ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Appena venuta alla luce, la pronunzia della Consulta concernente la sorte delle persone trattenute nei CPR ha subito animato un fitto dibattito tanto tra gli studiosi quanto in seno agli operatori (in ispecie ai giudici) che – è facile previsione – si espanderà rapidamente a macchia d’olio coinvolgendo una cerchia sempre più larga di commentatori.
La pronunzia appartiene di sicuro al genus delle decisioni d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata; presenta, però, un tratto caratterizzante che la distingue da altre a questa pure, per taluni aspetti, simili in passato adottate. Più volte infatti – come si è ampiamente rilevato in dottrina[1] – si è fatto ricorso al “tipo” di decisione in parola all’esito di un’operazione di “bilanciamento” tra costi e benefici discendenti dall’eventuale caducazione della norma portata alla cognizione del giudice delle leggi; e, assumendo quest’ultimo, che i primi superino, talora di gran lunga, i secondi, si preferisce far luogo ad un verdetto che non aggravi ulteriormente il vulnus recato alla Carta costituzionale, quale invece si avrebbe per effetto della caducazione stessa[2]. Non si trascuri, perciò, che talora il vuoto di disciplina può essere ancora più incostituzionale del mantenimento della stessa o può portare alla “reviviscenza” di discipline risalenti esse pure, per ragioni varie, di problematica compatibilità con il dettato costituzionale o, come che sia, inidonee a dare appagamento a bisogni elementari della persona umana, a partire da quello – indisponibile – della salvaguardia della propria dignità.
Insomma, per dura che possa essere da digerire, la “logica” è quella del male minore.
È chiaro che la Corte perviene a quest’esito nell’assunto, da cui la stessa muove, che non le sia consentito mettere in atto una manipolazione del testo di legge, avendosene altrimenti una invasione del campo materiale riservato al legislatore e, dunque, una incisione dell’apprezzamento discrezionale di quest’ultimo, cui la Corte reputa di non poter appunto nella circostanza sovrapporre il proprio.
Ora, sul limite della discrezionalità del legislatore si è – come si sa – molto discusso e si potrebbe discutere ancora a lungo. Non è un caso, d’altronde, che in relazione a talune vicende in cui erano in gioco diritti fondamentali della persona, rimasti inappagati a causa del grave e perdurante letargo del legislatore, la Corte, magari dopo un iniziale rigetto della medesima questione accompagnato da un monito severo indirizzato al legislatore stesso, abbia rotto ogni indugio e fatto quindi luogo ad una sostanziale riscrittura di un testo normativo mal fatto, la cui incompatibilità rispetto alla legge fondamentale della Repubblica era già stata appunto acclarata ma non dichiarata.
Il caso odierno appare, tuttavia, essere parzialmente diverso. La disciplina legislativa c’era già da tempo. Solo che, muovendo dall’assunto che nella vicenda de qua si sia in presenza di una limitazione della libertà personale, i “casi” al ricorrere dei quali la limitazione stessa può aversi risultano sufficientemente normati, mentre fa difetto la determinazione dei “modi” con i quali la libertà in parola può essere compressa. La disciplina positiva, insomma, si articola in due parti, l’una giudicata congrua, l’altra priva di riscontro alcuno in fonti normative di rango primario.
Non si è, dunque, in presenza di alcun “bilanciamento”, nel senso sopra precisato, che investa l’intera disciplina sub iudice. C’è l’accertamento di una invalida omissione legislativa, parziale e però – a dire della Corte – non rimediabile a mezzo degli strumenti processuali che la Corte stessa si è forgiata e che ha con il tempo progressivamente arricchito ed affinato.
La disciplina, in realtà, si ha ma – come si dirà a momenti – non risponde alle indicazioni dell’art. 13 Cost.; e, in quanto proveniente da una fonte priva di valore di legge, non avrebbe potuto (e, così com’è, non potrebbe) essere caducata in sede di giudizio sulle leggi ed atti a queste equiparati.
Si ha qui un meccanismo, dal legislatore molte volte allestito nei campi più varî di esperienza ed in relazione alle parimenti più varie esigenze di regolazione, che somiglia alle classiche scatole cinesi, ovverosia – ove si preferisca ricorrere ad altra immagine – si ha una “catena” di atti, normativi prima e di amministrazione poi, strutturalmente e funzionalmente connessi e conducenti alla produzione di un unico, finale effetto. Per dir meglio, è chiaro che ogni atto ha un proprio effetto, non concependosi alcun atto che ne sia privo così come, circolarmente, nessun effetto che non consenta di risalire alla fonte che lo produca. Ciò che, però, maggiormente conta è l’effetto globale, unitario appunto, della “catena”.
Occorre, dunque, vedere come gli atti evocati in campo dal caso qui specificamente interessante si compongano in unità significante.
Giusta la premessa secondo cui il “trattenimento dello straniero presso centri di permanenza e assistenza comporta una situazione di ‘assoggettamento fisico all’altrui potere’” (Corte cost. n. 96 del 2025, p. 9 del cons. in dir., ed ivi richiami di giurisprudenza anteriore), risulta di conseguenza avvalorato il carattere restrittivo[3] della libertà personale e, con esso, la natura assoluta della riserva di legge cui l’art. 13 rinvia in ordine alla disciplina dei “casi” e dei “modi” di limitazione della libertà stessa.
Qui, per vero, la pronunzia della Corte parrebbe non essere esente di qualche oscillazione, dal momento che, per un verso, parrebbe accontentarsi di una regolamentazione con legge dei “modi” stessi “nel loro nucleo essenziale” (p. 10.1 del cons. in dir.), mentre per un altro verso sollecita la legge a dare una “disciplina compiuta” (si direbbe, perciò, ben oltre il “nucleo”…), comunque idonea ad assicurare “un’adeguata base legale” ad alcune istanze dalla stessa Corte in via esemplificativa indicate, in relazione “alle caratteristiche degli edifici e dei locali di soggiorno e pernottamento, alla cura dell’igiene personale, all’alimentazione, alla permanenza all’aperto, all’erogazione del servizio sanitario, alle possibilità di colloquio con difensore e parenti, alle attività di socializzazione” (p. 11 del cons. in dir.).
Ebbene, tutto ciò non si ha in forza di quanto disposto dall’art. 14, II c., d.lgs. n. 286 del 1998, che rimanda all’art. 21, VIII c., d.P.R. n. 394 del 1999, il quale a sua volta rimanda per la determinazione dei servizi da assicurare alle persone trattenute nei CPR a misure adottate dal prefetto, sentito il questore, e in esecuzione di direttive impartite dal Ministro dell’interno.
La “catena”, dunque, si compone di un atto avente forza di legge solo per il suo “anello” iniziale, di una fonte di secondo grado per l’“anello” centrale e, quindi, di “anelli” risultanti da provvedimenti amministrativi: è, insomma, una “catena” mista, risultante da atti di normazione, aventi grado diverso, e da atti di amministrazione.
Stando così le cose, lo scostamento dal disegno costituzionale appare evidente ed avrebbe pertanto meritato una conclusione ben diversa da quella cui è pervenuta la Corte.
Se la riserva di legge posta nell’art. 13 è di tipo assoluto (e non si ha motivo di dubitare che sia così), nessuna manipolazione del dettato legislativo è qui possibile, dal momento che sarebbe comunque fuori bersaglio. Il marcio è, infatti, nella disciplina sublegislativa, specificamente nella parte in cui individua nel prefetto, e non già nel giudice, l’organo competente a porre in essere le misure che riguardano le persone trattenute nei CPR. Solo che, risultando la disciplina stessa da fonte di secondo grado, nessuna pronunzia manipolativa (nella specie, sostitutiva) può riguardarla, risultando pertanto immune dall’opera sanatoria della Corte.
L’opposta soluzione potrebbe essere accolta unicamente a ragionare nel senso che la fonte di primo grado abbia fatto luogo ad un rinvio ricettizio della fonte secondaria. Viene, però, assai arduo immaginare che, specie in una materia quale questa in cui si fa questione di limitazioni alla libertà personale, la legge o atto equipollente ci abbia consegnato una pagina bianca da riempire a piacimento da parte di un futuro atto di secondo grado. Cosa diversa sarebbe stata se il rinvio ricettizio fosse stato fatto nei riguardi di una disciplina già conosciuta dal legislatore e da questi giudicata appunto idonea ad assicurare il rispetto delle condizioni poste dalla Carta costituzionale.
Il difetto di una normazione concernente profili della disciplina legislativa dalla Carta stessa considerati essenziali, allo stesso tempo in cui rende viepiù evidente l’obbligo del legislatore di attivarsi con la massima sollecitudine per colmare la lacuna legislativa acclarata dalla Corte, non consente, per l’intanto, soluzione alcuna diversa da quella della impossibilità di mettere in atto qualsivoglia misura limitativa della libertà personale.
Di cristallina chiarezza ai miei occhi appare, dunque, la conclusione del giudice della sezione specializzata della Corte d’appello di Cagliari, Sez. distaccata di Sassari (N.R.G. 290/2025 del 4 luglio 2025): “in assenza di quella determinazione dei ‘modi’ della detenzione, non ‘ancora’ disciplinati dal legislatore con fonte primaria, non può che riespandersi il diritto alla libertà personale, il cui vulnus è chiaramente espresso dalla Consulta, perché qualunque ‘modo’ non disciplinato da norma primaria non riveste il crisma della legalità costituzionale ed è legalmente inidoneo a comprimerla”.
[1] Riferimenti possono, volendo, aversi da A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale7, Giappichelli, Torino 2022, spec. 227.
[2] Insomma, è come nei casi di accertamento implicito di colpevolezza contenuto nell’involucro di una pronuncia formalmente proscioglitiva, cosa che può avvenire per varie ragioni (estinzione del reato, mancanza di una condizione obiettiva di punibilità, ecc.).
[3] … e, persino, privativo, stando ai criteri elaborati dalla Corte EDU sin dal caso Asinara.
Sommario: 1. Una svolta epocale: affidarsi al fato o sfidare la sorte? - 2. L’addetto all’Ufficio per il Processo: da figura ibrida a “responsabile paragiurisdizionale del procedimento” – 3. Conclusioni.
1. Una svolta epocale: affidarsi al fato o sfidare la sorte?
Il Fato, termine di origine latina, derivante dal verbo fari, che significa "dire", "parlare", al participio passato neutro si declina in fatum, che vuol dire "ciò che è stato detto" o "la parola detta”, intendendosi dalla divinità, insomma un susseguirsi degli eventi a cui ci si deve adeguare ed è inutile tentare di sottrarsi.
E infatti, in età più matura, lo stesso termine fu usato per designare il Destino, in quanto necessità suprema e ineluttabile o potere misterioso e incontrastato[1], figlio del Caos e della Notte, al quale nessuno, nemmeno gli dei, potevano sottrarsi e di cui persino Giove non ne è che un esecutore.
Facendo un passo indietro, nei poemi omerici il destino è indicato da Moira, che letteralmente indica "parte" di vita, di felicità o di sfortuna, che è assegnata all'uomo.
Dietro il termine "destino" si nascondeva il timore che l'uomo provava dinanzi all'ignoto. Il fato è irrevocabile, mentre il destino può essere cambiato. L'uomo si è sempre interrogato sulla sua condizione di essere mortale; un esempio attuale è quello del Covid19 (coronavirus), che ci ha dimostrato che non si può nulla contro un evento imprevisto e preparato dal caso, come un'epidemia.
Anche nell’epoca latina ancora influenzata dal pensiero greco, tuttavia, non mancarono scettici razionalisti come Appio Claudio Cieco, secondo cui homo faber fortunae suae, espressione propria di un periodo di forte espansione del potere di Roma.
Ora, com’è ormai noto e diffuso nella letteratura scientifica, l’Ufficio per il Processo, nato invero da norme risalenti nel tempo[2], e il cui destino, nonostante iniziative pregevoli portate avanti a macchia di leopardo su e giù per l’Italia[3], era quello di un complessivo affievolimento, ha conosciuto, invece, a seguito del periodo pandemico, un rilancio attraverso il PNRR e nello specifico tramite la legge 26 novembre 2021, n. 206 e la legge 27 settembre 2021, n. 134, ciò oltre alle norme per il reclutamento straordinario di risorse utili all’attuazione dello stesso piano nazionale previste nel decreto - legge 9 giugno 2021, n. 80 - Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l'efficienza della giustizia - convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2021, n. 113 e in ultimo grazie al D. Lgs. 151/2022.
Il Piano si è proposto l’ambizioso obiettivo di concorrere al “rafforzamento della capacità amministrativa del sistema, che valorizzi le risorse umane, integri il personale delle cancellerie, e sopperisca alla carenza di professionalità tecniche, diverse da quelle di natura giuridica, essenziali per attuare e monitorare i risultati dell’innovazione organizzativa; il potenziamento delle infrastrutture digitali con la revisione e diffusione dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali e di trasmissione di atti e provvedimenti”[4].
Appare allora il caso di soffermarsi solo sulle novità introdotte dall’ultimo intervento normativo che, anche correggendo il tiro delle precedenti indicazioni, hanno in qualche maniera cristallizzato e strutturato l’Ufficio per il Processo.
L’art. 1, comma 18 della legge delega 26 novembre 2021, n. 206 sulla riforma della giustizia civile ha previsto l’istituzione in via stabile, presso tutti gli uffici giudiziari, sia civili che penali, dell’Ufficio per il processo. La scelta è indicativa della volontà di assegnare all’organizzazione una funzione centrale e trasversale nella giustizia ordinaria e amministrativa[5].
L’istituto raggiunge “finalmente” una stabilità sistematica, collocandosi fermamente fra le risorse che concorrono allo svolgimento della funzione giudiziaria, in particolare con gli artt. 16, 17, 18 e 19 delle disposizioni finali e transitorie del d. lgs n. 151/2022.
Nell’ottica di sistematicità il più importante appare l’art. 18 che introduce nel codice di procedura civile (capo II del titolo I del libro I) l’art. 58 - bis che riconosce all’ufficio per il processo la dignità di struttura stabile e indispensabile per l’esercizio della giurisdizione, allontanando le preoccupazioni di un eventuale abbandono o indebolimento dell’istituto (con dispersione delle ingenti risorse per esso investite), dopo il raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e abbattimento dell’arretrato imposti per la dead line del 2026 [6].
Le disposizioni generali, contenute nel capo I, meritano un’attenta analisi perché puntualizzano alcuni aspetti dai quali traspare l’importanza assegnata alla struttura organizzativa, per un salto non solo quantitativo ma anche qualitativo della giurisdizione.
Infatti, nelle disposizioni generali (art. 2), tra le finalità dell’UPP si prevede la realizzazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo[7] (art. 111 Cost.) attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi e un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con ciò prospettando come risorsa indispensabile la digitalizzazione[8].
La direzione e il coordinamento degli uffici per il processo e dell’ufficio spoglio, analisi e documentazione sono affidati ai capi degli uffici, ai quali viene attribuito il compito di predisporre il progetto organizzativo, definire le priorità di intervento, gli obiettivi da perseguire e le azioni per realizzarli, nonché di individuare, di concerto con il dirigente amministrativo, il personale da assegnare agli UPP (art. 3).
Il successivo art. 4 elenca le figure professionali che andranno a costituire gli uffici per il processo e gli uffici spoglio, analisi e documentazione, e precisa che ciascun componente svolge i compiti attribuiti secondo quanto previsto dalla normativa, anche regolamentare, e dalla contrattazione collettiva relativa alla figura professionale di appartenenza.
Il capo II del decreto in esame tratteggia i compiti dei componenti dell’ufficio per il processo e dell’ufficio spoglio, analisi e documentazione, distinguendo a seconda della tipologia di ufficio giudiziario. Nella descrizione, il legislatore delegato (art. 5, comma 1) ha utilizzato la formulazione «sono attribuiti uno o più fra i seguenti compiti»: tale espressione induce a ritenere che l’elencazione delle attività sia tassativa e non meramente esemplificativa.
Al riguardo, si osserva che la previsione del successivo art. 11 – che prevede che gli UPP e gli uffici spoglio debbano svolgere «anche le ulteriori attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria e di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi degli uffici giudiziari, previste dai relativi documenti organizzativi» – impone un coordinamento fra le due norme, in quanto i progetti organizzativi costituiscono un riferimento centrale per la valorizzazione delle attività degli UPP che potranno, però, svolgersi solo all’interno della elencazione prevista dall’art. 5.
Insomma, viste le norme che precedono, potremmo iniziare a pensare che in questo caso, dopo anni di ritardi, accumulo di processi di vecchia data a scapito anche della qualità dei provvedimenti giurisdizionali, l’Italia abbia battuto un colpo e abbia deciso di non abbandonarsi al fato ma di incidere sul proprio destino.
Questa spinta si è concretizzata innanzitutto in un ingente afflusso di risorse umane, circa dodicimila assunzioni[9] ma anche in una riorganizzazione dell’attività giurisdizionale.
Il singolo magistrato non è più un’isola ma è la punta di diamante di un team che si organizza e gestisce in funzione della migliore risposta da dare alla richiesta di giustizia.
Ma in questa nuova organizzazione una nuovissima figura si è affacciata, l’addetto all’Ufficio per il Processo, cui è stato anche dato il maggior peso numerico nelle fasi assunzionali, oltre novemila nuove unità: basterà il solo apporto numerico a migliorare le performances degli uffici giudiziari?
2. L’addetto all’Ufficio per il Processo: da figura ibrida a “responsabile paragiurisdizionale del procedimento”
Già nel settembre 2022, a pochi mesi dall’entrata in funzione del “nuovo” Ufficio per il Processo, prima che giungesse un aggiornamento normativo, l’articolo a firma del Presidente di Cassazione Raffaele Frasca[10], con straordinaria e lucida lungimiranza, poneva il problema, e ne forniva una dirimente interpretazione, della figura e della gestione c.d. “ibrida”[11] dell’Addetto all’Ufficio per il Processo.
Invero, prima che le norme rassegnate nel paragrafo precedente vedessero la luce, l’autore si era trovato ad affrontare l’esigenza che l’Addetto fosse, anche per dar seguito al raggiungimento degli obiettivi PNRR, impiegato appieno nell’attività di supporto alla funzione giurisdizionale attraverso i seguenti sintetici compiti: “l’addetto partecipa, sotto la supervisione del presidente di sezione o di altro magistrato, allo spoglio delle nuove iscrizioni, allo studio del fascicolo, alla predisposizione di schemi e di bozze di provvedimenti semplici, alla preparazione dell’udienza e al controllo delle notifiche, alla analisi dei ruoli per verificare serialità di procedimenti, scadenze imminenti e così via”.
Si sosteneva, inoltre, mi perdonerà l’autore la sintesi del testo, che, da una parte la funzione di “raccordo con le cancellerie” attribuita prima facie mediante circolari ministeriali[12] e, dall’altra, il gruppo di mansioni prettamente di assistenza all’azione giudiziaria, collidessero tra loro e che dovesse darsi prevalenza alla seconda funzione, giacché più chiara espressione delle intenzioni del legislatore e dell’intento di sostegno al piano emergenziale. Si sosteneva, infine, che vi fosse un angolo riservato al controllo del lavoro degli AUPP appannaggio del dirigente amministrativo ma limitato agli aspetti prettamente organizzativi del personale quali, ad esempio, gestione delle presenze, articolazione dell’orario di lavoro, concessione di benefici previsti dalle norme di contrattazione collettiva, permessi e ferie, attribuzione dei buoni pasto ecc.
Il D. Lgs. 151/2022, all’art. 11, pone questa norma di chiusura che, per quanto dal carattere ampio e residuale, “…le ulteriori attività di supporto all’esercizio della funzione giudiziaria…”, è precisa nell’escludere che il funzionario AUPP possa in qualche misura essere precipuamente adibito a funzioni proprie di cancelleria ma, si precisa, che lo stesso possa svolgere solo una funzione di raccordo con le cancellerie e i servizi amministrativi.
Inoltre, come evidenziato nel precedente paragrafo, il testo di legge ha riaffermato la funzione di raccordo ma ha posto delle norme che appaiono in contrasto tra loro lasciando non chiaro l’orizzonte di impiego di tali risorse, soprattutto in termini di ponderazione del lavoro tra le due sponde dell’organizzazione giudiziaria (amministrativa/giudiziaria).
La pratica ci ha insegnato che quanto poc’anzi teorizzato spesso non è avvenuto: sono molteplici le esperienze, nelle varie sedi giudiziarie, che hanno visto impiegato il personale AUPP per svolgere funzioni prettamente di cancelleria. In tal senso è emblematico che addirittura esista in dottrina l’enucleazione di un modello organizzativo dell’Ufficio per il Processo denominato “Supporto alla Cancelleria”[13] applicato in quelle sedi giurisdizionali dove l’AUPP svolge per lo più compiti di supporto alla cancelleria (laddove vi sia carenza di personale di cancelleria) distogliendolo dal supporto all’attività giurisdizionale dei magistrati[14].
Con una sintesi che potrà apparire poco romantica possiamo affermare: di essere di fronte a un lavoratore inquadrato in area terza - contratto personale amministrativo del Comparto Funzioni Centrali, la cui figura professionale è definita per legge ma non ancora contrattualmente recepita e declinata; questo lavoratore, in teoria dipende per tutti gli aspetti amministrativi dalla dirigenza amministrativa ma la gestione, intesa come collocazione della risorsa all'interno dell'unità organizzativa finalizzata a un risultato, intesa come assegnazione specifica dei compiti e delle mansioni quotidiane, dell’attività lavorativa e delle specifiche sue declinazione, è prevalentemente assegnata a magistrati, come si deduce, senza mezzi termini dall'art. 3, comma 2 del D. Lgs. 151/2022: “Il capo dell’ufficio…dirige e coordina l’attività degli uffici per il processo…”[15].
La soluzione a una tale dicotomia è quella opportunamente suggerita dalla Dirigente della Corte di Appello di Brescia, Antonella Cioffi[16], la quale richiede di porre la questione sotto l’ottica della “dirigenza integrata” in quanto è demandato al capo dell’ufficio il governo della giurisdizione, la sua organizzazione e la definizione dei suoi obiettivi, restando in capo alla dirigenza amministrativa governare e organizzare le risorse necessarie all’esercizio della giurisdizione.
Dunque, chiarito che l’Addetto all’Ufficio per il Processo debba rivolgere il grosso della propria attività lavorativa al servizio dell’azione giurisdizionale, resta da indagare come possa fornire il proprio apporto e allora quale possa essere la natura di questo apporto.
Da parte di alcuni[17]occorre procedere rivolgendo specifiche politiche pubbliche, in questo caso appunto quella sviluppata in capo all’Ufficio per il processo, con un focus ancor più attento sul risanamento organizzativo e innovativo degli uffici giudiziari. Tale riforma ha previsto, e ne va sfruttata l’opportunità, un supporto diretto all’attività giurisdizionale ponendosi in quella zona “grigia” tra azione amministrativa e azione giudiziaria, coprendo un vuoto che era avvertito e cercando quindi di operare un raccordo funzionale tra le rispettive attività. È pur vero, a riguardo, come già accennato sopra, che spesso si è insistito sul rafforzamento della capacità amministrativa, mentre è evidente che l’azione deve essere diretta, nella sua potenza innovativa, alla trasversalità organizzativa, integrando la collaborazione tra le diverse posizioni, tutte dirette a migliorare efficacia, efficienza ed economicità nell’erogazione dei servizi di giustizia[18].
Potremmo, forse, allora affermare che l’efficienza della giustizia debba passare per il “nuovo” Ufficio per il processo solo se questo sarà in grado di coniugare organizzazione, attività e professionalità diventando così il baricentro dell’azione giudiziaria globalmente intesa (parte giurisdizionale e amministrativa insieme), divenendo così una sorta di “responsabile del procedimento giudiziario”, mutuando il notorio istituto giuridico del responsabile del procedimento amministrativo che negli anni novanta stravolse positivamente il mondo della pubblica amministrazione italiana.
È apparso allora a molti autori e addetti ai lavori[19] che la soluzione non si trovi nella regola del processo[20] ma piuttosto che sia stata opportuna la scelta del legislatore di intervenire sui distinti livelli della revisione della struttura giudiziaria e amministrativa attraverso la valorizzazione del ruolo delle persone, delle infrastrutture digitali, con evidente impatto sull’agire informato e la velocizzazione della trasmissione delle informazioni, e perfino dell’edilizia giudiziaria.
In questo rinnovato quadro l’Ufficio per il Processo è il modulo organizzativo e il fenomeno pratico in grado di avverare il cambiamento e il funzionario addetto all’ufficio è l’anello di congiunzione delle diverse funzioni e competenze che permette concretamente di realizzarlo. Nello svolgimento delle sue funzioni, infatti, l’addetto all’ufficio dovrebbe preparare il materiale utile al giudice per una più celere organizzazione delle sue attività; coadiuvarlo nella programmazione dell’agenda anche in considerazione delle diverse tipologie di udienza; verificare il prospetto dinamico delle cause pendenti nel ruolo del giudice, attraverso adeguate tecnologie; tenere un monitoraggio delle cause pendenti a seconda della natura della controversia, dell’oggetto della domanda e della fase processuale; creare una tassonomia dei provvedimenti giudiziari al fine di utilizzare celermente i relativi modelli; elaborare un cronoprogramma delle attività sempre aggiornato per rendere rapida, funzionale, ordinata la raccolta dei materiali, lo studio del caso, la predisposizione dei modelli e la redazione delle bozze di provvedimento.
Ferma restando la consapevolezza della, costituzionale, completa autonomia e indipendenza della magistratura e, dunque, della funzione giudicante, non si può escludere che l’attività di case management, ovvero di preparazione del processo, per tradizione svolta più o meno consapevolmente solo dal giudice, possa essere condivisa e oggetto di collaborazione[21].
In quest’ottica, ci suggerisce la Prof.ssa Paola Lucarelli, nel suo saggio Giustizia Sostenibile[22], risulta indispensabile la formazione di una nuova professionalità, quella del funzionario addetto all’ufficio per il processo che fin dagli studi universitari[23] possa acquisire le conoscenze relative agli uffici giudiziari, apprendere le basi della statistica, dell’informatica, dell’organizzazione aziendale, anche nel percorso di studio del diritto, appropriarsi, dunque, della cultura della giustizia sostenibile, efficiente e di qualità[24].
In quest’ottica di apertura e di innovazione vi è anche chi ha suggerito una delega ai funzionari di compiti “paragiurisdizionali”[25] per l'attuazione e lo sviluppo del Processo Civile Telematico, nella triplice direzione della comunicazione tra i soggetti del processo, della conduzione dell'udienza "informatizzata" e della dotazione a giudici e cancellerie di strumenti di analisi dei ruoli per la più consapevole ed efficace gestione del contenzioso. La valorizzazione delle risorse telematiche, liberando energie oggi malamente o impropriamente utilizzate costituisce anche la premessa di un generale processo di riqualificazione professionale che, come si diceva poc’anzi, potrebbe anche portare alla delega, ai funzionari UPP, di eventuali e limitati compiti di natura paragiurisdizionale, alla stregua di quanto già accade in ambito europeo,[26] verosimilmente laddove si tratti di produrre provvedimenti prettamente schematici, caratterizzati da ripetitività e automatismo (si pensi ad esempio ai decreti di liquidazione degli onorari e a tutti quei provvedimenti che si sviluppano su presupposti prettamente aritmetici).
3. Conclusioni
Questi primi tre anni passati dall’avvio del rilancio dell’Ufficio per il Processo ci permettono un’analisi più ampia e sistematica, passando dal crudo dato normativo previsionale, formale e freddo, al dato vivo dell’esperienza sul campo.
I dati del monitoraggio pubblicati nel 2025 ci rivelano che l’obiettivo intermedio è stato invero raggiunto, per lo smaltimento delle pendenze civili più risalenti, previsto per la fine del 2024. Nelle Corti d’appello l’arretrato del 2019 è praticamente eliminato. Tuttavia, il trend positivo che aveva caratterizzato i primi due anni ha subito un leggero rallentamento, quantomeno nell’ambito civile. Il massiccio apporto di risorse operato in questi anni da solo non basta.
Bene le competenze e la preparazione tecnica dei nuovi assunti ma occorre andare oltre e con l’ausilio di validi insegnanti è necessario formare lavoratori e professionisti che svolgono ruoli aperti e si identificano in professioni a larga banda: ciò è necessario, ma non sufficiente. La formazione deve essere continua e deve formare persone vere, capaci di vivere bene e non solo di lavorare bene, persone integrali, che forniscano alla propria missione un valore aggiunto, che si sentano parte di un gruppo e che avvertano il proprio lavoro come parte di un progetto finalizzato a un obiettivo grande e ambizioso.
La direzione è quella che va verso la creazione di persone che non siano un’incarnazione dell’animal laborans, ma espressione dell’homo faber[27], di cui all’incipit iniziale, ossia persone che non siano esaurite nell’oggetto prodotto o nel servizio fornito ma l’insieme di un progetto che sappia creare valore aggiungendo a un’attività basica la capacità di migliorare l’ambito in cui si sta operando[28].
E migliorare il proprio ambito, nell’ambiente giustizia, significa andare oltre le difficoltà e i limiti di un sistema che deve innovarsi per migliorare e soprattutto non ricadere più negli errori del passato, affinché il Piano Nazionale non sia solo una soluzione temporanea ai problemi della giustizia ma incida strutturalmente nel cambiamento dell’organizzazione della giustizia e ne istituisca il definitivo superamento delle più grosse criticità. Il Piano nazionale deve essere l’occasione per creare un nuovo modello di gestione della giustizia. La strada è stata intrapresa, il legislatore ne ha posto le fondamenta arricchendo i codici procedurali di questa nuova modalità di organizzazione dell’ufficio giudiziario e da qui, non si può più tornare indietro.
Il futuro dell’Ufficio per il Processo è oltre il PNRR, occorre spostare l’attenzione dalla sterile analisi dei – pur fondamentali – flussi dei dati, a quella della organizzazione e della qualità della giurisdizione[29].
Se, come detto, i nuovi funzionari UPP possono e devono radicare la propria presenza per un apporto baricentrico all’interno dell’insieme delle procedure amministrativo/giudiziarie che interessano il processo (lato sensu inteso) dall’altro lato tale apporto si compie solo con la fattiva collaborazione e il cambio di paradigma che interessa il lavoro del giudice. E su questa via a dire il vero la magistratura si è mostrata non solo propulsiva ma anche entusiasta, esprimendosi positivamente oltre che sul campo anche in tutte le occasioni pubbliche in cui ha apprezzato che, dopo tanti anni, una nuova, forte riforma potesse essere attuata e non dovesse passare solamente dal cambiamento delle regole del gioco (ergo le norme procedurali).
È allora certamente questo il momento, questa la sliding doors, a un anno dalla fine dell’apporto del PNRR, per non abbandonarsi al fato ma incidere e costruire il proprio destino, operando definitivamente il cambiamento in atto e avendo il coraggio di innovare andando anche oltre le attuali previsioni normative.
L’attuale percorso risulta tortuoso, l’ibridazione di cui si è detto lascia dubbi e incertezze interpretative, l’apporto del funzionario UPP appare incompleto se, per ogni adempimento che questi si appresta a portare avanti, sia sempre necessaria la supervisione e la definitività del lavoro del magistrato. Così facendo, pur avendo “liberato” in buona parte la risorsa giudicante/requirente per dedicarla al cuore della propria attività, risulta comunque ancora onerata da incombenze burocratiche.
Certo, immaginare competenze “paragiurisdizionali” in capo a un personale prettamente amministrativo pone non pochi interrogativi di tenuta costituzionale del nostro ordinamento, ma è pur vero che già esiste la figura del giudice onorario e che sperimentazioni in vari campi e ambiti si sono tenuti nel passato.
La discussione, in subiecta materia, sembra aperta e il dialogo interdisciplinare (tra magistratura, forze politiche, amministrazione, dottrina) siamo sicuri darà ancora risposte positive e costruttive al bisogno di una giustizia definitivamente giusta[30].
[1] V. voce FATO, in DEVOTO-OLI Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, 2024, p. 586.
[2] Articolo 16-octies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, così come modificato dall’articolo 50 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 114; decreto del Ministro della giustizia 1 ottobre 2015; decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116; articoli 10 e 10-bis della Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti per il triennio 2017-2019; risoluzione su “[l]’ufficio per il processo oggi: esito del monitoraggio del CSM sulla istituzione e sul funzionamento dell’Ufficio per il processo negli uffici giudiziari: ruolo della magistratura onoraria e diritto transitorio”, approvata dal plenum del Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 18 giugno 2018; linee guida del Consiglio superiore della magistratura in data 15 giugno 2019.
[3] Il Progetto unitario, sulla diffusione dell’Ufficio del Processo e l’implementazione di modelli operativi innovativi negli Uffici giudiziari per lo smaltimento dell’arretrato, è stato sviluppato a cura della Direzione generale per il coordinamento delle politiche di coesione del Ministero della Giustizia in collaborazione con 56 Atenei e 26 Distretti di Corte d'Appello.
La finalità del progetto era quella di potenziare le attività di modernizzazione del Sistema giustizia così come previsto dall’obiettivo 1.4 del PON Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020 “migliorare e consolidare l’efficienza e la qualità del sistema giudiziario”.
[4] Si veda PNRR, pp. 58-59, https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf. Inoltre, si veda, prima del PNRR: ORLANDO, Ufficio per il processo: resta il nodo risorse, in Guida al diritto, 2014, 29 e 85.
[5] Sul tema si rinvia al contributo di Antonella Di Florio, già consigliera di Cassazione, in Questione Giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/dlgs-upp-2022.
[6] Così Antonella Di Florio, ibidem, Questione Giustizia.
[7] Per un approfondimento cfr., PAOLO BONINI E DONATO GRECO, Principi generali, in FERRUCCIO AULETTA E SILVIA RUSCIANO (a cura di), Ufficio per il processo, Commentario del Codice di Procedura Civile, Bologna, 2023, p. 14 riguardo al principio di ragionevole durata del processo che “impone alla Stato e ai suoi organi giudiziari di rispondere alle istanze di giustizia, in sede civile, penale e amministrativa, entro un arco temporale corrispondente a criteri di efficienza, lungi da una concezione puramente quantitativa, non si limita a richiedere che l'attività giurisdizionale sia esercitata in tempi rapidi, laddove un aspetto qualificante si insinua nell'elemento della ragionevolezza. Infatti, il principio rientra nel più ampio concetto di giusto processo e in esso trova anche un contrappunto, dovendo bilanciarsi con le esigenze di garanzia che informano il diritto processuale”.
[8] I primi obblighi di deposito telematico in ambito civile si sono avuti nel 2014 con la L. 24 dicembre 2012, n. 228; ancora oggi, invece, il processo penale telematico fatica a decollare.
[9] 9.560 addetti all’Ufficio per il processo laureati in scienze giuridiche ed economiche. Il dato è stato incrementato a seguito della revisione del PNRR rispetto agli originali 8.250 addetti previsti. 2.100 unità di personale amministrativo e tecnico laureati con profili IT senior, tecnico di contabilità senior, tecnico di edilizia senior, tecnico di amministrazione, tecnico statistico, analista di organizzazione. 145 unità di personale amministrativo e tecnico diplomati specializzati con profili IT junior, tecnico di contabilità junior, tecnico di edilizia junior. 2.500 unità di personale amministrativo e tecnico diplomati non specializzati con profilo di operatore di data entry. Al 30 giugno 2024 erano in servizio 11.999 unità di personale, di cui 8.980 Addetti all'Ufficio per il processo e 3.019 unità di personale amministrativo e tecnico. Fonte sito internet Ministero della Giustizia: https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/pnrr_capitale_umano.
[10] RAFFAELE FRASCA, Presidente Titolare della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, Dirigenza giurisdizionale e dirigenza amministrativa riguardo agli addetti all’U.P.P. presso la Corte di Cassazione, in GIUSTIZIA INSIEME, Pisa, 8 settembre 2022: https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/28-organizzazione-giustizia/2437-dirigenza-giurisdizionale-e-dirigenza-amministrativa-riguardo-agli-addetti-all-u-p-p-presso-la-corte-di-cassazione.
[11] Sul punto si v. ANTONELLA CIOFFI, Il ruolo del dirigente amministrativo nell’ufficio per il processo, in CLAUDIO CASTELLI (a cura di), L’Ufficio per il processo, Pisa, 2024, pp. 79 e ss.
[12] La prima, 3 novembre 2021, intitolata «Piano Nazionale di ripresa e resilienza – Avvio progetto Ufficio per il processo – Informazione e linee guida di primo indirizzo sulle attività organizzative necessarie per l’attuazione», e quella del 21 dicembre 2021, intitolata «Reclutamento, mansioni, formazione e modalità di lavoro dei primi 8.250 addetti all’ufficio per il processo assunti ai sensi del decreto-legge n. 80 del 2021».
[13] Sul punto si v. GIANCARLO VECCHI, L’ufficio per il processo: i modelli organizzativi, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., p. 58.
[14] Si v. il Documento del Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi 2024.
[15] ANTONELLA CIOFFI, Il ruolo del dirigente amministrativo nell’ufficio per il processo, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., p. 83.
[16] ANTONELLA CIOFFI, ibidem, pag. 91.
[17] Ad esempio, si veda VALENTINA CAPUOZZO, Capacità amministrativa ed efficienza dell’azione giurisdizionale: il nuovo ufficio per il processo, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, Fascicolo n. 3/2024, pp. 1-14.
[18] Sul punto si v. ex multis E. BORGONOVI, G. FATTORE, F. LONGO, Management delle istituzioni pubbliche, MILANO, 2015, pp. 199 e ss.; M. CUCCINIELLO, G. FATTORE, F. LONGO, E. RICCIUTI, A. TURRINI, Management pubblico, MILANO, 2018, PAG. 305 e ss.
[19] Tra gli altri, CLAUDIO CASTELLI, La crisi della governance del sistema giustizia, in Questione Giustizia, 2023
[20] Per un’analisi delle ragioni per le quali pure nei decenni precedenti l’inizio del secolo, nonostante i numerosi ma sempre frammentari interventi di riforma del processo civile, i numeri del contenzioso non diminuivano, anzi crescevano di anno in anno, si ricorda che è stata individuata «un’incidenza sugli obiettivi di effettività e celerità della tutela giudiziaria della ripartizione tra il giudice e le parti dei poteri nel governo del processo», ma non sembra che gli interventi sulla distribuzione di tali poteri siano stati influenti e sufficienti ai fini del raggiungimento degli obiettivi: vedi GIORGIANTONIO CRISTINA, in Questione Giustizia n. 1, 2010, p. 109, https://www.researchgate.net/publication/235930281_Le_riforme_del_processo_civile_italiano_tra_adversarial_system_e_case_management.
[21] Ficcarelli, Beatrice. 2011. Fase preparatoria del processo civile e case management giudiziale. Napoli-Roma: Esi.
[22] PAOLA LUCARELLI, Giustizia sostenibile, cit., p. 29.
[23] VINCENZO ANSANELLI, Uno sguardo comparato, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 179 e ss., dove si evidenzia che in molti ordinamenti stranieri sono già presenti sviluppi di una figura professionale del tutto simile al nostro AUPP: Law Clercks (in Corte Suprema sono i Pool Clercks) in America con funzione che vanno dal pre-udienza, all’assunzione di prove ora e fino alla reazione del provvedimento finale; nel Regno Unito accanto agli storici Clercks si sono sviluppati anche i Judicial Assistant con compiti molto simili ai nostri AUPP; nella Oficina Judicial troviamo il c.d. Secretario Juidicial; l’ordinamento tedesco conosce il Rechtspfleger, che in talune materie e procedure assume addirittura tutte le funzioni proprie dell’organo giudicante; è invece preclusa qualsiasi attività giudiziaria diretta ai francesi Juriste Assistants che comunque similmente ai nostri AUPP contribuiscono nella gestione dei casi.
[24] È stato opportunamente suggerito dal CUN con Parere Generale n. 22 del 7 maggio 2018, l’aggiornamento in tal senso degli obiettivi culturali delle classi all’evoluzione dei saperi, della società e delle professioni e gli sbocchi professionali delle classi all’evoluzione del mondo del lavoro.
[25] MARIA GIULIANA CIVININI, La storia: dai tirocini formativi all’ufficio per il processo, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 7-8.
[26] Si rimanda a nota 23.
[27] R. Sennet, The Craftsman, New Haven-London, Yale University Press, 2008 (trad. it. L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008).
[28] Sul punto F. BUTERA, Disegnare l’Italia, Milano, 2023, p. 130.
[29] BARBARA FABBRINI, PNRR e Ufficio per il Processo: le ragioni di una scelta, in C. CASTELLI (a cura di) L’Ufficio per il processo, cit., pp. 43 e ss.
[30] Sul punto si veda ROBERTO MARTINO, Un chiarimento preliminare: il possibile conflitto tra le istanze di efficienza del sistema giudiziario e il diritto dei singoli ad una tutela giurisdizionale effettiva, in L’ufficio per il processo ai tempi del PNRR: una panacèa per la giustizia civile? Pisa, 2025, https://www.rivistailprocesso.it/2025/06/13/lufficio-per-il-processo-ai-tempi-del-pnrr-una-panacea-per-la-giustizia-civile/.
“Art. 0. (…) Scriviamo con le mani sporche, con le schiene curve di attesa, con gli occhi pieni di futuro.
Art. 1. Basta mura opache! La prigione sia una città dell’anima, uno spazio vivibile, un’architettura che cura, non che annulla. Muri porosi, sezioni luminose, aria che respira.
(…)
Art. 3 Scuola! Scuola! Scuola! Alfabeti come chiavi, lezioni come <<evasione buona>>. Scuola dentro il carcere uguale futuro innescato. Ogni banco è una finestra, ogni libro una crescita.
Art. 4. Il trattamento è cammino”! Ogni pena è un progetto, ogni detenuto è biografia, non numero. Il trattamento è un sentiero di ritorno migliorati, non un corridoio chiuso.
(…)”
dal Manifesto per un carcere futurista della Compagnia SineNOmine
“Senza Titolo” è andato in scena il 2 ed il 3 luglio nella Casa Reclusione di Spoleto, parte ormai tradizionale del programma del Festival dei Due Mondi. Centinaia gli spettatori che, anche quest’anno, hanno varcato le porte del carcere per assistere allo spettacolo realizzato dalla Compagnia Sine Nomine di attori detenuti e liberi. Un impegno grande per l’istituzione, ma insieme un orizzonte di senso che coinvolge tutta la comunità penitenziaria in una attività di preparazione che riempie l’intero anno. Non intrattenimento, ma vero impegno risocializzante.
Quest’anno il testo è un omaggio dichiarato al futurismo, che ad ogni frammento sostituisce i contenuti storici del movimento, con quelli di una ricerca attiva di speranza e di prospettiva, qui e ora, proprio nel carcere del sovraffollamento e della conseguente spersonalizzazione. Senza titolo è allora titolo, e insieme provocazione che, nel lessico penitenziario, richiama una detenzione priva della stessa ragione legale che la giustifichi.
Nella rivista “Lacerba” si leggeva che “nella carne dell’uomo dormono le ali” e questo scrivono gli attori detenuti, su grandi muri bianchi, mentre il pubblico si accomoda nello spazio dell’intercinta, accolto da una scenografia che già parla della genialità di Giorgio Flamini, come sempre deus ex machina della serata.
A sinistra il bianco quasi splendente di tre celle, con insensate aperture geometriche, e insensate chiusure. A destra cinque sedie, nere ed enormi, ognuna un patibolo, ognuna una cattedra, per altrettanti attori. In mezzo un orologio enorme, che ovviamente gira al contrario.
Urlano onomatopee, gli attori, tra il pubblico, ma tra i suoni della velocità, tipici del futurismo, tra le sillabe insensate e bambine, anche tante parole. Insensate, ma non per il luogo in cui siamo: Cellante, Aria, 9999, Appuntà…
Dove siamo? È un carcere, e quindi le regole di senso: “aperti, poi chiusi, poi cancellati…” hanno logiche tutte loro. Se ci facciamo accompagnare capiamo tutto. Cosa ci offrono gli attori detenuti? “Piatti di libertà immaginata”, intelletti “affamati di futuro”, “ottimismo a luci spente”.
Si incontrano i dialoghi, dolorosi e umanissimi, di uomini che sognano l’esterno e non si abbandonano ad essere uomini in scatola, anche se qui le loro membra sono letteralmente inscatolate in scena, e gli scambi arguti, e artisticamente difficilissimi, dei cinque attori sul ring o in cattedra, che restituiscono in una dimensione di sogno tutto il non sense in cui è immersa la nostra realtà.
A fine spettacolo sapremo che è un autore detenuto, Rinnegato, che molti applausi giustamente raccoglie, ad aver immaginato la parte dei testi per il Ring, come sempre poi rielaborati in un lavoro di gruppo della Compagnia SIne NOmine. Nel resto si alternano frammenti che riprendono Giardina e Marinetti, e poi ricordano Sergio Lenci, l’architetto che fu vittima del terrorismo, per aver immaginato un carcere, proprio a Spoleto, che dialogasse con il mondo. Un carcere che ancora oggi, con le parole di “Senza Titolo”, deve “disimparare a chiudere”.
I regali però non sono terminati. A inizio spettacolo ci è consegnata la tessera di un domino. È stata dipinta a mano, e non ce n’è una uguale all’altra, ma il gioco si potrebbe fare solo mettendole tutte insieme. Non c’è bisogno di dire di più su individualizzazione dei percorsi e benefici per la collettività.
Lo slancio futurista tocca il culmine con un vero e proprio manifesto, manco a dirlo lanciato sul pubblico, e poi distribuito. Vi si parla di un carcere mirabile, che fa della persona e della dignità il suo centro. Utopia? Le parole scritte dalla Compagnia sono splendide, cariche di una poesia visionaria, ma i contenuti sono in definitiva solo Costituzione.
“Voglio vivere così, col sole in fronte…” cantano tutti, sulla registrazione storica di Carlo Buti, e anche il meraviglioso coro diretto dal Maestro Francesco Corrias, che ha accompagnato il cammino del pubblico, si unisce festosamente. “Voglio vivere così, col sole in fronte…” Può esserci paradosso più grande che cantare così in un carcere?
Nel tempo dello schianto del cuore e del pensiero, di fronte ai suicidi, alle carenze di risorse, che affliggono ogni luogo, è questo il gesto rivoluzionario che ci è offerto, non per coprire il dramma, ma per metterlo a nudo.
Si tratta di continuare a immaginare un futuro e a immaginarci nel futuro.
È corale un ringraziamento agli attori detenuti, a Giorgio Flamini, a Pina Segoni e Sara Ragni, impegnate con lui nella ideazione, nella regia e nell’adattamento dei testi, al Festival dei Due Mondi che di nuovo entra in carcere e mette nel suo programma lo spettacolo, a fianco di quelli della migliore produzione internazionale, alla Casa Reclusione che non spegne i riflettori sull’arte. Andando via, nell’intercinta, mentre le luci delle camere detentive sono tutte spente, e il caldo della notte (figurarsi il giorno!) è soffocante, è ancora illuminata una grande installazione in cui la parola “ARTE” campeggia.
L’auspicio è che resti sempre accesa. perché “la legge deve tendere alla bellezza” (art. 17 del manifesto) e il teatro in carcere è detonatore (art. 18) di energie di cambiamento, gesto politico e umano fondamentale.
Recensione di Il dolore della guerra di Bảo Ninh (2025 Neri Pozza Editore, Vicenza)
L’autore di questo romanzo ha quasi 73 anni, è nato ad Hanoi e, come si legge nella terza di copertina, a diciassette anni si è unito all’Esercito popolare del Vietnam del Nord ed ha combattuto fino all’ultima battaglia all’aeroporto di Saigon, il 30 aprile del 1975.
Quella guerra fu un conflitto ingiusto e brutale, che costò al Vietnam – secondo le cifre rilasciate dal Governo – oltre 5 milioni di vittime, in grandissima parte civili, mentre gli Stati Uniti persero circa 60mila uomini appartenenti alle forze armate.
Ma la storia, in questo romanzo scritto nel 1991, è raccontata da altra visuale, quella dei vincitori che però non vi sono affatto descritti come eroi, al punto da smontare i trionfalismi della propaganda vietnamita e da determinare la reazione negativa del governo dell’epoca che ne vietò la pubblicazione: il libro circolò a lungo solo in forma clandestina prima di diventare un best seller internazionale e di essere insignito dell’Indipendent Foreign Fiction Prize nel 1994, importante premio letterario inglese. Solo nel 2006, quindici anni dopo la sua pubblicazione, il divieto del libro fu revocato e l'edizione inglese apparve nelle librerie e nelle edicole in Vietnam.
Il romanzo si apre con una rappresentazione di soldati in missione nel dopoguerra, nel 1976, per raccogliere le ossa dei compagni caduti da seppellire. Così inizia la narrazione di Kien, il soldato nordvietnamita durante la guerra del Vietnam, che inizia a riflettere sul suo passato e racconta la sua perdita di innocenza, il suo amore e la sua angoscia per i ricordi della guerra.
La ricerca dei resti dei soldati caduti si svolge nelle zone impervie degli altipiani ed in quella che Kien immagina come la "giungla delle anime urlanti", ove 500 soldati del suo 27° Battaglione sono stati annientati dal napalm, ad eccezione di una decina di sopravvissuti tra cui lui stesso. I suoi flashback legano insieme il romanzo e spesso sono incentrati sull'amore tra Kien e la sua fidanzata d'infanzia, Phuong con cui ha nuotato in un grande lago fino a sera mentre altri studenti scavavano trincee nei cortili e dalla quale si è separato durante un drammatico viaggio a sud verso la linea del fronte, poco prima di iniziare a combattere.
Kien decide di scrivere un romanzo sulla vita vissuta, ma poi cambia idea e cerca di bruciarlo. Una ragazza muta che Kien conosce quando è ubriaco ed alla quale esprime i suoi pensieri, ottiene il testo dopo la sua partenza per destinazione incerta. Kien, nel libro, riflette sulle sue esperienze, sui molti sacrifici non riconosciuti, come quello della donna-guida militare Hoa che, vicino al Lago dei Coccodrilli, rinuncia alla sua vita per salvarlo dai soldati americani insieme ai suoi compagni feriti («Qualcuno muore perché qualcun altro sopravviva. Niente di più naturale, niente di più banale»), ma ricorda anche la sua prima uccisione personale, che avviene dopo aver assistito allo stupro di Phuong. Il romanzo si conclude con il racconto di un nuovo narratore, che spiega di aver ricevuto il romanzo di Kien dalla ragazza muta.
Il Dolore della Guerra – ha osservato un giornalista inglese - si eleva al di sopra delle rappresentazioni culturali della guerra del Vietnam, sia americane che vietnamite, piene di romanticismo e stereotipizzazione: «Si muove avanti e indietro nel tempo, e dentro e fuori dalla disperazione, trascinandoti giù mentre l'eroe-solitario ti guida attraverso il suo inferno privato nelle Highlands del Vietnam centrale, o sollevandoti quando il suo spirito si innalza. È un ottimo romanzo di guerra e un libro meraviglioso.» Il romanzo è stato spesso paragonato a Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque ed è stato anche definito “un romanzo di guerra e soprattutto di dopoguerra”, il cui protagonista, Kien, è certamente l’alter ego dell’autore: entrambi vogliono raccontare il dolore a chi vorrà ascoltarlo.
Kien – si legge nel romanzo - «scrive della guerra in modo personale, come se fosse stata una guerra sua e soltanto sua» e rammenta le parole che un vecchio gli rivolge quando sta per partire volontario: «Dunque parti per la guerra? Non che voglia dissuaderti, io sono vecchio, sappi solo che il dovere di un essere umano su questa terra è vivere, non immolarsi».
Dopo molti anni dalla fine della guerra, Kien torna ad Hanoi, «la città che cambiava volto di ora in ora, che tornava sé stessa di notte sotto la pioggia» ed inizia a frequentare un bar sul lago Hoan Kiem, ove si incontravano gli ex militari del “Club dei reduci”. Perché? Perché, spiega Kien come anche Bao Nihn avrebbe detto, «Mi aspetta una nuova vita..devo andare avanti. Ma la mia anima è ancora in tumulto. Il passato mi perseguita e mi imprigiona».
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Vita e opere di Gaetano Vardaro, intellettuale giuslavorista
Sommario: 1. La vita – 2. Le opere – 3. L’intellettuale giuslavorista – 4. Vardaro dopo Vardaro – 5. Minima personalia.
1. La vita
Gaetano Vardaro nacque a Montefalcione (AV) il 2 luglio 1949. Il padre, Libero, incarnava la tipica figura – oggi praticamente scomparsa – dell’erudito meridionale, conversatore colto e affascinante, e, tra l’altro, sensibile studioso di cose storiche; esercitò molta influenza sul figlio, che gli era legatissimo. Laureatosi in Giurisprudenza nel 1973 a Napoli, specializzatosi in diritto del lavoro nel 1975 a Roma, dove beneficiò di un contratto di ricerca, G.V. fu nel 1976 assegnista e nel 1981 ricercatore nell’Università di Salerno, inserendosi nel gruppo guidato da Fabio Mazziotti. Lì conobbe Anna Rita Marchitiello, che presto sarebbe divenuta sua moglie, dandogli l’unico figlio, Libero come il nonno.
In un’epoca nella quale la mobilità accademica era favorita e non ostacolata, nel 1982 si trasferì all’Università di Roma “La Sapienza”, per poter lavorare a più stretto contatto con Gino Giugni, da qualche anno suo imprescindibile referente scientifico e accademico, che lo aveva chiamato a far parte della redazione della rivista da lui fondata, il Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, della quale G.V. divenne in breve colonna portante e alla quale avrebbe regalato preziosi contributi.
Sempre da ricercatore, su sollecitazione di Umberto Romagnoli, l’altro studioso che ne aveva subito intuito le doti di studioso brillante e appassionato e al quale G.V. avrebbe costantemente fatto riferimento, approdò nel 1983 come professore a contratto nella Facoltà di Economia e commercio dell’Università di Urbino, primo docente non di scuola bolognese a insegnarvi il diritto del lavoro. La stagione urbinate fu breve, ma intensissima: G.V. vi lasciò un’impronta indelebile, il cui momento culminante fu l’organizzazione di uno straordinario seminario internazionale e interdisciplinare sul rapporto tra diritto del lavoro e corporativismi vecchi e nuovi (28-30 aprile 1986), che vide la presenza di alcuni dei più importanti giuslavoristi, sociologi, storici e scienziati politici italiani e stranieri: erano tempi in cui gli esperimenti di concertazione sociale avviati in Italia sembravano delineare un nuovo scenario delle relazioni industriali, trovando un referente teorico nel dibattito sul neocorporativismo; e in cui sembrava giunto il momento di avviare una riflessione critica sul ruolo svolto dalle dottrine corporative nella formazione e negli sviluppi del diritto del lavoro, soprattutto in un’Italia che, «in omaggio ad un antifascismo talvolta solo di maniera, aveva preferito rimuovere questo “peccato originale”» (Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi, Franco Angeli, 1988; qui l’introduzione, 15-30).
G.V., comunque, abitava sempre ad Avellino, sottoponendosi a faticosi spostamenti per raggiungere le Marche. E nella sua città, a cui era molto legato, viveva molto intensamente, continuando – come meglio si dirà in seguito – a dimostrarsi persona di cultura “a tutto tondo”.
A metà degli anni Ottanta, G.V., forte di due monografie appena pubblicate, partecipò contemporaneamente ai concorsi per professore associato e per professore ordinario. Il primo gli avrebbe consentito di consolidare la sua posizione all’Università di Urbino, che aveva bandito il posto, ma, com’era nell’ordine delle cose, arrivò subito, agli inizi del 1986, la vittoria in prima fascia. Perciò, dopo diverse vicissitudini accademiche, che lo amareggiarono non poco, fu chiamato da “straordinario” (come si diceva allora) all’Istituto universitario navale di Napoli, l’odierna Università “Parthenope”. Mantenne, però, a costo di notevoli sacrifici, una supplenza nell’amata Urbino. Anche in quel bel palazzo in riva al mare accanto al Maschio Angioino, dove rimase per pochissimi mesi, G.V. lasciò un segno profondo, organizzando nella primavera del 1988 un memorabile convegno internazionale sullo sciopero nei servizi pubblici in Europa, tema caldissimo di quel momento (Sciopero e servizi pubblici in Europa, Esi, 1989), incurante tra l’altro delle critiche che gli piovvero addosso perché di lì a pochi giorni il congresso nazionale dell’Associazione italiana di diritto del lavoro avrebbe avuto ad oggetto proprio il tema del conflitto collettivo.
Nell’estate del 1988 G.V. si recò a studiare negli Stati Uniti, quasi a seguire le orme del suo maestro di elezione, Gino Giugni, che alla fine degli anni Cinquanta, frequentata la scuola dell’istituzionalismo economico nell’Università del Wisconsin, aveva poi gettato le basi per il rinnovamento metodologico del diritto del lavoro italiano. Purtroppo, invece, per G.V. il ritorno dalla “Harvard” precedette di poco il gesto estremo con cui si chiuse la sua breve e intensa esistenza il 25 ottobre 1988.
2. Le opere
La produzione scientifica di G.V. si concentra in una dozzina d’anni, dal 1976 al 1988. Essa, comunque, appare estremamente ricca e poliedrica, sempre proiettata alla ricerca delle radici ideali e culturali del diritto del lavoro, che affondavano soprattutto nell’esperienza weimariana. Fin da subito, infatti, le coordinate della ricerca di G.V. furono costituite dalla storia del pensiero giuridico e dalla straordinaria passione per la cultura tedesca e per i giuristi weimariani in particolare. Primo terreno di elezione su cui sondare le direttrici di tale progetto scientifico fu la tematica dell’inderogabilità del contratto collettivo, i cui risvolti in termini di politica del diritto G.V. indagò con cura – e con grande attenzione al dibattito tedesco –, relativamente all’epoca liberale e a quella corporativa, in due importanti saggi usciti sulle riviste di Gino Giugni e di Giovanni Tarello (L’inderogabilità del contratto collettivo e le origini del pensiero giuridico-sindacale, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1979, 537-584; Le origini dell’art. 2077 cod. civ. e l’ideologia giuridico-sindacale del fascismo, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1980, 437-469).
Lo studio dei classici weimariani indusse G.V. a tradurli e a farli conoscere in Italia, dove allora davvero in pochi ne avevano presente il ruolo, se non addirittura l’esistenza. Si trattò innanzitutto di importare il fecondissimo – e talvolta spigoloso – dibattito scientifico che i giuslavoristi della “Repubblica incantata” ingaggiarono prima di disperdersi per il mondo all’avvento del nazismo. Con Gianni Arrigo, G.V. curò pertanto l’antologia Laboratorio Weimar. Conflitti e diritto del lavoro nella Germania prenazista (Edizioni Lavoro, 1982), assolutamente aliena dall’azzardare simmetrie o profezie fuori luogo e allo stesso tempo portatrice di una linea diversa rispetto alla (forse tardiva) riscoperta che stava contemporaneamente avvenendo in una Repubblica federale tedesca troppo propensa a dimenticare in fretta, se non a rimuovere: l’originalità stava già nella scelta, oltre che dei “classici” (Sinzheimer, Fraenkel, Neumann, Kahn-Freund), anche di brani di autori scomodi e polemici come Karl Korsch. I contorni di quel substrato ideologico e scientifico all’interno del quale il “corporativismo” costituiva espressione di autonomia e pluralismo, lungi evidentemente dalle deviazioni semantiche che lo avrebbero legato necessariamente alle esperienze fasciste, emergeva forse ancora più nitidamente nella corposa antologia che l’anno successivo G.V. dedicò specificamente a uno dei giuslavoristi tedeschi dai percorsi più problematici, Franz Neumann (Il diritto del lavoro fra democrazia e dittatura, Il Mulino, 1983).
Subito dopo per G.V. iniziò una fase di grande concentrazione, in vista della pubblicazione di quel lavoro monografico che ne potesse corroborare un successo concorsuale. Il tema era quello prediletto del contratto collettivo, e di libri ne uscirono due. Il primo (Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Jovene, 1984) era originale in maniera sorprendente, perché applicava al tema le teorie dei sistemi elaborate da Niklas Luhmann, sottoponendole a costante confronto con le prospettive ordinamentali di Gino Giugni: un libro difficile e duramente dogmatico, dalle premesse e dagli sviluppi sicuramente discutibili. L’altra monografia (Contratti collettivi e rapporto individuale di lavoro, Franco Angeli, 1985), al confronto, era molto più tradizionale: eppure in essa, sempre seguendo il fil rouge “storico” dell’inderogabilità, G.V. chiudeva mirabilmente il cerchio delle sue ricerche sul tema, proponendo conclusioni mai scontate, quando non esplicitamente innovative.
In quella metà degli anni Ottanta, uno dei temi trainanti il dibattito giuslavoristico fu quello dell’impatto dell’innovazione tecnologica nel mondo del lavoro, alcune delle cui certezze sembrarono vacillare di fronte alla velocità e alla portata dei cambiamenti. G.V. non si sottrasse certo a queste discussioni; anzi, vi contribuì con un saggio memorabile, di taglio praticamente monografico (Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in Politica del diritto, 1986, 75-140), nel quale l’approccio storico e la profondità teorica si fondevano a comprendere il nuovo tema in modo davvero singolare, in un affascinante viaggio tra realtà passate, situazione del momento e prospettive future.
Salito in cattedra, G.V. non tirò affatto i remi in barca, come accade a tanti in quella situazione. Anzi, se possibile, intensificò ancor più i ritmi di lavoro, che si fecero convulsi, scoprendo nuovi oggetti di indagine, senza però tralasciare di coltivare il tradizionale filone storico. Suo nuovo punto di riferimento divenne allora Paolo Grossi e la sua scuola fiorentina, sulla cui rivista pubblicò un’acuta indagine, scritta con Bruno Veneziani, sugli inizi della giuslavoristica italiana ricostruiti attraverso le pagine di uno dei più noti periodici dell’epoca (La «Rivista di diritto commerciale» e la dottrina giuslavorista delle origini, in Quaderni fiorentini, 1987, 441-483), mentre in una collana della stessa rivista uscì – postumo – un volume che raccoglieva gli scritti dell’ennesimo giurista polemico, Thilo Ramm, sulle diverse tappe della storia del diritto del lavoro tedesco (Per una storia della costituzione del lavoro tedesca, Giuffrè, 1989).
La ricerca instancabile, a volte frenetica, di nuovi percorsi di studio portò G.V. a frequentare maggiormente il mondo anglosassone e a sconfinare nei campi della sociologia e delle relazioni industriali, sempre coniugate con il suo tradizionale retroterra storico-giuridico.
Ne vennero fuori una lezione dal profondo impianto teorico all’Istituto universitario europeo di Fiesole sul rapporto di lavoro nelle società collegate, lette come forma organizzativa degli interessi imprenditoriali (Before and Beyond the Legal Person: Trade Unions, Group Enterprises and Industrial Relations, in Sugarman, Teubner, eds., Governance in Group Enterprises, Nomos, 1990, 217-251), al di fuori dei falsi pericoli delle teorie della persona giuridica (Chi ha paura della persona giuridica?, in Il progetto, 1988, 48, 102-106); e gli originali studi sulla giuridificazione, innanzitutto con un intervento breve ma molto denso, nel quale G.V. si preoccupava di portare chiarezza su un tema viziato da polemiche ed equivoci ingeneratisi tra studiosi nordamericani e tedeschi (Giuridificazione, colonizzazione e autoreferenza nel diritto del lavoro, in Politica del diritto, 1987, 601-610); per poi applicare originalmente queste categorie teoriche a un classico tema tecnico del rapporto di lavoro, quale il potere disciplinare (Il potere disciplinare giuridificato, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1986, 1-42).
La mai abbandonata attenzione allo studio dei percorsi dei giuslavoristi weimariani si spostò, infine, su un tema molto particolare, cioè la verifica dell’esistenza – ed eventualmente dell’importanza – di radici ebraiche del diritto del lavoro. Il programma era già stato scritto («Arbeitsverfassung» ovvero la stella dell’assimilazione, in Sociologia del diritto, 1987, 17-39) e la tesi di fondo era – come d’abitudine – affascinante, provocatoria e discutibile. La ricerca necessitava ovviamente di approfondimenti, per cui G.V. accettò di buon grado – e con molto orgoglio – l’invito a recarsi per quel soggiorno di studi alla “Harvard”, al termine del quale tutto finì.
Il suo percorso si trasformò anch’esso in quello Holzweg heideggeriano – una viuzza di montagna stretta e infida, metafora di un (troppo) breve attraversamento – al quale egli volle paragonare l’itinerario giuslavoristico di Franz Neumann (Oltre il diritto del lavoro: un Holzweg nell’opera di Franz Neumann, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1983, 505-537).
3. L’intellettuale giuslavorista
G.V. «non è stato – in realtà – un giuslavorista, ma un erudito geniale che nel suo breve percorso esistenziale ha incontrato il giuslavorismo». L’affermazione di Luigi Mariucci (Il diritto del lavoro e il suo ambiente, in Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, I, Giuffrè, 1998, 335-356) coglie assolutamente nel segno. Lo studio del diritto del lavoro non era mai per G.V. un fatto meccanicamente tecnico, ma costituiva una splendida occasione per approfondire la cultura europea delle idee. Nel tema trattato, egli trasfondeva naturalmente l’enorme curiosità intellettuale derivata dalle sue letture, testimonianza di un’erudizione fuori dal comune, imbevuta per lo più di studi extragiuridici (la sua biblioteca personale era ricchissima di libri, ben ordinati tematicamente, di discipline disparate, delle quali era capace di individuare legami insospettabili).
Per i più “puristi”, naturalmente, ciò poteva anche non costituire un pregio; essi, però, tendevano a dimenticare che G.V. si era brillantemente confrontato più volte anche con le tecnicalità più spinose della materia; e che – per dirla con Umberto Romagnoli – quella «vivacità degli interessi culturali ai limiti della sregolatezza», che «lo predestinava a esibire di sé l’immagine dell’irrequieto intellettuale del Sud», era stata invece disciplinata e indirizzata dall’incontro con Giugni (Ricordando Weimar con Gaetano Vardaro, in Giuristi del lavoro nel Novecento italiano. Profili, Ediesse, 2018, 251-259 e 333-334).
G.V è stato, dunque – continuando con Romagnoli –, un «giurista atipico», perché appartenente a «una generazione inquieta […] che le rassicuranti certezze dogmatiche del passato, prossimo o remoto, riescono appena a sfiorare, ma che – figlia di una società “senza vertice e senza centro”, secondo la formula luhmaniana assai cara a Vardaro – sa di essere a sua volta incapace di produrne di nuove, vincenti o convincenti. Cosa di cui soffre, e si vede» (Gaetano Vardaro, un giurista atipico, in Zanelli, a cura di, Gruppi di imprese e nuove regole, Franco Angeli, 1991, 21-33).
G.V. è sempre stato agli antipodi rispetto all’immagine dello studioso chiuso nella turris eburnea: sentiva anzi il bisogno di socializzare, di discutere ogni sua idea. Questa sua vocazione di “propagandista” culturale lo portò a essere assiduo frequentatore di convegni, mai per semplici passerelle. Qui emergeva un altro fondamentale tratto costitutivo della personalità di G.V., cioè il suo essere profondamente anticonvenzionale, caratteristica che si riverberava naturalmente anche nella dimensione professionale.
Perciò, se in generale la sua produzione scientifica fu largamente eterodossa, i suoi interventi ai convegni, forzatamente ristretti in angusti limiti di tempo, furono sempre particolarmente incisivi e spregiudicati (si possono ricordare, per tutti, l’incontro bolognese sulla rappresentanza sindacale: Nuove regole dell’organizzazione sindacale, in Lavoro e diritto, 1988, 218-234, e il convegno trentino sulla subordinazione: Subordinazione ed evoluzionismo, in Pedrazzoli, a cura di, Lavoro subordinato e dintorni, Il Mulino, 1989, 101-109), molto spesso polemici e provocatori, come ad esempio quello al convegno Aidlass di Fiuggi del 1988 (Verso la codificazione del diritto di sciopero, in Aa.Vv., Lo sciopero: disciplina convenzionale e autoregolamentazione nel settore privato e pubblico, Giuffrè, 1989, 221-228). Naturalmente, non appena ebbe la forza accademica per farlo, G.V. i convegni iniziò a organizzarli “in proprio”, come si è visto a proposito di quello urbinate sui corporativismi e di quello napoletano sullo sciopero.
Un’altra caratteristica che va sempre tenuta presente per cercare di comprendere la personalità umana e scientifica di G.V. è costituita dalle sue radici.
Vivere in “provincia” ha avuto per lui innanzitutto il risvolto positivo dell’attaccamento alla città, con la conseguenza di diventare persona sensibilmente impegnata nel suo contesto sociale, attiva politicamente (nel partito socialista di unità proletaria, che nel 1972 confluì nel partito comunista) e assai entusiasta e competente nell’organizzazione di manifestazioni culturali, per lo più nel campo musicale: per Avellino, fin dagli anni Settanta, grazie a lui passarono mostri sacri della musica classica come Claudio Abbado, Maurizio Pollini, Bruno Canino, Luciano Berio, Luigi Nono, Severino Gazzelloni, o del jazz come Giorgio Gaslini, o del rock come Lou Reed. Sull’altro versante, invece, le origini lo hanno sempre segnato nel suo sentirsi un outsider (oggi si direbbe un underdog), facendogli vivere ogni sua affermazione in termini di sofferta rivincita del self-made man nei confronti di chi invece partiva già da solidi piedistalli. In uno dei suoi ultimi contributi, G.V. ripercorse la vicenda di un illustre avellinese, il meridionalista Guido Dorso, delineando i tratti del suo rapporto conflittuale col mondo del diritto, relegato in una sfera nascosta e particolare della sua vita, ed evidenziandone quindi l’emigrazione “interna”, tanto simile – a suo dire – a quella degli studiosi weimariani (Guido Dorso giurista: ovvero Kafka in provincia, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1989, 503-515).
G.V. aveva così – forse inconsapevolmente – scritto la sua autobiografia di “studioso di provincia”: la stessa autobiografia, problematica e lacerante, che è andato scrivendo quando ha studiato Weimar o l’ebraismo.
Alla fine, nessuno meglio di Gino Giugni ha tratteggiato un ritratto autentico di G.V., quando ne pianse la scomparsa coi lettori della sua rivista: «Gaetano Vardaro non parteciperà più agli incontri della nostra redazione. Non leggeremo più i suoi saggi su questa rivista, che si onora di aver ospitato i primi di essi, quelli che subito lo imposero all’attenzione della comunità scientifica. Ci ha privato della sua impegnata collaborazione, della sua entusiastica fiducia nella ricerca e del suo appassionato rigore filologico, della sua eccezionale fantasia progettuale, della sua rara capacità di accumulare una sconfinata cultura storico-filosofica, e precipitarne il concentrato nell’analisi del diritto positivo. […] è stato un autore originale e forse unico, per la sua innata tendenza ad osservare il fenomeno particolare nella totalità culturale, in questo certamente degno erede della miglior tradizione intellettuale del nostro Mezzogiorno. Per questo possiamo anche affermare che ha rappresentato un tipo di giurista sui generis, non facilmente riproducibile» (Ricordo di Gaetano Vardaro, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1988, VII-VIII).
4. Vardaro dopo Vardaro
L’impatto della prematura scomparsa di G.V. sul mondo del diritto del lavoro fu piuttosto forte. Anche chi era più lontano dal suo modo di approcciare il diritto del lavoro, spesso criticamente provocatorio, ne riconosceva comunque la cultura e la genialità. Numerosi furono i ricordi pubblicati a caldo sulle riviste da parte di chi gli era stato più vicino. Chi scrive, insieme con Anna Rita Marchitiello, curò subito un’antologia dei suoi scritti, non a caso intitolata Itinerari (Franco Angeli, 1989): un esplicito invito a continuare a percorrere i suoi sentieri impervi, bruscamente interrotti ma sempre aperti per chi avesse avuto desiderio di seguirli.
A poco più di un anno dalla morte, il 1° dicembre 1989, la “sua” Università di Urbino volle commemorare G.V. con un convegno su uno degli ultimi temi da lui trattati (Zanelli, a cura di, Gruppi di imprese e nuove regole, cit.). Così come fece dieci anni più tardi, il 23 aprile 1999, con un incontro aperto da un intervento di Umberto Romagnoli, che sottolineava l’importanza dei suoi studi e delle sue soluzioni anche a distanza di tempo (L’opera di Gaetano Vardaro, oggi, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1999, 1-8; poi compreso tra i profili dei Giuristi del lavoro nel Novecento italiano, cit.). Più tardi, G.V. venne annoverato tra i maestri che avevano illustrato l’Ateneo urbinate nel secolo scorso (Pascucci, Gaetano Vardaro, in Tonelli, a cura di, Maestri di Ateneo. I docenti dell’Università di Urbino nel Novecento, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, 2013, 547-553).
Col trascorrere degli anni, venne il tempo delle riletture. Il 4 e 5 marzo 2010, all’Università di Brescia si svolse un convegno dedicato alla memoria di G.V., nel quale si discusse del tema a lui più caro, l’autonomia collettiva (gli interventi in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2010, 303-399); in quell’occasione, Roberto Romei dedicò un’approfondita analisi al riesame delle due monografie di G.V. sul tema, ripercorrendo poi criticamente gli sviluppi dottrinali successivi (L’autonomia collettiva nella dottrina giuslavoristica: rileggendo Gaetano Vardaro, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2011, 181-223).
Il 14 giugno 2014, l’associazione “SU & giù – giuslavoristi di Siena e Urbino”, fondata da chi scrive, organizzò a Urbino una rilettura del saggio di G.V. sui rapporti tra tecnologia e diritto del lavoro, affidandola a Luca Nogler, che pose in luce la perdurante attualità delle sue riflessioni sull’impatto che l’evoluzione della tecnica esercita sulla gestione del tempo della vita delle persone (Tecnica e subordinazione nel tempo della vita, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2015, 337-357). Più di recente, il ciclo di “letture e riletture” promosso da Oronzo Mazzotta all’Università di Pisa ha visto il 19 aprile 2023 Marco Novella analizzare in profondità gli scritti di G.V. sull’inderogabilità del contratto collettivo, dei quali ha evidenziato le inevitabili obsolescenze ma anche le significative eredità metodologiche e culturali (Gaetano Vardaro e l’inderogabilità del contratto collettivo, in Mazzotta, a cura di, Introduzione al diritto sindacale. Letture e riletture. Volume 2, Giappichelli, 2024, 19-37).
È interessante da ultimo ricordare che quando, a maggio 2025, è rinata – sotto la direzione di Antonio Di Stasi – una rivista giuslavoristica che negli anni Ottanta del Novecento aveva interpretato un importante ruolo di contropotere culturale, si è potuto scoprire che il suo articolo di apertura consisteva in un lungo inedito di G.V. sulle sanzioni civili e sull’art. 28 dello statuto dei lavoratori, ripescato da Anna Rita Marchitiello tra le carte del marito e donato a Giorgio Fontana (Rivista critica di diritto del lavoro, 2025, 11-62).
La cosa più importante, però – e lo sottolinea Fontana, cui non fa sicuramente velo l’origine irpina –, è che ancora oggi «continuiamo a leggere, amare ed utilizzare» le opere di G.V. Non è frequente, infatti, che saggi di quaranta e più anni fa, il cui autore non c’è più da quasi altrettanto tempo, continuino a essere ampiamente citati dagli studiosi di diritto del lavoro, che ormai solo in pochissimi casi hanno conosciuto chi li ha scritti.
Le monografie sul contratto collettivo restano ancora una lettura obbligata per chi intenda occuparsi della materia, mentre il saggio sulla tecnologia è diventato ormai un classico, che sta peraltro rivivendo un suo momento d’oro in tempi di intelligenza artificiale; chiunque, anche solo di passaggio, accenni al diritto del lavoro di Weimar non può prescindere dal ricordare chi ebbe il merito di farne conoscere i protagonisti al pubblico italiano; e anche i suoi scritti più severamente teorici, per non dire di quelli di taglio squisitamente storico, continuano a figurare costantemente nelle citazioni.
Eppure, tutta la produzione di G.V. non è certo il classico esempio di “dottrina dominante”, ma esprime praticamente sempre un pensiero critico e anticonformista: opinioni originali, che definire “minoritarie” è poco.
5. Minima personalia
Gli autori di questo ricordo sentono di essere in qualche modo gli unici allievi lasciati da G.V., senza che naturalmente lui ne sia mai stato consapevole. L.G., ancora studente a Salerno, ne divenne subito «amico e compagno di percorsi», venendone indirizzato agli studi storici e alla conoscenza del mondo tedesco; P.P. venne attratto inesorabilmente nella sua orbita, diventandone il braccio destro a Urbino e ricevendone l’incoraggiamento a prendere la strada della ricerca universitaria.
La scomparsa del comune punto di riferimento significò per entrambi un distacco insopportabile, che li costrinse, però, nella ricerca di una precoce autonomia, a camminare più saldamente solo con le proprie gambe sostenendosi a vicenda. Col tempo, quella ferita difficilmente rimarginabile significò per loro il cementarsi di una profonda e duratura amicizia, non limitata alla sola sfera privata, ma fatta anche di ricerche comuni, di solidarietà e affinità istintive, di pubblicazioni “a quattro mani”, di inserimento in circuiti accademici e scientifici condivisi, della costituzione di una benemerita associazione. Quel che siamo stati dopo, lo siamo stati “per” lui (Gaeta, Pascucci, Da Salerno a Urbino “per” Avellino. Un ricordo comune di Gaetano Vardaro, Aras, 2010).
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.