ai sensi della Convenzione. A partire dalla sentenza Cantoni c. Francia del 1996, nel contesto particolarmente stringente dell’art. 7 CEDU, cioè del principio di legalità in materia penale, la Corte afferma che la nozione di law (droit nel testo francese) utilizzata all’art. 7 corrisponde a quella di law (loi nel testo francese) che appare negli altri articoli della Convenzione che abbiamo visto e ingloba il diritto di origine sia legislativa sia giurisprudenziale, quello a cui ci si riferisce come judge made law[13].
3. L’evoluzione del concetto di qualità della legge
Venendo ora all’evoluzione del concetto di qualità della legge, inclusa la dimensione della chiarezza, conviene partire sempre dalla sentenza Sunday Times del 1979. Qui la Corte doveva confrontarsi con l’espressione “prescribed by law” contenuta nell’art. 10 della Convenzione, ed è giunta alla conclusione che da questa formulazione discendono due esigenze. In primo luogo che la legge deve essere adeguatamente accessibile: l’individuo deve essere messo in condizione di conoscere, con indicazioni adeguate nelle circostanze particolari del caso, quali siano le regole legali applicabili a una determinata fattispecie. In secondo luogo la legge deve essere chiara, cioè deve essere formulata con una precisione sufficiente a porre l’individuo in condizione di poter regolare la propria condotta; il destinatario delle norme deve essere in grado – se necessario con l’aiuto di appropriata consulenza – di prevedere, in una misura ragionevole nelle circostanze del caso, le conseguenze legali conseguenti ad una determinata azione od omissione. La Corte riconosce che non è possibile pretendere una prevedibilità delle conseguenze con assoluta certezza, giacché l’esperienza dimostra che questo sarebbe un obiettivo irraggiungibile. Per quanto quest’ultimo possa essere un risultato altamente desiderabile, ciò comporterebbe un’eccessiva rigidità, mentre la legge deve essere in grado di tenere il passo con una realtà in evoluzione. Di conseguenza, molte leggi sono redatte in termini che, in una misura maggiore o minore, sono vaghi, per cui la loro interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica[14].
L’espressione “prescribed by law” utilizzata dalla Corte in The Sunday Times per costruire la dottrina della chiarezza della legge, intesa in senso ampio come dottrina della qualità della legge, si ritrova identica negli art. 9 e 11, che proteggono rispettivamente la libertà di coscienza e di religione e la libertà di associazione, ma non esattamente nell’art. 8, dedicato alla tutela della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, nell’ambito del quale troviamo l’espressione “in accordance with the law”. Nella successiva sentenza Silver c. Regno Unito del 1983, la Corte ha chiarito che i principi enunciati per l’art. 10 CEDU in base all’espressione “prescribed by law” in The Sunday Times in relazione ai requisiti di qualità della legge valgono anche nell’ambito dell’art. 8, anche perché le due disposizioni si sovrappongono con riguardo all’esercizio della libertà di espressione attraverso la corrispondenza, per cui non attribuire la stessa interpretazione alle due espressioni potrebbe condurre a conclusioni diverse in relazione alla medesima ingerenza nel diritto[15].
La giurisprudenza successiva ha chiarito che i requisiti di qualità della legge comprendono, oltre all’accessibilità, la chiarezza, la prevedibilità e la precisione. Si tratta però di elementi relativi, che non vanno considerati in astratto, tenendo in considerazione il settore di attività che la legge in questione è chiamato a disciplinare e il numero e la condizione dei destinatari delle sue previsioni[16].
Sviluppando concetti già enunciati in The Sunday Times, la Corte ha via via chiarito, relativamente al livello di precisione della legge nazionale, prima in Kokkinakis c. Grecia e poi in Vogt c. Germania che l’impossibilità di richiedere un eccessivo livello di dettaglio nella legislazione nazionale è una conseguenza logica del suo scopo di generale applicazione, tenendo presente che il livello di precisione dev’essere valutato a un livello ragionevole nelle circostanze del caso[17].
Anche le caratteristiche di chiarezza e prevedibilità della legge non devono essere intese in senso assoluto, perché queste condizioni si devono considerare soddisfatte anche nel caso in cui si renda necessario per la persona interessata sollecitare un appropriato parere legale per valutare, in una misura ragionevole nelle circostanze del caso, le conseguenze che potrebbero derivare da una particolare azione o omissione. Nella sentenza Chauvy et al. c. Francia, la Corte ha detto che questo è particolarmente vero quando si tratti di persone impegnate in attività professionali[18].
Vorrei accennare a uno sviluppo ulteriore della dottrina della qualità della legge, in particolare nel settore della tutela della riservatezza, o privacy, protetta dall’art. 8 CEDU. Mi riferisco alla esigenza che la legge, oltre alle caratteristiche di accessibilità, chiarezza, precisione e prevedibilità che abbiamo visto, contenga anche appropriate garanzie contro possibili abusi.
Come dicevo, solo nel 1983 con la sentenza Silver, quattro anni dopo The Sunday Times, si è chiarito che il tema della qualità della legge riguarda anche i diritti protetti dall’art. 8 della Convenzione in materia di tutela della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza, ma è proprio su questo terreno che si è registrato questo sviluppo.
Alle origini di questa evoluzione della giurisprudenza c’è la sentenza Malone c. Regno Unito del 1984, resa in un caso di intercettazione telefonica nel quadro di una procedura penale[19]. Il tema riguarda infatti – almeno alle origini della dottrina, che poi ha conosciuto una certa espansione – le operazioni di sorveglianza segreta, come le intercettazioni telefoniche, ambientali o informatiche. In questi casi, nei quali normalmente la legislazione lascia ampi margini alle autorità che procedono, e le garanzie di accessibilità e prevedibilità sono applicate in modo flessibile, la Corte ha statuito che nei casi di questo tipo la legge deve provvedere ad ulteriori garanzie. In Malone la Corte ha detto che nello speciale contesto della sorveglianza segreta il concetto di prevedibilità non può corrispondere esattamente a quello abituale, e ha precisato che l’espressione “in accordance to the law” non si limita a rinviare al diritto nazionale, ma si riferisce alla qualità della legge, imponendo che essa risponda al principio dello Stato di diritto (Rule of law, prééminence du droit), che è espressamente menzionato nel Preambolo della Convenzione. Ciò implica, e questo discende dall’oggetto e dallo scopo dell’art. 8, che sono richieste misure di protezione legale nel diritto nazionale contro le interferenze arbitrarie delle pubbliche autorità con i diritti protetti dal primo comma di questa disposizione. Specialmente quando il potere delle autorità è esercitato in segreto, i rischi di arbitrio sono evidenti. Le esigenze della Convenzione nel settore della sorveglianza segreta non possono essere le stesse che sono richieste quando l’oggetto della legge è quello di porre restrizioni alla condotta degli individui; ciò specialmente con riferimento al requisito della prevedibilità. A questo proposito la Corte ha detto che il requisito della prevedibilità non si può intendere nel senso che gli individui devono essere posti in grado di prevedere quando le autorità potrebbero intercettare le loro comunicazioni in modo che essi possano regolarsi di conseguenza. In ogni caso – e qui la Corte mette l’accento sul requisito della chiarezza – la legge deve essere sufficientemente chiara nei suoi termini in modo da dare agli individui un’indicazione adeguata alle circostanze e alle condizioni nelle quali le pubbliche autorità sono autorizzate a ricorrere a questa forma segreta e potenzialmente pericolosa di interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza. Questo però non basta, perché, specialmente quando gli individui, come accade normalmente, siano all’oscuro del possibile uso da parte delle autorità del potere di intercettare segretamente le comunicazioni, vi è un onere aggiuntivo per il legislatore di fissare rigide condizioni e restrizioni (tight conditions and restrictions) a questo uso. Dice la Corte che, dato che l’esecuzione delle misure di sorveglianza segreta delle comunicazioni non è controllabile mentre si svolge dagli interessati o dal pubblico in generale, sarebbe contrario al principio dello Stato di diritto concedere alle autorità un potere incontrollato in questa materia. Ne segue che si richiede che la legge indichi con precisione l’ambito del potere di intercettare concesso alle autorità e le modalità del suo esercizio con sufficiente chiarezza, tenuto conto del fine legittimo perseguito con la misura di intercettazione, al fine di accordare all’interessato una protezione adeguata contro ingerenze arbitrarie nel suo diritto alla tutela della vita privata e della corrispondenza[20].
Questa dottrina, che aggiunge alle esigenze di qualità della legge il requisito di adeguate misure di salvaguardia contro l’uso abusivo del potere, è stata estesa dalla Corte anche al di fuori del campo della sorveglianza segreta. Il principio è stato affermato nel caso Olsson c. Svezia del 1988, relativo all’affidamento di bambini[21].
In due casi contro la Francia relativi ad intercettazioni telefoniche, Kruslin e Huvig, del 1990, la Corte si è concentrata quasi esclusivamente sull’esistenza di efficaci misure di salvaguardia contro l’abuso di potere, entrando nel dettaglio delle prescrizioni richieste alla legge[22].
La dottrina ha avuto un ulteriore sviluppo grazie a tre casi abbastanza recenti, Zakharov c. Federazione russa del 2015[23], Centrum För Rättvisa v. Svezia del 2018[24] e Big Brother Watch c. Regno Unito del 2019[25]. La particolarità di questi casi, tutti attinenti alla c.d. sorveglianza di massa, anche se con modalità diverse, è che la Corte ha accettato di entrare nel merito dei ricorsi, presentati sia da associazioni sia da persone fisiche, indipendentemente dalla dimostrazione dei ricorrenti di essere stati assoggettati a misure di sorveglianza segreta, ma solo sulla base del rischio di esservi sottoposti, quindi con una attenuazione della giurisprudenza in tema di qualità di vittima, requisito della ammissibilità del ricorso.
In tutti questi casi, nei quali era evidentemente impossibile valutare la conformità alla Convenzione di singole misure di ingerenza nella sfera individuale dei ricorrenti, per definizione non esistenti in queste procedure, la Corte si è concentrata sulle caratteristiche minime che la legge che autorizza queste forme di sorveglianza di massa in modo da prevedere adeguate misure di salvaguardia contro gli abusi. La Corte è entrata particolarmente nel dettaglio nel caso Big Brother Watch, nel quale ha individuato ben nove caratteristiche che la legge deve presentare, anche se ha precisato che il principio non va applicato con rigidità, essendo possibile che la carenza di un elemento sia compensata da uno o più altri.
Si è osservato che lo sviluppo di questa dottrina, a partire da Malone, sia stato inspirato alla Corte di Strasburgo dalla giurisprudenza delle corti costituzionali europee, che si sono tradizionalmente occupate della riduzione delle forme arbitrarie di esercizio del potere[26].
* * *
In chiusura vorrei far cenno ad una sentenza molto recente della Corte europea dei diritti dell’uomo in un caso italiano, Grande Oriente d’Italia c. Italia[27], decisione nella quale troviamo un riepilogo dei principi la cui evoluzione ho cercato di esporre. Il caso riguardava la decisione della Commissione parlamentare anti-mafia, nel 2017, di procedere ad una perquisizione della sede del Grande Oriente d’Italia e al sequestro di vari documenti cartacei e digitali, incluse le liste degli aderenti alle logge affiliate all’organizzazione ricorrente.
In questa occasione la Corte ha ricordato che, secondo la propria giurisprudenza, l'espressione "in conformità alla legge", ai sensi dell'articolo 8 § 2 della Convenzione, richiede in primo luogo che la misura impugnata abbia una qualche base nel diritto interno. In secondo luogo, vi è l’esigenza che il diritto interno debba essere accessibile alla persona interessata. In terzo luogo, occorre che la persona interessata sia in grado, se necessario con un'adeguata consulenza legale, di prevedere le conseguenze del diritto interno per sé e, in quarto luogo, bisogna che il diritto interno sia compatibile con lo stato di diritto[28], nel senso della previsione di adeguate salvaguardie contro possibili abusi. Il concetto di "legge" deve essere inteso nel suo senso "sostanziale", non in quello "formale". Essa comprende quindi tutto ciò che costituisce il diritto scritto, compresi gli atti normativi di rango inferiore alle leggi, e anche la giurisprudenza pertinente[29].
La Corte ha precisato che nel contesto di attività investigative come quella in questione, a causa della mancanza di controllo pubblico e del rischio di abuso di potere, la compatibilità con il principio dello Stato di diritto richiede che il diritto interno fornisca un'adeguata protezione contro l'interferenza arbitraria con i diritti protetti dall'articolo 8[30]. In questo caso, pur riconoscendo che le misure ordinate dalla Commissione antimafia avevano una sufficiente base legale, la Corte ha preferito esaminare la questione dell’esistenza di sufficienti garanzie contro gli abusi unitamente a quella della “necessità in una società democratica delle stesse misure”, giungendo poi ad affermare la violazione dell’art. 8.
I principi enunciati in Grande Oriente sono ormai consolidati. C’è stata certamente un’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU su questi temi. Se questo avvicini la Corte di Strasburgo alle corti costituzionali europee è una questione che lascerei aperta. Dovesse questa ipotesi consolidarsi, si tratterebbe a mio sommesso giudizio di uno sviluppo positivo. Forse la mia è una visione ottimistica, ma ho l’impressione che sempre di più la Corte di Strasburgo e le corti costituzionali europee, comprese le due più inizialmente diffidenti nei confronti delle giurisdizioni nazionali, cioè la nostra e quella tedesca, ricerchino un terreno comune nell’intento di proteggere al meglio i diritti fondamentali dell’individuo, superando antiche chiusure.
[1] CtEDU, Al.Sadoon e Mufdhi c. Regno Unito, 2 marzo 2010, § 120.
[2] M. KRYGIER, Rule of Law, in M. ROSENFELD e A. SAJÓ (eds), The Oxford Handbook of Comparative Constitutional Law, Oxford, Oxford University Press, 2012, p. 237; J. JOWELL, The Rule of Law and its underlying values, in J. JOWELL, D. OLIVER e C. O’CINNEIDE (eds), The Changing Constitution, Oxford, Oxford University Press, 2015, pp. 20-24.
[3] CtEDU, Iatridis c. Grecia (GC), n. 31107/96, 25 March 1999, § 58.
[4] CtEDU, García Ruiz c. Spagna, n. 30544/96, 21 gennaio 1999, § 28.
[5] CtEDU, Cangi c. Turchia, n. 24973/15, 29 gennaio 2019, § 42.
[6] N. LUPO e G. PICCIRILLI, European Court Of Human Rights and the Quality of Legislation: Shifting to a Substantial Concept of ‘Law’?, in Legisprudence, 2012, p. 230.
[7] Ibidem.
[8] N. LUPO e G. PICCIRILLI, European Court etc., cit., p. 237.
[9] CtEDU, The Sunday Times c. Regno Unito, n. 6538/74, 26 aprile 1979, § 47.
[10] N. LUPO e G. PICCIRILLI, European Court etc., cit., p. 234.
[11] CtEDU, The Sunday Times etc., cit., ibidem.
[12] Commissione europea dei diritti dell’uomo, Zand c. Austria (Pl.), n. 7360/76, Rapporto 12 ottobre 1978, § 69.
[13] CtEDU, Cantoni c. Francia, n. 17862/91, 15 novembre 1996, § 29; Coëme et al. c. Belgio, n. 32492/96 32547/96 32548/96 33209/96 33210/96, 22 giugno 2000, § 145; Achour c. Francia, n. 67335/01, 29 marzo 2006, § 42.
[14] CtEDU, The Sunday Times etc., cit., §49.
[15] CtEDU, Silver et al. c. Regno Unito, n. 5947/72; 6205/73; 7052/75; 7061/75; 7107/75; 7113/75; 7136/75, 25 marzo 1983, § 85.
[16] N. LUPO e G. PICCIRILLI, European Court etc., cit., p. 237.
[17] CtEDU, Kokkinakis c. Grecia, n. 14307/88, 25 maggio 1993, § 24; CtEDU, Vogt c. Germania, n. 17851/91, 26 settembre 1995, § 48.
[18] CtEDU, Chauvy et al. c. Francia, n. 64915/01, 29 giugno 2004, §§ 43-45.
[19] CtEDU, Malone c. Regno Unito, n. 8691/79, 2 agosto 1984.
[20] CtEDU, Malone etc., cit., §§ 67 e s.
[21] CtEDU, Olsson c. Svezia, n. 10465/83, 24 marzo 1988, § 62.
[22] CtEDU, Kruslin c. Francia, n. 11801/85, 24 aprile 1990, §§ 32-35; Huvig v. Francia, n. 11105/84, 24 April 1990, §§ 32-35.
[23] CtEDU, Zacharov c. Federazione russa (GC), n. 47143/06, 4 dicembre 2015.
[24] CtEDU, Centrum För Rättvisa v. Svezia, n. 35252/08, 19 giugno 2018.
[25] CtEDU, Big Brother Watch c. Regno Unito, n. 58170/13, 62322/14 e 24960/15, 13 settembre 2018.
[26]D. M. BEATTY, The ultimate rule of law, Oxford, Oxford University Press, 2004; B.v.d.SLOOT, The Quality of Law. How the European Court of Human Rights gradually became a European Constitutional Court for privacy cases, in JIPITEC, Journal of Intellectual Property, Information Technology and Electronic Commerce Law, 2020, p. 167.
[27] CtEDU, Grande Oriente d’Italia c. Italia, n. 29550/17, 19 dicembre 2024.
[28] CtEDU, Brazzi c. Italia, n. 57278/11, 27 settembre 2018, § 39; De Tommaso c. Italia (GC), n. 43395/09, 23 febbraio 2017, § 107; e Heino c. Finlandia, n. 56720/09, 15 Febbraio 2011, § 36.
[29] CtEDU, Grande Oriente d’Italia etc., cit., § 96; in questo caso la Corte non menziona esplicitamente il common law, ma la sentenza non intende certo escluderlo, dovendosi esso ritenere compreso nel riferimento alla «giurisprudenza pertinente» (relevant case-law authority); v. anche Bodalev c. Russia, n. 67200/12, 6 settembre 2022, § 66, e National Federation of Sportspersons’ Associations and Unions (FNASS) et al. c. Francia, n. 48151/11 e 77769/13, 18 gennaio 2018, § 160.
[30] CtEDU, Grande Oriente d’Italia etc., cit., § 97. V. anche Rustamkhanli c. Azerbaijan, n. 24460/16, 4 luglio 2024, § 41, 4 luglio 2024, e Erduran e Em Export Dış Tic A.Ş. c. Turchia, n. 25707/05 e 28614/06, , 20 novembre 2018, § 80.
Intervento nel Convegno su "La legge apparente". Problemi di effettività e certezza della legge tra tecnica normativa, sociologia, politica. Il dovere di chiarezza della legge tra tecnica normativa, sociologia, politica, 28 gennaio 2025.
Il referendum abrogativo parziale dell’art. 19, commi 1,1-bis, e 4, e dell’art. 21, comma 01, del d.lgs.15 giugno 2015, n. 81 sui contratti a termine
V. A. Poso Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data12 aprile dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024; il deposito presso la Cancelleria della Corte di cassazione della documentazione attestante le firme raccolte è stato effettuato il 19 luglio 2024).
Il terzo, sinteticamente denominato dai promotori “Lavoro Stabile” ha ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis , limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?».
Secondo il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro stabile”, il quesito è inteso, in estrema sintesi, ad abrogare le norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine e limitare il ricorso a questo tipo di lavoro solo in presenza di causali specifiche obiettive e temporanee – previste e disciplinate dai contratti collettivi – verificabili dal giudice, anche per i contratti di durata non superiore a dodici mesi così da superare la precarietà dei contratti di lavoro, anche in caso di proroga e rinnovo; e ad abrogane la norma che consente alle parti individuali del contratto di lavoro di individuare la causale del termine, «che nei fatti apre la strada ad assunzioni a termine senza alcun controllo», essendo il lavoratore in attesa di essere assunto dell’autonomia necessaria per valutare e decidere. Per i promotori di questo referendum il lavoro «deve essere stabile perché la precarietà è una perdita di libertà».
Chiedo, in particolar modo, ai giuslavoristi di tracciare un quadro sintetico della disciplina del contratto a termine – con riferimento agli aspetti più rilevanti che qui interessano e ai principi informatori delle norme che si sono succedute – per come si è evoluta, a partire dalla l. 18 aprile 1962, n.230.
S. Ciucciovino. La disciplina del contratto a termine è stata attraversata nel corso degli anni da numerose e continue modifiche. Essa ha assunto progressivamente una vera e propria valenza simbolica, anche nell’opinione pubblica, rispetto alla questione della “precarietà lavorativa”. Da questo punto di vista, le diverse riforme del contratto a termine messe in atto dai Governi che si sono succeduti, almeno dagli anni 2000 in poi, sono state connotate da una forte connotazione “politica”.
Non a caso anche la proposta referendaria in commento, nell’intento di contrastare la precarietà lavorativa, prende di mira il contratto a termine. Va detto, però, che il fenomeno della precarietà – specie nelle forme più deprecabili - è addebitabile in larga parte a forme di lavoro ben meno tutelate del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato; forme più o meno irregolari, grigie e mascherate, rispetto alle quali non si è notato lo stesso livello di attenzione che è stato riservato al contratto a tempo determinato.
Ciò detto, al netto di interventi correttivi di portata minore, dagli anni ‘60 del secolo scorso ad oggi si contano almeno sei grandi riforme del contratto a termine, rispettivamente apportate con la l. n. 230/1962, con l’art. 23 della l. 56/1987, con il d. lgs. n. 368/2001, con il d. lgs. 81/2015 (c.d. Jobs Act), con il d.l. 87/2018, convertito in l. 96/2018 (c.d. decreto Dignità) e, infine, con le successive correzioni del c.d. decreto sostegni bis (d.l. 73/2021, conv. in l. 106/2021). Ciascuna di queste riforme corrisponde ad una precisa ispirazione di politica del diritto e fissa uno specifico bilanciamento del ruolo del legislatore, dell’autonomia collettiva e dell’autonomia individuale nel governo del lavoro temporaneo.
Tutto inizia con la legge n. 230 del 1962 che poneva un divieto generale di apposizione del termine al contratto di lavoro, salve le eccezioni previste e disciplinate dallo stesso legislatore. Si trattava di ipotesi che legittimavano l’assunzione a termine: per esigenze stagionali; per esigenze sostitutive; per l’esecuzione di un’opera o un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale; per lavorazioni che richiedevano maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative non continuative e, infine, per il personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli. All’epoca, è bene ricordarlo, vigeva un regime di libera recedibilità dai contratti di lavoro a tempo indeterminato, con il solo limite del preavviso ex art. 2118 c.c. e, quindi, la precarietà era una caratteristica comune sia alle assunzioni a termine che a quelle a tempo indeterminato.
La normativa limitativa dell’assunzione a termine del 1962 cominciò a rivelarsi invece particolarmente restrittiva quando, pochi anni dopo, nel 1966 e nel 1970, si posero vincoli stringenti al licenziamento del lavoratore assunto a tempo indeterminato. A quel punto l’interesse per l’assunzione a termine si caricò di nuovi significati, in quanto il termine consentiva all’impresa di chiudere il rapporto di lavoro senza dover passare per le strettoie della giustificazione del licenziamento del lavoratore assunto a tempo indeterminato.
Con le crisi degli anni ’70 le prospettive di mercato in cui operavano le imprese si fecero più incerte e difficili e ciò alimentò la richiesta di contratti temporanei che si scontrava con il rigido impianto regolativo della legge n. 230/1962. Così, a partire dagli anni ’80, prese avvio una fase del diritto del lavoro di cauta attenuazione delle rigidità legali, che venne affidata alla contrattazione collettiva. Si aprì allora la stagione della cosiddetta “flessibilità negoziata”, di cui l’art. 23 della l. n. 56/1987 è emblematica. Questa norma configurò una tappa importante di riforma della disciplina del contratto a termine, in quanto affidò al contratto collettivo nazionale, con una vera e propria “delega in bianco”, il potere di prevedere “ulteriori ipotesi” di legittima apposizione del termine, aggiuntive rispetto a quelle legali già previste dalla legge del 1962. Una valvola di sfogo della domanda di flessibilità che le imprese potevano attingere attraverso le relazioni sindacali. Questa normativa, nell’affidare all’autonomia collettiva la gestione della flessibilità in entrata, accrebbe notevolmente il potere dei sindacati nei tavoli negoziali. Si passò, quindi, da un governo del lavoro temporaneo rimesso esclusivamente alla fonte legale, ad un governo in cui coesistevano la fonte legale e la fonte contrattuale collettiva.
Altre norme negli anni ‘80 e ‘90 replicarono lo stesso modello di flessibilità negoziata con una stretta integrazione tra fonte legale e collettiva. Si possono citare in proposito le norme sul contratto di formazione e lavoro e sul contratto di inserimento (l. n.863/1984 e l. n.451/1994), le norme sul lavoro temporaneo tramite agenzia (l. n.196/1997), le norme sull’apprendistato (l. n.196/1997), le norme sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (l. n.146/1990). Attraverso la delega in bianco dell’art. 23, l. n. 56/1987 e altre disposizioni di quel periodo storico cominciò ad emergere anche il contratto a termine con causale soggettiva, dove il termine costitutiva una sorta di incentivo all’assunzione di categorie svantaggiate: giovani, donne, soggetti a rischio disoccupazione (art. 8, l. n.223/1991). In questo panorama normativo, in cui l’assunzione a termine era veicolata e controllata dall’autonomia collettiva, anche il contenzioso giudiziario si rivelò contenuto, in quanto il contratto collettivo assolveva ad un sufficiente ruolo di garanzia della parte lavoratrice rispetto alla precarietà lavorativa, guardato con rispetto anche dai giudici.
Tutto cambiò con la riforma del contratto a termine realizzata dal governo Berlusconi con il d.lgs. n. 368/2001. Quella terza grande riforma pretendeva di cambiare gli equilibri complessivi che fino a quel momento avevano più o meno tenuto. Il legislatore, infatti, abbandonò la tecnica della flessibilità negoziata e anticipatamente filtrata dalla mediazione sindacale, tipica degli anni ‘80/’90 del secolo scorso, e optò per una tecnica di governo del ricorso ai contratti flessibili, risultata poi fallimentare, affidata alla norma legale ma, differentemente dalla l. n. 230 del 1962, questa volta incentrata sul precetto generale e aperto - il c.d. “causalone” - che identificava in non meglio specificate “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” i presupposti causali dell’apposizione del termine al contratto di lavoro. In questo modo si rimetteva, in definitiva, all’autonomia individuale l’individuazione dei presupposti oggettivi di assunzione a termine.
La norma a precetto indeterminato ha accresciuto enormemente il tasso di incertezza applicativa della disciplina legale e le dimensioni del relativo contenzioso giudiziale. Un contenzioso che ha fatto emergere il forte soggettivismo delle decisioni giudiziali orientate da un’interpretazione carica di opzioni valutative tipiche dell’applicazione di clausole generali che, come tali, necessitano di essere completate attingendo il significato delle norme da concetti presenti nella realtà sociale ovvero da fonti extra ordinem. In realtà la locuzione legale riferita alle “ragioni” oggettive di ricorso al contratto a termine non configurava una clausola generale (come è ad esempio quella del notevole o grave inadempimento o del congruo preavviso), quanto piuttosto un precetto legale a contenuto elastico che chiama l’interprete ad effettuare una valutazione che non dovrebbe essere ispirata ad opzioni di valore, bensì limitata alla verifica in concreto della sussistenza della ragione addotta dall’imprenditore afferente alla sfera delle decisioni produttive o organizzative dell’impresa, che come tali restano insindacabili, nonché alla verifica del nesso casale tra la ragione così enucleata e l’impiego del lavoratore assunto a termine.
Comunque la maggiore discontinuità segnata dalla riforma del 2001 rispetto al passato era rappresentata dalla soppressione di qualsiasi ruolo significativo della fonte collettiva nel governo della flessibilità in entrata. Il legislatore del 2001 poneva così fine alla stagione della flessibilità negoziata e apriva la nuova fase della flessibilità prevista direttamente dalla legge e rimessa all’autonomia individuale. Cioè all’accordo delle parti del rapporto di lavoro, tenute a concretizzare e contrattualmente specificare le ragioni oggettive genericamente previste dal legislatore. Non più quindi un mix di fonte legale e fonte collettiva, bensì un mix di fonte legale e autonomia individuale, in un quadro dove la norma legale non era puntuale, come lo era la l. n.230 del 1962, bensì aperta e indeterminata, accrescendo il grado di (apparente) discrezionalità dell’autonomia individuale.
La giurisprudenza ha, però, avuto una vera e propria crisi di rigetto nei confronti della riforma del 2001 e quella che è stata definita dai commentatori dell’epoca come una normativa di “liberalizzazione” del contratto a termine si è infranta, dopo almeno un quindicennio di tormentato contenzioso giudiziario, contro un’interpretazione fortemente restrittiva, rivelandosi in definitiva una vera e propria illusione ottica. I vincoli al contratto a termine, pur non previsti espressamente dal legislatore, né necessitati dalla normativa europea, sono stati sostanzialmente reintrodotti per via giudiziale, nella misura in cui è stato ritenuto sottointeso all’oggettività delle ragioni giustificative del termine, anche il requisito della sostanziale temporaneità delle stesse, di cui i giudici hanno fornito di volta in volta la propria personale accezione.
Questo sviluppo inglorioso della disciplina del contratto a termine rende più chiara l’operazione di politica del diritto sottesa alla successiva importante quarta riforma operata dal Jobs Act con il d. lgs. n.81 del 2015.
V. Speziale. Silvia Ciucciovino descrive in modo esaustivo l’evoluzione della disciplina del contratto a termine, la profonda valenza politica delle varie riforme che sono state introdotte, le diverse tecniche utilizzate e i contesti normativi nei quali esse sono state inserite.
Va rilevato, in primo luogo, che tra le innovazioni effettuate nel tempo va inclusa anche quella introdotta con il d.l. n. 48/2023, convertito nella l. n. 85/2023. Questa normativa va sicuramente ricordata per le importanti innovazioni che ha introdotto. Anche successivamente vi sono state modifiche ulteriori (nel 2024 e 2025), a dimostrazione del carattere assai “tormentato” della regolazione del contratto a termine.
Questo continuo processo riformatore è spiegabile con ragioni specifiche, connesse al ruolo del Diritto del lavoro nell’ambito della politica e alle diverse opinioni legate alla funzione del rapporto di lavoro a tempo determinato.
In relazione al primo aspetto, non vi è dubbio che la riforma del Diritto del lavoro (e, in particolare di quello direttamente connesso alla regolazione del mercato del lavoro) sia ormai parte fondamentale di qualunque programma politico, venendo ad assumere un valore fortemente identitario per le maggioranze parlamentari e per il Governo da esse espresso che di volta in volta si succedono alla guida del Paese. L’idea, coltivata per lungo tempo anche a livello europeo, è che il Diritto del lavoro sia uno strumento di politica economica, al pari delle politiche di bilancio, di quelle dirette a sostenere il sistema produttivo o l’innovazione tecnologica, delle politiche fiscali e così via. Questa impostazione ha sicuramente un fondo di realtà, perché il Diritto del lavoro è un diritto della produzione, che influenza le dinamiche organizzative, la produttività, i costi diretti (retribuzione e oneri sociali) e indiretti (tutele normative più o meno limitative delle prerogative manageriali), i profitti di ogni singola impresa ecc.
Senza dimenticare i profili macroeconomici condizionati da questa branca del diritto, in rapporto ad esempio alla domanda aggregata di beni e servizi, al livello delle entrate fiscali (legate alle risorse distribuite dai contratti collettivi nazionali di lavoro), alla limitazione della concorrenza, alla regolazione del mercato del lavoro (politiche attive e capacità di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro), al rapporto tra salari e tasso di occupazione e disoccupazione e così via.
Tuttavia, la pretesa che il Diritto del lavoro possa avere una funzione essenziale nello sviluppo economico di un Paese e, in particolare, svolgere un ruolo determinante nei livelli di occupazione e di disoccupazione è assolutamente priva di riscontri empirici ed esprime una concezione che enfatizza oltre misura la funzione del diritto in generale – e di quello del lavoro in particolare – nell’ambito economico. Tale ruolo, in realtà, è assai limitato e non può certo sostituire gli strumenti tipici della politica economica (politiche di bilancio, fiscali, monetarie, sostegno economico alla domanda aggregata ecc.). Alcune regole in materia di lavoro possono indubbiamente avere un riflesso di tipo economico, ma in una misura molto più ridotta di quanto si è cercato di sostenere, con una accentuazione che, a ben vedere, rispecchia la impossibilità o difficoltà di utilizzare altri strumenti - come le politiche keynesiane di sostegno alla domanda aggregata e basate sul deficit spending o le svalutazioni competitive della moneta – che hanno caratterizzato lunghi periodi storici del nostro paese. Il Diritto del lavoro, in questo contesto, è stato chiamato a svolgere una funzione di supplenza di interventi di politica economica non più realizzabili o di minore impatto rispetto al passato con risultati economici che, a consuntivo, si sono rivelati deludenti.
La riforma costante del contratto a termine, peraltro, esprime anche il valore attribuito alla flessibilità del lavoro che, per oltre 25 anni, ha costituito, anche a livello europeo, il mainstream della materia. È evidente, infatti, che in sistemi giuridici in cui tutti i diritti dei lavoratori – considerati quali “rigidità” da rimuovere – sono prevalentemente incentrati sul contratto di lavoro a tempo indeterminato, il rapporto a termine è una alternativa valida ad un contratto standard considerato come eccessivamente tutelato e la maggiore diffusione del primo potrebbe incrementare la flessibilità del sistema, con tutti i presunti effetti positivi che ne possono scaturire. Anche in questo caso, la realtà ha smentito questa impostazione. Oggi anche le organizzazioni internazionali che maggiormente aveva sostenuto queste idee (Ocse, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea) sono arrivate ad ammettere che la flessibilità del lavoro non produce gli effetti promessi sull’occupazione. Ed anzi, al contrario, una diffusione eccessiva di rapporti a termine può produrre conseguenze negative sui livelli di produttività, sugli investimenti formativi e quindi sulla stessa qualità del lavoro, inteso quale strumento fondamentale di creazione di valore per le imprese.
I fattori descritti sono dunque all’origine della “riforma continua” del rapporto a tempo determinato che ha caratterizzato gli ultimi 40 anni. Inoltre, la egemonia della lettura economica del diritto che ha caratterizzato questo lungo periodo ha causato una alterazione della funzione giuridica del contratto a termine, trasformato da modello contrattuale diretto a soddisfare esigenze temporanee di lavoro delle imprese e dei lavoratori a strumento di creazione di occupazione. Il tutto, in una concezione che considera l’occupazione prevalentemente sotto il profilo quantitativo (in base al noto aforisma che è meglio un lavoro non stabile che la disoccupazione), senza considerare che la qualità del lavoro – oltre ad essere fondata sulla nostra Costituzione e sulle tutele garantite dalle Carte dei diritti fondamentali a livello europeo – è un presupposto essenziale per una migliore produttività e qualità dei processi e dei prodotti delle imprese. Non è un caso, infatti, che il nuovo paradigma della impresa e dello sviluppo sostenibile si basino proprio sulla valorizzazione del lavoro quale strumento di realizzazione delle finalità sociali e produttive connesse al concetto di “sostenibilità”.
Le condizioni descritte spiegano perché il processo di liberalizzazione del contratto a termine, che si era svolto anche negli anni ’80 e ’90 ma con maggiore moderazione e filtrato anche dal controllo sindacale, si è particolarmente accentuato dal 2001 al 2018, con riduzione dei vincoli normativi e ampliamento delle sue possibilità di utilizzazione (salvo qualche intervento in controtendenza, come quello realizzato con la legge n. 247 del 2007). In sostanza, nel periodo di tempo indicato, le riforme del contratto a termine hanno avuto la finalità di assicurare alle imprese le assunzioni a termine come strumento generale e privilegiato di accesso al lavoro allo scopo di: a) consentire di testare le capacità professionali e le caratteristiche personali del lavoratore per periodi temporali più lunghi rispetto ai periodi di prova previsti dai CCNL; b) evitare i limiti giuridici connessi al licenziamento; c) in situazioni caratterizzate da incertezza economica e fluttuazioni nella domanda provenienti dal mercato, escludere l’inserimento in organico di lavoratori stabili, mantenendo una quota elevata di dipendenti temporanei.
Senza dubbio gli enormi processi di cambiamento che hanno caratterizzato i sistemi economici e i modelli organizzativi delle imprese nella parte finale del XX secolo e nei primi 25 anni di quello in corso hanno modificato la struttura della domanda di beni e servizi, con una maggiore alternanza nei flussi di intensità della produzione delle imprese, caratterizzati da picchi più elevati di attività, seguiti da periodi meno intensi. Vi era quindi l’esigenza di un uso diverso dei contratti a termine per fare fronte a queste nuove esigenze produttive, riducendo le eccessive limitazioni al suo ricorso che avevano caratterizzato alcune normative degli anni ’60 e ’70. Tuttavia, il processo che si è realizzato è andato ben al di là di questa necessità di adeguamento normativo e si è tradotto in una liberalizzazione eccessiva della disciplina, escludendo la mediazione sindacale e trasformando il contratto a termine in un modello contrattuale tendenzialmente fungibile con il lavoro stabile, con effetti economici importanti, che esaminerò in seguito.
Silvia Ciucciovino sottolinea come sarebbe scorretto collegare la diffusione del contratto a termine al fenomeno della precarietà, visto che essa sarebbe propria delle forme di lavoro irregolare meno tutelate. Non vi è dubbio che il rapporto a tempo determinato sia più protettivo per i lavoratori rispetto al lavoro “in nero” o anche ad alcune modelli contrattuali tipizzati dalla legge (si pensi al lavoro intermittente o a quello occasionale). Tuttavia, non va dimenticato che molti studi empirici hanno messo in evidenza come i dipendenti a termine abbiano di fatto retribuzioni inferiori a quelli stabili, nonostante la legge non consentirebbe questa differenziazione, espressamente vietata. Inoltre, le analisi sociologiche ed economiche hanno messo in rilievo come la reiterazione dei contratti a tempo determinato, consentita dalla disciplina vigente, può realizzare la cosiddetta “trappola della precarietà”. I lavoratori che per anni sono utilizzati con rapporti a termine, anche per i minori investimenti in formazione (che, per il loro costo e per l’attesa da parte dell’impresa di poterli utilizzare, sono generalmente destinati ai dipendenti stabili), hanno meno possibilità di essere assunti con contratti a t. indeterminato, con tutte le conseguenze annesse in termini di incertezza del reddito, minore possibilità di pianificare il proprio futuro, incremento nel gap di professionalità ecc.
Nel periodo antecedente alla introduzione del d.lgs. n. 81/2015, Silvia Ciucciovino descrive la riforma del 2001, con l’abbandono della tecnica della flessibilità negoziata dalla mediazione collettiva e l’introduzione di una causale legata a ragioni di carattere tecnico ed organizzativo. La Collega rileva poi come questa riforma abbia determinato un processo di notevole incremento del contenzioso caratterizzato da un forte soggettivismo delle decisioni giudiziali, ispirate ad opzioni di valore che avrebbero dovuto essere escluse nella interpretazione della disposizione. Si afferma, inoltre, che la giurisprudenza ha avuto “una crisi di rigetto nei confronti della riforma del 2001”, che ha ridotto in modo consistente l’intento di liberalizzare l’uso del contratto a termine e, dopo un quindicennio, ha adottato una interpretazione fortemente restrittiva della nuova normativa, reintroducendo in via giudiziale i vincoli che si era voluto evitare, in particolare tramite la riaffermazione della temporaneità delle ragioni tecniche ed organizzative previste dal d.lgs. n. 368/2001.
Rilevo, in primo luogo, che l’utilizzazione di norme “aperte” o a contenuto elastico non può che necessariamente ampliare la discrezionalità del giudice nella interpretazione delle stesse, rispetto a fattispecie più specificamente regolate. Tuttavia, l’uso di disposizioni con queste caratteristiche è ormai una tecnica ampiamente diffusa in tutti i settori del diritto e si lega a fattori di evoluzione dei sistemi normativi che rendono sempre più difficile ipotizzare una regolazione per fattispecie molto dettagliate, per ragioni diverse e che qui non posso esaminare (tra cui, comunque, la difficoltà di regolare con disposizioni molto particolareggiate una realtà in evoluzione rapidissima, che rende subito obsolete norme appena emesse). Inoltre, nel Diritto del lavoro la presenza di norme con queste caratteristiche è da sempre assai diffusa e senza che tale tecnica sia stata mai oggetto di critiche assai accentuate come nel caso del contratto a termine. Il caso sicuramente più significativo è quello della giusta causa e del giustificato motivo di licenziamento, dove la funzione della giurisprudenza nel dare contenuto a tali norme aperte è assai ampia. Ma gli esempi potrebbero continuare, perché disposizioni simili caratterizzano tutta la produzione normativa italiane (e anche europea).
La critica alla interpretazione della giurisprudenza basata su opzioni di valore non considera che questa tecnica interpretativa è un portato ineludibile della trasformazione del processo di ascrizione di un significato ad una norma, che è oggi un metodo aperto dove – secondo gli insegnamenti della ermeneutica giuridica – i valori sono parte integrante del processo, anche per la possibilità per il giudice di adottare direttamente una interpretazione costituzionalmente ed eurounitariamente orientata di una disposizione, accedendo a testi (Costituzione, Trattati) che sono fortemente impregnati di principi e valori a cui essi si ispirano. Senza dimenticare che anche norme sulla interpretazione legate a diversi periodi storici – come l’art. 12 delle preleggi – nell’attribuire rilievo alla “intenzione del legislatore” danno spazio proprio alle finalità perseguite dalla legge e alle scelte di valore ad essa sottese. Il problema, dunque, non è quello di una “interpretazione per valori”, che è ormai un dato acquisito delle tecniche interpretative, quanto la giustificazione che il giudice è in grado di dare sia sulla selezione dei valori, sia sulla loro utilizzazione nella lettura della disposizione sottoposta al suo giudizio, che è espressione del principio della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali previsto dall’art. 111, c. 6, Cost.
La tesi secondo cui la giurisprudenza avrebbe “remato contro” la riforma, limitandone la portata liberalizzatrice e reintroducendo presupposti (come la temporaneità) non previsti dalla legge, non mi trova d’accordo. La verità è che la tesi sostenuta da una parte della dottrina, secondo cui il “causalone” previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 consentiva di stipulare il contratto in presenza di ragioni oggettive ma non temporanee, era difficilmente sostenibile. La formulazione letterale della disposizione, letta in connessione con la disciplina del lavoro stabile e con i valori costituzionali ed eurounitari esistenti, rendeva implausibile tale interpretazione. Essa, tra l’altro, anche in considerazione della assenza di limiti temporali massima alla durata del contratto, avrebbe consentito di instaurare rapporti a termine per periodi lunghissimi, rendendo di fatto questa tipologia contrattuale del tutto identica alle assunzioni a t. indeterminato, in palese contraddizione con la Direttiva 1999/70/Ce, che il d.lgs. n. 368/2001 ha implementato nell’ordinamento nazionale. La fonte europea, infatti, afferma che la “forma comune” dei contratti è quella senza limite di durata. E non è un caso che la giurisprudenza della Corte di giustizia europea abbia costantemente affermato, negli anni successivi alla sua emanazione, che la Direttiva andava interpretata nel senso di consentire la stipulazione di contratti temporanei e non tali da sostituire il lavoro stabile. La giurisprudenza italiana, e in particolare la Cassazione, non ha potuto fare altro che adeguarsi alla interpretazione più coerente con una lettura della normativa all’interno del sistema giuridico italiano ed europeo.
V. A. Poso. Soffermiamoci sul d. lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, emanato in attuazione dell’art. 1, c. 7, della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, che si inserisce nel complessivo disegno riformatore
- da molti non condiviso - del Jobs Act. Quali sono i punti salienti di questa disciplina, stando al testo originario del decreto legislativo?
V. Speziale. Il d.lgs. n. 81 del 2015, nella sua impostazione originaria, segna una netta cesura con la disciplina precedente meno recente. Il contratto a termine, che dagli anni ’60 in poi era sempre stato caratterizzato dalla presenza di una ragione giustificativa, diventa “acausale”. Il datore di lavoro ha solo un limite temporale massimo di 36 mesi, che peraltro può essere derogato in senso migliorativo o peggiorativo dai contratti collettivi e, comunque, esteso di altri 12 mesi in sede di negoziazione assistita. Inoltre, la normativa, oltre alla possibile e fondamentale modifica alla durata massima del rapporto, riattribuisce alla autonomia collettiva poteri regolatori e/o derogatori importanti, in materia di individuazione delle ipotesi di lavoro stagionale (art. 21, c. 2), di deroga ai limiti quantitativi nelle assunzioni a termine (art. 23, c. 1 e c. 2, lett. a) e in tema di diritto di precedenza (art. 24, c. 1), in relazione alla formazione dei lavoratori a termine (art. 26), per l’individuazione dei casi di servizi speciali nel settore turismo e pubblici esercizi di durata non superiore a tre giorni ed esentati dalla applicazione della disciplina generale sul termine (art. 29, c. 2, lett. b).
Le nuove regole segnano, innanzitutto, il passaggio da un controllo qualitativo sulle ragioni tecniche e organizzative ad uno prevalentemente quantitativo. Lo scopo perseguito è, in primo luogo, quello di eliminare la verifica giudiziaria sulla causale del contratto, escludendo il principio della temporaneità delle esigenze di lavoro a termine, che si era ormai consolidato nella giurisprudenza. L’intento di liberalizzare il rapporto e di depotenziare una interpretazione giurisprudenziale che ne restringeva l’utilizzo è assolutamente evidente. In alcuni commenti si è messo in evidenza che la riforma intendeva ridurre le incertezze applicative espresse dai giudici, che, in realtà, nel 2015 avevano trovato un loro assetto abbastanza consolidato e con un grado di indeterminatezza non certo superiore a quello presente nella giurisprudenza in materia di licenziamento o in altre ipotesi. In verità, questa sfiducia nel controllo giurisdizionale e la volontà di ridurre la discrezionalità del giudice è una finalità perseguita dalla legislazione del 2015 in generale, come dimostrano le vicende del d.lgs. n.23/2015 sul contratto a tutele crescenti, caratterizzato da tecniche normative che limitano il controllo del magistrato e, attraverso la diminuzione delle tutele, favoriscono discipline che consentono un’esatta predeterminazione dei costi sostenuti dalle imprese. Certezza del diritto e riduzione del contenzioso sono gli obiettivi fondamentali da perseguire, anche se determinano un sensibile decremento dei diritti dei lavoratori.
La vera finalità della riforma del 2015 era comunque un'altra: trasformare il contratto a termine, da strumento se non eccezionale quantomeno derogatorio rispetto alla “forma comune” del rapporto stabile, in un modello contrattuale del tutto fungibile rispetto al contratto a t. determinato. Nel limite massimo di 36 mesi, estensibile ulteriormente dai contratti collettivi senza “tetti massimi” e con la possibilità di ulteriori 12 mesi in sede di negoziazione assistita, si eliminava qualsiasi distinzione basata sulle ragioni organizzative dell’impresa o personali del dipendente. Il datore di lavoro poteva assumere a termine con più contratti e nei limiti massimi previsti dalla legge o dal contratto collettivo per soddisfare esigenze di lavoro stabile. In questo caso, gli obiettivi già descritti (testare il lavoratore per un periodo assai più lungo dei periodi di prova previsti dalla legge e dai Ccnl; bypassare i vincoli giuridici previsti per i licenziamenti individuali e collettivi; creare una quota fissa di personale a termine, indipendentemente dalla sussistenza di bisogni di lavoro temporaneo) sono stati la finalità principale perseguita dal legislatore.
In ogni caso, dal punto di vista delle tecniche normative, la eliminazione di una distinzione funzionale tra lavoro a termine e a t. indeterminato costituisce una vera e propria rottura con il passato. Essa, da un lato, ribadisce l’utilizzazione del contratto a termine come strumento di incremento della occupazione, che si sperava favorita dalla eliminazione della causale e del controllo giurisdizionale. Un sistema che, come vedremo, ha contribuito in modo rilevante ad aumentare la diffusione di contratti privi di stabilità. Inoltre, la finalità è quella di aumentare in modo consistente la flessibilità organizzativa delle imprese, indipendentemente dal carattere stabile o meno della esigenza di lavoro, e con possibilità di favorire un maggiore turn over nei livelli occupazionali.
Il limite dimensionale del 20 per cento dei lavoratori stabili costituiva, indubbiamente, un deterrente importante ad una espansione incontrollata del lavoro a t. determinato. Tuttavia, le numerose deroghe previste dalla legge per ipotesi escluse da limitazione quantitative (art. 23, c. 2) e soprattutto il potere derogatorio affidato ai contratti collettivi di qualunque livello estenderanno in materia significativa il tetto quantitativo, ampliando in misura significativa la diffusione del contratto a termine. L’evoluzione della contrattazione collettiva successiva alla emanazione della legge, sia a livello nazionale e soprattutto a livello decentrato, comporterà un innalzamento significativo dei tetti quantitativi. Per quanto attiene i contratti aziendali, vi sono stati casi dove il limite è stato incrementato in misura assai rilevante, arrivando al 70/80 per cento dell’intero organico dell’impresa.
La riforma del 2015, già anticipata da precedenti normative, come si è visto ha attribuito funzioni importanti alla autonomia collettiva. Tuttavia, in coerenza con l’ispirazione complessiva della riforma, il sindacato non poteva esercitare un controllo sulle ragioni economiche ed organizzative (aggiungendovene altre o specificando quelle legali), ma solo sulla quantità dei contratti. L’autonomia collettiva, inoltre, aveva un ampio potere derogatorio alle discipline legali in molte materie (intervalli temporali tra un contratto e l’altro, periodo massimo di trentasei mesi, diritto di precedenza). La deroga avrebbe potuto anche essere migliorativa. Tuttavia, come sottolineato da un’autorevole dottrina, la legge aveva attribuito al sindacato un potere contrattuale “in salita” e assai difficile da esercitare. Nella misura in cui, infatti, le deroghe avrebbero inciso sulla utilizzazione del contratto e sulle opportunità occupazionali che esso offriva, le organizzazioni sindacali hanno avuto forti difficoltà a contrastare le esigenze di una utilizzazione più ampia dal punto di vista quantitativo e più estesa sotto il profilo temporale di questa tipologia contrattuale.
L’alternativa, infatti, era quella di impedire l’assunzione di lavoratori, seppure a termine, con il rifiuto di opportunità di lavoro difficili da giustificare nei confronti dei lavoratori iscritti e non ai sindacati. E non è un caso che molti Ccnl, in settori economici importanti, hanno ampliato i tetti quantitativi e anche il periodo massimo di 36 mesi, consentendo di stipulare contratti a termine per periodi di 4 o 5 anni (a volte con tetti massimi previsti, insieme, per termine e somministrazione a t. determinato) e, in alcuni casi, hanno addirittura eliminato qualsiasi vincolo massimo di durata. Inoltre, come si è detto, questa tendenza alla disciplina più favorevole alle imprese si è manifestata anche a livello aziendale, con deroghe ancora più accentuate.
La riforma del 2015, in conclusione, oltre a mutarne natura e funzione, ha determinato una decisa liberalizzazione del contratto a termine, dimostrata anche dai dati statistici successivi al 2015, come vedremo.
La nuova disciplina, inoltre, ha posto problemi di compatibilità con la Direttiva 1999/70/CE, il cui rispetto, alla luce della prevalenza del diritto europeo su quello nazionale, deve sempre essere garantito. La Direttiva, finalizzata a prevenire l’abuso nella utilizzazione del contratto a termine, ha previsto tre modalità alternative di regole dirette a raggiungere tale scopo. Da questo punto di vista, la normativa introdotta dal d.lgs. n.81/2015 ne prevede due (la durata massima totale dei contratti e il numero delle proroghe, che, pur diversi, sono assimilabili ai rinnovi). Essa, quindi, sembra perfettamente in linea con la disciplina europea. Tuttavia, la Corte di giustizia (CGE) ha con molte sentenze affermato che la normativa nazionale che attua la Direttiva non debba essere tale da soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”. Tale limite opera, a giudizio della CGE, anche se vi sono due delle misure previste dalla fonte europea, come la presenza di ragioni obiettive e la durata massima dei contratti a termine successivi. Infatti, anche singole necessità oggettive temporanee non escludono l’abuso se, complessivamente considerate, sono tali da soddisfare esigenze lavorative non transitorie, tranne l’ipotesi della sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto.
Le regole introdotte dal d.lgs. n. 81/2015, nella sua versione originaria, prevedevano la totale “acausalità” del contratto a termine, dei rinnovi e delle proroghe e una durata complessiva di utilizzazione molto ampia (36 mesi). Il limite temporale - nel caso di successione di rapporti - poteva essere ulteriormente esteso dalla contrattazione collettiva (o addirittura, come è accaduto, del tutto rimosso). La normativa, pertanto, di fatto consentiva l'uso di rapporti a termine per soddisfare esigenze stabili di lavoro, sia in considerazione della piena fungibilità tra tempo determinato e indeterminato - pur nel limite massimo previsto dalla legge o dai contratti collettivi - sia in considerazione di altre regole normative che consentono di estendere in modo significativo la durata dei contratti (ad esempio, con il semplice mutamento di mansioni). In tale contesto, inoltre, le norme sul contingentamento dei lavoratori assunti a termine non potevano svolgere alcuna funzione, perché esse non escludevano che i contratti stipulati potessero soddisfare stabili esigenze organizzative. Questo potenziale contrasto con la Direttiva, tuttavia, non ha originato un contenzioso né a livello nazionale, né a quello europeo.
S. Ciucciovino. Con il d. lgs. n. 81/2015 si procede ad una netta modifica, rispetto all’impianto del 2001, dei limiti sostanziali di ricorso al contratto a termine. Si inaugura una fase in cui l’assunzione a termine è acausale, cioè non più sottoposta a limiti sostanziali di carattere qualitativo (legati, come in passato, alle ragioni giustificative oggettive che avevano sviluppato tanto contenzioso), bensì assoggettata unicamente a limiti quantitativi di utilizzo, di agevole determinazione. Ciò ha determinato, più che una liberalizzazione del lavoro a termine, una tecnica di controllo e governo diversa dal passato, più quantitativa e meno qualitativa, sicuramente più certa e meno soggetta al sindacato giudiziale. In particolare i limiti quantitativi riguardano; la durata del singolo contratto (inizialmente 36, poi 24 mesi); la successione di più contratti con il medesimo lavoratore (inizialmente 36, poi 24 mesi); la proporzione in percentuale degli assunti a termine rispetto agli assunti a tempo indeterminato, infatti, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, non possono essere assunti lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione.
La tecnica legislativa di regolazione e contenimento dei contratti temporanei (ma più in generale di tutte le tipologie flessibili) con il Jobs Act si caratterizza per il netto abbandono della norma generale ed elastica a contenuto indeterminato – che lasciava ampio spazio alle incertezze applicative e ad una valutazione e apprezzamento qualitativo della flessibilità da parte del giudice - per imperniarsi esclusivamente su limiti di carattere quantitativo, certi e agevolmente verificabili (percentuali massime e durata del singolo contratto o di più contratti in successione) che consentono di demarcare molto più agevolmente del passato i confini del lecito utilizzo dei contratti flessibili e praticamente azzerano ogni sindacato giudiziale sulla motivazione economica sottostante alla scelta datoriale di ricorso al lavoro temporaneo.
Con il d. lgs. n.81/2015 viene inoltre realizzato un riassetto complessivo delle fonti di disciplina dei contratti flessibili, con la restituzione di un considerevole spazio all’autonomia privata collettiva nella regolazione della flessibilità, con disposizioni che si configurano come vere e proprie deleghe in bianco al contratto collettivo, sul modello della flessibilità negoziata degli anni ’80/’90 del secolo scorso. Il contratto collettivo così ha potuto in questa materia riprendere a svolgere un ruolo essenziale e forse ancor più rilevante del passato. L’apertura all’intervento della autonomia collettiva è veramente considerevole, anche comparato alla stagione della flessibilità negoziata, sia per la facoltà concessa al contratto collettivo di integrare la disciplina legale e di derogarla anche in pejus, sia perché tale potere è riconosciuto non più soltanto al contratto nazionale, bensì a tutti i livelli contrattuali, con un rinvio ampio ai “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e [a]i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria” (art. 51, d. lgs. n. 81/2015).
In realtà, non si può comprendere la portata della modifica della disciplina del contratto a termine del 2015 se non si guarda al più complessivo disegno riformatore del Jobs Act. Il cuore della riforma messa in campo dal Jobs Act, infatti, ruota attorno al riposizionamento del contratto di lavoro a tempo indeterminato al centro del sistema del diritto del lavoro per restituirgli la perduta primazia. Una posizione dalla quale, al di là delle formali declamazioni del legislatore, era stato obiettivamente scalzato anche dalla stessa produzione legislativa dell’ultimo ventennio, tutta tesa ad iniettare dosi di flessibilità al margine del contratto a tempo indeterminato, attraverso la creazione di alternative più o meno convenienti a quest’ultimo.
Non occorre essere acuti osservatori dei fenomeni giuridico-sociali per riconoscere che lo sviluppo abnorme della flessibilità tipologica e – segnatamente – di quella caratterizzata dalla temporaneità dell’impiego, ha ingenerato negli ultimi anni almeno due grandi distorsioni nell’utilizzo dei rapporti di lavoro temporanei: a) in primo luogo il termine contrattuale è stato utilizzato, spesso e volentieri, come surrogato del licenziamento, come vera e propria via di fuga dalle strettoie e dai costi di separazione dal contratto a tempo indeterminato connessi al licenziamento illegittimo; b) in secondo luogo la domanda di flessibilità espressa dal sistema produttivo ha trovato indulgente risposta proprio dal legislatore che l’ha convogliata nel canale della flessibilità numerica o esterna, grazie alla previsione di una pluralità di tipologie contrattuali temporanee.
Di questa miope scelta di politica del diritto in definitiva i lavoratori a termine, specie i più giovani, hanno pagato il prezzo più alto. Ma anche l’autonomia collettiva ha le sue responsabilità, perché sui temi centrali della flessibilità interna del contratto di lavoro subordinato standard – inquadramenti, orari e retribuzioni – non si può certo dire che i contratti collettivi abbiano messo a frutto gli ampi margini di governo di cui da sempre dispongono e che avrebbero potuto forse utilizzare di più per rispondere in modo condiviso ai bisogni di flessibilità del sistema produttivo e di accrescimento della produttività.
Questo contesto ha favorito la precarietà del lavoro ma soprattutto ha contribuito ad inquinare o viziare, se così si può dire, l’utilizzo pur formalmente legittimo dei rapporti di lavoro temporanei. La correzione di queste distorsioni è stata inevitabilmente lasciata nelle mani di una magistratura che ha acquisito un ruolo rilevantissimo (e forse eccessivo) nel controllo della dose di flessibilità legittimamente attingibile dal sistema economico.
Al di là del giudizio che se ne possa dare nel merito, è indubbio che il Jobs Act abbia gettato le basi per uno stravolgimento completo delle condizioni di contesto appena rammentate.
V. A. Poso. Sta di fatto che, almeno a leggere l’art. 1, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, sin dalla sua rubrica: «Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro». È così, nella sostanza? Quanto incidono i contratti a termine nel complesso delle assunzioni?
S. Ciucciovino. Con i Jobs Act si è voluto incidere su alcuni dei principali fattori di condizionamento responsabili dell’utilizzo improprio dei contratti temporanei degli anni precedenti. In particolare, da un lato, ha introdotto una maggiore flessibilità in uscita dal contatto a tempo indeterminato standard (contratto a tutele crescenti) grazie alla sostituzione dell’art. 18 con un nuovo sistema rimediale economico per il licenziamento illegittimo (anche questo oggetto oggi di requisito referendario) e, dall’altro lato, ha introdotto rilevanti dosi di flessibilità funzionale interna al rapporto di lavoro che, nel disegno del legislatore, avrebbero dovuto innescare un processo di attrattività e ri-centralizzazione del contratto a tempo indeterminato. Tutto ciò avrebbe dovuto creare le premesse, nell’intenzione del legislatore, per depurare il contratto a termine da utilizzi strumentali, cioè volti all’aggiramento della disciplina limitativa del licenziamento dal contratto a tempi indeterminato, con l’intento di riportare il ricorso al contratto a termine ad un impiego fisiologico e non più sostitutivo del lavoro a tempo indeterminato.
Può dirsi riuscito questo proposito? Il tentativo di riforma dell’art. 18,St.Lav., è stato fortemente intaccato dalla Corte Costituzionale. Inoltre, sul piano delle flessibilità interne al rapporto di lavoro, l’autonomia collettiva non ha saputo sempre cogliere adeguatamente le sfide lanciate dal legislatore e non si è appropriata – come avrebbe potuto fare - della modernizzazione della disciplina del lavoro subordinato standard (basti pensare all’enorme ritardo con cui i CCNL hanno messo mano agli inquadramenti, senza dare adeguato seguito alla modifica dell’art. 2103 c.c.). Quindi due assi portanti dell’intero disegno di riforma in cui si inseriva la nuova disciplina del contratto a termine - flessibilità interne e flessibilità in uscita dal contratto a tempo indeterminato - sono stati fortemente indeboliti.
Dal punto di vista quantitativo le ricerche condotte dall’Osservatorio sul mercato del lavoro da me coordinato presso l’Università Roma Tre, che elabora dati forniti dal Ministero del lavoro, mettono in evidenza come la quota dei contratti a tempo determinato sulle attivazioni complessive (dati di flusso) è rimasta elevata e cresciuta dal 2010 al 2023 passando dal 56% del 2010 a valori intorno al 60% intorno al 2020 per attestarsi a circa il 67% nel 2023 e 2024. La quota delle attivazioni con contratti a tempo indeterminato si è ridotta nel tempo (eccetto un picco del 19,6% nel 2015), passando dal 16,5% del 2010 all’11,7% del 2017, per poi riprendere un trend leggermente crescente dal 2018 attestandosi al 12.5% nel 2023.
Se guardiamo ai dati di stock, il numero di persone occupate con un contratto a tempo indeterminato nel 2023 ha raggiunto uno storico picco di 15,57 milioni, l’84,2% dei lavoratori dipendenti. I lavoratori occupati con contratto a termine nel 2023 sono stati 2,97 milioni, pari al 15,8% del totale dei lavoratori dipendenti. Il dato è lievemente in calo rispetto al 2022, quando i lavoratori a termine superavano i 3 milioni ed erano pari al 16,8% del totale.
Guardando alla situazione occupazionale a 24 mesi degli assunti con contratto a termine si nota che, considerando i lavoratori attivi con un contratto a termine nel primo trimestre del 2022 (tra i 25 e i 55 anni), dopo 24 mesi circa il 30% risultava non essere più occupato con un contratto di lavoro dipendente. Il 24,4% risultava essere occupato con un contratto a tempo indeterminato, mentre il 39,7% con un contratto a tempo determinato.
I dati ci parlano, quindi, di un mercato del lavoro molto dinamico, ma non certo totalmente precarizzato. Guardando ai dati di stock la quota dei tempi determinati rispetto agli assunti a tempo indeterminato si attesta ampiamente al di sotto di quella soglia del 20% che il legislatore individua come una proporzione accettabile di ricorso al tempo determinato.
V. Speziale. Il d.lgs. n. 81 del 2015 aveva la finalità di incrementare l'occupazione attraverso la riforma della disciplina dei licenziamenti individuali (come risulta da quanto espressamente affermato nella legge delega) e rendendo più flessibili le assunzioni a termine. In relazione al primo aspetto, la nuova disciplina partiva dall'assunto - sostenuto dai teorici della Law & Economics - secondo cui regole troppo vincolanti in materia di licenziamento avrebbero ostacolato le assunzioni, con la conseguenza che la diminuzione di tutele avrebbe favorito la diffusione del lavoro stabile quale “forma comune”. Questa teoria, smentita dalla letteratura prevalente in materia economica, non ha trovato nessun riscontro empirico, con particolare riferimento al mercato del lavoro italiano, dove studi e ricerche approfonditi compiuti nell'arco di oltre un trentennio hanno addirittura messo in evidenza come tale mercato ha una struttura definita come “liquida”, perché caratterizzata da un turnover assai elevato nella creazione e distruzione di posti di lavoro. E le stesse vicende successive all'emanazione del decreto legislativo hanno confermato tale aspetto, nella misura in cui la consistente crescita dei rapporti di lavoro stabili realizzata subito dopo il d.lgs. 23/2015 è stata determinata non dalle modifiche della disciplina dei licenziamenti ma dagli elevati incentivi economici per le assunzioni a t. indeterminato, con un processo che si è interrotto non appena essi sono terminati (anche per gli alti costi incidenti sul bilancio dello Stato).
A parte tale aspetto, l'idea di ridare centralità al lavoro stabile è stata palesemente contraddetta dalla evidente riforma del contratto a termine, che ne ha ampliato in modo significativo la possibile diffusione. Il che dimostra una certa confusione nel disegno ispiratore del Jobs Act, che peraltro può essere compresa qualora le due riforme vengano lette insieme e inquadrate nel reale intento perseguito dal legislatore: diminuire le tutele in materia di licenziamento e rendere più agevole l'utilizzazione del contratto a termine. Si tratta di finalità che ben poco hanno a che vedere con l'obiettivo di riaffermare il lavoro subordinato a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro.
Per quanto riguarda l’incidenza dei contratti a termine sulle assunzioni, i dati messi in evidenza da Silvia Ciucciovino rivelano una crescita costante di questa tipologia contrattuale dal 2010 al 2024 (dal 56% al 67%), con una riduzione delle attivazioni di lavoro stabile (passate dal 16,5% nel 2010, al 12,5% nel 2023). In tempi più recenti, l’Osservatorio sul mercato del lavoro della Università Roma Tre mette in evidenza percentuali che si collocano tra il 16,8% (2022) e il 15,8% (2023), pur in presenza di un elevata quantità di rapporti stabili. I dati sono in linea con la media europea, che si colloca intorno al 16% nel 2018 e nel 2022 (in base a dati Eurostat) è del 14%. In Italia, secondo l’Istat e con riferimento al 2024, le assunzioni a termine sono pari al 14,69 rispetto a tutti i lavoratori dipendenti. Altre fonti di rilevazione mettono in evidenza aspetti ulteriori. I dati Inps – aggiornati a marzo 2025 - affermano che, nel 2023, sul totale delle assunzioni effettuate (5.089.321), quelle a termine sono pari al 73,15% (3.722.959). Nel 2024, le assunzioni complessive sono pari a 4.962.658 e quelle a t. determinato sono il 74,36% (3.690.359), in un contesto dove, secondo le elaborazioni del Ministero del lavoro riferite alle comunicazioni obbligatorie gennaio – settembre 2024 e considerando tutte le tipologie contrattuali (t. determinato, collaborazioni, lavoro a chiamata, stagionale, somministrazione), le assunzioni stabili sono solo il 16%, mentre i contratti temporanei restano il principale canale di accesso al lavoro.
Si può dunque rilevare che, mentre la percentuale dei lavoratori a termine è abbastanza elevata ma coerente con la media europea, il fattore più rilevante è l’elevatissima quantità di assunzioni a tempo determinato (effettuate anche in relazione al medesimo lavoratore) rispetto a quelle stabili. E poiché è assai difficile poter ritenere che dati così elevati siano collegati ad effettive esigenze di lavoro temporaneo, vi è la dimostrazione evidente della utilizzazione impropria del contratto a termine. Esso è usato come tipologia contrattuale di ingresso nel mondo del lavoro e anche per soddisfare ragioni stabili di lavoro, con la distorsione funzionale di cui ho già parlato in precedenza.
Inoltre, come rileva la Banca d’Italia nella Relazione annuale del 2023 (p. 109), “nonostante l’incidenza del lavoro a termine sia scesa nel corso dell’ultimo quadriennio, principalmente nella fascia di età tra 15 e 34 anni, essa resta comunque molto più alta rispetto all’inizio degli anni duemila. Circa l’80 per cento dei lavoratori con un contratto a tempo determinato non viene stabilizzato entro due anni dall’assunzione: il 30 per cento rimane occupato con un altro contratto a termine e il restante 50 non risulta più impiegato alle dipendenze. Secondo nostre analisi ciò è dovuto al fatto che un numero significativo di imprese, anziché stabilizzare il personale già assunto con contratti di tipo temporaneo, preferisce assumere nuovi lavoratori a termine. Il fenomeno si concentra in alcune aziende che utilizzano sistematicamente contratti di breve durata, in particolare nei comparti delle costruzioni, dell’alloggio e ristorazione e delle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento, in larga misura indipendentemente dalla stagionalità dell’attività”.
Dunque, la riforma del 2015 (insieme a quelle immediatamente precedenti) ha sicuramente inciso sull’incremento complessivo dei contratti a tempo determinato rispetto all’inizio del secolo e ha favorito quella che ho definito la “trappola della precarietà”, oltre a concorrere alla utilizzazione di contratti di breve durata come strumento ordinario per soddisfare le proprie esigenze lavorative, come si è già detto.
Quest’ultimo profilo è messo in evidenza dalla analisi di alcuni dati. A seguito della emanazione del Decreto Dignità del 2018, che ha certamente ristretto la possibile utilizzazione del contratto a termine dopo i 12 mesi, secondo le rilevazioni del Ministero del lavoro, nei 10 mesi successivi (luglio 2018 – aprile 2019) vi è stato un consistente aumento dei rapporti a t. indeterminato (+ 11,8%) e la riduzione di quelli a termine (- 4,2%) e di quelli in somministrazione (- 26,2%, anch’essi riformati dal Decreto. Questi dati mettono in rilievo l’uso distorto del contratto a t. determinato a cui ho fatto riferimento in precedenza. Le imprese assumevano a termine pur a fronte di esigenze stabili di lavoro. Quando la legge non ha più consentito, dopo i 12 mesi, questa possibilità, esse hanno aumentato in modo molto accentuato le trasformazioni in rapporti a t. indeterminato, perché avevano sperimentato i lavoratori e ne avevano bisogno per soddisfare le necessità di lavoro stabile esistenti sin dall’origine.
In una valutazione di sintesi si può osservare che la disciplina del rapporto a termine, sia quella che ne liberalizza l’uso o che ne restringe il campo di applicazione, incide sulla ripartizione delle occasioni di lavoro tra quello stabile e quello a t. determinato, senza che influenzi il livello complessivo di crescita dell’occupazione o di riduzione della disoccupazione. Inoltre, la mancanza di causali che specifichino quando è possibile ricorrere a questa tipologia contrattuale favorisce un uso opportunistico del contratto a termine, utilizzato anche per soddisfare esigenze permanenti di lavoro, aumentando il livello di instabilità dei rapporti di lavoro e contraddicendo l’obiettivo del tempo indeterminato come “forma comune” del lavoro.
V. A. Poso Qual è il Vostro giudizio complessivo sulla disciplina normativa dei contratti a termine dopo l’intervento del legislatore del Jobs Act ?
V. Speziale. La valutazione complessiva sulla riforma introdotta dagli articoli 19 e seguenti del d.lgs. n. 81 del 2015 deve prendere in considerazione i diversi contenuti della disciplina, che, dopo l'intervento iniziale, è stata modificata più volte. Questi cambiamenti, come ho già detto, rispecchiano il ruolo attribuito al contratto a termine quale strumento di lavoro flessibile o di accesso all’occupazione. Le innovazioni introdotte dopo il 2015 sono state numerose, ma esaminerò solo quelle più importanti.
La formulazione originaria introdotta nel 2015, con un contratto a termine “acausale” e con il limite complessivo dei 36 mesi, ha concluso un processo di liberalizzazione della materia che, cominciato nel 2012, è poi proseguito nel 2014. Ho già espresso le mie considerazioni negative su tale riforma, che ha certamente contribuito ad una diffusione rilevante del numero dei rapporti a termine e a quella distorsione funzionale di questo modello contrattuale che ho già analizzato.
Nel 2018, il c.d. Decreto Dignità ha introdotto modifiche ispirate ad un netto restringimento della possibile utilizzazione del contratto a termine, con la riduzione del tetto massimo da 36 a 24 mesi, il mantenimento della acausalità del contratto nei primi 12 e la previsione di specifiche ragioni tecniche ed organizzative molto restrittive necessarie per stipulare il contratto dopo i 12 mesi e nel limite massimo di due anni. Il netto sfavore per il contratto a tempo determinato è dimostrato dal fatto che le causali necessarie per i contratti di durata superiore a 12 mesi erano talmente limitative da scoraggiare qualsiasi assunzione a termine. Si tratta di un'impostazione eccessivamente rigida da un lato e inidonea ad incidere su una reale riduzione dei contratti a termine dall’altro. La volontà di reintrodurre le causali era a mio giudizio positiva, ma era necessario non utilizzare ragioni così circoscritte, perché era sufficiente ribadire il carattere temporaneo delle ipotesi normative, in coerenza con le esigenze scaturenti dal mondo della produzione di beni e servizi. Inoltre, l’assenza di qualunque spazio alla contrattazione collettiva nella introduzione di ipotesi tecniche ed organizzative per la stipula del contratto inibiva la tecnica della “flessibilità contrattata” che aveva dato una buona prova in passato nella sua capacità di adattare la disciplina legale ai diversi contesti settoriali dell’economia. La riforma, inoltre, anche se è riuscita, in fase transitoria, a incrementare in misura consistente i rapporti di lavoro stabile (ne ho già parlato in precedenza), nel lungo periodo non era in grado di ottenere i risultati sperati. I dati del Ministero del lavoro del 2018 (riferiti al 2017) mettevano in evidenza che, nelle nuove assunzioni, vi era un’attivazione di contratti termine pari al 70% e che, tra questi, solo il 16,8% aveva una durata superiore ad un anno. Dunque, lasciare la acausalità del contratto sino a 12 mesi, significava, per il futuro, incidere solo su una quota minoritaria di rapporti a t. determinato, mantenendo praticamente immutata la situazione del mercato del lavoro. La disciplina, quindi, si poneva in contraddizione con l’intento di ridurre l’uso di questa tipologia contrattuale.
La normativa attuale ha in parte ridotto le rigidità della riforma del 2018. È stata confermata la acausalità del contratto per i primi 12 mesi e il tetto massimo di 24 mesi. Si è ridato spazio alla contrattazione collettiva (art. 19, c. 1, lett. a) e b), ma anche alla autonomia individuale in generale e in via transitoria (sino al 31 dicembre 2025) o in relazione a causali specifiche (la sostituzione di altri lavoratori). La nuova disciplina, molto enfatizzata dal Governo sotto il profilo mediatico per la sua capacità di nuova regolazione della materia, in verità ha avuto soprattutto una funzione di “immagine”. Infatti, i dati congiunti raccolti dal Ministero del lavoro (insieme ad Istat, Inps, Inail, Anpal) e riferiti al terzo trimestre 2022 (non vi sono dati più recenti), hanno messo in evidenza che i contratti a termine di durata superiore ad un anno erano solo lo 0,6 per cento del totale. Quindi, in relazione alla situazione esistente al momento della nuova disciplina legislativa (2023), l’impatto rilevante della riforma era escluso.
Dal punto di vista normativo, la riforma apre nuovamente spazio alla autonomia collettiva, reintroducendo la tecnica della “flessibilità contrattata”, che era prevista dall’art. 23 della l. n. 56/1987 e che, a mio giudizio, come ho già detto e se effettuata con determinate garanzie nella scelta dei soggetti sindacali, può svolgere una funzione positiva. I contratti collettivi di qualsiasi livello, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (o dalle rappresentanze aziendali a loro riferite o dalle RSU) possono introdurre nuove causali di contratto a termine. La formulazione della lettera a) del c. 1 dell’art. 19 lascia pensare ad una vera e propria “delega in bianco” all’autonomia collettiva (secondo la soluzione adottata dalla giurisprudenza della Cassazione – S.U. n. 4588/2006 – in relazione all’art. 23 della l. n. 56/1987). Anche se, per la prevalenza dell’ordinamento europeo e la interpretazione della Direttiva 1999/70/CE effettuata dalla Corte di giustizia europea, secondo la quale il rapporto a termine non può essere utilizzato per soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”, i contratti collettivi non potrebbero legittimare causali che, invece, determinassero tale effetto. Quelli esistenti al momento di introduzione della riforma hanno previsto causali oggettive, legate ad esigenze temporanee, in piena coerenza con la giurisprudenza europea. Essi hanno anche regolato esigenze di carattere soggettivo (riferite a giovani, cassaintegrati, disoccupati o inoccupati). Queste, alla luce delle sentenze della CGE, dovrebbero essere coerenti con la Direttiva, perché finalizzate al perseguimento di legittimi scopi di politica sociale (in questo caso la promozione di “soggetti deboli” sul mercato del lavoro). Anche se la Corte di giustizia ha affermato che tale legittimità è condizionata alla specificazione, da parte della legge che le introduce, della volontà di perseguire tale obiettivo. Tale esplicitazione non è contenuta nel d.lgs. n. 81/2015.
La lettera b) del c. 1 dell’art. 19 ribadisce che, in assenza dei prodotti dell’autonomia collettiva sopra indicati, le causali possono essere regolate dai “contratti collettivi applicati in azienda”. La formulazione ambigua utilizzata sembra autorizzare qualsiasi contratto collettivo, anche se stipulato da soggetti sindacali non comparativamente più rappresentativi a livello nazionale. In tal modo si legittimerebbero anche contratti sottoscritti da sindacati privi di rappresentatività, favorendo il dumping contrattuale, vista la sussistenza, nel nostro sistema, di accordi assai lontani dagli standard protettivi garantiti da quelli siglati dalle associazioni sindacali più importanti. Si sono proposte interpretazioni alternative, secondo le quali, la disposizione riguarderebbe sempre i contratti collettivi previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015. Essa intenderebbe dire che, in mancanza di nuovi prodotti dell’autonomia collettiva emanati dopo la riforma, continuerebbero a trovare applicazione i contratti già esistenti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (o dalle rappresentanze aziendali a loro riferite o dalle RSU) e applicati in azienda. Questa interpretazione, a mio giudizio condivisibile sul piano della politica del diritto, si pone in contrasto con la formulazione letterale della disposizione e anche con una sua lettura sistematica con la precedente lettera a) del c. 1 dell’art. 19. L’interpretazione alternativa, che salva sempre il requisito della comparatività più rappresentativa, è stata fatta propria anche da una Circolare del Ministero del lavoro. Tuttavia, l’ambiguità, a mio giudizio, rimane.
La medesima lettera b) del c. 1 dell’art. 19, con una norma transitoria sino al 31 dicembre 2025 (prorogata in continuazione e che, con una tecnica tipica del nostro legislatore, potrebbe diventare permanente o essere costantemente reiterata) consente, a livello individuale, di stipulare rapporti a termine “per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”. Non mi sembra che la disposizione possa essere letta nel senso che le parti sarebbero quelle collettive (anche in questo caso in base ad una interpretazione letterale e sistematica del suo contenuto). E il riferimento ai soggetti del contratto individuale è stato sostenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 14/2025 (v. infra, l’ultimo periodo della risposta al sesto quesito). La norma, al contrario, reintroduce una sorta di “causalone” (come nel d.gs. n. 368/2001) e potrebbe riproporre tutte le questioni interpretative già analizzate. Ritengo, peraltro, che, per le ragioni che ho già analizzato e anche alla luce di quanto affermato dalla giurisprudenza della Cassazione in relazione alla omologa disposizione del 2001 (oltre che più in generale dalla CGE con riferimento alla Direttiva del 1999), le esigenze previste dalla lettera b) debbano necessariamente essere di carattere temporaneo. L’autonomia individuale, infine, con la lettera b-bis) del c. 1 dell’art. 19, conserva la possibilità di stipulare contratti a termine per la sostituzione di lavoratori assenti, con riferimento a qualsiasi ipotesi prevista dalla legge o dalla autonomia collettiva e senza che il sostituito abbia diritto alla conservazione del posto di lavoro. La disposizione non pone problemi interpretativi ed è coerente con una logica di utilizzazione del termine per soddisfare esigenze temporanee di lavoro.
L’attuale formulazione dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 conserva la acausalità del contratto per i primi 12 mesi (sia in caso di proroga che di rinnovi). Vi possono essere dubbi sulla conformità di questa disposizione con la Direttiva europea 1999/70/CE. La clausola 5 dell’Accordo quadro, recepito nella fonte europea e diretto a prevenire gli abusi nella utilizzazione del contratto a termine, prevede, come si è già detto, tre ipotesi alternative. Tuttavia, in questo caso, non si è in presenza di nessuna delle tre condizioni previste, visto che i 12 mesi non costituiscono la durata totale massima dei contratti. Inoltre, in tale periodo non sono previste ragioni obiettive (secondo la stessa costante giurisprudenza della CGE). In aggiunta, sono stabiliti limiti massimi alle proroghe ma non ai rinnovi, che teoricamente potrebbero essere molto elevati, nel rispetto degli intervalli minimi previsti dall’art. 21 del d.lgs. n. 81/2015. Dunque, anche da un punto di vista letterale, i 12 mesi previsti dall’art. 19 del d.lgs. n.81/2015 non sono tali da essere coerenti con l’art. 5 dell’Accordo a meno che non si sia in presenza di un unico contratto di durata di 12 mesi. In questo caso, infatti, l’art. 5 non si applica, perché riferito alla successione dei contratti (CGE 3 giugno 2021, causa C- 726/19, punto 28; CGE 11.02.2021, causa C-760/18 e molte altre). Senza dimenticare, infine, che, per 12 mesi, è possibile stipulare contratti a termine per soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”, in contrasto con la ampia giurisprudenza della CGE già analizzata.
In conclusione, mi sembra di poter dire che la riforma introdotta con il d.lgs. n. 81/2015 si presti a numerose critiche, sia in relazione alla formulazione originaria, che per le modifiche che si sono succedute nel tempo. La forte flessibilizzazione effettuata con la prima stesura della norma (a consuntivo di quanto già effettuato negli anni precedenti), dopo l’eccessivo irrigidimento del 2018, è stata ridotta e razionalizzata negli ultimi anni, riattribuendo valore all’autonomia collettiva. Tuttavia, la disciplina attuale presenta ambiguità nel testo, con possibili incertezze interpretative, e potenziali contrasti con la Direttiva europea, secondo l’interpretazione adottata dalla CGE. Il giudizio complessivo è, quindi, negativo. Penso che esigenze temporanee per qualsiasi contratto a termine (salvo quelli di brevissima durata) e spazio ai contratti collettivi stipulati da sindacati realmente rappresentativi (magari introducendo con legge criteri di verifica effettiva della rappresentatività) dovrebbero essere le linee guida di una regolazione della materia. In tal modo si riporterebbe il contratto a termine alla sua funzione originaria di rapporto diretto a soddisfare esigenze non stabili di lavoro, in coerenza con il t. indeterminato quale “forma comune” del lavoro ed evitando l’uso improprio che, come si è visto, caratterizza oggi questa tipologia contrattuale.
S. Ciucciovino. Il mio giudizio complessivo sulla disciplina normativa dei contratti a termine degli anni successivi al Jobs Act non è positivo.
Il c. d. Decreto Dignità del 2018, a forte connotazione ideologica, con una quinta grande riforma del contratto a termine, ha riportato le lancette dell’orologio indietro di diversi anni. Se può essere condivisibile l’obiettivo di politica del diritto di restringere ulteriormente il ricorso ai contratti a termine, sul piano della tecnica legislativa tale risultato poteva essere perseguito più semplicemente riducendo il limite quantitativo di durata massima e/o di successione di più contratti temporanei con il medesimo lavoratore e/o agendo sul limite quantitativo di proporzione percentuale tra tempo indeterminato e tempo determinato. Invece si è voluto reintrodurre il regime causale dell’assunzione a termine prevedendo presupposti oggettivi oltre il 12° mese molto stringenti e di difficile applicazione, esponendo nuovamente all’incertezza interpretativa la disciplina dei presupposti di legittimo ricorso al contratto a termine, in netta controtendenza con lo spirito di semplificazione controllata che era sotteso al Jobs Act.
Le modifiche successive apportate dal c.d. Decreto Sostegni bis (d.l. n.73/2021, conv. in l. n.106/2021), realizzano una sesta riforma dei contratti a termine e aprono nuovamente alla contrattazione collettiva creando un varco significativo nella rigidità della normativa vigente, ma dall’altro lato, lasciano all’interprete diversi dubbi interpretativi.
L’importante novità di questa riforma risiede nella restituzione all’autonomia collettiva del potere di individuare i presupposti causali, nonché di proroga e di rinnovo del termine, per durate eccedenti i 12 mesi (entro i 24 mesi), superando così quella estrema rigidità delle causali legali che il Decreto Dignità aveva determinato in modo tassativo e restrittivo, impedendo di fatto il superamento dei 12 mesi nell’impiego temporaneo.
La nuova norma, invece, prevede la possibilità di superare i 12 mesi, oltre che nelle ipotesi legali già previste, anche a fronte di “specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’art. 51”, cioè dai contratti di qualsiasi livello (nazionale, territoriale, aziendale) stipulati “da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e [da]i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.
Dal punto di vista del rapporto tra legge e autonomia collettiva, si tratta di un ritorno al passato, in particolare a quel modello fecondo di integrazione tra disciplina legale e disciplina collettiva nel controllo dell’occupazione a termine che, varato con l’art. 23 della l. n. 56 del 1987, per tanti anni ha prosperato e ha consentito una gestione condivisa dell’occupazione a tempo determinato, articolata sulle specifiche esigenze di settori e realtà produttive. Il rinvio legale all’autonomia collettiva, peraltro, come si è detto era riuscito anche a mantenere sotto controllo il contenzioso giudiziario in materia, cosa non trascurabile tenuto conto del notevole contenzioso che ha accompagnato invece le successive riforme del contratto a termine caratterizzate dal ridimensionamento del ruolo del contratto collettivo.
La norma introdotta dal c.d. Decreto Sostegni bis rinvia a tutti i livelli contrattuali che, indifferentemente e sullo stesso piano, sono abilitati a dare attuazione al rinvio di legge, in quanto rientranti nella definizione dell’art. 51, d. lgs. n. 81/2015. Previsione, quest’ultima, cui deve ormai riconoscersi la valenza di norma generale nella disciplina dei rinvii legali alla contrattazione collettiva. Si tratta di un rinvio ampio alla contrattazione collettiva, una vera e propria “delega in bianco” di nuova generazione, che può riguardare sia esigenze oggettive sia causali c.d. soggettive, cioè legate a caratteristiche soggettive dei lavoratori (giovani, disoccupati, disabili, ecc.). Con la differenza che, diversamente dal modello di flessibilità negoziata degli anni ‘80/’90, tali limiti operano dal 12° mese, perché nei primi 12 mesi l’assunzione a termine è ancora sostanzialmente svincolata da presupposti qualitativi, ma tuttora sottoposta ai limiti di carattere quantitativo già previsti dal Jobs Act di cui si è già detto.
Sennonché, la riforma del Decreto Sostegni bis indebolisce questo rinnovato quadro di combinazione di fonte legale e fonte collettiva nel governo della flessibilità, attraverso una norma, di discutibile razionalità, secondo la quale, in assenza delle previsioni dei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, viene rimessa all’autonomia individuale l’individuazione di esigenze di natura tecnica, organizzativa, produttiva e sostitutiva che possono legittimare l’apposizione del termine al contratto di lavoro oltre il 12° mese di durata. Un ritorno, quindi, alla fonte individuale (molto simile al modello del c.d. causalone del 2001) dove l’intervento dell’autonomia collettiva non è più autorizzatorio (come lo era nel modello della flessibilità negoziata della fine del secolo scorso), bensì meramente alternativo a quello della fonte legale e persino della fonte individuale.
Vero è che si tratta di una norma transitoria, che è stata oggetto di diverse proroghe, l’ultima delle quali - fino al 31 dicembre 2025 - apportata dal Decreto Milleproroghe n. 202/2024. Ma non si può non notare, dal punto di vista della tecnica legislativa, la distonia di una previsione che altera sostanzialmente il difficile equilibrio raggiunto tra limiti legali e collettivi nella gestione del lavoro temporaneo e introduce nuovamente nella disciplina legale del contratto a termine elementi di forte soggettivismo, riportando sostanzialmente in vita il sistema del “causalone”, con lo scopo di rimettere in gioco anche la fonte individuale.
V. A. Poso. Chiedo, sempre ai giuslavoristi, di tracciare un quadro illustrativo, sintetico, delle disposizioni normative oggetto del quesito referendario.
S. Ciucciovino. Il requisito referendario in sostanza mira a introdurre un divieto generale di assunzione a termine, salvo che per ragioni sostitutive. Divieto che potrebbe essere derogato soltanto dai contratti collettivi di cui all’art. 51, d. lgs. n. 81/2015, quindi dai contratti collettivi, di qualsiasi livello, sottoscritti da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.
Si tratterebbe di un regime straordinariamente vincolistico, ancora più restrittivo di quello vigente all’epoca della legge n.230/1962, con una vera e propria radicalizzazione del modello di flessibilità negoziata degli anni ’80/’90. Allora, infatti, il contratto collettivo era una valvola di sfogo delle istanze di flessibilità che si aggiungevano alle cinque ipotesi legali, comunque consentite dal legislatore in base ad una valutazione di ragionevolezza della sussistenza di fisiologiche esigenze oggettive di impiego temporaneo della manodopera. Nella prospettiva delineata dal quesito referendario, invece, si attribuirebbe un vero e proprio potere di veto al sindacato rispetto a tutte le assunzioni a termine, escluse soltanto quelle dovute a ragioni sostitutive. Il che a dire il vero appare eccessivamente rigido e dagli esiti incerti, vista anche la forte competitività che si riscontra sul piano della rappresentanza collettiva e della proliferazione dei contratti collettivi, che potrebbe addirittura innescare, per eterogenesi dei fini, una concorrenza tra sindacati giocata sul terreno della gestione della flessibilità negoziata.
L’intervento referendario determinerebbe una forte discontinuità con il regime attuale in quanto ora l’assunzione a termine è sempre consentita in base alla previsione legale entro i 12 mesi. Sia l’autonomia individuale (transitoriamente) sia l’autonomia collettiva possono disciplinare i presupposti per assunzioni a termine oltre i 12 mesi. Viceversa, con la modifica proposta dal referendum sarebbe cancellata del tutto la possibilità di assumere a termine per qualsiasi durata, anche per durate inferiore ai 12 mesi, salvo che nei casi consentiti dal contratto collettivo. Quindi la discontinuità è molto rilevante sia rispetto al regime attuale, sia rispetto a tutte le riforme della disciplina del contratto a termine che si sono succedute dagli anni 60 ad oggi. Certamente la promozione dell’intervento della contrattazione collettiva nella disciplina della materia, come ho ripetuto più volte, è da considerare positivamente, ma pur sempre in un modello di integrazione e completamento della disciplina legale e non di esclusiva regolazione della materia.
V. Speziale. Il referendum si propone di realizzare una abrogazione parziale di alcune parole contenute negli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015. Per comprendere quale sarebbe l’effetto abrogativo derivante dal referendum, se avesse esito positivo, sarebbe opportuno riprodurre le disposizioni che scaturirebbero dall’accoglimento dei quesiti referendari:
Articolo 19
1.Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non eccedente i ventiquattro mesi, solo:
a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;
b) sostituzione di altri lavoratori.
01. In caso di stipulazione di un contratto in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
Articolo 21
1-bis. In caso di stipulazione di un contratto in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
L’abrogazione parziale conserverebbe il limite massimo dei 24 mesi oggi esistente, ma tuttavia, a parte l’ipotesi della sostituzione di altri lavoratori (rimasta immutata e di cui ho già parlato), rinvierebbe integralmente all’autonomia collettiva di vario livello la determinazione delle ragioni economiche ed organizzative che possono giustificare l’apposizione del termine al contratto. Si realizzerebbe, dunque, un modello di “flessibilità contrattata” che attribuirebbe ai sindacati comparativamente più rappresentativi (e alle rappresentanze aziendali) un potere ancora più esteso che in passato. Infatti, nell’art. 23 della l. n. 56/1987 il contratto collettivo poteva aggiungere causali rispetto a quanto previsto dalla l. n. 230/1962 e ad altra normativa, venendo a costituire una potenziale fonte aggiuntiva di ipotesi normative. In caso di esito positivo del referendum, i contratti collettivi, a parte le ragioni sostitutive, sarebbero l’unico atto negoziale abilitato a individuare le causali.
Non condivido le critiche che sono state espressa da Silvia Ciucciovino.
In primo luogo, la nuova normativa sarebbe pienamente in linea con quella attualmente esistente per quanto riguarda il potere di determinazione delle ragioni economiche ed organizzative che consentono l’apposizione del termine. L’unica novità sarebbe quella di eliminare la possibilità, concessa alle parti individuali sino al 31 dicembre 2025, di individuare tali esigenze. Una eventualità che il legislatore ha previsto solo in via transitoria e la cui eliminazione non dovrebbe destare eccessivo stupore, poiché è in linea con le scelte legislative già effettuate. D’altra parte, la valorizzazione dei contratti collettivi stipulati da soggetti dotati di effettiva rappresentatività mi sembra una scelta che intende privilegiare le parti sociali quali attori fondamentali della regolazione del livello di flessibilità richiesto dalle imprese, da contemperare con la tutela del lavoro. Queste esigenze, con la mediazione sindacale, possono trovare un punto di equilibrio ottimale, con una capacità di adattamento ai singoli contesti di settore economico o di azienda certamente più efficace di una fattispecie legale di generale applicazione. Tra l’altro, le esperienze dei contratti collettivi degli ultimi anni dimostrano che le parti sociali sono state in grado di regolare la materia con ragioni oggettive di natura temporanea e con causali soggettive di promozione dell’occupazione di soggetti deboli sul mercato del lavoro che sembrano definire soluzioni soddisfacenti dei contrapposti interessi. Il che lascerebbe ben sperare sul ruolo ancora più centrale che i contratti collettivi verrebbero a svolgere se il referendum avesse esito positivo.
La scelta effettuata dai promotori del referendum non significa, ovviamente, rifiuto a priori di una tipizzazione legale delle causali del contratto a t. determinato. Tale opzione, tuttavia, è quella resa possibile dal meccanismo referendario che, nel caso di proposta di abrogazione parziale, impone di agire su un testo già esistente, senza poter aggiungere previsioni normative ulteriori. In considerazione del carattere transitorio della disposizione che affida alle parti individuali la specificazione delle ragioni di carattere tecnico e produttivo che legittimano il termine e della mancanza di un chiaro riferimento alle esigenze temporanee (peraltro desumibili in via interpretativa), si è preferito proporre la eliminazione di questa norma, conservando quella che valorizza il ruolo dell’autonomia collettiva.
Piuttosto, in relazione a quest’ultimo profilo, i problemi sono altri. In particolare, la mancanza di criteri certi per la individuazione dei sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale, che è tuttavia questione di carattere generale (e non legata solo al contratto a termine) e da non impedire comunque, anche allo stato attuale, la selezione dei prodotti dell’autonomia collettiva. Inoltre, rimane la questione della devoluzione di un potere così ampio a livello aziendale, con i possibili problemi di squilibrio nei rapporti negoziali con l’impresa e di potenziale concorrenza al ribasso tra i sindacati dei lavoratori che ha determinato, in alcuni casi, veri e propri fenomeni di flessibilizzazione molto accentuata nell’uso dei contratti a termine. Si tratta, peraltro, di problemi difficilmente risolvibili in sede referendaria e che richiederebbero interventi legislativi specifici.
La novità più rilevante è certamente quella della eliminazione dei 12 mesi di rapporti a t. determinato acausali. Tuttavia, dopo quanto ho già avuto modo di dire, sono totalmente favorevole ad una innovazione che dovrebbe evitare i fenomeni negativi già descritti e riportare questo modello contrattuale nell’ambito della regolazione basata su fattispecie tipizzate e non quale strumento fungibile con il lavoro stabile seppur nell’ambito di un limite temporale determinato (un anno), ma comunque sempre molto ampio.
L’assetto normativo che ne scaturirebbe riproporrebbe alcuni dei problemi giuridici già esaminati, in relazione alla delega “in bianco” ai contratti collettivi e alla coerenza delle disposizioni modificate con la Direttiva 1999/70/CE. Rinvio, sul punto, a quanto già detto. Rilevo peraltro, che la eliminazione dei 12 mesi acausali, la fissazione di un tetto massimo di 24 mesi e il ritorno a ragioni oggettive tipizzate dall’autonomia collettiva - con l’obbligo, comunque, di rispettare il requisito della temporaneità per essere coerenti con la giurisprudenza della CGE - dovrebbero garantire la conformità della nuova normativa al contenuto della fonte europea.
Le altre disposizioni oggetto di referendum, diverse da quelle analizzate (art. 19, c. 1 bis e art. 21, c. 01), non richiedono un esame particolare. Si tratta solo della loro modificazione parziale, per adeguarle al contenuto delle abrogazioni che riguarderebbero l’art. 19, c. 1, lettere a) e b).
V. A. Poso A Valerio Speziale chiedo di ricordarci, per sommi capi, le opinioni espresse dalla dottrina con riferimento alle disposizioni normative oggetto di referendum.
V. Speziale. Ho in parte già risposto a questa domanda.
L’eliminazione dei 12 mesi nei quali è possibile stipulare un contratto a termine senza causale è stato criticato da parte della dottrina per le ragioni già spiegate (fungibilità tra contratto a termine e lavoro stabile nell’arco di anno; utilizzazione impropria del rapporto quale periodo di prova e per evitare la normativa sui licenziamenti, potenziale contrasto con la Direttiva europea e così via). Alcuni autori hanno quindi sostenuto l’opportunità che, nell’ambito del limite massimo temporale dei 24 mesi, fossero introdotte nuovamente le causali riconducibili ad esigenze temporanee di lavoro, senza le ipotesi fortemente restrittive introdotte dal c.d. Decreto Dignità (valutate negativamente dalla stragrande maggioranza degli studiosi).
Al contrario, altri autori hanno ritenuto che la conservazione di un periodo in cui il contratto non richiede ragioni giustificative sia un fattore positivo, per garantire alle imprese un determinato livello di flessibilità ed evitare il contenzioso, lasciando al limite quantitativo previsto dall’art. 23 del d.lgs. n. 81/2015 (derogabile dalla autonomia collettiva) il compito di evitare una eccessiva precarizzazione dei rapporti di lavoro. Tra l’altro, da quando sono state eliminate le causali del termine (prima nel limite dei 36 mesi, poi ridotto a 12), la quantità di controversie in sede giurisdizionale è diminuita in modo rilevantissimo. La spiegazione è rinvenibile nella assenza di esigenze giustificative (che sono state la causa preponderante dei processi instaurati nel passato) e nel fatto che, come si è visto, il numero dei contratti a termine di durata superiore all’anno è assai ridotto.
La previsione del rinvio alle ipotesi normative dei contratti collettivi di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, introdotta per la prima volta nel luglio 2021 e successivamente confermata nel testo vigente sottoposto a referendum, è stato accolto in senso positivo dalla dottrina, quale elemento di valorizzazione delle flessibilità negoziata, considerata come uno strumento importante per la regolazione delle esigenze di flessibilità delle imprese e di tutela del lavoro, anche per la sua adattabilità a specifici settori economici o contesti aziendali. Si è sostenuto che il riferimento ai “casi” invece che alle “esigenze” consentirebbe ai contratti collettivi di avere maggiore ampiezza nelle ipotesi che potrebbero essere determinate, in relazione a particolari categorie di lavoratori o a specifiche professionalità. Una tesi certamente sostenibile dal punto di vista letterale, ma che sopravvaluta la capacità del legislatore di utilizzare un linguaggio così selettivo e tale da distinguerlo da altre formulazioni utilizzate.
Alcuni autori hanno ritenuto che, tuttavia, fosse importante prevedere anche causali di fonte legale, in considerazione della opportunità che la legge regoli fattispecie così rilevanti per la disciplina del mercato del lavoro e anche per influenzare in modo positivo la stessa autonomia collettiva, che poteva trovare nelle ipotesi legali un parametro di riferimento. Altra parte della dottrina ha messo in rilievo come attribuire il potere di introdurre ipotesi normative anche al contratto collettivo aziendale possa comportare problemi per la minore forza negoziale del sindacato a questo livello e per la stessa concorrenza al ribasso tra i sindacati.
La lettera a) del comma 1 dell’art. 19 del decreto legislativo è stata interpretata dalla dottrina come delega “in bianco” all’autonomia collettiva, che non ha limiti nella introduzione delle causali di tipo oggettivo e soggettivo. In effetti, se si analizza la formulazione letterale della disposizione, questa conclusione sembra condivisibile. Inoltre, il testo attuale è molto simile a quello dell’art. 23 della l. n. 56/1987, la cui interpretazione da parte delle Sezioni Unite della Cassazione (con la sentenza n. 4588/2006) ha confermato l’ampiezza della delega, che poteva introdurre ipotesi diverse da quelle al tempo previste dalla legge e sia di carattere oggettivo e soggettivo (per fasce deboli di lavoratori e a fini di promozione dell’occupazione). Credo che queste conclusioni possano essere ribadite oggi. Tuttavia, la lettura della motivazione della sentenza del 2006 mette in rilievo come la Corte Suprema non abbia in alcun modo argomentato le sue conclusioni alla luce del quadro normativo europeo e dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Questi limiti riducono la piena libertà dell’autonomia collettiva, come ho già spiegato in precedenza (nella mia risposta al quarto quesito).
La lettera b) del primo comma dell’art. 19 è quella che ha sollecitato maggiori critiche e attenzioni da parte della dottrina, per il suo contenuto non lineare che autorizza opzioni interpretative in netta discontinuità con il passato, nella misura in cui sembra legittimare anche contratti collettivi non stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ho già descritto questi aspetti nella mia risposta al quarto quesito e non prendo in considerazione tutte le diverse interpretazioni proposte, ma solo quelle prevalenti.
La tesi della possibile apertura anche a contratti collettivi stipulati da sindacati non rappresentativi si basa sulla formulazione letterale (non si fa riferimento a quelli sottoscritti da soggetti sindacali con determinati requisiti di rappresentatività) e sul fatto che la lettera b) opera “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a)” e cioè quando manchino gli atti di autonomia negoziale previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, che seleziona appunto alcune organizzazioni sindacali e non tutte. Si è detto che, in realtà, la lettura della norma deve essere diversa. La lettera a) sarebbe riferita ai contratti collettivi stipulati successivamente all’entrata in vigore dalla legge. Mentre la lettera b) riguarderebbe gli accordi esistenti nel momento in cui la legge è emanata ed applicati in azienda, che, per esigenze di coerenza sistematica, dovrebbero avere gli stessi requisiti di quelli previsti dall’art. 51.
Mi sembra che questa lettura non sia condivisibile. Non esiste nessun elemento che consenta di relegare la lettera a) ai contratti futuri e la b) a quelli esistenti già in precedenza. La spiegazione più coerente con il testo (sia dal punto di vista letterale che sistematico) è quella contraria. Come ho già detto, la Circolare del Ministero del lavoro del 9.10.2023 ha affermato che anche i contratti collettivi stipulati ai sensi della lettera b) devono essere quelli previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, senza peraltro spiegare il perché. L’ambiguità di una formulazione letterale così infelice è sicuramente una delle ragioni che ha spinto i promotori del referendum a chiederne l’abrogazione.
La seconda parte della lettera b) è stata interpretata dalla parte preponderante della dottrina come tale da abilitare l’autonomia individuale, sino al 31.12.2025 e in aggiunta a quanto previsto dai contratti collettivi, a stipulare rapporti a termine fondati su esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti del contratto di cui all’art. 2094 c.c. Anche questa tesi mi sembra condivisibile, in considerazione del testo della disposizione, che aggiunge una terza ipotesi alle due precedenti tutte riferite all’autonomia collettiva, che sembra non essere ricompresa da questa fattispecie ulteriore. Viene qui riprodotto, in via transitoria, lo stesso “causalone” regolato dall’art. 1 del d.lgs. 368/2001, che presenta, quindi gli analoghi problemi interpretativi. Come ho già spiegato nella risposta al quarto quesito, le esigenze tecniche e produttive, a mio giudizio, debbono essere di carattere necessariamente temporaneo.
Tuttavia, è stata prospettata anche una tesi diversa, basata sulla formulazione letterale della disposizione e, in particolare, sulla posizione della virgola. Si è detto che, se si avesse voluto abilitare l’autonomia individuale, la virgola avrebbe dovuto essere collocata in posizione diversa. Invece che con la formulazione attuale (“nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa…”), la disposizione avrebbe dovuto essere scritta nel seguente modo: “”nei contratti collettivi applicati in azienda e, comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze…”. Con il testo esistente, se viene omesso l’inciso tra le due virgole (“e comunque entro il 31 dicembre 2025), le parti sarebbero quelle collettive e non individuali. L’autore di questa tesi (Franco Scarpelli) ritiene che la lettera b) conterrebbe quindi un doppio rinvio all’autonomia collettiva, che si potrebbe spiegare come una disposizione che intende stimolare i nuovi contratti collettivi ad intervenire e nel frattempo (fino al 31 dicembre 2025) continuando ad utilizzare quelli già esistenti e applicati in azienda. La tesi, che ha certamente un suo fondamento dal punto di vista della costruzione ortografica del testo, mi sembra difficile da sostenere dal punto di vista sistematico. Non si comprende, infatti, perché nella lettera a) e nella prima parte della b), il riferimento alla contrattazione collettiva è totalmente libero, senza vincoli di contenuto, e, invece, nella seconda parte di quest’ultima disposizione vi è il riferimento alle ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo (seppure con un limite temporale). Comunque, la Circolare del Ministero del lavoro sopra indicata ha ribadito che la seconda parte della lettera b) è riferita al contratto individuale di lavoro. I promotori del referendum, partendo da questa interpretazione prevalente, hanno inteso sottrarre all’autonomia individuale questo potere, evitando tra l’altro una delle ragioni principali del contenzioso che si era sviluppato durante la vigenza del d.lgs. n. 368/2001.
Va anche rilevato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 14/2025 e in sede di valutazione della ammissibilità del referendum sul contratto a termine, ha espressamente interpretato la disposizione sopra esaminata come tale da abilitare i contratti individuali e non quelli collettivi (punto 3.1, nono capoverso, e punto 4.1.2, secondo capoverso, del Considerato in diritto). Pur senza un’analisi approfondita della questione, la presa di posizione della Corte ha indubbiamente una importanza essenziale per l’ascrizione del significato alla disposizione come tale da autorizzare solo l’autonomia individuale.
V. A. Poso Silvia Ciucciovino, hai qualcosa da aggiungere rispetto a quanto evidenziato da Valerio Speziale?
S. Ciucciovino. Non ho nulla da aggiungere a quanto detto da Valerio Speziale.
V. A. Poso Rivolgo la stessa domanda a Silvia Ciucciovino, con riferimento, però, alle applicazioni giurisprudenziali più importanti che si sono registrate a proposito delle disposizioni normative oggetto di referendum.
S. Ciucciovino. Da una ricerca condotta nei repertori di giurisprudenza non si riscontrano contenziosi né di merito né di legittimità sull’art. 19, comma 1, come modificato dal c.d. Decreto Dignità in poi. Il contenzioso sulle causali, soprattutto quello di Cassazione, è ancora riferito al d. lgs. n. 368/2001 ratione temporis applicabile ai rapporti oggetto di causa.
Sul “Decreto Dignità”, a quanto consta non risulta contenzioso forse anche per via della impraticabilità delle causali.
Il contenzioso emerge a partire dal venir meno del periodo di acausalità introdotto con la legislazione emergenziale, ma le poche pronunce di merito respingono i ricorsi in quanto i rapporti sono sorti durante il periodo di deroga e dunque le causali non risultavano applicabili.
V. A. Poso Hai qualcosa da aggiungere, Valerio Speziale, alle osservazioni di Silvia Ciucciovino?
V. Speziale. Concordo con quanto detto da Silvia Ciucciovino.
V. A. Poso Come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria sui contratti a termine?
Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito, come abbiamo detto, è che il lavoro deve essere stabile e non precario, perché la precarietà è una limitazione della libertà. Viene quindi auspicato il superamento della liberalizzazione dei contratti a termine e della possibilità di concludere contratti a termine a-causali nel periodo di dodici mesi. Ferma restando la durata massima non eccedente i ventiquattro mesi, il contratto di lavoro a termine resterebbe possibile solo nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51 (dotati di specifici requisiti di rappresentatività sindacale comparativa) e per la sostituzione di altri lavoratori, con la trasformazione in contratto a tempo indeterminato in assenza di dette condizioni; condizioni che devono essere osservate sempre, anche in caso di proroghe e rinnovi.
Condividete la prospettazione referendaria?
S. Ciucciovino. Non condivido l’impostazione referendaria per l’estremismo della norma che ne risulterebbe, ai limiti della irrazionalità e che potrebbe porsi addirittura in contrasto con l’art. 41 Cost. per i fortissimi vincoli che ne deriverebbero all’iniziativa economica privata, specie per attività produttive che sono più soggette di altre a variazioni fisiologiche della domanda di mercato. Infatti in mancanza di previsioni del contratto collettivo l’assunzione a termine sarebbe di fatto impedita.
Un conto è la rivalutazione o valorizzazione del ruolo della fonte collettiva, altro conto è l’introduzione di un modello, del tutto inedito in Italia, di vero e proprio monopolio sindacale della flessibilità in ingresso.
V. Speziale. Ho già espresso il mio apprezzamento per la richiesta di referendum abrogativo. Rinvio a quanto ho detto nel rispondere alla quarta e quinta domanda.
Non condivido l'opinione di Silvia Ciucciovino sulla irrazionalità delle norme che scaturirebbero qualora il referendum avesse un esito positivo e sul possibile contrasto con l’art. 41 Cost. delle disposizioni che deriverebbero dalla abrogazione parziale.
Per quanto riguarda il primo aspetto, rimando alla mia risposta alla quinta domanda, in relazione al ruolo positivo svolto in passato dai contratti collettivi ed alla possibile funzione strategica che essi potrebbero avere in futuro. Silvia parla di un vero e proprio monopolio sindacale della flessibilità in ingresso. Ma la situazione attuale non è diversa, visto che, a parte le esigenze sostitutive (che non sono cambiate), tutto è rimesso ai contratti collettivi, perché la disposizione che attribuisce all’autonomia individuale la possibilità di introdurre causali è transitoria (oltre ad essere scritta male, con i potenziali contrasti interpretativi da me già descritti).
Non vedo quali sono i vincoli che verrebbero posti all'iniziativa economica privata. La possibilità di introdurre causali giustificative all'autonomia collettiva, oltre a trovare fondamento nell'art. 39 Cost., rispecchia una tecnica usuale nel nostro ordinamento in cui la legge rimette ai contratti collettivi la regolazione di aspetti fondamentali del mercato del lavoro, in piena coerenza con tutte le disposizioni costituzionali a tutela del lavoro e con lo stesso comma secondo dell’art. 41 della Costituzione. La eliminazione della “acausalità” nei primi 12 mesi del contratto a termine non può certo essere considerata come eccessivamente restrittiva dell'iniziativa economica. La presenza di ragioni giustificative del rapporto a termine sin dal momento della sua stipulazione è stata una caratteristica del nostro sistema giuridico per decenni, senza che si ponesse alcun problema di compatibilità con la Costituzione, proprio in considerazione della protezione che la nostra legge fondamentale assicura al lavoro ed ai limiti previsti dal secondo comma dell'art. 41.
A. Morrone. La proposta referendaria è stata dichiarata ammissibile dalla Corte costituzionale. Non sono stati rilevati, in proposito, limiti costituzionali ostativi. Neppure quelli derivanti dall’art. 41 Cost. Ricordo, infatti, che ancorché il giudice delle leggi abbia più volte ribadito che il controllo di ammissibilità non è un sindacato anticipato di costituzionalità, nei fatti, per tabulas, guardando alla sostanza di quella giurisprudenza, la Corte ha sempre considerato i principi e i valori costituzionali quali parametri il cui rispetto è necessario assicurare per dare il via libera a referendum abrogativi. Personalmente non ritengo il rinvio alla contrattazione collettiva un vulnus rispetto alla “intrapresa” economica privata, l’oggetto effettivo della libertà tutelata (l’attività economica privata è, com’è noto, oggetto tanto di limiti, quanto di indirizzi e controlli per mezzo della legge); mentre, invece, l’autonomia collettiva rimanda proprio al principio dell’accordo tra le parti (datoriale e lavorativa), sicché non si può ritenere che l’impresa privata venga con ciò esclusa, e il sindacato dei lavoratori investito di un potere esclusivo. Il rinvio alla contrattazione è coerente con l’art. 39 Cost. (sia pure nell’interpretazione che tende a “de-costituzionalizzare” i commi successivi al primo).
V. A. Poso. Possiamo dire che l’intervento referendario, in caso di esito positivo del voto popolare, renderebbe più coerente la nostra legislazione con la direttiva europea e le applicazioni della Corte di Giustizia?
S. Ciucciovino. Assolutamente no. La Direttiva europea 1999/70 CE non pone vincoli alla prima assunzione a termine e non chiede agli ordinamenti nazionali di porne. Chiede piuttosto di prevenire la discriminazione e l’abuso del contratto a termine, e quindi si concentra piuttosto sulla successione di più contratti a termine.
È rimessa alla discrezionalità degli Stati membri la forma più opportuna per raggiungere l’obiettivo della prevenzione dell’abuso. In tale contesto le ragioni oggettive nel caso di proroga o rinnovo sono uno dei possibili, ma non l’unico, mezzi di prevenzione dell’abuso, in alternativa a limiti alla durata massima e alla successione di più contratti a termine.
In definitiva la stretta proposta dal quesito referendario all’apposizione del termine al contratto di lavoro sin dalla prima assunzione non è richiesta dalla Direttiva europea e si porrebbe come una iniziativa dell’ordinamento italiano nell’esercizio della sua discrezionalità regolativa dell’occupazione a termine, ben più restrittiva di quelle che si riscontra nel panorama europeo.
V. Speziale. Ha ragione Silvia Ciucciovino quando afferma che la Direttiva, come interpretata dalla CGE, non pone vincoli alla stipulazione del primo contratto a termine e sul fatto che le ragioni oggettive sono solo uno dei possibili strumenti per prevenire l’abuso nella successione dei contratti a termine.
Tuttavia, la previsione delle esigenze tecniche produttive ed organizzative è una delle possibilità rimesse al legislatore nazionale e, quindi, la normativa scaturente dall’esito positivo del referendum sarebbe assolutamente coerente con la fonte europea. Non si potrebbe parlare di maggiore conformità alla Direttiva, ma certamente di utilizzazione di una delle soluzioni giuridiche da essa ammessa. Per quanto attiene poi alla introduzione di causali giustificative anche per il primo contratto (che, come già detto è parte della storia nazionale del contratto a termine), essa è certamente consentita dalla clausola 8, comma 1, dell’Accordo Quadro della Direttiva, che autorizza gli Stati membri ad introdurre disposizioni più favorevoli rispetto ad essa. La necessità di ragioni giustificative anche per il primo rapporto a t. determinato rientra certamente in tale ambito.
A. Morrone. I margini di apprezzamento degli Stati membri di fronte ad una direttiva sono sempre stati intesi in maniera lasca dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Anche in questo caso non riterrei rilevanti questi limiti, ammesso che ci siano. Come ricordato, se una violazione degli obblighi europei fosse derivata dalla richiesta referendaria, la Corte costituzionale l’avrebbe indicato, bloccando l’ammissibilità. Dopo il primo precedente, la sentenza di non ammissibilità del quesito sul testo unico in materia di immigrazione (sent. n. 31/2000), la giurisprudenza in materia di referendum ha previsto tra gli ostacoli all’ammissibilità le “leggi a contenuto comunitariamente vincolato”. Un simile sindacato implica l’esistenza di limiti europei specifici e determinati che la legislazione nazionale ha violato. Nel caso che ci occupa, secondo l’interpretazione della sent. n. 14/2025, non ricorre una simile ipotesi.
V. A. Poso. Passiamo all’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024 che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo agli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015, per le parti più sopra indicate. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito – allo scopo di consentire l’immediata comprensione del risultato perseguito dal referendum e delle conseguenze che si determinerebbero nell’ordinamento ove la richiesta referendaria, ai sensi dell’art. 75,co.3,Cost., venisse approvata – è stata assegnata la seguente denominazione sintetica, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “ Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”.
Il quesito è stato integrato, opportunamente, con l’indicazione separata degli articoli in esso richiamati e dei commi in cui sono contenute le disposizioni degli articoli 19 e 21 di cui è richiesta la parziale abrogazione.
Dato atto della sussistenza dei presupposti per dichiarare la rispondenza a legge del quesito (atto normativo avente natura ed efficacia di legge, vigenza delle disposizioni oggetto di referendum in esso contenute, in assenza di atti di abrogazione, anche parziale, e di pronunce di illegittimità incostituzionale),l’Ufficio Centrale per il Referendum ha escluso la possibilità, in applicazione dell’art. 32, comma 7, l. 25 maggio 1970, n.352, di procedere alla concentrazione della richiesta referendaria oggetto di esame con le altre tre richieste in materia lavoristica, non ravvisandosi, tra quella in esame e le altre, eventuali uniformità o analogie di materia.
Merita di essere rilevato che il quesito ammesso non è stato integrato con la specifica menzione degli interventi normativi che hanno apportato le modifiche del testo vigente - al momento della decisione- ad opera del d.l. 4 maggio 2023,n. 48, convertito, con modificazioni, dalla l. 3 luglio 2023, n. 85: quanto al comma 1,lett.a) dell’art. 24, con riferimento al comma 1,lett.b) dell’art. 19, d.lgs. n. 81/2015 (solo questa modifica, dove si legge la originaria data del 30 aprile 2024, poi prorogata, è stata indicata nella premessa della motivazione di detta ordinanza, a pag. 5, 2° cpv); quanto al comma 1-bis del medesimo art. 24, con riferimento all’art. 21, comma 01 del d. lgs. n. 81/2015); e da ultimo ad opera del d.l. 30 dicembre 2023,n.215 ( c.d. decreto Milleproroghe 2023), convertito, con modificazioni, dalla l. 23 febbraio 2024, n. 18, che, con l’art. 18, comma 4-bis, ha modificato la lett. b) dell’art. 19,comma 1, del d. lgs. n. 81/2015.
Da rilevare che è l’art. 18, comma 4-bis sopra citato che ha prorogato al 31 dicembre 2024 la scadenza originaria del 30 aprile 2024 indicata nella norma oggetto di referendum.
La completa integrazione (con le modifiche normative intervenute e le pronunce di illegittimità costituzionale) del testo proposto dai promotori, invece, è stata operata dall’Ufficio della Cassazione con riferimento al quesito avente ad oggetto il Jobs Act, mentre i quesiti relativi all’abrogazione parziale dell’art. 8 della l. n. 604/1966 e degli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015 erano stati già proposti dai promotori dei referendum con il testo integrato dall’indicazione delle modifiche normative intervenute nel corso degli anni..
Avete osservazioni in proposito?
A. Morrone. Sulla mancata concentrazione dei quesiti, come ho chiarito nella risposta all’analoga domanda contenuta nell’intervista sul quesito abrogativo del Jobs Act in tema di licenziamenti, ribadisco che si tratta di precisazione del tutto inutile, stante la diversità formale e materiale dei quattro quesiti promossi dalla Cgil. L’identità del soggetto promotore non rileva punto in questi casi, dove conta solo ed esclusivamente il fatto – inesistente nel nostro – di domande popolari identiche (formalmente o sostanzialmente).
Ho invece qualcosa da dire sulla riformulazione del quesito operata dall’Ufficio Centrale per il Referendum: essa si limita a separare graficamente le due disposizioni interessate dall’abrogazione di lemmi. Nulla di più (ammesso che ciò serva a rendere più intellegibile il contenuto della richiesta). Non ha riguardato l’indicazione delle successive modificazioni (anche solo con una formula sintetica di questo contenuto). In genere, di fronte allo jus superveniens (che lascia vigente l’oggetto della domanda referendaria) l’UCR ne dà conto nei quesiti che non hanno menzionato le novelle intervenute successivamente al deposito della richiesta. Qui non l’ha fatto (mentre si è preoccupato di ciò nella vicenda relative al Jobs Act).
Che poi la legge (una delle tante) sia intervenuta dopo il deposito della richiesta non è un fatto irrilevante ai fini della legittimità e dell’ammissibilità del referendum. Ai fini del primo giudizio, infatti, l’Ufficio Centrale per il Referendum dovrebbe verificare l’applicazione al caso di specie dell’art. 39, l. n. 352/1970 (ovvero decidere tra il “trasferimento” del quesito dalle vecchie alle nuove disposizioni, o la “cessazione” delle operazioni referendarie). L’UCR non si è pronunciato su questo punto. Ai fini del secondo, è la Corte costituzionale che deve valutare l’incidenza di una novella sopravvenuta, per verificare se permanga o meno una domanda ammissibile. Nella sent. n. 14/2025, il controllo è veloce, limitandosi a registrare la proroga della vigenza della disposizione interessata, dando per identico il contenuto della disciplina e, quindi, dell’oggetto (e delle finalità) della domanda referendaria. Tutto ciò dimostra come spesso il vaglio dei quesiti da parte dei suoi giudici proceda in maniera superficiale e casuale.
V. Speziale. L’Ufficio Centrale per il Referendum della Suprema Corte, a parte il fondamentale controllo sul numero delle firme e sui requisiti di regolarità formale delle stesse, ha correttamente individuato il titolo del referendum e l'ha integrato con la indicazione separata degli articoli di cui si chiede l'abrogazione parziale.
Mi sembra giusto anche non accorpare il quesito referendario con gli altri proposti in considerazione delle profonde differenze nei testi normativi sottoposti alle ulteriori consultazioni popolari.
L’UCR ha tenuto conto dei mutamenti, rispetto al testo originario del 2015, effettuati dall’art. 24, comma 1, del D.L. n. 48/2023 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 85/2023). Non ha, invece, preso in considerazione la modifica introdotta dal D.L. n. 215/2023 (convertito, con variazioni, dalla l. n. 18/2024) e – cosa del tutto ovvia – non poteva prendere in considerazione le modifiche introdotte dal D.L. n. 202 del 27 dicembre 2024, entrato in vigore il giorno successivo (convertito, con modifiche, nella l. n. 15 del 21 febbraio 2025).
Va considerato, infatti, che la Cassazione poteva tenere conto solo dei mutamenti contenuti nel D.L. n. 215/2023 (con la relativa legge di conversione) che sono anteriori alla data di consegna del referendum (12.04.2024) e di presentazione dei promotori dinanzi ad essa (19.07.2024). Le innovazioni ulteriori si sono verificate dopo il momento in cui la Suprema Corte è stata chiamata ad esprimere la sua valutazione e, quindi, la Cassazione non poteva prenderle in considerazione.
I cambiamenti introdotti dalle disposizioni non considerate dalla Corte, tuttavia, mutano soltanto la data finale di vigenza di una parte della disposizione contenuta nella lettera b) del c. 1 dell’art. 19 (estesa fino al 31 dicembre 2025). Si tratta indubbiamente di una modifica che peraltro non incide sulla sostanza della volontà dei promotori, che volevano eliminare questa parte della disposizione. Non mi sembra, quindi, che la mancata considerazione di queste norme possa incidere sulla chiara volontà dei primi e sulla linearità del quesito che è sottoposto ai votanti. Né la Corte poteva integrare il quesito in relazione ad una disposizione non ancora emanata quando è stata chiamata a giudicare i requisiti del referendum.
Vi è, poi, una ulteriore considerazione. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 14/2025, nel valutare le disposizioni oggetto del referendum, ha espressamente considerato che la norma che aveva originariamente vigore sino al 31.12.204 è stata estesa nella sua vigenza sino alla fine del 2025 ( modifica introdotta dall’art. 14,comma 3, del d.l. n. 202/2024, cit. supra). Pertanto, seppure in modo indiretto, nel rendere ammissibili i quesiti, la Corte prende atto che l’eventuale abrogazione potrebbe avvenire anche in relazione ad una disposizione che oggi è stata parzialmente modificata. Ne deriva che, se il referendum avesse esito positivo, l’abrogazione della disposizione sottoposta a consultazione travolgerebbe anche quella diversa che ha esteso la sua vigenza al 31 dicembre 2025.
S. Ciucciovino. Concordo con le osservazioni di Valerio Speziale.
V. A. Poso Merita segnalare che l’ultima modifica normativa relativa alla lett. b) dell’art. 19, comma 1, del d. lgs. n. 81/2015, con la sostituzione dell’originario limite del 30 aprile 2024 con quello del 31 dicembre 2024 della quale abbiamo detto sopra (già intervenuta al momento della presentazione del quesito referendario) introduce una norma transitoria, quanto meno per gli accordi individuali, se non anche per i contratti collettivi applicati in azienda, che resterebbe priva di effetti per decorso del limite temporale imposto, in assenza di proroghe, quale che sia l’esito del voto referendario.
Non so se la mia interpretazione è corretta, vediamo dalle vostre risposte; mi sembra, però, che si farebbe, in parte qua, un referendum su una disposizione superata.
S. Ciucciovino. Dobbiamo dare conto, anche, come è stato evidenziato nella precedente risposta di Valerio Speziale, che è di recente intervenuta la norma del c.d. Decreto Milleproroghe (d.l. n. 202/2024, in vigore dal 28 dicembre 2024) che ha esteso a tutto il 31 dicembre 2025 l’operatività della disposizione in esame.
E tuttavia, non si pongono, a mio avviso, questioni, quindi, da questo punto di vista, all’eventuale assoggettabilità, ora, di questa disposizione a referendum abrogativo.
V. Speziale. Come ho già detto, le normative che si sono succedute nel tempo hanno gradualmente esteso al 31 dicembre del 2025 la seconda parte della lettera b) del c. 1 dell’art. 19, riferita agli accordi individuali e non a quelli collettivi (rimando alla mia risposta alla sesta domanda). Mi sembra chiaro che, se il referendum avesse esito positivo, sarebbe travolta la disposizione che, letteralmente, ha vigenza solo sino al 31 dicembre 2024 (perché ad essa si riferisce il quesito). Ma, in tal caso, la eliminazione della disposizione originaria la escluderebbe comunque dall’ordinamento giuridico, anche nella sua versione attuale. La norma successiva ha solo esteso al 31. 12. 2025 la sua esistenza. Ma se venisse meno quella sottoposta a referendum, tale abrogazione non potrebbe non riflettersi anche su quella, diversa, che ne prevede una durata differente. Se la volontà dei votanti era quella di eliminare una disposizione che aveva vigore sino al 31 dicembre 2024, non vi è dubbio che la loro determinazione è rispettata solo se viene eliminata anche quella che ne ha esteso gli effetti nel tempo. Mi sembra un effetto necessario dell’accoglimento del quesito referendario.
V. A. Poso Con la sentenza n. 14 del 7 febbraio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione delle norme e per le parti indicate oggetto del quesito, come riformulato dall’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di cassazione, per una migliore comprensione dello stesso.
La Corte costituzionale, dopo aver delineato il contesto normativo di riferimento in cui si inseriscono le disposizioni oggetto della richiesta referendaria, ha precisato, correttamente, che l’esito della stessa
«mira dunque – al contempo – alla riespansione dell’obbligo della causale giustificativa anche per i contratti (e i rapporti) di lavoro di durata inferiore ai dodici mesi, e all’esclusione del potere delle parti di individuare giustificazioni, a fondamento della stipulazione (o della proroga o del rinnovo) di tali contratti, diverse da quelle indicate dalla legge o dai contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi».
Quali sono le Vostre osservazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa?
A. Morrone. I quattro quesiti presentati dalla Cgil in materia di “lavoro dignitoso” si caratterizzano per la peculiare natura normativa anche in senso “positivo” conseguente all’abrogazione popolare. In particolare: essi non sono solo “abrogativi”, ma sono soprattutto ad effetto introduttivo di norme. L’abolizione delle disposizioni oggetto delle relative domande prelude all’ingresso di un’altra disciplina, voluta dai promotori e ritenuta dai giudici costituzionali l’esito obiettivo dell’ablazione popolare. E, va precisato, che, proprio per questo motivo, sono stati ritenuti tutti ammissibili. Insomma, la nota caratterizzante questa tornata referendaria (se aggiungiamo anche il quesito sulla cittadinanza, diretto proprio a “sostituire” il termine di dieci anni con quello ridotto a metà di cinque affinché lo straniero maggiorenne extra UE possa presentare domanda al fine di ottenere il riconoscimento dello status civitatis italiano) è che l’ammissibilità è stata concessa a quesiti referendari che mirano ad ottenere l’introduzione di norme nuove attraverso l’abrogazione di norme vigenti.
Nella sent. n. 14/2025, in particolare, si chiarisce bene che il referendum ha come obiettivo quello di fare “riespandere” la causale per quelli di durata inferiore a dodici mesi e di impedire alle parti di indicare cause diverse da quelle legali o dalla contrattazione collettiva. In sostanza, si tratta di una sorta di “reviviscenza” di disposizioni abrogate dalle norme oggetto della disciplina vigente, oggetto del quesito referendario.
V. Speziale. Nella predisposizione dei quesiti, i giuristi coinvolti dalla Cgil hanno operato tenendo conto di criteri enucleati dalla Corte costituzionale in relazione alla ammissibilità del referendum. Essi, pur se raccolti ormai in una giurisprudenza consolidata, sono alquanto flessibili, in quanto contrassegnati da un livello di genericità assai elevato. Si pensi, ad es., alla necessità che il quesito presenti i caratteri della chiarezza, omogeneità, univocità, con una matrice razionalmente unitaria. Si tratta di concetti comprensibili ma che si prestano ad opzioni applicative assai differenziate. Tra l'altro, la flessibilità dei criteri aumenta nel caso di proposte di abrogazione parziale, dove la Corte è stata, in alcuni casi, molto rigorosa nel valutare la ammissibilità del quesito.
Per questa ragione, i giuristi che hanno collaborato alla predisposizione del testo hanno cercato di formulare la domanda da sottoporre a consultazione popolare in modo da renderla non solo chiara, ma anche tale da far comprendere quale sarebbe stato il risultato normativo che sarebbe scaturito dalle eventuali abrogazioni delle parti di disposizione su cui si chiedeva il voto. Inoltre, lo sforzo è stato quello di mettere in evidenza sia l'ispirazione complessiva della manipolazione normativa che si richiedeva, sia la compatibilità del testo che eventualmente ne sarebbe scaturito con quello già esistente. Quest'ultimo, infatti, sarebbe stata modificato in modo rilevante ma senza introdurre una nuova disciplina completamente estranea al contesto normativo esistente ed anzi con la finalità di ribadire una utilizzazione del contratto a termine basata su ragioni giustificative rimesse alla legge e all'autonomia collettiva, in coerenza con tecniche già sperimentate nel passato e con il principio del lavoro stabile quale “forma comune”.
Lo sforzo compiuto ha avuto esito positivo. La lettura delle motivazioni della Corte mette in evidenza tutti questi aspetti. I giudici, oltre a cogliere con chiarezza la finalità perseguita dai promotori del referendum, hanno vagliato il quesito alla luce della propria giurisprudenza, sottolineando come esso fosse il coerente con i criteri enucleati dalla Corte e dettagliatamente esaminati nella motivazione.
Gli auspici della Cgil e dei giuristi che hanno collaborato alla predisposizione del quesito sono stati soddisfatti. Tuttavia, tenendo conto della flessibilità dei criteri adottati dalla Corte costituzionale in materia, parlare di sentenza attesa è eccessivo. Direi che, anche alla luce del lavoro scrupoloso compiuto, vi era piuttosto la speranza concreta di superare il limite della ammissibilità.
V. A. Poso È la stessa Corte Costituzionale che, nella pronuncia qui esaminata, ci ricorda, richiamando la sua precedente sentenza n. 56 del 2022,che il referendum abrogativo non si deve trasformare «– insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (v. sentenza n. 16 del 1978, richiamata nella sentenza n. 56 del 2022), trattandosi di «un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può “introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento” (v. sentenza n. 36 del 1997)».
Ritenete rispettato questo limite?
A. Morrone. Si tratta di un’affermazione ormai consueta nella giurisprudenza. Per gli svolgimenti rinvio alla risposta contenuta nell’intervista sul quesito in materia di appalti e infortuni. Aggiungo qui che il referendum, sulla carta, serve per abrogare disposizioni legislative vigenti, non per introdurre nuove norme, compito riservato al legislatore. Fatto si è che questo assunto, derivante dal testo dell’art. 75 Cost. e dall’interpretazione del referendum abrogativo come espressione di una “legislazione negativa”, si è scontrato con la realtà delle cose.
Da un lato, la circostanza che anche solo abrogare equivale non tanto a “un non disporre” quanto, piuttosto, ad “un disporre diversamente” (Vezio Crisafulli): sicché dall’abrogazione conseguono sempre modifiche al diritto vigente.
Dall’altro, la giurisprudenza costituzionale ha legittimato la prassi dei referendum cd. manipolativi ovvero incidenti su disposizioni e frammenti di norme (anche privi di senso giuridico), sicché i quesiti referendari hanno naturalmente una vocazione diretta a creare nuovo diritto. Il problema diventa allora stabilire fin dove. La Corte assume una distinzione scolastica, quando giustappone istituti di “democrazia rappresentativa” e di “democrazia diretta”. La verità è che il confine tra l’una e l’altra non dipende da dati positivi, ma dai confini mobili della stessa giurisprudenza.
In genere, il limite giurisprudenziale ai referendum manipolativi sono quelli esistenti nell’ordinamento vigente: il ritaglio, per essere ammissibile, andrebbe contenuto all’interno della disciplina positiva interessata dal referendum popolare e, comunque, all’interno dell’ordinamento vigente. Cosa questa che non ha nessuna razionalità in sé e per sé: anzi, se è vero che il referendum serve per contestare una legge vigente, imporre ad esso, viceversa, di rimanere entro la legislazione positiva, equivale a tradirne la ratio o, quantomeno, a depotenziarne la forza normativa. Essa è il frutto di una giurisprudenza – questa sì – davvero creativa che, per contenere (l’abuso de) i referendum abrogativi, ha finito con elaborare criteri di ammissibilità imprevedibili ed incerti. Anche con riferimento ai quesiti di questa tornata.
Se si guarda all’insieme, si può dire che la Corte abbia ammesso cinque quesiti manipolativi (non oltre la soglia ritenuta ammissibile, sia ben chiaro!), bloccando l’unico quesito integralmente abrogativo (quello sulla legge relativa al regionalismo differenziato). Per rispondere al quesito: sì penso che la decisione di oggi sia coerente con la pregressa giurisprudenza e che, perciò, il quesito andava dichiarato ammissibile, per non essere la domanda ad esso sottesa una forma distorta di legislazione popolare. Ma nessuno può negare, non lo ha fatto neppure la Consulta, che di “legislazione” popolare si tratti, proprio in ragione degli esiti ripristinatori di norme pre-vigenti.
V. Speziale. Mi sembra di poter dare una risposta positiva. Per quanto attiene al secondo aspetto (il referendum non può introdurre una nuova statuizione, non ricavabile dall’ordinamento), è sufficiente mettere a confronto il testo vigente con quello che scaturirebbe dall’accoglimento del quesito, da me riprodotto nella risposta alla quinta domanda. La nuova versione dell’art. 19 sarebbe in larga parte coincidente con quella esistente, perché verrebbe conservata sia l’attuale lettera a) del c. 1, sia la lettera b-bis (semplicemente rinominata come lettera b). Vi sarebbe solo l’eliminazione dell’attuale previsione in tema di contratti collettivi applicati (diversi da quelli stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale) e di esigenze tecniche ed organizzative rimesse all’autonomia individuale. Dunque, si avrebbe non una disposizione integralmente nuova ed extra ordinem ma solo un testo parzialmente differente da quello esistente, scaturente da “norme residue che, in linea con il principio secondo cui (il lavoro stabile è la forma comune), subordinano, senza eccezioni temporali, la possibilità del ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato, nel limite della durata massima di ventiquattro mesi, a una delle specifiche giustificazioni, previste dalla legge o dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81 del 2015” (C. cost. n. 14/2025, punto 4.1.3., quinto capoverso).
In relazione al secondo principio (il referendum abrogativo non può essere “trasformato - insindacabilmente - in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (sentenza n. 16 del 1978)”), va detto che esso, così come viene enunciato, è alquanto criptico, perché non si comprende quando il quesito verrebbe ad assumere questa natura plebiscitaria o di voto popolare di fiducia.
Tuttavia, tale ambiguità viene dissolta quando si legge la parte successiva della motivazione di Corte cost. n. 56/2022 (espressamente richiamata dalla decisione n. 14/2025). Infatti, prosegue la sentenza, “non sono ammissibili, in particolare, richieste referendarie che siano ‘surrettiziamente propositiv[e]’ (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 26 del 2011, n. 33 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze n. 43 del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): si tratta, infatti, di un'ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può ‘introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall'ordinamento’ (sentenza n. 36 del 1997)”.
Se, dunque, il carattere plebiscitario o di voto popolare di fiducia del referendum è legato a richieste che abbiano le caratteristiche sopra indicate, non vi è dubbio che questi elementi non sono presenti nel quesito sul contratto a termine di cui è stata dichiarata la ammissibilità, per le ragioni che ho già spiegato.
V. A. Poso Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti, il referendum abrogativo delle norme in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost. (le disposizioni normative oggetto di richiesta referendaria non sono riconducibili ad alcuna delle tipologie di leggi ivi elencate, neppure a quelle ricavabili in via di interpretazione logico-sistematica); tantomeno sono risultano profili attinenti a disposizioni a contenuto costituzionalmente obbligato: sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.
A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco, in particolare, alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle disposizioni oggetto di abrogazione.
A. Morrone. Per le cose dette condivido il merito della sent. n. 14/2025. Il quesito è chiaro e univoco, e non impatta in maniera evidente con la giurisprudenza pregressa. Era facilmente prevedibile quindi l’esito del giudizio di ammissibilità.
Valerio Speziale. Il referendum mi sembra certamente ammissibile sia sotto il profilo del non coinvolgimento delle leggi per le quali l’art. 75 Cost. lo vieta, sia in relazione alle caratteristiche del quesito e alla tecnica dell’abrogazione parziale mediante eliminazione di parti delle disposizioni sottoposte al voto popolare.
Sul primo profilo non vi è da dire molto, visto la chiarezza dell’art. 75 e della giurisprudenza costituzionale che lo ha interpretato.
Per quanto attiene al secondo aspetto rinvio a quanto ho già detto nella risposta alla domanda n. 14. Inoltre, a parte il fatto che vi sono numerosi precedenti di referendum ritenuti ammissibili e nei quali il quesito chiedeva la abrogazione parziale di alcune parole delle disposizioni interessate (quella da te definita come tecnica del ritaglio), ritengo che le motivazioni adottate dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 14/2025 siano del tutto condivisibili. La parte preponderante della giurisprudenza della Corte ivi indicata è quella che ha ispirato il lavoro dei proponenti del referendum.
V. A. Poso Quindi, mi pare di capire, che, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte che, nella sentenza in esame ricorda che « l’uso della tecnica del ritaglio non è di per sé causa di inammissibilità della richiesta referendaria, allorquando quest’ultima sia diretta ad «abrogare
parzialmente la disciplina stabilita dal legislatore, senza sostituirne una estranea allo stesso contesto
normativo […] (sentenze n. 34 del 2000 e n. 36 del 1997)» (sentenza n. 26 del 2011)».
Valerio Speziale. Ho già risposto in relazione alle precedenti domande che hanno toccato questo punto. La giurisprudenza della Corte costituzionale sopra descritta mi sembra chiara. Come ho già detto, le disposizioni che scaturirebbero qualora vi fosse l’abrogazione parziale richiesta non creerebbero fattispecie integralmente nuove ed extra ordinem ma solo testi parzialmente differenti da quelli esistenti e, in larga misura, confermativi della disciplina attuale. Non mi sembra, quindi, che si possa parlare di una nuova regolazione completamente estranea al contesto normativo esistente, anche in considerazione del principio del lavoro stabile quale “forma comune”.
A. Morrone. La diposizione introdotta dal quesito era quella vigente nella normativa precedente (la Corte lo chiarisce in modo palese), anche se forse non con quella estensione (e ciò resta sottotraccia). Sul punto mi pare che i colleghi giuslavoristi abbiamo precisato quest’ultimo profilo. Rimasto, però, del tutto irrilevante nel giudizio di ammissibilità. Questo dimostra, ancora una volta, la tendenziale arbitrarietà del controllo di ammissibilità, tutto incentrato sulla coerenza interna di un nuovo quesito rispetto ai precedenti della giurisprudenza, il cui “uso e consumo” è, quindi, esclusivo del suo autore.
V. A. Poso. Una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (v. sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (v. sentenza n. 13 del 1999).
Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
Valerio Speziale. A mio giudizio non ci sono elementi per dire che l’effetto abrogativo sarebbe tale da determinare una disciplina del tutto diversa ed estranea al contesto normativo. Rinvio alle le ragioni che ho già ampiamente descritto in precedenza e confermate dalla Corte costituzionale con la sentenza n.14/2025.
S. Ciucciovino. Non mi pare che ci siano i presupposti per ritenere sussistente un carattere surrettiziamente propositivo dell’alternativa posta al corpo elettorale, benché l’incisione sul corpus normativo vigente appaia di rilevante portata.
A. Morrone. Mi sono già espresso nelle risposte precedenti alle quali rimando.
V. A. Poso. A Vostro avviso l’approvazione della richiesta referendaria, genererebbe o no «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020)?
La Corte costituzionale, nella sentenza esaminata, lo esclude, proprio in considerazione della natura vincolistica della legislazione precedente sulle causali del contratto a termine.
S. Ciucciovino. L’intervento modificativo sulla disciplina sottoposta a referendum è certamente notevole e renderebbe la regolamentazione di risulta eccezionalmente restrittiva. Ciò tuttavia non implicherebbe uno stravolgimento dei principi o dei criteri utilizzati dal legislatore in questa materia, in quanto l’apposizione del termine al contatto di lavoro è sempre stata informata ad un principio di contenimento rispetto all’assunzione a tempo indeterminato. Tale obiettivo è stato realizzato di volta in volta dal legislatore con differenti tecniche e con impostazioni più o meno restrittive, ma pur sempre facendo affidamento (anche) sulla contrattazione collettiva.
Valerio Speziale. Concordo pienamente con quanto affermato dalla Corte costituzionale.
La sussistenza di causali giustificative del termine, affidate alla legge, all’autonomia collettiva e a quella individuale è nella storia della disciplina sul contratto a t. determinato. Ma vi sono anche argomentazioni ulteriori. Il testo attuale dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 e quello che scaturirebbe dall’abrogazione parziale sono, dal punto di vista delle tecniche utilizzate simili, perché entrambe prevedono ragioni che legittimano la stipula del contratto, predeterminate dalla legge, dai contratti collettivi e da quello individuale. Essi, inoltre, come già detto, sarebbero parzialmente coincidenti. Le differenze, che evidentemente ci sono, sono conseguenza dell’effetto abrogativo, che altrimenti non sarebbe neppure concepibile se tutto dovesse essere lasciato come prima. Ma è evidente che, eliminare la acausalità nei primi 12 mesi è possibile in un sistema che prevede invece esigenze oggettive seppure per un periodo temporale ulteriore (da 12 a 24 mesi). Escludere alcune tipologie di contratti collettivi e una norma aperta che lascia all’autonomia individuale la individuazione delle esigenze tecnico produttive avviene in un contesto in cui le parti individuali possono ancora fissare il termine per ragioni sostitutive e non viene modificata la possibile introduzione di causali da parte di contratti collettivi stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale. In definitiva, vi è piena coerenza con i principi e le regole già contenute nel testo legislativo sottoposto ad abrogazione e non vi è alcun mutamento dei “tratti caratterizzanti” della normativa, ma solo un suo diverso contenuto.
A. Morrone. Anche in questo caso mi limito a richiamare le risposte precedenti.
V. A. Poso. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si possono prospettare mi sembrano problematici, per evitare il voto popolare, considerati anche i tempi ristretti, già a far data dal deposito della sentenza della Corte Costituzionale, a maggior ragione ora. Si fa per discutere: come avrebbe potuto intervenire il legislatore (non solo nel senso demolitorio auspicato dalla proposta referendaria, ovviamente) in maniera sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
V. Speziale. Nel momento in cui si scrive, la vicinanza con le date fissate per il referendum (8 e 9 giugno 2025) rende quanto meno problematico, se non impossibile, un intervento del legislatore, che, tra l’altro, non sembra minimamente orientato a modificare la disciplina contenuta negli artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81/2015. E questo anche in considerazione del fatto che l’attuale maggioranza parlamentare, certamente non favorevole al referendum, confida probabilmente sul mancato raggiungimento del quorum, che è stata una caratteristica di tutte le recenti consultazioni popolari di questo tipo. Tale speranza è ulteriormente suffragata dalla drastica riduzione del numero dei votanti nelle recenti elezioni politiche nazionali o locali.
Comunque, in linea teorica, sarebbe possibile emanare un Decreto-legge che introducesse, con effetto immediato e prima della consultazione, modifiche assai rilevanti del testo attuale. Ma anche in questo caso i tempi sono strettissimi, perché la nuova normativa dovrebbe comunque superare il vaglio preventivo della Corte di cassazione.
In ogni caso, ragionando in astratto, la risposta a questa domanda presuppone la descrizione dei principi enucleati dalla legge e dalla giurisprudenza in materia. Infatti, ai sensi dell’art. 39 della l. n. 352/1970, la mancata effettuazione del referendum è condizionata dal fatto che, prima della data del suo svolgimento, la normativa sottoposta al quesito popolare (intesa nel suo complesso o con riferimento a singole disposizioni) sia abrogata. E la Corte costituzionale, con la sentenza 17.5.1978, n. 68, ha dichiarato l'illegittimità dell’art. 39 nella parte in cui non prevede che il referendum debba ugualmente svolgersi qualora all'abrogazione dell'intera normativa o di singole disposizioni segua un’«altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti». Le ordinanze dell’Ufficio Centrale della Cassazione successive a questa pronuncia della Corte fanno sempre riferimento alla necessità di verificare se la nuova normativa abbia realmente effetto innovativo sopra descritto o se, in sostanza, finisca per riprodurre il testo che si intendeva abrogare o lo modifichi in modo non rilevante, lasciando immutati principi ispiratori e contenuti normativi essenziali. E questo anche nel caso di sentenze della Corte costituzionale.
Alla luce di questo contesto normativo e giurisprudenziale, il legislatore dovrebbe intervenire con modifiche sostanziali, sia nel senso auspicato dai promotori del referendum, sia in senso opposto. Nel primo caso la riforma potrebbe riprodurre la disposizione che scaturirebbe dall’accoglimento del quesito referendario o introdurne una che si avvicinasse molto al suo contenuto. Oppure, la nuova normativa potrebbe esprimere una disciplina completamente diversa ed anche molto più liberalizzante di quella attuale. Ad esempio, tornando alla completa acausalità del contratto nel limite massimo dei 24 mesi, escludendo il ruolo dell’autonomia collettiva e di quella individuale. Il legislatore, con la sua discrezionalità politica, ha qui completa libertà. Quello che rileva è il concreto effetto innovativo della nuova disciplina che modifichi i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente e i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, secondo le parole di C. cost. n. 68/1978.
S. Ciucciovino. Non vedo assolutamente praticabile, né tecnicamente, né politicamente, un intervento legislativo in tempo utile per evitare il referendum abrogativo.
A. Morrone. Anche io condivido che le vie di una novella legislativa sono molto improbabili, ora, come anche prima, immediatamente dopo la pronuncia della Corte Costituzionale. In ogni caso, essendo chiaro il verso della domanda popolare, per superare l’ostacolo dell’art. 39 della legge n. 352/1970, il legislatore non avrebbe altra via che quella di superare la liberalizzazione della disciplina e introdurre limiti legali o negoziali al contratto a termine.
V. A. Poso. L’esito positivo del referendum abrogativo sicuramente comporterebbe il venir meno di ogni valutazione, in concreto, sulla sussistenza delle esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti e comunque il superamento della “liberalizzazione” dei contratti a termine, nella prima fase della stipulazione. Descrive bene, la Corte Costituzionale, l’obbiettivo perseguito dalla richiesta referendaria: «L’elettore, in altri termini, è posto dinanzi a un’alternativa secca: da un lato, la riespansione dei vincoli al ricorso al lavoro temporaneo, nella forma della generalizzazione dell’obbligo di giustificazione dell’apposizione del termine al contratto, senza eccezioni con riguardo alla durata del rapporto e in riferimento alle sole ipotesi previste dalla legge o dai contratti collettivi; dall’altro, la conservazione della normativa vigente, che, all’opposto, ne agevola l’impiego».
È, a Vostro avviso, una soluzione positiva il ritorno al regime vincolistico delle causali nei contratti a termine?
A. Morrone. La disciplina non è soggetta a vincoli costituzionali specifici. Resta il fatto che il lavoro rappresenta un valore fondamentale e la sua stabilità un corollario necessario. Il rapporto tra tempo indeterminato e tempo determinato, da questo punto di vista, va inteso nei termini di regola a eccezione. Una valutazione in materia da parte del legislatore gode di ampi margini di discrezionalità, ma resta ferma l’esigenza costituzionale di rispettare quel rapporto. Sarebbe opportuno un intervento di sistema, che adegui l’ordinamento delle relazioni industriali in questa materia alla realtà del mercato del lavoro. Non credo tuttavia che sia questo l’orientamento delle maggioranze politiche: si preferiscono interventi casuali e casistici che alimentano il disordine e la confusione nei rapporti di lavoro. La stessa Corte costituzionale, nel riscrivere molti capitoli del Jobs Act, ha ribadito l’esigenza di un intervento legislativo che riporti razionalità. L’orizzonte, tuttavia, sarà a lungo quello di un tira e molla tra legislazione emergenziale e giurisprudenza creativa, che continuerà ad alimentare un diritto del lavoro inadeguato a proteggere i diritti dei lavoratori.
S. Ciucciovino. In realtà anche il regime attuale è vincolistico. Le assunzioni a termine entro i 12 mesi sono sganciate da causali oggettive ma comunque assoggettati a limiti di durata e di carattere quantitativo. Il ritorno ad una tecnica di limitazione del contratto a termine di tipo oggettivo e legato al ricorrere di presupposti sostanziali sicuramente immetterà una maggiore dose di incertezza applicativa, che non necessariamente si tradurrà in una maggiore tutela per i lavoratori. Piuttosto modificherà in modo sostanziale i canali di controllo dell’occupazione temporanea, attribuendone la gestione unicamente alla fonte collettiva, salvo che per le ragioni sostitutive.
Valerio Speziale. Ho già espresso la mia opinione. Ritengo che il ritorno ad un regime vincolistico delle causali nei contratti a termine, realizzato secondo la volontà dei promotori del referendum o anche con tecniche diverse - con una combinazione tra fattispecie legali legate al concetto di temporaneità delle esigenze tecnico produttive e quelle definite da contratti collettivi stipulati da soggetti effettivamente rappresentativi – sia una soluzione positiva. Non posso che rinviare a quanto ho già detto.
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