ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Non ci vuole passione ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione.”
Dostoevskij, L’idiota
S. è entrato in carcere a San Vittore un pomeriggio del luglio 2024 per il tentato furto di un motorino.
Non parlava e ha affrontato il colloquio per i nuovi giunti con lo psicologo disegnando. Aveva solo una scarpa, i capelli lunghi ed era vestito con indumenti evidentemente recuperati in strada.
Cercava di uscire da San Vittore in tutti i modi, convinto che si fossero sbagliati a portarlo lì. Al collo si era messo un cartello che mostrava a chiunque gli si avvicinasse con scritto: “Ho bisogno di aiuto urgente; devo uscire da San Vittore. Mi hanno portato qui per sbaglio. Colpa di due carabinieri.”
Gli operatori decisero di metterlo in un reparto ad alta osservazione, con videocamere e agenti preparati a lavorare con persone fragili. La prima notte S. aveva così paura da infilarsi nella branda del concellino; girava con lo sguardo spaventato e perso.
S. ha 21 anni è nato in Brasile ed è stato adottato a 4 anni da una coppia della provincia di Milano che aveva già un figlio naturale, entrambi musicisti. Anche S. ha la passione per la musica e un notevole talento: suona il pianoforte, compone e, insieme al padre, insegnava ai bambini.
Sembrava essere il figlio modello e a 17 anni i genitori avevano deciso per dargli più spazio di prendergli una casa in affitto. Ha vissuto da solo per tutto il periodo del Covid, prima vicino ai genitori e poi in una casa in Milano; per un po’ sembrava cavarsela, ma poi sono incominciati gli atteggiamenti bizzarri: vita senza orari, frequentazione di gente che vive in strada e distruzione di oggetti in casa. Il padrone di casa lo ha sfrattato e lui ha incominciato a vivere in strada: la mamma lo ha visto poche volte tentando di farlo ricoverare nella convinzione che avesse un problema con le sostanze. In effetti era vero, e risulterà dopo, che S. aveva cominciato ad usare THC e alcol.
Una sera ha cercato di rubare un motorino (lui sosterrà che voleva solo i guanti) ed è stato arrestato e portato a San Vittore.
Dopo qualche giorno S. decise di raccontarsi, di fidarsi della operatrice che si occupa dei fragili e degli ultimi e di fornire agli operatori attenti del carcere il numero della madre per informarla che era stato arrestato e per chiederle di mandargli dei soldi per le sigarette e altro.
Anche i medici riuscirono a mettersi in relazione con S. che incominciò una terapia antipsicotica e cercarono di riannodare i fili della relazione con i genitori.
La mamma è una donna molto fragile; appena ha saputo la notizia si è allarmata e ha spiegato agli operatori di non riuscire più ad aiutare il figlio e che sarebbe partita di lì a poco per un ritiro spirituale. Ha raccontato della sua separazione dal marito e ha riferito agli operatori di domandare a lui i soldi necessari per il ragazzo in carcere.
Dentro San Vittore emergeva tutta la fragilità di S.: la sua paura del contesto, degli altri detenuti e una particolare e spiccata sofferenza per la chiusura delle celle per 22 ore al giorno. Lui che era abituato a girare per la citta. Ma emergeva anche una grande sensibilità e un gran bisogno di affidarsi a chi lo ascolta: riusciva ad instaurare presto un buon rapporto sia con l’educatrice che con la psichiatra e il medico di reparto.
S. in Tribunale in quel giorno di luglio per la convalida dell’arresto si presentò scompensato non capendo esattamente dove si trovava e per quale motivo fosse in quel luogo. Arrivò senza una scarpa e direttamente dalla strada. Il giudice convalidava l’arresto e rinviava per disporre una perizia, apparentemente comprendendo il suo disagio mentale e la sofferenza. Passarono 3 mesi prima che il tribunale nominasse il perito.
La madre ricominciava a venire a trovarlo e a ricevere le telefonate, mentre il padre esplicitava di non essere disponibile ad avere alcun contatto con lui e neanche con i curanti.
Frattanto nei mesi a seguire, S. incominciava a prendere con regolarità la terapia ed era più lucido e coerente nei discorsi. Aveva sempre paura, ma lo verbalizzava e cercava di trovare delle strategie.
L’equipe della psichiatria lavorava in stretto contatto con l’avvocato che lui vedeva settimanalmente e che cercava di preparare il territorio e, soprattutto, il centro di salute mentale di riferimento al rientro di S., proponendo di inserirlo in una struttura comunitaria.
La perizia verrà depositata alcuni mesi dopo riconoscendo S. totalmente incapace di intendere e volere al momento del fatto e suggerendo proprio una comunità a doppia diagnosi (tossicodipendente e paziente psichiatrico). Frattanto però il servizio delle dipendenze del carcere non aveva trovato tracce di sostanze nelle urine e nel capello, ritenendo perciò impossibile rilasciare la certificazione, che costituisce il presupposto imprescindibile per l’inserimento in una comunità a doppia diagnosi.
Incominciava di lì a poco un palleggio di competenze tra il centro di salute mentale e quello per le dipendenze; a leggere la corrispondenza oggi, sembra inverosimile che si parlasse della cura di una persona. Anche l’avvocato è stato fortemente osteggiato dal servizio; la comunità che viene individuata è bocciata perché fuori regione e il servizio di salute mentale non è disposto a pagarla.
Pur a fronte di quell’esito di perizia che diceva a chiare lettere che non avrebbe dovuto rimanere in carcere, S. ha continuato a restare a San Vittore; la mamma non era disponibile ad accoglierlo; il padre non voleva essere contattato, il centro di salute mentale non trovava una comunità e il serd non lo riteneva un paziente da prendere in carico.
S. non era in grado di andare in un dormitorio e i servizi del terzo settore erano pieni. Era stata trovata una disponibilità presso un progetto di accoglienza per persone con fragilità psichica ma aveva un posto libero solo dopo un mese.
Insieme, gli operatori del carcere e l’avvocato, finalmente trovavano dopo qualche giorno un'associazione con un posto letto libero, pur senza assistenza educativa e a quel punto furono coinvolti volontari e cappellani per garantire una visita al giorno a S.
Il giudice applicava a S. quindi la misura di sicurezza della libertà vigilata in sostituzione della custodia cautelare invitando il centro di salute mentale ad una presa in carico efficace e seria del paziente, di fatto, molto solo.
S. usciva finalmente dal carcere dopo 8 mesi lucido, con due scarpe e rivestito. Pronto per ricominciare.
L’educatrice passava tutte le mattine a vedere come stava e a controllare che prendesse regolarmente la terapia; lo accompagnava ai servizi e gli presentava anche un assistente sociale della Casa della Carità che si occuperà di tenere le fila dei vari attori e di supervisionare l’andamento di S.
Quella collocazione non durerà molto perché in un momento di crisi dovuta anche a solitudine S. metterà in atto un tentativo di suicidio. S. è stato immediatamente dimesso dal luogo ove era ospitato che faceva parte di progetto regionale per l’accoglienza delle persone fragili, perché considerato troppo grave.
S. risulterà invece troppo poco grave per l’ospedale ove era trasportato nella medesima giornata; dopo la visita e la suturazione è stato dimesso per assenza di bisogni, come se una persona con queste caratteristiche e questa solitudine e fragilità possa ritenersi dimissibile così in fretta. E così S. quella notte dormirà su una panchina fuori dall’ospedale; non ha più un letto e il centro di salute mentale che avrebbe dovuto trovare un luogo ancora lo sta cercando.
Ripartiva la rete facente capo alla Casa della Carità, unico ente che non si è mai voltato dall’altra parte. S. ha di nuovo un luogo dove dormire, ha ripreso a suonare, fa un corso di teatro e arte terapia; ha incominciato ad andare anche in un altro centro due volte alla settimana e, accompagnato dalla mamma, fa colloqui al centro di salute mentale.
Ha trovato un pianoforte, dei volontari che gli fanno compagnia e, soprattutto, una psichiatra che settimanalmente lo incontra.
Alcune settimane dopo la scarcerazione si chiudeva anche il processo: il giudice a dispetto delle conclusioni della perizia condanna S. a 8 mesi per il tentato furto; pena precisamente corrispondente a quella carcerazione sofferta. È pacifico che un giudice si possa discostare dalle conclusioni del perito, ma meritano di essere trascritte le parole utilizzate per negare addirittura le attenuanti generiche: “Preliminarmente, tenuto conto della personalità dell’imputato (gravato da precedenti penali della stessa indole e a matrice violenta), delle modalità dell’azione e del riprovevole comportamento processuale manifestato durante l’udienza di convalida (tale da rendere difficoltosa la celebrazione dell’interrogatorio), non vi sono ragioni per riconoscere le circostanze attenuanti generiche".
Il giudice, che pure aveva visto la triste condizione di scompenso di S. arrivato in udienza senza una scarpa e confuso, tanto da ritenere indispensabile un accertamento sulle sue condizioni mentali, ha ritenuto “riprovevole” quella condotta e ha applicato una pena che appare incomprensibile a chiunque abbia avuto a che fare con S.: alla educatrice, alla psichiatra e al medico del carcere di San Vittore, ai periti e all’avvocato. E soprattutto resterà incomprensibile a S. che era stato definito dai perito in stato di totale scompenso per una patologia psichiatrica.
S. è stato arrestato ed è restato in carcere 8 mesi a dispetto della sua totale incapacità di intendere e volere; è rimasto mesi in attesa di un percorso di cura intanto che i servizi decidevano chi doveva fare cosa e chi doveva pagare; è stato ‘dimesso’ da famiglia, luoghi di accoglienza e ospedale, per alcuni perché troppo complesso, per altri perché non troppo grave. Gli sono state negate le attenuanti generiche perché irriguardoso nei confronti dell’autorità giudiziaria.
È una storia finita bene grazie a chi ci ha messo impegno e forza per non abbandonare S.
Forse è utile che S. sia stato arrestato perché la sua vita ha ripreso un po' di organizzazione e perché ha incontrato alcune persone umane che lo hanno guardato e poi supportato.
Il resto non merita commenti. È una storia che vale la pena di essere raccontata[1] perché accanto a persone che non guardano la sofferenza, ce ne sono tante altre che non voltano la faccia.
[1] Anna Viola è educatrice professionale in carcere. Antonella Calcaterra è avvocata in Milano.
Immagine: particolare da Amedeo Modigliani, Madame Kisling, 1917, olio su tela, National Gallery of Art. Immagine di dominio pubblico.
La Corte costituzionale definisce i limiti dell’annullamento d’ufficio (nota a prima lettura a Corte costituzionale 26 giugno 2025 n. 88)
di Giordana Strazza
Sommario: 1. Premessa; 2. L’insussistenza del contrasto con gli artt. 3 e 9 Cost.; 3. L’importanza del fattore “tempo” per la sicurezza giuridica e i limiti delle eccezioni alla tutela del legittimo affidamento; 4. L’insussistenza del contrasto con l’art. 97 Cost.; 5. Conclusioni
1. Premessa
Con la sentenza n. 88 del 26 giugno scorso la Corte costituzionale è intervenuta sulla delicata questione dei limiti temporali massimi (“fissi”) stabiliti dall’art. 21-novies della legge 7 agosto 1990, n. 241 s.m.i. per l’esercizio del potere amministrativo di autoannullamento[1] dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.
La questione sottoposta al vaglio della Corte[2] investiva la compatibilità costituzionale del limite massimo di dodici mesi[3] per l’esercizio del suddetto potere di autotutela (anche) in relazione a provvedimenti incidenti su interessi c.d. sensibili e di rango costituzionale: nella specie, la controversia traeva origine dall’annullamento (dopo sei anni) di un attestato di libera circolazione di un dipinto che, solo quattro anni dopo il rilascio, si era rivelato opera del Vasari.
2. L’insussistenza del contrasto con gli artt. 3 e 9 Cost.
Dopo aver dichiarato l’inammissibilità dell’eccezione di l.c. sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. (per dedotto contrasto con gli obblighi internazionali in relazione agli artt. 1, lettere b) e d), e 5, lettere a) e c), della Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale[4]), la Consulta ha ritenuto l’insussistenza del denunciato contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 9, primo e secondo comma, Cost., giustificando la ragionevolezza e la non reprensibilità dei limiti temporali “fissi” posti dall’art. 21-novies nel suo complesso, e, dunque, anche con riguardo agli atti incidenti su interessi di “valore primario” (nella specie, quello culturale), in ragione della diversa consistenza che tali interessi – pur di rilievo costituzionale e oggetto di specifica attenzione nel procedimento di primo grado (tanto da escludere o rendere più gravosa l’applicazione dell’istituto del silenzio assenso) – assumono nel procedimento di riesame. La sentenza sottolinea, infatti, che, in sede di secondo grado, essi “si confrontano con interessi ulteriori, non solo di natura privata, ma anche pubblica”, perché, nel valutare l’an dell’annullamento, l’organo competente, oltre a prendere in considerazione l’interesse pubblico primario tutelato dal provvedimento invalido, “deve soppesare anche quelli, sempre di natura pubblica, al ripristino della legalità (che spesso trova coincidenza con l’interesse del controinteressato pregiudicato dal provvedimento emesso in favore di altri) e alla certezza delle relazioni giuridiche, nonché la posizione, di natura privata, di affidamento del destinatario della determinazione favorevole” (si richiama, a tale proposito, la sentenza n. 181 del 2017 in tema di autotutela tributaria).
Nel ricordare che, comunque, l’interesse sensibile incide sul profilo motivazionale e che il legislatore ha previsto apposite cautele nel caso in cui le più lunghe tempistiche dell’accertamento dell’illegittimità siano state determinate dall’interessato attraverso le falsificazioni di cui al comma 2-bis, la Corte rimarca, quindi, che, in quest’ottica, il legislatore, nel legittimo esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto che, “alla decorrenza del periodo annuale (salvo il ricorrere della suddetta eccezione), l’amministrazione esaurisca i margini per una ulteriore tutela dell’interesse pubblico primario e di conseguenza diventi irretrattabile il provvedimento di primo grado, ferme restando «le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo» (art. 21-nonies, comma 1, ultimo periodo)”. La Consulta evidenzia, inoltre, che tale modello “risponde ragionevolmente alla scelta che, al fluire di un congruo tempo predeterminato, abbiano automatica prevalenza altri interessi di rilievo costituzionale. In particolare, dunque, sia la posizione di “matrice individuale” dell’affidamento del destinatario del provvedimento favorevole, sia simultaneamente l’interesse di “matrice collettiva” alla certezza e alla stabilità dei rapporti giuridici pubblici”. Si ricorda, infatti, che la previsione di una scadenza rigidamente prestabilita risponde all’esigenza di tenere “in considerazione la fiducia sui “titoli pubblici” dei destinatari e dei terzi, non ultimi degli investitori stranieri e degli operatori del libero mercato europeo, negativamente incisi «dall’incertezza giuridica delle procedure amministrative» (considerando n. 43 della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, cosiddetta direttiva «Bolkestein»)” e che “la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che la tutela dell’affidamento è «ricaduta e declinazione “soggettiva”» della certezza del diritto, la quale, a propria volta, integra un «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto», connaturato sia all’ordinamento nazionale, sia al sistema giuridico sovranazionale (sentenze n. 36 del 2025, n. 70 del 2024 e n. 210 del 2021)” .
3. L’importanza del fattore “tempo” per la sicurezza giuridica e i limiti delle eccezioni alla tutela del legittimo affidamento
Il Giudice delle leggi coglie, invero, opportunamente, l’occasione per porre in risalto l’importanza del fattore “tempo” per la sicurezza giuridica[5] e per sottolineare che l’esigenza di irretrattabilità del provvedimento amministrativo ampliativo oltre un tempo definito trascende il rapporto tra amministrazione e amministrato, in quanto il “titolo pubblico” condiziona fortemente le relazioni giuridiche intrattenute successivamente con i terzi, anche per la circolazione del bene, mentre l’inoperatività del limite temporale indicato dal legislatore potrebbe determinare una situazione di incertezza nella vita dei cittadini e delle imprese idonea a incidere negativamente, in un’ottica più complessiva, sull’affidabilità del “sistema Paese”.
Si richiamano, a questo riguardo, le considerazioni svolte dalla Commissione consultiva speciale istituita presso il Consiglio di Stato per i decreti di attuazione della legge 7 agosto 2015 n. 124 nel parere n. 839 del 2016 (sullo schema del d.lgs. 30 giugno 2016, n. 126: “SCIA 1”), inspiegabilmente obliterato (salve rare eccezioni[6]) fino a epoca recentissima dagli stessi giudici amministrativi, laddove metteva in luce che la novella legislativa era espressione di un “nuovo paradigma”[7] nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione “nel quadro di una regolamentazione attenta ai valori della trasparenza e della certezza”, in nome dei quali il legislatore aveva fissato “termini decadenziali di valenza nuova, non più volti a determinare l’inoppugnabilità degli atti nell’interesse dell’amministrazione, ma a stabilire limiti al potere pubblico nell’interesse dei cittadini, valorizzando il principio di affidamento”, costruendo una nuova “regola generale”, “speculare – nella ratio e negli effetti – a quella dell’inoppugnabilità, ma creata, a differenza di quest’ultima, in considerazione delle esigenze del cittadino (…)”[8]. Il parere aveva peraltro espressamente sottolineato che tale “regola generale” doveva applicarsi anche ai provvedimenti che non sono formalmente definiti di annullamento, stigmatizzando il fatto che “alcune disposizioni utilizzano infatti, impropriamente, i termini “revoca”, “risoluzione”, “decadenza” (dai benefici) o simili per indicare, oltre all’abusivo utilizzo del titolo, la reazione dell’ordinamento all’illegittimo conseguimento [dello stesso], utilizzando forme che sono state definite di “annullamento travestito” (cfr. § 1.3.2 del parere n. 1784 del 2016 sullo schema del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222: “SCIA 2”).
Tra i passaggi importanti della sentenza n. 88 meritano specifica attenzione quello che esclude la “decorrenza mobile” del termine (che il legislatore, come già chiarito dal menzionato parere del Consiglio di Stato, lega inequivocabilmente all’adozione del provvedimento), e che, come ribadito dalla Corte “si spiega con la ragione che non può la negligenza dell’amministrazione procedente tradursi nel suo vantaggio di differire continuamente il dies a quo per l’esercizio della potestà di annullamento (tra le altre, Consiglio di Stato, sentenze n. 7134 e n. 1926 del 2024)”, e quello relativo alla portata delle eccezioni all’applicazione del suddetto limite, in ragione dell’inconfigurabilità di un legittimo affidamento, nei casi previsti dal comma 2-bisdell’art. 21-novies e fino a pochi mesi fa strumentalmente utilizzati da larga parte della giurisprudenza per escludere l’operatività del limite anche in presenza di meri errori di diritto[9]. Dopo aver ricordato che la riferita eccezione è interpretata dal giudice amministrativo − sulla base del dato testuale costituito dalla disgiunzione “o” e di un argomento teleologico − nel senso che il termine finale non opera tutte le volte in cui si riscontri che il contrasto tra la fattispecie rappresentata e la fattispecie reale sia rimproverabile all’interessato, tanto se determinato da dichiarazioni false o mendaci la cui difformità, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante, dovrà scontare l’accertamento definitivo in sede penale, quanto se determinato da una falsa rappresentazione della realtà di fatto, accertata inequivocabilmente dall’amministrazione con i propri mezzi (da ultimo, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenze 7 maggio 2025, n. 3876 e 14 agosto 2024, n. 7134; sezione sesta, sentenza 27 febbraio 2024, n. 1926)”, la Corte ha precisato che “anche in tale caso, infatti, l’erroneità dei presupposti per il rilascio del provvedimento amministrativo non è imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’amministrazione, ma esclusivamente alla parte che ha fornito una falsa descrizione della realtà fattuale, oggettivamente verificabile e non opinabile”[10]. È auspicabile, quindi, che quest’ultima precisazione ponga fine all’ingiusta equiparazione dell’erronea applicazione/interpretazione del quadro normativo (sulla cui oggettiva complessità e incertezza la stessa Consulta ha fondato la giustificazione di limiti alla responsabilità amministrativo-contabile: sentenza n. 132 del 2024) alla “falsa rappresentazione della realtà”, che, come già chiarito dalla menzionata Commissione speciale del Consiglio di Stato (anche nel successivo parere sul d.lgs. “SCIA 2”), deve essere invece coerentemente valutata sulla base dell’oggettivo rapporto vero/falso[11], siccome, del resto, puntualizzato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con riferimento alle dichiarazioni rese nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici[12].
4. L’insussistenza del contrasto con l’art. 97 Cost.
Le ultime considerazioni della sentenza investono il dedotto contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, sancito dall’art. 97, comma 2, Cost., che la Corte esclude, rilevando come, all’opposto, il limite temporale del potere di autotutela (già individuato come strumento volto, sia pure indirettamente, ad accrescere l’efficienza dell’azione amministrativa: sentenze n. 258 del 2022 e n. 191 del 2005) possa migliorare la qualità del processo decisionale di primo grado, inducendo gli organi competenti a svolgere, in quella sede, una più attenta valutazione e ponderazione degli interessi.
5. Conclusioni
In definitiva, la pronuncia in esame, pur respingendo le dedotte eccezioni di incostituzionalità, merita massima attenzione, perché fissa importanti punti fermi su un istituto centrale per il sistema amministrativo e per la fiducia nelle istituzioni pubbliche, aiutando a dare risposta agli interrogativi posti dal Consiglio di Stato nei già richiamati pareri “SCIA 1” e “SCIA 2” e lasciati irrisolti dal Governo.
In particolare, nel secondo parere (al §1.3.1), la Commissione aveva espressamente segnalato che nel nuovo schema di decreto legislativo restavano aperte alcune questioni di raccordo già evidenziate al punto 8.3 del precedente parere n. 839, tra cui quelle
“– se il limite temporale massimo di cui all’art. 21-nonies debba applicarsi anche all’intervento in caso di sanzioni per dichiarazioni mendaci ex art. 21, comma 1 (unica norma residua dopo l’abrogazione del comma 2), ovvero se l’art. 21 debba considerarsi come un’ulteriore deroga a tale limite, aggiuntiva rispetto a quella prevista al comma 2-bis dello stesso art. 21-nonies. In tale seconda ipotesi dovrebbero, però, essere specificati quali siano i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, comma 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21-nonies, posto che entrambe le norme sembrano riferirsi, nel caso di SCIA, all’accertamento della mancanza o della ‘falsità’ dei requisiti, su cui fondare i più volte richiamati poteri inibitori, repressivi o conformativi;
– quale sia la esatta delimitazione della (unica) fattispecie di deroga ai 18 mesi prevista dall’art. 21-nonies, comma 2-bis (ad esempio, se tra le “false rappresentazioni dei fatti” in deroga ai 18 mesi rientri anche la difettosa indicazione del sistema normativo di riferimento; ovvero se si possa aggiungere la possibilità di superare i 18 mesi, al di là delle condanne penali passate in giudicato, in tutti i casi in cui il falso è immediatamente evincibile dal contrasto con pubblici registri, come nel caso di percezione di pensione a nome di persona defunta; ovvero ancora quale sia l’esatta portata del riferimento alle “sanzioni penali, nonché” alle “sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 445 del 2000”, che più d’uno tra i primi commentatori ha considerato come il frutto di un errore di drafting)”.
In modo significativo, alla luce dei dubbi sollevati dai primi interpreti sulla portata della richiamata disgiuntiva “o” del comma 2-bis, la Commissione individuava, quindi, correttamente come unica potenziale ipotesi di “falsa rappresentazione della realtà” quella oggettivamente riscontrabile da dati certi (come i pubblici registri), invitando – purtroppo invano – “nuovamente il Governo a considerare, prima della scadenza della delega, una soluzione sul punto, per prevenire sicure incertezze e contenzioso in sede applicativa della riforma”.
La sentenza in esame ha ormai sicuramente risolto quest’ultima questione. Si auspica, peraltro, che la linea da essa tracciata induca il legislatore a una soluzione coerente anche della prima[13].
[1] Fra i tanti, si rinvia a F. Benvenuti, voce Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, 537 ss.; E. Cannada Bartoli, voce Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., vol. II, Milano, 1958, 484 ss.
[2] Dal Cons. Stato, sez. VI, 16 ottobre 2024, n. 8296, con nota di F. Campolo, Attestato di libera circolazione di un bene culturale e potere di autotutela. Dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 21 nonies, c. 1, l. 241/1990, in questa Rivista, 25 febbraio 2025.
[3] Il termine è stato ridotto da diciotto a dodici mesi dall’art. 63, comma 1, d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (“Governance del piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 108.
[4] Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, firmata a Faro il 27 ottobre 2005 e ratificata dall’Italia con l. 1° ottobre 2020, n. 133.
[5] Su cui cfr. gli Atti delle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa di Modanella su Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, raccolti nel volume F. Francario e M.A. Sandulli (a cura di), Napoli, 2018.
[6] Si v., ad es., T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637.
[7] Si v. anche L. Carbone, La riforma dell’autotutela come nuovo paradigma dei rapporti tra cittadino e amministrazione pubblica, relazione al convegno “La legge generale sul procedimento amministrativo: attualità e prospettive nei rapporti tra cittadino e p.a.” – Roma, Palazzo Spada, 20 marzo 2017, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Si v. anche M. Macchia, La riforma della pubblica amministrazione - Sui poteri di autotutela: una riforma in senso giustiziale, in Giorn. dir. amm., 2015, 5, 634. Per un approfondimento, si v. anche M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018.
[9] Sul tema si v., da ultimo, anche per ulteriori richiami, M.A. Sandulli, Principio di legalità e magistratura amministrativa, in Riv. giur. ed., 2025, 2, 37 ss.
[10] Sul tema, si v. anche M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza Plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019, 261.
[11] Si v. infra.
[12] Cons. Stato, Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16, specie §10, con nota di G.A. Giuffrè e G. Strazza, L’Adunanza plenaria e il tentativo di distinguo (oltre che di specificazione dei rapporti) tra falsità, omissioni, reticenze e “mezze verità” nelle dichiarazioni di gara, in Riv. giur. ed., 2020, 5, 1343 ss. e di C. Napolitano, La dichiarazione falsa, omessa o reticente secondo l’Adunanza Plenaria, in questa Rivista, 8 ottobre 2020.
[13] Sulle tematiche sopra esposte e sull’esigenza di certezza sulla stabilità dei titoli, si v., per tutti, anche per ulteriori richiami, i contributi di C. Deodato, L'annullamento d'ufficio (sub art. 21-nonies), in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, II ed., 2017, 1173 ss.; E. Boscolo, Il potere di vigilanza sulle attività soggette a s.c.i.a. (già d.i.a.) e silenzio assenso (sub art. 21), ivi, 987 ss.; W. Giulietti e N. Paolantonio, La segnalazione certificata di inizio attività (sub art. 19), ivi, 902 ss. e di G. Mari, M.A. Sandulli, M. Sinisi, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, IV ed., 2023.
Recensione di In un piccolo cielo di Paul Yoon (2020 Bollati Boringhieri Editore, Torino)
Paul Yoon è nato a New York, ha 45 anni, è di origine laotiana e vive a Cambridge in Massachussets.
La prima parte del romanzo si svolge in Laos, definito “il paese più bombardato della storia” pur se mai entrato ufficialmente nella guerra del Vietnam: fino al 1973, l’aviazione statunitense vi effettuò più di 500.000 missioni, scaricandovi più di 2 milioni di tonnellate di materiale esplosivo nel corso di una guerra segreta che serviva a colpire il sentiero di Ho Chi Minh utilizzato dalle truppe nord vietnamite. Il tutto in un contesto reso caotico anche dalla guerra civile tra la monarchia e i marxisti del Pathet Lao.
È quella la ragione che, unitamente al terrore di essere segregati in campi di rieducazione, spinge nel 1969 i protagonisti del romanzo - Alisak, Prany e la più piccola Noi, sorella di Prany - a voler abbandonare il Laos e il villaggio in cui vivono, costituito da “una miriade di capanne di legno, case d’argilla e baracche con i tetti di metallo radunate insieme”. Sono tre giovani orfani, sopravvissuti con espedienti, “senza altro posto dove andare”, che sanno usare le armi e sono uniti come fossero tutti fratelli. Senza una meta precisa fuggono verso il nord e si rifugiano in territorio degli Hmong (una popolazione che durante la guerra si schierò con gli Stati Uniti), sull’Altopiano delle Giare, in un ospedale improvvisato, un tempo di proprietà di un latifondista francese, ove iniziano a lavorare con il medico Vang che cura i civili feriti, viene da Vientiane e suona Bach al pianoforte. L’ospedale diventa così una casa e un luogo di solidarietà condivisa, dove rifugiarsi dalla guerra e sognare ad occhi aperti, contemplando il cielo attraverso un tetto parzialmente sfondato: “Se il cielo era sufficientemente piccolo c’erano meno possibilità che un aereo lo attraversasse. E allora, era soltanto il cielo” (NdR: significativo sottotitolo di questo romanzo che ben rimanda al suo contenuto).
I tre ragazzi si impegnano facendo di tutto: gli infermieri di fortuna che imparano a ricucire arti dilaniati, i corrieri che vanno a procurare medicine e cibo, a volte recuperando feriti dai campi minati, con motociclette BSA di fortuna che guidano lungo sentieri pieni di granate inesplose, il tutto mentre dal cielo gli americani continuano a sganciare dai B-52 le bombe di una guerra che non esiste e non è dichiarata. Alisak, Prany e Noi si preoccupano anche di piantare segnali che consentano a chiunque di conoscere le parti sicure delle strade di campagna ed evitare quelle minate. Ma quella vita diventa sempre più pericolosa, come per tutti i laotiani, sicché il medico Vang si preoccupa di organizzare la loro fuga sugli ultimi elicotteri che lasciano il paese: finisce così la stagione delle corse in moto. I tre ragazzi innocenti sperano in quel modo di potersi ricostruire una vita serena e felice in terre straniere, ma non tutti riescono a fuggire e la realtà sarà diversa come i loro destini.
La seconda parte del libro è costituita da capitoli che fanno riflettere e che hanno il nome dei vari personaggi che ne sono protagonisti, a partire dai tre citati, ormai cresciuti, ma a cui altri se ne aggiungono (Aunti e Khit): la guerra è finita, ma le conseguenze della guerra sono forse anche peggiori. Yoon descrive ciò che è successo a molti giovani laotiani e ne racconta le vite. Alisak, Prany e Noi, tutti accomunati dal desiderio di fuga, si ritrovano nella realtà divisi: ci sarà chi attraversa il Mekong per fuggire in Thailandia, chi trova rifugio in Europa e chi negli Stati Uniti, ricominciando una nuova vita, e chi invece rimarrà a lungo prigioniero in un campo di rieducazione. Ma il fil rouge della loro amicizia non verrà mai interrotto e il ricordo di ognuno rimarrà nella mente dell’altro a distanza di anni.
Il romanzo produce emozioni forti facendo riflettendo su ciò che la guerra determina soprattutto per una popolazione che si trova dalla parte dei perdenti, pur se – come è stato detto - la guerra sconfigge tutti. Il romanzo è anche uno straordinario documento storico ma soprattutto analizza la forza della speranza e della perseveranza di chi aspira a guardare il vasto cielo di tutto il mondo.
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Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Cecilia Assanti e il diritto del lavoro triestino
Sommario: 1. Introduzione - 2. Infanzia, giovinezza e studi universitari - 3. Renato Balzarini, le sue creazioni scientifico-istituzionali e l’introduzione di Cecilia Assanti allo studio del Diritto del lavoro – 4. Le monografie, la libera docenza, la cattedra e l’ordinariato - 5. Una nuova stagione: diritto del lavoro e impegno politico – 6. La produzione scientifica degli anni ’70 e ’80 – 7. Le delusioni della fine degli anni ’80 e l’isolamento dalla comunità dei giuslavoristi - 8. La produzione scientifica degli anni ’90 - 9. L’ultimo periodo e ulteriori ringraziamenti.
1. Introduzione
Cecilia Assanti si era spenta il 4 giugno del 2000, dopo una brevissima malattia, e Giuseppe Pera, da tempo suo grande amico, mi aveva chiesto di mandargli uno scritto, destinato alla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, che testimoniasse la sua complessa attività scientifica (L. Menghini, Cecilia Assanti e il diritto del lavoro italiano, RIDL, 2000, I, 341 ss.).
Ora riprendo volentieri il ricordo della mia Maestra, considerando anche il profilo della sua collocazione nell’ambito del diritto del lavoro triestino e quello dei rapporti che ho avuto con lei nei decenni in cui sono stato suo allievo. Cecilia Assanti è stata la seconda donna a diventare ordinario di Diritto del lavoro, dopo Luisa Riva Sanseverino, di cui aveva una grande ammirazione. Anche se ha dedicato molte delle sue capacità scientifiche alla condizione femminile, non ha mai voluto limitarsi ad essa, spendendosi, invece, sui temi più generali della materia. Il suo ruolo nel diritto del lavoro italiano della seconda metà del ‘900 è stato importante, anche se, per vari motivi, non compiutamente attuato secondo le sue aspirazioni.
2. Infanzia, giovinezza e studi universitari
Era nata a Grottaminarda, in provincia di Avellino, l’8 gennaio del 1928 ma, quando era ancora in tenera età, la famiglia era salita al Nord, prima in un paesino dell’attuale Slovenia e poi a Trieste. Il papà era medico pediatra della sanità pubblica e questi spostamenti dipendevano dal fatto che aveva vinto dei concorsi relativi alla sua attività. In famiglia c’erano altri medici e dei magistrati.
Cecilia era una bambina e poi una ragazza precoce: ha iniziato la scuola a cinque anni e poi ha saltato la seconda classe del liceo classico, conseguendo il diploma nell’estate del 1945, a 17 anni. Di questo periodo mi ha raccontato solo che era una grande lettrice e che per non farsi vedere dai genitori (che forse non le avrebbero permesso certe letture) leggeva sotto le coperte con una pila.
Mi ha anche confidato che la sua particolare velocità nella lettura era dovuta al fatto che i suoi occhi non si fermavano sulle parole di ogni riga, ma coglievano le parole di tre righe in tre righe.
Gli anni del liceo devono essere stati difficili e anche traumatici, perché erano gli anni dell’occupazione tedesca della città, dal settembre ‘43 all’aprile del 1945, e poi di quella dell’esercito jugoslavo, più breve, ma ugualmente tragica. Nella sua mente era rimasta impressa la visione dei cadaveri dei prigionieri impiccati appesi alla scalinata interna del Conservatorio di musica Tartini, ben visibili dalle finestre dell’edificio; le era capitato di passare in autobus proprio davanti. Si trattava di una rappresaglia tedesca contro italiani e sloveni in seguito ad un attentato partigiano del 23 aprile 1944 (v. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, rist. 2023, p. 256).
All’Università avrebbe voluto studiare Medicina, ma ad una famiglia di medio-alta borghesia non pareva una scelta adatta ad una donna. Ripiegò, quindi, su Lettere, che frequentò solo nell’a.a. 1945-46, per passare, poi, a Giurisprudenza nell’a.a. 1946-47 e concludere gli studi in soli tre anni, laureandosi in Diritto commerciale nel novembre del 1949, quando aveva solo 21 anni.
3. Renato Balzarini, le sue creazioni scientifico-istituzionali e l’introduzione di Cecilia Assanti allo studio del Diritto del lavoro
Non so se l’A. abbia seguito il corso di Diritto del lavoro nell’a.a. 1947-48, quando era affidato a Virgilio Andrioli, oppure nel 1948-49, quando fu ripreso da Renato Balzarini, che aveva tenuto il corso di diritto corporativo sin dall’istituzione della Facoltà di Giurisprudenza, negli anni dal 1938 al 1941, per essere poi trasferito all’Università di Roma, dove si era laureato nel 1927, con una tesi in diritto pubblico, conseguendo la libera docenza in Istituzioni di diritto pubblico nel 1933-34 e vincendo poi il concorso a cattedra, nel 1938, con due monografie sul diritto corporativo e conseguendo, infine, l’ordinariato, nel 1941, con un volume su Gli enti sindacali (per queste notizie v. C. Assanti, Renato Balzarini, RIDL, 1988, I, p. 389).
Renato Balzarini, malgrado la sua partecipazione attiva al regime fascista come membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, superò i problemi delle epurazioni e insegnò per moltissimi anni Diritto del lavoro nella facoltà triestina di Giurisprudenza, ricoprendo il ruolo di direttore dell’Istituto di Diritto del lavoro, delle Scuole che fondò e di preside della Facoltà. A metà degli anni ’60 fu protagonista della nascita della Libera Università Abruzzese degli Studi, con sede a Teramo, di cui fu rettore sino al 1978.
Nel ricordarne, con affetto, la prestigiosa figura, l’A. lo considera uno dei Maestri “della generazione dei giuristi del lavoro che iniziarono la loro opera dando corpo e sistemazione al diritto corporativo con occhio attento anche alle dimensioni trascendenti i suoi caratteri specifici”, potendo testimoniare, per i molti anni in cui aveva studiato con lui, che il Maestro “conservò sempre vivace, pronto, attento, il suo interesse multiforme per gli studi, la sua disponibilità più ampia verso gli altri, a cominciare dai giovani” (op.cit., p. 389).
Ciò che mi preme più rilevare, peraltro, è che Renato Balzarini, nella sua seconda parte di vita accademica, partecipò, in modo del tutto particolare, alla rifondazione del diritto del lavoro del dopo guerra, aprendo l’Università, proprio nella Trieste non ancora italiana e quindi lacerata da profonde divisioni, agli studi del diritto internazionale e comparato del lavoro, con innumerevoli iniziative, con la creazione di varie istituzioni e con la collaborazione con realtà nazionali e internazionali.
L’A. evidenzia, in particolare, come il Maestro motivasse la sua predilezione per gli studi comparatistici con la convinzione che, per molta parte, agli sviluppi del diritto del lavoro e alla sua armonizzazione nelle legislazioni nazionali fosse affidata l’attuazione della pace dei popoli e tra i popoli (Id., op.cit., p. 391).
Io, naturalmente, già da studente era venuto a conoscenza di questa complessa attività, ma piuttosto superficialmente. Anche in seguito l’A. me ne ha parlato molto poco.
Dobbiamo, invece, all’entusiasmo, alla curiosità e alla tenacia di una giurista napoletana trapiantata a Trieste, Maria Dolores Ferrara, la riscoperta e la diffusione dei “tesori” del diritto del lavoro triestino degli anni ’50 e ’60 (v. Il diritto del lavoro a Trieste nel secondo dopoguerra, RIDL, 2016, I, p. 115 ss. Lo studio è ripreso nel par. 3 dello scritto mio, di Roberta Nunin e della stessa Ferrara L’insegnamento del Diritto del lavoro e la Facoltà di Giurisprudenza, in Giuristi a Trieste. Per una storia della facoltà di Giurisprudenza. 1938-2012), a cura di P. Ferretti, P. Giangaspero e D. Rossi, Giappichelli, Torino, 2022, p. 74 ss.).
Balzarini già nel 1951 organizzò a Trieste il primo Congresso internazionale di diritto del lavoro, con la partecipazione di illustri studiosi italiani e stranieri. Dal congresso triestino nacque la Rivista di diritto internazionale e comparato del lavoro, diretta da Balzarini, che a Trieste poi fondò, nel 1961, l’Istituto europeo per la unificazione del diritto del lavoro e, nel 1963, la Scuola internazionale di diritto comparato del lavoro, quale sorta di filiale della Facoltà internazionale per l’insegnamento del diritto comparato di Strasburgo; a Trieste si svolsero dieci sessioni estive dell’Ecole, con la partecipazione di giuristi di tutto il mondo. Innumerevoli, infine, sono state le iniziative di studio condotte in collaborazione con l’Università di Lubiana. (v. M.D. Ferrara, Il diritto del lavoro a Trieste cit., p. 120 ss.).
Creature di Balzarini furono anche, dal 1953, la Scuola di perfezionamento e specializzazione in diritto del lavoro e della sicurezza sociale e, dal 1954, il suo Bollettino, rivista in cui hanno scritto giovani, ma anche illustri giuristi e che ha dato luogo ad importanti contatti scientifici. Alla fine degli anni ’60 Balzarini, su richiesta di CGIL, CISL e UIL, diede vita anche ad un Corso biennale di preparazione e di aggiornamento per dirigenti sindacali, i cui docenti erano i più noti giuslavoristi: Cecilia mi ha ricordato il fascino delle lezioni di Federico Mancini.
Nel corso degli anni ’50 e ’60 Balzarini proseguì anche la sua attività di studioso, pubblicando numerosi contributi, specie di diritto sindacale; quello più menzionato attiene ai limiti alla facoltà di recesso ad nutum (su questa produzione v. L. Menghini, L’Insegnamento del diritto del lavoro cit., in Giuristi a Trieste, cit., p. 73 ss.).
È in questo contesto di larghe aperture e di ampie possibilità di contatti e relazioni che Cecilia Assanti fu introdotta negli anni ’50 allo studio del diritto del lavoro. Poté conoscere illustri giuristi coetanei di Balzarini (ad es. Giuliano Mazzoni, Luisa Riva Sanseverino, Francesco Santoro Passarelli), rapportarsi con gli studiosi stranieri e stringere amicizie con i giovani professori che venivano a Trieste ad iniziare la loro carriera, come Vezio Crisafulli, Alfredo Fedele, Luigi Mengoni, Rodolfo Sacco, Francesco Galgano, Elio Casetta e Vittorio Bachelet.
Si è rimarcato come in quegli anni nella facoltà di Giurisprudenza si provvedesse a coprire le cattedre con i migliori docenti italiani, il quali non consideravano il soggiorno a Trieste come un esilio, ma come una tappa del cursus honorum accademico (M. Barberis, Come si diventa quel che si è. La filosofia del diritto a Trieste, in Giuristi a Trieste, cit., p. 259). In una pausa di un convegno veneziano, nell’Isola di S. Giorgio, Luigi Mengoni ha ricordato a noi triestini i bei anni che aveva passato nella nostra Università (dal 1951 al 1954) in compagnia degli altri colleghi provenienti da lontano: un gruppo che studiava e discuteva molto, ma che non disdegnava cene e svaghi innocenti, al punto che un giorno furono convocati dal preside di facoltà, che li rimproverò di essere andati a vedere il film Susanna tutta panna.
L’A. in quegli anni ha studiato molto. Mi diceva che passava giorni interi all’Università, portandosi pranzo e cena e un fiasco di vino in compagnia di un suo grande amico, Giampaolo De Ferra, quasi coetaneo, che in quegli stessi anni pubblicava le prime opere in diritto commerciale, anch’egli conseguendo la libera docenza nel 1959 e la cattedra nel 1963; fu poi rettore dal 1971 al 1982 e sempre amico di Cecilia. (v. M. Bianca, L’insegnamento del diritto commerciale, in Giuristi a Trieste, cit., p. 45). In quel periodo, poi, si deve essere avvalsa delle “creature” di Balzarini prima per studiare e poi per esprimere tutte le sue capacità di ricerca e docenza.
4. Le monografie, la libera docenza, la cattedra e l’ordinariato
Cecilia Assanti ha pubblicato i suoi primi lavori scientifici nel Bollettino della Scuola ed è divenuta assistente di ruolo; del 1957 e 1958 sono le sue prime due monografie, che le hanno fatto conseguire nel 1959 la libera docenza (insieme, se ricordo bene, a Giuseppe Pera e Carlo Smuraglia). Altre due monografie risalgono al 1961 e al 1963, anno in cui ha vinto il concorso a cattedra, risultando “ternata” insieme con Gino Giugni e Giampaolo Novara.
Si è sostenuto che l’esito di questo concorso era dovuto al sopravvento, nell’ambito della componente dominante dell’accademia italiana, di un atteggiamento marcatamente liberale e pluralista, che avrebbe consentito la promozione alla cattedra sia di Cecilia Assanti, e cioè dell’allieva triestina dell’”istituzionalista” Renato Balzarini, sia del fautore della teoria, del tutto minoritaria, del contratto aziendale come stipulato dalla comunità d’impresa, Giampaolo Novara; la commissione era formata, oltre che da Balzarini, da Luigi Mengoni, Gustavo Minervini, Giuliano Mazzoni e Cesare Grassetti; i “grandi esclusi” erano stati Aldo Cessari e Giorgio Ghezzi, destinati a vincere il concorso successivo insieme con Giuseppe Pera (così. P. Ichino, I primi due decenni del Diritto del lavoro repubblicano: dalla liberazione alla legge sui licenziamenti, in AA.VV., Il Diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 38 e 53).
Le quattro monografie che la portarono alla cattedra (Il contratto di lavoro a prova, del 1957; Il termine finale nel contratto di lavoro, del 1958; Autonomia negoziale e prestazioni di lavoro, del 1961; Le sanzioni disciplinari nel rapporto di lavoro, del 1963), tutte pubblicate da Giuffrè, piuttosto brevi e concentrate nel tempo, dimostrano un robusto impianto civilistico e una rara capacità di cimentarsi in modo rigoroso con la dogmatica giuridica, nulla concedono alle teorie comunitarie (v. amplius L. Menghini, Cecilia Assanti, cit., p. 343 ss.). In varie occasioni colleghi più anziani di me mi hanno riferito che la monografia sulle sanzioni disciplinari era stata accolta con molto favore.
Il 1°febbraio del 1964 l’Assanti è stata chiamata all’insegnamento di Diritto del lavoro nella Facoltà triestina di Economia, dove è rimasta sino al 1973-74, passando alla facoltà di Giurisprudenza nell’a.a. 1974-75.
In vista dell’ordinariato ha scritto una quinta monografia, dal titolo Rilevanza e tipicità del contratto collettivo nella vigente legislazione italiana, Giuffrè, 1967.
Il saggio è del tutto particolare nell’ambito degli studi di diritto sindacale degli anni ’60, laddove mira all’esaltazione dei principi costituzionali attraverso l’assimilazione dei contratti collettivi corporativi, o comunque ad efficacia soggettiva generale, a quelli postcorporativi, con il recupero di tutte le norme sulla contrattazione collettiva, antecedenti e successive alla caduta del regime fascista, che fossero compatibili con i principi costituzionali.
Riteneva, infatti, che i due contratti collettivi considerati costituissero due tipi di una fattispecie unitaria, potendo di conseguenza essere regolati da un’unica disciplina per tutto ciò che non concerneva la diversa sfera degli effetti, comprese le norme previste per i contratti corporativi diverse da quelle relative all’efficacia soggettiva ed alla struttura organizzativa delle associazioni sindacali.
Questa concezione del contratto collettivo, mantenuta anche nei decenni successivi e forse favorita dagli studi di Renato Balzarini, segna l’ultima tappa di una intensa attività di ricerca svincolata dall’impegno civile e politico. Si era infatti alla vigilia del “tuono a sinistra” del 1968-69 e gli scritti dell’A. erano ancora piuttosto asettici.
5. Una nuova stagione: diritto del lavoro e impegno politico
Ho conosciuto Cecilia Assanti tra il 1972 e il 1973, quando ha cominciato a seguire la mia tesi di laurea sulle strutture sindacali in azienda, che porta ancora il nome di Balzarini quale relatore, ma che ho ultimato e discusso con lei. Nel 1970-71 avevo seguito le lezioni di Diritto del lavoro tenute da Michele Zanetti, assistente di Balzarini, democristiano progressista, noto a Trieste per aver chiamato e difeso, da Presidente della Provincia, Franco Basaglia e la sua nuova psichiatria.
Zanetti mi ha avviato alla tesi, facendomi innanzitutto leggere la relazione di Federico Mancini al Convegno di Perugia del 1970 e poi il famoso libro di Giovanni Tarello. Mi sono laureato il 30 ottobre 1973 ed ho subito cominciato a frequentare, sotto la guida dell’A., l’Istituto di Diritto del lavoro, come giovane “fatturista”, “assegnista” e dalla fine del 1979 assistente di ruolo.
Sin dall’inizio Michele Zanetti, Luigi Rovelli, Tullio Renzi e gli altri assistenti e “giovani” dell’Istituto mi chiamavano, per scherzo, “Mengoni” e non Menghini, aiutandomi, però, molto nei primi anni di studio. Appena conosciuta, l’A. mi è apparsa come una intellettuale di sinistra ortodossa, dotata di una vastissima cultura e poco incline a valorizzare lo spontaneismo del ‘68, come invece facevo io. Lo vedevo dalle osservazioni che con estrema cura e precisione mi scriveva sulle pagine della tesi.
E di fatti, dagli anni ’70, non so in base a quali processi, l’A. ha cominciato a coniugare l’attività accademica con l’impegno civile e politico, iscrivendosi al Partito comunista, divenendo consigliere comunale nel comune di Trieste all’epoca in cui lo erano anche Giorgio Almirante e Marco Pannella e nel 1981 venendo eletta dal Parlamento come membro del Consiglio Superiore della Magistratura, dove è rimasta sino al marzo 1986. Si è trattato di un grande impegno che le ha chiesto molta forza e lucidità nei terribili anni delle Brigate Rosse, costringendola a girare con la scorta armata e a partecipare con il Presidente Pertini a varie onoranze funebri di magistrati.
Questo, peraltro è stato il periodo che, a mio avviso, le ha dato le maggiori soddisfazioni quanto ai rapporti il mondo politico nazionale, accademico e della magistratura. Mi confidava di trovarsi benissimo con i colleghi magistrati, che stimava molto.
Va anche detto che nel corso degli anni ’70 l’A. ha lasciato morire le “creature” di Balzarini, Ecole e riviste comprese, di cui, come ho già detto, mi ha sempre parlato molto poco. Avevano, probabilmente, fatto il loro tempo, concentrandosi ora l’attenzione dei giuslavoristi (in primis dell’Assanti) sul diritto comunitario.
Balzarini veniva poco a Trieste ed io non l’ho mai conosciuto di persona. L’A. mi diceva che era meglio che scrivessimo e collaborassimo con le riviste di rango nazionale e organizzava frequenti seminari per dirigenti sindacali e membri dei consigli di fabbrica. Tutti ricordiamo le “letture collettive” delle monografie dei giovani, ma già affermati, giuslavoristi e le cene a casa sua. Ci faceva andare con lei a numerosi convegni nazionali, in cui abbiamo imparato molto e fatto importanti conoscenze.
La Scuola di Specializzazione è proseguita stancamente per vari anni, ma era una realtà morente, con l’unica eccezione di Roberta Nunin che, laureatasi a Padova in Diritto internazionale, ha preso tanto sul serio la Scuola da laurearsi con la sua direttrice e continuando sotto la sua guida negli studi giuslavoristici sino a divenire ricercatrice, associata e poi ordinaria nella nostra Facoltà.
In questi anni al gruppo dei giuristi triestini si è aggiunto Michele Miscione, che ha insegnato per vari decenni Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia, prima come incaricato e poi come associato e ordinario, facendo anche crescere la sua allieva Marina Brollo, poi passata come associata e ordinaria all’Università di Udine, fondatrice dell’attuale vivace gruppo di lavoristi di quella Università. Quando l’A. stava al CSM, era Michele Miscione ad aggiornarmi sulle vicende del diritto del lavoro nazionale: gli sono sempre grato per le discussioni e gli insegnamenti nel corso della nostra vita comune di “fuori sede”.
Di frequente invitavamo a pranzo nelle trattorie vicine all’Università anche la nostra preziosissima bibliotecaria (Gabriella Ziboni, di grande aiuto nelle nostre ricerche), che accettava solo a patto che non parlassimo di diritto del lavoro: noi promettevamo, ma dopo pochi minuti violavamo la promessa.
La stessa gratitudine voglio esprimerla anche per l’amicizia, la solidarietà e i consigli di Carlo Cester, lavorista della scuola padovana diretta da Giuseppe Suppiej, che si è aggiunto al gruppo di noi triestini una decina d’anni dopo, da quando, nel 1986, è stato chiamato come straordinario di Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia, ove ha insegnato per molti anni quale ordinario, per passare poi a Giurisprudenza nel 1997-98 e 1998-1999, per tornare infine alla sua Università di origine. Con lui e Miscione si discuteva continuamente e solo una volta all’anno ci concedevamo due passi al mare di Barcola. Insieme, e con Cecilia, ci siamo dati molto da fare per il diritto del lavoro triestino.
6. La produzione scientifica degli anni ’70 e ’80
All’inizio degli anni ‘70 risale la produzione scientifica a mio avviso più importante dell’Assanti. Va innanzitutto menzionato il Commento allo Statuto dei Diritti dei lavoratori, Cedam, Padova, 1972, scritto insieme a Giuseppe Pera, che avrebbe dovuto essere un’opera comune, ma che alla fine è stata ben suddivisa tra i due autori per la distanza delle loro opinioni.
Il nuovo impegno politico, tuttavia, non ha mutato il tipico modo di argomentare dell’A. né ha attenuato il suo rigore nell’interpretare le norme secondo i consueti canoni ermeneutici.
Sintetizzando gli spunti più caratteristici od originali, l’A. riteneva, quanto agli artt. 4 e 6, che la contrattazione collettiva da essi menzionata non ponesse una questione di efficacia generale in senso proprio, dato che la materia regolata è per sua natura indivisibile; quanto all’13, che fosse vietata l’assegnazione continuativa di un lavoratore alla sostituzione di compagni assenti; quanto all’art. 14, che fosse esteso all’attività sindacale svolta all’interno dei luoghi di lavoro il limite costituito dal “normale svolgimento dell’attività aziendale” previsto dall’art. 26 per le azioni di proselitismo, con la conseguenza che l’attività sindacale può essere svolta nelle pause e comunque al di fuori dell’orario di lavoro, avendo così i lavoratori un interesse tutelato ad essere presenti nell’unità lavorativa oltre i tempi dell’adempimento dell’obbligo di eseguire la prestazione di lavoro; quanto all’art. 17, che per costituire sostegno vietato gli interventi datoriali diversi dalla costituzione del sindacato e dal suo finanziamento devono evidenziare in concreto una zona di influenza, non essendo configurabile una parità di trattamento tra sindacati.
Quanto al testo originario dell’art. l’art. 19, difendeva la legittimità costituzionale della disposizione di cui alla lett. a), richiedendo comunque la rappresentatività a livello aziendale e difendendo, come sempre ha fatto, l’uso del criterio selettivo della maggiore rappresentatività delle confederazioni, i cui criteri avrebbero dovuto essere costituiti, da un lato, dalla previsione statutaria e dall’effettivo esercizio di poteri di mediazione tra le categorie e di decisione delle compatibilità per l’intero movimento dei lavoratori e, dall’altro, dall’effettiva diffusione su un ampio arco di categorie e nel territorio, mentre per i sindacati di cui alla lett. b) richiedeva il requisito di essere contraenti in senso proprio (in proposito v. anche La maggiore rappresentatività del sindacato tra difficoltà vecchie e nuove, RGL, 1988, I, pag. 319 ss.).
Molto pro labor era la sua interpretazione dell’art. 20: le assemblee potevano aver corso anche se il datore di lavoro non poteva utilizzare la prestazione di chi non vi partecipava e pur se la riunione provocava l’arresto dell’attività; le assemblee potevano essere convocate anche dai sindacati, trattandosi di un’attività fungibile, senza obbligo di comunicare l’ordine del giorno al datore di lavoro, il quale non aveva diritto a parteciparvi.
Cauta, invece, era l’interpretazione dell’art. 22, che la portava a negare la possibilità di estensione analogica o estensiva della norma a tutti i membri del consiglio di fabbrica. Il Commento di Assanti e Pera ha avuto un importante rilievo nazionale, affiancandosi al coevo Commentario dei giuslavoristi bolognesi.
Al 1977 risale il primo studio dell’A. sul tema su cui ha profuso il suo maggior impegno scientifico ed ha dato il contributo più rilevante al diritto del lavoro italiano: il lavoro femminile e la condizione giuridica della donna.
Si tratta della relazione svolta al Convegno dell’Aidlass dell’aprile di quell’anno (La disciplina del lavoro femminile, RGL, 1977, I, p. 13 ss.), che precedeva di qualche mese l’approvazione della legge di parità.
A mio avviso, il punto più interessante della relazione era quello in cui si studiavano i riflessi dei principi di uguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 Cost. sulla parità tra lavoratore e lavoratrice, che considerava non meccanica e generalizzata, ammettendo regole differenziate in base al sesso se rivolte ad eliminare gli ostacoli di cui al 2° comma dell’art. 3.
L’A. era poi diffidente sull’ipotesi di attribuire alle associazioni femminili, per reagire a pratiche discriminatorie, compiti simili a quelli attribuiti ai sindacati dall’art. 28 dello Statuto. I nessi tra l’art. 37 ed i primi articoli della Costituzione sono stati ripresi e approfonditi in molte successive occasioni (ad es. Il lavoro e la Costituzione nella condizione complessiva della donna, RGL, 1989, I, p.167 ss.). I punti più interessanti sono quello in cui motiva la prevalenza della funzione dei sindacati, volti a tutelare lavoratori e lavoratrici, rispetto a quella delle associazioni femminili; quello in cui nega fondamento alle ipotesi di modifiche costituzionali per assicurare presenze paritarie a uomini e donne nelle assemblee elettive; quello in cui contesta la pretesa di parificare il lavoro nella famiglia a quello svolto nel mercato; quello, infine, in cui interpreta il limite al principio di parità tra lavoratore e lavoratrice, di cui all’art. 37, 1°comma, Cost., costituito dall’esigenza che le condizioni di lavoro consentano alla donna di adempiere la sua essenziale funzione familiare, nel senso che si debba salvaguardare soltanto la sua funzione infungibile, e cioè legata alla gravidanza e alla maternità.
Il suo impegno politico nell’ambito della sinistra tradizionale è evidente, da un lato, nella difesa della legislazione lavoristica della seconda parte degli anni ’70, frutto del compromesso storico: usava sempre l’espressione “diritto del lavoro nell’emergenza” e non “dell’emergenza”, perché riteneva che questo complesso di norme non fosse esclusivamente legato a quel periodo storico e destinato a cadere alla sua fine, ma avesse elementi positivi destinati a permanere nel tempo (v. la relazione tenuta a Cadenabbia nell’ottobre del 1979, pubblicata col titolo L’economia sommersa: i problemi giuridici del secondo mercato del lavoro, RGL, 1980, I, p. 179 ss.); dall’altro, nelle censure di illegittimità costituzionale formulate nei confronti del decreto craxiano che nel febbraio 1984 tagliava la scala mobile (v. Il taglio della scala mobile. Un decreto che colpisce la contrattazione, DD, 1984, 1-2, p. 19 ss.).
7. Le delusioni della fine degli anni ’80 e l’isolamento dalla comunità dei giuslavoristi
Cecilia Assanti era una persona molto forte e combattiva, ma anche chiusa e riservata. Passavamo diverso tempo insieme, ma se lei non mi raccontava le sue vicende, io capivo che non gliele dovevo chiedere, pensando che secondo lei i giovani allievi dovevano solo studiare e scrivere, mentre ai maestri competevano le scelte strategiche, le relazioni e le prese di posizione.
So poco, quindi, della vicenda relativa al suo ritorno a Trieste, alla fine della Consigliatura, da lei vissuta molto male. Penso che aspirasse a rimanere a Roma, alla Sapienza, come era già capitato a molti suoi colleghi, ma non è riuscita in questo intento. Mentre si era organizzata anche la vita familiare a Roma, ha dovuto rientrare a Trieste al suo insegnamento a Giurisprudenza, pur continuando a sentirsi parte della sinistra, partecipando alle iniziative del Centro per la Riforma dello Stato, dell’Associazione Enrico Berlinguer, della CGIL, dei gruppi femminili, delle espressioni del territorio e della Rivista giuridica del lavoro.
Ma anche una successiva delusione l’ha segnata a fondo: la sua mancata elezione nella commissione giudicatrice del concorso a cattedra del 1989. Da quel momento non ha voluto far parte di alcun gruppo di giuslavoristi accademici, non è più andata ai convegni dell’Aidlass, pur continuando ad organizzare e a partecipare a molte iniziative scientifiche. Forse avrebbe voluto dar vita ad una scuola ampia di triestini per incidere in modo più forte nel diritto del lavoro italiano e per guidare in senso democratico anche la nostra Facoltà. Non c’è riuscita nella misura voluta o avrebbe dovuto attendere troppo.
8. La produzione scientifica degli anni ’90
Malgrado questi insuccessi, l’A. ha proseguito la sua produzione scientifica nel corso di tutti gli anni ’90. Rinviando a ciò che ho scritto nel lontano 2000 per un quadro più articolato, qui voglio solo osservare che in questo ultimo periodo i temi prescelti hanno spesso carattere molto alto e impegnativo, come, ad es., i rapporti tra le fonti interne, specie costituzionali, e quelle comunitarie ed i nessi tra i principi dell’uguaglianza formale e sostanziale e quello di parità tra lavoratore e lavoratrice (v. la relazione pubblicata in GI, 1992, IV, c. 140 ss.; Azioni positive: confini giuridici e problemi attuali dell’uguaglianza di opportunità, RIDL, 1996, I, p. 375 ss.; Pari opportunità: privato e pubblico a confronto. I principi di eguaglianza nel diritto comunitario, RGL, 1997, I, pag. 451 ss.).
Spiccato, in questo periodo, è il suo interesse per lo sviluppo del diritto del lavoro nella sua dimensione europea, interesse non ancora tanto diffuso nella dottrina italiana dell’epoca e legato al vecchio filone degli studi giuridici triestini particolarmente sensibile al diritto sovranazionale e comparato (così R.Nunin, nel par. 4 di L’insegnamento del Diritto del lavoro, in Giuristi a Trieste, cit., p. 81).
L’A. si è inserita anche nel dibattito sulla crisi della nozione di subordinazione e sull’esigenza di una nuova articolazione delle tutele, ridimensionando gli aspetti economici e sociali della nuova era postindustriale e criticando le tesi che ritenevano superata la distinzione tra subordinazione e autonomia ed estendevano norme protettive del lavoro dipendente a quello autonomo e parasubordinato (v. La subordinazione. Riflessioni da tre libri e da una relazione recenti, RIDL, 1990, I, p. 158 ss. e Autonomia e assetto dei poteri (impresa e lavori), RGL, 1991, I, p. 152 ss.). Quest’ultimo scritto costituisce una sorta di testamento scientifico anticipato sui caratteri fondamentali del diritto del lavoro passato, presente e futuro.
Qui riprendo solo la valutazione positiva sulle innovazioni degli anni ’70 e quella negativa degli anni ’80, quest’ultima motivata con il fatto che la promozione del sindacato non aveva fatto avanzare alcuna ipotesi di governo dell’economia, che la flessibilità affidata alla contrattazione aveva dato risultati modesti, come del resto il sostegno alle nuove istituzioni del mercato del lavoro; criticava, infine, la scarsità di strumenti per favorire l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e proponeva varie misure, specie sul versante delle retribuzioni e del tempo di lavoro.
9. L’ultimo periodo e ulteriori ringraziamenti
Cecilia Assanti ha cessato l’attività accademica nell’ottobre del 1997, prima della scadenza naturale. Si era probabilmente stancata della sua Facoltà e voleva passare qualche anno in pace. In effetti ha vissuto l’ultimo periodo della vita molto serenamente, lontana dai problemi dell’Università, dell’accademia e dei concorsi e dedita allo studio e alla ricerca secondo i suoi ritmi e le sue preferenze.
Dal 1990-1991 al 2001-2002 nella Facoltà di Giurisprudenza diritto del lavoro era insegnato anche da Antonio Vallebona, con il quale ho subito instaurato un bel rapporto di amicizia, di cui gli sono ancora molto grato, come sono grato a Franco Carinci per la fiducia e gli spazi che mi ha dato nelle sue riviste, trattati e commentari. Anche Carlo Pisani ha insegnato Diritto del lavoro a Trieste (dal 2002-2003 al 2008-2009). Dopo la scomparsa dell’A., Miscione, Vallebona ed io nell’ottobre del 2001 abbiamo organizzato un convegno a Trieste in sua memoria e poi abbiamo curato una raccolta di suoi scritti (C. Assanti, Scritti di Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2003).
Tra la fine del vecchio millennio e l’inizio di quello nuovo siamo diventati professori di prima fascia anche Miscione ed io e così il Diritto del lavoro triestino ha continuato il suo corso. Seguendo le tracce di Cecilia, mi sembra di aver fatto bene due cose: ho creato un Master in Diritto del lavoro che ha valorizzato la Facoltà di Trieste e la città, riuscendo a farvi partecipare come docenti molti colleghi ed amici, vicini e lontani, che mi hanno regalato bellissimi rapporti personali e professionali; ho sostenuto i lavoristi più giovani di me, tanto che Roberta Nunin ha da anni preso servizio come professore di prima fascia e tra pochi mesi dovrebbe farlo anche Maria Dolores Ferrara; ora possono serenamente occuparsi di una nuova leva di lavoristi e ulteriormente sviluppare la materia nella nostra città.
Tutto ciò non sarebbe potuto avvenire senza l’intelligenza, la passione e la disponibilità nei miei confronti di Cecilia, a cui devo, insieme con la mia prima moglie Annamaria, un dono immenso: avermi fatto fare per decenni l’unico mestiere che sapevo fare e che mi piaceva tantissimo.
Sommario: 1. La fattispecie concreta e la soluzione della Corte di Cassazione - 2. Il quadro normativo di riferimento – le norme del Codice della strada - 2.1. L’art. 186, commi 1), 2) e 2bis) - 2.2. L’art. 186 comma 9 bis - 2.3. L’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie - 3. Effetti dell’introduzione dell’istituto della messa alla prova (MAP) sulle norme del codice della strada in materia di guida in stato di ebbrezza - 3.1. L’art. 168 bis e l’art. 168 ter c.p. - 3.2. Effetti sul trattamento sanzionatorio accessorio - 4. La giurisprudenza della Corte costituzionale - 4.1. Corte costituzionale, 24/4/2020, n. 75 - 4.2. Corte costituzionale, 30/6/2022, n. 163 - 4.3. Corte costituzionale, 27/10/2023, n. 194 - 5. Cass. civ., Sez. II, 01/02/2024, n. 3019 - 5.1. I motivi di ricorso e la decisione - 5.2. Profili di criticità - 6. Considerazioni finali sull’automatismo della revoca.
1. La fattispecie concreta e la soluzione della Corte di Cassazione
1.1. Il Tribunale di Rovereto con sentenza (divenuta irrevocabile in data 2/7/2016) dichiarò ex art. 464 septies c.p.p. (a seguito dell’esito positivo della prova), l’estinzione del reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. c) e comma 2 bis (guida in stato di ebbrezza con tasso alcolimetrico superiore a 1,5 g/l aggravato dall’aver provocato incidente stradale in data 4/7/2014); a seguito della trasmissione della sentenza al Commissario del Governo per la Provincia di Trento, quest’ultimo adottò (ex art. 224, comma 2, codice della strada) nei confronti del conducente il provvedimento di revoca della patente ex art. 186, comma 2 bis del codice della strada (quale sanzione amministrativa accessoria a sanzione penale).
Proposta opposizione dal destinatario del provvedimento di revoca, la stessa fu accolta in primo grado, ma rigettata in appello dal Tribunale di Trento.
1.2. La Corte di cassazione, a seguito di ricorso del conducente/condannato, ha accolto lo stesso in quanto ha ritenuto di estendere quanto sancito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 75/2020 (illegittimità della previsione della confisca del veicolo in caso di pronuncia di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) in relazione a un giudizio avente ad oggetto una fattispecie rientrante nelle ipotesi di reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) del codice della strada (guida in stato di ebbrezza non aggravato da incidente stradale) anche all’ipotesi della revoca della patente conseguente alla fattispecie di reato di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada (guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico > 1,5 g/l aggravato dall’incidente stradale).
1.3. La pronuncia non persuade sia in relazione alla motivazione del provvedimento sia in relazione agli effetti distorsivi che la sua applicazione in concreto determina; a tal fine si reputa e necessario premettere una ricognizione del quadro normativo del microsistema sanzionatorio penale e amministrativo accessorio collegato alle fattispecie qualificabili in termini di “guida in stato di ebbrezza”, nonché la relativa giurisprudenza della Corte costituzionale.
2. Il quadro normativo di riferimento – le norme del Codice della strada
2.1. L’art. 186, commi 1), 2) e 2bis)
L'art. 186 (comma 1), nel testo attualmente vigente, stabilisce in via generale il divieto di guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche.
L’art. 186, comma 2, a seconda del valore del tasso alcolemico accertato, prevede tre distinti illeciti: il primo (più lieve) di carattere amministrativo e, gli altri due (progressivamente più gravi), di carattere penale.
Stabilisce, infatti, che la condotta in questione, ove non costituisca più grave reato, è punita:
a) con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da Euro 543 ad Euro 2.170, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro; all'accertamento della violazione consegue la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi;
b) con l'ammenda da Euro 800 ad Euro 3.200 e l'arresto fino a sei mesi, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro; all'accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno;
c) con l'ammenda da Euro 1.500 ad Euro 6.000 e l'arresto da sei mesi ad un anno, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro; all'accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni. (….). La patente è sempre revocata nel caso di recidiva nel biennio. Con la sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti, anche se è stata applicata la sospensione condizionale della pena, è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato.
Lo stesso art. 186, comma 2-bis - aggiunto nel 2007, nel testo oggi vigente a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 33, comma 1, lettera b), della L. 29 luglio 2010, n. 120 (Disposizioni in materia di sicurezza stradale) - prevede che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, le sanzioni indicate sono raddoppiate e qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro “la patente di guida è sempre revocata”.
2.2. L’art. 186 comma 9 bis
L’art. 186, comma 9 bis - introdotto dalla richiamata legge n. 120/2010 - stabilisce, inoltre, che, al di fuori dei casi previsti dal comma 2-bis (guida in stato di ebbrezza aggravata dall’aver provocato incidente stradale), “la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell'imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 54 del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 secondo le modalità ivi previste e consistenti nella prestazione di un'attività non retribuita a favore della collettività, da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell'educazione stradale.”
In tutti i casi di guida in stato di ebbrezza (non aggravati dall’aver provocato un incidente stradale) di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c), codice della strada “in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato.”
2.3. L’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie
Gli artt. 224 e 224-ter cod. strada - quest'ultimo introdotto dall'art. 44, comma 1, della citata L. n. 120 del 2010 - disciplinano, rispettivamente,
a) il procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (a sanzioni penali) della sospensione e della revoca della patente (art. 224);
b) il procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (a sanzioni penali) della confisca amministrativa e del fermo amministrativo.
In particolare, l'art. 224, comma 3, e l'art. 224-ter, comma 6, prevedono che nel caso di estinzione del reato per causa diversa dalla morte dell’imputato, il prefetto procede all'accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria e procede, ai sensi degli artt. 218 e 219 cod. strada nelle parti compatibili, all'applicazione della sanzione accessoria della sospensione ovvero della revoca della patente di guida e, ai sensi degli artt. 213 e 214 cod. strada, in quanto compatibili, all'applicazione della sanzione accessoria della confisca.
3. Effetti dell’introduzione dell’istituto della messa alla prova (MAP) sulle norme del codice della strada in materia di guida in stato di ebbrezza
3.1. L’art. 168 bis e l’art. 168 ter c.p.
Il descritto quadro normativo di riferimento, delineatosi a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 120/2010, ha subito un intervento indiretto a seguito dell’introduzione (legge n. 67/2014) nel sistema penale dell’istituto della messa alla prova (art. 168 bis c.p.) che comporta, in relazione ad una serie di reati tra cui anche quelli collegati alla guida in stato di ebbrezza, la possibilità per l’imputato di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova (consistente nella prestazione di lavoro di pubblica utilità e nella prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato).
Ai sensi dell'art. 168-ter, comma 2, c.p. - inserito dalla richiamata legge n. 67/2014, "l'esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede. L'estinzione del reato non pregiudica l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge".
3.2. Effetti sul trattamento sanzionatorio accessorio
Lo stratificarsi delle normative sopra descritte in assenza di coordinamento tra loro aveva determinato che i soggetti responsabili del reato di guida in stato di ebbrezza (senza aver provocato incidente stradale) subissero una diversità di trattamento in ordine alla confisca del veicolo a seconda che il giudice penale avesse dichiarato l’estinzione del reato a seguito dello svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità (quale sanzione sostitutiva) ovvero avesse dichiarato l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova.
Nel caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice penale, dichiarata l'estinzione del reato, non poteva che revocare la confisca del veicolo, a norma dell'art. 186, comma 9-bis, cod. strada, mentre, nel caso di esito positivo della messa alla prova, egli, dichiarata l'estinzione del reato, avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Prefetto, a norma dell'art. 224-ter, comma 6, cod. strada, affinché quest'ultimo disponesse la confisca del mezzo.
4. La giurisprudenza della Corte costituzionale
4.1. Corte costituzionale, 24/4/2020, n. 75
L’evidente diversità e disparità di trattamento in riferimento a situazioni sostanzialmente identiche all’interno del microsistema degli istituti incentivanti nel trattamento sanzionatorio della guida in stato di ebbrezza non aggravata dal verificarsi di un incidente stradale (da ritenersi disciplina speciale rispetto alla previsione di cui all’art. 168 ter c.p.) è stata ritenuta dalla Corte costituzionale manifestamente irragionevole alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost.; in particolare il giudice delle leggi ha affermato che “la possibilità che, pur in caso di estinzione del reato di guida in stato di ebbrezza per esito positivo della messa alla prova, il prefetto disponga, ricorrendone le condizioni, la confisca del veicolo (della cui disponibilità, peraltro, l'imputato è stato privato sin dal momento del sequestro) - laddove lo stesso codice della strada prevede (art. 186, comma 9 bis, n. di chi scrive) per il caso in cui il processo si sia concluso con l'emissione di una sentenza di condanna e con l'applicazione della pena sostitutiva, non solo l'estinzione del medesimo reato di guida in stato di ebbrezza, ma anche la revoca della confisca del veicolo per effetto del solo svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità - risulta manifestamente irragionevole, ove rapportata alla natura, alla finalità e alla disciplina dell'istituto della messa alla prova, come delineate anche dalla giurisprudenza di questa Corte, prima richiamata.” (Corte cost., 24/4/2020, n. 75).
Alla luce di ciò la richiamata sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 224-ter, comma 6, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che il prefetto verifica la sussistenza delle condizioni di legge per l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, anziché disporne la restituzione all'avente diritto, in caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool per esito positivo della messa alla prova”.
A seguito di tale pronuncia il microsistema dei trattamenti sanzionatori in materia di guida in stato di ebbrezza (non aggravati da incidente stradale) ha riacquisito interna coerenza prevedendo sia in caso di esito positivo della messa alla prova che in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità lo stesso effetto “premiale” costituito dalla revoca della confisca del veicolo.
4.2. Corte costituzionale, 30/6/2022, n. 163
La diversità di trattamento, in virtù della segnalata assenza di coordinamento tra norme intervenute nel corso del tempo, si riscontrava anche in relazione alle conseguenze in punto di durata di sospensione della patente di guida in quanto, ai sensi dell’art. 186, comma 9 bis, codice della strada, il giudice, in caso di svolgimento positivo dei lavori di pubblica utilità, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente, mentre, ai sensi di quanto previsto dall’art. 224, comma 3, codice della strada, nel caso di estinzione del reato per altra causa (tra questi dovendosi ritenere anche l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) il prefetto avrebbe dovuto procedere all’accertamento della sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della sospensione della patente senza prevedere la riduzione alla metà.
Anche in relazione a tale diversità e disparità di trattamento è intervenuta la Corte costituzionale dichiarando il differente trattamento irragionevole alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost; in particolare il giudice delle leggi ha affermato che “la manifesta irragionevolezza della conseguenza applicativa per cui, al cospetto di una prestazione analoga, qual è il lavoro di pubblica utilità, e a fronte del medesimo effetto dell'estinzione del reato, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente viene ridotta alla metà dal giudice in caso di svolgimento positivo del lavoro sostitutivo, mentre è escluso il beneficio dell'identica riduzione ove sia applicata dal prefetto nel caso di esito positivo della messa alla prova …”, precisando, peraltro, che “tale irragionevolezza si manifesta nei limiti dei casi regolati dalla fattispecie dell'art. 186, comma 9-bis, cod. strada, utilizzata come norma di raffronto, la quale ammette il lavoro di pubblica utilità, cui si correla la funzione premiale del suo positivo svolgimento, nelle sole ipotesi di reato di guida in stato di ebbrezza diverse da quelle contemplate dal comma 2-bis dell'art. 186 cod. strada.”
Alla luce di ciò la Corte costituzionale ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 224, comma 3, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui non prevede che, nel caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool di cui all'art. 186, comma 2, lettere b) e c), del medesimo decreto legislativo, per esito positivo della messa alla prova, il prefetto, applicando la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, ne riduca la durata della metà.” (Corte cost., 30/6/2022, n. 163).
A seguito di tale pronuncia il microsistema dei trattamenti sanzionatori in materia di guida in stato di ebbrezza (non aggravati da incidente stradale) ha riacquisito interna coerenza prevedendo sia in caso di esito positivo della messa alla prova che in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità gli stessi effetti premiali sia sotto il profilo della revoca della confisca del veicolo sia sotto il profilo della riduzione a metà della durata della sospensione della patente di guida.
4.3. Corte costituzionale, 27/10/2023, n. 194
Successivamente il giudice delle leggi è stato chiamato a pronunciarsi circa la legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2 bis, codice della strada (guida in stato di ebbrezza aggravato dall’aver provocato un incidente stradale) per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui prevede l'applicazione automatica della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida qualora, per il conducente che provochi un incidente stradale, sia accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), a seguito di ordinanza con cui il giudice rimettente ipotizzava nell’automatismo della previsione (“la patente è sempre revocata”) la violazione del principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta di volta in volta posta in essere anche alla luce della natura anche punitiva (oltre che preventiva) della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida.
Il giudice delle leggi ha innanzitutto ritenuto che “la fattispecie di guida in stato di ebbrezza di cui all'art. 186 cod. strada si declina secondo una precisa ed articolata graduazione che accomuna pena principale e sanzione accessoria in una scala di gravità progressivamente maggiore. In tal modo, l'impianto sanzionatorio, che punisce la guida in stato di ebbrezza, prevede diversi "gradi di intensità" della violazione, ai quali corrispondono differenti livelli di sanzioni in progressione crescente finalizzati alla prevenzione e repressione di comportamenti pericolosi per gli utenti della strada.
Il divario tra le varie misure - detentive, pecuniarie e accessorie - è correlato all'incremento della pericolosità della condotta, graduata sulla base del livello del tasso alcolemico. In particolare, la sanzione amministrativa accessoria è determinata in un intervallo che va dalla sospensione della patente di guida per tre mesi, per le condotte meno gravi, fino alla revoca della patente, per la condotta più grave. Tale è la guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, ove la condotta sia aggravata per aver il conducente provocato un incidente.
Tale circostanza aggravante, che mostra che il superamento della soglia di 1,5 g/l di tasso alcolemico è stato tale, in concreto, da aver compromesso il controllo dell'autovettura, individua e sanziona una condotta particolarmente pericolosa, quale che sia l'entità dell'incidente, e rende non irragionevole che, anche a fini di deterrenza per la salvaguardia della sicurezza pubblica nella circolazione stradale, sia collocata in cima alla scala delle condotte sanzionate in misura progressivamente più elevata.”
Sul punto per cui in alcuni casi la revoca della patente costituisca il primario (se non unico) ruolo afflittivo la Corte costituzionale nella stessa pronuncia ha, altresì, affermato che “L'eventualità che la revoca della patente di guida mantenga un primario ruolo afflittivo, permanendo come unica misura punitiva concretamente efficace, risulta, poi, coerente sia con la finalità preventiva della sanzione, perché consente di evitare che il reo ricrei la situazione di pericolo per un congruo periodo di tempo; sia con la finalità deterrente, perché sollecita una maggiore consapevolezza della gravità del comportamento; sia con la funzione rieducativa, perché impone al condannato di affrontare il percorso di esami che lo abilita alla guida per ottenere la nuova patente, instaurando un processo virtuoso tramite una utile formazione finalizzata alla prevenzione.”
Alla luce di ciò la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 186, comma 2-bis, cod. strada, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost. (Corte cost., 27/10/2023, n. 194).
5. Cass. civ., Sez. II, 01/02/2024, n. 3019
5.1. I motivi di ricorso e la decisione
La sentenza in commento ha avuto modo di pronunciarsi in relazione a fattispecie in cui il ricorrente appellava la sentenza con cui il Tribunale (in riforma della sentenza di primo grado del giudice di pace) aveva rigettato l’opposizione alla sanzione accessoria della revoca per tre anni della patente di guida (in fattispecie di guida in stato di ebbrezza aggravata dall’aver provocato incidente stradale) in quanto disposta dal prefetto (a seguito di sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova) a decorrere dalla data (2/7/2016) di definitività della sentenza piuttosto che dalla data (3/7/2014) del fatto.
Il ricorso per cassazione denunciava (quale primo motivo) la violazione dell'art. 219, comma 3-ter (codice della strada), in relazione agli artt. 464-bis c.p.p. e 168-bis e ss. c.p., per avere il giudice di appello equiparato la pronuncia di estinzione del reato per esito positivo della prova ad una sentenza di condanna al fine della sanzione accessoria della revoca per tre anni della patente di guida, mentre nella prima ipotesi mancherebbe qualsiasi accertamento positivo della responsabilità dell'imputato.
Nel caso di specie la S.C., ha ritenuto di estendere quanto affermato dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 75/2020 (illegittimità della previsione della confisca del veicolo) in relazione a un giudizio avente ad oggetto una fattispecie rientrante nelle ipotesi di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) del codice della strada (guida in stato di ebbrezza non aggravato dall’incidente stradale) anche all’ipotesi della revoca della patente conseguente alla fattispecie di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada (guida in stato di ebbrezza aggravato dall’incidente stradale).
La pronuncia richiama la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 224 ter, comma 6, del codice della strada (di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 75/2020) ritenendo di estendere i principi sottesi alla detta pronuncia del giudice delle leggi anche al caso in cui la sanzione irrogata sia la revoca della patente.
La ratio dell’estensione del principio non appare convincente sotto diversi profili.[1]
5.2. Profili di criticità
a) In primo luogo deve evidenziarsi che la richiamata sentenza del giudice delle leggi non ha dichiarato “tout court” incostituzionale l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo da parte del prefetto per il solo fatto di essere disposta in occasione di una dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, ma ha dichiarato l’incostituzionalità (alla luce della norma parametro di cui all’art. 3 Cost.) della previsione di cui all’art. 224 ter, comma 6, del codice della strada in quanto irragionevole per diversità di trattamento rispetto al caso sostanzialmente identico disciplinato dall’art. 186, comma 9 bis, codice della strada che prevede la revoca della confisca del veicolo in caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità (quale pena sostituiva irrogata nelle ipotesi di reato di cui all’art. 186, comma 2, del codice della strada) con espressa esclusione dell’ipotesi di cui al comma 2 bis (guida in stato di ebbrezza aggravata da incidente stradale);
b) l’identica ratio ha comportato la successiva (Corte cost. n. 163/2022) dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 224, comma 3, del codice della strada nella parte in cui non prevede(va) che, nel caso di estinzione del reato di guida sotto l'influenza dell'alcool di cui all'art. 186, comma 2, lettere b) e c), per esito positivo della messa alla prova, il prefetto, applicando la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente, ne riducesse la durata della metà.
Le due pronunce hanno restituito coerenza e parità di trattamento a fattispecie stratificatesi nel corso degli anni in maniera non coordinata all’interno del microsistema dei trattamenti sanzionatori penali e amministrativi accessori in relazione a istituti (estinzione del reato per svolgimento di lavori di pubblica utilità quale pena sostitutiva ovvero per messa alla prova ex art. 168 bis c.p.) ritenuti dal giudice delle leggi sostanzialmente identici per contenuti e finalità.
c) l’estensione operata dalla pronuncia della S.C. comporterebbe l’automatismo secondo cui nel caso di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova verrebbe meno la sanzione accessoria della revoca della patente anche nel caso del reato di guida senza patente aggravato da incidente stradale.
Tale lettura da un lato sembra non aver tenuto conto che le due pronunce di incostituzionalità sono espressamente legate alle violazioni di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c) con espressa esclusione (sia a livello normativo che nelle pronunce della Corte costituzionale) della fattispecie di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice strada e dall’altro risulta in contrasto con la previsione di cui all’art. 186, comma 2 bis, codice della strada (“la patente di guida è sempre revocata”) ritenuta del tutto legittima dal giudice delle leggi (Corte cost. n. 194/2023) e già precedentemente ritenuta conforme ai principi costituzionali anche dalla giurisprudenza di legittimità in sede penale (Cass. pen., Sez. IV, 1/3/2021, n. 7950)
La pronuncia, inoltre, risulta essere in contrasto con la previsione di carattere generale di cui all’art. 168 ter, comma 2, c.p. secondo cui l’estinzione del reato per esito positivo della prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie (previsione espressamente non derogata nel caso di guida in stato di ebbrezza del conducente che provochi un incidente stradale dalla disciplina speciale del codice della strada che invece prevede parziale deroga esclusivamente alle sole ipotesi di guida in stato di ebbrezza senza che da ciò sia derivato un incidente stradale).
Alle considerazioni sopra richiamate da ultimo, ma con valore che appare risultare dirimente, deve aggiungersi la considerazione secondo cui ove si accogliesse la tesi della S.C. risulterebbe alterata e addirittura irragionevolmente rovesciata, sino a risultare illegittima per violazione dell’art. 3 Cost., la progressione sanzionatoria (valutata legittima dalla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2023) in materia di guida di stato di ebbrezza in quanto per violazioni più lievi sarebbero previste sanzioni più afflittive di quelle previste per le violazioni più gravi e, in particolare:
a) nelle ipotesi più lievi di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) e c), a seguito dell’esito positivo della messa alla prova, il prefetto deve applicare la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente con riduzione alla metà;
b) nel caso più grave (guida in stato di ebbrezza con conducente che provochi un incidente stradale) a seguito dell’esito positivo della messa alla prova (venendo meno la possibilità di disporre la revoca da parte del prefetto) non sarebbe applicabile alcuna sanzione amministrativa accessoria né da parte del giudice né da parte del prefetto[2].
Tali conseguenze confliggerebbero in maniera evidente con la ratio sottesa all'art. 186, comma 2bis (ipotesi contravvenzionale di pericolo), che prevede come obbligatoria la revoca della patente di guida per l'ipotesi in cui il conducente, che versi in stato di ebbrezza, con tasso alcolemico accertato superiore a 1,5 g/l, abbia provocato un incidente stradale; tale ratio deve essere ricercata nella volontà del legislatore di punire più gravemente condotte nelle quali la turbativa alla sicurezza della circolazione sia correlata all'accertamento dello stato di ebbrezza del conducente, in quanto ritenute maggiormente idonee a porre in pericolo l'incolumità personale dei soggetti e dei beni coinvolti nella circolazione (Cass. pen., Sez. IV, Sent., 1/3/2021, n. 7950).
Le suesposte considerazioni appaiono ancor più rilevanti se solo si osserva che la Corte costituzionale ha ritenuto che lo stato di un soggetto che si trovi in una condizione di ebbrezza data dal superamento della soglia di 1,5 g/l, ovvero quella collocata nella "fascia" di maggiore gravità della disposizione sanzionatoria penale, dia luogo a una condizione particolarmente pericolosa e che anche l'eventuale modestia dell'incidente causato non sia tale da smentire la rilevanza della condotta, trattandosi di "comportamento altamente pericoloso per la vita e l'incolumità delle persone, tenuto in spregio del dovuto rispetto di tali beni fondamentali", rendendo quindi giustificabile una severa misura "di natura preventiva" (oltre che punitiva) tendente alla protezione di beni giuridici primari; con la conseguenza che la scelta di non operare un'eventuale graduazione della sanzione, a seconda della gravità dell'incidente - rendendo automatica la sanzione della revoca - risponde a un criterio di prevenzione generale non irragionevole, data la sua valenza preventiva e deterrente (in tal senso si veda Corte cost., 27/10/2023, n. 194 e, da ultimo, Cass. pen., Sez. IV, Sent., (data ud. 08/01/2025) 20/02/2025, n. 7015).
6. Considerazioni finali sull’automatismo della revoca
6.1. L'automaticità della revoca della patente è conseguenza di una scelta legislativa (non pregiudicata nel caso di estinzione del reato per qualsiasi causa) escludente, a priori, qualsivoglia discrezionalità amministrativa nei confronti del soggetto che ricade nelle condizioni stabilite dalla norma (“…. Qualora per il conducente che provochi un incidente stradale sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), …….., la patente di guida è sempre revocata”).
Sulla base del dato normativo deve, pertanto, escludersi che l'accertamento delle circostanze di fatto al ricorrere delle quali è disposta la revoca della patente, secondo quanto previsto dall'art. 186, comma 2 bis, del Codice della Strada, configuri detto esercizio di potere amministrativo in termini di potere discrezionale, trattandosi al contrario di pura attività di riscontro di dati univoci, nella quale non è insita alcuna operazione di bilanciamento di interessi, ovvero alcuna valutazione di opportunità funzionale al perseguimento di uno scopo pubblico positivamente determinato (Cons. Stato, Sez. III, 26/4/2024, n. 3843, nonché Cons. Stato, Sez. III, 18/6/2019, n. 4136).
6.2. Nel delineato contesto normativo di riferimento non può, infine, assumere alcun rilevo la circostanza secondo cui la sentenza di non luogo a procedere per intervenuta estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova non comporta l’accertamento della responsabilità dell’imputato.
A tal proposito, infatti, deve rilevarsi che la Corte costituzionale con riferimento alla sospensione per messa alla prova del processo minorile, ha posto l'accento sul fatto che "presupposto concettuale essenziale del provvedimento, connesso ad esigenze di garanzia dell'imputato, è costituito da un giudizio di responsabilità penale che si sia formato nel giudice, in quanto altrimenti si imporrebbe il proscioglimento" (Corte cost. 14/4/1995, n. 125).
Tali conclusioni sono state ritenute riferibili anche alla messa alla prova dell’imputato adulto come si desume dall’art. 464 quater, comma 1, c.p.p. “laddove è previsto che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta a meno che il giudice non ritenga di dover pronunciare una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.; altro argomento per una lettura in tal senso si desume dalla circostanza che la messa alla prova prevede lo svolgimento di attività dirette all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti da reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno, e dunque il richiamo al reato e al pregiudizio che ne deriva richiede necessariamente un accertamento positivo della sua sussistenza e della responsabilità dell'agente” (Cass. pen., Sez. IV, 17/11/2020, n. 32209).
Quanto sopra evidenziato comporta che l’estinzione del reato ex art. 168 ter, comma 2, c.p. a seguito dell’esito positivo della prova presuppone comunque l’avvenuto accertamento del fatto-reato (pur senza che si sia addivenuti ad una pronuncia di penale responsabilità) con conseguente legittimo automatismo della revoca della patente legato alla mera verifica ex art. 224, comma 3, secondo periodo, del codice della strada della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 186, comma 2 bis, secondo periodo del codice della strada (tasso alcolemico >1,5 e incidente stradale).
[1] In tal senso si veda anche Giudice di Pace Gorizia, 3/3/2025 n. 37, Giudice di Pace Gorizia, 1/7/2024, n. 115 confermata da Tribunale di Gorizia, 9/5/2025, n. 116, Giudice di Pace di Gorizia, 24/5/2024, n. 82, confermata da Tribunale Gorizia, 16/4/2025, n. 99.
[2] In tal senso si veda Giudice di Pace Gorizia, 3/3/2025 n. 37, Giudice di Pace Gorizia, 1/7/2024, n. 115 confermata da Tribunale di Gorizia, 9/5/2025, n. 116.
Immagine: Marine Drive leaving the overflow car park by Roger A Smith via Wikimedia Commons.
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