ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa e la “graduabilità in via generale” - 2. La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: il “monito di politica legislativa” ... in itinere - 3. Il principio del risultato e l’asserito modello del Codice dei contratti pubblici per tipizzare la colpa grave - 4. La underdeterrence è l’unica via per rafforzare la capacità amministrativa?
1. L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa e la “graduabilità in via generale”
L’introduzione in via legislativa del c.d. “scudo erariale” e la sua ripetuta proroga[1], con la limitazione della responsabilità amministrativa al solo dolo per le condotte commissive, rievoca alcune questioni dibattute allorquando il legislatore, nel 1996, limitò alla colpa grave la medesima responsabilità (allora anche per condotte omissive).
Già in quel momento, come noto, la limitazione dell’elemento soggettivo rilevante fu censurata dalla Corte dei conti alla Corte costituzionale, ma venne da questa ritenuta costituzionalmente legittima con motivazione dal sapore attuale. Nel 1998 il professor Casetta commentò con un titolo estremamente pungente la sentenza di rigetto della Corte costituzionale n. 371 del 1998[2]: “Colpa del dipendente pubblico o colpa del legislatore?”[3].
Tutti conoscono quale fosse il punto cruciale di quella sentenza, che auspicava un assetto normativo nel quale il timore della responsabilità del funzionario non disponesse l’amministrazione pubblica all’inerzia. Pare tuttavia opportuno rileggere l’apparato argomentativo per valutare se sia applicabile al contesto dello scudo erariale: “Il punto è la combinazione di elementi restitutori e di deterrenza per raggiungere l’equilibrio che renda la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo”[4]. Si tratta di una evidente forzatura lessicale, solo ove si consideri la difficoltà che la responsabilità amministrativa possa costituire uno stimolo. Non è certo la responsabilità che funge da stimolo ma è la configurazione di un adeguato status giuridico del dipendente pubblico, in via normativa e amministrativa, a stimolarne l’azione legittima e efficiente.
A parte l’infelice formulazione, i motivi del rigetto della questione di legittimità costituzionale allora sollevata sono illuminanti e meritano riflessione, soprattutto in relazione alla questione recentemente scrutinata dalla Corte costituzionale. Sintetizzando, la disciplina legislativa censurata non avrebbe violato l’art. 97 Cost. poiché la discrezionalità del legislatore non è censurabile “se non quando è arbitraria o irragionevole”. In questo caso, la Corte, invero in modo sbrigativo, ritenne che quell’“upgrade” dell’elemento soggettivo (dalla colpa alla colpa grave) non fosse né irragionevole né arbitrario, nella ricerca di quell’agognato equilibrio tra stimolo e disincentivo per il funzionario pubblico[5].
Non c'era violazione dell’art. 103 della Costituzione, poiché la materia della contabilità pubblica è definita dalla legge e, quindi, è la razionalità del legislatore, con la sua discrezionalità, a definire il perimetro entro il quale giudica la Corte dei conti. Non era inoltre ravvisato un nesso diretto tra la disciplina censurata e gli adempimenti degli obblighi sovranazionali (all’epoca si trattava del rispetto dei parametri di Maastricht), nonostante il giudice a quo avesse sostenuto una violazione del diritto (allora) comunitario, ridondante in violazione dell’art. 81 Cost.
Ma il professor Casetta, con la sua nota caustica, criticava l’intero sistema ordinamentale che aveva condotto a quella scelta legislativa. Criticava in primis la stessa formulazione dell’art. 28 della Costituzione, poi il legislatore successivo, la Corte dei conti come giudice a quo nella formulazione della rimessione, e infine la sentenza della Corte costituzionale, con diverse sfumature di riprensione[6].
Riguardo all’art. 28 Cost., sulla scorta dei propri importanti studi[7], affermava che i lavori preparatori erano confusi e certamente non illuminanti, frutto di un difetto di redazione lessicale. Riguardo alle leggi successive, come il Testo Unico n. 3 del 1957 e il decreto sulla privatizzazione del pubblico impiego, il legislatore “ha creduto di intervenire con una limitazione della responsabilità, illusoria e inutile, fondatamente sospetta di incostituzionalità”. Sulla Corte dei conti in funzione di giudice a quo, considerava le censure formulate fragili e poco penetranti, tanto da agevolare il rigetto delle questioni mediante una semplice riaffermazione della discrezionalità del legislatore[8].
Infine, riguardo alla Corte costituzionale, il professor Casetta riteneva che il rigetto della questione di legittimità costituzionale fosse costruito su presupposti errati, poiché la discrezionalità del legislatore era arbitraria per avere “rovinato” la visione unitaria, di matrice civilistica, della natura risarcitoria comune alla responsabilità civile e a quella amministrativa.
Riportando l’osservazione del professor Casetta ai giorni nostri, riguardo allo scudo erariale e alla limitazione di responsabilità di cui si è ampiamente discusso, si possono notare differenze notevoli rispetto al precedente “upgrade” normativo dell’elemento soggettivo.
Le censure sollevate riguardo alla proroga dello “scudo erariale” dalla Sezione giurisdizionale campana della Corte dei conti hanno delineato profili d’incostituzionalità senz’altro nuovi, alcuni dei quali, ad avviso di chi scrive, non sono stati adeguatamente esaminati dalla Corte costituzionale, come si noterà a breve.
Rispetto alla “paura della firma”, alla “burocrazia difensiva”, alla “fatica dell’amministrare” e alle diverse formulazioni entrate vigorosamente nel lessico giuridico[9], la limitazione emergenziale della responsabilità amministrativa è divenuta in questi ultimi anni ordinaria, giustificando, ben oltre le ragioni del suo esordio, la corrispondente limitazione dei poteri requirenti e giurisdizionali della Corte dei conti.
Anche la recente pronuncia della Corte costituzionale n. 132 del 2024, con la sua inedita vis propulsiva, suggerisce al legislatore rimedi di diritto sostanziale, appunto intesi a ridisegnare i confini della responsabilità amministrativa, e rimedi di natura ordinamentale e processuale, che interessano le funzioni giurisdizionali della Corte dei conti[10].
Come ricorda il Professor Carlo Emanuele Gallo nel Manuale di contabilità pubblica, tuttavia, la Corte dei conti ha sempre valutato il regime della responsabilità amministrativa con estrema attenzione alle esigenze della pubblica amministrazione, preoccupandosi più di affermare i principi di correttezza nella gestione che di sanzionare gli agenti[11]. Questo è l’orientamento della giurisprudenza contabile, come del resto testimoniano le relazioni di inaugurazione degli anni giudiziari e le relative appendici statistiche.
Piuttosto, citando di nuovo il professor Gallo, “è il legislatore che, talora, sbaglia” perché “prevede sanzioni incredibili, decine di volte maggiori rispetto al danno perpetrato”, oppure “introduce incoerenze, come il danno di immagine”. Le citazioni a riguardo sono numerose. Ad esempio, il caso della “medicina difensiva”, parallelo a quello della “burocrazia difensiva”, dimostra che i rimedi alla “paura” del personale esistono, non limitandosi alla copertura dei rischi mediante la stipulazione di polizze assicurative. Sappiamo benissimo che la legge n. 24 del 2017, c.d. legge Gelli-Bianco, in tale ambito, prevede altri efficaci rimedi, per esempio già prevede l’esonero di responsabilità in caso di conformità della condotta alle linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali, tra gli altri strumenti[12].
La visione unitaria dell'art. 28 della Costituzione è stata frantumata, come affermava il professor Casetta, da quando la responsabilità amministrativa si è disallineata rispetto alla responsabilità civile, sotto il profilo dell'elemento soggettivo. Questo processo ha incrinato l’unitarietà, già debole, del modello di responsabilità discendente dalla laconica disciplina costituzionale.
La questione di fondo riguarda l’individuabilità di limiti a questa gradualità generale dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa; in altri termini dove si arresta la discrezionalità del legislatore e da quale punto essa diventi arbitraria e contraria ai principi costituzionali, nella diuturna ricerca dell’ottimale combinazione tra elementi restitutori e di deterrenza propri dell’istituto.
Se il modello di partenza è l’art. 28 Cost., va ricordato che la stessa previsione costituzionale ha occasionato letture profondamente divergenti: Carlo Esposito, nel 1954, riteneva addirittura che la Costituzione limitasse la responsabilità al solo dolo, poiché si riferiva ad atti compiuti in lesione di diritti[13]. Elio Casetta, invece, sosteneva che l’ampia discrezionalità legislativa avrebbe vanificato la Costituzione, portando a estremi problematici, come nel caso della responsabilità civile dei magistrati, ridotta “a essere quasi soltanto simbolica, nella dimensione dell'elemento soggettivo, quando nulla impediva di mantenere la colpa lieve” (Regio decreto di contabilità pubblica n. 2440 del 1923).
Da ultimo, il Codice dei contratti pubblici di cui al d. lgs. n. 36 del 2023, all’art. 2, comma 3, distingue la colpa grave generica dalla colpa lieve, che invece è specifica. Il profilo colposo si manifesta per violazione di norme di diritto o di autolimiti dell’amministrazione (qui abbiamo un profilo di colpa lieve specifica), oppure per palese violazione di regole di prudenza, diligenza e perizia. In questo caso, il termine “palese” suggerisce una violazione macroscopica, riferibile alla colpa grave. Con una previsione degna di sistemi giuridici di Common Law, la stessa disposizione esclude poi dalla colpa grave “la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti”. In disparte la ottimistica fiducia riposta nella formazione di giurisprudenza omogenea su temi complessi e verso l’armonia tra giurisprudenza e orientamenti delle autorità di vigilanza, questa formulazione non pare tipizzare la colpa grave, come per contro si sostiene nelle proposte normative di riforma della responsabilità amministrativa, che la assumono come modello di riferimento, anche alla luce del monito rivolto al legislatore dalla Corte costituzionale.
Provando a riprendere il pensiero del professor Casetta e ad applicarlo al contesto attuale rispetto alla pronuncia della Corte costituzionale del 1998, sorgono diverse domande e questioni, che si ritiene solo in parte siano state affrontate dallo stesso giudice delle leggi con la sentenza n. 132 del 2024. Partendo dal caso pratico, sorge spontaneo chiedersi perché lo “stimolo” di cui già allora parlava la sentenza della Corte costituzionale debba essere rivolto al progettista e non al collaudatore di un’opera pubblica e dove risieda la ragionevolezza della distinzione. Perché lo stimolo, e non il disincentivo, deve riguardare chi progetta e non chi collauda, in ragione della condotta attiva o omissiva? A chi scrive la stessa distinzione pare macroscopicamente viziata, ma la censura che originava dal giudizio a quo era riferita a condotte non inequivocamente riconducibili alla criticata contrapposizione azione/omissione, così consentendo alla Corte costituzionale di sfumare il proprio giudizio su tale punto nodale[14].
Per quanto riguarda l’art. 103 della Costituzione e l’ambito della giurisdizione contabile, sembrava che la questione non potesse essere liquidata in poche righe, come avvenne nel 1998, specie richiamando la giurisprudenza costituzionale che ha ripetutamente riconosciuto la funzione del giudice contabile come giudice naturale del bilancio e della contabilità pubblica. La Corte costituzionale, replicando il proprio originario orientamento, ha tuttavia ritenuto che la disciplina degli elementi della responsabilità amministrativa riguardi il solo diritto sostanziale, escludendo un correlato vulnus alla giurisdizione contabile[15]. L’affermazione stupisce, specie considerando il lungo monito che la stessa Corte costituzionale formula al legislatore, che riguarda congiuntamente profili di diritto sostanziale e di diritto processuale, destinati a incidere profondamente sull’ambito della giurisdizione della Corte dei conti. Lo stesso Presidente della Corte dei conti, nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025 ha sollecitato una attenta ponderazione riguardo alle conseguenze di eventuali limitazioni della responsabilità erariale, con “riduzione dello spazio della giurisdizione contabile”, che condurrebbero l’attività dannosa del pubblico funzionario nel più generale alveo dell’illecito[16] civile, con assoggettamento allo statuto generale della relativa responsabilità, certamente meno attenta alla “fatica dell’amministrare”.
Riesce davvero difficile disgiungere il riassetto della responsabilità amministrativa dalle conseguenze processuali indotte, in primo luogo riguardo agli effetti sulla giurisdizione contabile e ai rapporti tra quest’ultima e la giurisdizione ordinaria.
Il riferimento corre alla proposta di legge Foti (C-1621), presentata il 19 dicembre 2023, che nella sua versione originaria avrebbe sostanzialmente snaturato la Corte dei conti, rendendola un organo consultivo, financo consulenziale[17], per le amministrazioni statali con grave rischio di violare il divieto di co-amministrazione[18]. Gravissimo, poi, a parere di chi scrive, prevedere l’istituto del silenzio-assenso riguardo al rilascio dei medesimi pareri: un errore molto grave, indice della natura amministrativa e, per l’effetto, della funzione di co-amministrazione che verrebbe intestata alla stessa Corte, dimenticando la sua posizione nell’assetto costituzionale[19]. Ancora più anomala l’originaria previsione, ad opera della stessa proposta di legge, dell’attribuzione alla Corte dei conti di poteri sanzionatori nei confronti dei dipendenti quali la sospensione o destituzione dei dipendenti in caso di responsabilità amministrativa, che renderebbe la Corte dei conti una sorta di ufficio disciplinare esterno o la assimilerebbe ad una Authority, nuovamente in ispregio alla sua collocazione costituzionale[20]. Tutto il progetto di legge aumenta del resto il rischio di accentuare i profili sanzionatori della responsabilità amministrativo-contabile, allontanandosi dalla sua “natura risarcitoria di fondo”[21].
La relazione di accompagnamento alla richiamata proposta invoca a sostegno delle sue previsioni un effetto “tranquillizzante” per i funzionari pubblici, che lavorerebbero senza preoccupazioni grazie alla copertura assicurativa per la colpa grave, eliminando così le conseguenze di responsabilità amministrativa e contabile, previa funzione consultiva della Corte dei conti. Tuttavia, questa prospettiva condurrebbe a funzionari “anestetizzati” che operano senza il giusto stimolo a causa dell’indotto effetto deresponsabilizzante. Non si ritiene che sia questa la ragionevole misura tra “overdeterrence” e “underdeterrence” invocata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 132 del 2024[22].
Citando il professor Rosario Ferrara, si può osservare la tendenza preoccupante del legislatore, già lamentata nel 1999, verso la disciplina di “un’amministrazione senza qualità, un’amministrazione deresponsabilizzata”[23]. Tale approccio disvela una sfiducia evidente, molto marcata, nella dirigenza e nell’apparato apicale delle pubbliche amministrazioni, con il rischio che anche il legislatore, procedendo in questo modo, violi il principio di fiducia (verso l’apparato amministrativo).
2. La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: il “monito di politica legislativa” ... in itinere
La richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024 è già stata ampiamente e diffusamente commentata e a tali commenti si può fare un generale rinvio[24].
Si intendono tuttavia aggiungere alcune riflessioni, riferite alla forma della pronuncia, alla sua classificazione e ad alcuni paradossi che il futuro legislatore sarà tenuto ad affrontare e, auspicabilmente, a risolvere per effetto dell’articolato monito in essa contenuto[25].
Iniziando dalla forma, riferita alla redazione lessicale e allo sviluppo argomentativo, si può agevolmente constatare l’utilizzo di espressioni forzatamente evocative e poco tecniche. Se ne richiamano alcune, che ben rendono l’idea: “la spinta della macchina amministrativa”, “rimettere in movimento il motore dell’economia”, “i tasselli principali”, “la testata d’angolo” et similia. È evidente l’intento della Corte di concentrare l’attenzione, come ribadito in diversi passaggi, sul risultato della ripresa dell’economia, che non può essere ostacolato da un’amministrazione pubblica “difensiva” (termine invero abusato), ostaggio di una legislazione complessa e di una amministrazione non pronta a farsene carico.
Il ragionamento complessivo è icasticamente ispirato al principio del risultato, che è divenuto centrale dopo la sua positivizzazione nel Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 36 del 2023.
Il sillogismo che origina dall’applicazione del principio del risultato è, tuttavia, non obbligato nella direzione segnata, o auspicata, dalla stessa pronuncia della Corte.
La “amministrazione di risultato” è richiamata più volte: al punto 6.2, al punto 6.4 con riferimento al Codice dei contratti pubblici e, infine, al punto 11 che, come noto, contiene una sorta di “monito di politica legislativa” (per riprendere una felice espressione dottrinale[26]) verso la riscrittura della disciplina della responsabilità amministrativa.
Di solito, tuttavia, le sentenze monito sollecitano il legislatore ad attivarsi ex novo e non recepiscono spunti da un’attività legislativa in itinere e in fase avanzata di analisi parlamentare, ancorché le tecniche monitorie del giudice delle leggi siano progressivamente mutate nel tempo[27].
3. Il principio del risultato e l’asserito modello del Codice dei contratti pubblici per tipizzare la colpa grave
Chi scrive ha appena consegnato alle stampe un lavoro che approfondisce l’effetto del principio del risultato riguardo all’ambito del sindacato giurisdizionale amministrativo[28]: da tale studio si coglie un effetto divergente nell’applicazione del medesimo principio riguardo all’altro plesso di giurisdizione speciale.
In altri termini, i giudici amministrativi, in applicazione del principio del risultato[29], stanno ampliando l’ambito della propria cognizione, attraendo nel giudizio di legittimità spazi che dapprima erano confinati nel merito amministrativo: il Consiglio di Stato replica ormai con convinzione la stessa massima[30].
Il sindacato del giudice amministrativo si irradia inoltre sulla intera “operazione amministrativa”[31]. Questo ampliamento del sindacato è consentaneo alla “individuazione della regola per il caso concreto” che grava sull’amministrazione, come ribadito dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 132 del 2024, cit., che richiama l’art. 1, co. 4, del Codice contratti e la riduzione della quota di rischio a carico del dipendente. Il richiamo implicito è alla classica teoria della “discrezionalità in azione” di Vittorio Ottaviano, che affidava appunto all’amministrazione la creazione della regola per il caso concreto[32].
A questo punto, tuttavia, ad avviso di chi scrive, il sillogismo ipotizzato dal giudice delle leggi non mantiene più una univoca coerenza: si ricorda, infatti, che lo stesso Codice dei contratti mira a “favorire e valorizzare l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei dipendenti” (art. 2, co. 2): come si può sostenere che l’autonomia decisionale sia garantita, a rime obbligate, da una disciplina che comporti un sostanziale e significativo sgravio di responsabilità? Si riconosce autonomia decisionale solo senza responsabilità o con forti limitazioni di responsabilità? Forse sì, ma solo in un contesto economico e sociale “peculiarissimo”, utilizzando lo stesso superlativo assoluto speso dalla Corte costituzionale[33].
Il modello richiamato dalla Corte costituzionale è il Codice dei contratti pubblici, che sarebbe da seguire secondo due direttrici: la (asserita) tipizzazione della colpa grave; l’introduzione delle polizze assicurative per i rischi del personale, secondo un modello che si è visto non esaurisce i rimedi introdotti per fronteggiare la c.d. “medicina difensiva”.
Qui la Corte costituzionale forse chiede troppo: ammette che la colpa grave è un “concetto giuridico indeterminato” (punto 6.5 in diritto) ma pretende che venga tipizzata. Ad avviso di chi scrive, non è certo una tipizzazione esemplare quella introdotta dal Codice dei contratti, che utilizza la classica distinzione tra colpa generica e colpa specifica senza aggiungere elementi utili a delineare le fattispecie rilevanti. È una contraddizione rendere determinato un concetto giuridico indeterminato, peraltro affidandosi allo stesso legislatore che viene ripetutamente criticato quale principale fonte dell’inefficienza amministrativa (punto 6.5, specificamente sulla “fame di norme”). Né è affidabile il riferimento agli indirizzi giurisprudenziali “prevalenti”, specie nella magmatica materia dei contratti pubblici.
Invocare la tipizzazione delle condotte è inoltre in palese controtendenza rispetto ad un generale processo di “fuga dalla fattispecie” che caratterizza irreversibilmente l’intero sistema giuridico[34].
L’effetto del principio del risultato in sede di giurisdizione amministrativa consente al giudice di sindacare riguardo a scelte di merito, estese a tutta l’operazione amministrativa (nozione ben più estesa rispetto al procedimento, come noto). In tal modo il giudice “intercetta” la volontà dell’amministrazione, anche dove non espressa, mediante il risultato, una sorta di “faro” che illumina atti e comportamenti amministrativi, e amplia di conseguenza anche i propri poteri di decisione, giungendo ad annullare atti amministrativi viziati per tali ragioni (non più di opportunità ma di legittimità).
È appena il caso di notare che siffatto modo di procedere, indotto dalla legislazione per principi, approda ad una affermazione contraria a quella che ispira lo stesso legislatore, perché poggia su una generale sfiducia verso la pubblica amministrazione (una “amministrazione senza qualità”, per dirla con R. Ferrara). L’iniziativa e autonomia decisionale del dipendente conduce paradossalmente ad un maggior controllo giudiziale sugli atti e ad un ampliato esito di annullamento delle decisioni amministrative.
4. La underdeterrence è l’unica via per rafforzare la capacità amministrativa?
La ricerca legislativa di un equilibrio tra overdeterrence e underdeterrence riporta ai ragionamenti della sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1998, che già allora giustificava la lata discrezionalità del legislatore, con l’effetto della progressiva “rovina” della visione unitaria della responsabilità fondata sull’art. 28 Cost.
Il “polo dell’underdeterrence” è ritenuto “socialmente più accettabile” e, in prospettiva, pare destinato a consolidarsi, già solo per il “timore del riespandersi della burocrazia difensiva” (Corte cost., n. 132 del 2024, cit., punto 11 in diritto).
Questo processo di upgrade dell’elemento soggettivo rilevante non pare dunque arrestarsi, e viene assunto come unica soluzione percorribile, sia pure razionalizzata (escludendo a regime la limitazione generalizzata al solo dolo), senza approfondire le altre strade che condurrebbero a rafforzare la capacità amministrativa, mediante doverosi investimenti a favore dell’amministrazione e della formazione del suo personale.
Lo stesso Codice dei contratti pubblici, eretto a modello, sottolinea del resto il carattere della “esigibilità” delle condotte dell’agente pubblico “in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto” (art. 2, co. 3, d. lgs. n. 36 del 2023, cit.).
A tacere di alcune risposte della Corte costituzionale che, ad avviso di chi scrive, non sono soddisfacenti né esaustive rispetto alle questioni poste dall’ordinanza di rimessione (si pensi alla ingiustificata distinzione tra condotte attive e omissive e al riferimento alle condotte materiali, affrontato sbrigativamente al punto 7 in diritto), si segnalano due paradossi indotti dal monito al legislatore:
1) Il riferimento all’operazione amministrativa (incluse le condotte materiali) consente un maggiore sindacato del giudice amministrativo e conduce all’annullamento di più atti amministrativi, ma fa punire di meno le condotte serventi, facendo gravare sulla collettività gli effetti pregiudizievoli dell’illegittimità. Non vi è quindi coincidenza tra “effetto tranquilizzante del dipendente” (leitmotiv della p.d.l. Foti, cit.) e legittimità del risultato amministrativo;
2) Se il risultato giustifica condotte viziate anche da colpa grave, esso produce un effetto disincentivante per il funzionario diligente[35].
Occorre infine ricordare che il principio del risultato, per espressa definizione normativa, costituisce attuazione del principio costituzionale del buon andamento ed è perseguito nell’interesse della comunità (art. 1, co. 3, d. lgs. n. 36 del 2023, cit.). Occorrerà dunque che il legislatore, nel rivisitare la disciplina della responsabilità amministrativa, corregga gli eccessi di underdeterrence gravanti sulla collettività, riportando, nell’esercizio della sua razionale discrezionalità, l’inquadramento dell’elemento soggettivo rilevante a conformità con il principio costituzionale di cui all’art. 97 Cost.
Il “peculiarissimo” periodo economico e sociale che ha generato lo “scudo erariale” è superato e un generale metus del funzionario pubblico non può essere tollerato in via generalizzata come fisiologico, a meno di offrire una lettura del principio di buon andamento dell’amministrazione che consenta di riversare sulla collettività le conseguenze di condotte dei funzionari anche gravemente colpose (non sempre, ma in casi tipizzati). Ciò comporta una riparametrazione dell’“interesse della collettività”, che sarebbe soddisfatto anche gravando su di essa il rischio della colpa grave del funzionario, sulla presunzione che l’amministrazione procederebbe complessivamente in modo più celere ed efficiente.
La collettività, in altri termini, beneficerebbe dell’effetto tranquillizzante garantito al funzionario perché l’amministrazione sarebbe, per l’effetto, più performante. Una lettura che non convince in via assoluta, non essendo dimostrato che questa sia la soluzione “socialmente più accettabile”, come per contro perentoriamente asserito dalla Corte costituzionale.
La tipizzazione delle condotte rilevanti per la responsabilità amministrativa richiede in primo luogo una decisa semplificazione normativa, accompagnata da un correlato e consentaneo “adeguamento” della funzione requirente della Corte dei conti: allorquando la normazione è complessa, l’errore d’interpretazione (e di conseguente applicazione in via amministrativa) non può né deve essere inteso come grave negligenza e non può integrare il presupposto per l’azione erariale[36].
Il legislatore, in altri termini, deve non solo tipizzare le condotte (attività non semplice, come si è visto, ma sollecitata dalla Corte costituzionale) ma deve anche, e soprattutto, semplificare e razionalizzare la disciplina normativa per l’attività delle pubbliche amministrazioni. La Corte dei conti, fin dall’azione requirente, deve continuare ad affermare i principi di correttezza nella gestione delle risorse pubbliche, soppesando e dimensionando adeguatamente la gravità della colpa del soggetto agente “in un quadro normativo multilivello caotico e con risorse non sempre adeguate al fabbisogno”[37]. In questo prospettato quadro di riforma, anche la parziale tipizzazione del potere riduttivo dell’addebito del giudice contabile, non sempre adeguatamente utilizzato[38], può ridurre il denunciato effetto disincentivante per l’azione amministrativa[39].
[1] Art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, ai sensi del quale «limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2024, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente». Il termine è stato ripetutamente prorogato, da ultimo fino al 30 aprile 2025 (art. 1, co. 9, d.l. 27 dicembre 2024, n. 202, convertito con legge 21 febbraio 2025, n. 15, recante “Disposizioni urgenti in materia di termini normativi”).
[2] Corte cost., sent. 20 novembre 1998, n. 371, Pres. Vassalli, Redattore Vari.
[3] E. Casetta, Colpa del dipendente pubblico o colpa del legislatore?, in Giur. cost., 1998, 3257 ss.
[4] Corte cost., n. 371 del 1998, cit., punto 6 in diritto.
[5] Il termine “upgrade”, riferito alla diversa qualificazione dell’elemento soggettivo, è stato utilizzato da G. Morbidelli nella Relazione al convegno “La responsabilità per gli illeciti degli enti pubblici”, Università di Torino, 21 marzo 2024.
[6] E. Casetta, Colpa del dipendente pubblico o colpa del legislatore?, op. e loc. cit., ed ivi il riferimento a un “(provvisorio?) epilogo” alla “tormentata vicenda dell’istituto della responsabilità dei dipendenti e funzionari pubblici”.
[7] E. Casetta, L’illecito degli enti pubblici, Torino, 1953, spec. 240 ss.
[8] E. Casetta, op. e loc. ult. cit.
[9] Addirittura, nella Relazione di accompagnamento alla p.d.l. AC 1621 “Foti”, di cui infra nel testo, si ostenta l’improponibile termine “firmite”.
[10] Corte cost., sentenza 17 luglio 2024, n. 132, Pres. Barbera, Red. Pitruzzella, specie punto 11 in diritto.
[11] C.E. Gallo, La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione, in AA.VV., Contabilità di Stato e degli enti pubblici, Torino, VIII ed., 2018, 207 ss.
[12] Al riguardo si vedano gli ampi riferimenti giurisprudenziali contenuti nella relazione di P. Silvestri, Procuratore generale della Corte dei conti all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, ed ivi in particolare, la parte curata dalla V.P.G., C. Vetro, La responsabilità medica nel giudizio innanzi alla Corte dei conti, 35 ss.; nonché nella relazione all’inaugurazione all’anno giudiziario 2025, ed ivi F. Cerioni e G. Stolfi, 83 ss.
[13] C. Esposito, La responsabilità dei funzionari e dipendenti secondo la Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 103, richiamato da E. Casetta, op e loc. ult. cit.
[14] Corte cost. n. 132 del 2024, cit., punto 8 in diritto.
[15] Corte cost. n. 132 del 2024, cit., punto 10 in diritto.
[16] G. Carlino, Relazione alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2025, 12.
[17] In tali termini, Corte dei conti, SS.RR. in sede consultiva, Adunanza 28 ottobre 2024, Parere n. 3/2024 in merito alla pdl C n. 1621, 27.
[18] Cfr. d.d.l. recante “Modifiche alla legge 14 gennaio 1994, n. 20, al Codice della giustizia contabile, di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, e altre disposizioni in materia di funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e di responsabilità per danno erariale” (atto camera 1621), sul quale si veda “La riforma della Corte dei conti: il DDL Foti”, in Dir. e conti, 30 settembre 2024. Analoga preoccupazione è espressa da M. Luciani, Appunti per l’audizione innanzi la I Commissione (Affari costituzionali) e la II Commissione (Giustizia) della Camera dei deputati, 29 luglio 2024.
[19] Si vedano al riguardo anche gli emendamenti, intesi ad espungere dal testo i riferimenti al silenzio-assenso, formulati dal Presidente della Corte dei conti alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati, Audizione del 4 febbraio 2025.
[20] Da ultimo, per una critica complessiva alla riforma, cfr. M.T. Polito, La riforma della Corte dei conti. Si smantellano le funzioni per valorizzare l’esimente relativa alla responsabilità erariale a danno dei cittadini, in Giustiziainsieme.it, 7 aprile 2025.
[21] Che invece è rimarcata proprio da Corte cost. n. 132 del 2024, cit., punto 5.2 in diritto.
[22] Punto 6.7 in diritto circa lo spostamento temporaneo della configurazione dell’elemento soggettivo verso il polo della underdeterrence.
[23] R. Ferrara, Le “complicazioni” della semplificazione amministrativa: verso un’amministrazione senza qualità?, in Dir. proc. amm., 1999, 2, 323 ss.
[24] V. Tenore, Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare: lo “scudo erariale” è legittimo perché temporaneo e teso ad alleviare “la fatica dell’amministrare”, che rende legittimo anche l’adottando progetto di legge Foti C1621, in Riv. Corte dei conti, 4/2024, 195 ss.; F.S. Marini, La sentenza n. 132 del 2024: la Corte costituzionale sperimenta nuove tecniche decisorie, in Riv. Corte dei conti, 4/2024; F. Cintioli, La sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 2024: dalla responsabilità amministrativa per colpa grave al risultato amministrativo, in Federalismi, 19/2024; L. Balestra, Per un ripensamento della responsabilità erariale e, più in generale, delle funzioni della Corte dei conti, in Giur. It., ottobre 2024, 2166 ss.; A. Indelicato, Responsabilità e “scudo” erariale: retrospettive e prospettive dopo la rimessione alla Consulta, in Riv. Corte dei conti, 6/2023, 217 ss.; D. Palumbo, La sentenza della Corte costituzionale n. 132/2024: verso un nuovo punto di equilibrio nella ripartizione del rischio tra la P.A. e l’agente pubblico?, in Giustizia Insieme, 18 novembre 2024.
[25] Sul punto, già S. Foà, Relazione all’Incontro dibattito “Prospettive della responsabilità per colpa grave dopo la sentenza n. 132/2024 della Corte costituzionale” presso la Scuola di alta formazione “Francesco Staderini”, Corte dei conti, Roma, 16 gennaio 2025.
[26] G. Zagrebelsky, V. Marcenò, Giustizia Costituzionale, Vol. II, Bologna, 2018, 253 ss.
[27] Per un’analisi del mutamento delle tecniche monitorie, cfr. da ultimo E. Cocchiara, L’ evoluzione dei moniti della Corte costituzionale al legislatore: un bilancio a settant’anni dalla L. 87 del 1953, in La Rivista del Gruppo di Pisa, n. 3/2023, 1 ss.
[28] S. Foà (a cura di), Il nuovo merito amministrativo, Torino, 2025.
[29] Tra gli ormai abbondanti contributi sul principio del risultato, si vedano M.R. Spasiano, Codificazione di principi e rilevanza del risultato, in C. Contessa, P. Del Vecchio, Codice dei contratti pubblici, Napoli, 2023, 49 ss.; S. Vaccari, Principio del risultato e legalità amministrativa, ambiguità della “lex specialis” di gara ed interpretazione logico-sistematica, in Giorn. dir. amm., 5, 2024, 669 ss. Sulla nozione di “amministrazione di risultato”, L. Iannotta, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative (l’arte di amministrare), in Dir. proc. amm., 1, 2005, 10 ss.
[30] Cons. Stato, Sez. III, 26 marzo 2024, n. 2866, punto 6.4. La massima giurisprudenziale riecheggia ipotesi di eclissi del merito e relativa attrazione nell’area della legittimità: cfr. B. Giliberti, Il merito amministrativo, Padova, 2013, 280; oggi S. Foà, Il nuovo merito amministrativo, op. ult. cit.
[31] Cons. Stato, Sez. IV, 24 aprile 2024, n. 3738; Id., Sez. V, 12 gennaio 2023, n. 431. Sulla nozione di operazione amministrativa, cfr. D. D’Orsogna, Contributo allo studio dell’operazione amministrativa, Napoli, 2005, passim, ed ivi la superata contrapposizione con la nozione di procedimento amministrativo, a partire dalle riflessioni di A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940, passim, ma spec. 35 ss.
[32] V. Ottaviano, Studi sul merito degli atti amministrativi, in Annuario dir. comp. e studi legislativi, Serie III, 1948.
[33] Corte cost., n. 132 del 2024, cit., punto 6.7 in diritto.
[34] N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. dir. proc., 2014, 1, 36 ss., ed ivi l’affermazione secondo cui il valore “non ha bisogno di fattispecie, di una qualche figura o descrizione di fatti, poiché vale in sé, e si applica dovunque sia invocato e preteso”; G. Corso, Tra legge e fattispecie: la prospettiva del diritto amministrativo, in Ars interpretandi, 2019, fasc. 1, 71 ss.
[35] In tal senso anche la Relazione del Procuratore generale della Corte dei conti P. Silvestri all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024.
[36] La stessa posizione è espressa da M. Luciani, Appunti per l’audizione innanzi la I Commissione (Affari costituzionali) e la II Commissione (Giustizia) della Camera dei deputati, 29 luglio 2024, 5 ss.
[37] In tali termini la Relazione del Procuratore generale P. Silvestri all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti 2025, 5.
[38] In tal senso, cfr. C.E. Gallo, La responsabilità amministrativa e contabile e la giurisdizione, in AA.VV., Contabilità di Stato e degli enti pubblici, Torino, VIII ed., 2018, 241 ss., spec. 243, ed ivi la critica all’atteggiamento più recente del giudice contabile, che conduce ad esercitare raramente il potere riduttivo e ad applicarlo in percentuali modeste.
[39] Sia pure entro i limiti invocati dalla stessa Corte dei conti: cfr. Corte dei conti, SS.RR. in sede consultiva, Adunanza 28 ottobre 2024, Parere n. 3/2024 in merito alla pdl C n. 1621, ove si legge: “Se, in linea di massima, si può concordare sull’opportunità di riconsiderare la disciplina dell’esercizio del potere riduttivo dell’addebito, ampliando la dovuta motivazione del Giudice anche su questo profilo, la sostanziale introduzione di un tetto alla responsabilità pone una serie di criticità, tali da ritenere necessario un ripensamento, almeno rispetto alla formulazione così come prospettata. In primo luogo, la stessa Corte costituzionale, nella più volte richiamata sentenza n. 132/2024, espressamente formula un monito in ordine alla necessità di “vagliare con attenzione” - sostanzialmente negandone la pacifica legittimità, da valutarsi, dunque, in ragione della precipua articolazione di una eventuale disciplina - “la generalizzazione di una misura già prevista per alcune specifiche categorie, ossia l’introduzione di un limite massimo oltre il quale il danno, per ragioni di equità nella ripartizione del rischio, non viene addossato al dipendente pubblico, ma resta a carico dell’amministrazione nel cui interesse esso agisce” (v. punto 11.1 del diritto). L’introduzione generalizzata di un limite massimo, non riferito ad alcune specifiche categorie, né circoscritto temporalmente in ragioni di eccezionali circostanze, non appare agilmente coerente con i principi ribaditi dalla stessa Corte costituzionale, nella suddetta sentenza. Occorre valutare infatti se, quanto ivi chiarito con riferimento all’esclusione temporanea ed eccezionale della responsabilità per colpa grave, possa avere qualche validità anche rispetto a disposizioni normative che ne riducono l’effettività: una così forte limitazione, al pari dell’esclusione della responsabilità, riducendone la finalità risarcitoria e indebolendone anch’essa la funzione deterrente, per essere ritenuta non irragionevole dovrebbe trovare anch’essa una piena e valida giustificazione e, dunque, una applicazione non generalizzata, ma radicata nella particolarità di “uno specifico contesto”.
Immagine: Scudo di Atena Parthenos cd. Stragford Da Atene, Marmo pentelico, III secolo d.C., Londra, British Museum, inv. 1864,0220.18 ©The Trustees of the British Museum.
Sommario: 1. Massima – 2. Il caso oggetto della pronuncia e i principi affermati dalla Cassazione – 3. Il procedimento di modifica del cognome, nel quadro delle nuove regole di attribuzione del cognome ai figli - 4. Cambiamento del cognome del figlio minorenne e contrasto tra i genitori
1. Massima
L'istanza di modifica del cognome di un minore, in caso di disaccordo tra i genitori esercenti la responsabilità genitoriale, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario secondo le disposizioni di cui agli artt. 316, secondo e terzo comma, e 337-ter, terzo comma, c.c. Il giudice è chiamato a valutare l'effettivo interesse del minore e a riconoscere la specifica rappresentanza ad acta ad uno dei genitori per presentare la domanda al Prefetto.
2. Il caso oggetto della pronuncia e i principi affermati dalla Cassazione
Con ricorso ex art. 316, comma 2, e 337-ter, comma 3, c.c., la madre di un minore, affidato in via condivisa a seguito di divorzio, adiva il Tribunale chiedendo l'aggiunta del cognome materno a quello paterno, già attribuito al figlio alla nascita. La ricorrente fondava la propria istanza sulla pronuncia della Corte costituzionale n. 131 del 2022, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’automatismo normativo che prevedeva l’attribuzione esclusiva del cognome paterno al figlio, in difetto di diverso accordo tra i genitori, nonché sul rilevante valore storico-culturale del proprio cognome, discendente da una stirpe citata da Dante nella Divina Commedia.
Il Tribunale aveva in primo gravo rigettato la domanda, ritenendo che, per i figli nati anteriormente alla pronuncia della Consulta, l’attribuzione del doppio cognome non operasse in via automatica. Aveva, inoltre, ritenuto che la domanda dovesse essere indirizzata al Prefetto, ai sensi dell’art. 89 del d.P.R. 396/2000, come sostituito dal d.P.R. 54/2012.
La Corte d’appello, diversamente opinando, accoglieva l’impugnazione, riconoscendo la competenza del giudice ordinario ai sensi dell’art. 316, comma 2, c.c., in caso di disaccordo tra i genitori su decisioni di particolare rilevanza per il figlio e, ritenuto prevalente l’interesse del minore all’aggiunta del cognome materno, disponeva direttamente la modifica dell’atto di nascita.
Il padre proponeva quindi ricorso per cassazione, denunciando il difetto di giurisdizione e la violazione delle norme sulla competenza, sostenendo che la questione avrebbe dovuto essere devoluta alla giurisdizione del Prefetto, e in caso di diniego, eventualmente al giudice amministrativo.
La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha innanzitutto precisato che la domanda formulata nel caso di specie non riguardava l’attribuzione originaria del cognome, ma la successiva modifica dello stesso, per la quale l’art. 89 del d.P.R. n. 396/2000 prevede una procedura amministrativa da promuoversi davanti al Prefetto, risultando dunque incompetente il tribunale adito.
Tuttavia, ha chiarito che tale istanza non possa essere presentata se non sussistendo accordo tra i genitori; di guisa che, in caso di disaccordo sull’opportunità di promuovere tale domanda, è competente il giudice ordinario a decidere ai sensi degli articoli 316, commi 2 e 3, e 337-ter, comma 3, c.c., con riferimento alle scelte di maggiore rilevanza per la vita del minore.
In tale prospettiva, il giudice è chiamato a compiere una valutazione autonoma e sostanziale dell’interesse del minore, tenendo conto del carattere non pretestuoso dell’eventuale dissenso dell’altro genitore, della rilevanza dei motivi sottesi alla richiesta e dell’impatto della modifica sull’identità personale del figlio. Trattasi, in sostanza, di una funzione giurisdizionale distinta rispetto a quella demandata al Prefetto, cui spetterà poi la decisione amministrativa sulla base della domanda eventualmente autorizzata dal giudice.
Ne consegue che l’atto giurisdizionale non può disporre direttamente la modifica del cognome, ma può solo autorizzare il genitore ritenuto più idoneo a presentare, in qualità di rappresentante ad acta, la domanda al Prefetto, ma non certo direttamente disporre la modifica dell’atto di nascita con la modifica del cognome.
Sul piano sostanziale, la Suprema Corte ha comunque confermato la correttezza della valutazione effettuata dal giudice di merito quanto alla prevalenza dell’interesse del minore all’aggiunta del cognome materno, valorizzando elementi quali la storicità del cognome e la mancanza di motivazioni concrete nel rifiuto paterno.
L’analisi della pronuncia della Cassazione, condivisibile nel principio affermato, mette in rilievo la discrasia allo stato esistente tra astratta asserzione del diritto all’identità personale nella sua specifica declinazione di diritto al nome e concreta realizzazione della sua tutela, specie in riferimento all’ipotesi in cui si tratti di un minore e, mancando l’accordo dei genitori, sia necessario – nelle possibili sue differenti declinazioni – l’intervento giudiziale.
In questa prospettiva si tenterà un quadro di sintesi dei differenti profili di intersecazione dell’intervento del giudice ordinario e dell’organo amministrativo, e della partizione delle relative competenze, nel contesto di un quadro di regole e di principi giurisprudenziali non sempre perspicui.
3. Il procedimento di modifica del cognome, nel quadro delle nuove regole di attribuzione del cognome ai figli
È noto che la Corte costituzionale con la sentenza n. 131/2022[1] ha, come da tempo e da più parti auspicato[2], superato il sistema tradizionale di attribuzione del cognome ai figli fondato sulla regola del patronimico, tanto per i figli nati nel matrimonio – in relazione ai quali essa non era espressa, ma desumibile dal sistema[3] – quanto in relazione ai figli nati fuori del matrimonio ove essa era sancita all’art. 262 c.c.
Più volte sollecitata sul punto[4], con la richiamata sentenza la Corte costituzionale, nel concludere per l’illegittimità delle richiamate norme con gli artt. 2, 3 e 29 Cost., ha evidenziato l’intreccio, nella disciplina del cognome, tra il diritto all’identità personale del figlio e il principio di eguaglianza tra genitori, rilevando che la selezione della sola linea parentale paterna “oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre”, cosicché l’automatismo imposto dalla richiamata disposizione reca con sé “il sigillo di una diseguaglianza tra i genitori, che si riverbera e si imprime sulla identità del figlio, così determinando la contestuale violazione degli artt. 2 e 3 Cost.” (ibidem)[5].
A seguito dell’intervento della Corte, dunque, il doppio cognome è divenuto la regola, a meno che i genitori non siano concordi nell’attribuire uno solo dei cognomi, consentendo al figlio di vedere emergere mediante il cognome il legame con le famiglie di entrambi i rami genitoriali; il cognome, infatti, collegando l’individuo alla formazione sociale “che lo accoglie tramite lo status filiationis”, deve “radicarsi nell’identità familiare”. In maniera non pienamente condivisibile, nondimeno, tale ultimo diritto risulta cedevole di fronte alla ammissibile scelta concorde dei genitori circa l’attribuzione di uno solo dei cognomi[6].
Se, dunque, e a differenza dell’assetto definito dalla precedente sentenza della corte cost. 286/2016, il contrasto dei genitori trova rimedio non più nell’attribuzione del patronimico, bensì nell’applicazione automatica del doppio cognome; permane però una possibile fonte di conflitto tra i genitori nella determinazione dell’ordine dei cognomi. È la stessa Corte costituzionale n. 131/22 a fare riferimento all’art. 316 c.c., giusta il quale in caso di contrasto “il giudice, sentiti i genitori e disposto l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, tenta di raggiungere una soluzione concordata e, ove questa non sia possibile, adotta la soluzione che ritiene più adeguata all'interesse del figlio”. Adito dai genitori o da uno solo di essi, dunque, il Tribunale interviene entrando nel merito della determinazione del cognome da attribuire al figlio, con una pronuncia che andrà a valere nei confronti dell’ufficiale di stato civile che dovrà attenervisi.
Naturalmente la rimessione al giudice della decisione – inevitabile, almeno finché non intervenga il legislatore a fissare una regola di risoluzione alternativa – si traduce in un ritardo nella formazione dell’atto di nascita del figlio, sia esso matrimoniale o non matrimoniale, “poiché non si vede come l’ufficiale dello stato civile possa darvi corso fino a quando il giudice non si sia pronunciato al riguardo”[7].
Il mutamento delle regole di attribuzione del cognome non è – lo ha espressamente affermato la sentenza 131/22, ma alcun dubbio vi sarebbe in ogni caso potuto esservi – applicabile ai figli nati prima della sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Il che, lo si è osservato, può comportare un trattamento differenziato anche tra fratelli (germani), conducendo ad un trattamento, tra l’altro, suscettibile di ledere l’identità personale anche in senso per così dire orizzontale, obliterando cioè l’identificazione dei fratelli come appartenenti al medesimo nucleo familiare mediante la unitaria identificazione data dall’uso dello stesso cognome, superabile solo mediante la richiesta di modifica.
La sentenza in commento - pur pronunciatasi in riferimento ad una richiesta di modifica del cognome del figlio minorenne, motivata non già dalle prefigurate esigenze di uniformizzazione dei cognomi, bensì dall’interesse del figlio di far emergere il legame con la madre – si inserisce nell’anzidescritto imprescindibile quadro di epocali cambiamenti.
Essa, infatti, vi attinge allorché conferma la decisione della corte d’appello resa ex art. 316-337 ter c.c. recante l’autorizzazione all’aggiunta del cognome materno, ritenendola ben motivata e conforme al “diritto vivente”. Si legge infatti: “In proposito, va osservato che la decisione della Corte di appello è chiaramente e diffusamente motivata, mediante il raffronto tra le ragioni esposte dalla madre, le circostanze dedotte come pregiudizievoli o ostative dal padre, raffronto maturato nel concreto ed esclusivo interesse del minore, e si colloca su un versante conforme ai principi elaborati dalla Corte Costituzionale in tema di doppio cognome e agli orientamenti di questa Corte, giacché ha riconosciuto l'apprezzabilità e la fondatezza della richiesta materna a cui ha dato la netta prevalenza, osservando che: i) il rifiuto paterno appariva emulativo (avendo, peraltro, egli prestato il proprio assenso al doppio cognome, prima della nascita del figlio salvo cambiare idea dopo la nascita); ii) non vi erano ragioni oggettive ed esplicitate; iii) il cognome materno, come non contestato, apparteneva alla famiglia dal tempo di Dante, che la aveva citata nel discorso di Cacciaguida, si connotava per rilievo storico e culturale e sarebbe stato destinato, altrimenti, a scomparire (fol. 5, decr. imp.)”.
Sotto diverso profilo, la Corte di cassazione ribadisce la rigida bipartizione tra il sistema di attribuzione del cognome al momento della nascita e i casi invece in cui si chieda la sua modifica. Viene in altri termini confermata la competenza esclusiva del prefetto in relazione alle richieste di mutamento del cognome dei figli successivi alla formazione dell’atto di nascita (e non dipendenti dal mutamento dello status filiationis), di cui al procedimento ex art. 89 d.p.r. 396/2000, che demanda all’organo amministrativo un potere valutativo, id est “un potere di natura discrezionale, che si esercita bilanciando l'interesse dell'istante (da circostanziare esprimendo le "ragioni a fondamento della richiesta"), con l'interesse pubblico alla stabilità degli elementi identificativi della persona, collegato ai profili pubblicistici del cognome stesso come mezzo di identificazione dell'individuo nella comunità sociale", rispetto alla quale "la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la posizione giuridica del soggetto richiedente il cambio di cognome abbia natura di interesse legittimo, e che la P.A. disponga del potere discrezionale in merito all'accoglimento o meno dell'istanza (cfr. tra le tante, Cons. Stato, Sez. III, 26-09-2019, n. 6462), tenuto conto che - a fronte dell'interesse soggettivo della persona, spesso di carattere "morale" - esiste anche un rilevante interesse pubblico alla sua 'stabile identificazione nel corso del tempo' (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 15 ottobre 2013, n. 5021; Sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2320; Sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2752)” [8].
Ora, in relazione partitamente all’ipotesi in cui l’istanza (a) si fondi sul diritto all’identità personale/familiare del figlio, (b) provenga dai genitori congiuntamente o dal figlio stesso maggiorenne e (c) sia diretta all’aggiunta del cognome materno/paterno e/o alla sostituzione del cognome del figlio attribuito alla nascita con quello dell’altro genitore, non è prevista alcuna previa valutazione da parte del tribunale ordinario, risultando esclusivamente competente l’autorità amministrativa. Nel merito, poi, dovrebbe essere invero piuttosto remoto – ed anche tenuto conto della minore età dell’interessato – che possa opporsi un motivato diniego alla richiesta, prevalendo di norma invece l’interesse del figlio ad acquisire il cognome di entrambi i genitori[9].
In tal senso, l’intervento dell’autorità governativa opera a ben vedere in maniera complementare rispetto alla pronuncia della Corte cost. n. 131/22, consentendo un facile - sebbene non immediato e tantomeno automatico - adeguamento delle situazioni pregresse alla nuova regola del doppio cognome.
Ma più in generale, in relazione alle richieste di modifica del cognome che abbiano ad oggetto la “mera” aggiunta del cognome – il più delle volte materno – ovvero la sostituzione del cognome paterno con quello materno (così come, eventualmente, l’inverso), il margine di discrezionalità della p.a. risulta piuttosto circoscritto; deve aversi riguardo infatti al cambio di passo dettato dalla sentenza 8422/2023 del Consiglio di Stato, che ha censurato la carenza di motivazione del provvedimento con cui il prefetto – senza addurre specifiche esigenze di interesse pubblico – aveva respinto la richiesta di modifica del cognome avanzata da una figlia che, volendo recidere ogni rapporto formale con un padre da sempre assente e inadempiente ai propri doveri, aveva chiesto di portare il solo cognome della madre. Tale arresto ha in sostanza attuato una sorta di inversione dell’onere della prova, fondata sul rilievo giusta il quale “rispetto al figlio, insomma, i cognomi genitoriali sono a priori dotati di valenza identitaria, e la conservano in potenza. Il che significa che quando l’istanza di modifica resta in quel perimetro (nel senso che al cognome ereditato da un genitore si chiede di aggiungere o sostituire l’altro) non spetta al cittadino convincere l’amministrazione della bontà delle ragioni identitarie allegate alla domanda. È piuttosto l’amministrazione a dover evidenziare ‘‘specifiche ragioni di interesse pubblico ostative all’accoglimento dell’istanza’’ [10]. Trattasi di un principio affermato con riguardo al caso di richiesta effettuata dalla figlia in persona, ma senza dubbio applicabile anche allorché la richiesta provenga dai genitori.
Risultano pertanto sfumati i confini qualificatori tra diritto soggettivo ed interesse legittimo; ulteriormente assottigliati, sul piano pratico, dal riconoscimento anche nella giurisprudenza amministrativa della eccezionalità del diniego a fronte della esigenza di tutelare il diritto identitario del figlio.
4. Cambiamento del cognome del figlio minorenne e contrasto tra i genitori
Se questo è il quadro di riferimento, appare ineccepibile la statuizione della cassazione che ha ribadito come la competenza circa il mutamento del cognome spetti all’autorità amministrativa, anche allorché i genitori esercenti la responsabilità, non concordando in ordine all’istanza, previamente si rivolgano al t.o. per dirimere il conflitto.
In tali fattispecie, piuttosto, il disaccordo dei genitori impone di superare il difetto di legittimazione del genitore in ordine al compimento di un atto civile che richiede, ai sensi dell’art. 320 c.c. l’accordo[11], in mancanza del quale occorre una pronuncia autorizzativa resa ai sensi dell’art. 316-337 ter c.c. Sul piano procedimentale, è da segnalare l’intervenuta modifica dell’art. 316 c.c., cosicché ad oggi, inutilmente esperito il tentativo di conciliazione, il giudice non si limita ad indicare il genitore legittimato ad assumere la decisione, come in passato, bensì egli stesso assume la decisione che ritiene più adeguata nell’interesse del figlio. La norma ha dunque attuato l’uniformazione delle modalità di composizione del contrasto tra i genitori non in crisi indicate dall’art. 337 ter comma 3 c.c. per quelli in crisi, conferendo al giudice un potere di intervento e decisionale senz’altro idoneo ad accelerare e semplificare l’impasse decisionale, ma nel contempo (forse troppo) compressivo dell’autonomia dei genitori[12]. Infatti,
Appuntando l’attenzione, almeno per sommi capi, sul merito della decisione, il t.o. dovrà valutare se l’atto compiendo sia o meno conforme all’interesse del minore, anche ascoltando il minore se ultradodicenne e/o capace di discernimento. In linea di principio, l’identità del minore sarà meglio preservata dal doppio cognome, di guisa che la richiesta di aggiunta del cognome sarà sempre da accordare; parimenti potrà ritenersi tale quella di sostituire il cognome materno a quello paterno, almeno ogniqualvolta prevalga l’esigenza di recidere il legame con un genitore che abbia tenuto comportamenti pregiudizievoli per il figlio. In tale ultimo caso il vaglio dovrà essere particolarmente attento, proprio in considerazione del fatto che la richiesta proviene dall’altro genitore e non direttamente dal figlio. Si coglie in tale profilo tutta la delicatezza della materia, che giustifica dunque l’intervento del giudice (quello ordinario) deputato ad apprezzare funditus l’interesse del minore, nel contraddittorio delle parti e se necessario ascoltando il minore, nonché giudice deputato a riconoscere il genitore la specifica “rappresentanza ad acta”.
Appaiono pertanto in sintesi condividibili i passaggi della sentenza in commento ove si legge: “Va rimarcato, in proposito, il diverso spessore della cognizione del giudice ordinario, sempre tenuto a valutare la rispondenza del mancato consenso del genitore all'interesse del minore e il carattere non pretestuoso del diniego del consenso, nonché la concreta compatibilità di quanto richiesto (nel caso di specie, la modifica del cognome) con l'interesse del minore stesso” Rammenta la pronuncia altresì che “una tale attività di ponderazione postula comunque un'istruttoria condotta nel pieno rispetto dei principi del contraddittorio, di proporzionalità, di non automatismo della decisione; si tratta, quindi di un procedimento e di una valutazione ben diversa da quella che, una volta presentata la domanda a seguito di autorizzazione del giudice ordinario, competerà al Prefetto ai sensi della normativa sullo stato civile”.
Tali considerazioni, peraltro, rievocano alcuni passaggi di una recente sentenza del Consiglio di stato[13], che pronunciandosi in relazione alla modifica del cognome del figlio minore a seguito del secondo riconoscimento non contestuale, ha affermato che la competenza esclusiva in capo al t.m. – a discapito dell’autorità amministrativa – trova radice nella esigenza di attuazione dell'interesse della minore “a vedere accolta la domanda di cambiamento del cognome impone di ritenere che l'istanza debba presentarsi al Tribunale per i minorenni, ai sensi dell'articolo 262 c.c., nel contesto di un procedimento che garantisce la tutela dei precipui e prevalenti interessi della minore”.
Sempre che, ça va sans dire, uno dei genitori non sia decaduto dalla responsabilità genitoriale, o ne sia stato limitato nell’esercizio; in tal caso infatti è ex lege legittimato il solo genitore esercente la responsabilità e non verrà affatto in considerazione la previa valutazione del tribunale ordinario, nell’ambito dell’istanza di autorizzazione, della corrispondenza del mutamento del cognome (così come eventualmente della sua aggiunta) all’interesse del minore, che è tenuto a valutare in via diretta ed esclusiva l’istanza. In tale caso, si ritiene, la valutazione dell’organo amministrativo dovrà dunque essere condotta ponderando attentamente le ragioni addotte a fondamento, in maniera senz’altro più pregnante rispetto al caso in cui tale valutazione sia già stata condotta dal tribunale o, e a fortiori, se l’istanza sia presentata con volontà convergente da entrambi i genitori.
Fermo restando da un lato, dunque, la competenza esclusiva del prefetto in ordine al mutamento del cognome per cause diverse dallo status filiationis, e dall’altro lato la necessità, ogniqualvolta il cambiamento riguardi il minore di accertare compiutamente e in concreto se tale cambiamento corrisponda al suo interesse, non vi è chi non veda come necessariamente allo stato in caso di disaccordo dei genitori non possa superarsi alla bisafisicità della procedura, che rischia però di tradursi in una (irragionevole) duplicazione, se si ammette, come parrebbe inevitabile, che il prefetto non possa fare altro che recepire, appiattendovisi, sulle decisioni del t.o. L’affievolimento della discrezionalità amministrativa di cui si è detto in precedenza in relazione alle ipotesi in cui contrasto non vi sia, si presenta con caratteri più marcati nel caso in cui la valutazione del merito del mutamento, anche con riferimento alla corrispondenza dello stesso all’interesse del minore, sia stata effettuata dal tribunale ordinario.
Il che peraltro appare invero in linea con i tracciati percorsi della giurisprudenza amministrativa, in relazione ai quali un attento studioso ha evidenziato come il diritto al nome e il diritto all’identità personale con riferimento al figlio si estrinsecano in una ben precisa maniera, ovvero come “diritto a portare un cognome che, scelto tra le quattro opzioni possibili secondo la Corte costituzionale (doppio cognome col paterno in testa; doppio cognome col materno in testa; mono-cognome materno o mono-cognome paterno), sia il più rispondente alla rappresentazione identitaria di colui che lo deve portare”, di guisa che “in potenza, ciascuna delle quattro opzioni è lecita; e nessuna cessa di esserlo solo perché è stata scartata alla nascita”.
E se si tratta di un diritto - attuato mediante la scelta incondizionata spettante ai genitori, rappresentanti del minore – esso rimane tale anche dopo la nascita, non potendo degradare ad interesse legittimo, almeno allorché la domanda di modifica rimanga all’interno delle predette quattro opzioni[14].
Vista in questa prospettiva la sentenza della Cassazione in commento, seppur corretta, mette in evidenza un formalismo eccessivo del sistema, impostato su un dualismo di intervento che sarebbe forse tempo di superare, con l’occasione dell’auspicato intervento generale (e non oltre rimandabile) del legislatore in materia.
[1] Corte cost. 31 maggio 2022, n. 131, in Fam. e dir., 2022, 871, con nota di Sesta, Le nuove regole di attribuzione del doppio cognome tra eguaglianza dei genitori e tutela dell’identità del figlio, di Al Mureden, Cognome e identità personale
nella complessità dei rapporti familiari, e di Calvigioni, La nuova disciplina del cognome: il ruolo dell’ufficiale dello stato civile; in Giur. it., 2002, 2335, con nota di Diurni, La competizione tra valori identitari nell’attribuzione del cognome alla nascita, e di Sirgiovanni, Una pronuncia storica: l’attribuzione al figlio del cognome di entrambi i genitori (salvo diverso accordo); in Foro It., 2022, 1, 7-8, 2233; Nuova Giur. Civ., 2022, 5, 958.
[2] Cfr. Corte cost. 11 febbraio 1988, n. 176, in Dir. fam. pers., 1988, 670; Corte cost. 19 maggio 1988, n. 586, in Dir. fam. pers., 1988, 1576; Corte cost. 16 febbraio 2006, n. 61, in Familia, 2006, 931, con nota di Bugetti. In dottrina, ex plurimis, De Cicco, Cognome e principi costituzionali, in Sesta - Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni, Napoli, 2005, 209 ss.; Gatto, Cognome del figlio riconosciuto, in M. Bianca (a cura di), Filiazione, Milano, 2014, 34; Bugetti, Riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio. Dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità, in Comm. Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova, Bologna, 2020, 245 ss.
[3] A differenza di quanto accade nell'ambito della filiazione legittima, l'attribuzione del cognome al figlio naturale è espressamente regolata all'art. 262 c.c., il quale dispone che, in caso di contemporaneo riconoscimento da parte di entrambi i genitori, è attribuito il cognome del padre; diversamente, il cognome del genitore che per primo lo riconosce. Il secondo comma della norma richiamata statuisce invece che, se la filiazione nei confronti del padre viene riconosciuta o accertata successivamente, il figlio assume il cognome paterno ovvero lo aggiunge a quello materno. La decisione circa l'aggiunta o la sostituzione del cognome, spetta, se il figlio è infrasedicenne, al giudice, viceversa a quest'ultimo. A seguito dell'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. 23 luglio 1996, n. 297, in Giust. civ., 1996, 2475, che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 262 nella parte in cui non prevede che il figlio naturale, nell'assumere il cognome del genitore che lo ha riconosciuto, possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere, anteponendolo o, a sua scelta, aggiungendolo a questo, il cognome precedentemente attribuitogli con atto formalmente legittimo, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno distintivo della sua identità personale), anche il figlio che sia stato riconosciuto successivamente, ha il diritto di mantenere il cognome originariamente attribuitogli dall'ufficiale di stato civile, ove questo sia divenuto segno identificativo della persona.
[4] Calviglioni, La nuova disciplina del cognome: il ruolo dell’ufficiale dello stato civile, in Fam. e dir., 2022, p. 891. Con la sentenza n. 286 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa che imponeva, in via automatica, l’attribuzione del solo cognome paterno al figlio, anche in presenza di un accordo tra i genitori per l’aggiunta di quello materno. Tale pronuncia si colloca nel solco della giurisprudenza della Corte EDU (Cusan e Fazio c. Italia, 7 gennaio 2014, ric. n. 77/07), che aveva ravvisato la violazione degli artt. 8 e 14 CEDU. La Consulta ha censurato l’art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui non consentiva l’attribuzione anche del cognome materno in caso di riconoscimento contestuale da parte di entrambi i genitori. Tuttavia, l’intervento si è limitato a riconoscere la possibilità di aggiunta solo in presenza di un accordo tra i genitori, lasciando irrisolti i casi di disaccordo, nei quali continuava a operare l’automatismo del patronimico. Inoltre, la sentenza non ha attribuito ai genitori né la facoltà di scegliere l’ordine dei cognomi, né quella di attribuire al figlio il solo cognome materno. Pertanto, pur rappresentando un significativo passo verso l’uguaglianza genitoriale, la decisione non ha superato l’asimmetria strutturale del sistema, che permaneva in assenza di accordo.
[5] Cfr. Sesta, Le nuove regole di attribuzione del doppio cognome tra eguaglianza dei genitori e tutela dell’identità del figlio, cit., 880: “A bene vedere, infatti, in forza della regola enunciata dalla sentenza, i genitori sono riconosciuti arbitri della decisione di imporre al figlio il cognome di entrambi oppure quello dell’uno o dell’altro, senza che - in tale ultima ipotesi - sia previsto alcun tipo di apprezzamento e di sindacato dell’interesse del minore, che passivamente subisce una scelta comportante la perdita del cognome di uno dei rami familiari.”
[6] Sesta, op. cit., 881.
[7] Sesta, op. loc. cit.; Calvigioni, op. cit., 895.
[8] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione III, 19 settembre 2023, n. 8422 e i richiami giurisprudenziali ivi operati, anche con riguardo ai precedenti della Corte Costituzionale. Si rimanda alla disamina di Musolino, Il cognome dei figli. Istanze pubbliche, unità familiare ed eguaglianza sostanziale dei coniugi, elementi negoziali nel rapporto fra padre e madre, in Riv. not., 2023, 35 ss.
[9] Già prima della 131/22 cfr. Tar Lazio Roma, 26 novembre 2018, n. 11410, che ha statuito come la richiesta del cambiamento di cognome, in ipotesi di soggetto minorenne, deve necessariamente provenire dai soggetti che ne hanno la rappresentanza legale, quindi, nel caso di specie dagli esercenti la potestà genitoriale. Solo nel caso in cui vi sia accordo tra i medesimi deve senza dubbio essere riconosciuta la possibilità di trasmettere ai figli, e quindi, di aggiungere al cognome paterno, anche il cognome materno.
[10] Olivero, Il Consiglio di Stato e la modifica del cognome tra interesse legittimo e diritto soggettivo, in Giur. it. 2024, 1047.
[11] T.A.R. Emilia-Romagna Parma, 6 maggio 2022, n. 115 che ha stabilito che il Prefetto non ha il potere di modificare il cognome del minore, sull'istanza di uno dei due genitori, in assenza di accordo e, anzi, in presenza del dissenso dell'altro genitore. La richiesta di modifica del cognome del figlio minore, integrando un "atto civile", può essere presentata, allora, dai genitori solo nell'esercizio della rappresentanza legale che trova la sua fonte e disciplina nell'art. 320 c.c., di guisa che deve ritenersi a tal fine imprescindibile il consenso di entrambi i genitori, fatto salvo solo il caso in cui uno di essi sia stato privato della potestà genitoriale. Cfr. anche T.A.R. Friuli-V. Giulia Trieste, 7 marzo 2019, n. 105 che ha ribadito come il Prefetto non ha il potere di modificare il cognome del minore, sull'istanza di uno dei due genitori, in assenza di accordo e, anzi, in presenza del dissenso dell'altro genitore. Infatti, in tal caso il Prefetto deve, preso atto del dissenso, sospendere ogni determinazione in merito, in attesa delle decisioni del giudice ex art. 316 c.c., cui la madre (ma anche il padre) può ricorrere per integrare questo indefettibile presupposto del procedimento amministrativo.
[12] Sesta, La riforma e il diritto di famiglia. la prospettiva paidocentrica dal diritto sostanziale al diritto processuale, in Fam. e dir., 2023, 1054; De Cristofaro, Le modificazioni apportate al codice civile dal decreto legislativo attuativo della “Legge Cartabia” (D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149). Profili problematici delle novità introdotte nella disciplina delle relazioni familiari, in Nuove leggi civ. comm.,
[13] Cons. di stato, 8 luglio 2024, n. 6000.
[14] Olivero, op. cit. 1049: “La discrezionalità dell’amministrazione, dunque, continuerà a operare solo al di fuori di quel perimetro; mentre al suo interno dovrà contenersi entro gli stretti margini di un controllo atto a evitare abusi del diritto, che si traducano, ad esempio, in richieste compulsive di variazioni, indizio di una volontà non assennata o non seria”.
Immagine: Edouard Manet, La famiglia Monet nel giardino di Argenteuil, 1874, olio su tela, cm 61 x 99, MET, New York.
Quando si parla di aggressività ci si riferisce quasi sempre a fantasie o comportamenti violenti verso sé stessi o verso gli altri. La valenza semantica del termine è certamente complessa se è vero che adgredi ha tra i suoi significati anche quello di “andare verso gli altri” in senso positivo.
Dunque l’aggressività potrebbe essere rappresentata come una sorta di Giano bifronte: una faccia distruttiva, l’altra costruttiva.
Quando assistiamo a delitti efferati e alle peggiori spettacolarizzazioni di essi, viene da pensare che forse è davvero presente nell’uomo come sua caratteristica strutturale, come oscura tendenza innata quella crudele aggressività che rivela in lui “una bestia selvaggia alla quale è estraneo il rispetto della propria specie”.
Tutti gli eventi in cui si manifesta la distruttività, lo spirito di Thanatos, sembrano perciò smentire l’idea dell’uomo animale politico di matrice aristotelica o la teoria dei giusnaturalisti i quali discettavano sull’istinto alla benevolenza, l’amore naturale che porterebbe gli uomini a interagire nella collettività anche senza esservi spinti dall’interesse o dalla paura.
In tutta l’opera di Hobbes proprio queste due componenti strutturali dell’essere umano garantiscono la nascita dello stato e delle sue leggi necessariamente restrittive delle libertà individuali. I due aspetti dell’aggressività sono presenti nelle analisi dei filosofi, nella psicologia del profondo, nella psicologia sociale. E se risulta oltremodo difficile la possibilità di conciliare le opposte tendenze, vale comunque la pena di interrogarci un po'.
È possibile come afferma Jung che le reazioni violente nascano per compensazione, ossia mediante l’aggressività la persona reagisce ad un sentimento profondo di inferiorità? Mi è capitato spesso di notare nei giovani forme di ostilità apparentemente inspiegabili.
Un giorno, fuori dal cancello della scuola nella quale insegnavo, ho assistito ad una scena orribile, ho visto negli occhi di quei due ragazzi una rabbia sorda, ho sentito le loro parole, l’esplosione violenta attraverso i pugni della loro aggressività. E quando con l’aiuto di alcuni compagni furono separati e io chiesi il motivo dello scontro, esso era di una banalità e futilità agghiaccianti: si ammazzavano di botte per un telefonino. In realtà erano due personalità deboli che si scontravano per prevalere, ciascuna per farsi riconoscere dall’altra come vincente e perciò come la più forte.
E che dire delle risse in Parlamento quando, esauriti gli strumenti del dialogo razionale, i nostri rappresentanti si esibiscono in turpiloqui e si attaccano pure fisicamente in quello spazio ristretto trasformato in un ring? Provocazioni, parolacce, insulti nel luogo istituzionale per eccellenza. Sui temi più svariati si esercita la guerriglia parlamentare. Si raggiunge spesso l’acme della schermaglia quando si discute della Giustizia che dovrebbe essere trattata come il fondamento dello stato di diritto da uomini pacati veramente al servizio della “Nazione”. Sicuramente con la pulsione distruttiva bisogna fare i conti. Freud parla di ostilità primaria degli uomini tra loro (l’homo homini lupus di hobsiana memoria), perciò la società incivilita è continuamente minacciata di distruzione. La civiltà intanto esiste, in quanto ognuno è in grado di dominare e in gran parte di reprimere i propri istinti. In questo senso la storia dell’uomo è la storia della “sua” repressione. Ovvero della rinuncia a Thanatos in nome di Eros.
La nostra difficoltà, oggi più che mai, è quella di costruire una società che non sia autodistruttiva. Tutto intorno grida, trasuda violenza: il ragazzo in guerra che stringe il suo fucile, il giovane occidentale che rapina il supermercato per comprarsi quello che c’è dentro, la donna-bambina brutalizzata ad ogni latitudine, le leggi massacrate dall’interesse particolare.
C’è chi spiega tutto ciò individuandone le cause nel deficit di valori o comunque nell’inadeguatezza di norme idonee a regolamentare i comportamenti individuali. E chi insiste, specie per quel che riguarda i giovani, nel considerare l’aggressività espressione per eccellenza della trasgressione orientata a contestare le norme vigenti o comunque a rivelarne l’insufficienza. Nel secolo passato, il Novecento breve dalle mille facce, non si contano gli intellettuali che hanno teorizzato il valore morale della violenza e di queste cattive ideologie si sono nutriti per lo più i conservatori in politica e gli opportunisti nell’etica con risultati disastrosi in entrambi gli ambiti.
Ci sono stati grandi uomini, primo fra tutti Gesù Cristo, che hanno sognato di eliminare le cause sociali che producono nell’uomo i comportamenti aggressivi: le disuguaglianze, i soprusi, le ingiustizie.
Ci sono stati e ci sono altri uomini che si impegnano, al contrario, per mantenere lo stato potenziale di belligeranza, per impedire la vittoria di Eros e purtroppo sono potenti non perché abbiano più forza nel cuore, ma perché possiedono in pochi quello che dovrebbe essere diviso fra tutti.
Siamo entrati pienamente nel secolo delle oligarchie chiuse, giustificate, esaltate, addirittura sacralizzate. Quid non mortalia pectora cogis auri sacra fames? (Quintiliano, Istituzione Oratoria, IX, 3)
Riteniamo utile pubblicare il documento approvato ieri dal Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, sul Pacchetto sicurezza. Già il 3 ottobre 2024 Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria. l’Associazione si era pronunciata sul disegno di legge n. A.S. 1236 recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”. L’Associazione conferma la critica “al ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica”. A detta critica aggiunge quella rivolta al ricorso alla decretazione d’urgenza in assenza dei requisiti costituzionali. «Il decreto-legge viene così impropriamente utilizzato come un disegno di legge ad effetto immediato, creando un precedente che potrebbe alimentare una prassi che svilisce il ruolo del Parlamento», si legge nel documento che richiama alcuni passaggi della sentenza della Corte costituzionale sent. n. 146/2024 e illustra le ragioni per cui il ricorso al decreto-legge, in assenza di requisiti di cui all’art. 77 Cost., incide negativamente sulla democrazia parlamentare ed esclude dal dibattito le minoranze politiche. È stato trasporto nel decreto-legge, recepite i sei rilievi del Presidente della Repubblica con modifiche invero assai marginali, il contenuto del disegno di legge n. A.S. 1236, Sono quattordici in nuovi reati che introducono criminalizzazioni di condotte espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso »La politica sembra preferire il diritto penale “a costo zero”, rinunciando a promuovere investimenti che – essi sì nel rispetto dei principi costituzionali! – potrebbero realmente migliorare il benessere sociale, anche sotto il profilo delle condizioni della sicurezza collettiva.» I professori mettono in guardia dalle ricadute sulla efficienza della giustizia penale in termini di aumento dei procedimenti e “possibili effetti negativi sulla durata complessiva dei processi”. Mettono in guardia altresì dal conseguente “aumento della popolazione detenuta”, e ciò a fronte di sovraffollamento carcerario segnato dall’incessante, tragico, numero record dei suicidi in carcere. Il documento si conclude con l’auspicio che «in sede di conversione in legge del decreto, possano essere apportare modifiche volte a ridurre, quanto meno, i più evidenti profili di contrasto con i principi fondamentali del sistema penale» e rassegna la disponibilità immediata a prestare la propria collaborazione nelle sedi istituzionali.
SUL “PACCHETTO SICUREZZA” VARATO CON DECRETO-LEGGE
Il Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, nel richiamare il proprio documento del 3 ottobre 2024 sul disegno di legge n. A.S. 1236 (“Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”), ribadisce la seria e oggi concreta preoccupazione per un così vasto intervento espressione di un ricorso al diritto penale in chiave simbolica di rafforzamento della sicurezza pubblica, per di più realizzato con lo strumento della decretazione d’urgenza. Le opportune modifiche rispetto alla versione originaria del “pacchetto sicurezza”, tese a diminuire la torsione repressiva dell’intervento, appaiono nel complesso marginali e non ne modificano l’impianto complessivo. Vengono infatti introdotti, con decreto-legge, almeno quattordici nuove fattispecie incriminatrici e inasprite le pene di almeno altri nove reati. Le condotte oggetto di criminalizzazione appaiono, nella quasi totalità dei casi, espressive di marginalità sociale o di forme di manifestazione del dissenso, con interventi che – come già illustrato nel precedente comunicato della nostra Associazione – risultano per diversi profili di dubbia compatibilità con svariati principi costituzionali, compresi quelli di necessaria offensività, sussidiarietà e proporzione. Emblematica in tal senso è la pena per l’occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui (da due a sette anni di reclusione), coincidente con quella comminata dall’art. 589, co. 2, c.p. per l’omicidio con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Con altrettanta preoccupazione registriamo oggi l’anomalo ricorso alla decretazione d’urgenza in materia penale per trasferire in un decreto-legge un intero disegno di legge presentato oltre un anno fa e al cui esame sono state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato, con l’audizione di numerosi professori ed esperti. Il decreto-legge viene così impropriamente utilizzato come un disegno di legge ad effetto immediato, creando un precedente che potrebbe alimentare una prassi che svilisce il ruolo del Parlamento. Con le parole usate in una recente sentenza dalla Corte costituzionale (sent. n. 146/2024, Pres. Barbera, Rel. Pitruzzella), ricordiamo che – anche al di fuori della materia penale – il ricorso alla decretazione d’urgenza è soggetto a limiti «fissati allo scopo di non vanificare la funzione legislativa del Parlamento». Non si può in alcun modo giustificare «lo svuotamento del ruolo politico e legislativo del Parlamento, che resta la sede della rappresentanza della Nazione (art. 67 Cost.), in cui le minoranze politiche possono esprimere e promuovere le loro posizioni in un dibattito trasparente (art. 64, secondo comma, Cost.), sotto il controllo dell’opinione pubblica». È sempre la Corte costituzionale a ricordare, da ultimo, nella sua recente sentenza che «l’ampia autonomia politica del Governo nel ricorrere al decreto-legge non equivale, tuttavia, all’assenza di limiti costituzionali. L’adozione del decreto-legge è prevista “come ipotesi eccezionale, subordinata al rispetto di condizioni precise” principi normativi e di regole giuridiche indisponibili da parte della maggioranza, a garanzia della opzione costituzionale per la democrazia parlamentare e della tutela delle minoranze politiche». Nel caso di specie, considerato che il pacchetto sicurezza è stato presentato oltre un anno fa con un disegno di legge di iniziativa governativa – e non già come decreto-legge – appare quanto meno dubitabile che siano sopravvenute effettive ragioni di necessità e urgenza in relazione a tutte le eterogenee disposizioni contenute nella quarantina di articoli del provvedimento. Ciò apre la strada a possibili questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 77 Cost. Non possiamo poi fare a meno di rammentare che, nello specifico della materia penale, la riserva di legge sancita dall’art. 25, co. 2 Cost. impone un ricorso ancora più limitato alla decretazione d’urgenza. Le disposizioni penali introdotte (mai così numerose, a nostra memoria, in un solo decreto-legge) entrano immediatamente in vigore, senza un periodo di vacatio che ne consenta la previa conoscibilità, come imposto dal principio di colpevolezza (art. 27, co. 1 e 3, Cost.). Inoltre, prima ancora della conversione in legge, tali disposizioni possono produrre effetti irreversibili sulla libertà personale: si pensi, ad esempio, all’arresto eseguito in forza di una disposizione del decreto sicurezza che, in sede di conversione, dovesse essere abrogata o modificata in senso tale da non consentire più l’arresto. Pensare di garantire la sicurezza dei cittadini facendo esclusivo affidamento sul diritto penale è, d’altra parte, illusorio. Come confermano studi scientifici condotti a livello nazionale e internazionale, la creazione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene non può garantire di per sé migliori livelli di sicurezza per i cittadini, né risolvere le cause – economiche, sociali, culturali – alla base delle forme di criminalità che si intendono contrastare. È rimasta purtroppo inascoltata, ancora una volta, la lezione di Cesare Beccaria, che così scriveva 260 anni fa nel suo “Dei delitti e delle pene”: «il proibire una moltitudine di azioni…non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma…è un crearne di nuovi… e il più sicuro ma il più difficil mezzo di prevenire i delitti è il perfezionare l’educazione». Più che nuovi reati, Beccaria, padre dell’illuminismo italiano ed europeo, indicava come «mezzi efficaci» per assicurare la «tranquillità pubblica» e prevenire i delitti «la notte illuminata a pubbliche spese [e] le guardie distribuite ne’ differenti quartieri della città». Gli investimenti per la sicurezza pubblica, pur non assenti nel “pacchetto sicurezza”, hanno purtroppo un peso marginale nel contesto del decreto-legge. Ancora una volta la politica sembra preferire il diritto penale “a costo zero”, rinunciando a promuovere investimenti che – essi sì nel rispetto dei principi costituzionali! – potrebbero realmente migliorare il benessere sociale, anche sotto il profilo delle condizioni della sicurezza collettiva. Viceversa, in assenza di interventi strutturali, la suggestiva quanto vaga nozione di “sicurezza pubblica”, rischia di rimanere una formula vuota e priva di riscontri concreti, come già reso palese da precedenti esperienze legislative e, proprio, da altri “decreti sicurezza”. Sono, altresì, facilmente intuibili le ricadute sulla efficienza della giustizia penale. Introdurre nuovi reati e inasprire le pene per quelli esistenti comporterà un aumento dei procedimenti, con possibili effetti negativi sulla durata complessiva dei processi. A ciò si aggiunga un probabile aumento della popolazione detenuta, senza che il provvedimento d’urgenza – che interessa anche la materia penitenziaria – introduca misure per fronteggiare le (reali) emergenze del sovraffollamento carcerario e dell’incessante, tragico, numero record dei suicidi in carcere, già denunciato dalla nostra Associazione con un comunicato alla fine dell’anno scorso. Il carcere, inoltre, rischia di aprire con maggiore frequenza le sue porte alle donne incinte o madri di figli di età inferiore a tre anni, anche in ragione del limitato numero degli ICAM - Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (attualmente solo quattro in tutta Italia), dei quali non si prevede l’incremento.
***
Nel sottolineare e ribadire le ragioni della propria preoccupazione, l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale auspica che, in sede di conversione in legge del decreto, possano essere apportare modifiche volte a ridurre, quanto meno, i più evidenti profili di contrasto con i principi fondamentali del sistema penale. A tal fine, l’Associazione, rappresentativa di oltre duecento professori di diritto penale, si rende disponibile sin d’ora a prestare la propria collaborazione nelle sedi istituzionali.
9 aprile 2025
Il Consiglio Direttivo
Prof. Gian Luigi Gatta (Presidente)
Prof. Vincenzo Mongillo (Vice Presidente)
Prof. Gian Paolo Demuro
Prof. Stefano Fiore
Prof. Dèsirèe Fondaroli
Prof. Carlo Longobardo
Prof. Domenico Notaro
Sommario: 1. Premessa. La “mossa del cavallo” dell’Esecutivo. – 2. Le progettate misure normative del nuovo Decreto-legge. – 3. L’illusione securitaria fra “overcriminalization” e “panpenalismo”. – 4. Sulla distorta prassi dell’impiego della decretazione d’urgenza in materia penale. Dal D.d.l. al D.l. “Sicurezza”. Prove tecniche di autoritarismo punitivo
1. Premessa. La “mossa del cavallo” dell’Esecutivo
Proprio mentre si trovava “in stato di relazione” fino al 27 marzo 2025, il D.d.l. A.C. 1660 recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario» (d’ora in avanti Disegno di legge)[1], e in discussione al Senato (A.S. 1236)[2], ha conosciuto un destino diverso: quello di essere trasposto in un Decreto-legge governativo.
Difatti, in data 4 aprile scorso, il Consiglio dei Ministri[3] ha approvato un Decreto-legge “Sicurezza”, che contiene diverse misure legislative, tutte aventi, quale comune denominatore, la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica/statuale.
Il testo del D.l. “Sicurezza” (di qui in avanti Decreto-legge) riprende quasi del tutto i connotati sostanziali del D.d.l. “Sicurezza”[4].
In quest’ultimo caso, si trattava – come noto – di un Disegno di legge, e come tale era stato trasmesso al Parlamento per una sua discussione, priva di termini perentori e con ampie possibilità di revisione.
Dopo oltre un anno e mezzo dalla sua formale presentazione in Parlamento[5], e considerando l’ipotesi molto concreta di ulteriori dilazioni, l’Esecutivo ha tuttavia operato una mossa decisamente “irrituale”: ha, di fatto, sottratto quel provvedimento al processo parlamentare e lo ha riscritto motu proprio, apportando alcune lievi, ma significative, modifiche.
Una decisione che non può spiegarsi se non per una ragione fondamentale: il Disegno di legge aveva infatti suscitato forti dissidi all’interno degli stessi partiti di maggioranza, e si è quindi optato per garantire “tempi certi” nell’adozione dei provvedimenti securitari, già ampiamente discussi in Parlamento, evitando così le “lungaggini” procedimentali che, come noto, contraddistinguono l’iter di approvazione di un disegno di legge[6].
Ora che il Consiglio dei Ministri lo ha approvato, il provvedimento tornerà nuovamente alle Camere. Tuttavia, essendo stato trasformato in un Decreto-legge, dovrà come è noto essere approvato – come vuole il dettato costituzionale all’art. 77, co. 2 – entro sessanta giorni per essere convertito in legge, e potrà essere oggetto di modifica solo su aspetti marginali.
Quanto all’oggetto, si tratta dell’ennesimo provvedimento inserito in una programmazione legislativa finalisticamente orientata alla tutela della sicurezza, latu sensu intesa[7], e rispetto al quale si erano già levate svariate voci critiche, sin dalla presentazione dell’ormai “defunto” Disegno di legge[8].
Non sembra inappropriato qualificare il provvedimento normativo in esame – che riprende la composita e frammentaria trama del Disegno di legge – come una sorta di “zibaldone”, in ragione della sua composita e magmatica stratificazione tematica, contenendo al proprio interno disposizioni eterogenee, anche di natura penale. Cercando comunque di raggruppare il contenuto del Decreto-legge in taluni nuclei problematici, è possibile individuare nel testo significative novità in materia di contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata, di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, di sicurezza urbana, di tutela del personale appartenente al comparto “sicurezza”, di sostegno a vittime dell’usura, nonché di gestione dei detenuti e delle attività lavorative sia all’interno che all’esterno degli istituti penitenziari.
2. Le progettate misure normative del nuovo Decreto-legge
Si può procedere adesso a una ricognizione degli innesti legislativi – articolati in trentotto articoli – che l’Esecutivo ha inteso realizzare in diversi ambiti dell’ordinamento giuridico[9], a partire dagli inserimenti di cui al Capo I del Decreto-legge[10].
In apertura dell’articolato normativo, si interviene, anzitutto, in materia di prevenzione e contrasto del terrorismo internazionale e dei reati contro l’incolumità pubblica (art. 1)[11].
In questo senso, si estende il già lungo novero dei delitti di terrorismo del Codice penale, introducendo una nuova disposizione in base alla quale è punito, con la reclusione da due a sei anni, chiunque – al di fuori dei casi di cui agli artt. 270-bis e 270-quinquies – consapevolmente si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali di cui all’art. 1, co. 1, L. 18 aprile 1975, n. 110, di armi da fuoco o di altre armi o di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale.
Vengono inoltre criminalizzate, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, le condotte di chi, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso delle materie o sostanze indicate al medesimo comma, o su qualunque altra tecnica o metodo per il compimento di taluno dei delitti non colposi contro la personalità dello Stato di cui al Titolo I, Libro II, c.p. puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
Nello stesso filone “anti-terroristico” rientra l’introduzione di una contravvenzione con previsione dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda fino a 206 euro a carico degli esercenti dell’attività di noleggio di veicoli senza conducenti, in caso di omessa comunicazione dei dati identificativi del cliente e del veicolo (quali targa e numero di telaio), nonché gli intervenuti mutamenti della proprietà e gli eventuali contratti di subnoleggio, per il successivo raffronto effettuato dal CED, estendendo la finalità di prevenzione del terrorismo anche ai reati di criminalità organizzata, di traffico di stupefacenti, di immigrazione e contraffazione (art. 2).
Altre disposizioni del Decreto-legge mirano a rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto della criminalità organizzata (artt. 3-7).
In particolare, si estendono le verifiche antimafia anche alle imprese che aderiscono al “contratto di rete”, includendole tra i soggetti sottoposti ai controlli previsti dal Codice antimafia.
Viene inoltre ridefinito il potere attribuito al Prefetto di limitare gli effetti dell’informazione antimafia, qualora l’interessato e i suoi familiari si trovino privi di mezzi di sostentamento. Si esclude, in tal senso, la possibilità di un intervento d’ufficio da parte dell’Autorità prefettizia: la limitazione potrà essere disposta esclusivamente su documentata istanza del titolare dell’impresa individuale e previo accertamento istruttorio da parte del gruppo interforze.
In attuazione della recente sentenza della Corte costituzionale n. 122 del 4 luglio 2024[12], i benefici previsti per i superstiti delle vittime della criminalità organizzata vengono estesi anche al coniuge, al convivente, ai parenti o affini entro il quarto grado del soggetto destinatario di una misura di prevenzione prevista dal Codice antimafia, ovvero sottoposto a procedimento penale per uno dei reati di cui all’art. 51, co. 3-bis, c.p.p. Tali benefici saranno tuttavia riconosciuti soltanto a condizione che, al momento dell’evento, il richiedente avesse già interrotto in modo definitivo ogni rapporto personale e patrimoniale con il soggetto coinvolto.
Infine, si amplia la disciplina relativa ai collaboratori di giustizia e ai loro familiari, prevedendo la possibilità di utilizzare documenti e identità fiscali di copertura, nonché di costituire società fittizie per lo svolgimento di attività che richiedano un elevato livello di riservatezza.
In materia di amministrazione di beni sequestrati e confiscati, si prevede l’immediato coinvolgimento degli enti locali e la competenza del giudice che, con il provvedimento di confisca, ordina la demolizione in danno.
Inoltre, si introducono disposizioni volte: a) alla semplificazione della procedura relativa alla cancellazione delle aziende inattive; b) al divieto di prestare attività lavorativa alle dipendenze di un’azienda, dopo la confisca definitiva, da parte di soggetti contigui al destinatario della confisca stessa o di coloro che siano stati condannati, anche in primo grado, per il delitto di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.); c) all’iscrizione gratuita nel registro delle imprese, da parte del Tribunale o dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, delle modifiche riguardanti le imprese sequestrate e confiscate; d) al soddisfacimento dei creditori prededucibili delle aziende mediante il prelievo delle somme disponibili nel patrimonio aziendale.
Si estende anche il termine per l’impugnazione delle misure di prevenzione personali adottate dall’Autorità giudiziaria, che passa da dieci a trenta giorni; inoltre, è stata introdotta la possibilità di utilizzare i contributi economici destinati agli enti locali per la messa in sicurezza e l’efficientamento energetico degli edifici scolastici anche per interventi su beni confiscati assegnati all’ente locale.
Oltre a recepire la nuova definizione di “articolo pirotecnico” contenuta nella normativa euro-unitaria – modificandosi contestualmente il diritto domestico in materia (art. 8) –, il Decreto-legge interviene anche in materia di revoca della cittadinanza italiana: si estende difatti da tre a dieci anni il periodo in cui può essere esercitata nei confronti dello straniero, a decorrere dalla sentenza di condanna definitiva per i gravi reati di terrorismo ed eversione, a condizione che possieda o possa acquisire un’altra cittadinanza (art. 9).
Numerose sono pure le modifiche, di cui al Capo II, «in materia di sicurezza urbana» – si potrebbe dire – latamente intesa.
Al riguardo, si introduce una nuova fattispecie di reato, con previsione della reclusione da due a sette anni, volta a sanzionare la condotta di chi, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero impedisce il rientro nel medesimo immobile del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente, è punito con la reclusione da due a sette anni. Alla stessa pena soggiace peraltro chiunque si appropria di un immobile destinato a domicilio altrui o di sue pertinenze con artifizi o raggiri ovvero cede ad altri l’immobile occupato. In più, fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile, ovvero riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione medesima, soggiace alla pena prevista dal primo comma. E si precisa, infine, che non è punibile l’occupante che collabori all’accertamento dei fatti e ottemperi volontariamente all’ordine di rilascio dell’immobile[13]. È prevista poi la procedibilità d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità, o si tratta di edifici pubblici o destinati ad uso pubblico[14].
In ambito processuale, fra le altre cose, viene inoltre puntigliosamente disciplinata una procedura volta ad accelerare la reintegrazione nel possesso dell’immobile occupato, o di sue pertinenze, a opera della polizia giudiziaria, previa richiesta del pubblico ministero e successiva convalida da parte del giudice con decreto motivato, qualora detto immobile risulti essere l’unica abitazione effettiva del denunciante (art. 10)[15].
Si inaspriscono poi le pene per i reati commessi in ambito urbano.
Viene prevista una nuova circostanza aggravante comune nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio: quella di avere commesso il fatto all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri[16].
Vengono in aggiunta rafforzati gli strumenti di deterrenza e di repressione delle truffe agli anziani, mediante l’introduzione di una specifica ipotesi di truffa aggravata, punita con la reclusione da due a sei anni e la multa da 700 a 3.000 euro, per la quale è previsto, ai sensi dell’art. 380, co. 2 c.p.p., anche l’arresto in flagranza (art. 11)[17].
Si aggrava, ai sensi dell’art. 635, co. 4, c.p., anche la pena per il reato di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora il fatto sia commesso con violenza alla persona o minaccia (art. 12)[18].
Il Decreto-legge reca disposizioni finalizzate a estendere l’ambito di applicazione della misura di prevenzione del divieto di accesso alle aree urbane (DACUR, c.d. Daspo urbano). Viene introdotta, a tal fine, l’osservanza del divieto di accesso nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per alcuno dei delitti contro la persona o contro il patrimonio. Intervenendo sull’art. 165 c.p., si stabilisce adesso che nei casi di condanna per i reati menzionati commessi nelle aree delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e nelle relative pertinenze, la concessione della sospensione condizionale della pena è comunque subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere a luoghi o aree specificamente individuati[19].
Si estende poi l’arresto in flagranza differita, secondo l’art. 380 c.p.p., al reato di cui all’art. 583-quater c.p., in tema di lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico, commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico (art. 13).
Si prevede, ancora, che sia punito a titolo di illecito penale – in luogo dell’illecito amministrativo, attualmente previsto – il blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo (reclusione fino a un mese e la multa fino a 300 euro). La pena è aumentata (da sei mesi a due anni) se il fatto è commesso da più persone riunite (art. 14).
In materia di esecuzione della pena, si novellano profondamente gli artt. 146 e 147 c.p.[20], rendendo facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di prole di età inferiore a un anno, e disponendo che le medesime scontino la pena, qualora non venga disposto il differimento, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Inoltre è previsto che l’esecuzione della pena non può essere differita se dal differimento stesso derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti.
Particolarmente ampi risultano, per di più, i ritocchi al codice del rito penale, con l’inserimento, da parte del Decreto-legge, del nuovo art. 276-bis c.p.p.[21], nonché con la modifica di ulteriori disposizioni preesistenti[22].
Sempre per contrastare i delitti urbani considerati più molesti, il Decreto-legge interviene sull’art. 600-octies c.p. in più aspetti.
Oltre alla modifica della rubrica del reato[23], aumenta la pena del comma 1 (da uno a cinque anni, anziché fino a tre anni) per il reato di impiego di minori all’accattonaggio sino a 16 anni (non più sino a 14) e, al comma 2, criminalizza, sotto la sanzione della reclusione da due a sei anni, la condotta di chi induce un terzo all’accattonaggio, organizzi l’altrui accattonaggio, se ne avvalga o comunque lo favorisca a fini di profitto. La pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso con violenza o minaccia o nei confronti di persona minore degli anni sedici o comunque non imputabile (art. 16).
Sotto altro versante, si estende anche ai comuni capoluogo di città metropolitana della Regione siciliana in procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (c.d. pre-dissesto), e che hanno sottoscritto l’accordo per il ripiano del disavanzo e il rilancio degli investimenti, l’autorizzazione ad assumere cento vigili urbani, già prevista da altra normativa interna per le città metropolitane siciliane che hanno terminato il periodo di risanamento (art. 17).
Chiudono il Capo II le numerose novelle alle «disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa» (Cannabis sativa L.) di cui alla L. 2 dicembre 2016, n. 242, che detta misure normative al fine di evitare che l’assunzione di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa o contenenti tali infiorescenze possa favorire, attraverso alterazioni dello stato psicofisico del soggetto assuntore, comportamenti che espongano a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la sicurezza stradale.
Fra le numerose modifiche introdotte vi è, in particolare, il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli olii da esse derivati. Si prevede che, in tali ipotesi, si applicano le sanzioni previste al Titolo VIII del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, «in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza».
Infine, nell’ambito della liceità della coltivazione, è stata prevista la produzione agricola di semi destinati agli usi consentiti dalla Legge entro i limiti di contaminazione stabiliti dal decreto del Ministro della Salute (art. 18).
Corposo risulta il pacchetto di norme destinate alla tutela del «personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007, n. 124» di cui al Capo III.
In primo luogo, il nuovo provvedimento normativo reca modifiche gli artt. 336, 337 e 339 c.p.[24], introducendo una circostanza aggravante dei delitti di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale, qualora il fatto sia commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. In tal caso, la pena è aumentata fino alla metà.
Inedita appare anche l’ulteriore aggravante che opera nel caso di atti violenti commessi al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici (art. 19).
Debutta, inoltre, sotto il tenore dell’art. 583-quater, co. 1, c.p., la nuova fattispecie di lesioni personali cagionate a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni. In questi casi, si applica la reclusione da due a cinque anni. In caso di lesioni gravi o gravissime, la pena è, rispettivamente, della reclusione da quattro a dieci anni e da otto a sedici anni. Si modifica contestualmente anche la rubrica dell’articolo di legge (art. 20)[25].
Sotto il vigore del nuovo Decreto-legge, le forze di polizia potranno indossare bodycam sulle divise, ossia dispositivi di videosorveglianza idonei a registrare l’attività operativa nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di siti sensibili, nonché in ambito ferroviario e a bordo treno. La stessa facoltà è prevista nei luoghi e negli ambienti in cui vengono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale (art. 21).
In materia di tutela legale, agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria appartenenti alle Forze di polizia a ordinamento civile o militare e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, indagati o imputati per fatti inerenti al servizio, nonché al coniuge, al convivente di fatto, e ai figli superstiti degli ufficiali o agenti deceduti, che intendono avvalersi di un libero professionista di fiducia, può essere corrisposta, anche in modo frazionato, su richiesta dell’interessato e compatibilmente con le disponibilità di bilancio dell’amministrazione di appartenenza, una somma, complessivamente non superiore a 10.000 euro per ciascuna fase del procedimento, destinata alla copertura delle spese legali, salva la rivalsa se al termine del procedimento è accertata la responsabilità dell’ufficiale o dell’agente a titolo di dolo (art. 22).
La medesima tutela legale è estesa agli appartenenti delle Forze armate (art. 23).
Mediante una modifica ai commi 2 e 3 dell’art. 639 c.p., in materia di «Deturpamento e imbrattamento di cose altrui», si rafforza la tutela dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche con la previsione, in caso di deturpamento e imbrattamento degli stessi con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, della pena della reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi (anziché da uno a sei mesi) e la multa da 1.000 a 3.000 euro (anziché da 300 a 1.000 euro), con aumento della pena detentiva (da sei mesi a tre anni, anziché da tre mesi a due anni) e della multa (fino a 12.000 euro, anziché fino a 10.000 euro), in caso di recidiva (art. 24).
Nel Decreto-legge può rinvenirsi poi anche l’inasprimento delle sanzioni del «Codice della strada»[26] per violazione delle prescrizioni e degli obblighi impartiti dal personale della polizia stradale, con la sanzione accessoria della sospensione della patente di guida da quindici a trenta giorni in caso di recidiva nel biennio per le violazioni previste. L’inasprimento opera, specificamente, con particolare riguardo ai casi di inosservanza dell’obbligo di fermarsi intimato dal personale che svolge servizi di polizia stradale, nonché delle altre prescrizioni impartite dal personale medesimo e dettagliatamente tipizzate nell’art. 192, D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (art. 25).
Notevoli sono le misure riguardanti la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari.
Lungo questa linea di intervento, l’Esecutivo si prefigge di introdurre nel corpo del reato di «Istigazione a disobbedire alle leggi» un’aggravante apposita che ricorre se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute.
Del tutto inedita è invece l’art. 415-bis c.p., in cui si codifica il reato di «Rivolta all’interno di un istituto penitenziario». In forza di tale nuova previsione, la reclusione da uno a cinque anni opera, al comma 1, nei confronti di chi, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite[27].
La disposizione reprime poi al comma 2, con la reclusione da due a otto anni, la condotta di coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta.
Ancora, si precisa, a seguire, che: se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal comma 1 e da tre a dieci anni nei casi previsti dal comma 2; se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal comma 1 e da quattro a dodici anni nei casi previsti dal comma 2; se, quale conseguenza non voluta, ne deriva la morte, la pena è della reclusione da sette a quindici anni nei casi previsti dal comma 1 e da dieci a diciotto anni nei casi previsti dal comma 2.
Infine, nel caso di lesioni gravi o gravissime o morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti (art. 26).
Una fattispecie di reato strutturalmente analoga alla rivolta in istituto penitenziario è introdotta, peraltro, per reprimere gli episodi di proteste violente da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di trattenimento e accoglienza (art. 27)[28].
In materia di licenza, porto e detenzione di armi per gli agenti di pubblica sicurezza, si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio (art. 28).
Con riferimento alla tutela delle funzioni istituzionali svolte in mare dal Corpo della Guardia di finanza, il Decreto-legge estende l’applicabilità delle pene previste dagli artt. 1099 e 1100 del Codice della navigazione anche ai capitani di navi, italiane o straniere, che non ottemperino all’intimazione di fermo da parte delle unità navali della Guardia di finanza, ovvero che pongano in essere atti di resistenza nei loro confronti.
È altresì prevista la pena della reclusione fino a due anni per il comandante di una nave straniera che non ottemperi all’ordine impartito da una nave da guerra nazionale nei casi consentiti dalle norme internazionali in materia di diritto di visita e ispezione dei documenti di bordo. È invece punito con la reclusione da tre a dieci anni il comandante o l’ufficiale della nave straniera che compia atti ostili nei confronti di una nave da guerra nazionale impegnata, in conformità al diritto internazionale, nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali (art. 29).
Per la tutela del personale delle Forze armate che partecipa a missioni internazionali, si prescrive adesso la non punibilità per i soggetti che, nel corso delle missioni internazionali, in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari. A tali fattispecie, viene aggiunto l’uso di dispositivi e programmi informatici o altri mezzi idonei a commettere delitti contro l’inviolabilità del domicilio, anche informatico, e dei segreti, ai sensi del Codice penale. Le norme penali in questione riguardano la violazione, anche mediante condotte offensive cibernetiche, del domicilio, della corrispondenza e delle comunicazioni, le illegittime interferenze nella vita privata, nonché la violazione dei segreti (art. 30).
Il Decreto-legge ritocca anche l’articolata disciplina delle garanzie funzionali per il personale dei Servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica impegnato nelle attività di istituto di tutela della sicurezza nazionale[29].
È bene rammentare che il Decreto-legge, anzitutto, rende permanenti talune disposizioni per il potenziamento dell’attività dei Servizi di informazione, introdotte, in via temporanea, dall’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7[30] e dall’art. 4, co. 2-bis, D.l. 27 luglio 2005, n. 144[31] e poi successivamente prorogate fino al 30 giugno 2025.
Le disposizioni destinate a diventare permanenti interessano, peraltro, diversi settori dell’ordinamento e non poche sono le previsioni innovative nei contenuti.
In primo luogo, si amplia il novero di condotte di reato scriminabili che gli operatori dei Servizi di informazione possono compiere su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri. In particolare, oltre a quelle già “giustificate” dal D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, “accedono” alla previsione di liceità anche l’organizzazione e la direzione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico, nonché le nuove ipotesi di detenzione di materiale con finalità di terrorismo e di fabbricazione o detenzione di materie esplodenti[32]. A tal fine, si novella l’art. 17, co. 4, L. 3 agosto 2007, n. 124 – ampliandone il perimetro operativo –, che disciplina minuziosamente la “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi citati[33].
Si prevede poi l’attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza, con funzioni di polizia di prevenzione, al personale militare impiegato nella tutela delle strutture e del personale del Dipartimento per le informazioni per la sicurezza (DIS) o dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) e dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna (AISI) (si introduce, in proposito, un apposito comma 1-bis nell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7).
Si stabilizza, inoltre, la tutela processuale in favore degli operatori dei Servizi di informazione, attraverso l’utilizzo di identità di copertura negli atti dei procedimenti penali avviati per le condotte-reato degli operatori medesimi realizzate nell’ambito delle attività istituzionali, previa comunicazione, con modalità riservate, all’Autorità giudiziaria procedente contestualmente all’opposizione della “speciale” causa di giustificazione (art. 19, L. 3 agosto 2007, n. 124; anche tale nuova previsione è affidata a un nuovo comma 1-ter dell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7).
Ancora, in base al nuovo comma 1-quater dell’art. 8, D.l. 18 febbraio 2015, n. 7, viene messa a regime la misura che consente all’Autorità giudiziaria, su richiesta del direttore generale del DIS, dell’AISE e dell’AISI, di autorizzare gli addetti dei Servizi di informazione a deporre in ogni stato e grado del procedimento con identità di copertura, ove sia necessario mantenere segrete le loro vere generalità nell’interesse della sicurezza della Repubblica o per tutelarne l’incolumità.
In aggiunta, si introduce in modo permanente la possibilità che i direttori dell’AISE e dell’AISI, o altro personale espressamente delegato, siano autorizzati dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, previa richiesta del Presidente del Consiglio dei Ministri, a condurre colloqui investigativi con detenuti e internati, per finalità di acquisizione informativa per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale. Si interviene, in questo caso, nell’ambito dell’art. 4, co. 2-bis, D.l. 27 luglio 2005, n. 144.
Infine, si prevede la possibilità per l’AISE e l’AISI di richiedere alle Autorità nazionali competenti di cui all’art. 5, D.lgs. 8 novembre 2021, n. 186, secondo modalità definite d’intesa, le informazioni e le analisi finanziarie connesse al terrorismo (nuovo comma 1-bis inserito nell’art. 14, D.lgs. 8 novembre 2021, n. 186[34]). Ciò, al fine di prevenire ogni forma di aggressione terroristica di matrice internazionale. Viene così integrata la previsione secondo cui le Forze di polizia devono condividere tempestivamente, secondo modalità definite d’intesa, le informazioni finanziarie e le analisi finanziarie (art. 31).
In forza di talune disposizioni di settore in materia di forniture di servizi di telefonia mobile si conclude il novero di norme che compongono il Capo III.
I ritocchi normativi interessano, in tal caso, il «Codice delle comunicazioni elettroniche»[35], prevedendosi la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività
da cinque a trenta giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a vendere schede SIM non
osservino gli obblighi di identificazione dei clienti indicati nell’art. 98-undetricies del citato Codice. Questo articolo, al contempo, viene novellato sotto due distinti profili: 1) con riferimento alla conclusione di contratti il cui oggetto sia un servizio per la telefonia mobile (contratti pre-pagati o in abbonamento), viene previsto che al cliente, che sia cittadino di Paese fuori dall’Unione europea, sia richiesto anche il documento che attesti il regolare soggiorno in Italia. Per il caso in cui il cliente lo abbia smarrito o gli sia stato sottratto, è necessario fornire copia della denuncia di smarrimento o furto; 2) ai condannati per il reato di sostituzione di persona (art. 494 c.p.), commesso con la finalità di sottoscrivere un contratto per la fornitura di telefonia mobile, si applica altresì la pena accessoria dell’incapacità di contrattare con gli operatori per un periodo da sei mesi a due anni (art. 32).
L’unica disposizione che compone il Capo IV reca «disposizioni in materia di vittime dell’usura».
Le progettate misure normative di sostegno agli operatori economici vittime dell’usura investono la L. 7 marzo 1996, n. 108, recante apposite «disposizioni in materia di usura».
L’art. 14-bis, da innestare nella citata Legge, introduce una figura professionale di supporto alle vittime del reato di usura che beneficiano dei mutui previsti dalla normativa vigente. L’obiettivo è di garantire il rilancio mediante un efficiente utilizzo delle risorse economiche assegnate e il reinserimento nel circuito economico legale. A tal fine, sin dal momento della concessione del mutuo, la vittima di usura viene affiancata da un esperto consulente[36], scelto da un apposito albo istituito dall’Ufficio del Commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura.
L’incarico dell’esperto è conferito dal Prefetto territorialmente competente, ha durata quinquennale e comporta compiti di assistenza nella gestione del mutuo, nella presentazione dei progetti e nel monitoraggio dell’andamento economico dell’impresa.
Le risorse economiche erogate alla vittima, una volta nominato l’esperto, costituiscono un patrimonio separato e vincolato alla ripresa dell’attività. In caso di utilizzo scorretto delle risorse o mancato raggiungimento degli obiettivi di reinserimento economico, anche su segnalazione dell’esperto, è prevista la revoca del beneficio e la restituzione delle somme (art. 33).
Il Capo V detta «norme sull’ordinamento penitenziario».
La prima disposizione che lo compone, ritoccando la L. 26 luglio 1975, n. 354[37], mira a: ricomprendere l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi e il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario nel catalogo dei reati per i quali la concessione di benefici penitenziari è subordinata alla mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; istituire un termine di sessanta giorni entro cui l’amministrazione penitenziaria deve esprimersi nel merito sulle proposte di convenzione relative allo svolgimento di attività lavorative da parte di detenuti ricevute (art. 34).
Il Decreto-legge poi: estende i benefici previsti dalla L. 22 giugno 2000, n. 193[38] per le aziende pubbliche o private che impieghino detenuti anche all’esterno degli istituti penitenziari (art. 35); amplia la possibilità di assumere in apprendistato professionalizzante anche i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e i detenuti assegnati al lavoro all’esterno (art. 36)[39]; autorizza il Governo ad apportare modifiche al regolamento di cui al d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230[40], in materia di organizzazione del lavoro dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario, sulla base dei criteri in esso indicati (art. 37).
Chiude il Decreto-legge una «Clausola di invarianza finanziaria», in forza della quale salvo quanto previsto dagli artt. 5, 17, 21, 22, 23 e 36, dall’attuazione del presente Decreto-legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (art. 38).
3. L’illusione securitaria fra “overcriminalization” e “panpenalismo”
Nelle pagine precedenti si è ripercorsa l’impalcatura securitaria su cui poggia il Decreto-legge “Sicurezza”, che l’Esecutivo intende rendere immediatamente operativo, nell’esibito intento di rispondere a presunte emergenze in materia di sicurezza. Tale intento, tuttavia, appare funzionale a finalità latenti di natura politico-elettorale: da un lato, la proposta punitiva viene utilizzata per intercettare il consenso dell’elettorato; dall’altro, essa si configura come una forma di “distrazione di massa”, utile a distogliere l’attenzione dai reali problemi sociali che attraversano il Paese[41].
Dall’esame dell’articolata trama normativa emerge un ricorso variegato all’armamentario penale, che segue, tuttavia, sentieri già tracciati dall’attuale XIX legislatura, nonché dalle precedenti. La ricetta adottata resta invariata: introduzione di nuovi reati, ampliamento di quelli esistenti, inasprimento della pena attraverso una maggiore dosimetria sanzionatoria, rafforzamento delle misure di prevenzione, innovazioni nelle modalità di esecuzione della pena e l’introduzione di nuovi meccanismi coercitivi in ambito investigativo o cautelare.
Tutte queste misure sembrano orientate a “consegnare” ai cittadini, nell’ambito di una sorta di «marketing delle emozioni», un “prodotto securitario” che risulta ostentatamente simbolico ed espressivo, e come tale privo di effettività. Si tratta di misure volte a elargire sicurezza: «una parola d’ordine – o una parola magica – al contempo ansiogena ed ansiolitica»[42], che funge da reazione pronta e apparente a ogni irritazione sociale o presunta emergenza endemica.
Trattasi di una sicurezza collettiva, che viene delegata alla “scure” del «diritto penale totale»[43], puntando quindi sul suo aspetto più muscolare, perentorio e marziale, nella lotta contro forme vecchie e nuove di criminalità, terrorismo, devianza, dissenso, marginalizzazione e povertà. Tutti questi fenomeni, come già rilevato, diventano oggetto di specifica criminalizzazione all’interno del Decreto-legge.
Così operando, lo Stato scommette ingenuamente sul fatto – invero indimostrato – che gli effetti normativamente attesi si realizzino concretamente. Al contempo, si trascurano gli effetti collaterali che la «straripante “overcriminalization”»[44] – in spregio al principio di extrema ratio – e il sovradosaggio di pena e di coercizione processuale realmente producono, specie sui diritti fondamentali della persona umana coinvolta, che vengono così travolti dalla scelta legislativa tipica del “trend” securitario[45]. Si invera, in tal modo, l’illusione della sicurezza attraverso il diritto penale.
Si aggiunga poi che nel realizzare la stretta securitaria degli ultimi anni, il Legislatore ha fatto ricorso a una contraddittoria e degenerativa linea di tendenza della contemporaneità penalistica che prende il nome di “panpenalismo”[46]. Questo fenomeno, di estrazione populista, unisce schemi di prevenzione e repressione tipici del «Penale di Polizia»[47]: una tendenza che segue logiche simboliche e irrazionali, che risultano contrarie all’efficienza del sistema punitivo e che, al contrario, alimentano l’incertezza sanzionatoria.
Più specificamente, la “spettacolarizzazione” della cronaca giudiziaria, distorcendo la percezione sociale del crimine, alimenta il sentimento di paura e il crescente bisogno di sicurezza nella collettività. Lo Stato, percependo questa esigenza, si trova spinto a rispondere con massima prontezza, temendo di perdere consenso. È proprio in questo contesto che prende piede il panpenalismo d’urgenza, con la conseguente “fabbrica dei reati e delle pene” che caratterizza un diritto penale elevato a strumento di intervento ordinario in tutti i settori di interesse pubblico.
Come è facile intuire, questa visione si oppone radicalmente a quella minimalista, che concepisce il diritto penale come extrema ratio, da utilizzare solo quando altri strumenti giuridici non risultano più adeguati a tutelare determinati beni giuridici.
Il congedo dell’ultima ratio dal sistema penale contemporaneo matura quindi all’interno di un panpenalismo dai tratti marcatamente polimorfi. Esso, infatti, non si esaurisce nella semplice moltiplicazione di illeciti penali e amministrativi e di pene tradizionali, ma prende forma attraverso una ramificazione tentacolare dell’apparato punitivo. Tale processo è favorito dall’impiego di strumenti prescrittivi e sanzionatori flessibili, generati dalla destrutturazione della legalità in senso formale e dalla ibridazione della fonte penale con elementi giurisdizionali e burocratico-amministrativi.
In parallelo, poi l’universo sanzionatorio multifunzionale di matrice comunitaria introduce un sistema che sovrappone sanzioni penali e amministrative, misure punitive, patrimoniali e interdittive, finalità specialpreventive e scopi risarcitori, rendendo sempre più difficile individuare persino l’ordinamento di appartenenza delle sanzioni[48].
4. Sulla distorta prassi dell’impiego della decretazione d’urgenza in materia penale
Come già accennato, la sicurezza collettiva è sempre più frequentemente affidata, secondo una prassi ormai consolidata, alla “scure” del diritto penale. Ed è proprio questo diritto penale a essere cristallizzato, di volta in volta, nello strumento eccezionale del decreto-legge.
Un cenno ulteriore merita allora il metodo della legiferazione e, quindi, la prassi dell’impiego della decretazione d’urgenza nella materia penalistica.
L’opzione di ricorrere all’utilizzo del decreto-legge, anziché seguire il procedimento di approvazione della legge formale ordinaria, è criticabile sia in relazione alla natura dell’organo
deliberante, sia in relazione ai requisiti, stringenti, di necessità e urgenza imposti dal disegno costituzionale.
È notorio che nel diritto penale vige il principio costituzionale della riserva di legge. L’interpretazione restrittiva della lettera costituzionale suggerisce che la legge formale ordinaria debba essere la fonte esclusiva del diritto penale. Indubbiamente, il Legislatore costituente ha considerato che il sacrificio della libertà personale, implicato dalle sanzioni penali, richieda una deliberazione del Parlamento, dove sono rappresentate anche le minoranze politiche, mentre l’organo esecutivo gode della fiducia solo della maggioranza parlamentare.
Nella materia penale, il ponderato bilanciamento tra l’esigenza di sicurezza della collettività, da una parte, e il sacrificio della libertà personale, dall’altra, non può che essere affidato all’organo rappresentativo dell’intero popolo italiano. Ne discende che, di regola, l’introduzione di nuove norme penali deve promanare dalla legge formale ordinaria, mentre il ricorso al decreto-legge deve essere giustificato da circostanze eccezionali.
Diversamente operando, ne risulterebbe una torsione del principio di legalità penale, una compressione del dibattito parlamentare e, più in generale, una fragilità dell’assetto democratico. Squilibrando la forma di governo e concentrando il potere, si intacca la forma stessa dello Stato, minando la democrazia. Il diritto penale, in questo contesto, finirebbe per piegarsi alle presunte ondate securitarie, diventando uno strumento reattivo e simbolico, piuttosto che il risultato di una ponderata razionalità legislativa.
Orbene, nel caso di specie, sembrano mancare proprio tutti i requisiti di necessità e urgenza che giustificano il ricorso allo strumento eccezionale del Decreto-legge emanato dall’Esecutivo, già oggetto di severe, pur fondate, critiche da parte della dottrina [49].
L’impiego di tale forma di provvedimento si inserisce poi in una prassi consolidata, seppur anomala, caratterizzata da un “abuso” [50] della decretazione d’urgenza per affrontare fenomeni di rilievo penale[51]. Una prassi che, alterando il sistema delle fonti, finisce per compromettere la separazione dei poteri, principio cardine della democrazia costituzionale che assicura la limitazione del potere.
Come noto, il decreto-legge, quale ipotesi eccezionale del legiferare, è subordinata al rispetto di condizioni precise, dovrebbe servire a far fronte a situazioni straordinarie e imprevedibili (ad es., attacchi terroristici, crisi migratorie, emergenze sanitarie, situazioni belliche, etc.).
Nel caso del Decreto-legge oggetto di attenzione, invece, manca una situazione concreta che renda improrogabile l’intervento del Parlamento, come si evidenzia brevemente nei motivi che seguono.
In chiave giuridica, anzitutto, si riscontra un’ampiezza e una genericità dei motivi che legittimano l’Esecutivo al ricorso alla decretazione d’urgenza. Le giustificazioni fornite risultano infatti generiche e ricorrenti[52], spesso riducendosi a mere formule di stile, prive di un legame con eventi eccezionali. Il riferimento ai «casi straordinari di necessità e di urgenza» – come richiesto dall’art. 77, co. 2, Cost. – appare pertanto in parte stereotipato, quasi “di prassi”.
Si riscontra inoltre una evidente eterogeneità nelle materie trattate. Il Decreto-legge abbraccia numerosi settori, corrispondenti ai cinque Capi che lo compongono, suscitando dubbi circa la coerenza e l’urgenza complessiva dell’intervento. Molti di questi provvedimenti risultano infatti di natura strutturale, tali da poter essere gestiti più adeguatamente tramite una legge ordinaria, previo opportuno dibattito parlamentare.
Sul punto, appare allora opportuno richiamare il recentissimo insegnamento-monito della Corte costituzionale di cui alla sentenza 25 luglio 2024, n. 146[53], in cui, in estrema sintesi, si è stabilito, a chiare lettere, che il decreto-legge è «uno strumento eccezionale», e «la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza […] costituisce un requisito di validità costituzionale», in quanto in gioco vi sono gli «equilibri fondamentali della forma di governo».
Da un’altra prospettiva, si può poi aggiungere che il “vecchio” Disegno di legge è stato presentato oltre un anno fa per iniziativa governativa[54], e non come decreto-legge. Appare dunque quantomeno improbabile che, al di là di motivazioni di natura esclusivamente politico-elettorale, siano sopravvenute ragioni effettive di necessità e urgenza che giustifichino l’intervento normativo immediato su tutte le disposizioni eterogenee contenute nei trentotto articoli del provvedimento. Ciò apre conseguentemente la strada a possibili questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 77 Cost.[55].
In definitiva, il Decreto-legge in esame, precario quanto a rispetto dei principi penalistici di rango costituzionale[56], e manifestazione di una degenerante ipertrofia penalistica[57], “scarica” sulla giustizia penale e sul sistema carcerario la soluzione ai mali sociali e l’azzeramento delle minacce alla sicurezza in senso lato.
Secondo chi scrive, quindi, questo approccio appare sovraesteso e discutibile sotto il profilo della democraticità del processo legislativo, divenendo uno strumento dell’azione politica dell’Esecutivo, anche a discapito della stessa iniziativa legislativa ordinaria. Il pericolo concreto è, quindi, quello di creare un precedente che potrebbe favorire una prassi capace di svilire le prerogative del Parlamento.
[1] D.d.l. in esame è stato presentato in data 22 gennaio 2024 per iniziativa governativa del Ministero dell’Interno, di concerto con il Ministero della Giustizia e col Ministero della Difesa.
[2] Fino a quella data, infatti, le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia in sede referente, terminate le audizioni, stavano procedendo alla valutazione dei numerosi emendamenti proposti al testo approvato alla Camera lo scorso 18 settembre 2024.
[3] Su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Ministro dell’Interno, del Ministro della Giustizia e del Ministro della Difesa.
[4] Il Decreto-legge in esame introduce, sulla falsariga del “vecchio” Disegno di legge, «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario».
[5] Sebbene risalga al novembre 2023 la sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri. Cfr. Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 59, 16 novembre 2023, consultabile su www.governo.it.
[6] Come sembra emergere dalla ricostruzione de Il Post, Perché il disegno di legge “Sicurezza” è diventato un decreto-legge, 4 aprile 2025, consultabile su www.ilpost.it.
[7] Si pensi, per rimanere all’attuale XIX legislatura, alla già approvata L. 28 giugno 2024, n. 90 («Disposizioni in materia di rafforzamento della cybersicurezza nazionale e di reati informatici»).
[8] Si veda, da ultimo, V. Manes, L’ossessione securitaria, in Dir. dif., 24 marzo 2025, p. 1 ss. e dottrina ivi richiamata. Posizioni critiche erano state espresse anche dal mondo forense, oltre che da quello accademico. Si vedano, a tal proposito, Pacchetto sicurezza: l’Unione delle Camere Penali Italiane delibera lo stato di agitazione, in Sist. pen., 2 ottobre 2024; Pacchetto sicurezza: il comunicato del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei Professori di Diritto penale, in Sist. pen., 3 ottobre 2024. Forti preoccupazioni per il potenziale impatto del D.d.l. su alcune libertà garantite dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono state espresse anche dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa in una lettera inviata al Presidente del Senato il 16 dicembre 2024 (Il Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani chiede al Senato di modificare il “pacchetto sicurezza” per salvaguardare le libertà di associazione e di manifestazione del pensiero, in Sist. pen., 23 dicembre 2024).
[9] Giovandosi qui anche delle brevi ricostruzioni contenutistiche contenute nel Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 122, 4 aprile 2025, consultabile su www.governo.it. V. anche il Dossier n. 240/2, XIX Legislatura, Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario - A.S. n. 1236, 30 settembre 2024, p. 5 ss., consultabile su www.senato.it.
[10] Recante «Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata, nonché in materia di beni sequestrati e confiscati e di controlli di polizia».
[11] Al riguardo, si prevede l’introduzione di due nuove ipotesi criminose di cui agli artt. 270-quinquies.3 («Detenzione di materiale con finalità di terrorismo») e 435, co. 2 («Fabbricazione o detenzione di materie esplodenti») c.p., su cui, criticamente, già M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in Sist. pen., 27 maggio 2024.
[12] In Giur. cost., 2024, p. 1252 ss.
[13] In questi termini, è stato delineato un nuovo reato all’art. 634-bis c.p. («Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui»).
[14] Si modifica così la disciplina dell’art. 639-bis c.p. sui «Casi di esclusione della perseguibilità a querela».
[15] In quest’ultimo senso, il nuovo art. 321-bis c.p.p. («Reintegrazione nel possesso dell’immobile»).
[16] Nuovo art. 61, co. 1, n. 11-decies), c.p.
[17] Si sopprime la circostanza aggravante del n. 2-bis) del comma 2 dell’art. 640 c.p., che adesso diventa autonoma ipotesi di reato nel nuovo comma 3, con corrispondente inasprimento del relativo trattamento sanzionatorio.
[18] Con reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni e della multa fino a 15.000 euro, anziché da uno a cinque anni e con la multa fino a 10.000 euro.
[19] Si aggiunge, in tal modo, un nuovo comma nell’art. 165 c.p. in materia di «Obblighi del condannato».
[20] Disciplinanti, rispettivamente, il «Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena» e il «Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena».
[21] Recante «Provvedimenti in caso di evasione o di condotte pericolose realizzate da detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri».
[22] Si vedano gli artt. 285-bis, co. 1 «Custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri»; 293, co. 1-quater «Adempimenti esecutivi»; 386, co. 4 «Doveri della polizia giudiziaria in caso di arresto o di fermo»; 558, co. 4-bis «Convalida dell’arresto e giudizio direttissimo» e 678, co. 1-bis «Procedimento di sorveglianza» c.p.p.
[23] Recante, secondo il Decreto-legge, «Impiego di minori nell’accattonaggio. Organizzazione e favoreggiamento dell’accattonaggio. Induzione e costrizione all’accattonaggio». Cfr. rubrica vigente: «Impiego di minori nell’accattonaggio. Organizzazione dell’accattonaggio».
[24] Rispettivamente, in materia di «Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale», «Resistenza a un pubblico ufficiale» e di «Circostanze aggravanti» per tali reati.
[25] Che diviene pertanto la seguente: «Lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni, nonché a personale esercente una professione sanitaria o sociosanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali». Cfr. la rubrica attualmente vigente: «Lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali».
[26] D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285.
[27] Il medesimo articolo chiarisce che costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
[28] In questo caso, si aggiunge un nuovo comma dopo il comma 7 dell’art. 14, D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
[29] Cfr. art. 17 ss. L. 3 agosto 2007, n. 124 («Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto»).
[30] Conv. con mod. dalla L. 17 aprile 2015, n. 43 («Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione»).
[31] Conv. con mod. dalla L. 31 luglio 2005, n. 155 («Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale»).
[32] Rimangono allora attratti nelle maglie della “giustificazione” i seguenti reati: a) partecipazione ad «Associazioni sovversive» (art. 270, co. 2, c.p.); b) direzione e organizzazione di «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico» (art. 270-bis, co. 1, c.p.); c) partecipazione ad «Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico» (art. 270-bis, co. 2, c.p.); d) «Assistenza agli associati» rispetto alle associazioni indicate agli artt. 270 e 270-bis c.p. (art. 270-ter c.p.); e) «Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale» (art. 270-quater c.p.); f) «Organizzazione di trasferimento per finalità di terrorismo» (art. 270-quater.1 c.p.); g) «Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale» (art. 270-quinquies c.p.); h) «Finanziamento di condotte con finalità di terrorismo» (art. 270-quinquies.1 c.p.); i) «Detenzione di materiale con finalità di terrorismo» (art. 270-quinquies.3 c.p.); l) istigazione a commettere alcuno dei delitti contro la personalità internazionale e interna dello Stato (art. 302 c.p.); m) partecipazione a «Banda armata» (art. 306, co. 2, c.p.); n) istigazione a commettere delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità o apologia degli stessi delitti (art. 414, co. 4, c.p.); o) partecipazione ad «Associazioni di tipo mafioso anche straniere» (art. 416-bis, co. 1, c.p.); p) «Fabbricazione o detenzione di materie esplodenti» (art. 435 c.p.).
[33] Per una ricostruzione della disciplina e talune considerazioni critiche espresse con riguardo alle innovazioni operate già dal Disegno di legge a detta norma di settore, sia consesso il rimando a A.F. Vigneri, La “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Note critiche a partire dal D.d.l. “Sicurezza”, in Giust. ins., 20 marzo 2025, consultabile su www.giustiziainsieme.it.
[34] Recante «Attuazione della direttiva (UE) 2019/1153 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che reca disposizioni per agevolare l’uso di informazioni finanziarie e di altro tipo a fini di prevenzione, accertamento, indagine o perseguimento di determinati reati, e che abroga la decisione 2000/642/GAI».
[35] D.lgs. 1° agosto 2003, n. 259.
[36] Avente competenze giuridiche, contabili ed economiche, purché non gravato da cause ostative previste dalla normativa antimafia. L’esperto è tenuto peraltro a operare con diligenza, imparzialità e riservatezza, ed è soggetto a regole di incompatibilità e conflitto di interessi. In caso di comportamenti scorretti, il Prefetto può revocare l’incarico e procedere alla cancellazione dall’albo. È previsto un compenso specifico per l’esperto, distinto dalle somme destinate alla vittima, da erogare annualmente sulla base della relazione presentata.
[37] Recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà».
[38] In materia di «Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti».
[39] Modificando, in tal senso, apposite previsioni del D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 sulla «Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183».
[40] Recante «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà».
[41] La Presidente del Consiglio dei Ministri ha sottolineato che le norme oggetto di decretazione d’urgenza erano attese da tempo e che non potevano più essere rinviate, evidenziando l’urgenza di fornire risposte concrete ai cittadini e garantire adeguate tutele alle forze dell’ordine e all’intero comparto “sicurezza”.
[42] Le parole riportate sono riprese da V. Manes, L’ossessione securitaria, cit., pp. 2 e 4, per il quale, magistralmente, «l’illusione terapeutico-punitiva si alimenta e al contempo si appaga delle componenti simboliche della pena». E ancora: «è facile quanto illusorio, in altri termini, agitare il vessillo delle pene e della coercizione punitiva, che dunque – dietro lo sfoggio muscolare di forza esibita a scopi placativi – altro non è se non una manifestazione di conclamata debolezza».
[43] Il diritto penale “totale” viene invocato in ogni contesto come un intervento salvifico e, soprattutto, come un presunto rimedio – politicamente e mediaticamente vantaggioso – per una serie di mali sociali. Un simile ampliamento del sistema penale, tuttavia, comporta inevitabilmente il sacrificio dei principi fondamentali di garanzia, alimentato dal clima di populismo e giustizialismo che caratterizza l'attuale dibattito pubblico. Si vedano, in tema, le illuminanti considerazioni di F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019, passim.
[44] L’efficace espressione è di N. Mazzacuva, L’epoca della straripante ‘overcriminalization’: un possibile (immediato) rimedio, in Pen. dir. proc., 2023, p. 521. Sul fenomeno della “overcriminalization”, si vedano le ampie indagini di A. Cadoppi, Il “reato penale”. Teorie e strategie di riduzione della criminalizzazione, Napoli, 2022, p. 39 ss.
[45] Dal quale affiora una legislazione «coerente con un diritto penale classicamente generalpreventivo che tende a trasfigurarsi nell’oggetto di un fluttuante diritto alla sicurezza di beni o interessi che vengono identificati come prioritari in un determinato momento storico». Evidenzia puntualmente questo aspetto L. Risicato, Diritto alla sicurezza e sicurezza dei diritti: un ossimoro invincibile?, Torino, 2019 p. 9 (corsivi originali). Sul citato trend securitario, inteso come causa di un’espansione del campo d’intervento penale secondo logiche sempre più repressive, si veda, già prima, D. Pulitanò, Sicurezza e diritto penale, in Riv. it. dir. pen., 2009, p. 555.
[46] Il tema è oggetto di vasta indagine in C. Cupelli, Tentazioni e contraddizioni del sistema penale contemporaneo: creazionismo giudiziario, panpenalismo legislativo e caccia al colpevole, in Cass. pen., 2023, p. 693 ss.
[47] Di cui parla opportunamente F. Forzati, Gli equilibrismi del nuovo 434 bis c.p. Fra reato che non c’è, reato che già c’è e pena che c’è sempre. Prove tecniche di reato senza offesa e di pena in assenza di reato, in Arch. pen., 2022, p. 32, a proposito dell’introduzione del reato di «Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» avvenuta proprio nell’arco della presente legislatura.
[48] Molto efficacemente, sul punto, F. Forzati, Il congedo dell’ultima ratio fra sistema sanzionatorio multilivello e penale totale: verso la pena come unica ratio?, in Arch. pen., 2020, p. 43.
[49] Di «Parlamento ridotto a organo di ratifica della volontà del governo» parla Gian Luigi Gatta in L. Milella, Dl sicurezza, il penalista Gatta: “Inutile. E l’urgenza umilia le Camere”, 6 aprile 2025, consultabile su www.ilfattoquotidiano.it. Il carattere «eversivo» di questa manovra politica è poi segnalato dalla costituzionalista Alessandra Algostino in Id, “Sicurezza”: un decreto legge eversivo, 7 aprile 2025, consultabile su volerelaluna.it.
[50] Sul massiccio ricorso allo strumento del decreto-legge nel corso dei primi due anni dell’attuale XIX legislatura, si vedano gli accurati dati di Openpolis, I primi due anni della XIX legislatura, 2 ottobre 2024, consultabile su www.openpolis.it, dai quali sembra emerge un vero e proprio monocameralismo di fatto, con conseguente subordinazione e annichilimento delle prerogative del Parlamento.
[51] L’abuso di decretazione d’urgenza nella materia penale è “denunciato” da Unione delle Camere Penali, Peggio del “DDL sicurezza” c’è solo il Decreto sicurezza, 5 aprile 2025, consultabile su www.camerepenali.it.
[52] Secondo il Decreto-legge, rientrano nei casi di ritenuta necessità e urgenza il potenziamento dell’attività di prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata, nonché la sicurezza urbana e i controlli di polizia. Rientrano, invece, nei casi di straordinaria necessità e urgenza l’introduzione di misure a tutela del comparto “sicurezza” e di disposizioni in materia di vittime dell’usura.
[53] In Giur. cost., 2024, p. 1522 ss., con nota di A. Celotto, La Camicia di Nesso, Mortati e l’abuso del decreto-legge.
[54] E al cui esame parlamentare sono state dedicate un centinaio di sedute tra Camera e Senato, con l’audizione di numerosi magistrati, professori ed esperti.
[55] È la fondata preoccupazione di Associazione Italiana Professori di Diritto Penale, Sul “pacchetto sicurezza” varato con decreto-legge, 9 aprile 2025, consultabile su www.aipdp.it.
[56] Sui numerosi profili di incostituzionalità del presente Decreto-legge si soffermano Unione delle Camere Penali, Peggio del “DDL sicurezza” c’è solo il Decreto sicurezza, cit. e Associazione Italiana Professori di Diritto Penale, Sul “pacchetto sicurezza” varato con decreto-legge, cit. Già prima, con riferimento alle norme del Disegno di legge, v. V. Manes, L’ossessione securitaria, cit., 4.
[57] Almeno quattordici sono le nuove fattispecie incriminatrici e nove sono i reati per i quali risulta inasprita la pena.
Sul tema si veda anche: Sul Pacchetto sicurezza varato con decreto-legge, La “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Note critiche a partire dal D.d.l. “Sicurezza” di Antonio Fabio Vigneri, Il DDL Sicurezza e il carcere di Fabio Gianfilippi, Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria, È compito della Repubblica. Note sul DDL Sicurezza di Enrico Grosso.
Immagine: Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano. Disarcionamento di Bernardino della Carda, tecnica mista su tavola, 1438, Galleria degli Uffizi, Firenze.
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