ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario [1]: 1. Premessa – 2. Professionalità del magistrato e Costituzione - 3. Valutazioni di professionalità e Costituzione - 4. L’opinione n. 14/2017 del Consiglio consultivo dei giudici europei - 5. Cenni alla disciplina italiana in materia di valutazione di professionalità prima del 2007 - 6. La legge Mastella del 2007 e gli “aggiustamenti” adottati con la riforma Cartabia del 2022-2024 - 7. Qualche brevissima osservazione d’insieme sulla disciplina vigente - 8. In conclusione.
1. Premessa
Il tema delle valutazioni di professionalità dei magistrati è assai delicato e particolarmente vasto.
Delicato perché si pone al crocevia di una molteplicità di interessi di rilievo costituzionale, che devono essere necessariamente contemperati, e per il fatto che definire un modello di professionalità del magistrato, e il relativo sistema di valutazione, significa prefigurare una certa idea di giudice e di giurisdizione e dunque realizzare una precisa scelta politica in materia di giustizia e di ordinamento giudiziario (tanto rilevante, per inciso, in un contesto, quale quello italiano, che oggi sul punto registra preoccupanti tensioni e fibrillazioni!).
Com’è stato sottolineato, “qualsiasi riferimento alla professionalità dei magistrati implica la previa riflessione, e quindi la scelta, in ordine a quali siano le condizioni, i requisiti, i comportamenti richiesti perché si possa parlare di un giudice ‘‘professionale’”[2].
Il tema è vasto - e, direi, trasversale - perché esso può essere declinato in molteplici direzioni e aspetti - le finalità e le diverse tipologie di valutazione, l’oggetto delle valutazioni, i criteri di valutazione, le fonti di conoscenza, il procedimento di valutazione, gli esiti della valutazione, i rapporti con il sistema disciplinare, il sindacato del giudice amministrativo, ecc. - e chiama in causa una pluralità di soggetti protagonisti dell’ordinamento giudiziario (il singolo magistrato, il CSM, i Consigli giudiziari, i dirigenti degli uffici giudiziari, l'Avvocatura, ecc.)[3].
Il presente contributo, in particolare, è dedicato a una riflessione sulle ragioni della valutazione dei magistrati, sugli interessi di rilievo costituzionale chiamati in causa dalla stessa e sugli obiettivi che con il sistema delle valutazioni possono e debbono essere perseguiti; mi riservo poi, in conclusione, di svolgere delle sintetiche considerazioni generali sulla disciplina vigente, evidenziando alcuni profili di potenziale criticità alla luce del quadro costituzionale.
2. Professionalità del magistrato e Costituzione
La nozione di “professionalità” non compare espressamente nel testo della Costituzione italiana[4], ma ciò non significa affatto che essa sia stata ignorata dai Padri Costituenti.
Del resto, anche il principio dell’imparzialità del giudice è stato introdotto testualmente soltanto con la riforma costituzionale dell'art. 111 Cost., nel 1999, ma nessuno dubita che l'imparzialità sia da sempre un valore consustanziale all'idea stessa di giudice.
La professionalità, in effetti, è strettamente legata ad alcuni principi fondamentali rivolti alla magistratura, tanto da poter essere considerata un fattore portante implicitamente sotteso all'intero sistema[5]. La nozione di professionalità s’intravede chiaramente nel principio della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), nella nomina dei magistrati per concorso (art. 106, comma 1, Cost.), nella distinzione degli stessi soltanto per diversità di funzioni (art. 107. Comma 3, Cost.) e nello stesso principio di precostituzione per legge del giudice naturale (art. 25 Cost.); tutti questi principi presuppongono la figura di un giudice professionalmente competente.
Tra i principi costituzionali che possiamo chiamare in causa vi è anche l'art. 97, comma 2, Cost., ai sensi del quale “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione”; e ciò almeno nei limiti in cui il principio del buon andamento sia riferibile al sistema giustizia.
La Corte costituzionale, a tale proposito, ha avuto modo di chiarire, agli inizi degli Anni Ottanta, sciogliendo un dubbio avanzato in più occasioni da una parte della dottrina, che tale previsione è parzialmente applicabile anche al potere giudiziario, nel senso che, per quanto il principio del buon andamento non possa essere riferito all’esercizio della funzione giurisdizionale, che trova i suoi riferimenti costituzionali soprattutto negli articoli 24, 101 e 111, diversamente può dirsi prendendo in considerazione l’ordinamento degli uffici giudiziari, dunque il funzionamento della macchina della giustizia sul piano organizzativo.
È proprio la Corte a sottolineare come in fondo risulterebbe “paradossale voler esentare l’organizzazione degli uffici giudiziari da ogni esigenza di buon andamento. La giustizia è, del resto, un servizio pubblico essenziale e dunque la sua organizzazione non potrà che essere informata non soltanto al canone dell’imparzialità, com’è ovvio, ma anche a quello del buon andamento[6].
La professionalità è, dunque, condizione primaria dell'indipendenza del giudice, sia esterna sia interna, e quindi il presupposto necessario della sua imparzialità.
Com’è stato sottolineato, “il criterio di valutazione della professionalità del magistrato è la sua capacità di far ‘‘vivere’’ nel caso concreto la norma giuridica in totale indipendenza da ogni indirizzo di autorità diverse. L’imparzialità, che nella pubblica amministrazione è un modus operandi, nella giurisdizione è il proprium della funzione”[7].
A tale proposito, nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia per il 1994 (oltre 30 anni fa!), il CSM ha avuto modo di osservare che “non possono essere suggeriti ai giudici indirizzi e orientamenti circa l'interpretazione delle leggi da alcun organo e da alcuna autorità dello Stato, né da poteri esterni, né dallo stesso potere giudiziario”; con la conseguenza che “il giudice, più di ogni altro funzionario dello Stato, ha bisogno di una formazione permanente di altissimo livello, dovendo egli, da solo, ricercare ed acquisire gli strumenti dell'interpretazione delle leggi, assumendosene la piena responsabilità”.
Dunque, in ultima analisi, la professionalità - così come l'imparzialità e l'indipendenza - è una condizione volta alla realizzazione del valore essenziale che deve essere assicurato nell'esercizio della funzione giudiziaria: ovvero, la piena libertà del giudice nel momento del giudizio.
Per inciso, lo stretto collegamento tra professionalità, indipendenza, imparzialità ed equilibrio (considerati “imprescindibili condizioni” della positiva valutazione di professionalità) è ben evidenziato nella Circolare del CSM del 2024 proprio in tema di valutazioni di professionalità[8].
E nella stessa direzione può essere letto anche il “diritto a un giudice indipendente e imparziale”, principio sancito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950, e oggi richiamato anche all’art. 111 Cost., nella versione novellata nel 1999: tale principio contiene infatti in sé anche il diritto del cittadino ad avere un giudice professionalmente capace.
Ma c’è di più.
La professionalità del magistrato è, inoltre, un predicato della “credibilità” della magistratura e della “fiducia” che la società civile deve poter riporre nei suoi confronti, che sono valori proporzionali alla consapevolezza della collettività circa la capacità dei magistrati di rendere giustizia in modo competente, ovvero giusto ed efficace.
Ricordo, a tale proposito, che la fiducia dei cittadini nella magistratura, intesa sia come insieme di singoli magistrati sia come istituzione, è un tassello fondamentale della sua legittimazione; com’è stato detto, il potere giudiziario non deve andare alla ricerca del consenso, ma non può fare a meno della fiducia, che è il vero “banco di prova del tasso di legittimità dei magistrati”[9].
Analogamente, è stato osservato che nel sistema costituzionale “la fonte primaria della legittimazione dei giudici, che amministrano la giustizia in nome del popolo, si rinviene proprio nella professionalità”; poiché l'attività dei giudici è, in ultima analisi, espressione di una funzione essenzialmente “culturale”, essa, proprio in virtù di questo suo carattere, trova nella professionalità “la condizione stessa della sua esistenza”[10].
Alla luce di quanto appena evidenziato, può affermarsi che la professionalità del giudice deve essere, in primo luogo, una professionalità “diffusa” all'interno dell'intera magistratura, quale premessa indispensabile per la tutela effettiva dei diritti dei cittadini e quale naturale conseguenza del carattere “diffuso” del potere giudiziario.
Ciascun giudice, solo di fronte alla legge, deve essere professionalmente adeguato, tanto più, si potrebbe dire, in una fase storica - peraltro oggi rimessa parzialmente in discussione! - in cui il modello di giudice a cui facciamo riferimento non è (forse non è mai stato) quello del “meccanico applicatore della legge”, dell’“essere inanimato” e mera “bocca della legge”, essendo ormai consolidata l’idea - alla luce di una serie composita di fattori, quali la rigidità della Costituzione, il pluralismo delle fonti, il processo d’integrazione europea, la complessità delle società moderne, ecc. - che l'attività interpretativa non possa che essere “intrinsecamente creativa”. A tale proposito, c’è chi ha parlato di “verità banale” della creatività insita nell’esercizio della giurisdizione[11], mentre altri hanno precisato che “il giudice non deve creare diritto, eppure non può non crearlo”[12].
Un'adeguata preparazione professionale scongiura il rischio che il giudice si trovi “smarrito” di fronte alla legge e, quindi, più soggetto alle influenze provenienti dall'esterno e dall'interno della magistratura; la preparazione dota il magistrato di una sorta di “armatura” che ne protegge l’indipendenza[13].
3. Valutazioni di professionalità e Costituzione
Se dunque la professionalità è una precondizione dell’essere giudice, un valore da garantire, lo è di conseguenza anche il suo accertamento, la sua verifica.
Com’è stato giustamente osservato[14], se è vero che l'adeguata preparazione professionale del magistrato costituisce il presupposto indispensabile della sua indipendenza e la condizione primaria della sua libertà di giudizio nel caso concreto, la verifica della sussistenza di tale professionalità non può né deve risolversi in una negazione di questa premessa.
Ciò richiede, in primo luogo, che il sistema delle valutazioni di professionalità sia affidato all'organo di governo autonomo della magistratura, come appare chiaramente indicato nella Costituzione italiana, laddove, all'art. 105, si demandano al CSM “le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari” nei confronti dei magistrati, ovvero tutto ciò che riguarda la loro vita professionale[15].
In secondo luogo, la Costituzione sembra scoraggiare - lo si ricava, in particolare, dal principio della distinzione dei magistrati soltanto per diversità di funzioni - un sistema di valutazione della professionalità finalizzato a selezionare “i migliori”, strumentale alle progressioni in carriera e a un assetto gerarchico della magistratura, in una logica piramidale e, appunto, “carrieristica”.
Al contrario, la Carta costituzionale promuove un sistema di valutazione delle professionalità teso, in prima istanza, a innalzare il livello medio complessivo di professionalità della magistratura e ad assicurare la crescita tecnica e culturale dell'intera categoria; in altre parole, a garantire uno standard minimo più elevato possibile di qualità del sistema giustizia.
Ciò peraltro non esclude, com’è stato autorevolmente sostenuto[16], la possibilità di distinguere tra (la valutazione di) una “professionalità generica”, che deve essere comune a tutti i magistrati, e (la valutazione di) una “professionalità specifica”, propria invece di ciascuno dei diversi “mestieri” di giudice: osservazione che, del resto, trova fondamento proprio nel principio della distinzione soltanto per diversità di funzioni, di cui all’art. 107 Cost.
Così come, tenendo conto del fine perseguito dalle valutazioni di professionalità, non è escluso che, ai casi in cui la valutazione è finalizzata alla verifica dell'adeguatezza professionale di ciascun magistrato, possano aggiungersi casi in cui è necessario valutare comparativamente la professionalità della persona più idonea a ricoprire determinati incarichi, come avviene per la selezione e valutazione dei dirigenti degli uffici giudiziari, ove la valutazione assume necessariamente un carattere maggiormente premiale.
Si tratta però di due modelli di verifica diversi per natura e finalità, che talora possono convivere nell’ambito di uno stesso sistema, di carattere trasversale, ovvero possono essere tenuti distinti, come oggi appare più ragionevole[17].
In terzo luogo, con riguardo all’oggetto delle valutazioni di professionalità, dalla Costituzione si ricava anche come tali valutazioni non possano essere congegnate in modo da assumere una natura sanzionatoria, capace di condizionare le convinzioni dei magistrati o il merito delle decisioni giurisdizionali, dovendo invece essere fondate su accertamenti di tipo tecnico basati su criteri oggettivi e trasparenti.
In quarto luogo, pensando agli elementi che possono costituire oggetto della valutazione di professionalità, in linea di principio la Costituzione promuove l’idea di un giudice immerso nella società civile e capace, pur nei limiti di ciò che il testo consente, di compiere “scelte di valore”.
Nell’attuale assetto costituzionale, in altre parole, non c’è spazio (o almeno così dovrebbe essere) per l’idea classica del “magistrato-sacerdote”, isolato nella sua “torre d’avorio” e separato dalla vita della comunità. Del resto, com’è stato efficacemente ricordato[18], il mito del magistrato “disincarnato”, estraneo alla dialettica culturale e politica del suo tempo, è stata in passato funzionale non tanto all’obiettivo dell’indipendenza e dell’imparzialità, bensì a un’adesione dello stesso al blocco storico-politico dominante, quale strumento di omologazione alla maggioranza del momento. Per magistrati apolitici s’intendeva, in altre parole - e talora s’intende oggi - magistrati “allineati”.
4. L’opinione n. 14/2017 del Consiglio consultivo dei giudici europei
Molti dei concetti appena richiamati, ricavabili da una lettura (a mio giudizio) equilibrata della Carta costituzionale, sono stati sottolineati in modo molto efficace dal Consiglio consultivo dei giudici europei, organo del Consiglio d’Europa, nell’Opinione n. 17 del 24 ottobre 2014, dedicata alla “valutazione del lavoro dei giudici, qualità della giustizia e rispetto dell'indipendenza giudiziaria”[19].
In tale documento si chiarisce, innanzi tutto, come in linea di principio la valutazione del lavoro individuale del giudice possa assicurare una maggiore qualità della giustizia senza necessariamente incidere sull'indipendenza.
Con riferimento, poi, ai sistemi formali di valutazione, il Consiglio consultivo evidenzia che, affinché tale equilibrio possa essere davvero assicurato, le valutazioni di professionalità devono avere per fondamento previsioni normative chiare e dettagliate ed essere basate su criteri predeterminati, al fine di evitare condizionamenti, personalismi o favoritismi.
Le valutazioni devono poi connotarsi per una natura prevalentemente qualitativa ed essere rivolte ad apprezzare le competenze dei magistrati di tipo in senso stretto “professionale” (conoscenza del diritto, capacità di condurre adeguatamente i procedimenti giudiziari, capacità di scrivere decisioni motivate), ma anche quelle “personali” (capacità di far fronte al rispettivo carico di lavoro, capacità di decidere, capacità di gestire le nuove tecnologie) e quelle “sociali” (capacità di mediare, di rispettare le parti, di dirigere, per coloro le cui posizioni lo richiedono).
La valutazione potrà essere naturalmente anche quantitativa, ma la stessa non potrà mai essere ridotta al risultato dell'apprezzamento di soli dati statistico-quantitativi, né essere incentrata soltanto sulla produttività, atteso che quest'ultima, tra l’altro, può essere influenzata da molteplici fattori, quali ad esempio le risorse messe a disposizione del giudice; elementi che non rientrano evidentemente nella sua responsabilità.
In altre parole, la valutazione deve cadere su un magistrato ‘‘contestualizzato’’, perché solo così sarà possibile “evitare storture statistiche ingiustamente penalizzanti per i singoli e complessivamente fuorvianti per l’efficienza del servizio”[20]. Per inciso, sembra utile accennare alla circostanza per cui, almeno nel sistema italiano, le maggiori criticità che affliggono il servizio giustizia non provengono tanto dal livello di professionalità dei magistrati, nell’insieme adeguato ai compiti che vengono loro richiesti, ma sono di natura strutturale e risiedono principalmente nella permanente mancanza di risorse sia personali che organizzative.
Il Consiglio consultivo ricorda, poi, come sia problematico basare le valutazioni sui risultati conseguiti, sul numero o sulla percentuale dei casi riformati in appello, almeno che tale verifica non dimostri chiaramente delle evidenti patologie, ovvero che il giudice - ma si tratta di casi limite - difetta della necessaria conoscenza della legge e della procedura.
L’Opinione contiene poi una serie di indicazioni che, pensando anche ai tempi più recenti, conviene non considerare scontate: a) la valutazione deve essere affidata agli organi di governo autonomo della magistratura, in ogni caso estromettendo ogni influenza degli Esecutivi; b) le fonti di informazione devono essere affidabili e trasparenti; c) il giudice sottoposto a valutazione deve avere il diritto di esprimersi e dunque deve essere previsto un contraddittorio; d) i risultati della valutazione non devono essere funzionali a definire graduatorie, ancorché essi possano essere utilizzati ai fini delle promozioni, dell’individuazione di bisogni o della attribuzione di risorse aggiuntive.
Nell'Opinione si ricorda, infine, che la valutazione individuale dei giudici è tesa a migliorare e mantenere un sistema giudiziario di alta qualità, nell’interesse dei cittadini. Per questa ragione, i cittadini devono essere messi in condizione di comprendere i principi generali che informano le procedure di valutazione, le cui regole e metodologie dovrebbero quindi essere pubbliche[21].
5. Cenni alla disciplina italiana in materia di valutazione di professionalità prima del 2007
Se questo è il quadro degli interessi di pregio costituzionale all’interno del quale la disciplina delle valutazioni di professionalità dei magistrati deve essere collocata, vengo ora a verificare come il legislatore italiano, nel corso di oltre settantasette anni dall’entrata in vigore della Costituzione, ha realizzato in concreto tali interessi.
Assai sinteticamente, ricordo che, prima della riforma del 2007, le valutazioni di professionalità dei magistrati in Italia erano saldamente ed esclusivamente ancorate ai meccanismi di progressione in carriera.
Al di là di questo tratto in comune, peraltro, si possono distinguere due fasi storiche assai diverse.
Fino circa alla fine degli anni Sessanta, le valutazioni erano incorporate nelle procedure concorsuali per titoli ed esami per la promozione ai gradi superiori. A tale sistema era sottesa una visione della magistratura di tipo piramidale, peraltro incompatibile con la Costituzione, nella quale si riteneva (implicitamente) che le funzioni di primo grado richiedessero un livello di professionalità inferiore a quello richiesto nei gradi successivi; ovvero, una visione fondata sulla considerazione che i magistrati più bravi e più professionali dovessero migrare verso le funzioni superiori.
Ricordo, a questo proposito, la nota critica di Giuseppe Maranini a tale impostazione, quando osservava, nel 1961: “Non credo... che nelle magistrature ‘superiori’ occorrano maggiori valori morali e tecnici che nelle magistrature ‘inferiori’. È una opinione che potrei difendere con un lungo discorso. Mi limito a riferirmi alla mia esperienza professionale... E nella mia forse eccessiva presunzione, sono convinto che saprei essere un mediocre consigliere di Cassazione; ma non avrei mai il coraggio di fare il pretore, perché so che non avrei la necessaria preparazione”[22].
Com’è noto, dopo le riforme della carriera, realizzate a cavallo degli anni Sessanta e Settanta con le note leggi Breganze, n. 570/1966, e Breganzone, n. 831/1973, viene introdotto un sistema di progressione a ruoli aperti, fondato sull’anzianità “senza demerito”, più coerente con l’idea di una magistratura intesa come potere diffuso e come corpo professionale orizzontale, dove il livello di professionalità non può che essere equamente distribuito su tutte le funzioni e per tutti i diversi mestieri di magistrato. In questa fase - e fino al 2007 - la disciplina del procedimento, dei criteri e delle fonti di conoscenza sulla cui base venivano svolte le predette valutazioni di professionalità sono contenute in una serie di circolari e pareri adottati dal CSM[23].
Il bilancio del sistema di valutazione operante a partire dagli Anni Settanta e fino al 2007 è stato piuttosto negativo. Esso è stato accusato di lassismo e di scarsa valorizzazione della meritocrazia, anche se tale insoddisfacente risultato è stato conseguito - occorre ricordarlo - più a causa della prassi applicativa che del dato normativo; come a suo tempo si è ricordato, è stata la prassi ad aver eluso, nella sostanza, lo spirito della disciplina allora vigente, tanto che si è potuto parlare di una sorta di “fraintendimento applicativo”[24].
Lo stesso CSM, nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia per il quadriennio 1986-1990, ha avuto modo di osservare che il bilancio complessivo sullo stato delle verifiche di professionalità dei magistrati in occasione della progressione nella carriera evidenziava una “desolante situazione di vuoto valutativo”[25].
Per questa ragione, a partire dalla fine degli anni Novanta, da più parti si è chiesto al legislatore di intervenire per riformare la materia, introducendo un nuovo (e autonomo) sistema di valutazione delle professionalità. Ricordo, a tale proposito, che, nel corso del 2003, l'Associazione nazionale magistrati organizzò un ciclo di seminari dal titolo “I magistrati di fronte alla sfida della professionalità” e il documento di base redatto dalla Giunta esecutiva centrale, presentato in occasione di quella iniziativa, si apriva con l’affermazione secondo cui “i magistrati, per primi, chiedono un miglioramento della formazione e un più adeguato sistema di valutazione della professionalità, fermo restando l'esplicito è deciso rifiuto di ogni logica di ritorno al passato”[26].
6. La legge Mastella del 2007 e gli “aggiustamenti” adottati con la riforma Cartabia del 2022-2024
Vengo dunque all’ultimo periodo e alla disciplina vigente.
Tralascio, per ovvie ragioni di tempo, il regime (certamente criticabile) introdotto con la legge Castelli n. 150/2005 - dal momento che esso, con il quale si segnava un vero e proprio ritorno al passato, non ha mai avuto attuazione - e vengo al sistema di valutazione della professionalità introdotto con la legge n. 111/2007 (che ha modificato l’art. 11 del d.lgs. n. 160/2006), che ancora oggi, pur con gli aggiustamenti introdotti dalla riforma Cartabia, costituisce l’architettura portante del vigente sistema.
Con tale riforma, per la prima volta in Italia, si separano (anche se non del tutto) le valutazioni di professionalità dalla progressione in carriera. In questo modo, come spesso è stato ricordato, viene resa autonoma e sottolineata la “cultura della valutazione”[27].
Si tratta di un regime in linea di massima coerente con le indicazioni ricavabili dalla Costituzione, sopra richiamate.
Com’è noto, viene introdotto un doppio canale di progressione in carriera: da una parte, un sistema di avanzamento obbligatorio per tutti i magistrati, scandito, appunto, da periodiche valutazioni di professionalità; dall'altra, un sistema di passaggi da una funzione all'altra, accessibile a richiesta dell'interessato, e congegnato in modo indipendente, ancorché coordinato - il possesso di una certa valutazione costituisce la condizione per poter fare domanda per una certa funzione - rispetto alle predette valutazioni.
Vengono previste sette fasce di anzianità, ciascuna di durata quadriennale, alle quali si accede previa valutazione; quest'ultima è avviata d'ufficio ed è svolta sulla base dei parametri della capacità, laboriosità, diligenza e impegno. Il giudizio è affidato al CSM e viene espresso, previo parere del Consiglio giudiziario, con un provvedimento motivato che, fino alla riforma del 2022, poteva avere esclusivamente tre esiti: positivo, non positivo o negativo.
Su questo impianto complessivo sono intervenute alcune puntuali modifiche ad opera della legge n. 71/2022 e del d.lgs. n. 44/2024, il cui art. 5, in particolare, ha introdotto il nuovo art. 10 bis, ha modificato l'art. 11 e introdotto i nuovi artt. 11 bis e 11 ter del d.lgs. n. 160/2006[28].
Le principali novità introdotte con la riforma del 2022/2024 sono le seguenti (mi limito ad elencarle):
7. Qualche brevissima osservazione d’insieme sulla disciplina vigente
Vengo dunque a qualche osservazione d’insieme sul regime vigente.
Come anticipavo, il mio giudizio su tale disciplina è, nel complesso, moderatamente positivo. Credo sia stato fatto uno sforzo notevole e meritorio in una direzione in linea di massima coerente con il quadro costituzionale.
Tuttavia, vi sono alcuni elementi che destano perplessità e forse rappresentano dei campanelli d’allarme, sui quali, in fase soprattutto di gestione concreta del sistema, occorre prestare attenzione.
Quanto alle scelte compiute dal legislatore in merito alla natura e alle finalità delle valutazioni, segnalo due aspetti.
In primo luogo, la disciplina sembra assecondare, in alcune sue parti, una tendenza vagamente aziendalistica, rafforzata dalla più recente riforma: essa, da un lato, irrobustisce la responsabilità dei dirigenti e, dall’altro, appare molto attenta agli aspetti quantitativi e performativi; la normativa si preoccupa molto degli obiettivi e dei risultati raggiunti, o da raggiungere, tradendo, tra le righe, anche una sorta di intento selettivo/comparativo, e appare meno concentrata sulla verifica del complessivo e armonioso svolgimento della funzione del magistrato all’interno del sistema giudiziario.
In secondo luogo, le previsioni riguardanti la verifica degli esiti dei procedimenti giudiziari, ovvero la “tenuta” dei provvedimenti nelle fasi successive o in sede di impugnazione, pur di per sé non irragionevoli[29], collocano tuttavia la valutazione in una zona di confine delicata, nelle vicinanze del cuore dell’esercizio della giurisdizione, che potenzialmente potrebbe, se non gestita in modo adeguato[30], comportare il rischio di un condizionamento della discrezionalità interpretativa del giudice.
Venendo alle norme che disciplinano il procedimento, il legislatore, soprattutto dopo la riforma del 2022, ha prestato molta attenzione ad articolarne le molteplici fasi, rendendolo assai trasparente e partecipato; e ciò, ancor più dopo l’allargamento della partecipazione ai componenti laici dei consigli giudiziari, a mio giudizio nel complesso positivo.
Tuttavia, lo stesso si caratterizza per innumerevoli passaggi e per tempi davvero strettissimi, che corrono il rischio di farlo diventare un adempimento defatigante e, in ultima analisi, un'operazione prevalentemente burocratica, sostanzialmente inefficace per verificare l'effettiva affidabilità del sistema giudiziario.
Infine, la normativa rende assai stretti i rapporti tra valutazione della professionalità e responsabilità disciplinare. Si tratta, com’è noto, di due fattispecie diverse per natura, finalità e obiettivi, per quanto sia noto come negli ultimi anni in Italia l'area del disciplinare si sia molto accresciuta, finendo per sovrapporsi in più occasioni a quella della valutazione di professionalità[31].
La riforma del 2022 sembra aver esasperato tale potenziale interferenza, inserendo tra le fattispecie disciplinari dei puntuali comportamenti che denotano cadute di professionalità, o negligenza nella gestione degli uffici, le quali potrebbero essere più opportunamente rilevate nell'ambito della valutazione di professionalità quadriennale.
Colpisce, in ultima analisi, la previsione di alcuni nuovi illeciti disciplinari.
Si veda, in particolare, sia le fattispecie rivolte ai Dirigenti degli uffici giudiziari, molto incentrate sulla valorizzazione del dovere di assicurare l’efficienza dell’ufficio, sia quelle rivolte a tutti i magistrati, quali la reiterata inosservanza delle direttive dei capi dell’ufficio (art. 2, comma 1, lettera n) del d. lgs. n. 109/2006) o l’omessa collaborazione del magistrato all’attuazione delle iniziative del capo dell’ufficio per eliminare i ritardi e realizzare i piani di smaltimento (art. 2, comma 1, lettera q-bis del d.lgs. n. 109/2006).
8. In conclusione
Concludo osservando che in Italia è ricorrente l'affermazione secondo cui il sistema delle valutazioni di professionalità non funziona perché l'esito delle stesse è quasi sempre positivo.
Si tratta di un argomento in parte fuorviante, non solo perché questo capita in tutti i settori della pubblica amministrazione, ma per il fatto che le valutazioni di professionalità, come detto, non devono avere un'attitudine punitiva né repressiva.
La resa del sistema si misura, al contrario, sulla sua capacità di promuovere, in positivo, modelli e standard di lavoro adeguati ed efficienti, facendo emergere, in negativo, le carenze dei singoli e dell’intero sistema, non al fine di sanzionare, ma di porvi rimedio.
E ciò nell’interesse, prima di tutto, dei cittadini, che sono i principali interessati a un sistema giustizia più efficace, tempestivo e credibile.
[1] Testo rivisto, integrato con qualche nota a piè di pagina, ma sostanzialmente inalterato, della relazione svolta in occasione del Convegno su Le valutazioni di professionalità dei magistrati nel sistema interno, organizzato dalla Nona Commissione del CSM, dalla Corte di cassazione e dalla Scuola Superiore della Magistratura e svoltosi a Roma il 13 giugno 2025.
[2] R. Romboli, La professione del magistrato tra legislazione attuale e possibili riforme, in E. Bruti Liberati (a cura di), I magistrati e la sfida della professionalità, 2003, 9 ss.
[3] Cfr. P. Serrao D’Aquino, Le valutazioni di idoneità all’esercizio delle funzioni giudiziarie. Le valutazioni di professionalità, in Giustizia insieme, 2020 e in Diritto Pubblico Europeo - Rassegna Online, 2020.
[4] Almeno fino ad oggi; si veda, infatti, il Disegno di legge di revisione costituzionale Nordio, attualmente in discussione al Senato (A.S. 1353) e già approvato dalla Camera dei deputati lo scorso 16 gennaio 2025, che all’art. 4 si propone di sostituire l’art. 105 Cost., il cui primo comma, nella versione eventualmente novellata, avrà la seguente formulazione: “Spettano a ciascun Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità e i conferimenti di funzioni nei riguardi dei magistrati” (c.vi aggiunti).
[5] T. Giovannetti, La valutazione della professionalità dei magistrati nel quadro dei principi costituzionali, in F. Dal Canto e R. Romboli (a cura di), Contributo al dibattito sull'ordinamento giudiziario, Torino, 2004, 149 ss.
[6] Cfr. Corte cost., sent. n. 86/1982; in senso analogo, cfr. anche sentt. nn. 140/1992, 376/1993 e 272/2008.
[7] G. Silvestri, Verifica di professionalità versus indipendenza dei magistrati: una falsa contrapposizione in E. Bruti Liberati (a cura di), I magistrati e la sfida della professionalità, cit., 88.
[8] Circolare P. 21578 adottata con delibera 13 novembre 2024, in Ordinamentogiudiziario.info.
[9] Cfr. L. Ferrajoli, Sul rapporto dei magistrati con la società, in Questione giustizia, 17 giugno 2024.
[10] Cfr. A. Pizzorusso, Principio democratico e principio di legalità, in Questione giustizia, n. 2/2003, 353.
[11] M. Cappelletti, Giudici o legislatori?, Milano, 1984, 1 ss., il quale, appunto, ha sottolineato come il dato della natura creativa dell'attività interpretativa fosse, in fondo, una “verità banale”, per quanto non vi fosse dubbio che la produzione del diritto ad opera del legislatore e del giudice avvenisse con “modalità differenti ed entrambi soggetti operassero nell'ordinamento secondo differenti forme di responsabilità e di legittimazione democratica”.
[12] M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealista dell'interpretazione, in Analisi del diritto 2004, Ricerche di giurisprudenza analitica, a cura di P. Comanducci e G. Guastini, Torino, 2005, 1 ss.
[13] Cfr. G. Civinini, Valutazioni di professionalità e qualità della giustizia, in Questione giustizia, 7 gennaio 2015.
[14] T. Giovannetti, La valutazione della professionalità dei magistrati nel quadro dei principi costituzionali, cit., 163 s.
[15] Ho già ricordato, in proposito, che il Disegno di legge costituzionale Nordio prevede, all’art. 105 Cost., di sostituire la formula “le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” con quella “valutazioni di professionalità e conferimenti di funzioni nei riguardi dei magistrati”.
[16] A. Pizzorusso, Indipendenza del magistrato e assegnazione di funzioni, in Questione giustizia, n. 2/1991, 295 ss.
[17] R. Romboli, La professione del magistrato tra legislazione attuale e possibili riforme, cit., 16.
[18] G. Silvestri, Imparzialità del magistrato e credibilità della magistratura, in Magistrati: essere ed apparire imparziali, in Questione giustizia, n. 1-2/2024, 42 ss.
[19] Su cui si veda M. G. Civinini, Valutazioni di professionalità e qualità della giustizia, in Questione giustizia, 7 gennaio 2015.
[20] G. Silvestri, Verifica di professionalità versus indipendenza dei magistrati: una falsa contrapposizione, cit., 89.
[21] Ma - si precisa - non devono essere resi pubblici i risultati, pena il rischio di screditare i magistrati agli occhi del pubblico, rendendoli così più vulnerabili ai tentativi di influenzarli.
[22] G. Maranini, Carriera dei giudici, casta giudiziaria e potere politico, in Id. (a cura di), Magistrati o funzionari?, Milano, 1962, 59 s.
[23] Cfr. Circolari n. 1275/1985 e n. 17003/1999.
[24] V. Borraccetti e G. Borrè, Professionalità, controlli, assegnazione di funzioni, in Questione giustizia, n. 2/1996, 352.
[25] Lo ricorda T. Giovannetti, La valutazione della professionalità dei magistrati, cit., 156 s., il quale peraltro sottolinea come l’insoddisfazione nei confronti del modello concreto di verifica della professionalità operante in quel periodo non derivasse soltanto dall’inadeguata applicazione della normativa, o da un cedimento del sistema di autogoverno, ma anche dalla necessità di un intervento legislativo che incidesse sui punti più dolenti della disciplina.
[26] Cfr. E. B. Liberati (a cura di), I magistrati e la sfida della professionalità, cit., 1 ss.
[27] A. Patrono, Formazione dei magistrati e valutazione di professionalità, in L’ordinamento giudiziario a dieci anni dalla legge n. 150 del 2005, a cura di G. Ferri e A. Teodoldi, Napoli, 2016, 159 ss.
[28] Cfr. V. Baroncini, Le modifiche del sistema di funzionamento dei consigli giudiziari e delle valutazioni di professionalità, in La riforma dell'ordinamento giudiziario (legge 17 giugno 2022, n.71), a cura di G. Ferri, Torino, 2023, 57 ss., R. Magi e D. Cappuccio, La delega cartacea in tema di valutazione di professionalità del magistrato: considerazioni a prima lettura, in La riforma dell'ordinamento giudiziario: analisi e commenti alla legge delega n. 71 del 2022, in Questione giustizia, n. 2-3/2022, 77 ss. e O. Civitelli, La giustizia e la performance, ivi, 85 ss.
[29] Si parla, in fondo, di accertare le “gravi anomalie” e, inoltre, si precisa che la valutazione non possa mai riguardare l'attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione dei fatti e delle prove.
[30] E i tempi in cui viviamo, soprattutto pensando alle prospettive future, non sembrano per nulla rassicuranti.
[31] È noto che un gran numero di azioni disciplinari - soprattutto quelle riguardanti i ritardi nel deposito dei provvedimenti - coincide con i (pochi) casi di valutazioni di professionalità non positive.
Immagine fonte laRepubblica.
[Traduzione italiana in calce]
The Constitution Shall Not Be Ignored
The Court of Bosnia-Herzegovina Condemns Milorad Dodik
Summary: 1. Introduction - 2. Bosnia-Herzegovina between courts and politics – 3. Concluding remarks.
1. Introduction
Although Bosnia and Herzegovina has already experienced periods of instability in its recent past, in the last few months political tensions seem to have reached new heights. On 14 March 2025, the National Assembly of the Serb-majority entity (Republika Srpska, RS) adopted by emergency procedure the provisional texts of a new entity Constitution and a ‘Law on the Protection of the Constitutional Order of Republika Srpska.’ The political objective was to establish greater autonomy for Republika Srpska by establishing new institutions, independent from the state level, including an entity army and a judiciary accountable to the RS Parliament. Both texts also contain provisions on the right to self-determination and to form confederations with other countries, further reinforcing the secessionist threats by the Bosnian-Serb leadership. These recent decisions of the National Assembly reflect a broader pattern of increasingly frequent clashes between the Serb entity and state institutions. The main actors in these disputes are Milorad Dodik, President of Republika Srpska on one side, and two central institutions guaranteeing Bosnia-Herzegovina’s constitutional order on the other: the Constitutional Court of Bosnia and Herzegovina and the High Representative. The recent decision of the Parliament of the Serb Entity to adopt a new draft Constitution occurred in reaction to a series of judicial decisions, which further aggravated the tensions between central and entity institutions, as well as between courts and political power.
This essay addresses a judgment delivered by the Court of Bosnia-Herzegovina (Court BiH)[1] to assess the current constitutional situation in Bosnia and Herzegovina, thirty years after the Dayton Peace Agreement. This is a relevant decision for two main reasons. The first reason is related to its outcome, as the Court condemned Milorad Dodik to one year in prison and to a six-year ban from the presidency of the Serb entity for failing to comply with the decisions of the High Representative. The second reason concerns the judicial body delivering it. Indeed, the Court of Bosnia and Herzegovina, established in 2002, was an important development of the Bosnian-Herzegovinian judicial system. The Court has jurisdiction at the state level and is particularly concerned with ensuring effective implementation of central state competences and protecting fundamental rights and principles of the rule of law throughout the constitutional system.[2] In a judicial system as fragmented as Bosnia and Herzegovina’s, the creation of this Court was an important step towards building a consolidated judicial system capable of ensuring the independent exercise of justice at the state level. Overall, this judgment is rather effective in conveying the complex political-constitutional situation in Bosnia-Herzegovina, where the resilience of the institutions and the system itself seems increasingly fragile.
2. Bosnia-Herzegovina between courts and politics
In the past few years, the governing authorities of the Republika Srpska, led by Milorad Dodik, have regularly attacked both the Constitutional Court and the High Representative. Specifically, the issue that led to the Court BiH’s judgment originated in February 2023, when the National Assembly of the RS adopted a law on the registration of property in the Republika Srpska, which was suspended by the High Representative and declared unconstitutional by the Constitutional Court twice.[3] In both rulings, the Constitutional Court had confirmed that public property falls under the exclusive competence of the central state and not of the entities. When the law was challenged, the authorities of Republika Srpska immediately declared that they would not respect the Constitutional Court’s decision. This actually happened when, after the first decision of the Court, the law was published in the Official Gazette of the entity, thus leading to a second challenge and a second ruling of unconstitutionality in March 2023. After a few months, in June 2023, the RS National Assembly adopted two laws, directly undermining the legitimacy of the Constitutional Court and the High Representative. In the first law, the Assembly openly stated that the authority of the Constitutional Court would not have been recognised within Republika Srpska due to the presence of foreign judges,[4] which would make the Court illegitimate.
Similarly, the second law blocked the publication of the High Representative’s decisions in the Official Gazette of the Serb entity. Indeed, for several years, Dodik has challenged the legitimacy of the High Representative’s mandate, considering it to be a foreign interference, despite the fact that the role of the High Representative is clearly stipulated in the Dayton Peace Agreement[5] and reaffirmed in several UN Security Council resolutions.[6] In this case, Schmidt intervened before the law of Republika Srpska came into force, exercising the so-called ‘Bonn Powers’[7] of the High Representative. By doing so, Schmidt not only annulled the law but also imposed amendments to the Criminal Code of Bosnia and Herzegovina, making non-compliance with the High Representative’s decisions a criminal offence.[8] In the following months, the ‘duel’ between Dodik and Schmidt escalated further, with threats of expulsion of the High Representative by the Bosnian-Serb leader and new amendments introduced by Schmidt. This time, the High Representative imposed amendments on the electoral law, allowing the termination of the mandate in the event of a final conviction banning from holding public office. In this way, Schmidt effectively created the conditions to remove Dodik from office indirectly through the courts, and thus without exercising the Bonn powers that would allow him to directly remove from office public officials who act against the constitutional order and the Dayton Agreement.
In the aftermath of these political and legislative developments, on 26 February 2025, the Court of Bosnia-Herzegovina sentenced Milorad Dodik to one year in prison and a six-year ban from holding the presidency of Republika Srpska for failure to implement the decisions of the High Representative, in accordance with Art. 203.a(1) of the Criminal Code. Confirming the indictment of the BiH Prosecutor’s Office, the Court BiH ruled that the failure occurred in the time frame between 1 and 9 July 2023, during which the authorities of Republika Srpska deliberately ignored the decisions of the High Representative preventing the entry into force of the two laws adopted in June 2023 previously analysed, deciding to let the legislative process continue regularly.[9]
The decision deeply shocked public and political opinion, marking the first conviction of an entity president in post-Dayton history. Predictably, Dodik’s reaction to his conviction was immediate. On the very day of the judgment, the government of the Republika Srpska adopted a series of laws under emergency procedure, including amendments to the entity’s criminal code and a law that effectively annuls the jurisdiction of state judicial authorities in Republika Srpska. These would include the Court of Bosnia-Herzegovina and the Prosecutor’s Office, two institutions imposed by the High Representative in the early 2000s. Again, the laws were suspended by the BiH Constitutional Court as they undermined ‘state authority over part of its territory’.[10]
3. Concluding remarks
What emerges from the previous pages is that, thirty years after Dayton, the constitutional situation in Bosnia-Herzegovina is far less stable than one might have hoped, especially considering the dramatic nature of the conflict in the 1990s. In recent years, Dodik has set his political agenda on frontally attacking Dayton’s symbolic central institutions, such as the High Representative, the Constitutional Court, and the state judiciary.[11] However, while it is undeniable that these actions have fuelled political instability and a constitutional crisis that now seems endemic, it is important to note that the very institutions Dodik intends to delegitimise seem determined to continue defending the constitutional order of Bosnia-Herzegovina. According to a joint communiqué of the High Representative and the Peace Implementation Council (PIC), the resolution of the (current) constitutional crisis in Bosnia-Herzegovina is left to the central institutions. At present, institutional reactions continue to come from the judicial bodies, through the rulings by the Constitutional Court suspending the Serb entity’s laws and the work of the Office of the Public Prosecutor. The latter recently opened an investigation against Milorad Dodik, Radovan Višković (the Prime Minister of the Serbian entity) and Nenad Stevandić (the President of the National Assembly), who are suspected of acting against the constitutional order of Bosnia and Herzegovina under Art. 156(1) of the BiH Criminal Code. While the investigation was still ongoing, Dodik left the country to go on several official visits (including to Russia and Israel), a decision to which the Court of Bosnia and Herzegovina responded by requesting Interpol to issue a red notice for the arrest of Milorad Dodik.[12] Interpol’s decision not to approve the red notice and the overall reluctance of local police to arrest Dodik have been justified by the need to avoid potential clashes and contain protests in an already tense but still controlled environment. Eventually, in early July, Dodik and the other two suspects appeared ‘voluntarily’ before the Court of Bosnia and Herzegovina, which decided to terminate their custody and imposed on them a restrictive measure requiring mandatory periodical reporting to state authority.
The High Representative’s and the PIC’s invitation to the institutions moves in the direction of reducing international intervention and facilitating local ownership, a trend that has been slowly implemented in Bosnia-Herzegovina in recent years. Whether political institutions, and not only the judicial ones, will also take up the invitation remains to be seen. What is certain is that the courts have once again demonstrated their commitment to reaffirming the legal framework that emerged from the constitutional transition, based above all on the rule of law and respect for the multi-ethnic nature of Bosnia-Herzegovina. Indeed, the analysed judgment shows that the Court BiH intends to defend the sovereignty and territorial integrity of Bosnia and Herzegovina from attacks by the Republika Srpska, reiterating that the principles governing the BiH constitutional order cannot be ignored or overridden by political leadership.
***
La Costituzione non può essere ignorata.
La Corte della Bosnia-Erzegovina condanna Milorad Dodik [13]
Sommario: 1. Introduzione - 2. La Bosnia-Herzegovina tra corti e politica – 3. Considerazioni conclusive.
1.Introduzione
Sebbene la Bosnia-Erzegovina abbia già vissuto periodi di instabilità nel suo passato recente, negli ultimi mesi le tensioni politiche sembrano aver raggiunto nuovi livelli. Il 14 marzo 2025, l'Assemblea nazionale dell'entità a maggioranza serba (Republika Srpska, RS) ha adottato con procedura d'urgenza i testi provvisori di una nuova Costituzione dell'entità e di una “Legge sulla protezione dell'ordine costituzionale della Republika Srpska”. L'obiettivo politico era quello di garantire una maggiore autonomia alla Republika Srpska attraverso la creazione di nuove istituzioni indipendenti dal livello statale, tra cui un esercito dell'entità e un sistema giudiziario che risponda al Parlamento della RS. Entrambi i testi contengono inoltre disposizioni sul diritto all'autodeterminazione e alla formazione di confederazioni con altri paesi, rafforzando ulteriormente le minacce secessioniste della leadership serbo-bosniaca. Queste recenti decisioni dell'Assemblea nazionale riflettono un quadro più ampio di scontri sempre più frequenti tra l'entità serba e le istituzioni statali. I principali attori di queste controversie sono Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, da un lato, e dall'altro le due istituzioni centrali che garantiscono l'ordine costituzionale della Bosnia-Erzegovina: la Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina e l'Alto rappresentante. La recente decisione del Parlamento dell'entità serba di adottare un nuovo progetto di Costituzione è stata presa in risposta a una serie di decisioni giudiziarie che hanno ulteriormente aggravato le tensioni tra le istituzioni centrali e quelle dell'entità, nonché tra il sistema giudiziario e il potere politico.
Il presente commento esamina una sentenza della Corte della Bosnia-Erzegovina (Corte BiH)[1] volta a valutare l'attuale situazione costituzionale in Bosnia-Erzegovina, a trent'anni dall'accordo di pace di Dayton. Si tratta di una decisione rilevante per due motivi principali. Il primo motivo è legato al suo esito, in quanto la Corte ha condannato Milorad Dodik a un anno di reclusione e a sei anni di interdizione dalla presidenza dell'entità serba per non aver ottemperato alle decisioni dell'Alto rappresentante. Il secondo motivo riguarda l'organo giudiziario che l'ha emessa. Infatti, la Corte della Bosnia-Erzegovina, istituita nel 2002, ha rappresentato un importante sviluppo del sistema giudiziario bosniaco-erzegovese. La Corte ha giurisdizione a livello statale e si occupa in particolare di garantire l'effettiva attuazione delle competenze dello Stato centrale e di tutelare i diritti fondamentali e i principi dello Stato di diritto in tutto il sistema costituzionale.[2] In un sistema giudiziario frammentato come quello della Bosnia-Erzegovina, la creazione di questa Corte ha rappresentato un passo importante verso la costruzione di un sistema giudiziario consolidato in grado di garantire l'esercizio indipendente della giustizia a livello statale. Nel complesso, questa sentenza è piuttosto efficace nel trasmettere la complessa situazione politico-costituzionale della Bosnia-Erzegovina, dove la tenuta delle istituzioni e del sistema stesso appare sempre più fragile.
2. La Bosnia-Herzegovina tra corti e politica
Negli ultimi anni, le autorità governative della Republika Srpska, guidate da Milorad Dodik, hanno regolarmente attaccato sia la Corte costituzionale che l'Alto rappresentante. Nello specifico, la questione che ha portato alla sentenza della Corte della Bosnia-Erzegovina ha avuto origine nel febbraio 2023, quando l'Assemblea nazionale della RS ha adottato una legge sulla registrazione dei beni immobili nella Republika Srpska, che è stata sospesa dall'Alto rappresentante e dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale per due volte.[3] In entrambe le sentenze, la Corte costituzionale aveva confermato che i beni pubblici sono di competenza esclusiva dello Stato centrale e non delle entità. Quando la legge è stata impugnata, le autorità della Republika Srpska hanno immediatamente dichiarato che non avrebbero rispettato la decisione della Corte costituzionale. Ciò è effettivamente avvenuto quando, dopo la prima decisione della Corte, la legge è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell'entità, portando così a una seconda impugnazione e a una seconda sentenza di incostituzionalità nel marzo 2023. Dopo alcuni mesi, nel giugno 2023, l'Assemblea nazionale della RS ha adottato due leggi che minavano direttamente la legittimità della Corte costituzionale e dell'Alto rappresentante. Nella prima legge, l'Assemblea ha dichiarato apertamente che l'autorità della Corte costituzionale non sarebbe stata riconosciuta all'interno della Republika Srpska a causa della presenza di giudici stranieri,[4] il che avrebbe reso la Corte illegittima.
Analogamente, la seconda legge ha bloccato la pubblicazione delle decisioni dell'Alto rappresentante nella Gazzetta ufficiale dell'entità serba. Infatti, da diversi anni Dodik contesta la legittimità del mandato dell'Alto rappresentante, considerandolo un'ingerenza straniera, nonostante il ruolo dell'Alto rappresentante sia chiaramente sancito dall'accordo di pace di Dayton[5] e ribadito in diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.[6] In questo caso, Schmidt è intervenuto prima dell'entrata in vigore della legge della Republika Srpska, esercitando i cosiddetti “poteri di Bonn”[7] dell'Alto rappresentante. In tal modo, Schmidt non solo ha annullato la legge, ma ha anche imposto modifiche al codice penale della Bosnia-Erzegovina, rendendo reato penale il mancato rispetto delle decisioni dell'Alto rappresentante.[8] Nei mesi successivi, il “duello” tra Dodik e Schmidt si è ulteriormente inasprito, con minacce di espulsione dell'Alto rappresentante da parte del leader serbo-bosniaco e nuove modifiche introdotte da Schmidt. Questa volta, l'Alto rappresentante ha imposto modifiche alla legge elettorale, consentendo la cessazione del mandato in caso di condanna definitiva che comportasse l'interdizione dai pubblici uffici. In questo modo, Schmidt ha di fatto creato le condizioni per rimuovere Dodik dalla carica indirettamente attraverso il sistema giudiziario, e quindi senza esercitare i poteri di Bonn che gli consentirebbero di rimuovere direttamente dalla carica i funzionari pubblici che agiscono contro l'ordine costituzionale e l'accordo di Dayton.
All'indomani di questi sviluppi politici e legislativi, il 26 febbraio 2025, la Corte della Bosnia-Erzegovina ha condannato Milorad Dodik a un anno di reclusione e a sei anni di interdizione dalla presidenza della Republika Srpska per mancata attuazione delle decisioni dell'Alto Rappresentante, ai sensi dell'articolo 203.a(1) del codice penale. Confermando l'atto di accusa della Procura della Bosnia-Erzegovina, la Corte della Bosnia-Erzegovina ha stabilito che l'inadempienza si è verificata nel periodo compreso tra l'1 e il 9 luglio 2023, durante il quale le autorità della Republika Srpska hanno deliberatamente ignorato le decisioni dell'Alto Rappresentante che impedivano l'entrata in vigore delle due leggi adottate nel giugno 2023 precedentemente analizzate, decidendo di lasciare che il processo legislativo continuasse regolarmente.[9]
La decisione ha profondamente sconvolto l'opinione pubblica e politica, segnando la prima condanna di un presidente di entità nella storia post-Dayton. Com'era prevedibile, la reazione di Dodik alla sua condanna è stata immediata. Lo stesso giorno della sentenza, il governo della Republika Srpska ha adottato una serie di leggi con procedura d'urgenza, tra cui modifiche al codice penale dell'entità e una legge che di fatto annulla la giurisdizione delle autorità giudiziarie statali nella Republika Srpska. Tra queste figurano la Corte di Bosnia-Erzegovina e la Procura, due istituzioni imposte dall'Alto Rappresentante all'inizio degli anni 2000. Anche in questo caso, le leggi sono state sospese dalla Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina in quanto minavano “l'autorità dello Stato su parte del suo territorio”.[10]
3. Considerazioni conclusive
Da quanto esposto nelle pagine precedenti emerge che, a trent'anni dall'accordo di Dayton, la situazione costituzionale in Bosnia-Erzegovina è molto meno stabile di quanto si potesse sperare, soprattutto considerando la drammaticità del conflitto degli anni Novanta. Negli ultimi anni, Dodik ha incentrato la sua agenda politica sull'attacco frontale alle istituzioni centrali simboliche di Dayton, quali l'Alto Rappresentante, la Corte costituzionale e la magistratura statale.[11] Tuttavia, sebbene sia innegabile che tali azioni abbiano alimentato l'instabilità politica e una crisi costituzionale che ora sembra endemica, è importante notare che proprio le istituzioni che Dodik intende delegittimare sembrano determinate a continuare a difendere l'ordine costituzionale della Bosnia-Erzegovina. Secondo un comunicato congiunto dell'Alto Rappresentante e del Consiglio per l'attuazione della pace (PIC), la risoluzione dell'attuale crisi costituzionale in Bosnia-Erzegovina è lasciata alle istituzioni centrali. Al momento, le reazioni istituzionali continuano a provenire dagli organi giudiziari, attraverso le sentenze della Corte costituzionale che sospendono le leggi dell'entità serba e il lavoro dell'Ufficio del Procuratore Generale. Quest'ultimo ha recentemente avviato un'indagine contro Milorad Dodik, Radovan Višković (il primo ministro dell'entità serba) e Nenad Stevandić (il presidente dell'Assemblea nazionale), sospettati di aver agito contro l'ordine costituzionale della Bosnia-Erzegovina ai sensi dell'articolo 156, paragrafo 1, del codice penale della Bosnia-Erzegovina. Mentre l'indagine era ancora in corso, Dodik ha lasciato il paese per recarsi in visita ufficiale in diversi paesi (tra cui Russia e Israele), una decisione alla quale la Corte della Bosnia-Erzegovina ha risposto chiedendo all'Interpol di emettere una segnalazione rossa per l'arresto di Milorad Dodik.[12] La decisione dell'Interpol di non approvare la red notice e la riluttanza generale della polizia locale ad arrestare Dodik sono state giustificate dalla necessità di evitare potenziali scontri e contenere le proteste in un contesto già piuttosto teso. Alla fine, all'inizio di luglio, Dodik e gli altri due indagati si sono presentati “volontariamente” davanti alla Corte della Bosnia-Erzegovina, che ha deciso di revocare la loro custodia cautelare e ha imposto loro una misura restrittiva che prevede l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità statali.
L'invito dell'Alto rappresentante e del PIC alle istituzioni va nella direzione di ridurre l'intervento internazionale e facilitare la local ownership, una tendenza che è stata lentamente attuata in Bosnia-Erzegovina negli ultimi anni. Resta da vedere se anche le istituzioni politiche, e non solo quelle giudiziarie, accoglieranno l'invito. Quel che è certo è che le corti hanno dimostrato ancora una volta il loro impegno a riaffermare il quadro giuridico emerso dalla transizione costituzionale, basato soprattutto sullo Stato di diritto e sul rispetto della natura multietnica della Bosnia-Erzegovina. La sentenza analizzata dimostra infatti che la Corte della Bosnia-Erzegovina intende difendere la sovranità e l'integrità territoriale della Bosnia-Erzegovina dagli attacchi della Republika Srpska, ribadendo che i principi che regolano l'ordine costituzionale della Bosnia-Erzegovina non possono essere ignorati o ignorati dalla leadership politica.
[1] Court of Bosnia and Herzegovina, S1 2 K 046070 23 Ko Milorad Dodik et al., 26 February 2025.
[2] Law on Court of Bosnia and Herzegovina (Official Gazette of Bosnia and Herzegovina, 49/09).
[3] Constitutional Court of Bosnia and Herzegovina, Case U-10/22, 22 September 2022; Constitutional Court of Bosnia and Herzegovina, Case U-5/23, 2 March 2023.
[4] See Alex Schwartz, International Judges on Constitutional Courts: Cautionary Evidence from Post-Conflict Bosnia, 44 Law Soc. Inq. 1 (2019).
[5] Dayton Peace Agreement – Annex No. 10, Art. II, para. 26 and Art. V.
[6] See for example Resolution No. 2549 of 2020, adopted by the UN Security Council on 11 May 2020.
[7] See Tim Banning, The ‘Bonn Powers’ of the High Representative in Bosnia Herzegovina: Tracing a Legal Figment, 6 Goettingen Journal of International Law 259 (2014).
[8] Official Gazette of Bosnia and Herzegovina, No. 47/23.
[9] See Court of Bosnia and Herzegovina, S1 2 K 046070 23 Ko Milorad Dodik et al., 26 February 2025.
[10] Constitutional Court of Bosnia and Herzegovina, Case U-7/25, 7 March 2025; Constitutional Court of Bosnia and Herzegovina, Cases U-6/25, U-7/25, U-8/25, 29 May 2025.
[11] Lidia Bonifati, Constitutional Design and the Seeds of Degradation in Divided Societies: The Case of Bosnia-Herzegovina, 19 European Constitutional Law Review 223 (2023).
[12] Una Hajdari, Bosnian Serb Leader Appears in Moscow as Authorities Step Up in Pursuit, Politico.eu, 1 April 2025.
[13] [traduzione italiana con DeepL]
[1] Corte della Bosnia-Erzegovina, S1 2 K 046070 23 Ko Milorad Dodik et al., 26 febbraio 2025.
[2] Legge sulla Corte della Bosnia-Erzegovina (Gazzetta ufficiale della Bosnia-Erzegovina, 49/09).
[3] Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina, causa U-10/22, 22 settembre 2022; Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina, causa U-5/23, 2 marzo 2023.
[4] Cfr. Alex Schwartz, International Judges on Constitutional Courts: Cautionary Evidence from Post-Conflict Bosnia, 44 Law Soc. Inq. 1 (2019).
[5] Accordo di pace di Dayton – Allegato n. 10, art. II, paragrafo 26 e art. V.
[6] Cfr. ad esempio la risoluzione n. 2549 del 2020, adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite l'11 maggio 2020.
[7] Cfr. Tim Banning, The ‘Bonn Powers’ of the High Representative in Bosnia Herzegovina: Tracing a Legal Figment, 6 Goettingen Journal of International Law 259 (2014).
[8] Gazzetta ufficiale della Bosnia-Erzegovina, n. 47/23.
[9] Cfr. Corte della Bosnia-Erzegovina, S1 2 K 046070 23 Ko Milorad Dodik et al., 26 febbraio 2025.
[10] Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina, causa U-7/25, 7 marzo 2025; Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina, cause U-6/25, U-7/25, U-8/25, 29 maggio 2025.
[11] Lidia Bonifati, Constitutional Design and the Seeds of Degradation in Divided Societies: The Case of Bosnia-Herzegovina, 19 European Constitutional Law Review 223 (2023).
[12] Una Hajdari, Bosnian Serb Leader Appears in Moscow as Authorities Step Up in Pursuit, Politico.eu, 1 aprile 2025.
La storia della lotta alla mafia siciliana si è svolta principalmente a Palermo, ma non solo a Palermo. È una storia corale, di cui ogni zolla di terra di quest'isola è intrisa. In ogni città, qualcuno potrà dire, o testimoniare, qualcosa. E se, ad esempio, si andasse a Cefalù, subito verrebbe detto, da chiunque, che da lì venivano ben tre giudici popolari del maxi-processo di Palermo, di cui una titolare: Teresa Cerniglia, che firmò assieme agli altri giudici la prima vera condanna a morte di Cosa nostra. E poiché l'eredità di Falcone e Borsellino è specifica - perché specifico è il fenomeno criminale che contrastavano con le armi del diritto - ma in questa specificità è comunque immensa, per ricostruirla traendone una delle molteplici chiavi di lettura si può partire da un punto qualsiasi: Cefalù, per esempio.
Ci sono stato, l'ultima volta, lo scorso 23 maggio, per la commemorazione della strage di Capaci - appunto. Quel pomeriggio arrivavo da Roma, e all'aeroporto di Fiumicino avevo notato - forse già c'era, ma non l'avevo mai notata prima - una installazione artistica. È una enorme palla realizzata con dei fogli accartocciati. Sapete quando si scrive su di un foglio, si sbaglia e poi lo si accartoccia per gettarlo nel cestino? L'opera si chiamava, non a caso, Daniele Sigalot, Master of Mistakes, 2022 Lacca acrilica su alluminio: maestro degli errori.
Cosa c'entrava questo con Cefalù, la Sicilia, le stragi di mafia?
Per me Cefalù, la città immobile perché paga della sua magnificenza arabo-normanna, è la Sicilia. Ma la Sicilia è, per me come per tutti, anche la strage di Capaci, la strage di via d'Amelio.
Questo termine bivalente - Cefalù, le stragi mafiose; la bellezza, l'orrore - è una contraddizione profonda, una ferita inguaribile; del resto, la Sicilia è, forse più d'ogni altra, la terra delle contraddizioni, delle ferite aperte. Non era forse Leonardo Sciascia che, riferendosi al ritratto di Antonello del Museo Mandralisca, punto d'orgoglio di Cefalù, diceva che egli può assomigliare a chiunque: a un nobile o un plebeo, a un notaro o a un contadino, a un uomo onesto o ad un mafioso? Forse perché, contraddittoriamente, egli è tutte queste cose; ed io ho sempre pensato che quel quadro fosse l'emblema dello spirito siciliano.
Delle nostre contraddizioni, non ci libereremo mai.
Immagino le contraddizioni come i fogli accartocciati di quell'opera esposta a Fiumicino. La contraddizione, aristotelicamente parlando, è un errore che non ci appartiene, e che per questo gettiamo via. Ma tutti noi sappiamo che le nostre vite sono segnate dalle contraddizioni, e che in quei fogli di carta ci sono anche le nostre vite.
E, passando dalle nostre piccole miserie ai grandi esempi di impegno civile consegnati per sempre alla Storia, in quei fogli di carta immagino anche le vite di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, ma anche di Francesca Morvillo e di tutti i loro agenti di scorta, le cui esistenze sono state troncate dalla più feroce e profonda contraddizione di questa terra: la mafia. La loro coerenza, nello spirito di servizio, nel senso del dovere condotto fino al sacrificio, è stata la risposta alla più abominevole contraddizione di questa terra.
A Cefalù, quell'ultima volta che ci sono stato, ho ricordato, commemorato; ma mi sono reso anche conto che serve uno sforzo ulteriore, che vada oltre la giornata listata a lutto. Serve una quotidiana riflessione su noi stessi.
Credo che ognuno di noi debba sempre avere davanti il proprio Master of Mistakes: l'enorme palla in cui finiscono le nostre contraddizioni. Averle davanti, così plasticamente raffigurate, può aiutarci a rimanere coerenti fino in fondo, nella scelta che si compie, ogni giorno: ogni giorno siamo infatti chiamati a scegliere da che parte stare, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Loro, però, ne erano perfettamente consapevoli.
Sono convinto che quel Master of Mistakes ce l'avesse sempre davanti Giovanni Falcone, e Paolo Borsellino, consapevoli delle profondissime contraddizioni che fratturavano la Sicilia e il popolo siciliano - persino loro stessi - e originavano il male assoluto della mafia: questo, credo, li aiutava a rimanere coerenti, nella scelta che compivano ogni giorno.
Immagine: Daniele Sigalot, Master of Mistakes, lacca acrilica su alluminio, 2022.
La nuova fattispecie di femminicidio ha suscitato notevoli criticità tra gli operatori del settore per l’asserita mancanza del requisito della determinatezza. Il presente contributo intende dimostrare che il suo punto debole non consiste tanto nella violazione del principio di determinatezza, quanto nella trasformazione di un “fatto” in un atteggiamento mentale, così da punire più gravemente l’omicida per l’adesione a un certo sistema filosofico, cioè, in definitiva, per il suo modo di essere. Con l’ulteriore conseguenza che, essendo il sistema filosofico in questione alquanto vago e nebuloso, si corre il rischio di infliggere al reo la sanzione penale massima non per ciò che è, ma per ciò che il giudice (o il popolo, di cui il giudice si fa interprete ufficiale) crede che sia. Una tendenza sempre più diffusa nel nostro sistema penale, che a volte si spinge a punire l’autore per una mera etichetta, ossia per l’apparente adesione (meglio: incarnazione) a uno stereotipo antropologico o culturale, ritenuto antisociale e/o moralmente biasimevole. Qui il maschio prevaricatore, tossico e, in definitiva, misogino.
Il nuovo articolo 577-bis c.p., previsto dal disegno di legge governativo n. 1433 (“introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”), punisce con l’ergastolo “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. Segue la disciplina delle circostanze.
La pena dell’ergastolo per la fattispecie base indica di per sé che questo è un reato (ben) più grave dell’omicidio comune, che resta applicabile laddove l’uccisione della donna non sia legata alle peculiari caratteristiche indicate.
Di recente il prof. Fiandaca, sulle pagine di una nota Rivista [1], ha delineato le criticità, dal punto di vista del rispetto dei valori costituzionali, del disegno di legge in questione. Pur condividendosi i rilievi critici esposti, però, non sembrano potersi condividere integralmente le premesse di fondo del ragionamento.
L’Illustre, nelle prime battute, scrive: «ma questa contrarietà si inquadra - ho sempre motivo di supporre - in un orizzonte critico ben più ampio, che include il sempre più frequente uso del diritto penale come strumento di consenso politico o come mezzo pedagogico (...). Creando nuovi reati o introducendo circostanze aggravanti i politici di turno mostrano di rispondere in modo sollecito alle aspettative di protezione e alle paure dei cittadini (...). Una ulteriore ragione dell’uso smodato del penale è individuabile nella tendenza a sfruttarne il potenziale simbolico-comunicativo, come medium per rimarcare agli occhi dei cittadini l’importanza dei valori da tutelare e per promuoverne l’interiorizzazione nella coscienza sociale».
In questo passaggio, in definitiva, viene sottolineata la possibilità di utilizzare in modo distorto la funzione propulsiva del diritto penale, volta all’adempimento dei doveri individuali di solidarietà economica e sociale, nonché alla rimozione degli ostacoli economico-sociali che, impedendo l’omogeneizzazione della società, finiscono, dal punto di vista causalistico, col predisporre alla criminalità [2].
Aggiunge, poi, che «in una democrazia costituzionale degna di questo nome, convertire i maschilisti dovrebbe costituire un obiettivo da perseguire solo con la cultura, l’educazione, la promozione di condizioni ambientali più evolute nei contesti in cui perdurano visioni patriarcali».
Questa linea argomentativa si espone alla critica – subito mossagli dai sostenitori della necessità di una svolta nel contrato alla violenza di genere – di lasciare senza una tutela penale specifica le donne vittima di aggressioni suscettibili di varcare la pur avanzata linea di difesa fissata dall’art. 612 bis c.p. (cd. stalking).
Lasciando da parte queste – e altre – valutazioni di politica criminale e di tecnica legislativa, ci sembra che la figura di delitto in gestazione sconti un difetto per certi versi più serio della semplice indeterminatezza: l’aver sussunto, nell’ambito del ‘fatto commesso’ (termine impiegato dall’art. 25 cost. per sottolineare l’esigenza che il diritto penale si occupi delle azioni degli umani capaci di modificare la realtà, piuttosto che dei loro pensieri), un qualcosa che, invece, appartiene a una mera costruzione filosofica.
È fuor di dubbio, infatti, che la ratio sottesa all’incriminazione di chi uccide per “odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio delle sue libertà o l’espressione della sua personalità” sia quella di sanzionare più gravemente l’omicidio commesso quale espressione di una concezione maschilista o, come si suol dire oggi, “patriarcale”.
Ma, dal punto di vista scientifico [3], termini come maschilismo o patriarcato evocano concetti vaghi, vaporosi e indefiniti, rappresentando nozioni universali che, in quanto tali, risultano prive di verifica empirica. Se, infatti, si tiene conto delle divergenze che esistono tra estensione di una parola (classe delle cose a cui la parola si applica) e intensione di una parola (l’insieme delle proprietà che stabiliscono a quali cose la parola è applicabile), si ha che per aumentare l’estensione di un termine se ne deve ridurre l’intensione. Procedendo in questo modo, possiamo ricavare un termine più inclusivo che non diventa, però, impreciso. Se, da un lato, un concetto generale che sussume una molteplicità di specie entro un più largo genere prelude a generalizzazioni scientifiche, dall’altro una mera generalità non può che approdare soltanto a discorsi nebulosi e confusi [4].
In tal modo, in definitiva, a mancare, seguendo l’approccio del Prof. Fiandaca e quello del Prof. Manes [5], non sarebbe tanto il requisito della determinatezza quanto, piuttosto, quello della precisione della fattispecie penale.
Si ricorre, ora, a delle immagini mentali per spacchettare in idee più semplici un concetto complesso: la teoria delle stringhe è completa sul piano della precisione ma, allo stesso tempo, carente sul piano della determinatezza perché, al momento, non si dispone degli strumenti per verificarla empiricamente. La disposizione volta a punire chi, invece, veste male è carente, innanzitutto, sul piano della precisione, perché la mancanza del requisito della determinatezza deriva logicamente dalla costruzione del precetto attorno a una teoria, di fatto, non falsificabile, con l’effetto di non essere scientifica.
Solo riconoscendo, pertanto, la fumisteria verbale adottata per veicolare l’incriminazione del maschilismo et similia si può, come logica conseguenza, dedurre che la disposizione in esame finisce col punire il soggetto per quello che è (ossia, un individuo che sostanzialmente adotta un altro modello filosofico e che, pertanto, disobbedisce alla dottrina di Stato), anziché per quello che fa. Il modello filosofico, infatti, può essere visto, seguendo l’impostazione severiniana [6], come uno spazio che, in quanto tale, influenza i movimenti degli attori che vi si muovono. Coerentemente, il Prof. Northrop [7] scrive che «ogni teoria fisica costruisce sempre un numero di supposizioni fisiche e filosofiche maggiore di quello che i semplici fatti fornirebbero o implicherebbero». Einstein ed Heisenberg non sono d’accordo, in definitiva, perché sono i presupposti filosofici delle loro teorie a essere differenti [8].
Il punto, però, è che una teoria deve essere definita. Omnis determinatio est negatio. Nel caso del maschilismo e del patriarcato sfugge il loro negativo e, a livello teorico, non è ben chiaro cosa significhi essere maschilisti (o non esserlo). Di conseguenza, sorge il sospetto che quando si scrive che «la riflessione da fare è di tipo culturale: ossia quella di contrastare un maschilismo (direi machismo) tossico, che non tollera la perdita di proprietà sul corpo femminile in un contesto sociale profondamente mutato rispetto ai rapporti patriarcali» si stia dando per definito e scontato qualcosa che invece è tutto da definire [9].
Si potrebbe aggiungere, inoltre, facendo un parallelismo con gli organismi viventi, che ogni uomo, per un istinto primario, tende a vivere (si pensi, sempre per meglio chiarire il concetto, alla impossibilità di tapparsi il naso e lasciarsi morire per mancanza di ossigeno). Allo stesso modo, la Costituzione, essendo un’opera dell’uomo, è pervasa dalla stessa ratio, con l’effetto che non potrebbe mai consentire, salvo la frustrazione del proprio teleologismo, di dare vita a degli atti che portano alla distruzione degli scopi che persegue.
Così, ad esempio, la Costituzione ha come scopo (argomentando, ex multis, dalla dodicesima disposizione transitoria e finale) quello di evitare il ritorno di una forma di governo fascista. Di conseguenza, la qualifica di “fascista”, “nazista” ecc. (essendo incompatibile con i valori costituzionali) attribuita a un certo soggetto comporta la lesione della sua reputazione [10]. Si immagini, per assurdo, che l’anima di Hitler si reincarni in un nuovo essere che inizia a fare politica e ad ottenere sempre più consensi, proponendo temi hitleriani. Formalmente, dovremmo condannare per diffamazione lo studioso che attribuisce a tale figura l’epiteto di fascista ma, così ragionando, andremmo contro il teleologismo della Costituzione, che consiste proprio nell’evitare l’instaurarsi di una nuova dittatura. Pertanto, sarebbe falsa analogia mettere sullo stesso piano la condotta dello studioso che accusa Tizio, privato cittadino, di essere fascista con quella dello studioso che, invece, rivolge lo stesso epiteto al politico dell’esempio.
Questo discorso serve per meglio comprendere la tesi del Prof. Sartori [11]: «resta da spiegare - facendo un passo indietro - come mai, d’un tratto, la differenza diventa un problema, e anzi il problema dei problemi. Nei limiti, ogni individuo è ed è sempre stato diverso da ogni altro in tutto (bellezza, mole, salute, talenti, interessi ecc.). E lo stesso è vero per gli aggregati. La domanda dunque è: perché una differenza diventa rilevante - viene percepita come rilevante - e altre no? È chiaro, infatti, che se siamo diversi in tutto non è né possibile né concepibile attribuire rilevanza a tutte le differenze. Allora, ridomando, perché nel riconoscere soltanto alcune differenze scegliamo proprio quelle che scegliamo? Torniamo, per illustrare, al caso della affirmative action negli Stati Uniti. Qui il trattamento preferenziale si applica, ufficialmente, ai neri, messicani, portoricani, indiani (nativi), filippini, cinesi, giapponesi. Perché a loro e soltanto a loro? E cioè perché la loro differenza conta, mentre le differenze, che so, degli armeni, cubani, polacchi, irlandesi, italiani, non contano? La spiegazione è che si deve privilegiare chi è stato più discriminato. Questa spiegazione ha una sua logica, anche se la selezione che ne deriva non è altrettanto logica. Passi. Ma in prosieguo di tempo è accaduto che il principio delle discriminazioni compensanti si è esteso di fatto alle donne, agli omosessuali e persino sui malati di AIDS (privilegiati, per esempio, rispetto ai malati di cancro). Perché? Quale è a questo punto la logica che stabilisce quali sono le differenze rilevanti? A me sembra che a questo punto il perché logico cede il passo a questa spiegazione pratica: che le differenze che contano sono sempre più le differenze evidenziate da chi sa fare rumore e si sa mobilitare nel favorire o danneggiare interessi economici o interessi elettorali (...). E il fatto è che le entità che oggi richiedono rispetto non esistevano, nell’autoconsapevolezza, cinquanta anni fa. Pertanto, la sequenza storicamente e logicamente corretta è che prima si inventa o comunque visibilizza una entità, per poi dichiararla calpestata e così infine scatenare le rivendicazioni collettive dei misconosciuti che in precedenza non sapevano di esserlo. Negli anni sessanta scrivevo che non è la classe che produce il partito di classe ma che semmai è il partito che produce la classe (...). La politica del riconoscimento non si limita a riconoscere; in realtà fabbrica e moltiplica differenze mettendocele in testa. Il punto è che in questo modo la comunità pluralistica viene sfasciata».
La norma in esame prosegue un trend oramai più che decennale, ispirato da una logica multiculturale che finisce con lo spaccare la società pluralista, ponendosi in tensione financo con l’art. 52 Cost., secondo cui “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Come può il cittadino, in base a una malpensata applicazione dell’ideologia dell’inclusione, sentirsi tenuto a difendere una Patria che lo discrimina rispetto ad altri suoi concittadini? Solo una società pluralista che non impone una morale assoluta è idonea a spingere persone con diverse idee a sacrificarsi per essa.
La logica multiculturale, comportando la riduzione degli spazi riservati alla generalità ed astrattezza della legge [12], dà vita a un diritto penale che, anziché basarsi sulla punizione delle “costanti” [13], si trasforma in “mera sovrastruttura di una sottostante struttura economico-sociale” [14].
Come osserva il prof Fiandaca, «se fosse davvero necessaria una nuova incriminazione diversa dal generale delitto di omicidio, si dovrebbe per coerenza configurare una ulteriore e autonoma fattispecie per sanzionare l’omicidio motivato da omofobia». Ciò dovrebbe avvenire anche per il reato di lesioni personali dolose, per il delitto di diffamazione, per gli atti persecutori ecc. L’assurdità di queste conclusioni, non può che far ritenere l’erroneità della premessa volta a considerare necessaria l’introduzione di un autonomo delitto di femminicidio.
Chi la propugna, evidentemente, dà per provato un costrutto teorico che, per ora, oltre a non aver ricevuto verifica empirica (perché ad esempio si uccidono più donne nelle società non patriarcali?) [15], non sembra neanche ben definito (cosa è una società patriarcale? Come si misura?).
La conclusione, allora, è specularmente inversa a quella cui giunge il prof. Fiandaca («creando nuovi reati o introducendo circostanze aggravanti i politici di turno mostrano di rispondere in modo sollecito alle aspettative di protezione e alle paure dei cittadini»): più che creare reati per rispondere alle paure dei cittadini, si creano paure, da cui nascono nuovi reati.
È un percorso nei risultati non lontano dalla teorizzazione nazista del “gesundes Volksempfinden” (sano sentimento popolare). A furia di dipingere la società italiana come patriarcale, si è creata una presunzione di pericolosità sociale dei maschi in quanto tali. Ci si augura che, quantomeno, sia una presunzione iuris tantum, e che, soprattutto, possa tornarsi al più presto verso un diritto penale incentrato principalmente sulla razionalità delle “costanti”.
1 Cfr. G. FIANDACA, Cari prof. di diritto penale, è ora di protestare contro il delitto di femminicidio, in Sistema penale on-line del 14 marzo 2025.
2 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2017, p. XLVI.
3 Cfr. G. SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Bologna, 2011; Id., Politics, ideology and belief systems, in American Political Science Review, giugno 1969, pp. 398 – 411.
4 Cfr. G. SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, cit., p. 27.
5 Cfr. V. MANES, Perché il reato di femminicidio non sta in piedi. Parla il Prof. Manes, in il Foglio dell’11 marzo 2025 secondo cui “la commissione di un femminicidio come atto di discriminazione è insuscettibile di una verifica empirica”.
6 Cfr. E. SEVERINO, La filosofia antica, Milano, 1990 p. 15 secondo cui «in genere si pensa che a determinare una grande epoca storica non possa essere la filosofia (che è il lavoro di una élite ristretta, vissuta sempre al di fuori dei luoghi dove si decidono le sorti del mondo), ma movimenti che abbiano una presa immediata sulle masse, come la religione, e, per quanto riguarda la nostra civiltà, il cristianesimo. Dicendo che la filosofia greca apre lo spazio dove giocano le forze dominanti della nostra civiltà non intendiamo confondere lo spazio col gioco che vi si conduce, ma rilevare che ogni gioco della nostra civiltà – e ormai ogni gioco della terra – vien fatto all’interno di tale spazio e ne resta determinato così come i nostri movimenti sono condizionati dallo spazio fisico in cui veniamo a trovarci».
7 Cfr. F.S.C. NORTHROP, in W. HEISENBERG – Fisica e filosofia, Milano, 2021, p. 12.
8 Cfr. F.S.C. NORTHROP, in W. HEISENBERG – Fisica e filosofia, cit. p. 13 secondo cui «la teoria fisica non è né una semplice descrizione di fatti sperimentali né qualche cosa di deducibile da tale descrizione. Invece, come Einstein ha messo in rilievo, il fisico perviene alla sua teoria attraverso mezzi puramente speculativi. La deduzione, nel suo procedimento, non va dai fatti alle supposizioni teoriche, ma da queste ai fatti e ai dati sperimentali”. È questo assunto teorico che consente di meglio comprendere l’affermazione testé riportata di Northrop secondo cui “ogni teoria fisica costruisce sempre un numero di supposizioni fisiche e filosofiche maggiore di quello che i semplici fatti fornirebbero o implicherebbero. Per questa ragione è soggetta a subire modificazioni o sviluppi non appena si presenti una nuova testimonianza che sia incompatibile, come è accaduto per i risultati dell’esperimento di Michelson e Morley, con i suoi principi fondamentali».
9 Cfr. M. Pelissero, Nuovo reato di femminicidio, le criticità del disegno di legge in https://www.otto.unito.it/it/articoli/nuovo-reato-di-femminicidio-le-criticita-del-disegno-di-legge.
10 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale – parte speciale. Delitti contro la persona, Padova, 2022, p. 217 ss. La ratio indicata sembra essere conforme a quanto statuito dalla Corte di cassazione (sentenza n. 29433 del 20 luglio 2007) secondo cui «è appena il caso di considerare, infine, che dare gratuitamente del fascista ad un comune cittadino è certamente offensivo perché mira a dipingere lo stesso come arrogante e prevaricatore, ma riferirlo ad un politico che, peraltro, esercita rilevanti poteri pubblici è espressione di critica perché si paragona il modo di governare e di amministrare la cosa pubblica dello stesso ad una prassi ben nota ai cittadini ». La sentenza è reperibile al seguente link: https://canestrinilex.com/risorse/dare-del-fascista-ad-un-politico-non-e-reato-se-cass
11 Cfr. G. SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, 2000, p. 75 ss.
12 Cfr. G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Bologna, 1995, p. 107 secondo cui «forma giuridica non sta affatto per dire apparenza o vuotaggine. La forma di legge e la natura formale della legge sono, quantomeno in sede di diritto positivo, le caratteristiche in virtù delle quali una legge è legge. Si dà anche una più ampia accezione etica del concetto di forma per la quale è precisamente la formulazione formale delle norme morali che tratta l’uomo come un agente libero».
13 Cfr. P. NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, p. 39 ss.
14 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, cit. p. XXVI secondo cui «il diritto penale – per il fatto di poggiare su un sistema di sanzioni limitatrici dell’altrui libertà – più di ogni altro ramo del diritto è lo strumento più immediato per proteggere ma anche per negare i diritti umani fondamentali”.
15 Cfr. M. WEMRELL – M. LILA – E. GRACIA – A. K. IVERT, The nordic Paradox and intimate partner violence against women in Sweden: a background overview, in Sociology Compass, dicembre 2019.
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Franco Cordero intellettuale del dissenso*
Sommario: 1. Prologo – 2. La Procedura penale secondo Franco Cordero – 3. Cordero filosofo del diritto: l’incidente della Cattolica – 4. Segue: Il caso Cordero davanti alla Corte costituzionale e nelle reazioni dei commentatori – 5. Narratore e storico – 6. Polemista negli anni 2000 – 7. Lascito intellettuale.
1. Prologo
Franco Cordero (Cuneo, 6 agosto 1928 – Roma, 8 Maggio 2020) è stato, più che un giurista, un intellettuale di straordinaria erudizione, con interessi in ogni anfratto dello scibile umanistico. L’attitudine alla critica e al dissenso rispetto alle tendenze dominanti del pensiero, politico, teologico, giuridico lo ha esposto a frequenti polemiche, affrontate sempre con atteggiamento laico e razionale. Come giurista, ha avuto un’influenza enorme nello sviluppo della dottrina processualpenalistica. Ha offerto importanti approfondimenti nel campo della filosofia del diritto, della teologia oltre che minuziosi affreschi storia della giustizia penale. Si è prodigato come romanziere, segnalandosi per l’originalità dello stile letterario e vincendo il premio Viareggio (miglior opera prima) con il libro Genus (1969). Nella veste di pubblicista, ha animato vivaci polemiche, prendendo di mira principalmente le ortodossie del pensiero religioso e talune arroganze della politica.
Già gli inizi del Cordero studioso sono stati accidentati. Desideroso di dedicarsi all’arte medica, decide di iscriversi alla facoltà giuridica torinese dopo una singolare esperienza vissuta da diciottenne nell’ultimo anno di liceo (1946). Come lui stesso racconta, viene invitato da Gino Giugni (genovese, che aveva frequentato Cuneo come sfollato durante il secondo conflitto mondiale) a tenere una conferenza su “Socialismo e cristianesimo” in un circolo cittadino. Assiste all’incontro Aldo Viglione (cuneese, partigiano, avvocato e poi politico). «Hanno influsso plagiario i suoi complimenti» ricorderà Cordero. A sentir lui «ho l’avvocatura nei cromosomi, con sicure prospettive fra foro e politica. Tramonta così la vocazione medica» (così in Morbo italico, Roma-Bari, Laterza 2013, 235).
Si laurea nel 1950 in Diritto romano, sotto la guida di Giuseppe Grosso, discutendo una tesi dal titolo Pactum de non petendo nell’obbligazione solidale di diritto romano. Vorrebbe crescere nell’ambiente del prof. Grosso, ma capisce subito che le prospettive di carriera in quel settore sono pressoché inesistenti. Frequenta per qualche anno la cattedra retta da Francesco Antolisei: con rammarico, costretto a deviare «dalla via seria (il diritto romano) alla fiera penalistica» (cfr. Premessa a Gli osservanti, edizione rieditata da Nave di Teseo, Milano, 2024, p. 1). Ma nemmeno quell’ambiente lo accoglie con favore: «arriverai alla cattedra dall’avvocatura», cantava l’affabile maestro (loc. ult. cit.). Nel 1954 si sposta a Milano, nello studio di Enrico Allorio, che lo consiglia di dedicarsi alla Procedura penale, disciplina nuova, da rifondare. Ed è da questo punto che conviene muovere per ripercorrere le principali tappe di una straordinaria figura di giurista e intellettuale.
2. La Procedura penale secondo Franco Cordero
Anche qui conviene lasciar la parola all’autore. In un convegno del 2008, organizzato per celebrare i sessant’anni della Costituzione repubblicana, Cordero rievoca il suo primo approccio con questa disciplina. «Sessant’anni fa non godeva buona fama. Forse posso concedermi un aneddoto autobiografico. Ho 19 anni, iscritto al secondo anno della Facoltà torinese: luogo serio; imparo comme il faut varie cose; questa coda dello scibile penalistico viene al quarto anno; da 10 (vale a dire dal 1938) costituisce materia autonoma nella ratio studiorum, prima era un capitolo trascurabile dei “Criminalia”, enucleati dallo ius civile anno Domini 1509, quando Bologna chiama Ippolito Marsili, vecchio praticone, “ad lecturam quotidianam criminalium”. Il professore, chiaro penalista (Francesco Antolisei), la ignora; non teneva nemmeno lezione. Quart’ultimo dei miei esami, vi spendo quattro o cinque giorni: 30 e lode. La cosa peggiore è che li meriti, avendo racimolato qualche idea nel deserto intellettuale». (cfr. Miserie della procedura penale, in Marco Ruotolo – a cura di – La costituzione ha sessant’anni. La qualità della vita sessant’anni dopo, Ed. scientifica, Napoli, 2008, p. 149).
Negli anni Cinquanta, la Procedura penale era dunque una disciplina abbandonata a sé stessa: un “deserto intellettuale”. All’autonomia accademica, formalmente riconosciuta da un decreto ministeriale del settembre 1938, non era seguita (se non in qualche rarissimo caso) un’assegnazione esclusiva del relativo corso a docenti di ruolo. Quasi ovunque essa era insegnata per affidamento al docente di Diritto penale, il quale finiva spesso col trascurarla. Di conseguenza, anche la manualistica e la dottrina erano di modesta levatura, prive di originalità, sempre comunque debitrici del ben più evoluto Diritto processuale civile.
Il primo studio (Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, Giappichelli, 1956) è un impegnativo esercizio di teoria generale del processo: un’opera di pura teoria, come musica astratta nei ballabili, confesserà decenni dopo (Premessa a Gli osservanti, loc. cit.). In realtà, muove da un’adesione convinta alle teorie di Hans Kelsen, lasciandosi andare a qualche spunto di ammirata polemica per il grande processualista tedesco James Goldschmidt, la cui visione realistica dell’agone processuale apprezzerà e valorizzerà negli anni successivi.
Arriva alla cattedra quasi da autodidatta, vista l’assenza di maestri processualpenalisti. Nel 1958 lo chiama l’Università di Trieste, che lascerà nel 1960, per trasferirsi a Milano, chiamato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Nel 1963 gli sarà affidato anche l’insegnamento di Filosofia del diritto: ciò che lo porterà a scontrarsi con l’ortodossia cattolica. E qui conviene che il racconto segua distintamente ciascuna delle due esperienze didattiche vissute dal nostro Autore, se non altro, per una questione di ordine espositivo e per evitare sovrapposizioni che rischierebbero di confondere il lettore.
Cominciamo con lo studioso del processo penale. All’inizio degli anni Sessanta, Cordero ha occasione di cimentarsi con le questioni più controverse che animavano la dottrina processualpenalistica impegnata nel progettare una riforma del processo adeguata alla realtà politico-costituzionale dell’epoca. Francesco Carnelutti lo chiama a far parte della commissione ministeriale da lui presieduta e istituita proprio col compito di ripensare ab imis la riforma del processo penale: non più una revisione del c.p.p. 1930, ma la riscrittura di un nuovo codice, con l’abbandono del modello cosiddetto misto, di derivazione napoleonica adottato in Italia sin dal 1865. L’incontro con il vecchio professore (ultraottantenne), avvocato celebratissimo, dev’essere stato galvanizzante per il giovane docente appena approdato alla Cattolica, poco più che trentenne e all’epoca pressoché sconosciuto. Lo si capisce dalla convinzione con la quale egli difenderà il “progetto Carnelutti” in due dibattiti rimasti celebri e tuttora molto citati nella letteratura processualpenalistica: alludo ai convegni svoltisi nel 1964, uno nel Sud Italia (Lecce) e l’altro al Nord (Bellagio). In quelle due occasioni, in perfetta sintonia con la radicalità della proposta carneluttiana, Cordero diede davvero il meglio di sé, sostenendo con ottimi argomenti la necessità di superare il processo di impronta inquisitoria allora vigente in Italia, con un modello adversary fondato sull’inchiesta di parte vagheggiata nel progetto Carnelutti (gli interventi sono pubblicati nel volume Criteri direttivi per una riforma del processo penale, Milano, Giuffrè, 1965, poi confluiti nel volume Ideologie del processo penale, Milano, Giuffrè, 1966, 151 ss.).
Cordero immagina e analizza minuziosamente tutti i problemi che l’attuazione di quel rivoluzionario progetto avrebbe comportato. Constatiamo oggi, a molti anni dalla riforma processuale del 1988, quanto fossero azzeccate quelle previsioni. Vi troviamo lucidamente espressi, ad esempio, il timore che il pubblico ministero incaricato dell’inchiesta di parte assuma funzioni istruttorie simili a quelle del giudice istruttore; il timore che l’uso di dichiarazioni verbalizzate dalla polizia o dal pubblico ministero possano trasformarsi in prove, se utilizzate a fini di contestazione nell’esame testimoniale; la proposta di introdurre l’incidente probatorio (una “oasi giurisdizionale”) per superare il problema delle prove che rischiano di andar disperse nel corso della fase investigativa; e ancora, la proposta di contrastare le possibili inerzie del pubblico ministero, attribuendo alla persona offesa la facoltà di opporsi alla richiesta di archiviazione (a imitazione di analogo istituto presente nella Strafprozessordnung germanica). Chi ha una conoscenza anche approssimativa delle vicende che nel corso dei decenni hanno accompagnato l’applicazione del codice vigente è in grado di apprezzare la fondatezza di quei timori e la sensatezza di quelle proposte espresse con un quarto di secolo d’anticipo sulla riforma processuale.
Grande impatto sulla dottrina processuale penale italiana hanno avuto le riflessioni di Franco Cordero in tema di diritto probatorio. Alludo in particolare ad alcuni scritti comparsi su varie riviste fra il 1961 e il 1963 e raccolti nel volume dal titolo Tre studi sulle prove penali (Milano, Giuffrè, 1963) oltre che nel già citato Ideologie del processo penale (Milano, Giuffré, 1966). Nel primo dei due volumi, la prova è analizzata come atto complesso (procedimento) scomposto nei tre tempi della ammissione/acquisizione, formazione e valutazione. Ispirandosi al noto saggio di Carnelutti sulla Prova civile (Roma, Athenaeum, 1915, rieditato nel 1947, nonché in Diritto e processo, Napoli, Morano, 1958, p. 125 ss.), Cordero offre in quel corposo saggio una breve trattazione generale della prova penale.
Si avverte anche qui l’influsso di Goldschmidt. Cordero accetta la tesi del processualista tedesco che postula l’autonomia del diritto processuale rispetto al diritto sostanziale. I fenomeni del processo animano un mondo chiuso, con regole proprie (ammissibilità, fondatezza, rilevanza, validità etc.) insensibili alle vicende del diritto sostanziale e ai rispettivi criteri di valutazione (lecito/illecito). Ne segue che il diritto processuale esige un approccio suo proprio da parte dello studioso. Sulla base di simili premesse è impostato il controverso problema della prova illecitamente acquisita. L’illiceità della provenienza non comporta di per sé l’inammissibilità o inutilizzabilità del corpo del reato o della cosa pertinente al reato: solo la legge processuale può abbinare una sanzione di invalidità a quella provenienza illecita. Se la legge processuale tace, la prova può essere utilizzata, benché frutto di un illecito. Come noto, il problema è stato a lungo dibattuto con riferimento al rapporto fra perquisizione e sequestro. L’illegittimità della perquisizione non comporta l’esclusione della cosa sequestrata dal novero delle prove valide, salvo che la legge vieti esplicitamente il sequestro, come accade, ad esempio, con i documenti coperti da segreto (art. 200 c.p.p.); quelli depositati nello studio del difensore (art. 103, comma 6, c.p.p.) o con le attività di “dossieraggio” (art. 240, comma 2, c.p.p.). Al riguardo, risulta decisiva la latitudine che la legge processuale assegna al potere istruttorio del magistrato impegnato nell’indagine, non i più limitati poteri assegnati alla polizia. La perquisizione si qualifica come semplice antecedente storico (non giuridico) del sequestro; la sua illegittimità comporterà la mancata convalida giudiziale dell’operazione effettuata dalla polizia, oltre alla possibile sanzione (penale o disciplinare di chi ha agito illecitamente), ma non la restituzione della cosa sequestrata che il giudice potrà quindi utilizzare. Male captum, bene retentum è la formula che sintetizza un orientamento seguito (ancor oggi) dalla giurisprudenza della Corte di cassazione italiana.
La maturazione del pensiero processualistico di Cordero trova la sua compiuta realizzazione nel manuale di Procedura penale pubblicato per la prima volta nel 1966. Un’opera che – si può dire – apre una nuova stagione nella cultura processuale penale italiana. Cordero stesso definirà quel manuale un’opera “atipica”: «la novità sta nell’esservi disegnata una sintassi» (così in Rutulia, Roma, Quodlibet, p. 237).
Va detto che i manuali in circolazione all’epoca erano redatti con stile piatto e acritico: orientati al metodo tecnico-giuridico, avevano un’impostazione prevalentemente esegetica, con una sistematica incentrata su principi dottrinali elaborati secondo categorie pandettistiche di fine Ottocento. Pensati per un apprendimento nozionistico; non inducevano riflessioni sui nodi politici e sui conflitti ideologici implicati nelle pratiche giudiziarie e nei relativi istituti.
Ben diverso appariva il manuale di Cordero. Lo si capiva già dalla copertina. Anche la quarta edizione (1977 quella sulla quale ho preparato l’esame di Procedura penale nel lontano 1978) raffigurava in sovracopertina il frontespizio della Practica causarum criminalium (Averolda nuncupata) di Ippolito Marsili. In quella stampa cinquecentesca si scorgono, in centro, strumenti e scene di tortura; in basso, scene di vita accademica con il professore in cattedra e gli studenti in diligente ascolto. In alto, sui lati, simboli del potere politico, sfilate di alti prelati, scene di guerre navali e campali.
In effetti, una volta aperto, quel manuale apriva un mondo che nessuno – fra i processualisti italiani del tempo – aveva mai prima esplorato con tale sapienza e acume. Gli istituti processuali erano analizzati in prospettiva storica; studiati con l’occhio critico del filosofo del linguaggio; rimeditati in chiave politica; criticati per il substrato ideologico che nella pratica li reggeva. Siamo distanti anche dalla visione formalistica che caratterizzava la monografia giovanile sulle Situazioni soggettive.
All’inizio, quell’opera “atipica” desta reazioni poco favorevoli nei paludati ambienti accademici: «l’establishment l’accoglie a denti stretti – confessa Cordero – ma pratici colti l’adoperano». Proprio così. I magistrati e gli avvocati più sensibili agli sfondi culturali della giustizia penale notano ben presto la straordinaria qualità di quelle pagine. Alcuni docenti lo adottano come libro di testo nei loro corsi. Migliaia di studenti sono attratti dalla prosa colta, dai riferimenti storici e filosofici, dall’uso impeccabile dell’arnese interpretativo. In pochi anni, diventerà una lettura obbligata per tutti coloro che intendono occuparsi di procedura penale.
Il vero valore dell’opera sta nel taglio critico che caratterizza ogni sua pagina. L’autore non si limita a descrivere gli istituti e le pratiche della procedura. Ne esamina l’origine, la ragion d’essere, la pratica applicazione alla luce di quelle che lui stesso definisce «leggi naturali del processo» (Procedura penale, Milano, Giuffrè, 1966, p. 21). Niente a che vedere con premesse giusnaturaliste. Ogni strumento – sostiene l’Autore – ha sue proprie leggi. Nel caso del processo giudiziario, occorre individuare quelle adatte a produrre decisioni giuste, senza ledere, oltre il necessario, la dignità delle persone che vi sono coinvolte. I postulati sono pochi e semplici: giudice indipendente e imparziale; struttura triadica dell’agone giudiziario. Da questi, discendono, a mo’ di corollario, le regole adatte a regolare lo svolgimento procedurale. I “principi naturali” appartengono all’essenza logica del processo (giusto) e sono anteposti agli stessi principi costituzionali.
Si avverte anche qui l’eco di James Goldschmidt e della opzione politico-culturale ben evidenziata nella prefazione al suo Prozess als Rechtslage: il diritto processuale può prosperare solo sul terreno del liberalismo democratico, dove l’agone sia regolato garantendo in concreto la possibilità che ciascuna delle parti in contesa esca vincente. Trattandosi di un dispositivo atto a produrre norme (singolari e concrete) sulla scorta delle norme (generali ed astratte) confezionate dal legislatore, il processo va strutturato in modo da assicurare il contraddittorio fra le parti, affinché queste possano accettarne l’esito. I contesti politici (autoritari o dispotici) che negano il contraddittorio non favoriscono un autentico diritto processuale, ma semmai una Kabinettsjustiz, vale a dire una giustizia penale dispoticamente influenzata dal potente di turno: una penalità “amministrativizzata” che non meriterebbe l’appellativo di ‘giurisdizionale’, anche se ad amministrarla vi fosse chi pretende di essere chiamato ‘giudice’. Di qui le battaglie che – specialmente nella prima metà degli anni Sessanta – Cordero si impegna a combattere contro le incrostazioni autoritarie e inquisitorie del processo penale italiano, contro l’ambigua figura del giudice istruttore (giudice-accusatore) e contro l’ancora più compromettente figura dell’accusatore giudice (pubblico ministero-istruttore).
Il manuale è impregnato dalla prima all’ultima pagina di questo spirito militante. Esso avrà una diffusione ampia e prolungata nel tempo. L’edizione del 1966 sarà seguita da altre 8 edizioni nei venti anni successivi. Dopo la riforma processuale del 1988 l’autore riscriverà il suo manuale, del quale usciranno ben 9 edizioni nei venticinque anni successivi. In totale, 18 edizioni sulle quali si sono formate almeno quattro generazioni di studiosi del processo penale. Bastano questi numeri a dare un’idea dell’influsso davvero notevole che Franco Cordero ha avuto sulla dottrina processualpenalistica italiana nella seconda metà del secolo scorso.
Dal punto di vista, per così dire, dogmatico, credo che il culmine del pensiero processualistico di Cordero sia tutto racchiuso nella prima edizione del suo manuale. Le edizioni successive, così come i rari interventi su temi processualistici pubblicati in seguito, tengono conto delle evoluzioni normative e giurisprudenziali, sviluppando tuttavia idee, intuizioni, posizioni, già maturate nel proficuo decennio inaugurato dalla monografia sulle Situazioni soggettive (1956).
3. Cordero filosofo del diritto: l’incidente della Cattolica
Come già detto, nel 1962 Cordero ottiene dalle autorità religiose dell’Università Cattolica il nulla osta per insegnare anche la Filosofia del diritto. Insegnamento importante e delicato per una Università confessionale, a lungo affidato negli anni precedenti a un prelato di sicura ortodossia, mons. Francesco Olgiati (cofondatore, con Agostino Gemelli, della stessa Università). La discontinuità è evidente. Cordero si professa cattolico, ma intende indagare il mondo teologale con il bisturi della ragione, insofferente ai dogmi religiosi calati dall’alto e sottratti alla discussione. Ai padri della Chiesa e alle encicliche papali associa letture di Freud, Nietzsche, Carnap, spesso anzi preferendoli per le provocatorie sollecitazioni che ne scaturiscono. Gli attriti con le gerarchie dell’ateneo milanese sono nell’aria, benché si versi in un periodo di accese discussioni interne al mondo cattolico, incoraggiate dalle aperture dialoganti del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962 – 8 dicembre 1965) e da coevi movimenti di dissenso all’interno della stessa Chiesa cattolica: si pensi all’esperienza delle comunità cristiane di base sorte a Roma (Dom Franzoni) e all’isolotto di Firenze (don Mazzi).
Il casus belli è rappresentato dalla pubblicazione del libro Gli Osservanti. Fenomenologia delle norme (Giuffrè, 1967), un manuale lungo quasi 700 pagine, nel quale l’autore analizza la genesi delle norme amputando le premesse religiose o giusnaturalistiche care all’ortodossia cattolica. Basta leggere le prime tre righe per capirne il taglio: «Questo libro studia i fenomeni normativi ossia l’uomo come tessitore di norme, che impone a sé, agli altri, a Dio: le produce e le consuma, legislatore e animale osservante».
Due anni dopo pubblica un altro libro “eretico”: Il sistema negato. Lutero contro Erasmo (Bari, De Donato, 1969), dove mostra di preferire il “negatore” Lutero all’ “integrato” Erasmo: negatore del “sistema” il primo; integrato (per astuta convenienza) il secondo. Nello stesso anno esce il romanzo autobiografico Genus, nel quale egli ricostruisce con toni cupi l’ambiente accademico nel quale opera, spingendosi a prevedere la sventura che stava per subire.
Questa produzione accademico-letteraria non sfugge all’occhio dell’autorità ecclesiastica.
L’assistente spirituale dell’Università Cattolica (Mons. Carlo Colombo, “teologo del Papa” come Cordero lo definirà), scrive una lettera per indurre “l’eretico sulla retta via”, anticipandogli la possibile revoca dell’incarico. Il destinatario della lettera non piega il capo. L’urto è inevitabile. Il 1° dicembre 1969 (dopo varie tergiversazioni) il consiglio di Facoltà toglie a Cordero l’incarico di Filosofia del diritto, lasciandoli, per il momento, l’insegnamento di Procedura penale.
La reazione non si fa attendere. A inizio gennaio 1970 Cordero pubblica il violento pamphlet Risposta a Monsignore (De Donato, 1970) col quale risponde punto per punto alla lettera di Colombo. Il libriccino avrà ampia divulgazione: quattro edizioni nello stesso anno, con l’aggiunta di una traduzione in lingua inglese. Questo successo finirà col peggiorare la sua situazione interna alla Cattolica e contribuirà a far deflagrare il caso sul piano nazionale. Si muove la curia romana. Il prefetto della Sacra Congregatio pro institutione catholica (card. Gabriele Garrone) scrive a Cordero minacciando la revoca del nulla osta all’insegnamento in Cattolica, se entro il 31 ottobre (1970) non scenderà a Roma per recedere dal suo marcato laicismo. Anche qui la risposta non si fa attendere e sarà la risposta di un intellettuale fermo nell’affermare la propria indipendenza di pensiero, senza compromessi con postulati confessionali (la lettera fu pubblicata integralmente dal settimanale l’Espresso del 1° novembre 1970 col titolo Nostra madre ghigliottina). Andò a finire che il consiglio di Facoltà revocò il nulla osta all’insegnamento della Procedura penale e di qualsiasi altra disciplina nell’Università cattolica. Le parole contenute in una lettera inviatagli dal rettore Lazzati (13 novembre 1970) non lasciavano dubbi: «non potrà più svolgere, nell’Università del Sacro Cuore, nessuna attività inerente allo stato giuridico di professore». Situazione paradossale: uno dei più qualificati studiosi del processo penale era privato della venia legendi in una disciplina che – si può dire – aveva contribuito in misura decisiva a modernizzare. Cordero aveva chiusa la citata lettera al card. Garrone con queste parole: «Reagirò se qualcuno tenterà di togliermi la cattedra: in Italia c’è una legge e ci sono dei giudici; nessuna migliore occasione per vedere se il paese nel quale viviamo è un principato ecclesiastico o una repubblica democratica».
In quello stesso periodo, Emanuele Severino aveva subito analoga sorte. Docente di Filosofia morale nella stessa Università, gli era stato revocato il nulla osta all’insegnamento per l’asserita inconciliabilità di sue teorizzazioni con l’ortodossia cattolica. Pur con rammarico, egli accettò l’esclusione e si trasferì all’Università veneziana Ca’ Foscari, proseguendo lì il suo insegnamento. Poteva essere un precedente da imitare.
Cordero, invece, mantiene la promessa fatta per iscritto al card. Garrone e sceglie la via del conflitto, convinto di avere buone ragioni da far valere davanti ai giudici.
4. Segue: Il caso Cordero davanti alla Corte costituzionale e nelle reazioni dei commentatori
La revoca del nulla osta fu impugnato davanti al Consiglio di Stato (ancora non esistevano i TAR) che rinvia gli atti alla Corte costituzionale, ravvisando un possibile contrasto fra la norma concordataria sulla revoca del nulla osta (art. 38 dei Patti lateranensi) con gli artt. 7 e 33 Cost. (ordinanza del 26 novembre 1971). La Corte costituzionale si pronuncerà più di un anno dopo (sent. del 14 dicembre 1972, n. 195) dando sostanzialmente ragione all’autorità ecclesiastica. Si afferma l’idea che una “Università ideologicamente qualificata” vada lasciata libera di limitare la libertà di insegnamento, senza però violarla, anche perché «libero è il docente di aderire, con il consenso alla chiamata, alle particolari finalità della scuola; libero è egli di recedere, a sua scelta, dal rapporto con essa quando tali finalità più non condivida».
La sentenza lascia l’amaro in bocca ai pensatori laici, e solleva accese discussioni a destra e a sinistra. Molti accademici prendono posizione pro o contro. La rilevanza anche attuale del tema (se si considera l’analogo incidente occorso al filosofo del diritto Luigi Lombardi Vallauri in epoca relativamente recente) consiglia di dar brevemente conto almeno di alcuni commenti suscitati dal “caso Cordero”.
Particolare risalto ebbe la polemica che oppose Vezio Crisafulli a Paolo Barile, entrambi direttamente coinvolti nella vicenda: il primo come membro della Corte che emanò la sentenza, il secondo come difensore di Cordero (assieme a Giuseppe Guarino) davanti alla stessa Corte. A pochi giorni dal deposito della motivazione, Crisafulli inviò una lettera al Corriere della sera (18 gennaio 1973), non per difendere la sentenza, ma per spiegarne il senso ed evitare fraintendimenti su una questione di massima importanza per le istituzioni culturali. Egli negava che la Corte avesse fatto prevalere la norma concordataria sulla normativa costituzionale; si è invece tratto dall’art. 33 cost. la libertà della scuola prevale sulla libertà (del singolo docente) nella scuola. E questo accadrebbe – soggiungeva Crisafulli – anche se la libera università fosse ideologicamente orientata in senso marxista o islamico: in altre parole, per far sopravvivere i postulati ideologici sui quali si fonda, l’istituzione universitaria orientata in senso confessionale o ideologico può limitare la libertà del singolo docente. Barile replicava che l’Università non può essere messa sullo stesso piano di una scuola (inferiore o superiore). Il comma 6° dell’art. 33 assegna uno status speciale all’istituzione accademica, riconoscendole ampia autonomia ordinamentale. Tutti le Università, anche quelle libere, in quanto sovvenzionate con danaro pubblico, sono soggette alle leggi dello Stato e non possono revocare l’autorizzazione ad insegnare, sovrapponendo una propria valutazione ideologica al giudizio della commissione statale di concorso che abbia assegnato il titolo di professore in una determinata disciplina.
Vero che Cordero poteva essere chiamato da altro ateneo, ma questo comportava una lesione del diritto alla inamovibilità, a sua volta garantito da una legge dello Stato. Oltretutto, scriveva Paolo Barile nella citata lettera a Crisafulli, «non sono molte le Università che oggi chiamerebbero Cordero: quasi ovunque ci sono rigide maggioranze di cattolici». Va detto, a questo proposito, che durante la contesa giudiziaria con la Cattolica, Franco Cordero manteneva lo status giuridico di professore ordinario principalmente sotto il profilo economico), ma senza poter tenere lezione. Il suo trasferimento ad altra sede si imponeva, dopo che la Corte costituzionale aveva praticamente chiuso la vicenda in favore della Cattolica; ma restava problematico, perché era necessario trovare un ateneo disposto a chiamarlo. Di questo problema si fece carico Arturo Carlo Jemolo, che in una nota alla decisione della Corte costituzionale qui considerata (Perplessità su una sentenza, in Foro. it., 1973, I, c. 12) auspicava il varo di una legge ad hoc con la quale si stabilisse che «ove la Santa sede revochi il suo nulla osta, il ministro dell’istruzione trasferisca il professore ad Università statale, anche in soprannumero, tenendo il possibile conto dei suoi desideri». Il principio di inamovibilità sarebbe stato comunque sacrificato, ma la carriera del docente in altra sede sarebbe stata assicurata, anche tenendo conto delle sue preferenze nella scelta della sede.
Non ci fu comunque bisogno di una legge per far approdare il prof. Cordero all’ateneo torinese nel 1974: una chiamata nient’affatto scontata, che ebbe qualche avversario. Due anni dopo (1976) sarebbe stato chiamato dall’Università di Roma-La Sapienza, dove rimase fino al congedo.
5. Narratore e storico
Quattro anni di forzata assenza dalle aule di lezione hanno lasciato un segno nella vita di questo eccellente studioso. Quando gli fu negato l’insegnamento di Procedura penale aveva 42 anni. Ne aveva compiuti già 46 quando riprese la vita di docente a Torino. Se guardiamo alla produzione scientifica e letteraria di quel quadriennio, notiamo la pressoché totale assenza di contributi riguardanti la Procedura penale e un intensificarsi dell’interesse per la narrativa, la filosofia, la storia, il giornalismo.
Pubblica in rapida sequenza quattro romanzi a sfondo marcatamente autobiografico: Le masche, Rizzoli, Milano, 1971; Opus, Einaudi, Torino, 1972; Pavana, Einaudi, Torino, 1973; Viene il re, Bompiani, Milano, 1974; tutti di grande interesse per chi desidera sondare il suo stato d’animo in quel periodo buio.
Nel 1972 ritorna alla sua passione per la riflessione teologico-filosofica, pubblicando il voluminoso saggio L'Epistola ai Romani. Antropologia del cristianesimo paolino, Collana Saggi, Torino, Einaudi, 1972.
Dal 1970 al 1972 è molto attivo sulle pagine del settimanale l’Espresso, dove interviene dissertando di varia umanità, per prendere posizione su controversi casi giudiziari dell’epoca (es. caso Valpreda, caso Vajont), per affrontare temi d’attualità (amnistia, divorzio, tossicodipendenza), senza trascurare i suoi personali conflitti con le gerarchie cattoliche. Fra i vari scritti di codesto periodo merita segnalare quello apparso sull’Espresso del 20 febbraio 1972 dove ripercorre la drammatica degradazione accademica di Ernesto Bonaiuti, nella quale – si capisce – egli trova motivi di inquietante rispecchiamento: sembra davvero che parli di sé stesso, in un momento in cui la vicenda con la Cattolica è ancora in corso, aperta a esiti che Cordero presagisce già come negativi.
Come detto, il suo interesse per la Procedura penale cala. A parte il manuale, periodicamente aggiornato e sempre molto letto da un gruppo crescente di seguaci, si registrano rari saggi su riviste o interventi a convegni accademici, come quello svolto nel 1975 a Trieste (sua prima sede universitaria) in tema Connessione e giudice naturale, nell’ambito del convegno su Connessione e conflitti di competenza Milano, Giuffrè 1975, p. 41 ss.); o la relazione dal titolo Stilus curiae. (analisi della sentenza penale) svolta nel convegno ferrarese su La sentenza in Europa: metodo, tecnica e stile (10-12 ottobre 1985) pubblicata con gli atti del convegno Padova, CEDAM, 1988, nonché in Riv. it. dir. e proc. pen. 1986, p. 19 ss.).
Nell’ottobre del 1985 figura fra i fondatori della neo-costituita Associazione tra gli studiosi del processo penale, ma non vi dedicherà tante energie.
Chiamato a far parte della Commissione Pisapia (istituita dal Ministro della Giustizia con D.M. 18 settembre 1974) per la redazione di un nuovo codice di procedura penale, non vi spende energie; il suo ruolo resta marginale, benché dieci anni prima (nei già citati convegni di Lecce e Bellagio) proprio lui si fosse battuto con passione per una radicale riforma del processo.
Negli anni successivi, la sua attenzione è attratta dalla filosofia del diritto (vedi la voce Diritto, in Enciclopedia Einaudi, 1978, vol. IV, p. 895-1003) oltre che dalla storia del diritto (Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1981; La fabbrica della peste, Laterza, Laterza, Roma-Bari 1983; Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Laterza, Roma-Bari, 1986 e dai quattro volumi dedicati alla biografia del grande eretico Savonarola, Laterza, Roma-Bari,1986-1988).
Né si è sopita la vena narrativa: nel 1975 pubblica L’Opera (Milano, Bompiani), dove affiorano altri scorci autobiografici del giovane liceale in una piccola città, satura di simboli e riti religiosi, sul finir della seconda guerra mondiale. Nel 1976 esce Passi d’arme (Milano, Giuffrè), romanzo di ambientazione militare (paragonato al buzzatiano Deserto dei Tartari), che fornisce occasione per dialoghi e riflessioni interiori imperniati sulla figura di un giovane studente in legge.
Sei romanzi in sei anni, nei quali l’autore riversa sentimenti di inquietudine connessi con la sua ancora recente vicenda accademica, ma anche esplosioni di vitalità e curiosità viste da un uomo maturo che rimedita il passato adolescenziale.
I romanzi di questi anni sono ricchi di tracce per ricostruire la personalità ricca e provocatoria di un intellettuale nemico delle convenzioni sociali, degli stereotipi, dei servilismi interessati e delle arroganze dei potenti.
Successivamente, darà alle stampe altre quattro opere narrative: Cronaca d'una stregoneria moderna (Laterza, Roma-Bari, 1985), dove narra, in prima persona e con ambientazione di fantasia, un caso indiziario, relativo a un problematico suicidio dietro il quale potrebbe celarsi un omicidio o una condotta istigatoria. Segue L'armatura. Un'inconsueta traversata del mondo raccontata con strabiliante maestria (Garzanti, Milano, 2007), di ambientazione settecentesca, con personaggi e località fantasiose, nel quale esibisce la sua vastissima erudizione (non solo umanistica). Poi il Toson d’oro (Leima, Palermo, 2014), dove si raccontano avventure argonautiche e dove compare un personaggio di nome Iulius (che in Genus era l’alter ego dello stesso Cordero). E ancora, Bellum civile (Quodlibet, Macerata, 2017), una riscrittura di Passi d’arme, pubblicato circa quarant’anni prima. Infine, La tredicesima cattedra (La nave di Teseo, Milano, 2020), pubblicato postumo, subito dopo la sua scomparsa, anch’esso con evidenti richiami autobiografici, in parte già narrati nel suo primo romanzo.
6. Polemista negli anni 2000
Dopo il congedo dall’insegnamento (1998), Cordero torna sorprendentemente in campo come polemista con un articolo pubblicato sul giornale La Repubblica (19 dicembre 2001) dal titolo Lezione impolitica sulla nostra giustizia.
L’occasione è data da quel colpo di mano legislativo che introdusse nel codice di rito un discutibile divieto probatorio nella disciplina delle rogatorie internazionali (Legge 5 ottobre 2001, n. 367). Su quel divieto gravava il sospetto di essere stato voluto per favorire – in extremis – un amico dell’allora presidente del Consiglio imputato di corruzione giudiziaria. Cordero vi intravvede un segno di arroganza del potere e non esita a schierarsi al fianco dei magistrati milanesi, inflessibili nell’acquisire comunque le prove che la novella legislativa intendeva vietare.
Sarà questo il primo di una numerosa serie di scritti giornalistici e interventi in pubblico disseminati in un quindicennio e raccolti in diversi volumi (Le strane regole del signor B., Milano, Garzanti, 2003; Nere lune d’Italia: segnali da un anno difficile, Milano, Garzanti, 2004; Fiabe d’entropia: l’uomo, Dio, il diavolo, Milano, Garzanti, 2005; Aspettando la cometa: notizie e ipotesi sul climaterio d’Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2008; Il brodo delle undici: l’Italia nel nodo scorsoio, Torino, Bollati Boringhieri, 2010; L’opera italiana da due soldi: regnava Berlusconi, Torino, Bollati Boringhieri, 2012).
Con questo genere letterario Cordero si era già cimentato – come detto in precedenza – all’inizio degli anni Settanta, all’epoca della collaborazione con l’Espresso, quando infuriava la polemica con l’autorità accademico-ecclesiastica. Ora se la prende con la classe politica, ammorbata dal vizio di ostacolare con iniziative pseudo-garantiste il lavoro della magistratura penale, particolarmente attiva sul fronte della corruzione politica. I suoi interventi sono animati da un forte sentimento di intransigenza morale. Con linguaggio schietto e con arditi paralleli storici denuncia l’uso disinvolto e arrogante dell’uomo di potere, incline all’uso aggressivo e pretestuoso di argomenti “liberali” per assicurarsi l’impunità.
A prima vista si ha l’impressione che il Cordero pamphlettista, difensore delle inchieste giudiziarie, implacabile censore dei vizi pubblici e delle intemperanze di una classe politica corrotta, sia in contraddizione con lo studioso che, negli anni Sessanta del secolo scorso, denunciava, sibilando parole altrettanto schiette, le tare inquisitorie della giustizia penale italiana. In realtà, c’è una grande coerenza nella sua lunga avventura intellettuale. Al centro delle sue battaglie c’è sempre stata una manifesta insofferenza per l’uso impunito e dispotico del potere: non importa che si tratti di potere giudiziario, fondato su pratiche inquisitorie; di potere religioso, fondato sulla difesa ad oltranza di indiscutibili ortodossie; di potere politico, fondato su un malinteso senso dell’investitura popolare; di potere economico, che accentua le diseguaglianze sociali, assoggettando ai propri interessi anche l’amministrazione della cosa pubblica.
Ogni potere, non solo quello giudiziario, rischia derive personalistiche e tiranniche, nella misura in cui chi lo esercita si lascia sopraffare da impulsi primordiali. Insegna Sigmund Freud – più volte evocato a questo riguardo da Cordero (ad esempio, in Morbo italico, cit., 67 e 169) – che nel territorio dell’ES, «bestia extra tempora indifferente al trascorrere del tempo», regno di pulsioni individuali dominate dal principio del piacere, sono all’opera istinti primitivi insensibili a principi razionali o a freni morali. Uomini fra gli uomini, anche i potenti di ogni risma (non solo i magistrati) mal sopportano il “disagio della civiltà”. Franco Cordero “umanista eterodosso”, “giurista militante” si è assunto il faticoso compito di censurare ogni uso smodato del potere, accettando di pagare alti prezzi personali per difendere la sua libertà di coscienza e di critica. E possiamo già immaginare cosa direbbe oggi, con le sconcertanti manifestazioni di arroganza muscolare che vediamo attive anche sul piano della politica internazionale.
7. Lascito intellettuale
Le molteplicità delle opere (giuridiche, filosofiche, teologiche, letterarie) nelle quali si è concretizzata la sua attività intellettuale rende difficoltoso un bilancio. Nessuno, nemmeno i suoi detrattori all’epoca del conflitto con l’Università del Sacro Cuore, mettevano in dubbio la sua straordinaria cultura e l’eccellente abilità espositiva. “Non discuto il metodo da Lei scelto e soprattutto ammiro la Sua cultura, veramente immensa” scriveva mons. Colombo, nella lettera alla quale Cordero replicò con il suo noto pamphlet (frammento riportato in Risposta a Monsignore, cit., p. 43). E qualche giorno dopo la sua scomparsa, il filosofo cattolico Francesco D’Agostino, nel ricordarne la figura scriveva: «sicuramente è stato un giurista fuori dal comune, che ha nobilitato la sua disciplina (il diritto processuale penale) oltre ogni aspettativa», ma poi concludeva che la sua non era intelligenza «né giuridica, né filosofica, ma polemica e, in quanto tale, sterile» (Franco Cordero, il più scomodo di tutti gli eclettici, L’Avvenire, 10 maggio 2020.
Non essendo un filosofo, né uno storico, né un critico letterario, mi astengo dal formulare un giudizio complessivo su un autore eccezionalmente poliedrico. In quanto processualpenalista, condivido con D’Agostino l’affermazione che Cordero ha impresso al diritto processuale penale italiano uno sviluppo “oltre ogni aspettativa”. Proprio così. Egli lascia agli studiosi del processo penale un’eredità importante, che non va dissipata. Certo, bisogna riconoscere che il suo saggio giovanile sulle Situazioni soggettive (risalente ormai settant’anni fa, lui appena ventottenne, ripubblicato da Giappichelli nel 2022, con una bella prefazione di Paolo Ferrua) appare oggi difficilmente accessibile perché scritto in un linguaggio ricco di astrazioni, frasi lunghe e complicate che sfidano le capacità di comprensione specie delle generazioni di studiosi ora in attività. Si tratta tuttavia di un’opera seminale, che contiene in embrione il nucleo vivo della dottrina processuale coltivata negli anni successivi: l’analisi delle figure soggettive (l’onere, il dovere, il potere, la discrezionalità) sono analizzate sia nella loro realtà statica, sia nel dinamismo dell’agone processuale (anche qui, Goldschmidt docet). Occorre essere consapevoli che – per la dottrina processualpenalistica – quel testo ha reso possibile l’emancipazione dalla tradizionale (e inadeguata) teorica del “rapporto giuridico processuale”. Impostazione di ascendenza processualcivilistica (chiovendiana), cara agli esponenti del tecnicismo giuridico, che impediva di analizzare il fenomeno processuale come campo di forze dove si scontrano interessi terribilmente concreti.
Quanto le riflessioni teoriche contenute in quel primo sforzo monografico siano risultate proficue per la scienza processualistica lo si comprende dagli studi successivi del nostro Autore.
Gli scritti sulle prove risalenti ai primi anni Sessanta sono quanto di meglio si possa ancor oggi trovare su un tema centralissimo per l’accertamento giudiziario. La distinzione fra prova storica e prova critica (ereditata da Carnelutti) è stata approfondita e ben adattata da Cordero alla realtà del processo penale in studi che tuttora forniscono una base teorica per analizzare il fenomeno probatorio, anche con riferimento all’affermarsi di quelle specie di prova critica rappresentate dalla “prova digitale” e dalla cosiddetta “prova scientifica”.
Gli interventi sulla riforma processuale penale svolti nei convegni di Lecce e Bellagio (1964) ai quali si è in precedenza accennato, offrono anche al giovane studioso odierno una quantità di spunti e osservazioni di straordinario acume per la sorprendente lungimiranza che li caratterizza.
La “lettura” delle invalidità processuali e, in particolare, delle invalidità probatorie resta attuale a più di sessant’anni dalla sua formulazione.
Il manuale (a partire dalla edizione del 1966) costituisce un modello tuttora insuperato di esposizione critica delle norme processuali penali, con un sapiente uso della comparazione storica messa al servizio della comprensione degli istituti volta a volta esaminati. Un’opera ormai appartenente al novero dei “classici”: destinata a durare nel tempo e a fornire illuminanti indicazioni (anche di metodo), benché le norme delle quali si parla non siano più in vigore.
L’impostazione rigorosamente sistematica per cui nell’interpretare le norme conta principalmente la coerenza complessiva con l’insieme dell’ordinamento, mentre vale poco o niente la volontà del legislatore (le norme non vanno lette come testamenti, amava ripetere), ha segnato un netto avanzamento rispetto all’atteggiamento piattamente esegetico (e quasi sempre ideologicamente orientato) dei seguaci del tecnicismo giuridico.
Dotato di fertile immaginazione, ha saputo vedere in anticipo le conseguenze a lungo termine di certe scelte legislative (come, ad esempio, quelle riguardanti la lettura a fini di contestazione nell’esame testimoniale), cogliendo connessioni problematiche inaccessibili a chi, per fretta o superficialità, non è abituato a rimuovere le croste verbali delle singole norme. Ha sempre guardato al fenomeno normativo come espressione della cultura e della ideologia di un data epoca, trasmettendo a molti giovani la passione per la storia delle idee e per la scoperta delle radici di istituti antichi utili a coglierne il senso nel tempo presente.
Un cenno merita lo stile espositivo. Chi legge i suoi saggi (ma il rilievo vale anche per i romanzi) noterà la singolare efficacia che si sprigiona da frasi secche ed essenziali. Sono frasi ad alto potenziale contenutistico. Non è stile barocco, come qualcuno può pensare. Al contrario. Cordero elimina il superfluo, assegnando a ogni parola un preciso “compito” concettuale nell’economia del discorso. Abile nell’uso dell’ellisse e del linguaggio allusivo, lascia spesso sottinteso quanto il lettore attento deve saper completare mentalmente per proprio conto. Discorsi saturi di pensiero, prosciugati da aggettivazioni sovrabbondanti. esigono un ruolo attivo, talvolta faticoso, ma sempre redditizio e istruttivo per chi legge. Copiare il suo stile è impossibile e comunque sconsigliato, tanto esso è compenetrato con la personalità e il patrimonio di conoscenze posseduto di chi lo ha messo a punto: chi si illudesse di imitarlo farebbe inevitabilmente figura meschina. Se ne possono però trarre utilissimi insegnamenti, considerata l’indiscutibile efficacia che lo contrassegna: prima di licenziare uno scritto, verificare l’esatta corrispondenza fra pensieri e parole, a condizione che vi sia un pensiero da trasmetter; astenersi da frasi fatte, assunti stereotipati o espressioni trombonesche; arrendersi di fronte all’indicibile senza tentare spericolati irrazionalismi e senza lasciarsi andare a petizioni di principio; sciogliere concetti complessi nei loro elementi essenziali; puntare alla ricchezza concettuale del periodo con massima economia di parole; eliminare ogni sovrabbondanza che affaticherebbe inutilmente la mente del povero lettore.
Infine, un cenno al coraggio intellettuale. La vicenda sofferta nella prima metà degli anni Settanta dimostra quanto gli fosse cara la libertà di pensiero e di coscienza. Qualcuno può aver pensato che quella sua tenace lotta per riavere la cattedra negata fosse motivata da ragioni egoistiche. In realtà Cordero sapeva che avrebbe pagato a caro prezzo talune scelte “eretiche”. Ha cercato di combattere con l’arma della ragione i veti dell’ambiente accademico nel quale era inserito e ha denunciato i soprusi che vedeva affiorare nella realtà politico-sociale, come i veri intellettuali del dissenso, critici con i potenti di ogni risma, intolleranti delle ingiustizie, refrattari al compromesso anche a costo di essere degradati o marginalizzati. Figure – bisogna ammetterlo – divenute rare nel tempo presente.
* Con una iniziativa davvero encomiabile, la biblioteca civica di Cuneo ha catalogato e messo a disposizione del pubblico la bibliografia pressoché completa di Franco Cordero. Ha inoltre digitalizzato gli articoli non giuridici da lui scritti, e gli articoli scritti su di lui, comparsi sulle maggiori testate nel corso degli anni, ora liberamente consultabili al seguente link https://www.comune.cuneo.it/cultura/biblioteca/cataloghi/fondo-franco-cordero.html. Questa ricca fonte informativa si è rivelata particolarmente utile per ricostruire la tormentata “lite” fra Cordero e l’Università del Sacro Cuore (par. 3 e 4).
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