ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La legge 23 settembre 2025, n.132, costituisce la nuova disciplina organica nazionale in materia di intelligenza artificiale. Il provvedimento legislativo composto da 6 capi e 28 disposizioni, interviene in diversi settori tra cui: sicurezza, difesa nazionale, sanità e diritto d’autore. L’intervento legislativo ha poi avuto inevitabili riflessi sul diritto penale; il presente contribuito intende pertanto delineare le modifiche apportate in ambito penalistico sia alla disciplina codicistica che extra-codicistica.
Law No. 132 of 23 September 2025 establishes the new comprehensive national framework on artificial intelligence. The legislative measure, consisting of 6 chapters and 28 provisions, addresses several sectors, including security, national defence, healthcare, and copyright law. The legislative intervention has also had inevitable repercussions on criminal law; this contribution therefore aims to outline the amendments introduced in the field of criminal law to both codified and non-codified regulations.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Le nuove circostanze aggravanti - 3. Il nuovo delitto di cui all’art. 612-quater c.p. - 4. Le ulteriori modifiche - 5. Conclusioni
1. Introduzione
La legge 23 settembre 2025, n.132[1], in vigore dal 10 ottobre ed avente ad oggetto «Disposizioni e deleghe al Governo in materia di intelligenza artificiale» si inserisce nel più ampio quadro normativo europeo, rappresentato dal Regolamento (UE) 2024/1689 (c.d. “AI Act”). Il capo V della sopramenzionata legge, rubricato «Disposizioni penali» e costituito dall’unica disposizione normativa di cui all’art. 26 recante «Modifiche al codice penale e ad ulteriori disposizioni penali»ha rimodellato diversi aspetti del diritto penale sostanziale, incidendo in particolare sulla configurazione delle condotte penalmente rilevanti poste in essere mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale[2]. Le modifiche hanno riguardato: l’introduzione di nuove circostanze aggravanti, sia esse comuni che speciali; la creazione di una nuova fattispecie incriminatrice per contrastare nuovi fenomeni di devianza sociale e la modifica di reati già esistenti previsti da leggi speciali in materia di diritto d’autore e intermediazione finanziaria.
2. Le nuove circostanze aggravanti
Tra le circostanze aggravanti comuni di cui all’art. 61 c.p. figura ora la numero 11-undecies[3], che prevede l’aumento di pena per chi abbia commesso il fatto mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando questi abbiano costituito un mezzo insidioso, ostacolato la pubblica o privata difesa o aggravato le conseguenze del reato.
La previsione si innesta in un contesto normativo caratterizzato da aggravanti in parte sovrapponibili. Si pensi, ad esempio, all’aggravante della minorata difesa di cui all’art. 61 numero 5 c.p.[4], che già prevede un aumento di pena per chi approfitta di circostanze di tempo, luogo o persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, o all’art. 61 numero 8 c.p.[5], che incrimina l’aggravamento anche nella forma tentata delle conseguenze del reato. Sebbene la nuova aggravante comune appaia in parte “ridondante”, il legislatore ha voluto esplicitamente sottolineare la pericolosità dei sistemi di intelligenza artificiale come strumenti sui generis di offesa.
Inoltre, è stata introdotta un’aggravante speciale per il delitto di attentato contro i diritti politici del cittadino ex art. 294 c.p., secondo comma, che prevede la reclusione da due a sei anni qualora la condotta incriminata nel primo comma[6] , sia posta in essere mediante sistemi di intelligenza artificiale. Tale modifica comporta un significativo inasprimento rispetto alla pena prevista per l’“ipotesi delittuosa base” di cui al comma 1 - punita invece con la reclusione da uno a cinque anni - confermando la volontà del legislatore di rafforzare la tutela di beni giuridici particolarmente sensibili ai rischi connessi alle tecnologie emergenti.
3. Il nuovo delitto di cui all’art. 612-quater c.p.
La novità di maggiore rilievo è rappresentata dall’introduzione del nuovo delitto di cui all’art. 612-quater c.p., rubricato «Illecita diffusione di contenuti generati o alterati con sistemi di intelligenza artificiale». La collocazione della disposizione all’interno del Titolo XII del Libro II del codice penale, dedicato ai delitti contro la persona, e più precisamente nella Sezione III, relativa ai delitti contro la libertà morale, consente di individuare il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice nella dignità e nell’autodeterminazione dell’individuo[7].
Si tratta di un reato comune di evento a condotta vincolata. Infatti, il primo comma[8] richiede anzitutto il verificarsi di un danno ingiusto e punisce le condotte – realizzate mediante sistemi di intelligenza artificiale – consistenti nella pubblicazione, diffusione o cessione. L’oggetto materiale della condotta è costituito da immagini, video o voci falsificati o alterati. Il presupposto oggettivo affinché si possa configurare il delitto è rappresentato dalla mancanza del consenso del soggetto passivo. Inoltre, si richiede una «idoneità» del sistema di intelligenza artificiale, che deve essere tale da indurre in inganno sulla genuinità dei contenuti elaborati. L’elemento soggettivo richiesto dalla norma risulta esser il dolo generico, non essendo previsto uno specifico fine ulteriore.
Il delitto è ordinariamente procedibile a querela della persona offesa, come stabilito dal secondo comma. Mentre invece, il terzo ed ultimo comma prevede la procedibilità d’ufficio in via eccezionale ogniqualvolta: la persona offesa sia una pubblica autorità e il fatto sia commesso a causa delle funzioni esercitate; la vittima sia incapace di intendere e di volere per età o infermità; il fatto sia connesso con altro reato perseguibile d’ufficio.
4. Le ulteriori modifiche
Tra le ulteriori novità, due in particolare hanno riguardato la modifica di disposizioni contenute in leggi speciali. La prima, relativa al diritto d’autore, è intervenuta sull’elemento costitutivo del reato, ampliando le condotte penalmente rilevanti; la seconda, in materia di intermediazione finanziaria, ha invece inciso su un elemento accessorio del reato, introducendo una circostanza aggravante speciale.
Per quanto attiene al diritto d’autore, è stato introdotto all’art. 171, comma 1, la lettera a-ter[9], L. n. 633/1941 che estende la rilevanza penale anche alle condotte - poste in essere tramite sistemi di intelligenza artificiale – riproduttive o estrattive di testi o dati da opere o altri materiali disponibili in rete o in banche dati, in violazione degli artt. 70 ter e quater della medesima legge.
Mentre invece in materia di intermediazione finanziaria, è stata introdotta un’aggravante speciale al reato di manipolazione del mercato, c.d. aggiotaggio finanziario[10], ex art. 185 D.lgs. 58/1998, che ora prevede la reclusione da due a sette anni e la multa da venticinque mila a sei milioni di euro se la condotta delineata nel primo periodo della disposizione[11] è commessa mediante sistemi di intelligenza artificiale.
In coerenza con tale modifica, anche il reato di aggiotaggio societario e bancario[12] , ex art. 2637 c.c. è stato integrato, prevedendo l’inasprimento della pena – da due a sette anni di reclusione – se i fatti di cui al primo periodo[13] sono commessi tramite sistemi di intelligenza artificiale. Ancora una volta assistiamo ad una netta diversificazione sul piano sanzionatorio tra l’ipotesi aggravata dall’uso di sistemi di intelligenza artificiale e l’“ipotesi delittuosa semplice” per cui è invece prevista la reclusione da uno a cinque anni.
5. Conclusioni
La nuova Legge n.132/2025 rappresenta un intervento organico e sistematico volto ad aggiornare il diritto penale rispetto alle sfide poste dall’intelligenza artificiale. Le innovazioni introdotte si muovono lungo due direttrici principali: da un lato, l’esplicita qualificazione dell’intelligenza artificiale come possibile mezzo aggravante della condotta criminosa; dall’altro, la creazione di una nuova fattispecie incriminatrice idonea a colmare il vuoto di tutela rispetto a fenomeni emergenti, come la diffusione di contenuti manipolati, c.d. “deepfake”[14].
Tuttavia, l’introduzione di aggravanti parzialmente sovrapponibili a disposizioni già vigenti rischia di generare incertezze interpretative e conseguentemente applicative, ponendo il problema della loro effettiva utilità sistematica. Inoltre, la scelta di inasprire significativamente le pene per le condotte realizzate tramite sistemi di intelligenza artificiale riflette una logica prevalentemente repressiva, che potrebbe non essere sufficiente a fronteggiare la complessità tecnologica e sociale del fenomeno.
In un’ottica futura, sarà necessario osservare l’evoluzione della prassi giurisprudenziale e verificare se tali disposizioni saranno in grado di garantire effettivamente un equilibrio tra esigenze di tutela e proporzionalità della risposta penale.
[1] Il testo integrale della Legge 23 settembre 2025, n.132, è disponibile in www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2025/09/25/25G00143/sg
[2] L’art.2 della Legge n. 132/2025 fornendo la definizione giuridica di sistema di intelligenza artificiale, prevede che esso sia identificato con: «il sistema definito dall’articolo 3, punto 1), del regolamento (UE) 2024/1689». Si dimostra così l’intenzione del legislatore italiano di coordinare la disciplina giuridica nazionale dell’intelligenza artificiale con la regolamentazione normativa europea.
[3] Più propriamente l’art.61 c.p. n.11-undecies prevede un aumento di pena per: «l’aver commesso il fatto mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, quando gli stessi, per la loro natura o per le modalità di utilizzo, abbiano costituito mezzo insidioso, ovvero quando il loro impiego abbia comunque ostacolato la pubblica o la privata difesa, ovvero aggravato le conseguenze del reato».
[4] Seppur non strettamente correlato all’utilizzo di determinati strumenti per la realizzazione del delitto, l’art.61 c.p., n.5 prevede già un aumento di pena per: «l’aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa».
[5] Di scarsa applicazione giurisprudenziale l’art.61 c.p. n.8 dispone un aumento di pena per: «l’aver aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso».
[6] L’art.294 c.p., comma 1, punisce con la reclusione da uno a cinque anni: «chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà».
[7] Emblematica in tal senso, la scelta del legislatore di collocare la nuova fattispecie di cui all’art.612-quater c.p. subito dopo il delitto ex art.612-ter c.p., quest’ultimo rubricato «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti».
[8] Il comma 1 del nuovo art.612-quater punisce con la reclusione da uno cinque anni: «chiunque cagiona un danno ingiusto ad una persona, cedendo, pubblicando o altrimenti diffondendo, senza il suo consenso, immagini, video, o voci falsificati o alterati mediante l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale e idonei a indurre in inganno sulla loro genuinità».
[9] Che ora punisce chiunque, senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma: «riproduce o estrae testo o dati da opere o altri materiali disponibili in rete o in banche di dati in violazione degli articoli 70-ter e 70-quater, anche attraverso sistemi di intelligenza artificiale».
[10] Per tale si intende il reato finanziario - punito più severamente rispetto all’analoga fattispecie societaria e bancaria ex art.2637 c.c. - volto ad influire sul corretto processo di formazione dei prezzi degli strumenti finanziari ammessi alla negoziazione, ossia quotati in mercati regolamentati.
[11] Il primo periodo dell’art.185, D.lgs. 58/1998, punisce con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro ventimila a euro cinque milioni: «chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari».
[12] Per tale si intende la fattispecie di reato finalizzata ad influire sul corretto processo di formazione dei prezzi degli strumenti finanziari non quotati, ovvero per i quali non sia stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato.
[13] Il primo periodo dell’art.2637 c.c., punisce con la reclusione da uno a cinque anni: «chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari non quotati o per i quali non è stata presentata una richiesta di ammissione alle negoziazioni in un mercato regolamentato, ovvero ad incidere in modo significativo sull’affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari».
[14] Fenomeno in crescente aumento volto a falsificare ed alterare contenuti generati tramite sistemi di intelligenza artificiale.
Foto via Wikimedia Commons.
Produzione sistemico relazionale della fiducia e delle certezze (nota a Cons. Stato, sez. VII, 10 giugno 2025, n. 5020)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. “La rivolta dei topi d’ufficio” e il paradosso dell’autocertificazione. 2. Quando il cittadino spera che l’amministrazione non guardi (…). 3. Le dichiarazioni dei privati e la funzione di certezza nell’amministrazione contemporanea. 4. Verità, veridicità e certezza. 5. Gli orientamenti giurisprudenziali. 6. Il consolidamento del principio di fiducia oggettiva.
1. “La rivolta dei topi d’ufficio” e il paradosso dell’autocertificazione
Nel racconto di Andrea Camilleri, La rivolta dei topi d’ufficio, con la prefazione di Franco Bassanini e le illustrazioni di Luciano Vandelli, la vicenda prende le mosse dall’introduzione della legge sull’autocertificazione, accolta con sospetto e ironia dai funzionari pubblici della “Montelusa”[1].
Il dottor Sinagra, impiegato modello e fedele custode del timbro e del modulo, reagisce con indignazione alla prospettiva che i cittadini possano dichiarare da soli ciò che finora spettava alla pubblica amministrazione attestare. Egli afferma: «Almeno, questa legge non è fatta per noi. Può funzionare in Svezia o in Germania, dove se qualcuno dice una cosa, quella è Vangelo. Ma qui da noi, come fai a fidarti della parola di uno sconosciuto?» E continua: «Da noi intende in Italia?» - spiò il ragionier La Piana[2]. Nel proseguio del dialogo Camilleri fa pronunciare al ragionier La Piana un’amara ironia sul costume nazionale: se mai si dovesse riscrivere la Costituzione, bisognerebbe sostituire l’articolo 1 con un principio diverso, poiché «l’Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro, ma sulla diffidenza reciproca»[3]. Camilleri suggerisce che, in luogo della cooperazione, l’ordinamento si regge su un sistema di controlli difensivi e sospetti reciproci — una “costituzione della diffidenza” che mina alla radice ogni forma di fiducia pubblica.
Questa battuta sintetizza la tensione tra l’ideale di un’amministrazione di fiducia e la realtà di un apparato fondato sul sospetto[4]. L’ironia che ne emerge non è solo satira: è la rappresentazione letteraria di un nodo politico e istituzionale. L’introduzione dell’autocertificazione è (era) percepita come un attentato alla certezza documentale e all’ordine amministrativo fondato sul controllo[5].
L’intera narrazione si fonda su questa paradossale inversione: l’autocertificazione, nata per semplificare, viene trasformata in simbolo di anarchia, mentre la burocrazia, nata per garantire la legalità, diventa strumento di sospetto generalizzato. In questo saggio si mostra come una riforma amministrativa può fallire non per difetto di norme, ma per assenza di fiducia: la certezza pubblica non è una questione di modulistica, ma di credibilità collettiva[6].
2. Quando il cittadino spera che l’amministrazione non guardi (…)
L’ironia di Camilleri anticipa un tema che il diritto amministrativo contemporaneo affronta quotidianamente: la difficoltà di tradurre la fiducia in regola.
Nel racconto, il dottor Sinagra rappresenta la burocrazia della diffidenza, quella che teme l’autonomia del cittadino perché identifica la fiducia con la perdita di controllo. La legge sull’autocertificazione gli appare come un attentato alla certezza pubblica, poiché sposta il potere di dire il vero dall’amministrazione al privato.
Un caso recente deciso dalla giurisprudenza sembra riflettere, quasi per coincidenza, la stessa tensione rappresentata da Camilleri, ma in forma speculare. Nella sentenza in commento[7], relativa a una procedura di chiamata universitaria per un posto di professore universitario, il giudice amministrativo affronta il caso di un candidato che aveva indicato nel curriculum la titolarità di tre brevetti, quando due risultavano soltanto in corso di domanda.
Non è dato sapere se si trattasse di dolo o di semplice errore, ma certamente di una di quelle situazioni in cui l’incertezza sul contenuto delle dichiarazioni e la leggerezza nella loro formulazione producono effetti giuridici rilevanti. L’autodichiarazione, in questi casi, diventa il terreno fragile su cui si misura la tenuta della fiducia pubblica.
Il Consiglio di Stato ha affermato che, ai sensi degli articoli 46 e 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, non rileva la sede formale della dichiarazione – sia essa inserita nella domanda o nel curriculum – poiché l’autocertificazione copre l’intero contenuto documentale, e la non veridicità, anche solo parziale, comporta la decadenza dalla procedura. La ratio non è tanto quella di sanzionare, quanto di preservare la coerenza del sistema: garantire parità di responsabilità tra i concorrenti e mantenere integro il circuito fiduciario che regge la certezza amministrativa.
Questa vicenda potrebbe rappresentare il naturale seguito della Rivolta dei topi d’ufficio. Non più la burocrazia che diffida del cittadino, ma il cittadino che, tra malizia, incertezza o mera leggerezza, confida nella distrazione dell’amministrazione. Un racconto che descriverebbe non tanto la malafede quanto la fragilità della consapevolezza civica: quella zona grigia in cui la fiducia si trasforma in superficialità e la certezza giuridica diventa vittima dell’inerzia reciproca. Forse lo si potrebbe intitolare Quando il cittadino spera che l’amministrazione non guardi: una parabola moderna su come, tra sospetto e disattenzione, la verità finisca sempre per smarrirsi dietro uno sportello.
3. Le dichiarazioni dei privati e la funzione di certezza nell’amministrazione contemporanea
La certezza giuridica costituisce una delle funzioni essenziali dell’ordinamento amministrativo[8]. Essa è volta a garantire la stabilità e la sicurezza dei rapporti giuridici, economici e sociali, attraverso la conoscenza di fatti, stati e qualità che il diritto qualifica come veri. In questa logica, i principi di autocertificazione e decertificazione rappresentano il tentativo di tradurre la certezza da valore statico a meccanismo dinamico di cooperazione tra cittadino e amministrazione[9].
Nel modello amministrativo tradizionale, la certezza giuridica si fondava sul potere esclusivo della pubblica amministrazione di accertare e attestare il vero, mediante atti aventi fede privilegiata, capaci di fondare l’affidamento dei cittadini nella veridicità delle informazioni provenienti dall’autorità pubblica.
Come osservava Giannini, la pubblica amministrazione è l’organo di produzione delle certezze pubbliche, ossia di quelle rappresentazioni normative del reale che costituiscono il presupposto dell’azione amministrativa.
Con la riforma del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, si è compiuta una trasformazione importante di questa funzione.
La disciplina delle dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà (artt. 46 e 47) si è posta l’obiettivo di introdurre un modello di amministrazione semplificata e fiduciaria, che trasferisce al cittadino una parte della funzione di produzione della certezza pubblica.[10] Il privato è chiamato ad attestare, sotto la propria responsabilità, fatti e stati di cui la pubblica amministrazione prende atto “come veri”, salvo successivo controllo.
In sostanza il cittadino diviene co-produttore della conoscenza giuridica, in un sistema che presume la sua veridicità fino a prova contraria. La pubblica amministrazione, a sua volta, non è più solo ente certificatore, ma ente verificatore, che assume la dichiarazione come punto di partenza del procedimento e ne controlla l’esattezza a posteriori.
Il d.P.R. n. 445/2000 risponde a un duplice obiettivo: da un lato, la semplificazione amministrativa e la riduzione degli oneri documentali; dall’altro, la responsabilizzazione del cittadino, intesa come costruzione di un nuovo equilibrio tra fiducia e controllo.
Il principio di semplificazione non si limita a velocizzare i procedimenti, ma incide sul concetto stesso di certezza, che da formale si trasforma in sostanziale.
La certezza amministrativa non discenderebbe più dal documento pubblico, ma dall’affidabilità della dichiarazione privata, in un contesto di fiducia reciproca tra amministrazione e cittadino. Il sistema sarebbe retto dal principio di autoresponsabilità del dichiarante, espresso dall’art. 75 del medesimo testo unico, secondo il quale la falsità comporta la decadenza dai benefici conseguiti sulla base della dichiarazione.
Il meccanismo dell’autocertificazione, pertanto, è costruito su una presunzione di verità che l’amministrazione è tenuta a rispettare, ma che può essere ribaltata in presenza di prova contraria: la certezza è presunta, ma non cieca.
La decadenza prevista dall’art. 75 Testo unico non può essere ridotta a una misura meramente punitiva, poiché persegue anche una finalità di salvaguardia dell’affidabilità del sistema amministrativo. Essa si colloca in una zona intermedia tra sanzione e strumento di garanzia, volta a preservare la fiducia collettiva nella veridicità delle dichiarazioni e nella certezza giuridica pubblica[11].
4. Verità, veridicità e certezza
Nel contesto del paradigma autoritativo della certezza e di quello cooperativo, va richiamato il triangolo concettuale che ne rappresenta la struttura teorica: verità, veridicità e certezza[12].
Questi tre termini, solo apparentemente sinonimi, delineano in realtà tre diversi livelli del rapporto tra conoscenza e potere nell’amministrazione, e spiegano come l’ordinamento contemporaneo tenda a sostituire la ricerca della verità con la costruzione della veridicità istituzionale, e quest’ultima con la certezza giuridica come valore condiviso e operativo.
La verità costituisce l’ideale di corrispondenza tra rappresentazione e realtà, che il diritto assume come orizzonte ma non come presupposto.
La veridicità è la qualità operativa che rende una rappresentazione idonea a essere accettata come vera: è la misura della fiducia giuridica nella plausibilità.
La certezza è il risultato istituzionale della veridicità riconosciuta e stabilizzata dall’ordinamento, la sua traduzione in valore pubblico.
Il diritto amministrativo, per sua natura, tendenzialmente non può che operare su questo piano intermedio. Non conosce la verità assoluta, ma crea e regola verità sufficientemente affidabili, capaci di garantire l’efficienza, la legittimità e l’imparzialità dell’azione pubblica. Nel modello contemporaneo, questa funzione è condivisa: l’amministrazione produce certezza attraverso la fiducia nella veridicità delle dichiarazioni private, e il cittadino contribuisce alla certezza pubblica mediante la lealtà dichiarativa.
Come è stato efficacemente sintetizzato, la certezza giuridica contemporanea non è più autoritativa, ma cooperativa: nasce dall’incontro tra la fiducia dell’amministrazione e la responsabilità del dichiarante[13]. La certezza contemporanea è quindi relazionale: essa nasce da rapporti di fiducia reciproca e da meccanismi di verifica diffusa, più che da una fede autoritativa.
Le autodichiarazioni sono l’esempio paradigmatico di questa trasformazione: instaurano un patto fiduciario temporaneo, fondato sull’autoresponsabilità del dichiarante. In effetti, con l’introduzione delle autocertificazioni (d.P.R. n. 445/2000), parte di questa funzione è stata delegata al cittadino, che diventa corresponsabile della verità dei dati prodotti. L’amministrazione accetta la veridicità del dichiarante e costruisce su di essa il proprio giudizio, spostando l’asse della certezza dal controllo preventivo alla fiducia postuma. Tale dinamica traduce il principio gianniniano della certezza per rappresentazione in un sistema fiduciario, in cui la falsità non è solo errore fattuale, ma rottura del patto di certezza che regge la cooperazione amministrativa[14].
5. Gli orientamenti giurisprudenziali
Nel presente contributo si prendono in esame le problematiche giuridiche e le elaborazioni giurisprudenziali relative al falso nelle autocertificazioni rese nelle procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego, ambito nel quale si è progressivamente affermata una lettura che riconosce alla veridicità dichiarativa una funzione di garanzia della parità tra i concorrenti.
In questa prospettiva, la veridicità non è soltanto un requisito formale, ma rappresenta un valore sostanziale del procedimento concorsuale: tutela la leale competizione tra i candidati e consente all’amministrazione di fondare il proprio giudizio comparativo sulla correttezza delle informazioni fornite. La falsità, anche parziale, si traduce così in una violazione non solo del rapporto di fiducia con la pubblica amministrazione, ma anche dell’equilibrio tra i partecipanti, poiché altera la base comune di affidamento reciproco sulla quale si regge la selezione.
Restano esclusi, in questa analisi, altri ambiti applicativi dell’autocertificazione, nei quali l’istituto opera con logiche e finalità in parte differenti: le procedure per l’ottenimento di contributi, sovvenzioni e agevolazioni economiche o fiscali; le istanze per il rilascio di titoli abilitativi nell’ambito della semplificazione e liberalizzazione amministrativa, o in edilizia e urbanistica (in particolare la Scia e i titoli edilizi sostitutivi); le autodichiarazioni nel settore energetico e ambientale; le procedure di affidamento di contratti e appalti pubblici che sono dotate di una disciplina dettagliata e specifica più volte rivista dalla giurisprudenza e dal legislatore; nonché le autocertificazioni di natura anagrafica, sanitaria, previdenziale o scolastica, introdotte in attuazione dei principi di digitalizzazione amministrativa. Rientrano in un filone autonomo, infine, le autodichiarazioni emergenziali del (passato) periodo Covid-19, che hanno rappresentato una peculiare applicazione del modello in chiave di regolazione diffusa dei comportamenti sociali.
Tornando al caso di specie, dalla lettura della più recente giurisprudenza possono principalmente individuarsi tre posizioni interpretative in materia di falsità dichiarativa ai sensi dell’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000, le quali evidenziano l’evoluzione del sistema da un approccio proporzionale a una concezione tendenzialmente oggettiva della decadenza.
Una prima teoria si fonda su una concezione funzionale della falsità. La decadenza è ritenuta applicabile soltanto quando la dichiarazione non veritiera abbia avuto efficacia causale rispetto al beneficio conseguito, ossia quando la falsità sia risultata determinante ai fini dell’adozione del provvedimento favorevole. Si configura, in tale logica, una distinzione tra falso rilevante e falso innocuo: solo il primo è idoneo a incidere sulla validità dell’atto, mentre il secondo, in mancanza di effetti concreti, non comporta conseguenze sanzionatorie. L’impostazione riflette una visione proporzionale della reazione amministrativa, in cui la gravità della sanzione si commisura all’impatto effettivo del mendacio[15].
Una seconda teoria introduce un’ulteriore distinzione, tra dichiarazione mendace e dichiarazione ambigua o imprecisa. La falsità, in questa prospettiva, si identifica solo nella rappresentazione consapevolmente contraria al vero, mentre l’imprecisione o l’opacità espositiva restano escluse dal perimetro dell’art. 75. La giurisprudenza riconosce, così, che non ogni difformità semantica rispetto alla realtà costituisce falsità giuridicamente rilevante: la non veridicità deve essere intenzionale e oggettiva, non il mero risultato di una comunicazione imperfetta. Si tratta ancora di una logica casistica e prudenziale, che tenta di conciliare l’esigenza di tutela della certezza amministrativa con quella di proporzionalità[16].
c) La teoria oggettiva e unitaria della falsità
Una terza e più recente teoria segna il superamento del criterio proporzionale e l’affermazione di una concezione oggettiva della falsità. L’autocertificazione viene considerata un atto unitario e inscindibile, la cui attendibilità complessiva risulta compromessa anche in presenza di una sola informazione non veritiera. La falsità, pertanto, potenzialmente assume rilievo in sé, quale violazione del vincolo fiduciario che regge il rapporto tra amministrazione e cittadino. Non rileva più l’incidenza della falsità sull’esito del procedimento, ma il fatto stesso che l’atto dichiarativo non risponda al vero, poiché ciò mina la credibilità del sistema delle certezze pubbliche. L’elemento soggettivo dell’autoresponsabilità si salda con il valore oggettivo della fiducia istituzionale: il dichiarante non può trarre vantaggio da un atto che, anche solo parzialmente, manchi di veridicità[17].
Questa impostazione riflette una trasformazione culturale: la falsità non è più vista come una devianza individuale da sanzionare in misura proporzionata, ma come una lesione sistemica della fiducia pubblica, che giustifica la decadenza automatica in quanto misura di tutela dell’affidabilità complessiva del sistema[18].
6. Il consolidamento del principio di fiducia oggettiva
La decisione n. 5020/2025 rappresenta il punto di arrivo di questa evoluzione.
La vicenda trae origine da una procedura valutativa bandita ai sensi dell’art. 24, commi 5 e 6, della legge n. 240/2010, per la chiamata di un professore universitario. Il candidato aveva dichiarato nel proprio curriculum la titolarità di tre brevetti, due dei quali, tuttavia, risultavano solo in fase di domanda e non ancora formalmente concessi.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto che tale circostanza integri una falsità rilevante ai sensi degli artt. 46 e 75 del d.P.R. 445/2000, precisando che l’art. 46 del testo unicio non distingue tra dichiarazioni rese nel curriculum e quelle contenute nella domanda, giacché entrambe concorrono a formare l’autocertificazione dei titoli valutabili. Inoltre, evidenzia come l’autodichiarazione copre l’intero contenuto documentale e il bando di concorso richiedeva espressamente che il curriculum fosse accompagnato da una dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante la veridicità dei titoli e delle attività scientifiche. Infine, evidenzia che l’oggetto della dichiarazione non veritiera era essenziale ai fini della valutazione comparativa e, dunque, della nomina, indipendentemente dalla collocazione formale della notizia mendace.
Quindi, il Consiglio di Stato afferma i seguenti principi.
Primo, unità della dichiarazione: «Sul piano normativo, l’art. 46 cit. non reca alcuna distinzione tra fatti dichiarati nel curriculum vitae e fatti dichiarati nella domanda di partecipazione, facendo generale e astratto riferimento all’autodichiarazione di fatti personalmente o professionalmente rilevanti».
Secondo, essenzialità del falso: «L’oggetto della dichiarazione non veritiera risulta essenziale ai fini della nomina, a prescindere dalla sua materiale collocazione all’interno del curriculum vitae ovvero della domanda di partecipazione».
Terzo, funzione valoriale della veridicità: «La ratio legis (…) è quella di mettere tutti i concorrenti su un piano di parità (…) confidando sulla correttezza ed esattezza di quanto reciprocamente dichiarato».
La decisione si colloca nella prospettiva che riconosce alla certezza pubblica un valore sistemico, in cui la tutela della fiducia nella veridicità amministrativa prevale sulla verifica dell’incidenza causale della dichiarazione non veritiera.La sentenza n. 5020/2025 pare riqualificare l’art. 75 d.P.R. 445/2000 da norma sanzionatoria a dispositivo di tutela della certezza pubblica. Il falso non è più misurato sulla base del vantaggio conseguito, ma sul suo potenziale distruttivo per l’affidabilità del sistema.
[1] A. Camilleri, La rivolta dei topi d’ufficio, Edizione Este, 1999, su http://www.bassanini.it/wp-content/uploads/2013/10/La-rivolta-dei-topi-dufficio.pdf
[2] A. Camilleri, La rivolta dei topi d’ufficio, cit., p.4.
[3] Ibidem, p. 5.
[4] F. Bassanini, Presentazione in A. Camilleri, cit, p. 1.
[5] Di fronte a quella che vivono come un’umiliazione istituzionale, gli impiegati si organizzano nel BAAC – Burocrati Anti Auto Certificazione – con lo scopo di sabotare il nuovo sistema e dimostrarne la fallacia. Camilleri riassume il loro intento in poche, efficaci parole: «I vivi sarebbero risultati morti, i morti vivi, i celibi sposati, e via scambiando: fino a rendere incredibile ogni autocertificazione.» Il BAAC diventa così la caricatura della resistenza burocratica: un apparato che, pur di difendere il proprio monopolio sulla verità amministrativa, è disposto a falsificare la realtà pur di dimostrare l’inattendibilità del cittadino. Il ragionier La Piana sintetizza il senso di tale sfiducia nella battuta: «Bisognerebbe, una volta per tutte, stabilire che l’Italia è una Repubblica basata sulla diffidenza reciproca». Quindi, là dove la Costituzione proclama la centralità del lavoro, l’esperienza quotidiana sembra mostrare che la Repubblica funziona piuttosto come un sistema di reciproca sfiducia regolata — tra cittadini e pubblici poteri, tra amministrati e amministratori, tra dichiaranti e verificatori.
[6] Nella prefazione, Franco Bassanini sottolinea esattamente questo nodo culturale. Egli ricorda come la riforma dell’autocertificazione nascesse dall’esigenza di abbandonare il mito del bollo, del timbro, del certificato, delle complicazioni burocratiche e di sostituire al culto dei formalismi il primato dell’efficienza e della responsabilità del cittadino. Il racconto di Camilleri, osserva Bassanini, descrive con realismo la difficoltà italiana di accettare la fiducia come strumento amministrativo: l’autocertificazione non è soltanto una semplificazione procedurale, ma un atto politico di fiducia reciproca tra amministrazione e cittadino — e proprio per questo incontra la resistenza più profonda.
[7] Cons. Stato, Sez. VII, 10 giugno 2025, n. 5020.
[8] Sul tema, si richiama in via introduttiva innanzitutto la seguente dottrina: P. Calamandrei, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in Rivista di diritto processuale, 1955, I, 164 ss.; A. Falzea, Accertamento (teoria generale), in Enciclopedia del diritto, I, Milano, 1958, 205 ss.; M. S. Giannini, Certezza pubblica, in Enciclopedia del diritto, VI, Milano, 1960, 769 ss.; S. Pugliatti, Conoscenza, in Enciclopedia del diritto, IX, Milano, 1961; A. Predieri, Premessa ad uno studio sullo Stato come produttore di informazioni, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, II, Milano, Giuffrè, 1974, 1626 ss.; M. Mazzamuto, Dichiarazioni sostitutive: le principali innovazioni delle leggi Bassanini, in N AUT, 1999, 45 ss; A. Fioritto, La funzione di certezza pubblica, Padova, 2003; I.d., Certezza pubblica, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, II, Milano, Giuffrè, 2006, 851 ss.; G. Gardini, Autocertificazione, in D. disc. pubbl. (Agg.), Torino, 2005, 107 ss; F. Fracchia - M. Occhiena, I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006; A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze private”, Milano, 2010, 30 ss.; E. Carloni, Le verità amministrative. L’attività conoscitiva pubblica tra procedimento e processo, Milano, 2012, 24 ss.; A. Benedetti, Seeking “Certainty” between Public Powers and Private Systems, in Italian Journal of Public Law, 2012, p. 356; I.d, Certezza pubblica [dir. amm.], in Treccani – Diritto on line, 2014; I.d., La ricerca della certezza, tra poteri pubblici e sistemi privati, in https://www.giustamm.it/private/new_2012/ART_4442.pdf; A. Carratta – C. Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino, 2017, 169 ss. In sintesi ricostruttiva: la linea classica distingue tra verità (ideale di corrispondenza al fatto) e accertamento (procedimento giuridico di conoscenza: Falzea), evidenziando nel processo la dialettica verità/verosimiglianza (Calamandrei) e, sul versante amministrativo, il progressivo superamento del “mito della verità” a favore della certezza pubblica come prodotto istituzionale (Giannini). La conoscenza giuridica opera così per rappresentazioni affidabili più che per verità assolute (Pugliatti), entro uno Stato che è primario produttore di informazioni pubbliche (Predieri). In chiave contemporanea, la certezza assume profilo relazionale e funzionale all’affidabilità dei rapporti (Fioritto), può ibridarsi con “certezze private” regolate pubblicisticamente (Benedetti) e si sostanzia in verità amministrative costruite tramite procedure e garanzie, con il rischio, se ridotte al solo “sigillo del potere”, di scollarsi dalla realtà (Carloni). Sullo sfondo, la dogmatica processuale recente continua a misurare l’operatività di verità, verosimiglianza e probabilità come gradi di attendibilità decisoria (Carratta–Mandrioli).
[9] I principi di autocertificazione e di decertificazione rappresentano due cardini delle riforme di semplificazione amministrativa, nati per alleggerire gli oneri burocratici gravanti sui cittadini e riequilibrare il rapporto con l’amministrazione. Il primo solleva il cittadino dall’onere di certificare fatti, stati o qualità personali, consentendogli di sostituire la documentazione con una dichiarazione formale, la cui veridicità è soggetta a successivo controllo da parte della pubblica amministrazione. Il secondo, invece, ne rovescia la logica, imponendo al responsabile del procedimento di acquisire d’ufficio i dati che è compito dell’amministrazione stessa certificare. Entrambi i principi sono confluiti nell’art. 18 della legge n. 241/1990, che, insieme al d.P.R. n. 445/2000, costituisce la base del sistema di “documentazione amministrativa semplificata”. Le riforme successive — in particolare quelle introdotte dal d.l. n. 76/2020 (“Semplificazioni”) e dal d.l. n. 34/2020 (“Rilancio”) — ne hanno ampliato l’ambito di applicazione, estendendolo anche ai rapporti tra privati e alla gestione dei benefici economici. Tuttavia, la piena attuazione di tali principi resta incompleta, frenata dalla carenza di interoperabilità tra banche dati pubbliche e da una persistente sfiducia dell’amministrazione verso il cittadino, che continua a tradursi in un aggravio di adempimenti formali, cfr. A. Giurickovic Dato, L’inattuazione dei principi di “autocertificazione” e “decertificazione” tra digitalizzazione ed emergenza, in Rivista CERIPAD, fasc. 3, 2021, https://ceridap.eu/linattuazione-dei-principi-di-autocertificazione-e-decertificazione-tra-digitalizzazione-ed-emergenza/
[10] Per una ricostruzione si rinvia a M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 “decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in Questa Rivista, 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1128-la-trappola-dell-art-264-del-dl-34-2020-decreto-rilancio-per-le-autodichiarazioni-la-norma-sulla-semplificazione-amministrativa-nasconde-nuove-sanzioni-per-gli-amministrati; I.d., Autodichiarazioni e dichiarazione "non veritiera". La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (*), in Questa Rivista, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1347-autodichiarazioni .
[11] Il venir meno della veridicità dichiarativa, anche in singoli casi, mina infatti l’affidabilità complessiva del sistema, alterando la credibilità della certezza che esso intende garantire. La pubblica amministrazione accetta la dichiarazione come vera fino a prova contraria, ma si riserva la possibilità di verificarne la fondatezza, a tutela dell’interesse pubblico alla certezza e alla parità di trattamento.La certezza amministrativa, nel modello attuale, è dunque fiduciaria ma controllabile, relativa ma garantita: una costruzione che vive dell’equilibrio tra fiducia e verifica, tra collaborazione e potere.
[12] Le riflessioni di questo paragrafo si ricollegano, senza pretesa di esaustività, a una tradizione dottrinale ampia che ha approfondito il rapporto tra conoscenza, verità e certezza nel diritto amministrativo e nella teoria generale: A. Falzea, Accertamento (teoria generale), in Enc. dir., I, Milano, Giuffrè, 1958; S. Pugliatti, Conoscenza e diritto, Milano, 1961; M. S. Giannini, Certezza pubblica, cit.; E. Carloni, Le verità amministrative, cit.; A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze private”, cit.; C. Faralli, Certezza del diritto o diritto alla certezza?, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1997; A. Fioritto, La funzione di certezza pubblica, cit.; A. Romano Tassone, Amministrazione pubblica e produzione di certezza: problemi attuali e spunti ricostruttivi, in Dir. amm., 2005; M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009.
[13] A. Benedetti, Certezza pubblica [dir. amm.], cit.
[14] Ibidem.
[15] Cons. Stato, Sez. V, 20 agosto 2019, n. 5761; Cons. Stato, Sez. V, 6 luglio 2020, n. 4303.
[16] Cons. Stato, Sez. VII, 31 gennaio 2022, n. 638.
[17] Cons. Stato, Sez. VII, 8 giugno 2022, n. 4680.
[18] Cons. Stato, Sez. VII, 10 febbraio 2025, n. 5020.
Ritiro doveroso della proposta di aggiudicazione e responsabilità precontrattuale dell’Amministrazione (nota a Tar Lombardia – Milano, sez. II, 3 giugno 2025, n. 1917)
Sommario: 1.- Fatti di causa e oggetto di indagine; 2.-Revoca e ritiro del provvedimento amministrativo. Cenni; 2.1-(segue)concetto di doverosità del ritiro; 3.-Resposabilità precontrattuale dell’amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica; 3.1.-(segue) l’aggiudicazione provvisoria e il requisito dell’affidamento incolpevole del privato. 4.-Il punto del Tar sui requisiti per ottenere il risarcimento dei danni a titolo di responsabilità precontrattuale.
1. Fatti di causa e oggetto di indagine.
Nella pronuncia in commento il Tar Milano offre una ricostruzione dell’istituto di revoca della proposta di aggiudicazione, ponendola a confronto con la diversa ipotesi del mero ritiro. Evidenzia le conseguenze della individuazione di una piuttosto che dell’altra, in relazione alla responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, nonché al risarcimento del danno del privato presuntivamente danneggiato dalla mancata aggiudicazione.
Il caso oggetto di delibazione verte su una procedura aperta per l’affidamento di una fornitura di prodotti, indetta da un’Azienda Socio Sanitaria Territoriale, da espletare in forma aggregata con un’altra. Oggetto della fornitura sono biberon e tettarelle monouso, per le quali l’art. 3 della lex specialis dispone che siano dotate di marcatura CE.
La graduatoria provvisoria, stilata a conclusione della procedura, vede la ricorrente quale prima classificata. Tuttavia alle proposte di aggiudicazione per i lotti interessati non è seguita alcuna aggiudicazione defintiva, di tal che la ricorrente – in prima battuta – ha instaurato un giudizio avverso il silenzio. Nelle more, la stazione appaltante ha “revocato” l’intera procedura di gara, ritenendo erronea la propria indicazione della marcature CE come requisito essenziale, in quanto questa avrebbe creato un restringimento del mercato degli operatori economici potenzialmente interessati a prendere parte alla procedura.
Il provvedimento di “revoca” è stato impugnato dalla ricorrente con ricorso per motivi aggiunti, in seno al quale è stata anche formulata domanda di risarcimento dei danni asseritamente subiti a titolo di: a) responsabilità precontrattuale; b) ritardo nel provvedere; c) illegittimità del provvedimento di revoca.
Il Tar, dopo aver dichiarato, con sentenza non definitiva, improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso introduttivo, ha rigettato nel merito il ricorso per motivi aggiunti, ritenendolo infondato. Sulla scorta del quadro normativo e guirisprudenziale afferente alle distinte figure di revoca e ritiro del provvedimento amministrativo, il Collegio ha concluso che nel caso di specie la stazione appaltante avesse posto in essere un atto di mero ritiro (stante la irrilevanza del nomen juris assegnato dalle parti) peraltro congruamente motivato. È stata rigettata anche la domanda di risarcimento del danno da ritardo e da provvedimento illegittimo, in ragione dell’accertata legittimità dell’atto di ritiro, ritenuto addirittura “doveroso”. Quanto alla responsabilità precontrattuale, questa è stata esclusa per assenza dei requisiti necessari, per come anche individuati dalla giurisprudenza precedente dell’Adunanza Plenaria.
Nel presente scritto ci si occuperà di richiamare per sommi capi la disciplina della revoca ex art. 21 quienques della L. n. 241/1990, al fine di confrontarla – e dunque distinguerla – dalle ipotesi di mero ritiro di un provvedimento, analizzando i casi in cui questo possa definirsi doveroso. Lo scopo è quello di delineare le ricadute di detta qualificazione sul regime di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, con particolare riguardo al requisito dell’affidamento ingenerato in capo all’operatore economico danneggiato.
2.-Revoca e ritiro del provvedimento amministrativo. Cenni.
La legge sul procedimento prevede che la pubblica amministrazione possa esercitare il suo potere di autotutela attraverso le due forme di revoca e annullamento d’ufficio [1].
Come opportunamente richiamato dal Tar nella pronuncia in commento, la revoca – di cui all’art. 21 quinquies – è un provvedimento amministrativo di secondo grado, che postula l’esercizio di un potere discrezionale di autotutela dell’amministrazione, per ragioni di inopportunità sopravvenuta, rispetto a un atto precedentemente emanato e ad efficacia durevole [2].
L’annullamento ai sensi dell’art. 21 nonies L. n. 241/1990 può essere disposto, sussistendone ragioni di interesse pubblico ed entro il termine temporale indicato, nel caso di illegittimità originaria del provvedimento di primo grado.
Tale potere non è contestabile nelle procedure ad evidenza pubblica, anche quando oggetto del provvedimento di secondo grado sia l’aggiudicazione definitiva, ove – chiaramente – ci si trovi in presenza di una illegittimità significativa [3]. Tuttavia, è ben possibile che la pubblica amministrazione si limiti a rimuovere atti che non abbiano ancora determinato l’emanazione di un provvedimento definitivo.
In particolare, afferma il Collegio che “laddove la pubblica amministrazione si limiti a rimuovere successivamente uno o più atti illegittimi che non abbiano ancora avuto esito in un provvedimento finale, «si è in presenza di un mero ritiro doveroso, ben diverso dai discrezionali consueti provvedimenti di secondo grado come la revoca e l’annullamento d’ufficio, contemplati dagli artt. 21- quinquies e 21- nonies, L. 7 agosto1990, n. 241»” [4]. Dalla qualificazione di un provvedimento come revoca e/o annullamento ovvero come mero ritiro discendono delle conseguenze tutt’altro che trascurabili.
Come evidenziato dal Tar Milano, in coerenza con la giurisprudenza precedente [5], l’atto di mero ritiro non è subordinato alla previa verifica della sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, non necessita della valutazione delle posizioni soggettive eventualmente coinvolte nella vicenda e non richiede il previo avviso di inizio del procedimento.
Anche l’onere motivazionale deve essere calibrato in funzione della fase procedimentale in cui la stessa interviene. L’esplicitazione delle ragioni circa l’interesse pubblico al ritiro varia di intensità – ad esempio – a seconda della circostanza che sia intervenuta l’aggiudicazione definitiva (o addirittura la stipula del contratto) ovvero che il procedimento di valutazione comparativa concorrenziale non sia ancora completamente giunto a termine [6].
2.1-(segue) concetto di doverosità del ritiro.
Il richiamo che il Tar Milano fa al concetto di doverosità, qualificando tale il ritiro della proposta di aggiudicazione operato dalla stazione appaltante, ne impone una – seppur succinta – analisi.
La giurisprudenza [7] ha, nel tempo, associato il termine “doveroso” al potere di autotutela della pubblica amministrazione in determinati casi, pur nella consapevolezza che la caratteristica principale di tale potere sia la discrezionalità.
L’autotutela doverosa è stata definita come il potere esercitato in tutte quelle ipotesi, tassativamente individuate dal legislatore ovvero definite chiaramente in via giurisprudenziale [8], in cui il potere di riesame dei propri atti da parte delle Amministrazioni è dovuto.
La dottrina [9] si è occupata di analizzarne i contorni e di interrogarsi sulla compatibilità del concetto di annullamento doveroso con i principi dell’ordinamento.
Del resto, si è detto, l’amministrazione non può essere considerata come titolare di un potere semplicemente “esecutivo” rispetto alla legge [10], poiché così ragionando si finirebbe per eliminare gli elementi che differenziano l’annullamento che l’amministrazione pronuncia al termine di un procedimento di riesame, dall’annullamento contenzioso e dall’annullamento giurisdizionale [11]. Difatti, l’esercizio del potere di annullamento ex art. 21 nonies non è legittimato solo ed esclusivamente dall’illegittimità del provvedimento, ma anche – ad esempio – dalle ragioni di interesse pubblico che devono essere ricercate nel caso concreto dopo l’acquisizione dei fatti e la valutazione degli interessi, e non limitate al solo rispristino della legalità [12].
Nel caso di specie il Collegio ritiene che il ritiro degli atti di gara fosse “doveroso” in ragione della riscontrata illegittimità di una previsione del bando che avrebbe ristretto ingiustificatamente la platea dei partecipanti (in specie l’art. 3 che, si rammenta, indicava come requisito essenziale dei prodotti la marcatura CE). In ragione, dunque, dell’indiscussa illegittimità di una propria disposizione, l’amministrazione non avrebbe avuto altra scelta se non quella di ritirare gli atti di gara.
Si stima utile sottolineare che l’ipotesi al vaglio del Tar Milano non può essere associata al concetto di annullamento doveroso, analizzato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, poiché – come si è detto e come si dirà meglio infra – il potere viene esercitato su un atto non definitivo e dunque definito di “mero ritiro”, il che comporta la non necessaria ricorrenza di tutti gli elementi che sottendono l’emanazione di un provvedimento di secondo grado.
3.-Resposabilità precotrattuale dell’amministrazione nelle procedure ad evidenza pubblica.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione deve rispettare, oltre alle norme di diritto pubblico, anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza [13]. Del resto, la violazione di queste ultime può dar luogo ad una responsabilità da comportamento scorretto, tale da incidere sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali.
Nello specifico caso delle procedure di gara, i doveri di correttezza e buona fede sussistono anche prima (e a prescindere) dell’aggiudicazione, nell’ambito di tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica: da ciò deriva che la responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto è configurabile quand'anche i singoli provvedimenti nei quali si articola il procedimento siano legittimi [14].
Il principio della buona fede, è stato oggi sancito anche nel nuovo Codice dei Contratti, all’art. 5 del D. Lgs. n. 36/2023, a riprova del rango di principio generale cui assurge nella regolazione di qualunque rapporto contrattuale.
Sulla scorta dei principi elaborati dai Giudici di Palazzo Spada, il Tar Milano evidenzia che il privato che intenda far valere la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione deve provare: a) la propria buona fede soggettiva, intesa come affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere attività economicamente onerose; b) la lesione dell’affidamento incolpevole per una condotta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà e soggettivamente imputabile all’amministrazione in termini di colpa o dolo; c) il danno-evento, che si concretizza nella lesione della libertà di autodeterminazione negoziale); d) il danno-conseguenza, ovvero le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate; infine, il rapporto di causalità fra tali danni e il comportamento scorretto.
In particolare, nel settore delle procedure di affidamento di contratti pubblici, sempre il Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, ha ulteriormente chiarito che, la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, derivante dalla violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede che sia alla stessa imputabile a titolo di colpa, postula che il concorrente abbia maturato un ragionevole affidamento nella stipula del contratto da valutare in relazione al grado di sviluppo della procedura, e che questo affidamento non sia a sua volta inficiato da colpa [15].
Per quanto riguarda la misura del risarcimento, il Collegio, sulla scorta di precedenti pronuncie del Consiglio di Stato, specifica che il danno risarcibile in caso di responsabilità precontrattuale è costituito dal “c.d. interesse contrattuale negativo”, che copre sia il danno emergente (spese documentate per la partecipazione alla gara) che il lucro cessante, essendo astrattamente ammesso anche il ristoro della perdita di chance per le sole occasioni di guadagno alternative cui l’operatore economico avrebbe potuto attingere in assenza del contegno colposo dell’amministrazione [16].
3.1.-(segue) l’aggiudicazione provvisoria e il requisito dell’affidamento incolpevole del privato.
L’elemento dell’affidamento incolpevole viene considerato dalla giurisprudenza recente essenziale ai fini dell’individuazione di una responsabilità precontrattuale della stazione appaltante [17].
A riprova dell’essenzialità di questo elemento, sia sufficiente notare che la giurisprudenza ha spesso ritenuto di calibrare la quantificazione del danno in ragione della eventuale conoscenza o anche conoscibilità, da parte della medesima, della contrarietà del provvedimento revocato all’interesse pubblico e dell’eventuale concorso, della società o di altri soggetti, all’erronea valutazione della compatibilità dell’atto con l’interesse pubblico, ritenendo in rapporto a tale elemento rilevanti le sole spese sopportate per la partecipazione alla gara [18].
Nel caso delle procedure ad evidenza pubblica, può essere utile capire se un’aggiudicazione provvisoria – poi ritirata e/o revocata – possa legittimamente ingenerare un affidamento nell’operatore economico, tale da fondare una successiva domanda di risarcimento per responsabilità precontrattuale dell’amministrazione.
Invero, anche ove ad essere ritirata sia un’aggiudicazione definitiva è comunque necessario provare la formazione di un ragionevole affidamento sulla conclusione della procedura.
Nel caso di specie, la ricorrente fonda la domanda di risarcimento su un affidamento che sarebbe stato generato da un’aggiudicazione provvisoria.
In proposito il Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare che l’aggiudicazione provvisoria è atto endoprocedimentale che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario. Con la conseguenza che la possibilità che ad una aggiudicazione provvisoria (proposta di aggiudicazione) non segua quella definitiva costituisce evento del tutto fisiologico, inidoneo di per sé a ingenerare forme di affidamento tutelabili e dunque un qualsivoglia obbligo risarcitorio [19].
Del resto, la natura giuridica di atto provvisorio ad effetti instabili, che è tipica dell’aggiudicazione provvisoria, non è pienamente compatibile con la disciplina dettata dagli artt. 21-quinquies e 21-nonies della L. 241/1990, in quanto non può qualificarsi atto conclusivo del procedimento.
Va da sé che il passaggio dall’aggiudicazione provvisoria a quella definitiva non è certamente un obbligo della P.A. appaltante, né – di converso – un diritto dell’aggiudicatario provvisorio [20].
Quindi, se è vero che l’affidamento incolpevole deve essere ingenerato nell’operatore economico da comportamenti (atti) dell’amministrazione che siano ragionevolmente indirizzati in tal senso, ed è vero anche che l’aggiudicazione provvisoria – per sua stessa natura – non può considerarsi provvedimento definitivo, non può che concludersi che questa non sia adatta a determinare nel privato quel livello di affidamento, necessario a fondare a domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale.
4.-Il punto del Tar sui requisiti per ottenere il risarcimento dei danni a titolo di responsabilità precontrattuale.
Nel caso di specie, il tar Milano non ha ritenuto ricorrenti i presupposti per l’accoglimento della domanda di risarcimento come spiegata dalla ricorrente.
Innanzitutto, secondo il Collegio, a difettare è l’illegittimo esercizio del potere di autotutela. O meglio in radice l’esercizio (legittimo o illegittimo) ti tale potere, ritenendo il provvedimento di mero ritiro.
A difettare sarebbe, poi, l’essenziale elemento dell’affidamento incolpevole. In particolare, il Tar esclude che la società avesse potuto riporre un incolpevole affidamento sulla conclusione della gara e sull’aggiudicazione in suo favore, in ragione di una dirimente circostanza fattuale riportata in giudizio: già prima della presentazione della domanda di gara, la ricorrente aveva chiesto alla stazione appaltante di interpretare autenticamente il bando di gara in modo difforme dal dato letterale – proprio in merito al possesso del requisito CE stabilito dal più volte citato art.3 – poiché riteneva che potesse produrre un effetto “irragionevolmente restrittivo della massima partecipazione alla procedura”. Non avendo ottenuto risposta, decideva comunque di partecipare al bando di gara, “pur essendo perfettamente consapevole di dover, a rigore, essere esclusa”, come testualmente ritenuto dal Collegio.
In merito alla qualificazione dell’atto, il Tar Milano conclude che “la rimozione di un atto di gara precedente al provvedimento formale di aggiudicazione – quale è il bando – non può essere qualificata come espressione di un potere di autotutela, da valutarsi ai sensi degli artt. 21- quinquies e 21- nonies l. n. 241/1990”, piuttosto essa costituisce “un mero atto di ritiro, che può appunto intervenire laddove ancora non vi sia stata un’aggiudicazione definitiva” [21].
In ragione di ciò, non ritine che l’amministrazione fosse tenuta a motivare l’atto alla stregua dei requisiti richiesti dall’art. 21 quinquies l. n. 241/1990, vale a dire indicando i sopravvenuti motivi di interesse pubblico o altre ragioni giustificative, né valutando l’interesse dell’amministrazione in comparazione a quello della società, né financo era tenuta a rispettare i limiti temporali posti dall’art. 21 nonies per l’annullamento d’ufficio.
A ciò si aggiunga che il Collegio ritiene il provvedimento di ritiro emanato dalla stazione appaltante congruamente motivato con riferimento alla rilevata invalidità dell’art. 3 del Capitolato speciale d’appalto. Nella motivazione, infatti, spiega che prevedere a pena di esclusione il requisito della marcatura CE per i beni offerti avrebbe, riporta testualmente il Collegio, «comportato un involontario restringimento del mercato degli operatori economici potenzialmente interessati apprendere parte alla procedura». Ciò sarebbe avvenuto in violazione dell’art. 68, comma 4, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (applicabile ratione temporis al caso di specie) a tenore del quale le specifiche tecniche dei prodotti devono garantire pari accesso degli operatori economici alla procedura di aggiudicazione e non devono comportare direttamente o indirettamente ostacoli ingiustificati alla concorrenza.
In proposito, pare doveroso rammentare che – in ogni caso – le ragioni di interesse pubblico sottese all’atto di ritiro della gara, ove effettivamente addotte dall’Amministrazione ed ove plausibili e non affetti da macroscopici vizi logici, sfuggono dal sindacato giurisdizionale [22].
In conclusione, nel caso di specie, il Tar ha ritenuto che venendo meno la configurabilità di un affidamento incolpevole della ricorrente sul provvedimento di aggiudicazione provvisoria, anche in virtù della presupposta conoscibilità della motivazione del ritiro, non potesse configurarsi una responsabilità precontrattuale della stazione appaltante.
In particolare, ha ritenuto che le decisioni prese circa l’emanazione di un nuovo bando di gara e la fornitura tramite proroga tecnica fossero da considerare aspetti del tutto estranei alla fattispecie risarcitoria da responsabilità precontrattuale, poiché nulla hanno avrebbero a che vedere con l’affidamento riposto dalla società offerente circa la conclusione della procedura di gara e la stipulazione del contratto.
Ha, dunque, rigettato la domanda, in linea con la giurisprudenza precedente richiamata in sentenza (e citata nel presente contributo), che dimostra di ritenere tale requisito essenziale ai fini dell’ottenimento del ristoro per il danno eventualmente subito nelle ipotesi in cui l’Amministrazione decida di ritornare sui suoi passi, sia prima che dopo l’aggiudicazione definitiva di una procedura.
[1] Sull’autotutela amministrativa si veda: M.A. SANDULLI, Autotutela, in Libro dell'anno del Diritto, Treccani, 2016; A. CONTIERI, Procedimenti e provvedimenti di secondo grado, in S. COGNETTI, A CONTIERI, S. LICCIARDELLO, F. MANGANARO, S. PERONGINI, F. SAITTA (a cura di), Percorsi di diritto amministrativo, Torino, G. Giappichelli Editore, 2014, p. 445 ss.; F. SAITTA, L’Amministrazione delle decisioni prese: problemi vecchi e nuovi in tema di annullamento e revoca a quattro anni dalla riforma della legge sul procedimento, in G. CASSANDRO, V. CRISAFULLI, A.M. SANDULLI (a cura di), Diritto e società, Padova, Cedam, 2009; F. FRANCARIO, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, 19.04.2017 n.8. F. FRANCARIO, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, 21 ottobre 2015 n. 5; M. TRIMARCHI, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017, p. 189 ss; L. BENVENUTI, L’autotutela amministrativa. Una parabola del concetto, in Diritto e processo amministrativo, 2020, p. 638 ss.
[2] In questo senso si veda anche Cons. Stato, Sez. III, 4 dicembre 2024, n.9701, richiamato in sentenza.
[3] In questi termini Consiglio di Stato, Sez. V n 4349/2024.
[4] Il richiamo testuale è alla pronuncia del Tar Veneto, Sez. II, 6 luglio 2023, n. 10032.
[5] Tar Veneto n. 1003/2023 cit.; in termini, cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 24 ottobre 2024, n. 5632; id., 7 marzo 2024, n. 1537.
[6] cfr. Consiglio di Stato 12/09/2023, n. 8273.
[7] cfr ex multis di recente: Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415; Cons. Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207; Id, 31 dicembre 2019, n. 8920; Id, 29 maggio 2019, n. 3576; Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8
[8] Per una interessante analisi della casistica si veda G. MANFREDI, Annullamento doveroso?, op. cit.
[9] In chiave anche critica si veda: N. POSTERARO, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), in Federalismi.it, 25 ottobre 2017, p. 22; N. POSTERARO, Sui rapporti tra dovere di provvedere e annullamento d’ufficio come potere doveroso, in Federalismi.it, 8 marzo 2017, p. 2. Per l’analisi dell’istituto si veda anche: F. CAMPOLO, Alcuni chiarimenti in merito all’autotutela doverosa di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241 del 1990 (nota a Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415), Giustizia Insieme, 2024; G. MANFREDI, Annullamento doveroso?, in P.A. Persone e Amministrazione, 2017, p. 383 ss.; F. GAFFURI, Note in merito alla doverosità dell’annullamento d’ufficio, in Giurisprudenza Italiana, 2020, p. 751; F.V. VIRZI’, La doverosità del potere di annullamento d’ufficio, in Federalismi.it, 4 luglio 2018, n. 16;
[10] Così G. ZANOBINI, L'attività amministrativa e la legge, in Riv. dir. pubbl., 1924, I, 281 ss., ora anche in Scritti vari di diritto pubblico, Milano, 1955, 203 ss.
[11] G. MANFREDI, Doverosità dell’annullamento vs. annullamento doveroso, in Dir. proc. amm., 2011, 316. Come rilevato da M.A. SANDULLI, Il codice dell’azione amministrativa. Il valore dei suoi principi e l’evoluzione delle sue regole, in ID. (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2017.
[12] In merito si veda: E. ZAMPETTI, Motivazione in re ipsa e autotutela decisoria, in Libro dell’anno del diritto, Treccani, Roma, 2015); A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Giuffrè, 1987, 284,
[13] M.A. SANDULLI, Il risarcimento del danno nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, in Federalismi.it, 06.04.2011 n.7; si veda anche: E. ZAMPETTI, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione dopo l'Adunanza Plenaria n. 7 del 2021, in Giustizia Insieme, 2021.
[14] Consiglio di Stato, Ad. Pl., n. 5 del 4 maggio 2018.
[15] Consiglio di Stato, Ad. Pl., n. 21 del 29 novembre 2021; si veda anche Cons. Stato, Sez.V, 28/11/2023, n. 10221.
[16] In questi termini anche Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5274/2021; Consiglio di Stato, Sez. VII, 10 maggio 2022, n. 3661.
[17] Sul rapporto tra affidamento e autotutela si veda: F. CARINGELLA, Affidamento e autotutela: la strana coppia, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2008, p. 425; V. DETOMASO, L’autotutela amministrativa tra interesse pubblico e legittimo affidamento, in Il Diritto Amministrativo, Anno XVII - n. 09 - Settembre 2025; M. PERRELLI, Autotutela e affidamento, in Rassegna monotematica di giurisprudenza, Ufficio del massimario della Giustizia Amministrativa, 31 dicembre 2022, p. 5; G. TULUMELLO, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, in giustamm.it, 9 maggio 2022.
[18] cfr. T.A.R. Roma, sez. V, 7/5/2024, n. 9012; T.A.R. Napoli, sez. I, 01/12/2021, n.7714; T.A.R. Napoli, sez. I, 05/01/2021, n.69.
[19] C. Stato 12/09/2023, n. 8273.
[20] cfr. sul punto C. Stato n. 8273/2023 cit.
[21] In questi termini anche Cons. Stato, sez. III, 11 dicembre 2024, n. 10008.
[22] Consiglio di Stato Sez. V n 4349/2024; sull’ampiezza del potere di revoca si veda, da ultimo anche TAR Campania- Napoli 01/09/2025, n. 6002.
Sommario: 1. Il rinvio pregiudiziale interpretativo - 2. Qualche dato statistico - 3. L’interpretazione della Corte di cassazione dei requisiti di ammissibilità - 4. … segue: la previa instaurazione del contraddittorio tra le parti - 5. … segue: la rilevanza della questione - 6. … segue: la natura esclusivamente di diritto della questione - 7. … segue: le gravi difficoltà interpretative - 8. … segue: la novità della questione - 9. … segue: la numerosità della questione - 10. Il dialogo tra le Corti in seno al rinvio pregiudiziale interpretativo - 11. Epilogo.
1. Il rinvio pregiudiziale interpretativo
Com’è noto, il d.lgs. 149 del 2022 ha introdotto nel tessuto del codice di rito civile l’art. 363-bis c.p.c., il quale ha disciplinato - con effetto dal 1° marzo 2023 - il rinvio pregiudiziale interpretativo[1], così definito:
«Art. 363-bis. (Rinvio pregiudiziale).
Il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, quando concorrono le seguenti condizioni:
1) la questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e non è stata ancora risolta dalla Corte di cassazione;
2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative;
3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi.
L’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale è motivata, e con riferimento alla condizione di cui al numero 2) del primo comma reca specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili. Essa è immediatamente trasmessa alla Corte di cassazione ed è comunicata alle parti. Il procedimento è sospeso dal giorno in cui è depositata l’ordinanza, salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale.
Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l’enunciazione del principio di diritto, o dichiara con decreto l’inammissibilità della questione per la mancanza di una o più delle condizioni di cui al primo comma.
La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti costituite di depositare brevi memorie, nei termini di cui all’articolo 378.
Con il provvedimento che definisce la questione è disposta la restituzione degli atti al giudice.
Il principio di diritto enunciato dalla Corte è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti.».
È noto che, per affrontare l’innovazione costituita dal rinvio pregiudiziale interpretativo, la Prima Presidenza della Corte si è dotata di un Ufficio questioni pregiudiziali fin dal decreto n. 16 in data 8 febbraio 2023 del Primo Presidente. Attualmente, esso è regolato dalle Tabelle di organizzazione per il quadriennio 2026-2029 della Corte di cassazione, nel seguente testuale tenore:
«PARTE UNDICESIMA
UFFICIO QUESTIONI PREGIUDIZIALI
§ 97. - Compiti dell’Ufficio Questioni Pregiudiziali.
L’Ufficio questioni pregiudiziali (UQP) ha funzioni di istruttoria e supporto alla Prima Presidente per l’esame delle ordinanze di rinvio pregiudiziale dei giudici di merito alla Corte di cassazione ex art. 363-bis c.p.c. e 137-ter, n. 1, disp. att. c.p.c.
§ 98. - Composizione dell’Ufficio.
Sono componenti dell’Ufficio il Direttore dell’Ufficio del Ruolo e del Massimario, il Coordinatore delle Sezioni Unite civili, il Direttore del CED, ciascuno con facoltà di delega.
L’Ufficio si avvale della cancelleria e dei funzionari dell’Ufficio per il processo delle Sezioni Unite civili.
§ 99. - Attività e procedimento.
99.1. Il fascicolo, recante l’ordinanza di rimessione alla Corte è iscritto alla Cancelleria centrale, con apposizione del codice-materia ed è trasmesso all’UQP con assegnazione al Primo Presidente.
99.2. L’Ufficio provvede, entro il termine di 30 giorni dal momento della trasmissione, alla verifica dei requisiti di ammissibilità richiesti dall’art. 363-bis, nn. 1, 2 e 3, c.p.c. acquisendo il parere del presidente titolare della sezione competente per materia, che deve esprimersi entro cinque giorni dalla ricezione della richiesta.
In esito all’istruttoria, l’Ufficio redige sintetica relazione con cui propone alla Prima Presidente l’adozione di decreto di inammissibilità o di assegnazione alla sezione semplice ovvero alle Sezioni Unite per la decisione.
99.3. Il decreto della Prima Presidente di inammissibilità o di assegnazione alla sezione per la decisione è pubblicato sul sito della Corte di cassazione a cura del CED.
99.4. Il decreto di inammissibilità definisce il procedimento e prende un numero di pubblicazione.
In caso di assegnazione alla sezione, le Sezioni Unite o la sezione semplice, investite della questione, fissano il ricorso in pubblica udienza, con requisitoria scritta del Procuratore Generale e possibilità, per le parti, di depositare memorie nei termini di cui all’art. 378 c.p.c.
99.5. Con il provvedimento che definisce la questione è disposta la restituzione degli atti al giudice che ha disposto il rinvio.».
2. Qualche dato statistico
Grazie alla preziosa collaborazione dei tre componenti di diritto dell’Ufficio Questioni Pregiudiziali (come visto: del Direttore dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo, del Coordinatore delle Sezioni Unite civili e del Direttore del CED della Corte di cassazione; ed a ciascuno dei quali va il sentito ringraziamento di chi scrive) e nell’ambito di una cooperazione istituzionale per la predisposizione di un intervento ad un prossimo corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura anche su questo specifico tema, sono stati acquisiti alcuni dati assai significativi sull’effettiva implementazione del rinvio pregiudiziale interpretativo ex art. 363-bis c.p.c..
A tutto il 19/11/2025 (e, quindi, nei primi due anni e otto mesi di vigenza della norma che lo ha introdotto) sono pervenute alla Corte 85 ordinanze di rinvio pregiudiziale interpretativo: 28 nel 2023, 31 nel 2024 e 26 nel 2025; di queste sono pendenti 12, di cui 2 sospese per rimessione alla Corte costituzionale e quattro alle Sezioni Unite (di cui 3 a udienza già fissata entro dicembre del corrente anno e 1 ancora da assegnare). Fino alla stessa data sono stati pronunciati 47 decreti di inammissibilità e 33 di ammissibilità con contestuale assegnazione a Sezione; dei rinvii pregiudiziali interpretativi reputati ammissibili[2], sette sono stati assegnati alla Sezione Prima, due alla Sezione Seconda, quattro alla Sezione Terza, due alla Sezione Lavoro, quattro alla Sezione Tributaria e quattordici alle Sezioni Unite.
I tempi di definizione, in caso di assegnazione alle sezioni, hanno visto uno dei primi rinvii pregiudiziali definito con sentenza in soli 114 giorni dal deposito dell’ordinanza di rinvio nella cancelleria della Corte; ma bisogna anche ammettere che la complessità degli adempimenti da espletare ha condotto ad una notevole dilatazione dell’intervallo, comunque - almeno finora - pari a 259 giorni in valore medio. In un caso, come si avrà modo di vedere, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale delle norme coinvolte dalla questione oggetto di rinvio pregiudiziale, per cui i tempi di definizione saranno ulteriormente dilatati per la durata dell’incidente di costituzionalità.
I tempi di definizione, in caso di inammissibilità, sono stati invece davvero contenuti: la media è stata, infatti, di 47 giorni, con punte minime fulminee (di soli 8 giorni) e massime di 76: in ogni caso, di gran lunga inferiore ai 90 giorni fissati - peraltro, con termine di evidente natura ordinatoria - al primo presidente per la reiezione in rito del rinvio.
Tutti i provvedimenti - sia quelli di inammissibilità che quelli, non numerati e non altrimenti rinvenibili nelle ordinarie banche dati, di ammissibilità ed assegnazione alle sezioni (unite o semplici), ma pure i provvedimenti adottati a definizione del procedimento di rinvio pregiudiziale interpretativo - sono pubblicati sul sito istituzionale della Corte e sono, pertanto, liberamente accessibili a chiunque.
3. L’interpretazione della Corte di cassazione dei requisiti di ammissibilità
L’attribuzione di un inedito e autentico potere giurisdizionale proprio ed autonomo a quello che è configurato quale unico organo monocratico della Corte di cassazione - e, cioè, al suo primo presidente - implica che le sue pronunce, rese tutte de plano e senza previo contraddittorio nella forma di decreto, integrano il formante giurisprudenziale dell’istituto, dal punto di vista strettamente processuale. Il dato è confermato dalla pressoché totale conferma, da parte dei Collegi investiti dei rinvii pregiudiziali che avevano superato il vaglio preliminare di ammissibilità da parte della Prima Presidenza, della sussistenza dei relativi requisiti: pertanto, eccettuato il solo caso di inammissibilità sopravvenuta e quello di inammissibilità da rilievo del difetto di legittimazione passiva dell’unico convenuto, può dirsi che l’elaborazione dei requisiti di ammissibilità si è avuta in forza dei decreti del Primo Presidente, sia di quelli che quei requisiti hanno escluso, sia di quelli che gli stessi requisiti hanno riconosciuto sussistenti.
La peculiarità dell’istituto in esame può allora cogliersi, con ogni evidenza, in un inedito dialogo tra il giudice del merito e la Prima Presidenza della Corte di cassazione, individuandosi all’interno della Corte stessa una solo potenziale dialettica tra la Prima Presidenza e singole Sezioni (Unite o semplici) investite della trattazione del ricorso.
Riferita, ad ogni modo, l’interlocuzione con la Corte alla medesima nel suo complesso (e, cioè, prescindendo dall’articolazione tra Prima Presidenza e singole Sezioni), proprio questa interazione connota l’istituto quale espressione di una cooperazione tra giudici (c.d. Richterklage). La sua peculiarità sta nel fatto che il giudice di merito, anziché decidere la controversia liberamente in punto di diritto, altrettanto liberamente sceglie di rimettere un quesito di diritto alla Corte di legittimità ponendosi con quest’ultima in dialogo, dopo aver preventivamente instaurato il contraddittorio sul punto con le parti costituite. Il ruolo di queste è, comunque, quello di somministrare al decidente ulteriori elementi da valutare, ma non assurge mai a condizione della rimessione, sicché il loro dissenso non è vincolante per il giudice, né gli impedisce la rimessione. Tuttavia, in tal caso la conseguenza peculiare per le parti è che, se il giudice decide di avviare il dialogo tra corti e di effettuare la rimessione pregiudiziale e la Corte di legittimità la risolve, limitatamente a tale questione decisa ex art. 363-bis c.p.c., la parte interessata - pur non potendo fare nulla per evitare la Richterklage - perderà la possibilità di ottenere una pronuncia della Cassazione in sede di impugnazione[3].
È, quindi, un dialogo tra i soggetti investiti del potere giurisdizionale: il cui esercizio, normalmente, si sviluppa in senso diacronico, prevedendo l’intervento di quello investito di funzioni nomofilattiche solo in tempo successivo (sovente anche di molto) e, comunque, ad iniziativa delle parti che risultassero insoddisfatte delle scelte dei giudici del merito o che, ad ogni buon conto, non preferiscano comporre autonomamente la loro controversia, dando un assetto diverso ai loro rispettivi e contrapposti interessi.
Si tratta, però, di una facoltà e non di una potestà (normalmente connotata da profili di doverosità), rimanendo appunto discrezionale la scelta del singolo giudice di merito: e diventa importante circoscrivere con attenzione i limiti di tale facoltà ed i presupposti del rinvio pregiudiziale, al fine di impostare correttamente l’istituto e prevenirne un impiego scorretto o non funzionale allo scopo per il quale è stato introdotto. Al contempo, la connotazione che all’istituto imprime la Corte di cassazione lo erige a nuovo strumento di diretto coinvolgimento del giudice di merito nella formazione del precedente e, quindi, di un inedito suo contributo alla certezza del diritto.
4. … segue: la previa instaurazione del contraddittorio tra le parti
Nonostante le serie perplessità della dottrina, la previa instaurazione del contraddittorio sul rinvio pregiudiziale è stata, finora, reputata non indispensabile ai fini della ritualità della sua proposizione[4]: e tanto in considerazione del fatto che il contraddittorio preventivo può essere recuperato nella fase dinanzi alla Suprema Corte con le memorie anteriori alla pubblica udienza e con la discussione orale. La conclusione è stata confermata nel caso in cui nemmeno sia prospettato dalle parti uno specifico pregiudizio quale conseguenza di tale omissione procedurale: l’inosservanza della regola procedurale della previa audizione delle parti può dirsi priva di conseguenze se non altro nel caso in cui, in relazione alle peculiarità della fattispecie, le parti sono state poste in grado di espletare pienamente le proprie difese anche sul punto (della sussistenza dei requisiti di ammissibilità del rinvio, oltre che sul merito della relativa questione) in sede di preparazione della - e partecipazione alla - pubblica udienza di discussione; e tale circostanza consente di dar corso al procedimento di rinvio pregiudiziale, caratterizzato dalla pregnanza dell’interesse pubblico all’utile estrinsecazione della nomofilachia in forma preventiva[5].
5. … segue: la rilevanza della questione
Indispensabile requisito del rinvio pregiudiziale è la rilevanza, cioè l’idoneità della questione, con esso sottoposta alla Corte, a definire (anche solo parzialmente) la domanda: riguardo alla quale può, descrittivamente, concludersi che può applicarsi l’elaborazione della giurisprudenza costituzionale quanto alle questioni di legittimità sottoposte al Giudice delle Leggi.
A tal fine, è indispensabile, come da subito rimarcato, che la motivazione dia conto in modo adeguato dei termini della controversia, in modo da apprezzare l’idoneità della questione a definirla in tutto o in parte[6]: non potendo superare il vaglio di ammissibilità una motivazione che si articoli su di una ricostruzione della vicenda, sostanziale e processuale, oggetto di cognizione da parte del giudice rimettente che sia scarna e, complessivamente, inidonea a formulare il riscontro del nesso di necessaria implicazione tra il dubbio interpretativo e la decisione anche parziale del giudizio[7]. Questo consente di valutare immediatamente se, in relazione allo sviluppo del singolo giudizio ed alle difese ancora esperibili dalle parti, la questione oggetto del rinvio sia concretamente in grado di definire la domanda[8].
Sul punto, si segnala come, di recente, è stata negata l’ammissibilità del rinvio, formulato quanto ad una questione di diritto certamente idonea a definire la domanda subordinata proposta nell’ambito del giudizio di merito, ma prospettata senza un esame, sia pure condotto in base ad un’indagine prima facie (o, comunque, allo stato degli atti), delle domande principali: infatti, l’esame della domanda subordinata potrebbe restare assorbito e, quindi, il quesito pregiudiziale finirebbe con il risultare teorico e privo di concreta incidenza, se una delle domande poste in via principale dovesse essere accolta[9].
6. … segue: la natura esclusivamente di diritto della questione
Il requisito circoscrive il rinvio pregiudiziale interpretativo alle sole questioni giuridiche, risultandone, pertanto, escluse quelle di fatto e quelle miste, di fatto e di diritto.
Al riguardo, può giovare un mero richiamo all’elaborazione dei principi relativi alla delimitazione dell’ambito di rilievo ufficioso di questioni senza previa loro sottoposizione al contraddittorio delle parti[10]; in estrema sintesi, può dirsi poi che esula dall’ambito di una questione di diritto una sussunzione della fattispecie concreta entro quella astratta.
In concreto, è stato considerato inammissibile un rinvio fondato sulla richiesta di dipanare il dubbio relativo alla natura dell’intervento dispiegato da una compagnia di assicurazioni, ossia se questo, in base alle deduzioni delle parti e ai fatti allegati, potesse essere qualificato come autonomo o adesivo dipendente. In tal caso, la Prima Presidente ha ritenuto carente il requisito della questione giuridica, poiché quello che veniva richiesto era di risolvere in concreto un preliminare problema processuale attraverso l’apprezzamento dei fatti di causa e la sussunzione degli stessi nella disciplina da ritenersi coerentemente applicabile[11].
In quest’ottica, si è reputato inammissibile un rinvio che si basava sulla richiesta di individuare, dal punto di vista meramente astratto, quale fosse la norma applicabile nel dubbio esistente tra due disposizioni riguardanti la disciplina della prescrizione del diritto relativa ai contratti in materia di forniture idriche[12] (41).
E altrettanto estranea ad una questione di diritto è stata valutata l’interpretazione della volontà contrattuale delle parti, la cui analisi è preliminare rispetto a quella della disciplina normativa da applicare: tale operazione richiede un procedimento bifasico condotto, da un lato, in punto di diritto, per quanto riguarda l’individuazione e l’applicazione dei criteri di ermeneutica legale e, dall’altro, in punto di fatto in merito alla selezione degli argomenti ed all’accertamento in concreto della volontà delle parti[13].
In definitiva, ogniqualvolta il rinvio pregiudiziale implichi sostanzialmente la risoluzione di una questione di fatto, esso è inammissibile[14].
7. … segue: le gravi difficoltà interpretative
È questo, probabilmente, il requisito su cui maggiormente si è concentrata l’attenzione della Prima Presidenza.
Il presupposto di ammissibilità del rinvio pregiudiziale in esame è integrato dalla gravità interpretativa e dalla diffusività del contrasto, che sono elementi di primario rilievo, in quanto direttamente incidenti sull’effetto virtuoso del non rallentamento della tutela giudiziale dei diritti cui è finalizzata la giurisdizione civile: questa finalità, tuttavia, non si attaglia ad un ogni dubbio interpretativo. Questo, invece, deve assurgere a un livello di serietà idoneo a impedire un arretramento del potere-dovere decisorio del giudice: non possono darsi rinvii pregiudiziali puramente esplorativi o ipotetici[15].
Il rinvio pregiudiziale è inammissibile se il giudice a quo si è limitato a prospettare una perplessità esegetica che, sebbene non esaminata in precedenti di legittimità, non ha riscontro in un contrasto generatosi nella giurisprudenza di merito o nell’esistenza effettiva di un dibattito dottrinale sul punto, esistendo, peraltro, pronunce sul tema del rapporto tra termini processuali e l’ipotesi di differimento d’ufficio da cui poter trarre argomenti per ricostruire il quadro entro il quale far maturare la scelta di interpretazione della legge, che è dovere indeclinabile del giudice. Il rinvio pregiudiziale non può essere utilizzato per ottenere un avallo interpretativo della Corte di legittimità al fine di evitare una revisione della decisione in sede di impugnazione, così da inaridire il compito di interpretare la legge che è dovere indeclinabile del giudice. L’assoggettamento del rinvio pregiudiziale a determinate condizioni e, in particolare, a quella della grave difficoltà interpretativa della questione si giustifica proprio per evitare il rischio di appiattimento dell’esercizio ermeneutico da parte dei giudici remittenti e salvaguardare l’effetto virtuoso del non rallentamento della tutela giudiziale dei diritti cui è finalizzata la giurisdizione civile[16].
Neppure sussiste una complessità esegetica, idonea a giustificare il rinvio pregiudiziale, nell’ipotesi in cui sia necessario operare una scelta tra due soluzioni opposte e astrattamente configurabili, ma che non hanno generato un dibattito giurisprudenziale[17], poiché la grave difficoltà nell’interpretazione non può derivare dalla - e risiedere nella - mera possibilità di scelta tra due soluzioni contrapposte. Pertanto, non può il giudice rimettente limitarsi a prospettare una perplessità interpretativa che - sebbene non rinvenga precedenti di legittimità - non trova riscontro neppure in un contrasto generatosi nella giurisprudenza di merito o nell’esistenza effettiva di un dibattito dottrinale sul punto[18].
Ed è sicuramente esclusa l’ammissibilità del rinvio che sia vòlto ad ottenere un avallo interpretativo della Corte al fine di richiedere una rivalutazione di un orientamento accolto dal giudice di legittimità[19]. Con un’autentica statuizione ex professo sul punto, la Prima Presidenza ha costantemente ribadito che una tale declinazione dell’istituto di nuovo conio finirebbe con l’inaridire il compito di interpretare la legge che è dovere indeclinabile del giudice e con il limitare, ingiustificatamente, la formazione progressiva e dialettica del procedimento interpretativo mediante il contributo della giurisdizione nei suoi diversi gradi e della dottrina[20]. L’assoggettamento del rinvio pregiudiziale a determinate condizioni e, in particolare, a quella della grave difficoltà interpretativa della questione si giustifica proprio per evitare il rischio di appiattimento dell’esercizio ermeneutico da parte dei giudici remittenti e salvaguardare l’effetto virtuoso del non rallentamento della tutela giudiziale dei diritti cui è finalizzata la giurisdizione civile. Insomma, va evitato che il nuovo strumento di nomofilachia preventiva si risolva in un disimpegno del giudice del merito dal proprio dovere di decidere la causa e di conoscere e applicare la legge e il diritto[21].
Allo stesso modo, il rinvio pregiudiziale non può essere impiegato per sollecitare da parte della Corte di cassazione un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia[22]: in sostanza, per devolvere scientemente - e, in sostanza, appunto inammissibilmente delegare - alla Corte l’esercizio di una potestà già spettante istituzionalmente al giudice rimettente. Analogo discorso è a farsi per la questione di legittimità costituzionale.
A questo riguardo, tuttavia, si vedrà come, nell’esercizio della sua potestà di pronunciare sul rinvio, di certo non sia precluso alla Corte di cassazione di risolversi nell’uno o nell’altro senso: ma, appunto, tanto può discendere soltanto dalla valutazione della Corte stessa dei termini della questione e, ovviamente, dal suo apprezzamento dell’indispensabilità di una scelta di tale contenuto ai fini della pronuncia sul rinvio pregiudiziale[23].
Infine, la centralità del requisito è sottolineata da quei decreti di inammissibilità che esaltano l’impegno motivazionale richiesto a tal fine dal testo normativo per l’illustrazione delle diverse opzioni interpretative in gioco, quale test della serietà del dubbio ermeneutico, che deve assurgere a un livello di serietà idoneo a impedire un arretramento del potere-dovere decisorio del giudice[24].
8. … segue: la novità della questione
Il concetto di novità della questione e di carenza di una sua risoluzione, poi, ha avuto una sensibile elaborazione, che ha, tuttavia, visto consolidarsi alcuni punti fermi.
In primo luogo, il giudice di merito non può considerare la questione come nuova o non risolta per il solo fatto che manca un precedente esattamente in termini, e massimato, rispetto alla specifica ipotesi che fa sorgere il dubbio interpretativo. Non si dà, cioè, novità della questione quando il giudice del merito sia nella condizione di applicare il principio già affermato dalle Sezioni Unite, e rinvenibile nelle pieghe della motivazione, a situazioni di fatto che presentano caratteri riconducibili al medesimo principio[25].
In altri termini[26], la “novità” non può desumersi dalla mera mancanza di precedenti di rilievo nomofilattico riguardanti fattispecie identiche, consistendo l’impegno interpretativo, proprio nella capacità di conformare i principi già affermati a situazioni di fatto che presentano caratteri riconducibili a tali principi così da consentirne, mediante la mediazione ermeneutica, l’applicazione diretta, parziale o per contrasto.
Ora, ad integrare la non novità o la carenza di risoluzione della questione è sufficiente anche una latente divergenza tra le decisioni delle diverse sezioni della Suprema Corte, poiché si deve valorizzare il riferimento testuale della predetta norma codicistica rispetto a quello della legge delega, che, nei suoi principi e criteri direttivi, richiedeva che la questione non fosse stata ancora “affrontata” dalla Corte di legittimità[27].
Vi è solo da precisare che, se l’ammissibilità del rinvio pregiudiziale è consentita in presenza di un contrasto - latente o meno - di carattere sincronico, rispetto al quale un’esigenza di chiarezza definitiva può porsi, diversamente è da reputarsi allorquando (come nella specie) una evoluzione diacronica degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità abbia superato una propria precedente ed isolata affermazione di diritto, anche a prescindere dall’intervento delle Sezioni Unite, che, comunque, nella materia in esame si sono pure certamente espresse[28].
E, ai fini dell’individuazione della novità o meno della questione, possono giovare pure le conclusioni della giurisprudenza di legittimità in punto di individuazione di quel peculiare “orientamento”, da preservarsi ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c.: potendo a tal fine bastare anche un solo precedente, se univoco, chiaro e condivisibile[29].
Merita molta attenzione la configurazione del rinvio pregiudiziale interpretativo quale strumento per porre rimedio, nell’ambito di una questione in apparenza “risolta” (e, per di più, con l’intervento del Supremo Collegio nella sua massima espressione nomofilattica), ai disallineamenti che si siano verificati nella giurisprudenza a sezioni semplici in uno o più profili applicativi: è, appunto, il caso preso di recente a presupposto per l’ammissione del rinvio[30], con l’icastica precisazione della ratio (e, verrebbe da dire, della stessa funzione) del procedimento incidentale in esame, intesa nella predisposizione di un efficace strumento di prevedibilità dell'interpretazione delle norme e di prevenibilità dei conflitti, così da invocare l’intervento nomofilattico in funzione dell’uniforme interpretazione delle norme, anche ove non possa affermarsi che la giurisprudenza non abbia già intercettato la questione. A stretto rigore, del resto, non può definirsi “risolta” una questione che, benché affrontata dalle Sezioni Unite, continui a dar luogo ad applicazioni diversificate - quando non dissonanti - dei principi da quelle affermati. Starà, ora, alla giurisprudenza presidenziale in sede di delibazione dell’ammissibilità e, se del caso, a quella delle sezioni investite dei rinvii così ammessi, verificare sulla portata e sull’ampiezza del riconoscimento di un tale ruolo, idoneo a comporre perfino i contrasti interni alla giurisprudenza di legittimità.
Infine, trattandosi di un requisito del rinvio pregiudiziale interpretativo, la non novità deve persistere al momento della sua disamina, vuoi da parte della Prima Presidenza[31], vuoi da parte del Collegio che ne sia comunque investito[32]: e sia nel caso in cui nel frattempo la questione stessa è stata “risolta” dalla Corte di cassazione (in tali casi equivalendo la pronuncia di inammissibilità, benché sopravvenuta, ad una restituzione degli atti al giudice a quo: il quale, beninteso, potrà riproporre la questione, ove, fattosi carico di riesaminarla alla stregua delle sopravvenienze, la ritenga ancora dotata dei requisiti per sollecitarvi il rinvio pregiudiziale interpretativo), sia in quello in cui sia sopravvenuta una modifica normativa[33].
9. … segue: la numerosità della questione
Per quanto riguarda il requisito relativo alla possibilità che la questione possa porsi in numerosi giudizi, da un lato, è stato affermato che detto elemento non può realizzarsi con riguardo all’interpretazione di una disciplina emergenziale stante la sua limitata applicazione temporale[34] e, dall’altro lato, che tale profilo si deve reputare carente anche nell’ipotesi di una questione emersa nella giurisprudenza territoriale solo in quattro occasioni nel corso degli ultimi sedici anni e che, al pari, non sono numerose le controversie pendenti[35].
Ora, il requisito della suscettibilità “di porsi in numerosi giudizi” è stato descritto in termini di “numerosità” o di “serialità”: ma deve convenirsi con chi ritiene più aderente alla ratio dell’istituto la prima di tali espressioni, nel senso di rappresentare una questione suscettibile di ripetersi in una svariata quantità di casi; invece, poiché la “serialità” è oggi generalmente intesa come riferita alle cause massive, intorno a cui sono costruite le azioni collettive, l’effetto sarebbe quello di un’interpretazione ingiustificatamente restrittiva dell’ambito di applicazione del rinvio pregiudiziale interpretativo[36].
Si tratta, tuttavia, di una valutazione eminentemente discrezionale e, al contempo, affidata pure a nozioni di comune esperienza, perfino generalizzabile per intere categorie di contenzioso[37]: per cui, al di fuori di questa, diviene necessario almeno menzionare la pendenza di ulteriori contenziosi aventi ad oggetto la medesima questione, se non pure menzionare precedenti di merito, o comunque altri elementi in base ai quali suppore l’esistenza di un interesse generale allo svolgimento in anticipo, da parte della Corte di cassazione, del compito di indirizzo della giurisprudenza[38].
È, in definitiva, questo l’elemento in cui maggiormente si estrinseca la discrezionalità della Corte, nella valutazione - cioè - dell’effettiva rilevanza nomofilattica o meno della questione. Sulla serialità, quindi, la Corte può sostanzialmente decidere se decidere.
10. Il dialogo tra le Corti in seno al rinvio pregiudiziale interpretativo
Al fine della pronuncia del principio di diritto, poi, la Corte di cassazione potrebbe imbattersi in una o più questioni a loro volta pregiudiziali, in quanto in grado di condizionare il responso che a quella viene sollecitato dal giudice rimettente e che sia reputato, anche dal Collegio decidente, idoneo a risolvere una questione non ancora risolta, di mero diritto, connotata da gravi difficoltà ermeneutiche e, infine, (potenzialmente o effettivamente) seriale.
Tanto implica che, ove la Corte, affrontando tale questione, per risolverla ritenga di non avere alternativa all’applicazione di norme di cui però ipotizzi la non conformità alla Carta fondamentale o al diritto eurounitario, sarà necessario attivare l’incidente istituzionalmente previsto in ordine alla relativa questione: o sollevando, appunto, la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale, oppure disponendo il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
La Corte di cassazione si è interrogata espressamente sull’ammissibilità dell’incidente di costituzionalità nel corso del procedimento sul rinvio pregiudiziale interpretativo, per risolverla in senso affermativo[39]. A tal fine, si è reputata estensibile l’ampia argomentazione sviluppata dalla Corte costituzionale per giungere ad analoga conclusione di ammissibilità dell’incidente di costituzionalità in sede di pronuncia del principio di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, co. 3, c.p.c.[40]: «così com’è indubitabile che la Corte di cassazione sia organicamente inserita nell’ordine giudiziario, altrettanto indubitabile è l’inerenza alla funzione giurisdizionale dell’enunciazione del principio di diritto da parte del giudice di legittimità, quale massima espressione della funzione nomofilattica che la stessa Corte di cassazione è istituzionalmente chiamata a svolgere. Va del resto esclusa la necessità che il procedimento a quo si concluda con una decisione che abbia tutti gli effetti usualmente ricondotti agli atti giurisdizionali. La funzione nomofilattica svolta dalla Corte di cassazione con l’enunciazione del principio di diritto, ai sensi dell’art. 363, terzo comma, c.p.c., costituisce, infatti, espressione di una giurisdizione che è (anche) di diritto oggettivo, in quanto volta a realizzare l’interesse generale dell’ordinamento all’affermazione del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto. L’accesso al sindacato di costituzionalità attraverso il giudizio di cui all’art. 363, terzo comma, c.p.c., se non determina quindi alcun superamento del carattere pregiudiziale della questione, neppure modifica il modello incidentale del controllo di legittimità. L’incidentalità, infatti, discende dal compito della Corte di cassazione di enunciare il principio di diritto sulla base della norma che potrà risultare dalla pronuncia di illegittimità costituzionale e che sarà, in ogni caso, “altro” rispetto ad essa. È in tal modo che si realizza l’interesse generale dell’ordinamento alla legalità costituzionale attraverso l’incontro ed il dialogo di due giurisdizioni che concorrono sempre - e ancor più in questo caso - alla definizione del diritto oggettivo. Ed è un dialogo che si rivela particolarmente proficuo, specie laddove sia in gioco l’estensione della tutela di un diritto fondamentale.». Ed è parso agevole concludere per l’estensione di tale conclusione, visto che il procedimento ex art. 363-bis c.p.c. «esalta il ruolo nomofilattico che è proprio della Corte di cassazione» almeno nella stessa misura dell’enunciazione del principio di diritto ex art. 363, comma 3, c.p.c.
L’indubbia protrazione dei tempi di definizione del rinvio pregiudiziale interpretativo è, tuttavia, una conseguenza necessitata del riconoscimento della pregnanza della questione, evidentemente esaminata fino a giungere all’unica conclusione possibile (in ossequio al principio di doveroso tentativo di previa interpretazione conforme, sia alla Costituzione che al diritto eurounitario): ciò che avrà, per contropartita, l’indubbio vantaggio di una decisione suscettibile perfino dell’efficacia erga omnes - che travalica, quindi, di gran lunga l’ambito di quella del principio di diritto, benché pronunciato ex professo - propria delle pronunce della Corte di Lussemburgo o, se di accoglimento, della Corte costituzionale, ad evidente vantaggio dell’ordinamento nel suo complesso e, quindi, in piena estrinsecazione della funzione nomofilattica.
11. Epilogo
Il quadro che se ne ritrae è, al momento, quello di un accorto impiego di uno strumento processuale che si rivela, complessivamente e con cautela, all’altezza del compito titanico di contribuire effettivamente a deflazionare il contenzioso esistente. Ne risulta smentito, almeno ad oggi, ogni timore di deriva autoritaria della Corte di cassazione o anche solo di aggravamento del suo carico.
Si tratta, invece, di uno strumento che si inserisce in un dialogo nuovo tra giurisprudenza di merito e giurisprudenza di legittimità, una inedita cooperazione reciprocamente propulsiva o perfino proattiva e, comunque, virtuosa: con esso, per la prima volta, il giudice del merito è chiamato a concorrere, ma con consapevolezza e senza remissività, con quello di legittimità ad individuare gli interventi di nomofilachia.
Può definirsi un intervento che si inserisce in un costante - e ormai ventennale - processo di riscoperta della nomofilachia e, con essa, della forza del precedente, in un evidente sforzo di ammodernamento ed efficientamento della risposta alla sempre crescente domanda di giustizia: del resto, l’esigenza della prevedibilità della giurisprudenza (quale elemento di un più complessivo quadro di prevedibilità del diritto, prima di ogni altra cosa a garanzia della parità di trattamento e a protezione dall’arbitrio di ogni genere) sta reclamando sempre più attenzione.
Una maggiore o anche solo adeguata prevedibilità della risposta di giustizia potrebbe consentire di respingere le tentazioni di uniformazione intollerabili e pericolose, soprattutto in tempi in cui strumenti tecnologici prima impensabili possono offrire potenzialità inesplorate e facili scappatoie di abdicazione e rinuncia all’insopprimibile umanità delle attività di decisione e risoluzione delle controversie.
Occorre, quindi, una giurisprudenza in grado di autorganizzarsi in modo razionale, riconosciuto un ruolo propulsivo alla nomofilachia intesa in senso laico e plurale, ma pur sempre effettivo; in grado, allora, di offrire ai Cittadini una risposta, adeguata ai tempi odierni, a quella loro sempre crescente domanda di giustizia: in definitiva, una risposta di giustizia che sia tempestiva, prevedibile, consapevole e - al contempo - flessibile e sensibile alle esigenze freneticamente dinamiche di una moderna società democratica.
[1] La letteratura è già molto ampia e si rinuncia a fornire indicazioni bibliografiche approfondite.
Nell’immediatezza dell’entrata in vigore del d.lgs. 149/22 si possono segnalare, tra i molti (e in ordine alfabetico): M. Acierno- R. Sanlorenzo, La Cassazione tra realtà e desiderio. Riforma processuale e ufficio del processo: cambia il volto della Cassazione?, in Questione Giustizia, 3/2021, p. 96; A. Briguglio, Esperienze applicative del rinvio pregiudiziale interpretativo ex art. 363 bis c.p.c., in Il processo, 2023, pp. 483 ss. e 965 ss.; B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, www.giustiziainsieme.it, 2021; F. De Stefano, Le modifiche al giudizio di legittimità, in Commentario sistematico al nuovo processo civile, a cura di R. Masoni, Milano, 2023, pp. 268 ss.; C.V. Giabardo, In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in www.giustiziainsieme.it, 2021; G. Scarselli, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, ibidem; E. Scoditti, Brevi note sul nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione, in Questione Giustizia, 3/2021, p. 105.
[2] Secondo i dati statistici cortesemente forniti nell’ambito della su richiamata cooperazione istituzionale:
1. Rg. 6534/23 (Corte d’appello Napoli) - Seconda Sezione civile - Cass. n. 21876/23
2. Rg. 6803/23 (Corte d’appello Napoli) - Seconda Sezione civile - Cass. n. 21874/23
3. Rg. 7201/23 (CGT I grado Agrigento) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 34851/23
4. Rg. 10072/23 (Tribunale Taranto) - Sezione Lavoro - Cass. n. 29961/23
5. Rg. 11906/23 (Tribunale Treviso) - Prima Sezione civile - Cass. n. 28727/23
6. Rg. 12668/23 (Tribunale Roma) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 3452/24
7. Rg. 13777/23 (Tribunale Bologna) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 11399/24
8. Rg. 15340/23 (Tribunale Salerno) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 15130/24
9. Rg. 16260/23 (Tribunale Milano) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 12449/24
10. Rg. 16885/23 (Tribunale Parma) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 12974/24
11. Rg. 16910/23 (CGT I grado Piacenza) - Sezione Tributaria - Cass. n. 21883/24
12. Rg. 16915/23 (CGT I grado Piacenza) - Sezione Tributaria - Cass. n. 21883/24
13. Rg. 19606/23 (Tribunale Brescia) - Prima Sezione civile - Cass. n. 22914/24
14. Rg. 19676/23 (Tribunale minorenni Lecce) - Prima Sezione civile - Cass. n. 11688/24
15. Rg. 1200/24 (Tribunale Napoli) - Terza Sezione civile - Cass. n. 29253/24
16. Rg. 1648/24 (Tribunale Bologna) - Prima Sezione civile - Cass. n. 18773/24
17. Rg. 2098/24 (Tribunale L’Aquila) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 23093/25
18. Rg. 11382/24 (Tribunale Venezia) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 23093/25
19. Rg. 14335/24 (CGT I grado Napoli) - Sezione Tributaria - Cass. n. 7495/25
20. Rg. 14533/24 (Tribunale Roma) - Prima Sezione civile - Cass. n. 33398/24
21. Rg. 15074/24 (CGT II grado del Piemonte) - Sezione Tributaria - Cass. n. 7965/25
22. Rg. 16029/24 (Corte d’appello Firenze) - Prima Sezione civile - Cass. n. 12838/25
23. Rg. 17439/24 (Tribunale Siracusa) - Sezioni Unite civili - Cass. n. 5968/25
24. Rg. 24726/24 (Tribunale Milano) - Terza Sezione civile - Cass. n. 28513/25
25. Rg. 4546/25 (Tribunale Lecce) - Sezione Lavoro - Cass., ord. interl., n. 24662/25
26. Rg. 4771/25 (Tar Genova) - Sezioni Unite civili - udienza 25/11/25
27. Rg. 4764/25 (Tar Genova) - Sezioni Unite civili - udienza 25/11/25
28. Rg. 7497/25 (Tribunale Pavia) - Terza Sezione civile - Cass., ord. interl., n. 27111/25
29. Rg. 7546/25 (CGT I grado Vicenza) - Sezioni Unite civili - udienza 16/12/25
30. Rg. 10524/25 (Tribunale Venezia) - Sezioni Unite civili
31. Rg. 13309/25 (Tribunale Venezia) - Prima Sezione civile - Cass. n. 29593/25
32. Rg. 15611/25 (Tribunale Milano) - Terza Sezione civile - udienza 16/01/26
33. Rg. 16647/25 (Tribunale Siracusa) - Sezioni Unite civili
[3] Così, testualmente, E. D’Alessandro, Il rinvio pregiudiziale in Cassazione, in Il processo, 1, 2023, p. 51.
[4] Cass., Sez. U., 29/05/2024, n. 15130.
[5] Espressamente in tali sensi Cass., Sez. U., 6/03/2025, n. 5968, la quale statuisce che “non rileva che le parti non siano state previamente sentite sulla specifica eventualità di procedere ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. e - tra l’altro - sui requisiti di ammissibilità del relativo procedimento, poiché nessuna irreversibile lesione dei diritti di difesa delle parti è stata, quanto meno nel caso di specie, nemmeno prospettata quale conseguenza della mancata previa instaurazione del contraddittorio sulla specifica questione della sussistenza dei presupposti del rinvio pregiudiziale.”.
[6] Così, fin da Cass. (decr.), 10/05/2023, n. 12522, è stata esclusa la rilevanza quando manchi totalmente la sintetica illustrazione dei fatti di causa e della conseguente incidenza della questione pregiudiziale sulla decisione.
[7] Cass. (decr.), 3/04/2025, n. 8794. Ancora, è stata esclusa la rilevanza della questione dinanzi ad una mera deduzione teorica circa la necessità di stabilire se il giudice rimettente abbia o meno la competenza funzionale a decidere sulla domanda subordinata: Cass. (decr.), 10/07/2025, n. 18925.
[8] Tanto è stato escluso da Cass. (decr.), 25/09/2024, n. 25645, che, con un penetrante controllo dello stato della causa, ha concluso nel senso che il rinvio pregiudiziale è stato disposto prematuramente, poiché il suo esito non avrebbe incidenza alcuna sui già definiti termini in cui, al momento, la causa dovrebbe essere decisa.
[9] Cass. (decr.), 9/04/2025, n. 9301: si è reputato applicabile il medesimo principio elaborato in sede di giurisprudenza costituzionale, la quale, sin dalla sentenza n. 170 del 1986, ha avuto occasione di precisare che la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione ad una domanda proposta nel giudizio a quo in via subordinata è da ritenere motivata sulla rilevanza, allorché il giudice rimettente abbia preso in considerazione le altre istanze, formulate in via principale, rilevando espressamente, nell’ordinanza di rimessione, che esse non potevano trovare accoglimento.
[10] Tra le altre, merita segnalazione Cass., Sez. U., 30/09/2009, n. 20935; tra le più recenti applicazioni si veda Cass. 9/01/2024, n. 822. Le questioni miste, in linea di grande approssimazione, possono definirsi quelle che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese.
L’obbligo del giudice di stimolare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio, stabilito dall’art. 101, comma 2, c.p.c., non riguarda le questioni di solo diritto, ma quelle di fatto ovvero quelle miste di fatto e di diritto, che richiedono non una diversa valutazione del materiale probatorio, bensì prove dal contenuto diverso rispetto a quelle chieste dalle parti ovvero una attività assertiva in punto di fatto e non già mere difese. (In applicazione del principio, la S.C. ha negato la nullità della sentenza impugnata che, rilevando d’ufficio il caso fortuito, non aveva concesso termine a difesa ex art. 101 c.p.c., posto che non si trattava di una nuova questione di fatto, ma di una diversa ricostruzione della vicenda con parziale riqualificazione dei medesimi fatti).
[11] Cass. (decr.), 20/11/2023, n. 32059.
[12] Cass. (decr.), 10/05/2023, n. 12522.
[13] Cass. (decr.), 19/10/2023, n. 29032.
[14] Cass. (decr.), 23/01/2025, n. 1687; Cass. (decr.), 3/03/2025, n. 5558.
[15] Cass. (decr.), 11/04/2024, n. 9808, che richiama: Cass. (decr.) 3/11/2023, n. 30657; Cass. (decr.), 14 /02/2024, n. 4071.
[16] Così, testualmente, ancora di recente Cass. (decr.), 7/11/2025, n. 29469.
[17] Cass. (decr.), 7/10/2024, n. 26140; Cass. (decr.), 25/09/2024, n. 15724; Cass. (decr.), 3/11/2023, n. 18326.
[18] Cass. (decr.), 8/09/2025, n. 24757.
[19] Cass. (decr.), 17/05/2024, n. 8999. La dottrina è prevalentemente in tal senso: per tutti, E. D’Alessandro, Il rinvio pregiudiziale in Cassazione, in Il processo, 1, 2023, p. 61.
[20] Cass. (decr.), 27/05/2025, n. 14121; Cass. (decr.), n. 24757/25, cit..
[21] Cass. (decr.), 17/07/2025, n. 19883.
[22] Cass. (decr.), 24/10/2024, n. 18015. Sul punto, v. già A. Panzarola, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, in Il rinvio pregiudiziale e le impugnazioni, a cura di M. Di Marzio, R. Giordano, A. Panzarola e R. Succio, Milano, 2024, p. 204 ss.
[23] Cass. (ord.), 9/10/2025, n. 27111.
[24] Cass. (decr.) 15/04/2024, n. 10141; Cass. (decr.), 14 /02/2014.
[25] Con richiamo a precedenti pronunce, v. Cass. (decr.) 10/07/2025, n. 18939.
[26] Cass. (decr.), 10/07/2025, n. 18925, con richiamo a Cass. (decr.), 9/04/2025, n. 9308. In altri termini, una questione non presenta il requisito della grave difficoltà interpretativa, richiesta per l’ammissibilità del rinvio pregiudiziale, ove nella giurisprudenza della Corte di cassazione si rinvenga l’enunciazione dei principi suscettibili di orientare la risoluzione del dubbio posto dal rimettente: Cass. (decr.), 17/05/2024, n. 13749. Il principio è stato generalizzato pure nei rapporti tra sezioni unite e semplici in tema di giurisdizione: queste ultime possono conoscere della questione di giurisdizione oggetto del ricorso, non essendo necessaria la sua devoluzione alle Sezioni Unite, quando queste ultime si siano già espresse sulla medesima questione, ancorché non sullo specifico caso, affermando sul punto chiari e precisi principi informatori, suscettibili di rappresentare una guida orientativa per le sezioni semplici; così Cass. (ord.), 17/03/2025, n. 7152.
[27] Di contrasto “latente”, idoneo a giustificare l’ammissibilità del rinvio, parla espressamente Cass. Sez. U., 7/05/2024, n. 12449; il principio è richiamato nel provvedimento della P.P. 8-10/10/2024, in ricorso iscritto al n.r.g. 17439/24, poi deciso da Cass. Sez. U., 6/03/2025, n. 5968, la quale ha avallato, di fatto, tale impostazione. Tale pronuncia ha, comunque, rivendicato al Collegio l’ultima parola anche sul punto, cioè in ordine alla determinazione se dare ulteriore al procedimento di rinvio pregiudiziale, o, in alternativa, a devolvere la questione all’ordinario sviluppo dell’ordinaria dialettica della giurisprudenza della stessa Corte (nella specie, essendosi - singolarmente - ravvisato il contrasto latente in una sola pronuncia di pochi mesi prima - Cass. 3/05/2024, n. 12007 - con un orientamento riscontrato come assolutamente prevalente).
[28] Cass. (decr.), 27/05/2025, n. 14120. Sulla distinzione tra i due tipi di contrasto, v., da ultimo, Cass. (ord.), 22/05/2025, n. 13759.
[29] Cass. (ord.), 22/02/2018, n. 4366.
[30] Cass. (decr.), 12/11/2025, su ricorso n. 15611/2025 r.g., sul tema delle applicazioni del noto arresto di Cass., Sez. U., 30/12/2021, n. 41994, in tema di nullità delle fideiussioni conformi ai testi reputati illegittimi dalla Banca d’Italia.
[31] Cass. (decr.), 23/01/2025, n. 1630; Cass. (decr.), 13/12/2024, n. 32261.
[32] Cass. 20/03/2025, n. 7495.
[33] È questo il caso deciso dalla appena richiamata Cass. n. 7495/25. Per la verità, a maggior ragione in presenza di una novità normativa la Cassazione non potrebbe essersi già pronunciata, tanto da “risolvere” la questione e degradarla a insuscettibile, per questo solo aspetto, del rinvio pregiudiziale interpretativo: dovendo, verosimilmente, il Collegio così investito rinnovare la valutazione, già operata con la delibazione del Primo Presidente, della sussistenza di tutti i presupposti del rinvio stesso.
[34] Cass. (decr.), 14/02/2024, n. 4121.
[35] Cass. (decr.), 15/03/2024, n. 7106.
[36] Così R. Tiscini, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione dell’art. 363-bis c.p.c. La disciplina. La casistica, in Giust. civ., 2, pp. 343 ss., specialmente § 7.
[37] È il caso della materia tributaria, nell’ambito della quale si rivela particolarmente pressante l’esigenza di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto, anche al fine di contenere la proliferazione di un contenzioso notoriamente assai consistente sotto il profilo quantitativo e spesso connotato da caratteri di serialità, nonché di consentire una più rapida definizione delle controversie pendenti (Cass., Sez. U., 13/12/2023, n. 34851; Cass. 25/03/2025, n. 7965).
[38] Cass. (decr.), 27/05/2025, n. 14121.
[39] Cass. (ord.), 9/10/2025, n. 27111.
[40] Corte cost. 25/06/2015, n. 119.
1. In data 27 novembre 2025 è stata depositata la deliberazione n. SCCLEG/19/2025/PREV, con cui la Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato ha dichiarato non conforme a legge la delibera n. 41/2025 del CIPESS, adottata il 6 agosto 2025, avente ad oggetto “Collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria: assegnazione risorse FSC ai sensi dell’articolo 1, comma 273-bis, della legge n. 213 del 2023 e approvazione, ai sensi dell’articolo 3, commi 7 e 8, del decreto legge n. 35 del 2023, del progetto definitivo e degli atti di cui al decreto-legge n. 35 del 2023”.
2. La decisione dei magistrati contabili poggia su di un articolata esposizione di argomenti, in fatto e in diritto, preceduti, questi ultimi, dall’indicazione delle coordinate entro le quali ascrivere il controllo preventivo di legittimità, assegnato dall’art.100 della Costituzione alla Corte dei conti, quale organo magistratuale terzo e indipendente, a tutela dell’interesse generale alla legittimità dell’attività pubblica.
3. Si vuole quindi riassumere brevemente i contenuti di tale deliberazione, che pure si caratterizza per chiarezza, concisione e facilità di lettura, richiamando, prima di tutto, le premesse in fatto, dove si sintetizzano i passaggi in cui si è articolata l’ampia e complessa vicenda a monte, sviluppatasi nell’arco di quasi 57 anni, e quelli che hanno scandito l’istruttoria condotta dall’Ufficio di controllo, improntata ad estrema celerità per venire incontro alle esigenze rappresentate dalla stessa amministrazione.
4. Nella parte in diritto, il Collegio, preliminarmente, ha inquadrato il contesto entro il quale era chiamato a pronunciarsi, evidenziando che la funzione intestatagli, qualora abbia ad oggetto, come nel caso di specie, provvedimenti relativi a investimenti pubblici infrastrutturali, viene esercitata anche al fine di intervenire preventivamente su aspetti procedurali suscettibili di incidere negativamente sulla realizzazione dell’opera, una volta avviata.
5. La delibera, poi, ha affrontato analiticamente le illegittimità inficianti il provvedimento esaminato, anticipando che, data l’importanza strategica dell’opera e le risorse pubbliche alla stessa destinate, si era tenuto conto essenzialmente delle violazioni della normativa eurounitaria e di altri aspetti maggiormente significativi.
5.1. La Sezione, in primo luogo, si è soffermata sulla violazione della direttiva 92/43/CE del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche (c.d. direttiva “Habitat”), riferendo sui profili di difformità emersi in esito alla valutazione incidentale della deliberazione del Consiglio dei ministri del 9 aprile 2025, di approvazione della c.d. “relazione IROPI”, non direttamente sottoposta al controllo ma rilevante quale atto endoprocedimentale inserito nella sequenza rivolta all’approvazione del progetto definitivo (l’adozione della delibera aveva consentito di superare la valutazione di incidenza negativa resa dalla competente Commissione tecnica di impatto ambientale con il parere n. 19/2024, proseguendo l’iter volto all’approvazione del progetto definitivo senza dover acquisire il previo parere della Commissione europea, sostituito da una mera informativa). Al fine di dar conto delle ragioni esposte dalle amministrazioni, si è chiarito che l’asserito carattere “politico” dell’atto non lo schermava dal sindacato (incidentale) della sua legittimità, trattandosi di una valutazione di incidenza ambientale espressione di esercizio di discrezionalità tecnica oltre che amministrativa: anzi, proprio la commistione fra la scelta politica - che, per essere consapevole, doveva seguire ad un provvedimento avente ad oggetto il contemperamento fra gli interessi coinvolti e l’applicazione di regole tecniche – e la decisione amministrativa, attestava un esercizio irregolare e non ordinato delle competenze proprie degli organi coinvolti. La Corte, quindi, ha esaminato gli aspetti tecnici e amministrativi della delibera, raffrontandoli con i parametri di riferimento, rinvenuti, in assenza di una normativa disciplina interna, nelle linee guida nazionali per la VlncA, predisposte nell’ambito dell’attuazione della Strategia nazionale per la biodiversità 2011-2020, finalizzate a rendere omogenea, a livello nazionale, l'attuazione dell'art. 6, paragrafi 2, 3 e 4, della c.d. “direttiva Habitat”, che individuano quali aspetti essenziali delle valutazioni rimesse alle amministrazioni l’aver accertato, da un lato, l’assenza di soluzioni alternative a progetti che incidono su zone speciali di conservazione e, dall’altro, la sussistenza di motivi imperativi di rilevante interesse pubblico. Nel caso di specie, entrambi gli aspetti sono stati risultatati connotati da significative criticità, tanto più in considerazione delle peculiarità ambientali del sito eventualmente inciso dall’opera ascrivibile alla Rete Natura 2000, trasmodanti in profili di illegittimità dell’atto assoggettato a controllo.
5.2. Il profilo della ricerca di eventuali soluzioni alternative è stato scrutinato in base a precisi criteri sostanziali, incentrati sulla tutela dell’ambiente, in base ai quali andavano individuate tutte le varie alternative, confrontate alla luce dei loro effetti sull’habitat e sulle specie presenti in misura significativa nel sito e sui relativi obiettivi di conservazione nonché sull'integrità del sito stesso, con puntuale descrizione e quantificazione delle rispettive incidenze. Ciò posto, l’esame degli atti che avrebbero dovuto dimostrare che l’amministrazione si era fatta carico di una siffatta complessa analisi ha evidenziato, invece, che i predetti criteri non erano stati soddisfatti. In particolare, il parere CTVA n. 19/2024 si era limitato a riportare la descrizione delle alternative ragionevoli prevista nell’ambito dello studio di fattibilità che il proponente doveva presentare unitamente all’istanza di VIA (così come inserita nei formulari predisposti dalla SdM ai sensi dell’art. 23 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) e la “relazione IROPI”, assiomaticamente, aveva definito il Ponte l’unico mezzo a disposizione per “soddisfare le necessità minimizzando gli impatti ambientali”. In sostanza, la mancata dimostrazione dell’effettivo esame di tutte le scelte alternative alla costruzione del ponte ha comportato l’impossibilità di affermare l’insussistenza di una soluzione alternativa, come preteso dal diritto unionale.
5.3. Sul versante del riscontro delle ragioni di interesse pubblico sono emerse carenze non dissimili. La delibera del Consiglio dei ministri la cui adozione aveva consentito di prescindere dall’acquisizione del formale parere della Commissione europea, sostituendola con una mera informativa, infatti, è apparsa priva di riferimenti ad un’adeguata istruttoria, che avrebbe dovuto essere svolta dalle strutture tecnico-amministrative dei ministeri competenti, non risultando supportata dalle valutazioni di organi tecnici e da una congrua documentazione giustificativa del ricorso alla procedura in deroga. Le obiezioni della Sezione, peraltro, risultano suffragate dalla corrispondenza intercorsa fra l’amministrazione statale e la Commissione europea, la cui trasmissione, pur sollecitata nel corso dell’istruttoria, ha coinciso con l’adunanza esitata con il provvedimento in commento.
5.4. Il contrasto fra il diritto eurounitario e l’atto scrutinato riguarda un ulteriore aspetto, determinante una seconda illegittimità, anch’essa già di per sé sufficiente a condurre alla ricusazione del visto. La Sezione, infatti, ha riscontrato la violazione dell’art. 72 della direttiva n. 2014/24/UE (c.d. “direttiva Appalti”), che subordina la possibilità di modificare un contratto senza necessità di nuova procedura concorrenziale alla presenza di precisi requisiti oltre che all’osservanza del limite del 50% dell’eventuale aumento del prezzo rispetto al valore inizialmente fissato. Le condizioni richieste dalla direttiva (applicabile al caso di specie sia in quanto espressione di principi di portata generale, già previsti nella direttiva 2004/18/CEE sotto la cui vigenza è stata indetta la gara iniziale, sia avuto riguardo all’epoca della stipula dell’atto aggiuntivo sottoscritto ai sensi dell’art. 4 del D.L. n. 35/2023) non sono state riscontrate dal Collegio, che, a seguito di un esame approfondito degli atti e delle spiegazioni offerte dalle amministrazioni, invece, ha ritenuto che fossero integrati i presupposti di cui al combinato disposto del paragrafo 1, lett. e) e del paragrafo 4 dell’art. 72, dai quali discende la necessità di un nuovo confronto concorrenziale. Ciò in quanto l’originario programma contrattuale aveva subito modificazioni integranti un mutamento dell’operazione economica favorevole ai soggetti aggiudicatari, conseguendone che le mutate condizioni avrebbero attratto ulteriori soggetti interessati a partecipare ad una procedura di gara proposta nei più vantaggiosi termini attuali. Tale conclusione poggia su plurimi elementi: si è passati dal ricorso alla finanza di progetto, con risorse da reperire sui mercati internazionali (tentativo, peraltro, naufragato nel 2012) al finanziamento pubblico integrale dell’opera; sono stati innovati anche i criteri di aggiornamento del corrispettivo; la quota di prefinanziamento è stata interessata da oscillazioni di significativa entità, che si riferiscono pedissequamente per meglio rendere il senso del ragionamento della Sezione: “il bando di gara prevedeva il prefinanziamento, a carico del Contraente generale, per una quota pari almeno al 10%, e non superiore al 20%, assegnando a detto requisito un punteggio pari a 5 punti; il Contraente generale si è aggiudicato il contratto proponendo per tale requisito il 15%. L’accordo integrativo del 2009 lo ha ridotto al 10% e ha assegnato a SdM la possibilità di ridurre ulteriormente la quota fino al limite del 5%.” Quanto al rispetto del vincolo del 50%, sembra oltremodo significativo richiamare le ragioni che hanno impedito ai magistrati contabili di verificarne l’osservanza: il calcolo della percentuale andava rapportato ad un valore complessivo non determinabile in ragione dell’incerta definizione dei costi dell’opera, in parte meramente stimati e della mancata contrattualizzazione di altre voci ricomprese nel quadro economico dell’opera (si fa riferimento, a titolo esemplificativo, ai “costi dei lavori indicati nella relazione del progettista per 787 milioni di euro”). Per finire: la corrispondenza fra l’amministrazione e la Direzione generale della Commissione europea in merito alla criticità in oggetto, pur se richiesta in via istruttoria, non è stata resa disponibile dall’amministrazione neppure in occasione dell’adunanza in quanto di carattere informale ed in ossequio a regole di “cortesia istituzionale.”
5.5. Da ultimo, è stata accertata la violazione degli artt. 43 e 37 del D.L. n. 201/2011, derivante dall’esclusione dell’Autorità di regolazione dei Trasporti (ART) dalla procedura di approvazione del Piano Economico Finanziario, con specifico riguardo al relativo sistema tariffario, ritenuta contrastante con l’ampia attribuzione di competenze ad opera del richiamato art. 37, confermata dalla interpretazione offertane dalla giurisprudenza amministrativa, coerente con i principi desumibili dalla direttiva (UE) 2022/362.
6. Le ragioni della ricusazione, a questo punto, risultano ampiamente delineate. Tuttavia, la Corte - dopo aver motivato diffusamente la ricorrenza del triplice ordine di illegittimità sopra illustrato, inerente, fra l’altro, al contrasto dell’atto con normativa unionale relativa al rispetto degli habitat naturali e ai principi di trasparenza e di tutela della concorrenza - ha elencato una serie di altre criticità, oggetto di una più sintetica valutazione, dato il carattere assorbente delle precedenti considerazioni.
Foto via Wikimedia Commons.
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