ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il presente contributo si propone di esaminare le problematiche applicative connesse all’introduzione, con legge 24 novembre 2023, n. 168 (c.d. “legge Roccella”) dell’obbligatorietà dei dispositivi elettronici di controllo a distanza (c.d. “braccialetto elettronico”) nel caso di applicazione delle misure cautelari coercitive personali dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa per talune tipologie di reati, c.d. da “codice rosso”, locuzione utilizzata comunemente a partire dall’introduzione di talune modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, allo scopo di adeguare la disciplina interna alla normativa europea[1] e agli interventi della giurisprudenza europea[2] in tema di violenza domestica e di genere.
Sommario: 1. Alle “origini” del c.d. “codice rosso” - 2. L’evoluzione giurisprudenziale della Corte EDU – 3. Le modifiche normative interne “adeguatrici” – 4. L’obbligatorietà del c.d. “braccialetto elettronico” e l’intervento della Corte Costituzionale (sent. n. 173/2024) – 5. Il nuovo intervento normativo: D.L. 178/2024 – 6. La nuova normativa tra problematiche applicative e incertezze interpretative: il rischio di (nuova) collisione con i principi affermati dalla Corte EDU.
1. Alle “origini” del c.d. “codice rosso”
Allo scopo di esaminare le problematiche interpretative e applicative connesse alle novità introdotte con la c.d. “legge Roccella”, oltre che con gli interventi normativi successivi, appare opportuno, in via preliminare, ricostruire i principali interventi normativi e giurisprudenziali succedutisi sul tema della violenza di genere
A tal fine occorre prendere le mosse dalla legge 19 luglio 2019, n. 69, recante "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere" (c.d. Codice rosso) [3], con la quale sono state introdotte alcune modifiche del codice penale, consistenti principalmente nell’inasprimento delle pene dei reati che costituiscono tipiche manifestazioni della “rovina”[4] delle relazioni domestiche e nell’introduzione di quattro nuove fattispecie, e segnatamente: 1) l’art. 387 – bis cod. pen., che punisce la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa 2) l’art. 558-bis cod. pen., che incrimina la costrizione o l’induzione al matrimonio; 3) l’art. 612-ter cod. pen., che punisce la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e che mira a reprimere le condotte di cd. revenge pornography; 4) l’art. 583-quinquies cod. pen., che incrimina la deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso.
Tali modifiche hanno dato attuazione alla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, attuata con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212.
La direttiva in questione, in particolare, per quanto rileva nel caso di specie, ha offerto una definizione della violenza di genere, stabilendo che “Per violenza di genere s'intende la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere” (considerando n. 18), precisando che essa è “una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l'aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti «reati d'onore»” (considerando n. 18). La direttiva, tra l’altro, aveva previsto che gli Stati membri dell’Unione dovessero assicurare misure per proteggere la vittima e i suoi familiari dalla vittimizzazione secondaria[5] e ripetuta, oltre che da intimidazione e ritorsioni, garantendone la protezione fisica (art. 18) e aveva disposto che, fatti salvi i diritti della difesa, gli Stati membri dovessero provvedere che l’audizione della vittima durante le indagini si svolgesse “senza ritardo” dopo la presentazione della denuncia relativa a un reato (art. 20).
2. L’evoluzione giurisprudenziale della Corte EDU
Nel solco tracciato dalla normativa europea si pone la sentenza della Corte EDU, nella causa Talpis c. Italia del 2 marzo 2017, con cui l’Italia è stata condannata per la violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani e degradanti (artt. 2 e 3 Convenzione EDU), nonché del divieto di discriminazione di genere (art. 14 Convenzione EDU), in relazione al mancato adempimento degli obblighi positivi scaturenti da tali norme, per non essere le autorità italiane intervenute con misure urgenti ed appropriate a protezione di una donna e dei suoi figli vittime di violenza domestica perpetrata da parte del marito, degenerate nel tentato omicidio della ricorrente e nell’omicidio di uno dei sui figli[6].
Con la sentenza Corte EDU 7 aprile 2022, Landi c. Italia[7], i Giudici di Strasburgo hanno condannato nuovamente l’Italia, riconoscendo la violazione dell’art. 2 della Convenzione per aver le autorità italiane omesso di adottare le misure operative adeguate a prevenire la violazione del diritto alla vita della ricorrente e del figlio minore, ucciso dal padre ad esito dell’ennesima aggressione violenta; secondo i giudici europei, in particolare, l’Italia è venuta meno all'obbligo positivo di adottare misure operative preventive per proteggere un individuo la cui vita è minacciata da atti criminali di altri. La Corte EDU, in sostanza, ha confermato l’inadeguatezza della risposta istituzionale italiana al fenomeno della violenza domestica, valutando, per altro verso, come non diffusamente discriminatorio l’operato delle autorità italiane nei confronti delle donne e ritenendo, pertanto, non fondata la doglianza della ricorrente ai sensi dell’art. 14 della Convenzione.
Da tale pronuncia della Corte EDU è emerso che, da un punto di vista generale, il quadro giuridico italiano – allora vigente – era idoneo a fornire protezione contro atti di violenza di genere o domestica; i giudici di Strasburgo, poi, hanno dettato un decalogo di regole allo scopo di verificare la ricorrenza di una violazione della normativa CEDU da parte della normativa interna, stabilendo che occorre vagliare se:
a) la risposta delle autorità alle accuse di violenza domestica sia immediata;
b) le autorità abbiano indagato nel caso concreto sull'esistenza di un rischio reale e immediato per la vita del richiedente (denunciante) e dei familiari, conducendo a una valutazione del rischio autonoma e completa e tenendo conto del contesto particolare dei casi di violenza domestica;
c) le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che esisteva un rischio reale e immediato per la vita della ricorrente e dei suoi figli;
d) le autorità abbiano adottato adeguate misure preventive nelle circostanze del caso.
Analoghi rilievi sono stati espressi da Corte EDU, 16 giugno 2022, De Giorgi c. Italia[8], con cui i giudici di Strasburgo hanno ricondotto la condotta inosservante dello Stato italiano ad una violazione dell’art. 3 della CEDU, nei suoi profili sostanziali e procedurali a proposito di reati di violenza domestica, essendo lo Stato italiano venuto meno al suo dovere di indagare sui maltrattamenti subiti dalla ricorrente e dai suoi figli.
Con tale pronuncia la Corte EDU ha ribadito che “l'obbligo di svolgere un'indagine efficace su tutti gli atti di violenza domestica è un elemento essenziale degli obblighi che l'articolo 3 della Convenzione impone allo Stato. Per essere efficace, tale indagine deve essere tempestiva e approfondita; tali requisiti si applicano all'intero procedimento, anche nella fase processuale (M.A. c. Slovenia, n. 3400/07, § 48, 15 gennaio 2015, e Kosteckas c. Lituania, n. 960/13, § 41, giugno 13, 2017). È richiesta una particolare diligenza nel trattare i casi di violenza domestica e la natura specifica della violenza domestica deve essere presa in considerazione durante la procedura interna. L'obbligo di indagine dello Stato non sarà soddisfatto se la tutela offerta dal diritto interno esiste solo in teoria; soprattutto, deve anche funzionare efficacemente nella pratica, il che richiede un rapido esame del caso, senza inutili ritardi (Opuz, sopra citata, §§ 145-151 e 168, T.M. e C.M., sopra citata, § 46, e Talpis c. Italia, n.41237/14, §§ 106 e 129, 2 marzo 2017). Il principio di effettività implica che le autorità giudiziarie nazionali non debbano in alcun caso essere disposte a lasciare impunite le sofferenze fisiche o psicologiche inflitte. Ciò è essenziale per mantenere la fiducia e il sostegno dell'opinione pubblica nello stato di diritto e per prevenire qualsiasi parvenza di tolleranza o collusione da parte delle autorità in relazione ad atti di violenza (Okkalı c. Turchia, n. 52067/99, § 65, CEDU 2006- XII (estratti)” (§ 81). Ancora, hanno evidenziato i giudici europei come “spetti alle autorità nazionali tenere conto della situazione di precarietà e di particolare vulnerabilità, morale, fisica e/o materiale, della vittima e valutare la situazione di conseguenza, il prima possibile”; dunque, hanno evidenziato i giudici di Strasburgo che “il semplice trascorrere del tempo rischia di danneggiare l'indagine ma anche di comprometterne permanentemente le possibilità di successo (M.B. c. Romania, n. 43982/06, § 64, 3 novembre 2011)”, che “il passare del tempo erode inevitabilmente la quantità e la qualità delle prove a disposizione” e che “l'apparenza di una mancanza di diligenza mette in dubbio la buona fede con cui si svolgono le indagini e perpetua le sofferenze dei ricorrenti” (§ 87).
3. Le modifiche normative interne “adeguatrici”
Tali pronunce hanno ispirato, dapprima, la legge 8 settembre 2023, n. 122, c.d. “codice rosso rafforzato”[9], che ha implementato i poteri del procuratore della Repubblica nei casi di violazione dell'articolo 362, comma 1-ter, c.p.p., in materia di assunzione di informazioni dalle vittime e, in seguito, la legge 24 novembre 2023, n. 168[10].
Con il primo intervento legislativo, in particolare, è stato introdotto l'obbligo per il PM di assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato entro tre giorni dall'iscrizione della notizia di reato. La novella prevede che, qualora il magistrato designato per le indagini non abbia rispettato il suddetto termine, il procuratore della Repubblica possa revocargli l'assegnazione ed assumere, senza ritardo, le informazioni dalla persona offesa o da chi ha presentato denuncia direttamente o mediante assegnazione a un altro magistrato dell'ufficio. È stato inoltre previsto che il procuratore generale presso la Corte d'appello acquisisca con cadenza trimestrale dalle procure della Repubblica del distretto i dati sul rispetto del suddetto termine e invii al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno semestrale[11].
Con l’introduzione della legge 168/2023, invece, sono stati rafforzati gli obblighi di informazione delle vittime, le misure in tema di ammonimento del questore (art. 3, D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito in legge 15 ottobre 2013, n. 119) e le misure di prevenzione (con ampliamento della categoria della pericolosità qualificata, di cui all’art. 4, comma 1, lett. i-ter, del codice antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al D.Lgs 159/2011, mediante l’inserimento degli indiziati dei reati, consumati o tentati, di omicidio, lesioni aggravate dal legame familiare o affettivo ai sensi dell’art. 577, primo comma, n. 1), e secondo comma, cod. pen., deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, violenza sessuale).
Per quanto rileva con riguardo all’argomento oggetto del presente approfondimento, anche con riferimento alle misure di prevenzione, con la legge 168/2023 è stata prevista l’obbligatorietà dell’applicazione delle modalità di controllo a distanza di cui all’art. 275-bis c.p.p. Sul punto si tornerà in séguito.
Tra le altre novità di rilievo introdotte con la legge 168/2023 è opportuno segnalare le modifiche apportate all’art. 132-bis, disp. att., c.p.p., con l’ampliamento dei criteri di priorità per il giudice, sia nella formazione dei ruoli di udienza che nella trattazione dei processi, per i reati tipicamente riconducibili all’area tematica della violenza di genere e domestica, ma non solo. Si tratta dei reati di: violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, costrizione o induzione al matrimonio; lesioni personali aggravate; deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso; interruzione di gravidanza non consensuale; diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti; stato di incapacità procurato mediante violenza, laddove ricorrano le circostanze aggravanti ad effetto speciale dell’avere l’autore agito con il fine di far commettere un reato, ovvero della commissione da parte della persona resa incapace di un fatto previsto dalla legge come delitto.
La norma prevede che deve essere assicurata priorità anche alla richiesta di misura cautelare personale e alla decisione sulla stessa.
A tal fine è stata prevista per i dirigenti degli uffici giudiziari, sia giudicanti che requirenti, l’adozione dei provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la rapida definizione degli affari a trattazione prioritaria.
Per quanto concerne gli uffici requirenti, già con l’art. 41, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. “riforma Cartabia”) erano stati positivizzati criteri di priorità; in particolare, si fa riferimento all’art. 3-bis, disp. att. c.p.p., con il quale è stato previsto che, tanto nella trattazione delle notizie di reato, quanto nell’esercizio dell’azione penale, il pubblico ministero deve conformarsi ai criteri di priorità stabiliti nel documento organizzativo della procura della Repubblica (norma che, invero, potrebbe suscitare dubbi di compatibilità con l’art. 112 Cost., che stabilisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale), di cui, in forza dell’art. 127-bis disp. att. c.p.p. (disposizione introdotta dal medesimo testo di riforma), il procuratore generale deve tener conto anche al fine di determinarsi alla avocazione per l’inerzia dei pubblici ministeri nella trattazione dei fascicoli prioritari.
In materia cautelare, poi, l’art. 362-bis, comma 1, c.p.p. prevede un duplice termine collegato alla domanda cautelare: trenta giorni decorrenti dalla iscrizione della notizia di reato, entro i quali il pubblico ministero, espletate le indagini necessarie, deve valutare i presupposti per formulare la richiesta di misura cautelare; venti giorni dal deposito della istanza cautelare in cancelleria, entro i quali il giudice per le indagini preliminari deve adottare le sue determinazioni.
Si legge nella relazione dell’Ufficio del Massimario innanzi citata che tali previsioni normative hanno come scopo il contenimento del rischio di c.d. vittimizzazione secondaria e ripetuta, “intesa quale sofferenza psicologica derivante non direttamente dall’offesa subita, bensì dalla risposta formale al reato agìta dai soggetti istituzionali che cooperano al suo accertamento, fenomeno stigmatizzato dall’art. 17 della Direttiva Vittime[12], nonché dalla c.d. Convenzione di Istanbul, che impegna gli Stati a prevenirla (art. 18), anche attraverso una adeguata formazione degli operatori (art. 15)”.
Il rispetto di tali principi deve essere garantito anche durante la fase di accertamento delle responsabilità; con sentenza del 27 maggio 2021 - n. 5671/16 in causa J.L c. Italia, la Corte EDU, infatti, ha stigmatizzato il linguaggio “colpevolizzante e moralizzante” utilizzato in una sentenza di assoluzione per il reato di violenza sessuale di gruppo, in quanto riproducente stereotipi culturali inaccettabili e perciò espressivo di vittimizzazione secondaria.
Ancora, con la legge 168/2023 è stata introdotta in sede pre-cautelare, all’art. 382-bis, c.p.p., l’ipotesi della “flagranza differita” per i delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi, atti persecutori, violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; in particolare, si prevede per la Polizia Giudiziaria la possibilità di procedere all’arresto dei responsabili di tali reati sulla base di elementi documentali asseverativi della commissione del fatto: deve trattarsi, in particolare, di documentazione video-fotografica, ovvero di documentazione tratta da dispositivi di comunicazione informatica o telematica.
4. L’obbligatorietà del c.d. “braccialetto elettronico” e l’intervento della Corte Costituzionale (sent. n. 173/2024)
Tanto premesso sulle principali tappe che hanno segnato l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia di reati da c.d. “codice rosso”, è consentito occuparsi del tema oggetto del presente approfondimento.
La principale novità in materia cautelare per tali categorie di reati – il cui catalogo, come a breve si vedrà, è stato ampliato - è indubbiamente quella relativa all’introduzione della previsione dell’obbligatorietà delle procedure di controllo mediante mezzi elettronici (c.d. “braccialetto elettronico” [13]) o altri strumenti tecnici a distanza, con specifico riferimento ai casi in cui vengano applicate le misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis, c.p.p.) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p.).
Con la riforma è stato ampliato il novero dei reati cui sono applicabili le disposizioni “rafforzate”: l’art. 282-bis, comma 6, c.p.p., con riferimento alla misura dell’allontanamento dalla casa familiare, infatti, include oggi anche le fattispecie incriminatrici dell’omicidio tentato e della deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso. In specie, la norma prevede che la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare possa essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p. (norma generale sulle condizioni di applicabilità delle misure cautelari, la quale prevede che possano essere applicate misure cautelari per delitti puniti con pena inferiore superiore nel massimo a tre anni di reclusione) per i delitti previsti dagli “articoli 570, 571, 572, 575, nell'ipotesi di delitto tentato, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d'ufficio o comunque aggravate, 583 quinquies, 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 septies 1, 600 septies 2, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612, secondo comma, 612 bis, del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente”.
Il legislatore nel caso di applicazione di tale misura cautelare per i reati innanzi indicati prescrive l’obbligatorietà delle modalità di controllo previste dall'articolo 275 bis c.p.p. e prevede la prescrizione integrativa del divieto di avvicinamento ad una distanza minima, comunque non inferiore a 500 metri dalla casa familiare e da altri luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa; si è osservato che “secondo il tenore letterale della disposizione […] le procedure di controllo con dispositivi tecnici e divieto di avvicinamento si atteggiano ora a prescrizioni accessorie, che tipicamente ineriscono alla misura dell’allontanamento, sicché deve escludersi la possibilità di un diverso apprezzamento e di una conseguente determinazione giudiziale”[14].
Analoghe previsioni sono stabilite per la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa dall’art. 282-ter c.p.p.; il primo comma di tale previsione, infatti, richiama i casi “di cui all’articolo 282 bis, comma 6”.
Anche per il divieto di avvicinamento ex art. 282-ter c.p.p. si prevede oggi l’obbligatorietà dell'applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall'articolo 275 bis, c.p.p.
All’introduzione dell’obbligatorietà dell’applicazione dei mezzi elettronici di controllo a distanza è correlata una nuova ipotesi di aggravamento delle misure cautelari, ora contemplata dal comma 1-ter, dell’art. 276, c.p.p., il quale, derogando alla regola secondo cui la custodia cautelare in carcere costituisce l’extrema ratio, prevede che “In deroga a quanto previsto nel comma 1, in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora e, comunque, in caso di manomissione dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici di controllo di cui all'articolo 275 bis, anche quando applicati ai sensi degli articoli 282 bis e 282 ter, il giudice dispone la revoca della misura e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere, salvo che il fatto sia di lieve entità”.
Lo “statuto” volto a rafforzare la tutela delle vittime di reati da c.d. codice rosso, comune alle due tipologie di misure cautelari personali coercitive, si arricchisce di ulteriori disposizioni, con le quali si prevede una fattispecie “sanzionatoria”, laddove l’indagato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo a distanza ai sensi dell’art. 275-bis c.p.p.; difatti, con previsioni del tutto sovrapponibili, il penultimo periodo del sesto comma dell’art. 282-bis c.p.p. e del primo comma dell’art. 282-ter c.p.p. nel caso di mancato consenso all’applicazione del braccialetto elettronico da parte del destinatario di tali misure cautelari impongono l’applicazione “con lo stesso provvedimento” (dunque, con la medesima ordinanza applicativa di misure cautelari), anche congiunta, di una misura cautelare più grave.
Analogo meccanismo volto ad assicurare una maggiore tutela delle vittime e a “rendere effettivo il rispetto delle prescrizioni imposte con misure alternative alla custodia intramuraria”[15] è stato introdotto dalla legge 168/2023 anche per le ipotesi di “non fattibilità tecnica”, la quale, è stato osservato[16], “evoca un quid pluris rispetto alla mera disponibilità dello strumento da parte della polizia giudiziaria, implicando una previa verifica delle condizioni di funzionalità tecnica del dispositivo di geolocalizzazione”, il cui accertamento è stato demandato dal legislatore alla Polizia Giudiziaria, quale organo “delegato per l’esecuzione”, il che si evince dal disposto dell’art. 293 c.p.p.: in tale ipotesi, infatti, l’ultimo periodo del sesto comma dell’art. 282-bis e del primo comma dell’art. 282-ter c.p.p. prevedono l’applicazione “anche congiunta”, di ulteriori misure cautelari “anche più gravi”.
Si riporta di seguito il testo sovrapponibile della norma contenuta nelle due disposizioni: “Qualora l'organo delegato per l'esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l'applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi”.
Tale previsione ha suscitato non pochi dubbi interpretativi, giacché, per un verso, in caso di mancato consenso al “braccialetto elettronico” il legislatore ha previsto l’automatica applicazione, con la stessa ordinanza, di una misura cautelare più grave rispetto alle misure cautelari originariamente disposte, di cui agli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p., mentre, per altro verso, è stata prevista l’applicazione “anche congiunta” di ulteriori misure cautelari “anche più gravi”, in caso – originariamente – di “non fattibilità tecnica”. Ma la norma non prevedeva l’applicazione delle ulteriori misure cautelari, anche più gravi, con lo stesso provvedimento.
Un prezioso ausilio nell’esegesi della norma e nella modulazione dell’intervento cautelare con riferimento alle ipotesi della “non fattibilità tecnica” è stato offerto dalla Consulta, con la sentenza n. 173/2024.
Prima di passare in rassegna i passaggi più significativi contenuti nella decisione della Corte Costituzionale è opportuno evidenziare come, contrariamente a quanto previsto dall’art. 275-bis c.p.p. con specifico riferimento alla misura cautelare degli arresti domiciliari, per le misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa non è previsto il preliminare accertamento della fattibilità tecnica delle modalità di controllo a distanza; l’art. 275-bis c.p.p., infatti, nella formulazione così come modificata dalla legge 168/2023 – poi ulteriormente modificata – ha previsto che “Nel disporre la misura degli arresti domiciliari anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, il giudice, salvo che le ritenga non necessarie in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, prescrive procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, previo accertamento della relativa fattibilità tecnica da parte della polizia giudiziaria”.
Analogamente, l’art. 275-bis c.p.p. ha previsto l’applicazione della misura, più grave, della custodia cautelare in carcere con lo stesso provvedimento nel caso di mancato consenso al braccialetto da parte del destinatario della misura cautelare (“Con lo stesso provvedimento il giudice prevede l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere qualora l'imputato neghi il consenso all'adozione dei mezzi e strumenti anzidetti”).
La Corte Costituzionale, con sentenza del 4 novembre 2024 n. 173[17] ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, commi primo e secondo, c.p.p., come modificato dall’art. 12, comma primo, lettera d), numeri 1) e 2), della legge 24 novembre 2023, n. 168 (Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., dal Gip presso il Tribunale di Modena.
Il giudice rimettente aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, commi primo e secondo, c.p.p., così come modificati dalla Legge 24 novembre 2023, n. 168, recante “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica”, con riferimento agli artt. 3 e 13, Cost., per violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, quali corollari del principio di eguaglianza, e con i principi di proporzionalità, adeguatezza e congrua motivazione correlati al principio di riserva di giurisdizione, nella parte in cui non consente al giudice che applichi la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi dalla stessa frequentati, di stabilire una distanza inferiore a quella legalmente prevista di 500 metri, tenendo conto delle specificità del caso concreto, e nella parte in cui prevede che, qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica della modalità di controllo, il giudice debba necessariamente imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari personali coercitive, anche più gravi e non possa, invece, valutare non necessaria nel caso concreto l’applicazione del dispositivo elettronico di controllo, motivandone le ragioni anche in relazione alla garanzia delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p.
La Consulta, con la richiamata decisione, ha rigettato nel merito le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 282-ter, primo e secondo comma, c.p.p., dichiarandole non fondate tanto con riferimento all’imposizione della distanza minima di 500 metri, quanto con riferimento all’applicazione automatica degli strumenti elettronici di controllo a distanza (c.d. “braccialetto elettronico”), ritenendo, con riguardo ai reati di cui al catalogo contenuto nell’art. 282-bis, comma sesto, c.p.p., richiamato dall’art. 282-ter, comma primo, c.p.p. (artt. 570, 571, 572, 575, nell'ipotesi di delitto tentato, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d'ufficio o comunque aggravate, 583 quinquies, 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 septies 1, 600 septies 2, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612, secondo comma, 612 bis, del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente), preminente la tutela dell’incolumità fisica e psicologica della persona offesa.
Con specifico riguardo ai dispositivi di controllo da remoto di cui all’art. 275-bis, c.p.p., la Consulta ha rilevato che l’applicazione degli strumenti di controllo costituisce una modalità esecutiva del divieto di avvicinamento (oltre che della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare), osservando che il controllo elettronico ha una funzione dedicata, che ne distingue la stessa operatività pratica; difatti, mentre negli arresti domiciliari il braccialetto è un presidio unidirezionale, che consente alle forze dell’ordine di monitorare un’eventuale evasione, nel divieto di avvicinamento esso è un presidio bidirezionale, che, in caso di avvicinamento vietato, allerta non solo le forze dell’ordine, ma anche la vittima, dotata di apposito ricettore.
Nell’ottica del contemperamento dei due interessi contrapposti, da un lato, della libertà di movimento dell’indagato, dall’altro, dell’incolumità fisica e psicologica della persona offesa, la Consulta ha privilegiato quest’ultimo interesse, osservando che “il braccialetto elettronico – dispositivo di scarso peso, applicato alla caviglia dell’indagato e quindi normalmente invisibile ai terzi – non impedisce alla persona soggetta al divieto di avvicinamento di uscire dalla propria abitazione e soddisfare tutte le proprie necessità di vita, purché essa non oltrepassi il limite dei cinquecento metri dai luoghi specificamente interdetti o da quello in cui si trova la vittima del reato in relazione al quale il divieto stesso è stato disposto”.
La Corte Costituzionale, poi, ha osservato come “a un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue”.
La previsione dell’obbligatorietà del controllo a distanza, inoltre, è conforme al diritto internazionale ed europeo; infatti, tale previsione “asseconda il criterio di priorità enunciato dall’art. 52 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata e resa esecutiva con legge 27 giugno 2013, n. 77”.
Ancora, hanno osservato i giudici della Consulta, che “Il controllo elettronico nell’attuazione delle ordinanze restrittive e degli ordini di protezione è inoltre specificamente previsto dalla direttiva (UE) 2024/1385 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2024, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica (considerando 46)”.
I giudici della Consulta, inoltre, hanno offerto un’interpretazione costituzionalmente orientata della locuzione contenuta nel penultimo periodo del primo comma dell’art. 282-ter, c.p.p., laddove si prevedeva l’applicazione “anche” congiunta, di ulteriori misure cautelari, “anche” più gravi, in caso di non fattibilità tecnica.
Ebbene, hanno osservato i giudici della Corte Costituzionale che, contrariamente a quanto avviene nel caso di mancato consenso al braccialetto elettronico da parte del destinatario della misura cautelare, fatto a lui imputabile, se questi acconsenta ad indossare il dispositivo e questo non funzioni per motivi tecnici (quale il difetto della copertura di rete, nella locuzione “non fattibilità tecnica”), “il giudice non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di adeguatezza e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (in primis, il divieto od obbligo di dimora ex art. 283 cod. proc. pen.), ma anche una misura più lieve (segnatamente, l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria ex art. 282 cod. proc. pen.)”.
Dunque, i giudici della Consulta, offrendo una lettura costituzionalmente orientata, hanno previsto una “rivalutazione” delle esigenze cautelari da parte del giudice, alla stregua di quanto stabilito con sentenza della Cass., Sez. un., 19 maggio 2016, n. 20769; in ultima analisi, quindi, la Corte Costituzionale ha previsto che laddove sia impraticabile il divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico per ragioni di non fattibilità tecnica, “il giudice deve rivalutare la fattispecie concreta senza preclusioni, né automatismi, e quindi, in aderenza alle regole comuni di adeguatezza e proporzionalità, come può aggravare la coercizione cautelare, così può alleviarla”.
5. Il nuovo intervento normativo: D.L. 178/2024
Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale, il legislatore è intervenuto con il D.L. 29 novembre 2024, n. 178, convertito in L. 23 gennaio 2025, n. 4[18].
Le novità che concernono gli strumenti elettronici di controllo a distanza di cui all’art. 275-bis¸c.p.p. tramite c.d. “braccialetto elettronico antistalking” in materia di misure cautelari non custodiali disposte per reati da c.d. “codice rosso” sono contenute all’art. 7, D.L. 178/2024, con il quale sono state introdotte ulteriori modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, di coordinamento e transitorie, di cui al D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271.
Con il nuovo intervento normativo, in particolare, è stata ampliata la possibilità di adozione di misure cautelari ulteriori, “anche” più gravi, oggi prevista, oltre che per l’ipotesi del mancato consenso del destinatario della misura cautelare all’applicazione dei mezzi di controllo da remoto, anche per le ipotesi di “non fattibilità operativa”, oltre a quella “tecnica” già prevista con la Legge 24 novembre 2023, n. 168. È stata, inoltre, disciplinata la scansione temporale delle modalità applicative del braccialetto elettronico, con l’introduzione di stringenti obblighi esecutivi e comunicativi da parte della Polizia Giudiziaria
È stato sostanzialmente “positivizzato” il meccanismo della “rivalutazione delle esigenze cautelari” da parte del giudice cautelare, suggerito dalla lettura costituzionalmente orientata operata dalla Consulta, nel caso di non fattibilità tecnica, cui si aggiunge l’ipotesi della non fattibilità operativa; infatti, con l’art. 7, D.L. 29 novembre 2024, n. 178, rubricato “Disposizioni urgenti in materia di procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici”, accanto alla “non fattibilità tecnica”, è stata introdotta anche la “non fattibilità operativa”, allo scopo di ampliare la tutela della persona offesa.
Di seguito si riporta il testo della norma citata.
1. Al codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all'articolo 275-bis, comma 1, dopo le parole «fattibilità tecnica» sono inserite le seguenti: «, ivi inclusa quella operativa,»;
b) all'articolo 276, comma 1-ter, dopo le parole «in caso di manomissione» sono inserite le seguenti: «ovvero di una o più condotte gravi o reiterate che impediscono o ostacolano il regolare funzionamento»[19];
c) all'articolo 282-bis, comma 6, quarto periodo, dopo le parole «non fattibilità tecnica» sono inserite le seguenti: «, ivi inclusa quella operativa,»;
d) all'articolo 282-ter, comma 1, quarto periodo, dopo le parole «non fattibilità tecnica» sono inserite le seguenti: «, ivi inclusa quella operativa,».
2. Alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, dopo l'articolo 97-bis è inserito il seguente:
«Art. 97-ter (Modalità di accertamento della fattibilità tecnica, ivi inclusa quella operativa, delle particolari modalità di controllo di cui agli articoli 275-bis, 282-bis e 282-ter del codice). - 1. Quando svolge l'accertamento della fattibilità tecnica, ivi inclusa quella operativa, di cui agli articoli 275-bis, 282-bis e 282-ter del codice, preliminare alla prescrizione delle particolari modalità di controllo da parte del giudice, la polizia giudiziaria, anche coadiuvata da operatori della società incaricata di fornire i relativi servizi elettronici o tecnici, verifica senza ritardo e comunque entro quarantotto ore l'attivabilità, l'operatività e la funzionalità dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici negli specifici casi e contesti applicativi, analizzando le caratteristiche dei luoghi, le distanze, la copertura di rete, la qualità della connessione e i tempi di trasmissione dei segnali elettronici del luogo o dell'area di installazione, la gestione dei predetti mezzi o strumenti e ogni altra circostanza rilevante in concreto ai fini della valutazione dell'efficacia del controllo sull'osservanza delle prescrizioni imposte all'imputato.
2. La polizia giudiziaria trasmette senza ritardo e comunque nelle successive quarantotto ore all'autorità giudiziaria che procede, il rapporto che, ai sensi del comma 1, accerti la fattibilità tecnica, ivi inclusa quella operativa, delle modalità di controllo, per le valutazioni di competenza, compresa l'applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari, anche più gravi.».
Le novità, dunque, attengono anzitutto all’introduzione della non fattibilità operativa delle modalità di controllo a distanza, quale ipotesi che può dar luogo all’applicazione di una misura “anche” congiunta, “anche” più grave in caso di applicazione di misure cautelari personali coercitive dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Se, da una parte, la “non fattibilità tecnica” sembra far riferimento sostanzialmente alle ipotesi di assenza di copertura della rete internet, dall’altra, la locuzione “non fattibilità operativa”, dal valore semantico più esteso, sembrerebbe abbracciare una più ampia varietà di ipotesi, quali: a) l’indisponibilità dei mezzi di controllo a distanza; b) il mancato consenso della persona offesa all’applicazione del braccialetto; c) nelle ipotesi in cui sia previsto il divieto di avvicinamento a una distanza non inferiore a 500 metri dalla persona offesa, l’impossibilità di rispettare la distanza minima (ad esempio, in ragione della distanza inferiore tra le abitazioni e/o i luoghi di lavoro dell’indagato e della persona offesa).
Dunque, con la riforma, alla luce delle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale, anche per tali ipotesi di “non fattibilità operativa” nei casi di applicazione di misure cautelari di cui agli artt. 282-bis e 282-ter, c.p.p., il giudice è chiamato a “rivalutare” le esigenze cautelari e, segnatamente, a operare una scelta cautelare allo scopo di tutelare l’incolumità fisica e psicologica della persona offesa, mediante l’applicazione “anche” congiunta di ulteriori misure cautelari “anche” più gravi.
La riforma, inoltre, all’art. 97-ter, disp. att. c.p.p. ha positivizzato la disciplina “accessoria” (rispetto alla disciplina delle misure cautelari e relativa, in particolare, all’esecuzione delle misure cautelari personali coercitive) dei controlli e degli accertamenti che la Polizia Giudiziaria deve effettuare per applicare il braccialetto elettronico.
In primo luogo, è stato chiarito che la Polizia Giudiziaria può effettuare tali accertamenti anche “coadiuvata da operatori della società incaricata di fornire i relativi servizi elettronici o tecnici”. In secondo luogo, poi, è stato stabilito che tali accertamenti debbano essere “preliminari” alla prescrizione delle particolari modalità di controllo da parte del giudice e, dunque, all’applicazione stessa delle misure cautelari, atteso che, come è stato ribadito anche dalla Corte Costituzionale, la prescrizione dell’applicazione del c.d. “braccialetto elettronico” consegue obbligatoriamente nei casi di applicazione delle misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa per le categorie di reati da c.d. “codice rosso”.
In terzo luogo, con l’art. 97-ter, disp. att., c.p.p., si prevede una scansione temporale degli adempimenti preliminari della Polizia Giudiziaria, la quale è chiamata a verificare senza ritardo e comunque entro quarantotto ore, con ogni evidenza, dall’applicazione della misura cautelare da parte del Gip (come si evince dal riferimento alla prescrizione delle particolari modalità di controllo da parte del giudice): “l'attivabilità, l'operatività e la funzionalità dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici negli specifici casi e contesti applicativi, analizzando le caratteristiche dei luoghi, le distanze, la copertura di rete, la qualità della connessione e i tempi di trasmissione dei segnali elettronici del luogo o dell'area di installazione, la gestione dei predetti mezzi o strumenti e ogni altra circostanza rilevante in concreto ai fini della valutazione dell'efficacia del controllo sull'osservanza delle prescrizioni imposte all'imputato”.
Compiute tali verifiche, ai sensi del secondo comma dell’art. 97-ter, c.p.p., la Polizia Giudiziaria deve redigere un rapporto, in modo tale da consentire al giudice di rivalutare le esigenze cautelari; la norma, infatti, prevede che “La polizia giudiziaria trasmette senza ritardo e comunque nelle successive quarantotto ore all'autorità giudiziaria che procede, il rapporto che, ai sensi del comma 1, accerti la fattibilità tecnica, ivi inclusa quella operativa, delle modalità di controllo, per le valutazioni di competenza, compresa l'applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari, anche più gravi”.
Infine, è stata introdotta dal D.L. 29 novembre 2024, n. 178 una nuova ipotesi di aggravamento della misura cautelare in caso di trasgressione, ai sensi dell’art. 276, c.p.p., al comma 1-ter, in quanto, dopo le parole «in caso di manomissione» sono state inserite le seguenti: «ovvero di una o più condotte gravi o reiterate che impediscono o ostacolano il regolare funzionamento».
La disciplina di cui all’art. 97-ter, disp. att. c.p.p., se per un verso sembrerebbe introdurre una generalizzazione del meccanismo dell’accertamento preliminare della fattibilità tecnica delle modalità di controllo a distanza di cui all’art. 275-bis c.p.p. previsto dal codice di rito solo per la misura degli arresti domiciliari (cui si è aggiunta la verifica della fattibilità operativa), per altro verso, a parere di chi scrive, rivela un difetto di coordinamento della disciplina introdotta nelle disposizioni di attuazione con la disciplina “principale” contenuta nelle disposizioni che contengono la disciplina delle misure cautelari, di cui agli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p., nelle quali non è prevista la preliminare verifica da parte del giudice che applica la misura cautelare.
6. La nuova normativa tra problematiche applicative e incertezze interpretative: il rischio di (nuova) collisione con i principi affermati dalla Corte EDU
Tale disciplina, secondo l’opinione di chi scrive, pone un serio problema di “discovery”, atteso che la norma delle disposizioni di attuazione, contrariamente a quanto stabilito nel testo delle norme contenute nel codice di procedura penale, prevede che le verifiche sulla “fattibilità tecnica o operativa” siano effettuate in via preliminare rispetto alla prescrizione delle particolari modalità di controllo ex art. 275-bis, c.p.p., che, occorre ribadire, è obbligatoria per tali misure cautelari.
La previsione del preventivo accertamento delle modalità di controllo a distanza nei casi di applicazione delle misure cautelari di cui agli artt. 282-bis e 282-ter c.p.p. si pone in antinomia, oltre che in contrasto logico con le previsioni introdotte in tema di interrogatorio preventivo; difatti, se da una parte, ai sensi dell’art. 291, comma 1-quater, c.p.p., è previsto che non debba darsi corso all’interrogatorio preventivo se si procede in relazione ad uno dei delitti indicati […] all’articolo 362, comma 1-ter, c.p.p., proprio per evitare rischi per l’incolumità della vittima, dall’altra, proprio la previsione dell’accertamento preventivo delle modalità di controllo da parte della Polizia Giudiziaria si risolve, di fatto, in una anticipazione dell’imminente applicazione della misura cautelare nei confronti del destinatario della stessa in contesti particolarmente delicati, in quanto caratterizzati da particolare vicinanza tra l’aggressore e la vittima, oltre che, come quasi sempre accade, caratterizzati dalla condivisione degli stessi ambienti di vita e degli spazi abitativi, con correlato imminente e irreparabile rischio per l’incolumità psico-fisica della vittima, oltre che di vittimizzazione secondaria: ciò, in quanto, la necessaria verifica della fattibilità tecnica o operativa, che si prevede come preliminare, presuppone, come dallo stesso legislatore stabilito, l’accertamento dell'attivabilità, dell’operatività e della funzionalità dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici negli specifici casi e contesti applicativi “analizzando le caratteristiche dei luoghi, le distanze, la copertura di rete, la qualità della connessione e i tempi di trasmissione dei segnali elettronici del luogo o dell'area di installazione, la gestione dei predetti mezzi o strumenti e ogni altra circostanza rilevante in concreto ai fini della valutazione dell'efficacia del controllo sull'osservanza delle prescrizioni imposte all'imputato” (anche il riferimento all’imputato, in luogo dell’indagato o “persona sottoposta alle indagini” tradisce il difetto di coordinamento con la disciplina della cautela contenuta nel codice).
In altri termini, la verifica effettuata dalla Polizia Giudiziaria, preliminare all’intervento cautelare e in funzione dello stesso, anche con l’ausilio degli “operatori della società incaricata di fornire i relativi servizi elettronici o tecnici” rende manifesta al destinatario della misura cautelare, prima ancora che questa sia applicata, non solo la circostanza dell’avvio di un procedimento penale nei suoi confronti per effetto di una denuncia sporta da un suo familiare o convivente o comunque da persona allo stesso legata da relazioni strette ma anche, e soprattutto, l’imminente applicazione nei suoi confronti della misura cautelare, con deflagranti conseguenze per la vittima, in quei contesti in cui, proprio per la particolare vicinanza tra la vittima e l’indagato, è necessario il tempestivo e risolutivo intervento delle autorità. Così, di fatto, si rischia di vanificare l’intervento cautelare e, soprattutto, di porre in serio e imminente rischio l’incolumità psico-fisica della vittima.
Vi sono, a parere di chi scrive, dunque, seri problemi di coordinamento tra le due norme e di grave contrasto con la ratio sottesa alla previsione di cui al citato comma 1-quater dell’art. 291, c.p.p.: ciò, anche alla luce della circostanza che – come peraltro ribadito dalla Corte Costituzionale – per i reati da c.d. “codice rosso” è prevista, in caso di applicazione delle misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, l’applicazione automatica del braccialetto elettronico.
Occorre osservare che tali misure cautelari sono eseguite (al pari della misura degli arresti domiciliari) ai sensi degli artt. 292, 293 c.p.p., mediante notifica al destinatario dell’ordinanza applicativa della misura cautelare, da parte della Polizia Giudiziaria.
Dunque, per effetto dell’interpretazione del complesso delle disposizioni citate, così come modificate, le misure cautelari di cui all’art. 282-bis o di cui all’art. 282-ter c.p.p. per i reati da c.d. “codice rosso” (delitti di cui agli artt. 570, 571, 572, 575, nell'ipotesi di delitto tentato, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d'ufficio o comunque aggravate, 583 quinquies, 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 septies 1, 600 septies 2, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612, secondo comma, 612 bis, del codice penale, commesso in danno dei prossimi congiunti o del convivente) non possono essere applicate senza il preventivo accertamento delle modalità di controllo a distanza (stante l’obbligatorietà dell’utilizzo del braccialetto elettronico); con il conseguente inevitabile ritardo nell’esecuzione dell’intervento cautelare.
Il che, a parere di chi scrive, offrirebbe il fianco a censure di legittimità costituzionale, con particolare riferimento agli artt. 2, 32 Cost., nonché con riferimento all’art. 117, comma prima, Cost., in relazione alle previsioni di cui agli artt. 2, 3 e 8, CEDU e al diritto CEDU, come è stato interpretato con le sentenze CEDU, 2 marzo 2017, Talpis contro Italia, CEDU 7 aprile 2022, Landi c. Italia CEDU, 16 giugno 2022, De Giorgi c. Italia: ciò in quanto, fra gli obblighi positivi delle autorità italiane rientrano altresì i cosiddetti “obblighi procedurali”, dai quali discende il dovere per le autorità pubbliche di instaurare un procedimento penale effettivo e tempestivo.
Ebbene, una simile lettura della norma sarebbe suscettibile di determinare un contrasto con il diritto alla salute e con la tutela dell’incolumità delle vittime di c.d. “violenza di genere” e delle relazioni domestiche, frustrando il dovere, sancito dalla CEDU, di instaurare un procedimento penale effettivo e tempestivo, determinando una violazione connotata da un maggior grado di lesività rispetto alle vicende sottoposte al vaglio della Corte di Strasburgo, in quei casi, cioè, in cui l’instaurazione del procedimento penale abbia condotto addirittura alla valutazione da parte del giudice della necessità dell’applicazione di misure cautelari personali, frustrando così in modo irreparabile le concrete ed effettive esigenze di tutela della vittima violenza domestica, con un serio rischio per la sua incolumità psico-fisica, realizzando un’ipotesi di vittimizzazione secondaria, specie in quei contesti caratterizzati dalla familiarità o da convivenza o da contesti di particolare vicinanza affettiva o di prossimità o, comunque, di condivisione di ambienti abitativi.
A tali considerazioni devono aggiungersi ulteriori osservazioni che si fondano sul dato esperienziale tratto delle quotidiane problematiche applicative diffuse presso gli uffici giudiziari.
Non di rado accade che la società addetta alle verifiche sulla fattibilità tecnica o operativa degli strumenti elettronici per il controllo a distanza segnali all’autorità giudiziaria che tali prestazioni non sono “contrattualizzate”; in altri termini, si vuol dire, tale accertamento preventivo non costituisce (ancora) oggetto delle prestazioni pattuite nei contratti di lavoro stipulati allo scopo di garantire l’installazione degli strumenti elettronici di controllo a distanza, essendo disciplinata soltanto quest’ultima prestazione, e cioè, la materiale installazione dei dispositivi.
Ancora, non costituisce evenienza remota la circostanza che la necessità di compiere gli accertamenti per verificare la fattibilità tecnica o operativa degli strumenti di controllo a distanza sorga in un orario non ricadente nell’orario di servizio degli operatori della società incaricata di fornire i relativi servizi elettronici o tecnici, ai quali viene demandato dal legislatore il compito di coadiuvare gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria incaricati dell’esecuzione degli accertamenti preventivi in funzione dell’esecuzione delle misure cautelari.
Infine, spesso accade nella prassi giudiziaria – specie a causa del notevole incremento delle misure cautelari disposte per tali reati per l’ingravescenza del fenomeno e, dunque, della vertiginosa crescita della domanda di “braccialetti elettronici” – che venga segnalata l’impossibilità di applicare gli strumenti di controllo a distanza a causa dell’indisponibilità degli stessi, per reperire i quali sono spesso necessari diversi giorni, se non mesi.
E allora, in tali casi, non si vede come il colpevole ritardo nell’esecuzione degli accertamenti sulla fattibilità tecnica o operativa, a causa della eccentricità delle prestazioni rispetto a quelle disciplinate dai contratti stipulati con gli operatori della società incaricata di fornire i servizi elettronici o tecnici per l’applicazione dei dispositivi o a causa della indisponibilità degli operatori della società, che pure coadiuvano la PG, allorché sorga – spesso in tarda ora – la necessità di compiere tali accertamenti o la materiale indisponibilità di strumenti di controllo a distanza (con conseguente impossibilità di procedere persino agli accertamenti preliminari all’applicazione del braccialetto elettronico e all’applicazione, successivamente, della misura cautelare), non possa dar luogo ad una violazione del dovere procedurale di assicurare un tempestivo e intervento dell’autorità italiana in tema di contrasto ai reati da c.d. “codice rosso”.
In tale contesto la positivizzazione, all’art. 97-ter, disp. att., c.p.p. di un lasso temporale (“senza ritardo e comunque nelle successive quarantotto ore”) entro il quale la polizia giudiziaria deve trasmettere all'autorità giudiziaria che procede il rapporto che, ai sensi del comma 1 della medesima disposizione, accerti la fattibilità tecnica, ivi inclusa quella operativa, delle modalità di controllo, per la “rivalutazione” delle esigenze cautelari, oltre a determinare una vera e propria peculiarità, dal momento che si prevede per il giudice la necessità di valutare l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari, anche più gravi, prima ancora di pronunciarsi sull’applicazione della misura cautelare (atteso che, in quel momento, esiste solo la richiesta di misura cautelare del PM, non anche l’ordinanza applicativa della misura cautelare, giacché è richiesto il preliminare accertamento della fattibilità tecnica o operativa delle modalità di controllo a distanza solo per le misure cautelari degli arresti domiciliari, ex art. 275-bis c.p.p. e dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ai sensi dell’art. 97-ter, disp. att., c.p.p.) - accertamento che, ove effettuato (così come prevede la norma) prima dell’applicazione della misura cautelare si rivela inutile, atteso che, accade spesso che l’indagato e la persona offesa siano conviventi, con l’impossibilità, per esempio, di verificare la fattibilità operativa, sotto il profilo dell’accertamento delle distanze, della copertura di rete, della qualità della connessione e dei tempi di trasmissione dei segnali elettronici del luogo o dell'area di installazione -, produce indubbiamente quale effetto quello dell’ineluttabile differimento dell’intervento cautelare, frustrando gli obblighi procedurali volti ad assicurare un intervento effettivo e tempestivo a tutela della vittima (come più volte ribadito dalla Corte EDU) e tradendo la necessità di intervenire “a sorpresa”, pure riconosciuta dallo stesso legislatore in materia di deroga all’interrogatorio preventivo (in ragione della deroga contenuta nell’art. 291, comma 1-quater, c.p.p., con riferimento ai reati di cui all’art. 362, comma 1-ter c.p.p.), con conseguente discovery dell’imminente intervento cautelare nei confronti della persona sottoposta ad indagini per reati da “codice rosso”, con correlato rischio concreto di vittimizzazione secondaria per la vittima e, soprattutto, con effetti deflagranti e potenzialmente letali per l’incolumità psico-fisica della vittima stessa.
Né la previsione del termine di 48 ore per la redazione e la trasmissione del rapporto informativo della Polizia Giudiziaria all’autorità giudiziaria sulla fattibilità tecnica e operativa sarebbe suscettibile, a parere di chi scrive, di superare le criticità correlate al rispetto dei principi affermati dalla Corte EDU (con potenziale collisione con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 7 CEDU), in quanto, oltre ai profili di conflitto innanzi evocati, di fatto tale scansione temporale determinerebbe, con riferimento al periodo corrispondente al lasso temporale di 48 ore, un vuoto di tutela della vittima sotto il profilo dell’intervento cautelare – con potenziale rischio di conseguenze drammatiche per la stessa – e, con riguardo al lasso temporale successivo, il rischio di violazione dei principi di proporzionalità e di effettività dell’intervento cautelare, essendo di fatto rimessa al giudice la valutazione in merito all’applicazione “anche” congiunta (e, tuttavia, considerata l’obbligatorietà dell’applicazione del braccialetto elettronico, non si comprende come si possa applicare tale misura cautelare “anche” congiuntamente ad altra) di altre misure cautelari “anche” più gravi; con l’ulteriore conseguenza che l’applicazione di una misura cautelare più lieve rischia di vanificare il principio di effettività dell’intervento cautelare.
Né, si osserva, è disciplinata dal legislatore l’evenienza – molto frequente nella pratica – della successiva verifica positiva da parte della Polizia Giudiziaria della fattibilità tecnica a operativa degli strumenti di controllo a distanza; ci si chiede, in altri termini, se in tale ipotesi “riviva” la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare o del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Peraltro, in tali ipotesi in sede cautelare sovente si ravvisa il concreto rischio in ordine alla acquisizione o alla genuinità delle fonti di prova, correlato all’acquisizione dell’apporto dichiarativo della persona offesa, a causa dei possibili tentativi di condizionamento delle sue dichiarazioni da parte dell’indagato, con potenziale definitiva perdita, nella proiezione del giudizio dibattimentale, della possibilità di acquisizione di una prova decisiva ai fini dell’affermazione della penale responsabilità dell’autore del reato.
[1] Si fa riferimento, in particolare, alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011), ratificata dall’Italia ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77; Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, attuata con il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212; si veda anche l’art. 51 CEDU, che demanda alle Parti contraenti l’adozione delle misure legislative o di altro tipo, necessarie per consentire alle autorità competenti di “valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti” e per garantire un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno alle vittime”.
[2] Tra gli interventi delle Corti Europee, particolare attenzione merita la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 2 marzo 2017 - Ricorso n. 41237/14 - Causa Talpis c. Italia; R. CASIRAGHI, La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per la mancata tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in Diritto Penale Contemporaneo, 3/2017. La sentenza può leggersi in:
[3] Relazione su novità normativa, n. 62/19, 27 ottobre 2019. Legge 19 luglio 2019, n. 69, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere
[4] Così si legge nella Relazione dell’Ufficio del Massimario sulla Legge 69/2019.
[5] Sul punto si veda F. CACACE, I rischi di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni nei programmi di giustizia riparativa, in Giurisprudenza penale, 15 ottobre 2025.
[6] Di seguito si riporta il passo di interesse tratto dalla pronuncia in commento: “La Cour relève qu’une information judiciaire a été ouverte à l’encontre de A.T. pour des délits de maltraitance familiale, lésions corporelles aggravées et menaces. La police a transmis la plainte de la requérante au parquet le 9 octobre 2012. Le 15 octobre 2012, le parquet, eu égard à la demande de mesures de protection formulée par la requérante, a ordonné de manière urgente des mesures d’investigation. Il a en particulier demandé à la police de vérifier s’il y avait eu des témoins, y compris la fille de la requérante. Elle note que, entre-temps, la requérante avait trouvé refuge, par le biais d’une association, dans un centre pour les victimes de violences, où elle est restée pendant trois mois. La Cour note qu’aucune ordonnance de protection n’a été émise, que le parquet a réitéré sa demande auprès de la police en mars 2013 en soulignant l’urgence de la situation et que la requérante n’a été entendue qu’en avril 2013. n effet, alors même que, dans le contexte des violences domestiques, des mesures de protection sont en principe destinées à parer au plus vite à une situation de danger, la Cour relève qu’il aura fallu attendre sept mois avant que la requérante fût entendue. Un tel délai ne pouvait que priver la requérante du bénéfice de la protection immédiate que la situation requérait. Certes, comme le soutient le Gouvernement, durant la période en cause, la requérante n’a pas été victime de nouvelles violences physiques de la part de A.T. Cela étant, la Cour estime qu’on ne saurait ignorer le sentiment de peur dans lequel la requérante, harcelée par téléphone par A.T., a vécu lors de son hébergement dans le centre. […] La Cour rappelle que, dans les affaires de violences domestiques, les droits de l’agresseur ne peuvent l’emporter sur les droits des victimes à la vie et à l’intégrité physique et mentale (Opuz, précité, § 147). Qui plus est, l’État a l’obligation positive de mettre en œuvre préventivement des mesures d’ordre pratique pour protéger l’individu dont la vie est menacée. Dans ces circonstances, la Cour conclut que les autorités ne sauraient passer pour avoir fait preuve de la diligence requise. Dès lors, elle estime qu’elles ont manqué à leur obligation positive de protéger la vie de la requérante et de son fils au titre de l’article 2 de la Convention. Au vu de ce qui précède, la Cour estime que les manquements constatés ci-dessus ont rendu la plainte pénale de la requérante inopérante dans les circonstances de l’espèce. Dès lors, elle rejette l’exception préliminaire du Gouvernement tirée du non-épuisement des voies de recours internes (paragraphe 68 ci-dessus) et conclut à la violation de l’article 2 de la Convention.
[…] la Cour estime également que, dans le traitement judiciaire du contentieux des violences contre les femmes, il incombe aux instances nationales de tenir compte de la situation de précarité et de vulnérabilité particulière, morale, physique et/ou matérielle de la victime, et d’apprécier la situation en conséquence, dans les plus brefs délais. En l’espèce, rien ne saurait expliquer la passivité des autorités pendant une période aussi longue – sept mois – avant le déclenchement des poursuites pénales. De même, rien ne saurait expliquer pourquoi la procédure pénale pour lésions corporelles aggravées engagée après la plainte déposée par la requérante a duré trois ans, pour s’achever le 1er octobre 2015.
Au regard des constats opérés en l’espèce, la Cour estime que la manière dont les autorités internes ont mené les poursuites pénales dans la présente affaire participe également de cette passivité judiciaire et ne saurait passer pour satisfaire aux exigences de l’article 3 de la Convention.
[7] S. CARRER, La Corte EDU promuove le riforme dell’Italia in materia di violenza domestica, ma boccia la grave inerzia delle autorità nell’applicare le misure di protezione (sentenza Landi c. Italia, 7 aprile 2022), in Giurisprudenza penale, 18 aprile 2022. Corte europea dei diritti dell’uomo. Sentenza 7 aprile 2022, LANDI c. ITALIA (N. 10929/19); scheda di lettura a cura di Mariangela Montagna, in Archivio Penale, 7 aprile 2022; A. RAIMONDI, Landi c. Italia: la Corte EDU accerta la violazione dell’art. 2 CEDU in un gravissimo caso di violenza domestica, in Unione dei Diritti Umani, https://www.unionedirittiumani.it/newsletter/landi-c-italia-la-corte-edu-accerta-la-violazione-dellart-2-cedu-in-un-gravissimo-caso-di-violenza-domestica/; E. A. A. DEI CAS, La Corte europea condanna ancora l’Italia per violazione degli obblighi positivi derivanti dall’art. 2 nei confronti di vittime di violenze domestiche, in Archivio Penale, 16 maggio 2022.
La sentenza può leggersi in: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU377966.
[8] M. FALCONE, Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 2/2023 - La giurisprudenza della C. Edu. in materia di protezione delle donne vittime di violenza domestica. La più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di protezione delle donne vittime di violenza domestica, in Sistema Penale; M. MONTAGNA, Violazione art. 3 C.e.d.u. (sostanziale e processuale) – Trattamento inumano e degradante - Inadempimento dello Stato nel suo dovere di indagare sui maltrattamenti di violenza domestica (Corte EDU, Sez. I, 16 giugno 2022, De Giorgi c. Italia, n. 23735/19), in Archivio Penale,
La sentenza può leggersi in: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU389126
[9] Legge 8 settembre 2023, n. 122- Poteri del procuratore della Repubblica in materia di assunzione di informazioni dalle vittime di violenza domestica e di genere (G.U. 15.09.2023), in Archivio Penale.
[10]Relazione su novità legislative, n. 8 del 2024, Rel. 08/2024, del 12 marzo 2024 “La Legge n. 168 del 2023”; Legge 24 novembre 2023, n. 168 - Contrasto alla violenza sulle donne e domestica, in Archivio Penale, 24 novembre 2023; G. AMARA, Legge 24 novembre 2023, n. 168 “disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica”, in Giustizia Insieme, 11 dicembre 2023; C. MORGANTI, L. 24 novembre 2023, n. 168: Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica, 15 aprile 2024, in Rivista Penale Diritto e Procedura; Focus “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica” (Legge n. 168/2023), in https://www.programmagoverno.gov.it/it/notizie/focus-disposizioni-per-il-contrasto-della-violenza-sulle-donne-e-della-violenza-domestica-legge-n-1682023/;
[11] In particolare, al D.Lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, sono state apportate le seguenti modifiche, con l’introduzione del comma 2 bis: “Quando si procede per il delitto previsto dall'articolo 575 del codice penale, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis del codice penale, ovvero dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del medesimo codice, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato, revocare l'assegnazione per la trattazione del procedimento se il magistrato non osserva le disposizioni dell'articolo 362, comma 1-ter, del codice di procedura penale. Entro tre giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della Repubblica. Il procuratore della Repubblica, direttamente o mediante assegnazione a un altro magistrato dell'ufficio, provvede senza ritardo ad assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, salvo che sussistano le imprescindibili esigenze di tutela di cui all'articolo 362, comma 1-ter, del codice di procedura penale”. Al comma 6, dopo il comma 1, è stato aggiunto il comma 1-bis, il quale prevede che: “Il procuratore generale presso la corte di appello ogni tre mesi acquisisce dalle procure della Repubblica del distretto i dati sul rispetto del termine entro il quale devono essere assunte informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza nei procedimenti per i delitti indicati nell'articolo 362, comma 1-ter, del codice di procedura penale e invia al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno semestrale”.
[12] DIRETTIVA 2012/29/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 25 ottobre 2012, il cui art. 17 prevede: “
[13] Sul tema, C. CASTALDO, Il punto sul braccialetto elettronico, in Giustizia Insieme.
[14] Sul punto si veda la Relazione dell’Ufficio del Massimario, innanzi citata.
[15] Così si legge nella Relazione dell’Ufficio del Massimario.
[16] Ivi.
[17] M. BILLI, Divieto di avvicinamento nei reati di genere, distanza minima di 500 metri e obbligo di braccialetto elettronico: la sentenza della Corte costituzionale (173/2024), in Giurisprudenza Penale; A. M. CAPITTA, Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa – Corte cost., n. 173 del 2024, in Archivio Penale.
[18] Legge 23 gennaio 2025, n. 4 - Conversione in legge del decreto legge n. 178 del 2024 recante misure urgenti in materia di giustizia (GU 24.01.2025), in Archivio Penale.
[19] Si riporta il nuovo testo dell’art. 276, comma 1-ter, c.p.p.: “In deroga a quanto previsto nel comma 1, in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora e, comunque, in caso di manomissione ovvero di una o più condotte gravi o reiterate che impediscono o ostacolano il regolare funzionamento dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici di controllo di cui all'articolo 275 bis, anche quando applicati ai sensi degli articoli 282 bis e 282 ter, il giudice dispone la revoca della misura e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere, salvo che il fatto sia di lieve entità”.
È questo il tema scelto dall'ONU per la ricorrenza del 25 novembre di quest'anno.
Un tema sul quale la United Nations Broadband Commission ha fatto il punto in maniera estremamente analitica e completa.
Nel report elaborato dal Gruppo di lavoro della commissione, composto da UNDP dal Segretariato generale dell'ONU e da UN Women si parte dalla constatazione che occorre urgentemente combattere con ogni mezzo la violenza contro donne e ragazze agita online poiché milioni sono le persone che globalmente sono attinte da questo crescente e insidioso problema mentre la gran parte dei Paesi ancora non lo affronta in modo analitico e risolutivo.
La commissione rileva che almeno tre quarti delle donne online sono state esposte a qualche forma di cyber violenza, sì che l'entità del problema impone che i governi e la società civile lavorino insieme al fine di attivare una seria protezione del gran numero di donne e ragazze che sono vittime di minacce o violenze online.
Il documento nota che nonostante il rapido crescere del numero delle donne che fanno esperienza della violenza online, soltanto una piccola percentuale di Paesi ha emanato normative idonee a intraprendere un'azione appropriata per arginare il fenomeno.
Intitolato Combating On Line Violence Against Women and Girls, A Worldwide Wake Up Call, il documento evoca al tempo stesso un campanello d’allarme e una chiamata al risveglio rivolta a chiunque ed è finalizzato a mobilizzare il settore pubblico e privato onde stabilire concrete strategie per porre un freno alla crescita di questo tipo di violenza agita contro le donne.
Senza un'azione concertata e globale al fine di verificare, accertare e stroncare l'escalation delle varie forme di violenza online, la crescita senza precedenti della violenza contro le donne e le ragazze può impedire in maniera significativa e dirompente l'utilizzo dei servizi offerti dall'Internet per le donne di tutte le parti del mondo, creando un sistema paralizzante che include le molestie (harassment), l’umiliazione (il public shaming), la manifestazione di volontà di infliggere ferite fisiche, di consumare violenze sessuali, di uccidere nonché di indurre al suicidio.
La rapida diffusione dell'Internet sta a significare che un controllo legale e sociale di comportamenti antisociali e criminali continua ad essere un'immensa sfida e una assoluta necessità, nell'era del sempre più dilagante Social Internet e del definitivo “mobile access”, ormai diffuso ovunque e che fa parte del nostro vivere quotidiano.
È sulla scorta di queste considerazioni che la commissione afferma che un atteggiamento compiacente o fallimentare rispetto all’affrontare e al risolvere il problema della cyber violenza potrebbe significativamente impedire o quantomeno fortemente limitare il libero e gratificante accesso all'Internet da parte di donne e bambine: il Net è una importante risorsa per la crescita e l'arricchimento personale ma per questo c’è bisogno di assicurare che un numero quanto più possibile alto di donne e bambine possa beneficiare delle incredibili possibilità che vi sono offerte.
Le chiavi di analisi individuate dal documento includono la verifica dei seguenti dati: donne di tutte le età - ma in particolare quelle in un range di età dai 18 ai 24 anni - hanno sperimentato lo stalking e la violenza sessuale in aggiunta alle minacce fisiche; una su cinque delle utilizzatrici dell’Internet vive in Paesi dove la violenza e l'abuso delle donne online è ben lontano dall'essere considerato e punito; in molti Paesi le donne sono riluttanti a riferire della loro vittimizzazione per paura di ripercussioni sociali; infine la cyber violenza ha profonde ripercussioni sia sotto l'aspetto emozionale e personale sia sulle attività lavorative, le risorse finanziarie e le occasioni perse di sviluppo.
Partendo dalla considerazione che la violenza online ha sovvertito l'originale promessa positiva di un'Internet libero e che in troppe circostanze è diventato un “killing space” che permette atti di crudeltà che restano anonimi e facilita atti di violenza contro donne e ragazze, il documento ribadisce la necessità che si comprenda che l'abuso online è davvero un abuso e che ha enormi potenzialità e reali conseguenze.
Il documento infine presenta un insieme di raccomandazioni che riassume con le tre S della sensibilizzazione, salvaguardia e sanzioni.
Sensibilizzazione significa prevenire la cyber violenza attraverso la formazione, l'insegnamento e l’attuazione costante di campagne di sviluppo finalizzate a promuovere effettive modifiche nelle attitudini e nei comportamenti sociali.
Salvaguardia significa implementare le infrastrutture attraverso soluzioni tecniche e pratiche più informate per gli utilizzatori e le utilizzatrici.
Sanzionare significa sviluppare ed incrementare leggi, regolamenti e meccanismi governativi per scoraggiare e punire chi commette questi atti: in modo tale da consentire la creazione di un insieme di regole normative e pratiche che consentano di bandire la cyber violenza dall'Internet, obiettivo che rappresenta una pietra miliare affinché il Net possa diventare un positivo, sicuro e rispettoso luogo di crescita anche per donne e bambine, oltre che naturalmente per ragazzi e uomini.
Concludendo: in questo documento è descritto tutto ciò che è accaduto da un po' di tempo a questa parte, che ancora accade e inoltre tutto quello che occorre fare per evitare che ciò accada ancora.
Il fatto è che documento risale al novembre 2015. Uno spunto di riflessione in più per questo 25 novembre 2025.
Rigenerazione urbana e discrezionalità amministrativa: la proprietà pubblica in un equilibrio instabile tra onere e scelta (nota a Cons. St., sez. IV, 2 luglio 2025, n. 5719)
Sommario: 1. L’ambiguità della nozione di rigenerazione urbana e ambientale. Un invariante necessaria. - 2. Il caso dell’Arena di Milano: la legittimità della scelta di non acquisire la proprietà al patrimonio pubblico. - 3. Il ruolo ordinante della pianificazione urbanistica tra razionalità economica e valori costituzionali. - 3.1 Il peso economico delle scelte pubbliche: sostenibilità finanziaria e regime dei beni nella rigenerazione urbana. - 3.2 Il grande evento come fattore determinante nella qualificazione dell’opera di interesse generale. - 4. La dimensione necessariamente pluralista della rigenerazione urbana
1. L’ambiguità della nozione di rigenerazione urbana e ambientale. Un invariante necessaria
Le attività ascrivibili all’ampia e indefinita nozione di rigenerazione urbana sfuggono, come noto, a una sistemazione e categorizzazione fissa e immutabile, aspetto che rende incerto se la stessa attività di cui si discorre rappresenti un fine cui ambire o uno strumento diretto al raggiungimento di obiettivi ulteriori.
Lo sviluppo razionale e sostenibile dei territori deve, oggi, prevedere quale premessa logica e necessaria il contenimento del consumo di suolo[1], che deve realizzarsi attraverso una serie di interventi e di politiche pubbliche, tra le quali si deve segnalare proprio la rigenerazione urbana, che consente di orientare e condizionare le attività urbanistiche principalmente verso quelle che integrano interventi di riqualificazione e valorizzazione dell’esistente.
Dalla fine degli anni 2000, la progressiva riduzione delle iniziative pubbliche di rigenerazione urbana - che si era nel frattempo imposta come modello di riferimento - a causa delle diverse crisi economiche verificatesi, ha imposto, in termini generali, un ripensamento dell’intero modello di amministrazione dei territori, soprattutto urbani, attraverso alcuni accorgimenti, tra i quali il riconoscimento di un ruolo sempre crescente ai privati[2] o, in ogni caso, il ricorso a forme di collaborazione tra pubblico e privato[3].
Nell’ultimo decennio, tuttavia, le politiche pubbliche in tema di rigenerazione urbana hanno attraversato una fase di rinnovata centralità e hanno consentito di riportare la pianificazione al centro del dibattito e, per tale via, hanno restituito peso al decisore pubblico, da intendersi soprattutto quale ente locale preposto all’intervento, anche in termini di soggetto in capo al quale ricadono gli oneri e le poste passive dell’attività.
La rigenerazione urbana e ambientale deve, oggi, attuarsi attraverso una pianificazione o programmazione di ampio respiro, sostenibile e di carattere strategico, al fine di ambire a divenire strumento ordinario di razionalizzazione dei territori[4], superando anche la contingenza di singole e isolate linee di finanziamento pubblico.
La crisi economica e l’affannosa rincorsa a garantire la sostenibilità degli interventi sono i cardini e le spinte intorno alle quali deve muoversi un percorso induttivo, nel quale gli strumenti, ma anche gli attori, sono individuati e definiti in forma riflessa, in funzione degli obiettivi - da intendersi come correlati ai vincoli - da perseguire.
L’indeterminatezza semantica, e quindi di regime, dell’espressione rigenerazione urbana non è fugata, né superata, ma resta una nozione che si pone, come osservato[5], tra il diritto alla città[6] e il diritto delle città e che potrebbe finanche assurgere al rango di funzione amministrativa propria e composita.
Si tratta di una politica di governo del territorio, nella quale si recupera il ruolo centrale del soggetto pubblico, al fine di realizzare un’attività di pianificazione complessa e consapevole, che provveda a una sintesi razionale delle attività tradizionali, anche se con i necessari correttivi.
Si deve, in ogni caso e come punto logico di partenza, osservare che si tratta di attività che hanno ad oggetto una parte di suolo già trasformata, di cui si deve limitare il deterioramento, attraverso sviluppo e recupero delle stesse aree.
Si potrebbe rendere necessario un ripensamento, magari non necessariamente radicale, delle modalità di gestione del territorio, che è integrata da due ipotesi, la microgenerazione, che si sostanzia in iniziative puntuali basata su modelli di amministrazione condivisa e la macrogenerazione, che si basa su una pianificazione strategica, complessa e che si avvale soprattutto della pianificazione urbanistica affidata ai comuni[7], oggetto della presente analisi.
Le difficoltà, o forse gli ostacoli al perfezionamento di un modello di urbanistica adeguato alle esigenze contemporanee, sono da rinvenirsi principalmente in carenze in termini di organizzazione - tecniche ed economiche - e di misurazione e verifica dei risultati, che divengono i punti di incrocio, ma anche di confine, che delimitano l’area anche delle presenti riflessioni.
2. Il caso dell’Arena di Milano: la legittimità della scelta di non acquisire la proprietà al patrimonio pubblico
Le attività di rigenerazione urbana, anche per attinenza semantica, si confrontano con spazi e beni già oggetto di precedente trasformazione, che, qualora siano di proprietà di privati, impongono all’amministrazione di tenere in debita considerazione anche la sostenibilità economica dei singoli interventi da pianificare e eseguire, anche rispetto alla scelta di provvedere o meno all’acquisizione del bene.
Giova, al fine di individuare e isolare le diverse questioni da sottoporre ad attenta indagine, ricostruire la vicenda oggetto della sentenza in commento.
La società appellante, proprietaria di un grande impianto deputato ad ospitare manifestazioni sportive e di intrattenimento[8], deduce di aver agito in giudizio per ottenere l’annullamento di un atto integrativo dell’Accordo di programma con il quale il comune di Milano aveva provveduto ad attuare il Programma integrato di intervento, attraverso la censura esclusiva delle previsioni urbanistiche e gli atti concernenti l’Arena di Milano, nel senso, però, non di impedire la realizzazione dei singoli interventi, ma al fine di rimuovere le asserite illegittime e irragionevoli agevolazioni giuridiche ed economiche riconosciute dalle amministrazioni all’operatore beneficiario, la società partecipata Milano Santa Giulia s.p.a.[9], il cui ruolo è proprio quello di promuovere e pianificare le opere di riqualificazione urbana, in una determinata area della città.
L’appellante aveva formulato le proprie doglianze già nell’ambito del procedimento di VAS relativo proprio al menzionato atto integrativo, ma lamentava di non aver mai ricevuto le determinazioni dell’amministrazione e di essere stata lesa, per tale via, nelle proprie prerogative di effettiva e piena partecipazione al procedimento di pianificazione.
A parere della resistente, invece, tale lesione sarebbe stata adeguatamente considerata, poiché i documenti in questione non avrebbero apportato aspetti nuovi al procedimento e non era, pertanto, necessario un ulteriore apporto partecipativo del privato[10].
L’appellante riteneva, al contrario, che con gli atti integrativi il comune avrebbe provveduto, in realtà, a motivare ex post la scelta urbanistica relativa all’attribuzione all’Arena di Milano di “opera di interesse pubblico o generale”, con l’introduzione nella determinazione assunta di elementi particolarmente rilevanti sui quali l’appellante non era nelle condizioni di contraddire, in considerazione del carattere ravvicinato dell’approvazione definitiva dell’atto integrativo.
L’appellante, inoltre, riteneva irragionevole e incomprensibile la scelta del comune di Milano di non prevedere di rendere pubblica la proprietà dell’Arena, anche a fronte delle numerose rinunce, effettuate proprio nell’atto integrativo, a valori già acquisiti con l’Accordo di programma sottoscritto nel 2004 e degli incrementi volumetrici e dei vantaggi accordati al privato. L’appellante osservava, infatti, che la proprietà pubblica avrebbe imposto, tra le altre, lo svolgimento di una gara per l’individuazione del soggetto preposto alla gestione della struttura.
Sotto altro profilo, si contestava la parte in cui la sentenza di primo grado aveva affermato l’inapplicabilità, ai fini del riconoscimento dell’interesse pubblico o generale dell’opera, dell’art. 4 delle Norme Tecniche di Attuazione al Piano dei servizi del PGT. Il T.A.R. sarebbe incorso in eccesso di potere giurisdizionale[11], poiché avrebbe ritenuto in via postuma non applicabile la norma di riferimento - l’art. 4 delle Norme Tecniche di Attuazione - e si sarebbe sostituito alla non contestata valutazione dell’amministrazione, in termini di selezione della normativa applicabile alla fattispecie concreta[12].
Di particolare rilievo per l’analisi condotta, sarebbero del tutto mancate le indispensabili e non differibili verifiche in termini di accertamento dell’effettivo valore degli oneri e di stima della concreta entità economica dei benefici e delle agevolazioni. La struttura in esame non avrebbe infatti provveduto a colmare una lacuna del territorio comunale, già in grado di ospitare numerosi eventi, tra i quali una serie di eventi previsti per le Olimpiadi Milano-Cortina 2026.
Da ultimo, si deduceva l’omessa violazione, in primo grado, dell’irragionevolezza dell’azione amministrativa che avrebbe condotto a porre a esclusivo carico delle amministrazioni coinvolte - Comune e Regione - e di una società concessionaria gli interventi di adeguamento di un tratto viario, in quanto connessi alle difficoltà di viabilità generate dal prevedibile aumento carico urbanistico[13] collegato alla realizzazione dell’Arena, poiché gli stessi sarebbero dovuti rientrare nell’ambito degli oneri di urbanizzazione[14] ed essere, per tale via, posti a carico della società partecipata Milano Santa Giulia s.p.a., menzionata in precedenza.
Il Consiglio di Stato ha osservato che, in primo luogo, la pretesa violazione delle garanzie partecipative a causa della tardiva pubblicazione dei documenti non sussiste[15], poiché si trattava di mera attuazione della normativa urbanistica, le cui linee fondamentali erano già ampiamente note alla ricorrente, che aveva, infatti, già presentato altre osservazioni puntuali sugli stessi profili. Anche nell’ottica del rispetto degli obblighi di pubblicazione, l’amministrazione aveva provveduto a rendere noti gli atti riferibili alla proposta di variante al Programma integrato di intervento (PII), tra cui la rilevazione generale e la normativa di variante; risultavano, pertanto, rispettate la ratio delle norme che prescrivevano la pubblicazione degli strumenti urbanistici.
Le osservazioni dell’appellante, che integravano semplici apporti in chiave collaborativa, avevano, in ogni caso, indotto l’amministrazione a condurre un accertamento istruttorio più approfondito[16], rispetto al bilanciamento degli interessi in gioco.
Il Collegio ha ritenuto di non accogliere il rilievo con il quale era messa in discussione la scelta del Comune di non prevedere che l’Arena divenisse di proprietà pubblica, in termini di contropartita dei vantaggi concessi al privato dall’accordo integrativo all’Accordo di programma.
A parere del Collegio - e l’aspetto appare dirimente nell’economia della presente trattazione - tale determinazione risulta ragionevolmente adottata dall’amministrazione, in ragione di una ponderazione tra costi e benefici, non riferibili solo all’eventuale acquisizione del bene nel patrimonio pubblico, ma all’operazione nel suo complesso. La scelta è, infatti, espressione dell’ampia discrezionalità riconosciuta all’amministrazione comunale in materia di pianificazione urbanistica[17], funzionale non solo all’interesse pubblico dell’ordinato sviluppo edilizio[18] dei territori[19], in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità e uso, ma e soprattutto, al fine di realizzare e pervenire a un bilanciamento razionale dei diversi interessi pubblici, talvolta antagonisti anche tra loro, che rinvengono il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti[20].
Il Consiglio di Stato, in ragione delle argomentazioni già indicate, rigetta l’appello e conferma le determinazioni assunte dal giudice di prime cure.
3. Il ruolo ordinante della pianificazione urbanistica tra razionalità economica e valori costituzionali
Dalla sentenza in commento possono trarsi diversi spunti di indagine che gravitano intorno al nucleo della nozione di rigenerazione urbana, quale possibile, ma necessaria attività per un razionale governo del territorio.
Si deve individuare, a partire dalle questioni sottoposte al vaglio della Corte, il modo in cui gli enunciati e gli interessi si dispongono e si ordinano, nella proiezione di un campo di relazioni astratte, al fine di individuare ricadute di natura sistemica, del quale il versante urbanistico diviene sede preferibile, anche se non esclusiva, di verifica.
La necessità di individuare strumenti di pianificazione che possano consentire di valutare unitariamente gli interessi sempre con continuità, in modo da ottenerne l’adeguamento all’evoluzione sociale e alle esigenze sopravvenute si scontra con radicate difficoltà derivanti da cause eterogenee, alcune immanenti e ben note, altre più celate e latenti.
Appare evidente, in quest’ottica, che l’urbanistica, e con essa l’esercizio del potere di pianificazione territoriale, non possono più essere ricondotte alla mera funzione di coordinamento delle capacità edificatorie. Esse devono essere reinterpretate in termini di manifestazione dell’intervento degli enti esponenziali della collettività sul proprio territorio, al fine di orientarne lo sviluppo complessivo[21], in una prospettiva di equilibrio e di armonia, ma sempre nel rispetto dei vincoli di spesa.
Tale attività di pianificazione deve debitamente considerare, da un lato, le potenzialità edificatorie dei suoli, sempre in rapporto con le effettive esigenze abitative[22] della comunità e con le concrete vocazioni naturali e storiche dei luoghi e, dall’altro, i valori ambientali e paesaggistici, le istanze di tutela della salute pubblica e, più in generale, il diritto dei cittadini alla città, nonché le necessità economiche e sociali della collettività radicata nello spazio urbano.
In questa visione più avanzata, l’attività pianificatoria non si esaurisce nella mera distribuzione di indici edilizi[23], ma si sostanzia nell’elaborazione di un progetto di sviluppo che imprime ai luoghi un orientamento riconoscibile e coerente con la loro matrice e con la loro destinazione originaria. Si tratta, in definitiva, di un’attività che, oltre a proiettarsi nel futuro, riflette sul senso stesso dell’identità del territorio[24], in una dinamica di autorappresentazione e di autodeterminazione che la comunità locale esercita attraverso i propri organi democraticamente eletti e, prima ancora, mediante la partecipazione diretta dei cittadini ai procedimenti di formazione degli strumenti urbanistici.
Gli ambiti tematici che possono essere isolati e che meritano autonoma trattazione sono almeno due, il primo relativo alla valutazione operata dall’amministrazione sui costi che sarebbero derivati dall’acquisizione del bene - l’Arena - nel patrimonio pubblico e il secondo relativo alla qualificazione del medesimo bene come opera di interesse pubblico e generale, anche per gli interventi infrastrutturali ancillari e di supporto che si sarebbero resi necessari, ai fini l’individuazione del soggetto competente per tale attività[25].
Il caso di studio consente di verificare la tenuta degli istituti e degli equilibri che, anche oltre la mera attività urbanistica, impongono all’interprete di indagare rappresentazioni sistemiche, ma dinamiche, rispetto ai vari interessi e ai profili di vulnerabilità che le decisioni possono radicare in capo al soggetto pubblico nel lungo periodo.
Si può, in altri termini, rifuggire da esperimenti di simulazione puramente dogmatica, per ricollocare le scelte di governo del territorio in una realtà più complessa, di poteri, di giudici, ma anche di vincoli di bilancio.
3.1 Il peso economico delle scelte pubbliche: sostenibilità finanziaria e regime dei beni nella rigenerazione urbana
Il primo aspetto da sottoporre ad analisi riguarda i profili di legittimità delle scelte dell’amministrazione in termini di sostenibilità economica e la correlazione che tale aspetto ha con la previsione di una destinazione d’uso del bene per un grande evento.
La zona individuata quale destinataria dell’intervento richiedeva una costosa attività di bonifica e l’amministrazione ha interpretato l’intervento in questione come un efficace intervento di rigenerazione urbana e ambientale, diretto a recuperare e trasformare un’area periferica e dismessa in un quartiere cittadino, dotato di una serie di attrezzatture di cui la città era carente.
Si tratta, come noto, di scelte che presuppongono un rinnovato scenario del disegno urbanistico, manifestato attraverso uno strumento di pianificazione generale che si pone quale diretta espressione di un potere caratterizzato da ampia discrezionalità, poiché si tratta, a ben vedere, di atti che sono funzionali all’organizzazione del territorio[26], che dovrebbero consentire al soggetto decidente di valutare consapevolmente le diverse opzioni inerenti al riuso e allo sviluppo socioeconomico degli spazi urbani[27].
L’amministrazione comunale ha ritenuto preferibile, proprio in ragione dei preventivati costi manutentivi e di gestione, di non acquisire nel patrimonio una simile struttura, rifuggendo in tal modo dal ricorso a schemi concessori, preferendo forme di regolamentazione dell’uso che fossero più rispondenti alla concreta situazione, al fabbisogno della popolazione e, da ultimo, agli obiettivi e alle necessità del territorio[28].
Il tema del governo del territorio e, nello specifico, proprio l’ammontare del debito che i procedimenti espropriativi hanno lasciato in eredità agli enti locali ha rappresentato una voce significativa del disavanzo che le amministrazioni hanno generato, soprattutto in passato[29].
La progressiva riduzione del ricorso ai procedimenti espropriativi, per lasciare spazio a soluzioni consensuali[30], quali gli strumenti perequativi[31], tra i quali le attività di rigenerazione urbana, ha proporzionalmente ridotto l’effetto debitorio che gli stessi hanno sulle casse degli enti locali.
Per ciò che riguarda il mancato acquisto del bene da parte dell’amministrazione deve, peraltro, precisarsi che l’assetto proprietario dell’impianto era già stato configurato dall’amministrazione all’interno del Dossier di candidatura per i giochi olimpici invernali - poi assegnati proprio a Milano-Cortina per il 2026 - ed emergeva da diversi protocolli firmati in seguito dai diversi soggetti coinvolti.
La scelta di non acquisire un bene da parte dell’amministrazione è espressione di una valutazione, non solo a carattere pianificatorio, ma che esprime la ricerca di razionalità e sostenibilità di tutte le eventuali voci di debito connesse, al fine di evitare che le stesse gravino in maniera deteriore sulle casse dell’ente e si rivelino non funzionali proprio all’obiettivo che l’amministrazione aveva individuato in fase di pianificazione.
Ulteriore profilo che rileva in termini di attribuzione dei costi riguarda l’individuazione del soggetto sul quale debbano gravare i costi per le opere di urbanizzazione ancillari e funzionali all’attività di rigenerazione principale.
Le attività, come quelle dirette a migliorare la viabilità o che perseguano tali fini attraverso interventi strutturali[32], devono essere distinte in opere di urbanizzazione primaria funzionali al singolo bene e in interventi (viabilistici) di maggiori dimensioni, spesso inseriti in Piani di collaborazioni tra enti.
Qualora l’attività di urbanizzazione sia funzionale a una migliore fruizione di un bene destinato a un grande evento, la stessa assume una dimensione funzionale che trascende la dimensione comunale, anche in ragione delle diverse fonti di finanziamento pubblico e rispetto agli intuibili effetti in termini di spesa e, anche, perché l’utilità dell’opera si propone di risolvere criticità preesistenti non limitabili a conseguenze sopravvenute con l’opera stessa, ma preesistenti[33].
Si può osservare, in termini generali, che l’amministrazione del territorio e i costi, diretti e imprevedibili, anche per ciò che riguarda l’imputazione degli stessi, sono aspetti inscindibili che rinvengono in decisioni consapevoli e razionali di pianificazione la sede elettiva ed esclusiva di sintesi.
3.2 Il grande evento come fattore determinante nella qualificazione dell’opera di interesse generale
Il secondo profilo è inerente alla qualificazione dell’immobile come opera di interesse pubblico e generale[34].
Nella sentenza in commento, così come rilevato dal giudice di prime cure, si osserva come in presenza di accordi di programma e loro varianti, tra le quali assume rilievo l’atto integrativo, devono tenersi in considerazione proprio le particolari disposizioni stabilite in tali atti che, come osservato, possono essere ricomprese a pieno titolo tra le regole di pianificazione.
La qualificazione di un bene come di interesse pubblico[35] può, peraltro, desumersi da altre circostanze che risultano non contestabili, tra le quali, per il caso in esame, rileva la destinazione del bene a intervento strategico per un grande evento, quali devono intendersi senza alcun dubbio i giochi olimpici invernali.
Si tratta di una destinazione che si desume della stretta funzionalità che l’opera ha con l’evento e che non può essere disattesa da argomentazioni contrarie; non può, in altri termini, essere oggetto di contestazione in giudizio.
La struttura, inoltre, per le sue caratteristiche peculiari è adatta allo svolgimento di altri grandi eventi, ma appare altresì idonea a soddisfare ulteriori esigenze della collettività, in termini funzionali allo sviluppo del nuovo quartiere e, quindi, alla buona riuscita dell’attività di rigenerazione urbana.
La destinazione d’uso, d’altronde, è essa stessa espressione di una precettività stringente, in ragione della quale dovrebbero imporsi rigorose giustificazioni di proporzionalità a ogni interpretazione difforme da quella che appare preferibile in base agli indici che emergono dal riscontro fattuale.
Tale ancoraggio al principio di pianificazione è diretto a evitare di collocare al di fuori del piano proprio le attività di rigenerazione urbana e, di riflesso, limitare strumenti derogatori[36].
In altri termini, escludere che un’opera destinata a un grande evento possa non essere riconosciuta come d’interesse generale risponde a un’esigenza avvertita di certezza e di stabilità degli affidamenti, aspetto che in diritto urbanistico assume, come noto, una portata caratterizzante e consente di rendere gli interessi funzionali, a cui l’opera è servente, quali punti di riferimento per orientare la ponderazione e la valutazione degli interessi che si troverebbero, in assenza di tale indicazione, in una condizione di parità[37].
La circostanza di poter desumere la qualificazione di opera di interesse generale[38] da un elemento che non può divenire oggetto di deduzione in sede contenziosa è, peraltro, suffragato da caratteristiche oggettive, fisiche ed economiche, degli immobili e di riflesso dagli interessi rilevanti e peculiari che gravitano, a varie distanze, nell’orbita del grande evento[39].
Si deve, in definitiva, mantenere una correlazione stabile, che deve legare, a partire proprio dalla qualificazione dell’opera e in maniera indissolubile, organizzazione e fasi di programmazione e pianificazione, nella consapevolezza della plurisettorialità degli interventi da realizzare[40], della complessità e della tecnicità degli interessi coinvolti e, non da ultimo, degli effetti dell’opera sul territorio, in tutte le sue possibili dimensioni.
4. La dimensione necessariamente pluralista della rigenerazione urbana
Possono trarsi, non conclusioni, ma traiettorie di ricerca, a partire dalle componenti critiche e problematiche isolate.
La rigenerazione urbana e il contenimento del consumo di suolo quali criteri cui ispirare il governo del territorio richiedono un ripensamento, a partire dai profili organizzativi, delle attività che orientano il bilanciamento degli interessi che - per riprendere una celebre formula - resta un problema oggettivamente determinabile[41].
Possono infatti isolarsi e concretizzarsi i fatti, i valori, gli effetti che sono oggetto di disposizione - anche se talvolta concordata, come nell’urbanistica consensuale - e di un preciso potere anche se attribuito a diversi centri di competenza.
Qualora si ambisca a trarre una visione d’insieme, nella quale il disporsi insieme di pianificazione, opera e interessi che divengono, intuitivamente, l’oggetto elettivo della qualificazione giuridica.
Anche l’attività di rigenerazione dell’esistente deve essere condotta nel rispetto del catalogo dei principi che innervano il diritto urbanistico[42], ma che compongono un palinsesto combinatorio entro cui gli stessi si bilanciano vicendevolmente - si pensi al potenziale antagonismo che si pone tra attività di rigenerazione e oneri che ne derivano per la finanza pubblica - e che sono, talvolta, isolabili con notevoli difficoltà.
La vicenda oggetto della sentenza in commento conferma la necessità, per il decisore e l’interprete, di rifuggire da letture assolutizzanti o inclini a rileggere vicende contingenti per isolare un interesse assolutamente prevalente, poiché il ricorso al bilanciamento graduale e per obiettivi appare un’esigenza ormai radicata[43].
L’urbanistica, d’altronde, non evolve in modo uniforme e nelle medesime direzioni in tutti i contesti locali, i quali sono caratterizzati da difformità di varia natura, tra le quali assumono un rilievo specifico quelle di natura finanziaria.
L’obiettivo della coesione economica e sociale, sotto il patrocinio della rinnovata urbanistica, non comporta e impone solo il coordinamento delle attività di pianificazione ai vari livelli, ma anche l’allineamento degli standard, territoriali e quindi sociali, per consentire la migliore allocazione possibile, con le esigenze di equità, con uno sguardo attento alle necessità non negoziabili delle condizioni delle amministrazioni locali[44].
La rigenerazione urbana non è, ovviamente, immune da questo scrutinio di sostenibilità, di tenuta della stessa rispetto ai profili di democrazia economica che, come noto, hanno imposto di superare il modello di urbanistica insostenibile ed hanno, come diretta conseguenza, determinato l’assunzione della complessiva trama di rapporti intersoggettivi e di pesi economici che dagli stessi derivano.
In conclusione, anche le rinnovate esigenze di governo del territorio - al di là dell’espressione utilizzata per qualificare le diverse attività - devono rinvenire un punto affidabile, ma non immutabile, di sintesi nei principi tradizionali di organizzazione e di giustizia sostanziale, nel quale l’amministrazione locale deve porsi come istituzione regolativa del rapporto tra territori e risorse pubbliche, definito in maniera evocativa ed efficace “il problema del rendimento istituzionale[45]”, applicato alle scelte urbanistiche.
Anche la rigenerazione urbana si pone allora quale necessario strumento, espressione di regolazione con matrice composita, autoritativa e consensuale, funzionale ad assicurare e a divenire sede elettiva sia della razionalizzazione delle scelte urbanistiche, sia dell’ordine economico che dalle stesse derivano, non solo come effetto, ma come fattore ordinante primario.
Una nota conclusiva, che non si inscrive propriamente in un’attività di rigenerazione urbana, ma particolarmente indicativa anche per l’importanza e il rilievo storico dell’immobile oggetto del procedimento, si può ricavare dalla recente acquisizione da parte del Demanio dello Stato dello storico Palazzo Gussoni-Grimani di Venezia per destinarlo a sede del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, che lo occupava in ragione di un contratto di concessione con la Regione Veneto.
La scelta di acquisire il bene, in luogo di un contratto di concessione a titolo oneroso, si è resa opportuna al fine proprio di ottenere un notevole risparmio di spesa per l’Erario e per garantire una sistemazione stabile al Tribunale Amministrativo Regionale e palesa, nel delicato bilanciamento tra scelte urbanistiche ed esigenze di finanza pubblica, l’esigenza di tenere in considerazione diverse componenti, con matrici diverse e sottoposte a regimi e principi giuridici che, isolati, orienterebbero l’azione amministrativa in direzioni talvolta inconciliabili tra loro.
[1] Sulla necessaria complementarità tra tali due aspetti, cfr. G.A. Primerano, Il consumo di suolo e la rigenerazione urbana. La salvaguardia di una matrice ambientale mediante uno strumento di sviluppo sostenibile, Napoli, ES, 2022, 81 ss.; di recente, T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 20 gennaio 2025, n. 188, in Riv. giur. edil., 2025, 2, I, 241, per il quale è legittima una previsione pianificatoria comunale che riduca le aree destinate a interventi urbanizzativi in modo da evitare che si consumi suolo libero. I comuni hanno potere di procedere alla modifica dello strumento urbanistico e prevedere attraverso lo stesso la riduzione del consumo di suolo, senza necessità di attendere gli adempimenti posti in capo al decisore pubblico regionale e provinciale, correlati all’individuazione della soglia di riduzione del consumo di suolo, al fine di assicurare un bilancio ecologico del suolo, in attuazione del principio di inesauribilità della funzione di pianificazione urbanistica, la cui attribuzione spetta agli enti locali.
[2] In tema, imprescindibile è il rinvio a P. Stella Richter, I sostenitori dell’urbanistica consensuale, in P. Urbani (a cura di), Le nuove frontiere del diritto urbanistico, Torino, Giappichelli, 2013, 21 ss., il quale osserva che la spinta alla depianificazione ha fatto sì che la consensualità divenisse il fulcro delle politiche di riqualificazione e il cardine dell’urbanistica in trasformazione, anche in termini di ripartizione degli oneri, non solo economici di recente, D. Caldirola, La capacità generativa della comunità nel rinnovamento urbano, in Federalismi, 2024, 27, 25 ss., dal tenore del quale si desumono anche le criticità insite nella c.d. rigenerazione dal basso.
[3] Sulle tracce evolutive del modello, necessario è il rinvio a R. Ferrara, La programmazione «negoziata» fra pubblico e privato, in Dir. amm., 1999, 2, 429 ss., ora anche in Scritti giuridici, Napoli, ES, 2023, 251 ss., 275, il quale nel rilevare criticità applicative e interpretative, osserva che, proprio sul piano urbanistico si è passati da modelli caratterizzati da marcata elasticità a modelli rigorosi e formalizzati.
[4] Si v. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 11 dicembre 2020, n. 2473, per il quale la rigenerazione urbana costituisce lo strumento attraverso il quale l’ente pianificatore - comunale e sovracomunale - realizza la riqualificazione del territorio degradato in vista del suo migliore e più valido impiego, mediante previsioni di riutilizzo o riuso che consentono altresì di limitare o impedire il consumo di suolo inedificato. Si deve, però, osservare che la nozione di rigenerazione non investe solo la mera programmazione e pianificazione di recupero o di risanamento, ma arriva a ricomprendere la coesione territoriale e sociale. “In tale prospettiva, che consente un ampio utilizzo dello strumento della rigenerazione urbana - la previsione di misure di incentivazione dipende strettamente dall’obiettivo perseguito dall’ente pianificatore, essendo ipotizzabile che quest’ultimo perseguirà con priorità e maggiore intensità la riqualificazione di comparti destinati a soddisfare esigenze pubbliche in un dato momento storico valutate di primario rilievo, ivi prevedendo misure di incentivazione più intense, mentre in altri ambiti potrà discrezionalmente decidere di incentivare con modalità differente, oppure in misura più debole, ovvero ancora di non incentivare il perseguimento dell'obiettivo di rigenerazione disposto dal piano”.
[5] Cfr. G. Gardini, Alla ricerca della “città giusta”. La rigenerazione come metodo di pianificazione urbana, in Federalismi, 2020, 24, 74 ss., “rigenerazione urbana” integra un’espressione polisemica, la cui identificazione è complicata dall’incertezza che avvolge alcuni concetti chiave e dalla circostanza che indica attività molto diverse tra loro; necessario è il rinvio P. Urbani, Il declino del piano: un nuovo rapporto tra autorità e libertà?, in Riv. giur. urb., 2025, 1, 127 ss., 131.
[6] Sul tema, pur se nella prospettiva del verde urbani, si v. M.F. Errico, Per “fare” una città di vuole un albero? Note in tema di città e verde urbano, in Riv. giur. edil., 2024, 4, 301 ss., 305, il quale sottolinea una nuova visione dell’urbanistica che consente di realizzare una serie di attività di trasformazione urbana in un’ottica condivisa.
[7] Sul cui profilo, anche nella prospettiva della giustizia sostanziale dell’azione, si v. A. Fioritto, M. Lunardelli, L’interesse ad impugnare gli strumenti di pianificazione urbanistica, in Riv. giur. urb., 2024, 3, 424 ss.
[8] Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 2 febbraio 2022, n. 245, in Riv. giur. edil., 2022, 2, 552, sui profili di legittimità della dotazione degli standard urbanistici – anche rispetto ad aree verdi destinate ad attività sportive - in misura superiore rispetto a quella minima di legge, senza alcuna specifica motivazione. Le previsioni di piano necessitano di una motivazione rafforzata, che non può consistere nel mero richiamo a formule generiche; si v. anche Cons. St., sez. VI, 4 giugno 2025, n. 4842.
[9] Società controllata del “Gruppo risanamento”, società proprietaria di terreni di una determinata area della città.
[10] Sul tema della partecipazione ai procedimenti valutativi, de relato sul pensiero di Pericu, si v. M. Cafagno, L’ambiente del pensiero di Giuseppe Pericu, tra categorie concettuali e gioco degli interessi, in Riv. giur. amb., 2023, 2, 293 ss., 301.
[11] In tema, sulle scelte urbanistiche, Cons. St., sez. VII, 4 settembre 2024, n. 7382.
[12] Indicazioni in tal senso sono fornite da Cons. St., sez. IV, 4 giugno 2025, n. 4855, rispetto alla necessità di garantire la conformità degli interventi alle norme tecniche di attuazione e ai diversi allegati.
[13] Sul collegamento funzionale, proprio in termini di oneri di urbanizzazione, cfr. F. Dello Sbarba, L’incremento del carico urbanistico quale criterio prioritario ma non esclusivo nella determinazione degli oneri di urbanizzazione, in Riv. giur. edil., 2010, 2, I, 517 ss.; di recente, proprio in tema di rigenerazione urbana, si v. Corte cost., 14 aprile 2023, n. 70, gli interventi statali di attrazione in sussidiarietà per ritenersi legittimi devono esercitarsi nel rispetto della leale collaborazione, poiché devono essere garantiti momenti partecipativi per gli enti territoriali “espropriati” delle proprie prerogative costituzionali, a fronte dell’esigenza di assicurare un esercizio unitario delle funzioni. “Con il comma 537 dell'art. 1 della l. 30 dicembre 2023, n. 234 - il quale demanda la determinazione dell'ammontare del contributo per la rigenerazione urbana spettante a ciascun comune a un decreto del Ministro dell’interno, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, senza alcuna forma di coinvolgimento delle regioni - lo Stato ha attratto, con chiamata in sussidiarietà, le competenze amministrative di dettaglio, unitamente alle rispettive competenze legislative regionali, nella materia governo del territorio senza garantire il coinvolgimento delle regioni”.
[14] In termini ampi, già A. Crosetti, Economia urbana e oneri di urbanizzazione, in Foro amm., 1976, 1, 283, osservava che vi fosse la necessità di prevedere, fin dalla fase di programmazione, ad un’attività di scomputo graduale delle opere da sottoporre ad attività di rigenerazione e quelle da completare; più di recente, F. Cusano, La disciplina delle opere di urbanizzazione a scomputo e degli extra-oneri alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, in Dir. e proc. amm., 2024, 3, 681 ss., 695.
[15] Indicative le determinazioni di T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 17 settembre 2009, n. 4671, in Riv. giur. edil., 2009, 5-6, 1859, che fornisce indicazioni in tema di minimi da rispettare per i c.d. indici di partecipazione.
[16] Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 28 ottobre 2024, n. 8521, sulla necessità di provvedere a un approfondimento istruttorio, per le attività di pianificazione urbanistica, per verificare la compatibilità degli interventi con gli interessi primari che il piano è preposto, ex lege, a tutelare.
[17] In tema, necessario è il rinvio a studi classici, tra i quali A. Sandulli, Competenze e coordinamento delle competenze nella pianificazione urbanistica e in quella comunale generale, in La pianificazione urbanistica. Atti del VII° Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano, 1962, 59 ss., 61, secondo il quale la pianificazione urbanistica deve prendere le mosse dalla realtà sociale, economica e giuridica, quali presupposti essenziali, ma non sufficienti a garantire legittimità e adeguatezza delle determinazioni amministrative.
[18] Cfr. la voce enciclopedica curata da M.A. Sandulli, Edilizia, ora anche in Riv. giur. edil., 2022, 3, 171 ss.; tra i contributi in tema, anche per l’influenza che lo studio ha avuto sul presente scritto, cfr. G. D’Angelo, Piano paesistico e piano urbanistico: contenuti, funzioni e loro attualità, in Riv. giur. edil., 1996, 6, II, 163 ss.
[19] Indicative, in tal senso, appaiono le indicazioni offerte dalla sentenza del T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, n. 550, nella quale - in tema di permesso a costruire - rileva che il governo del territorio, da intendersi quale possibile attività che incide su quella di rigenerazione urbana, fa sorgere in capo all’amministrazione determinati obblighi di fonte legale e di natura solidaristica diretti ad assicurare si realizzi un sistema adeguato ad un ordinato e razionale sviluppo del territorio.
[20] Ex multis, Cons. St., sez. IV, 30 gennaio 2020, n. 783
[21] Insuperate le riflessioni di V. Bachelet, L’adeguamento dell’apparato di governo alle esigenze di una politica di sviluppo, in Il Pol., 1961, 8, 692 ss.
[22] Di ampio respiro, in tema, sul versante dell’individuazione di un punto di raccordo per le politiche pubbliche sono le riflessioni di G. Sorrenti, Diritti senza dimora: le politiche abitative del Terzo Millennio tra Pnrr e livelli essenziali delle prestazioni, in Pol. dir., 2023, 4, 443 ss.; sul controverso profilo del social housing, M.G. Della Scala, Il “social housing” come servizio di interesse generale tra tutela multilivello del diritto sociale all’abitare e imperativi alla concorrenza, in Riv. giur. edil., 2019, 2, II, 179 ss., 199.
[23] Come osserva de relato rispetto al pensiero di Salvia, N. Gullo, Il pensiero giuridico (e non solo) di Filippo Salvia tra urbanesimo e sviluppo sostenibile, in Studi in onore di Filippo Salvia. Atti del Convegno. Quale piano per il futuro dell’urbanistica, Napoli, ES, 2022, 385 ss., il quale osserva che i profili giuridici degli istituti di regolamentazione dei territori e il ruolo svolto dai diversi attori istituzionali, economici e sociali hanno condizionato l’applicazione degli strumenti urbanistici e hanno portato una rinnovata attenzione sulla progressiva emersione di interessi pubblici “egemoni”, che hanno prima legittimato una fuga dalla pianificazione e, poi, hanno richiesto un ripensamento del ruolo delle autorità comunali; nella prospettiva sociale del tema, R. Ferrara, La programmazione negoziata, cit., 275, nota che proprio i patti territoriali sono espressione di forme di collaborazione a carattere sociale da cui derivano vincoli peculiari, anche sotto il profilo della sostenibilità del piano in sé.
[24] Su cui Corte cost., 23 luglio 2018, n. 172, in Giur. cost., 2018, 4, 1850, in tema di ricerca di equilibrio tra il mantenimento di identità dei territori e la realizzazione di infrastrutture.
[25] Cfr. G. Colombini, V. Manzetti, Una riflessione (a due voci) su urbanistica e città (in)visibili, in Studi in onore di Filippo Salvia. Atti del Convegno. Quale piano per il futuro dell’urbanistica, Napoli, ES, 2022, 231 ss., 244, la modifica degli spazi urbani e la riorganizzazione dei territori, in base a nuovi principi e nuove logiche di sviluppo, sono aspetti che impongono di ripensare la questione urbana, proprio rispetto alla ridefinizione degli standard e all’articolazione delle politiche infrastrutturali; sul tema degli investimenti, cfr. M. Macrì, Gli investimenti infrastrutturali, in Giorn. dir. amm., 2024, 2, 185 ss.
[26] Sul dialogo tra componente territoriale e diritti da garantire, si v. L. Giani, L’amministrazione tra appropriatezza dell’organizzazione e risultato: spunti per una rilettura del dialogo tra terriorio, autorità e diritti, in Nuove aut., 2021, 3, 551 ss., 560.
[27] Cfr., di recente, A.M. Laboccetta, Il territorio come “attore” di sviluppo socio-economico, in Federalismi, 2025, 14, 40 ss., 54, il quale osserva che la transizione dall’urbanistica al governo del territorio implica la ricerca di una rinnovata sintesi di interessi pubblici e privati, con il territorio inteso come luogo, al contempo, di conflitto e mediazione. Si deve notare che la rigenerazione urbana potrebbe porsi quale terreno privilegiato di sperimentazione, e, in tal senso, si può osservare che la pianificazione assume natura sempre più negoziale e strategica.
[28] Si tratta di orientare l’intervento ai principi di proporzionalità e adeguatezza, come osservato in T.A.R. Veneto, Venezia, sez. II, 18 giugno 2024, n. 1488.
[29] Cfr., per una disamina lontana nel tempo, ma insuperata sotto diversi aspetti, i diversi scritti raccolti in Le opere pubbliche degli enti locali, Atti del II Convegno di Studi di Scienza dell’amministrazione. Varenna, Villa Monastero, 13-16 settembre 1956, Giuffrè, Milano, 1958.
[30] Proprio rispetto agli oneri che deriverebbero, cfr. già A. Travi, Accordi fra proprietari e comune per modifiche al piano regolatore ed oneri esorbitanti, in Studi economico-giuridici. Vol. LX 2003-2004. In memoria di Franco Ledda, II, Torino, Giappichelli, 2004, 1304 ss., 1313, 1315, il quale osserva che l’onere posto a carico del privato è un riflesso della situazione di fatto che il privato si impegna a mantenere o a modificare per rendere possibile l’accordo a carattere urbanistico. Si tratta non di una controprestazione, ma il presupposto perché si possa ammettere che l’accordo determini l’edificabilità dell’area. In altri termini, non avrebbe senso confrontare l’accordo con gli oneri legali, poiché il principio di tipicità non entrerebbe in gioco; di recente, Cons. St., sez. IV, 11 novembre 2024, n. 9014, in Riv. giur. edil., 2025, 1, I, 64, “In materia di convenzioni urbanistiche, in presenza di circostanze sopravvenute rilevanti, il privato può chiedere al comune di rinegoziare i contenuti della convezione, in applicazione del principio di buona fede e correttezza ex art. 1375 c.c., richiamato dall'art. 11, comma 2, l. n. 241/1990, in forza del rinvio ivi contenuto ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti; inoltre, avendo il privato una posizione qualificata e differenziata in quanto parte dell'accordo, in presenza di un'istanza di riesame dei contenuti della convenzione, motivata in ragione di circostanze sopravvenute, è ben possibile configurare un obbligo di provvedere, ai sensi dell'art. 2 l. n. 241/1990, in capo alla controparte pubblica, che non necessariamente sarà tenuta ad assicurare il bene della vita cui aspira la parte privata, ma che dovrà, in ogni caso, istruire l'istanza e motivare le proprie determinazioni nel rispetto del canone generale di ragionevolezza e di proporzionalità”.
[31] Per un’analisi di questo percorso, cfr. C. Pinelli, La giurisprudenza costituzionale in materia di governo del territorio in assenza di legge cornice, in Giur. cost., 2022, 3, 1777 ss.; sulla natura e la titolarità delle obbligazioni, si v. V. Troiani, La natura reale delle obbligazioni assunte dal privato in caso di convenzioni urbanistiche, in Riv. Corte conti, 2024, 2, 243 ss.
[32] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 10 agosto, 2015, n. 4227, in Foro amm., 2015, 7-8, 2093.
[33] Cfr. T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, sez. I, 17 marzo 2025, n. 107, in tema di ciclo di vita dell’opera destinata al grande evento e di oneri da ripartire tra i vari soggetti coinvolti.
[34] Si v. F. Cusano, L’impatto delle opere di interesse statale nel governo delle città, in Riv. giur. urb., 2024, 1, 127 ss., 135.
[35] Circostanza che, rispetto al profilo dei costi, esclude la corresponsione del contributo di costruzione o di ammodernamento, al ricorrere di due requisiti, l’interesse generale connaturato all’opera per l’appunto e la circostanza che l’attività sia svolta da ente istituzionalmente competente, su cui, di recente, Cons. St., sez. IV, 7 maggio 2025, n. 3874.
[36] Sulle criticità, nell’ottica dell’esperienza di Expo 2015, si v. A. Roccella, La gestione amministrativa di un grande evento: regole e deroghe, in Amministrare, 2016, 1, 23 ss., 29.
[37] Sui profili problematici che ne deriverebbero, cfr. F. Saitta, Governo del territorio e discrezionalità dei territori, in Riv. giur. edil., 2018, 6, 421 ss., 430, il quale osserva che il piano si è trasformato nella definizione particolareggiata, ad opera dei poteri pubblici, dei possibili usi del suolo, pubblici e privati, circostanza che avrebbe dovuto limitare il potere del decisore pubblico.
[38] In tema, decisiva appare l’argomentazione elaborata da Cons. St., sez. VI, 8 ottobre 2013, n. 4934, in Foro amm. CdS, 2013, 10, 2825, sui profili di interesse delle grandi infrastrutture, anche rispetto al regime giuridico da applicare.
[39] Anche se risalente, sull’impatto indiretto dell’evento sul territorio, si v. P. Di Betta, L. Noto, L’impatto turistico di un grande evento: la Louis Vuitton Cup in Trapani nel 2005, in Econ. Dir. terz., 2011, 2, 283 ss.; sulla tutela dei profili ambientali, in relazione alla centralità del piano, si v. M. Fermeglia, La tutela dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico nell’organizzazione dei grandi eventi sportivi, in Riv. dir. sport., 2018, 1, 116, 122; proprio nella prospettiva del presente scritto, si v. M. D’Arienzo, Il ruolo dei Grandi eventi nella riqualificazione delle periferie urbane e nella promozione del diritto allo sport, in Dir. e proc. amm., 2017, 2, 681 ss.
[40] Si v., in un’ottica sistemica, A. Barone, L’organizzazione amministrativa per lo sviluppo economico e sociale nel pensiero di Vittorio Ottaviano, in Dir. amm., 2024, 4, 323 ss., 329, 330.
[41] E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, Giuffrè, 1949, 237; in tema, rispetto ai profili indagati, M. Calabrò, Nuove prospettive di tutela per l’architettura contemporanea: il ruolo dell’urbanistica, in Riv. giur. edil., 2023, 2, 95 ss., a parere del quale la più moderna concezione di governo del territorio estende l’ambito di intervento e di azione ben al di là della razionale e coordinata attività di pianificazione, poiché coinvolge tutti gli interessi la cui tutela ha un impatto - diretto o indiretto - su un determinato territorio.
[42] Dal titolo del bel saggio a firma di E. Boscolo, Un catalogo di principi (operanti) per l’urbanistica contemporanea, in Riv. giur. edil., 2024, 2, 85 ss.,
[43] E. Boscolo, Un catalogo di principi, cit., 91.
[44] Si v. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 2 gennaio 2025, n. 7, in base alla quale la scelta dell’amministrazione comunale, nel contesto dell’attività di rigenerazione urbana, è espressione di discrezionalità, soprattutto nella fase di scelta tra le diverse modalità di intervento.
[45] Cfr. G. Marongiu, Fare pubblica amministrazione, oggi, ora anche in La democrazia come problema. Politica, società e mezzogiorno, t. II, Bologna, Il Mulino, 1994, 177 ss.
Con la l. n. 114 del 2024 il Parlamento ha introdotto, riformando vari articoli della disciplina cautelare, il c.d. contraddittorio anticipato per l’applicazione delle misure cautelari.
La riforma, come emerge dagli approfondimenti dottrinali, si presenta complessa, articolata e soggetta a molte valutazioni controverse.
Il dato è già emerso dalla recente decisione della V Sezione della Cassazione che ha rimesso alle Sezioni Unite due questioni sulle quali si erano prospettati interpretazioni e soluzioni controverse (v. infra).
È sin da ora possibile proporre, seppur per punti, una sorte di questioni che la nuova disciplina prospetta.
Com’è noto, il contraddittorio anticipato, come emerge dallo stesso art. 291 c.p.p. riformato, è previsto all’art. 288 c.p.p. (e dalla l. n. 231 del 2021 all’art. 47). In caso di applicazione delle altre misure interdittive la Corte costituzionale ha escluso possa operare il contraddittorio anticipato.
Ci si potrebbe chiedere ora se il contraddittorio anticipato sia possibile – stante la generica previsione dell’art. 291 c.p.p. – anche per le altre misure interdittive (artt. 288 e 289 bis, 290 c.p.p.).
È incerta la possibilità che, mancando la nomina del difensore, di fiducia, ovvero la sua presenza all’atto, sia necessaria la nomina di un difensore d’ufficio, ovvero se non possa ritenersi necessaria la presenza obbligatoria del difensore, come previsto dall’art. 294 c.p.p.
Questioni si prospettano con riferimento al possibile riconoscimento dell’impedimento del difensore e dell’indagato; nonché alla possibilità che il p.m. chieda l’anticipazione dell’interrogatorio, essendo previsto solo che il termine a comparire può essere accorciato dal giudice.
Spetta al giudice la valutazione delle condizioni che consentono o escludono l’operatività del contraddittorio anticipato che, escluso per le lett. a e b dell’art. 274 c.p.p. opera solo per l’ipotesi del secondo periodo della lettera c dello stesso art. 274 c.p.p.
Al giudice spetta la valutazione della gravità indiziaria e quella del fatto in relazione alla tipologia della misura cautelare da applicare (art. 280 c.p.p.). In caso di applicazione del carcere, a regime (cioè quando ci saranno i giudici in misura sufficiente) procederà l’organo collegiale.
Non è da escludere, nella procedura anticipata, l’operatività dell’art. 27 c.p.p. nel caso in cui il giudice incompetente ritenga presenti ragioni di urgenza e applichi la misura cautelare.
Non opererà l’art. 104 c.p. per l’incompatibilità con la procedura de qua.
Deve riconoscersi la possibilità per la difesa di depositare memorie e indagini difensive (non e previsto il diritto a prova contraria del p.m. nella stessa udienza, a seguito di rinvio).
Nell’eventualità in cui l’indagato si avvalga della facoltà di non rispondere, resta il problema se dopo l’applicazione della misura si possa o debba procedere all’interrogatorio di garanzia ex art. 294 c.p.p., godendo così di un ampio margine di tempo per difendersi. Comunque con l’interrogatorio prima dell’applicazione della misura anticipata l’indagato disporrà, essendo libero e conoscendo gli atti depositati dal p.m. di utilizzare maggiormente degli spazi del processo mediatico.
Poiché il giudice dovrà tener conto nell’ordinanza di applicazione della misura di quanto sostenuto dalla difesa, il riesame dovrà essere sorretto da motivi specifici.
Nel corso dell’interrogatorio, non si può escludere che l’imputato confessi (anche altri reati) chieda il patteggiamento, faccia una chiamata di correo.
Una significativa lacuna si presenta sia in relazione al tempo in cui il giudice deve pronunciarsi sulla richiesta del p.m., sia in ordine alle modalità e tempi della decisione. Manca ogni riferimento alla procedura necessaria allo svolgimento dell’interrogatorio, soprattutto nel caso in cui sia applicata la misura della custodia in carcere, sia in ordine alle informazioni all’indagato del rigetto della domanda del p.m.
Mentre di contraddittorio anticipato si potrà parlare nell’ipotesi in cui all’art. 302 c.p.p. (“previo interrogatorio”), il dato andrebbe escluso nell’ipotesi in cui all’art. 307 c.p.p. (c’è la convalida del fermo del fuggitivo) nonché nelle situazioni di cui agli artt. 275, comma 1 bis e 2 ter c.p.p. nonché all’art. 300, comma 5, c.p.p. dovendosi ritenere che superata la fase delle indagini preliminari, la riforma non trova applicazione.
Come anticipato due questioni in ordine alle quali si sono prospettate soluzioni contrastanti, sarà stata rimessa alle Sezioni unite.
Con la prima “Se il giudice per le indagini preliminare che, in un procedimento cautelare riguardante più indagati e avente ad oggetto più reati connessi ex art. 12 c.p.p. o probatoriamente collegati ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p., ritenga sussistenti, solo nei confronti di taluno, le condizioni di deroga per applicare la misura personale senza procedere al previo interrogatorio ai sensi dell’art. 291, comma 1 quater c.p.p., possa effettuare l’interrogatorio successivo anche nei confronti degli altri coindagati per i quali, invece, è necessario espletare l’interrogatorio preventivo”.
Con la seconda, “Se l’omissione del previo interrogatorio ai sensi dell’art. 291, comma 1 quater c.p.p., nei casi in cui esso sia prescritto, integri una nullità c.d. a regime intermedio ex art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p., che può essere dedotta per la prima volta dinanzi al tribunale del riesame o da questo rilevata ex officio anche nel caso in cui non sia stata eccepita dall’interessato in sede di interrogatorio postumo di garanzia svolto nelle more”.
Sommario: 1. Il testo normativo – 2. La relazione illustrativa – 3. La portata della norma – 4. Il regime intertemporale - 5. Le limitazioni probatorie – 6. La distribuzione dell’onere probatorio – 7. La discrezionalità del legislatore – 8. Il principio di vicinanza della prova – 9. La giurisprudenza della Corte Costituzionale – 10. Conseguenze della limitazione dei mezzi di prova -10. Conseguenze della nuova distribuzione dell’onere probatorio.
1. Il testo normativo
L’art.1, comma 2, del d.l. 28.3.2025, n. 36 convertito, con modificazioni, in legge 23.5.2025, n. 74, recante «Disposizioni urgenti in materia di cittadinanza», ha apportato alcune modifiche all’articolo 19-bis del d.lgs. 1.9.2011, n. 150 (cosiddetto «decreto riti»).
La rubrica è stata aggiornata con l’estensione del riferimento anche alle controversie in tema di cittadinanza, sì da suonare «Controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia e di cittadinanza italiana».
L’articolo, introdotto nel decreto riti con l’articolo 7, comma 1, lettera d), del d.l. 17.2.2017, n. 13[1], si riferiva originariamente solo alle controversie in materia di apolidia ed era stato esteso con la legge di conversione del 13.4.2017, n. 46, anche alle controversie in materia di cittadinanza, senza però che si provvedesse al debito aggiornamento della rubrica.
I primi due commi, rimasti immutati, regolano rispettivamente il rito e la competenza territoriale, laddove dispongono:
«1. Le controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia e di cittadinanza italiana sono regolate dal rito semplificato di cognizione.
2. È competente il tribunale sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del luogo in cui il ricorrente ha la dimora.»
Il primo comma era stato modificato in sede di «Riforma Cartabia»[2].
Il secondo comma, relativo alla competenza territoriale, deve essere coordinato con il disposto dell’art.4, comma 5 del d.l. n. 13/2017 convertito con modificazioni dalla legge 46/2017, che ha assegnato la competenza per le controversie di accertamento dello stato di cittadinanza italiana sulla base del comune di nascita del padre, della madre o dell’avo cittadini italiani, in caso di residenza all’estero dell’attore.[3]
Con il d.l. 36 del 2025 sono stati aggiunti:
2. La relazione illustrativa
L’intervento normativo è stato così spiegato nella relazione illustrativa[4]:
«In virtù di quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, l’onere di provare l’insussistenza della preclusione all’acquisto sancita dal nuovo articolo 3-bis della legge n. 91/1992 incombe sul richiedente il riconoscimento della cittadinanza e non sono ammessi come prova il giuramento e la prova testimoniale.
In particolare, il nuovo comma 2-ter dell’articolo 19-bis del decreto legislativo n. 150/2011 prevede una specifica disciplina dell’onere della prova nell’ambito delle controversie in materia di cittadinanza. In base alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 25317/2022, chi reclama il possesso della cittadinanza iure sanguinis ha solo l’onere di provare il vincolo di discendenza, essendo assegnato allo Stato (rappresentato usualmente dall’Amministrazione dell’Interno) l’onere di provare la sussistenza di eventuali cause interruttive ostative all’acquisto o al mantenimento della cittadinanza. Tale distribuzione dell’onere della prova non è adeguata alla realtà concreta delle controversie in materia di cittadinanza, nella quale coloro che chiedono l’accertamento sono gli unici ad avere accesso ai fatti e ai documenti rilevanti. Invero, la legge ha previsto (almeno fino al 15 agosto 1992) significativi eventi interruttivi dell’acquisto o del mantenimento della cittadinanza, tutti riconducibili a situazioni venute in essere in ordinamenti stranieri (trasferimenti di residenza, acquisti volontario di cittadinanza straniera, esercizio volontario di diritti politici a seguito dell’acquisto non volontario di cittadinanza straniera). Non è in tale contesto ragionevole imporre allo Stato l’onere (anche finanziario) della ricerca in archivi stranieri di tali fatti e situazioni, peraltro assai risalenti nel tempo. In effetti, la distribuzione dell’onere della prova delineata dalla suddetta pronuncia stabilisce un indebito vantaggio nei confronti dei ricorrenti e un irragionevole onere finanziario a carico dello Stato italiano, premiando in maniera irragionevole situazioni di prolungata inerzia degli interessati.»
3. La portata della norma
Le nuove disposizioni si riferiscono a tutte le controversie in cui è richiesto l’accertamento dello stato di cittadinanza italiana e quindi a tutte le controversie attribuite alla giurisdizione ordinaria che riguardano, appunto, l’accertamento dello status e non comportano pronunce costitutive.
Le nuove norme, quindi, non si riferiscono ai giudizi in tema di cittadinanza devoluti al giudice amministrativo.
Il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di acquisto della cittadinanza italiana si basa sulla natura della situazione giuridica soggettiva azionata, in difetto di attribuzioni di giurisdizione esclusiva, e quindi sulla distinzione tra le ipotesi in cui l’interessato è titolare di un diritto soggettivo all’acquisto della cittadinanza e quelle in cui vanta un interesse legittimo.
Le controversie relative alla cittadinanza, relative a uno status della persona, sono attribuite al giudice ordinario nei casi in cui lo status civitatis è attribuito o perduto ex lege. Sono invece di competenza del giudice amministrativo le controversie in materia di acquisto della cittadinanza per concessione, perché in tal caso viene in rilievo l’esercizio di un potere discrezionale da parte dell’amministrazione, di fronte al quale l’interessato è titolare di un mero interesse legittimo.
Su questa base, la giurisprudenza ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario per l’acquisto della cittadinanza italiana nei casi previsti dagli artt. da 1 a 5 della legge n. 91 del 5.2.1992, che concernono appunto ipotesi in cui occorre procedere all’accertamento dei requisiti di un diritto soggettivo.
Competono quindi alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria le controversie aventi ad oggetto le fattispecie di acquisto automatico o volontario, fatta eccezione per quelle, riguardanti l’acquisto da parte del coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano, nelle quali si controverta della sussistenza delle esigenze di sicurezza pubblica ostative al riconoscimento, che restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, così come quelle riguardanti le ipotesi di acquisto per concessione, fra cui anche quella di cui all’art. 9, comma 1, lett. f).
Infatti il Giudice del riparto ha affermato che, in tema di acquisto della cittadinanza italiana per iuris communicatio, il diritto soggettivo del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell’esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere discrezionale di valutare l’esistenza di motivi ostativi inerenti alla sicurezza della Repubblica. Di conseguenza, una volta precluso l’esercizio di tale potere, in caso di mancata emissione del decreto di acquisto della cittadinanza, così come di rigetto della relativa istanza, ove si contesti solamente la ricorrenza degli altri presupposti tassativamente indicati dalla legge, sussiste il diritto soggettivo del richiedente che può adire il giudice ordinario per far accertare la propria cittadinanza italiana.[5]
D’altro canto, la giurisdizione del giudice amministrativo viene riconosciuta con riferimento alle controversie concernenti l’acquisto della cittadinanza per concessione, ai sensi del predetto art. 9, in quanto, oltre alla valutazione inerente ai requisiti necessari e alle cause ostative, permane in capo all’amministrazione il potere di esercitare valutazioni e scelte ampiamente discrezionali, capaci di attrarre le relative controversie alla giurisdizione generale di legittimità. Tali valutazioni e scelte, infatti, si traducono in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanze idonee a dimostrare la sua integrazione sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e della condotta di vita.
4. Il regime intertemporale
Un’attenta riflessione deve essere dedicata al regime intertemporale della nuova disciplina di cui commi 2-bis e 2-ter novellati dell’art.19-bis del decreto 150 del 2011.
In particolare, si discute se essa – in assenza di una norma transitoria - possa essere applicata ai giudizi in corso, anche se la sua entrata in vigore è avvenuta il giorno successivo alla pubblicazione del decreto legge sulla Gazzetta Ufficiale del 28.3.2025, e quindi il 29.3.2025.
Da un lato, si potrebbe sostenere che le norme siano «meramente processuali», pertanto soggette al principio tempus regit actum e quindi applicabili ai giudizi in corso. Secondo l’opposto orientamento, la normativa avrebbe natura sostanziale e pertanto non troverebbe applicazione che ai giudizi iniziati dal 29.3.2025.
Questo secondo orientamento si fa di gran lunga preferire[6] per una pluralità di convergenti considerazioni.
In primo luogo, secondo autorevole dottrina processual-civilistica, le norme sulla prova possiedono natura sostanziale quando orientano i comportamenti dei consociati e incidono sul contenuto della decisione.
Interessanti al proposito appaiono le osservazioni proposte dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione[7] al momento della entrata in vigore del primo decreto «Paesi sicuri», che possono offrire un utile paradigma di riferimento: «Chi si è occupato in modo specifico del problema con riferimento al decreto sui Paesi sicuri ha tuttavia osservato, sulla scorta degli approdi di autorevole dottrina processualcivilistica, che le norme sulla prova non si applicano retroattivamente quando non si limitino a modificare semplicemente gli strumenti processuali utilizzabili dal giudice, ma orientino i comportamenti dei consociati e incidano sul contenuto della decisione finale[8].Si tratterebbe in questo caso di norme primarie e materiali, come tali irretroattive. In effetti, anche la giurisprudenza di legittimità è orientata a ritenere che le presunzioni abbiano natura sostanziale e non processuale, con conseguente irretroattività delle norme che le introducano nel corso del giudizio.[9]Alla luce di tale orientamento, sembrerebbe potersi affermare che anche il decreto di designazione dei Paesi sicuri e le norme la cui efficacia era subordinata alla sua emanazione non possano trovare applicazione alle domande amministrative e giudiziali presentate prima dell’entrata in vigore del d. intermin., ossia prima del 22 ottobre 2019. Ne dovrebbe scaturire, rispetto a tali domande, oltre all’inoperatività della presunzione relativa…».
In secondo luogo, allo stesso approdo sospinge la doverosa considerazione dei principi del giusto processo e dell’affidamento incolpevole che impongono di non modificare in corso di causa i criteri di valutazione delle prove e di non penalizzare conseguentemente le impostazioni e le strategie processuali formulate dalle parti nel vigore di una precedente normativa e gli affidamenti che ne derivano circa l’esito della lite.
La Corte di Cassazione[10]ha ragionato sostanzialmente in questa direzione allorché ha affermato che « In tema di protezione internazionale, l’inserimento del paese di origine del richiedente nell’elenco dei "paesi sicuri" produce l’effetto di far gravare sul ricorrente l’onere di allegazione rinforzata in ordine alle ragioni soggettive o oggettive per le quali invece il paese non può considerarsi sicuro, soltanto per i ricorsi giurisdizionali presentati dopo l’entrata in vigore del d.m. 4 ottobre 2019, poiché i principi del giusto processo ostano al mutamento in corso di causa delle regole cui sono informati i detti oneri di allegazione, restando comunque intatto per il giudice, a fronte del corretto adempimento di siffatti oneri, il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili ad indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale.».
Per queste stesse ragioni non sembra sostenibile l’applicazione a processo in corso di una diversa distribuzione dell’onere probatorio, dopo che le parti hanno proposto le loro allegazioni, difese e istanze istruttorie, o addirittura dopo che la causa è già stata istruita.
In terzo luogo, la tesi dell’applicabilità ai giudizi in corso imporrebbe ai giudici di assicurare il rispetto dei diritti alla difesa in giudizio e al giusto processo con un provvedimento di rimessione in termini per la formulazione di allegazioni e istanze di prova, precedentemente non formulate e solo ora divenute necessarie. Il silenzio al riguardo del legislatore appare perciò significativo: il principio di economia di Guglielmo di Occam secondo cui «entia non sunt multiplicanda sine necessitate» suffraga ulteriormente l’assunto della non immediata applicabilità delle nuove disposizioni ai giudizi in corso.
Infine la lettera b) del novellato art.3-bis della legge 91 del 1992[11] espressamente dispone che lo stato di cittadino dell’interessato è accertato giudizialmente, nel rispetto della normativa applicabile al 27.3.2025, a seguito di domanda giudiziale presentata non oltre le 23:59, ora di Roma, della medesima data.
5. Le limitazioni probatorie
Come si è detto, il comma 2-bis incide sulla tipologia di mezzi di prova ammissibili nelle controversie in tema di accertamento della cittadinanza[12] escludendo espressamente il giuramento e la prova testimoniale.
La pur amplissima ed erudita relazione illustrativa, che si sofferma solo sulla disposizione in tema di distribuzione dell’onere probatorio, è silente al proposito.
La spiegazione che è stata offerta da taluni nel senso della natura normalmente documentale di questa tipologia di controversie, in cui assume rilievo centrale la prova del rapporto di filiazione attraverso la produzione dell’atto di nascita, lascia insoddisfatti se si considera che in questa prospettiva la novità normativa non si baserebbe su alcuna reale esigenza di adeguamento. Non si può che restar perplessi se un intervento, per giunta attuato con decreto legge per straordinarie ragioni di necessità ed urgenza, viene giustificato con la spiegazione che esso non modificherebbe alcunché.
Per altro verso, la Novella non è affatto indolore: non tanto per l’esclusione del giuramento, indubbiamente del tutto infrequente, quanto della prova testimoniale in casi particolari. Soprattutto - e qui sorge il dubbio che il legislatore implicitamente plus dixit quam voluit - l’esclusione della prova testimoniale porta con sé, per effetto dell’art.2729, comma 2, c.c. l’esclusione del ricorso alle presunzioni semplici ossia della prova presuntiva rimessa alla prudenza del giudice, allorché le conseguenze tratte da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato (art.2727 c.c.) siano gravi, precise e concordanti.
È doveroso, tuttavia, rammentare che la norma con l’inciso iniziale introduce una clausola di salvaguardia che fa salvi i casi espressamente previsti dalla legge.
L’art.2724 c.c., che per vero trova il suo terreno di elezione in materia contrattuale, ammette in ogni caso la prova per testimoni:
1) quando vi è un principio di prova per iscritto (costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato);
2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta;
3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova.
Ancor più pertinente ai fini della clausola di salvaguardia appare l’art.241 c.c. che prevede che quando mancano l’atto di nascita e il possesso di stato, la prova della filiazione possa essere data in giudizio con ogni mezzo.
6. La distribuzione dell’onere probatorio
Il nuovo comma 2-ter dell’art.19-bis d.lgs.150/2011 incide sia sull’onere di allegazione sia sull’onere della prova e attribuisce entrambi a colui che agisce per l’accertamento della cittadinanza italiana, laddove dispone che chiede l’accertamento della cittadinanza è tenuto ad allegare e provare l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge.
In tal modo il legislatore sembra aver inteso derogare alla regola generale contenuta nell’art.2697 c.c. e alla sua applicazione in materia di controversie sulla cittadinanza, così come recepita dal diritto vivente.
Le sentenze n. 25317 e 25318 del 24.8.2022 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato infatti anche il tema dell’onere della prova nei giudizi di riconoscimento della cittadinanza e hanno affermato che colui che richiede il riconoscimento deve provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione e che incombe sull’amministrazione eccipiente la prova dell’eventuale fattispecie impeditiva/estintiva. Tale ripartizione probatoria predicata dal diritto vivente era conforme alla struttura della fattispecie e al riparto disegnato dall’art.2697 c.c.: l’acquisto della cittadinanza operava come fatto costitutivo, il cui onere incombeva sul richiedente il riconoscimento dello status e la perdita della cittadinanza agiva quale fatto estintivo, il cui onere gravava su chi si opponeva al suo riconoscimento[13].
L’intervento così attuato stimola alcuni interrogativi.
a) Il legislatore può derogare con riferimento a un singolo istituto o gruppo di controversie, alle regole fissate dall’art.2697 c.c., secondo il quale «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»?
b) Nel caso in questione il legislatore lo ha fatto?
c) La discrezionalità legislativa al proposito è assoluta o incontra dei limiti nella Costituzione o nel diritto dell’Unione Europea?
La risposta ai primi due interrogativi sembra positiva.
Quanto al quesito sub a) l’art.2697 c.c. è norma di legge ordinaria e quindi può essere oggetto di deroga ad opera di atto avente forza di legge.
Non si potrebbe neppure escludere che la discrezionalità del legislatore si possa spingere sino ad accollare a una parte l’onere della prova di fatti negativi.
Il principio espresso dal brocardo «negativa non sunt probanda», secondo la giurisprudenza di legittimità, non ha fondamento normativo. La Cassazione è ferma nell’affermare che l’onere probatorio gravante su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto “fatti negativi”, in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude né inverte il relativo onere, che grava pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, poiché non è possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo.[14]
Anche la risposta al quesito sub b) appare positiva: sembra innegabile che l’onere sia stato esteso dal legislatore del 2025, in deroga all’art.2697 c.c., anche oltre i fatti costitutivi, sino a ricomprendere anche i fatti estintivi o impeditivi, visto che esso include l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge. Ovvero, ma la sostanza non cambia, potrebbe sostenersi che i fatti impeditivi sono stati trasformati ex lege in fatti costitutivi negativi il cui onere (sia assertivo, sia probatorio) incombe sulla parte attrice che chiede l’accertamento della cittadinanza italiana.
Le conseguenze della modifica normativa, accennate nella relazione ministeriale, sovvertono quindi la regola di riparto enunciata dalle Sezioni Unite nelle sentenze n.25317 e 25318 del 2022, ove era stato affermato «Ne segue che, ove la cittadinanza sia rivendicata da un discendente, null’altro – a legislazione invariata - spetta a lui di dimostrare salvo che questo: di essere appunto discendente di un cittadino italiano; mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell’evento interruttivo della linea di trasmissione.»
Nelle controversie in tema di cittadinanza, oltre alla prova della discendenza per filiazione da un antenato cittadino italiano, occorre infatti sovente verificare se vi sia stata perdita della cittadinanza in capo agli antenati cittadini italiani la cui linea di discendenza per filiazione viene invocata in giudizio e a tal fine è necessario riferirsi alle norme di legge applicabili ratione temporis.
Il Codice civile del Regno d’Italia del 1865, all’art. 11, disciplinava la fattispecie estintiva nel seguente modo: “La cittadinanza si perde: 1. Da colui che vi rinunzia con dichiarazione davanti l’uffiziale dello stato civile del proprio domicilio, e trasferisce in paese estero la sua residenza; - 2. Da colui che abbia ottenuto la cittadinanza in paese estero; 3. Da colui che, senza permissione del governo, abbia accettato impiego da un governo estero, o sia entrato al servizio militare di potenza estera”.
L’art.8 della legge speciale sulla cittadinanza n. 555 del 1912 aveva invece disposto: «Perde la cittadinanza: 1° chi spontaneamente acquista una cittadinanza straniera e stabilisce o ha stabilito all’estero la propria residenza; 2° chi, avendo acquistata senza concorso di volontà propria una cittadinanza straniera, dichiari di rinunziare alla cittadinanza italiana, e stabilisca o abbia stabilito all’estero la propria residenza. Può il Governo nei casi indicati ai nn. 1 e 2 dispensare dalla condizione del trasferimento della residenza all’estero. 3° chi, avendo accettato impiego da un Governo estero od essendo entrato al servizio militare di potenza estera, vi persista nonostante l’intimazione del Governo italiano di abbandonare entro un termine fissato l’impiego o il servizio.”
Pertanto il richiedente che invoca la cittadinanza per discendenza da un antenato italiano trasferitosi all’estero dovrà allegare e dimostrare che l’antenato in questione non ha «ottenuto » (periodo 1865-1912) o «spontaneamente acquistato» (1912- 1992) la cittadinanza straniera[15], o non ha rinunciato alla cittadinanza italiana, o ancora non ha accettato un impiego da un governo estero o ha prestato servizio militare per una potenza straniera nonostante l’intimazione del Governo italiano di desistervi.
La relazione illustrativa sopra citata si riferisce, senza maggiori precisazioni, anche all’ «esercizio volontario di diritti politici a seguito dell’acquisto non volontario di cittadinanza straniera». Questo riferimento non è del tutto comprensibile e probabilmente si riferisce a tesi difensive prospettate dall’Amministrazione, che tuttavia non trovano riscontro nel diritto vivente, perché la giurisprudenza di legittimità non attribuisce alcun rilievo in termini di perdita della cittadinanza italiana all’iscrizione dell’antenato italiano nelle liste elettorali e all’esercizio del diritto di voto dopo l’acquisto non volontario della cittadinanza dello Stato straniero di emigrazione.
È evidente che il comma 2-ter accolla al richiedente un onere assertivo e soprattutto probatorio particolarmente gravoso, che rasenta in alcuni casi la probatio diabolica.
Quest’onere appare ulteriormente appesantito se si considera che, salve le eccezioni espressamente previste dalla legge, la prova può essere solamente documentale poiché il comma 2-bis del novellato art.19-bis del d.lgs.150/2022 preclude il ricorso al giuramento e soprattutto alla prova testimoniale; l’art.2729, 2° comma, c.c. esclude inoltre il ricorso alla prova presuntiva (tradizionalmente ammessa dalla giurisprudenza per soddisfare l’onere probatorio in tema di fatti negativi) quale conseguenza del divieto di prova testimoniale.
La norma poi si pone in controtendenza rispetto al codice del processo amministrativo (d.lgs. 2.7.2010 n.104) che si applica ai giudizi in tema di cittadinanza devoluti al giudice amministrativo e all’art.63 assicura l’ammissibilità di un ampio ventaglio di mezzi di prova. Questa discriminazione non appare agevolmente giustificabile e suona financo paradossale se si constata che le limitazioni dei mezzi di prova gravano maggiormente sul giudice del rapporto che sul giudice del provvedimento.
A questo punto occorre affrontare il quesito sub c) che attiene alla portata della discrezionalità riservata al legislatore nel derogare al principio generale di cui all’art. 2697 c.c.
7. La discrezionalità del legislatore
La risposta corretta è che la pur sussistente discrezionalità del legislatore ordinario non è assoluta e non può superare i limiti della ragionevolezza e della proporzionalità nella elaborazione delle regole di riparto, senza contraddire i principi fissati dagli artt.2, 3 e soprattutto 24 e 111 della Costituzione.
Non avrebbe senso infatti riconoscere un diritto e il conseguente diritto di agire in giudizio per il suo riconoscimento se la prova richiesta fosse così gravosa da risultare in concreto impossibile; né si potrebbe ritenere che un processo siffatto sia giusto, equo e imparziale e rispettoso delle condizioni di parità.
In varie occasioni la giurisprudenza della Cassazione e delle Sezioni Unite[16] ha ravvisato, dapprima implicitamente e poi esplicitamente, uno specifico collegamento («ancoraggio») fra l’art.24 della Costituzione e la regola dell’onere probatorio.
Da ultimo, nella sentenza delle Sezioni Unite n.11748 del 3.5.2019, la Cassazione, dopo aver ricordato che il principio di vicinanza della prova ha trovato la sua prima compiuta enunciazione nella fondamentale sentenza delle Sezioni Unite n. 13533 del 2001, declinato nel senso che l’onere della prova deve essere «ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione», ha affermato che l’ancoraggio di tale principio all’articolo 24 della Costituzione, già implicito nella pronuncia del 2001, è stato poi reso esplicito nelle pronunce successive. La sentenza n. 13533 del 2001 ritiene il principio della vicinanza della prova «coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi» e il criterio della vicinanza/distanza della prova viene in sostanza utilizzato per distinguere i fatti costitutivi della pretesa (identificati con quelli che sono nella disponibilità dell’attore, che il medesimo ha l’onere di provare) dai fatti estintivi o modificativi o impeditivi, identificati con quelli che l’attore non è in grado di provare e che, pertanto, devono essere provati dalla controparte. In pronunce successive, per contro, il criterio della vicinanza/distanza della prova non appare più collegato al disposto dell’articolo 2697 c.c. e viene utilizzato come un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto, idoneo a spostare l’onere della prova su una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata in base a questa ripartizione.
8. Il principio di vicinanza della prova
Si è sostenuto che con le disposizioni in esame e in particolare con il nuovo comma 2-ter, nel modificare la distribuzione dell’onere della prova, il legislatore abbia fatto applicazione del principio della vicinanza della prova, posto che gli eventi accaduti nello Stato straniero di emigrazione riguardanti l’antenato italiano emigrati sarebbero più prossimi (e quindi più agevoli da dimostrare) per il richiedente che per lo Stato italiano.
Secondo il c.d. principio di vicinanza (o prossimità) della prova l’onere della prova deve essere ripartito tenendo conto in concreto della possibilità per l’uno o per l’altro dei contendenti di provare circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione, per cui è ragionevole gravare dell’onere probatorio la parte a cui è più vicino il fatto da provare. Ciò significa che, al fine di provare un fatto, l’onere della prova potrà incombere sul soggetto che è più prossimo, vicino, alla fonte di prova.
Il rapporto tra l’articolo 2697 c.c. e il principio della vicinanza della prova è per vero assai controverso: per taluni il principio costituisce la ratio ispiratrice e fondante dell’art.2697 c.c.; secondo altri si tratterebbe di un criterio integrativo di cui avvalersi in sede interpretativa per risolvere i casi dubbi; per altri ancora si tratterebbe di una deroga temperatrice al canone espresso dall’articolo 2697 c.c.
Tuttavia la riconduzione della nuova disposizione al principio di vicinanza della prova non può essere accettata in linea generale: non si vede infatti davvero come la rinuncia alla cittadinanza italiana formalizzata presso gli uffici consolari o l’intimazione da parte del Governo italiano a rinunciare all’impiego estero possano essere considerate più prossime e più agevoli per il discendente dell’interessato che per l’amministrazione convenuta.
9. La giurisprudenza della Corte Costituzionale
La giurisprudenza della Corte Costituzionale, sia pur non numerosa, conferma la tesi della necessaria ragionevolezza e proporzionalità della discrezionalità legislativa in tema di distribuzione degli oneri probatori.
Interessante, seppur resa in riferimento ad un ambito diverso, appare la pronuncia n.440 del 16.12.1993 che scrutina la ragionevolezza della scelta del legislatore nella distribuzione dell’onere probatorio in tema di prova della buona condotta addossato al privato.
La Corte Costituzionale ha al proposito ritenuto «intrinsecamente irragionevole» addebitare all’interessato un onere che talora neppure l’amministrazione sarebbe in grado di adempiere proprio per la varietà dei parametri di verifica dai quali può scaturire la preclusione alla realizzabilità di posizioni soggettive di cui il privato è titolare; ha poi ribadito che «quanto irragionevole ed arbitraria dovesse ritenersi, in via generale, l’esistenza di un simile onere probatorio, risulta essere stato avvertito dal legislatore allorché con l’art. 10 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, contenente norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione delle firme, ha statuito che la buona condotta (al pari dell’assenza di precedenti penali e di carichi pendenti) è accertata d’ufficio, presso gli uffici pubblici competenti dalla amministrazione che deve emettere il provvedimento.»
Secondo la Consulta si deve evitare l’imposizione all’interessato di una prova talora diabolica volta a contrastare la forza cogente dell’onere e scongiurare la persistenza di una situazione giuridica non in grado di potersi concretizzare o destinata ad essere posta nel nulla nonostante la presenza e la persistenza di posizioni astratte di legittimazione.
Altrettanto significative appaiono due decisioni della Consulta in tema di traslazione dell’onere economico di un tributo.
Con la sentenza del 21.4.2000 n.112 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 del d.l. 30.9.1982, n. 688 (Misure urgenti in materia di entrate fiscali), convertito con modificazioni nella legge 27.11.1982, n. 873, nella parte in cui poneva a carico del contribuente, che agisce per la ripetizione di imposte di consumo indebitamente corrisposte, l’onere di provare solo documentalmente che il peso economico dell’imposta non era stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti. Secondo la Corte, pur se la mera inversione dell’onere della prova non è di per sé in contrasto con l’art. 24 Cost., trattandosi di materia indubbiamente rimessa alla discrezionalità del legislatore, la previsione che tale onere possa essere assolto solamente per mezzo della prova documentale - intesa in senso tecnico - comporta una sicura lesione del diritto di agire in giudizio del solvens. Siffatta previsione viene infatti a subordinare la tutela giurisdizionale a una prova impossibile secondo criteri di normalità, non potendo in via generale essere ipotizzata l’esistenza di un documento contenente la diretta rappresentazione del fatto negativo costituito dalla mancata traslazione del peso economico di un’imposta.
Successivamente la Consulta con la sentenza n.332 del 9.7.2002 si è occupata della stessa norma con riferimento alla distribuzione dell’onere probatorio e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto art.19 del d.l. 30.9.1982, n. 688, convertito, con modificazioni, in legge 27.11.1982, n. 873, anche nella parte in cui prevede che sia l’attore in ripetizione a dover provare che il peso economico dell’imposta non è stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti.
La Corte Costituzionale al proposito ha osservato che la traslazione dell’imposta, in quanto fatto impeditivo del diritto alla ripetizione, dovrebbe essere opponibile solo in via di eccezione dall’accipiens (art. 2697 cod. civ.); invece, la norma impugnata, onerando il solvens della prova (negativa) della mancata traslazione dell’imposta, ha operato una inversione legale dell’onere della prova lesiva del generale canone di ragionevolezza garantito dall’art. 3 della Costituzione.
Tale inversione rinviene, infatti, la sua ragione nell’intento di attribuire all’amministrazione finanziaria convenuta con l’azione di ripetizione una posizione di particolare privilegio in sede probatoria, del tutto ingiustificato ove si consideri che l’amministrazione è l’accipiens di un pagamento non dovuto che in quanto tale dovrebbe essere, in base ai principi generali, restituito. D’altro canto, la pur contestata ricorrenza, nella normalità delle ipotesi, del fenomeno della traslazione non potrebbe certo giustificare la suddetta inversione, ma, semmai, valere come argomento di prova utilizzabile, in giudizio, dall’accipiens. Il vulnus al principio di ragionevolezza che si viene così a determinare comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata, nella parte in cui pone a carico dell’attore in ripetizione l’onere di provare la mancata traslazione dell’imposta invece di prevedere che la domanda debba essere respinta qualora l’amministrazione convenuta provi che il peso economico dell’imposta è stato trasferito dal solvens su altri soggetti.
Vi è inoltre da chiedersi se l’imposizione di una prova diabolica rispetti l’art.47 della Carta dei diritti fondamentali UE quanto al diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale e l’art.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
10. Conseguenze della limitazione dei mezzi di prova
La limitazione dei mezzi di prova produce gravi conseguenze in alcuni casi limite.
Il nuovo art.19-bis, comma 2-ter, impone al richiedente l’accertamento della cittadinanza di allegare e provare l’insussistenza delle cause di mancato acquisto o di perdita della cittadinanza previste dalla legge.
Come si è dianzi ricordato, l’art.11 del codice civile del 1865 disponeva che perdesse la cittadinanza italiana colui che senza permesso del Governo, avesse accettato un impiego da un governo estero o fosse entrato al servizio militare di potenza estera. Analogamente e ancor più chiaramente, l’art. 8 n.3 della legge n. 555 del 1912 disponeva che perde la cittadinanza italiana chi, avendo accettato impiego da un governo estero od essendo entrato al servizio militare di potenza estera, vi persista nonostante l’intimazione del Governo italiano di abbandonare entro un termine fissato l’impiego o il servizio.
Tanto il codice civile del 1865 quanto la legge n.555 del 1912 consideravano inoltre la rinuncia espressa quale causa di perdita della cittadinanza.
Il richiedente deve quindi, ad esempio, allegare e dimostrare che gli ascendenti cittadini italiani emigrati all’estero non hanno rinunciato alla cittadinanza italiana, ovvero che essi non hanno accettato un impiego (ad esempio di insegnamento in una scuola pubblica) dal Governo estero o se lo hanno fatto che lo Stato italiano non ha intimato loro di abbandonarlo.
Si tratta di una prova negativa di difficile adempimento.
È pur vero che l’attore potrebbe essere agevolato dall’onere di contestazione che l’art.115 c.p.c. pone in capo alla controparte, secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita. Se il richiedente allega specificamente i fatti rilevanti (ad esempio, che l’avo ha accettato l’impiego e che il Governo italiano non gli ha intimato di abbandonarlo), la parte convenuta ha l’onere di contestarli specificamente per evitare che risultino non controversi e non bisognosi di prova.
E tuttavia questa regola di responsabilizzazione delle parti nella dialettica processuale non opera nei confronti della parte non costituita in giudizio: e molto sovente nelle controversie per l’accertamento della cittadinanza italiana l’amministrazione non si costituisce con la conseguente irrilevanza del suo silenzio ai fini probatori.
Certamente il ricorrente potrebbe chiedere preventivamente all’amministrazione italiana di certificare che l’intimazione non vi è stata, ma in caso di mancata ottemperanza il richiedente si troverebbe in grave difficoltà nell’assolvere all’onere probatorio del fatto negativo nel giudizio contumaciale, visto che non gli è consentito invocare il ragionamento presuntivo per inferire la prova dell’omessa intimazione dal silenzio della P.A. e dalla mancata certificazione pur richiesta.
Resterebbe lo spazio per un ordine di esibizione ex art.210 c.p.c. o per una richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione ex art.213 c.p.c., secondo la prospettazione fatta propria da Cass. civ. Sez. 5, 30.4.2019, n. 11432, e a sua volta ispirata dalla sentenza della Corte Costituzionale n.109 del 29.3.2007, secondo la quale la produzione di documenti, oltre che spontanea, può essere ordinata su istanza di parte a norma dell’art. 210 cod. proc. civ. (e, quindi, nei confronti dell’amministrazione parte in causa e anche nei confronti di terzi); mentre, ove necessario, il giudice ha il potere - nei confronti di pubbliche amministrazioni diverse da quella che è parte del giudizio davanti a lui pendente - di chiedere informazioni o documenti ai sensi dell’art. 213 cod. proc. civ., e cioè attivarsi in funzione di chiarificazione dei risultati probatori prodotti dai mezzi di prova dei quali si sono servite le parti.
11. Conseguenze della nuova distribuzione dell’onere probatorio
Un’interpretazione e un’applicazione estremamente rigorosa e letterale delle nuove disposizioni potrebbero condurre a ritenere che il richiedente debba allegare e provare che il proprio antenato emigrato non abbia acquisito volontariamente la cittadinanza di ogni altro Stato, anche diversa da quella del paese di emigrazione e di residenza. Si tratterebbe, pur sempre, di una fattispecie idonea a produrre la perdita della cittadinanza italiana di cui il richiedente sarebbe tenuto ad allegare e provare l’insussistenza.
Una siffatta interpretazione, presumibilmente contrastante con la stessa intentio legis, esporrebbe la norma alla collisione con il principio di eguaglianza, con il diritto di azione in giudizio e al giusto processo, gravando l’attore di un onere irragionevole e sproporzionato, risolventesi in una probatio diabolica.
La violazione degli artt.3, 24 e 111 Cost. che ne deriverebbe può tuttavia essere scongiurata con una interpretazione costituzionalmente orientata, nonché conforme al diritto dell’Unione Europea in punto effettività dei rimedi giurisdizionali, che appare del tutto ragionevole: occorre cioè perimetrare l’onere di allegazione e di prova in questione alla vicenda in fatto posta a base del ricorso, escludendo così che il richiedente abbia l’onere di provare l’insussistenza di cause di perdita della cittadinanza prive di alcun collegamento fattuale con la sua narrazione.
Questa, del resto, è la soluzione suffragata dalle raccomandazioni dell’ UNHCR nel Manuale per la protezione delle persone apolidi per l’interpretazione della Convenzione di New York del 1954, ratificata dall’Italia con legge 1.2.1962 n. 306. La definizione della persona apolide come colui «che nessuno Stato considera come suo cittadino per l’applicazione della sua legislazione» viene assoggettata a una lettura restrittiva circoscritta con riferimento ai soli Stati con i quali il richiedente ha legami rilevanti alla luce delle circostanze di fatto allegate alla domanda (ad es. nascita o residenza abituale sul territorio di uno Stato o discendenza da cittadini di quello Stato).
Nel § 18 del Manuale predetto si legge infatti che «Nonostante il fatto che la definizione contenuta nell’articolo 1(1) sia formulata come negazione (“nessuno Stato considera come suo cittadino per applicazione della sua legislazione”), il campo d’indagine nell’analisi delle domande di riconoscimento dell’apolidia è limitato agli Stati con cui il richiedente ha dei legami pertinenti come, in particolare, la nascita sul territorio di uno Stato o l’avervi risieduto in maniera abituale, il matrimonio o la discendenza da cittadini dello Stato in questione. In alcuni casi, questo approccio può limitare il campo d’indagine ad un solo Stato (o ad una sola entità che non può essere considerata tale)».
Solo leggendo così la norma si può evitare di imporre ai richiedenti un onere iperdilatato a livello “mondiale” e ricondurre a ragione la sua portata applicativa.
[1] Il cosiddetto «decreto Minniti»
[2] Ad opera dell’articolo 15, comma 3, lettera l), del d.lgs. 10.10.2022, n. 149 , con effetto a decorrere dal 28.2.2023, come stabilito dall’articolo 35, comma 1, del d.lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall’articolo 1, comma 380, lettera a), della legge 29.12.2022, n. 197.
[3] Questa disposizione ha avuto l’effetto di spostare la competenza dal Tribunale di Roma, altrimenti competente sulla base del foro del convenuto, ai Tribunali del luogo di provenienza dell’emigrante. Si legga in proposito, anche in relazione all’effetto di ingente aumento del contenzioso in tema di cittadinanza presso il Tribunale di Venezia, S. LAGANÀ, Contributo in ordine alla conversione in legge del decreto-legge n. 36 del 2025, in sede di audizione alla Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica.
[4] Insolitamente ampia, argomentata e documentata.
[5] Cass., Sez. Un., 7.7.1993, n. 7441; Cass., Sez.Un., 27.1.1995, n. 1000.
[6] L’argomento è stato ampiamente discusso nel corso dell’incontro di studi P.25067 della Scuola Superiore della Magistratura tenutosi a Napoli dal 22 al 24.9.2025, intitolato «La cittadinanza e le cittadinanze. Spunti di riflessione de iure condito e de iure condendo».
In quella sede la tesi della non immediata applicabilità ai giudizi in corso è stata largamente condivisa da relatori e partecipanti.
Si possono consultare al proposito le relazioni di A.BARALDI, “La giurisprudenza di merito: gli orientamenti e i problemi organizzativi delle sezioni specializzate”, G. BONATO, “I dubbi sulla riforma del 2025”, intervento alla tavola rotonda; A. GIUSTI, “La giurisprudenza di legittimità (con osservazioni preliminari con riferimento al riparto di giurisdizione)”.
[7] Relazione n. 4 del 10.1.2020 «Art. 2 bis d. lgs. n. 25 del 2008 e connesso Decreto Interministeriale attuativo dell’elenco dei paesi di origine sicuri.».
[8] V. F. VENTURI, Il diritto di asilo: un diritto “sofferente”, cit., p. 187 ss., spec. p. 188, secondo cui una diversa soluzione determinerebbe “una grave lesione dei principi, costituzionalmente garantiti, di parità di trattamento e di tutela del legittimo affidamento di quei medesimi richiedenti protezione internazionale”. La dottrina processualcivilistica cui questo A. fa riferimento è G. VERDE, Prova, in Enciclopedia del diritto, XXXVII, Milano, 1988. Sull’affidamento come criterio-guida nella valutazione sulla legittimità di una legge retroattiva, v. M. LUCIANI, Il dissolvimento della retroattività, in Giur. it., 2007, I, c. 1833 ss. e A. PUGIOTTO, Il principio d’irretroattività preso sul serio, in C. PADULA (a cura di), Le leggi retroattive nei diversi rami dell’ordinamento, Napoli, 2018.
[9] Cass., Sez. 5, 19.12.2019, n. 33893; Sez. 2, 13.12.2019, n. 32992.
[10] Cass. Sez. 1, 11.11.2020, n. 25311.
[11] Al pari di quanto dispongono per le domande amministrative le precedenti lettere a) e a-bis).
[12] Radicate a partire dal 29.3.2025: vedi supra.
[13] Vedasi in proposito A. GIUSTI, relazione citata “La giurisprudenza di legittimità (con osservazioni preliminari con riferimento al riparto di giurisdizione)” nell’incontro di studi SSM P.2506.
[14] Cass. Sez. 1, n.2612 del 16.7.1969; Sez. 3, n. 2586 del 28.04.1981; Sez. 3, n. 1557 del 13.2.1998; Sez. L, n. 12521 del 12.12.1998; Sez. L, n. 11029 del 23.8.2000; Sez. 2, n. 5427 del 15.4.2002 ; Sez. L, n. 23229 del 13.12.2004; Sez. 3, n. 384 del 11.1.2007; Sez. 3, n. 14854 del 13.6.2013.
[15] I concetti sono tuttavia secondo la Corte di Cassazione sostanzialmente equivalenti.
[16] Cass. Sez. U., 30.10.2001, n. 13533; Cass. Sez. U., 10.01.2006, n. 141; Cass. Sez. 2, 9.8.2013, n. 19146; Cass. Sez. U., 3.5.2019, n. 11748.
Su questa rivista, si veda anche La Corte Costituzionale si pronuncia sulla cittadinanza. Osservazioni a prima lettura della Sentenza 142 del 2025 di Umberto Scotti, Cittadinanza iure sanguinis: brevi note dopo C. Cost. 31/7/25 n. 142 di Marco Gattuso,La cittadinanza nel diritto europeo di Bruno Nascimbene.
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