ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sui principi del do not significant harm e della neutralità climatica: alcune riflessioni a margine del Green Deal europeo
di Gianluigi Delle Cave
Sommario: 1. Inquadramento del tema. – 2. I “nuovi” principi ambientali derivanti dal GD: la neutralità climatica e il DNSH. – 2.1. (segue) l’azione del principio di neutralità climatica. – 3. Il principio DNSH at a glance: funzioni e caratteristiche. – 3.1. (segue) e il suo perimetro applicativo. – 4. Il DNSH nel settore dei contratti pubblici. – 5. Il principio DNSH nei procedimenti ambientali. – 6. Conclusioni.
1. Breve inquadramento del tema.
È noto che il principio do not significant harm[1] (“DNSH”) è uno dei pilastri del c.d. “Green Deal” europeo[2] (“GD”).
Il GD non costituisce una reazione estemporanea diretta a fronteggiare situazioni emergenziali ma, piuttosto, sembrerebbe «più vicino a una pianificazione ragionata e mission oriented, fortemente legata, cioè, a obiettivi, non condizionando le dinamiche di mercato e la concorrenza, ma incidendo sui fini, sui mezzi e sulle strategie di investimento». Il GD, da tale angolo visuale, realizza un nuovo bilanciamento tra la concorrenza e la lotta al cambiamento climatico, in cui la seconda pare destinata ad avere la prevalenza[3]. Una delle conseguenze maggiori di questo nuovo equilibrio riguarda la regolazione del mercato pure per il mezzo di nuovi principi guida.
A fronte di un’impostazione tradizionalmente intesa a garantire la competizione tra le aziende operanti nel settore, il GD, quindi, «determina la necessaria affermazione di un approccio ‘attivo’ alla materia, con l’adozione di regole intese a incentivare la transizione energetica e a creare meccanismi di solidarietà e condivisione degli oneri tra gli Stati»[4]. Del resto, l’adozione stessa del programma di che trattasi incide profondamente anche sulle politiche industriali, inducendo l’Unione a proporre e sostenere un modello di industria europea fondato su un approccio circolare e rigenerativo. Il Green Deal, difatti, non modifica esclusivamente il bilanciamento realizzato in materia di governo dell’economia da parte dell’Unione, ma segnala anche una nuova modalità di operare nell’ambito delle politiche sociali, in cui si passa da un sistema di regolazione, all’adozione di strategie attive di protezione sociale e decarbonizzazione[5].
Ebbene, la portata applicativa di quanto sopra premesso la si rinviene, oltre che in alcune pronunce dei giudici amministrativi (come quella in commento), pure nella declinazione stessa, concreta, del principio DNSH (come detto costituente uno degli arti del GD), bene perimetrata dal Regolamento UE 2020/852 (c.d. “Regolamento Tassonomia”), il cui art. 3 chiarisce che nel valutare un’attività economica - con riferimento alle misure dei Piani nazionali per la ripresa e resilienza (PNRR) - si tiene conto dell’impatto ambientale dell’attività stessa e dell’impatto ambientale dei prodotti e dei servizi da essa forniti durante il loro intero ciclo di vita, in particolare prendendo inconsiderazione produzione, uso e fine vita di tali prodotti e servizi[6]. Del resto, lo stesso Recovery Plan europeo mira a ripensare lo spazio UE, vincolando gli Stati non soltanto con obbligazioni “di mezzi” ma anche “di risultato”, laddove i destinatari saranno tenuti non solo a spendere il danaro pubblico, concesso o prestato loro a fondo perduto, ma dovranno anche garantire un risultato conforme ai principi, agli obiettivi e alle aree di investimento programmati a livello eurounitario.
2. I “nuovi” principi ambientali derivanti dal GD: la neutralità climatica e il DNSH
Preme evidenziare, in primissima battuta, come il GD non accoglie un’impostazione conflittuale tra crescita economica e tutela dell’ambiente, ma si propone, invece, di realizzare attraverso lo sviluppo di politiche industriali e di regolazione uno sviluppo sostenibile tale per cui nel 2050 l’economia europea «non genererà emissioni nette di gas ad effetto serra e in cui la crescita economica sarà dissociata dall’uso delle risorse» (cfr. Comunicazione della Commissione in incipit). La prima fase di questa transizione sembra destinata ad essere contraddistinta da misure riconducibili alla c.d. “disruptive green industrial policy”, segnata dallo smantellamento o riqualificazione delle attività industriali altamente inquinante. Un approccio che è destinato «a sollevare una conflittualità giuridica, ma anche politica tra la sostenibilità ambientale e la sostenibilità sociale»[7].
Ora, proprio l’adozione del GD denota la massima apertura dell’ordinamento dell’Unione ai principi ambientalisti, in quanto tale atto pone l’ambiente e lo sviluppo sostenibile al centro dell’agenda politica dell’Unione. I principi di cui si discute rientrano nell’ambito dei principi del diritto dell’Unione, ma la tendenza ad utilizzarli sotto varie dizioni e con diversi significati induce a formulare talune classificazioni e distinzioni preliminari[8].
Tuttavia, in primis, occorre chiarire che vi sono principi di carattere generale che, pur non potendo essere definiti propriamente ambientali, forniscono un contributo determinante per la politica dell’Unione in questo settore. Come evidenziato in dottrina, ne costituisce una delle migliori espressioni il noto principio di sussidiarietà[9], che ha trovato la sua prima declinazione nell’ordinamento comunitario proprio in questo settore, là dove segnala la necessità che la Comunità agisca nei limiti in cui gli obiettivi comunitari di salvaguardia della qualità dell’ambiente e della salute umana possano essere perseguiti in maniera più adeguata dal livello superiore (art. 25 Trattato di Roma). Questo principio introdotto dall’Atto Unico Europeo[10] ha rivestito - e tutt’ora riveste - un ruolo fondamentale nella creazione di una disciplina sovranazionale dell’ambiente, considerato che l’azione dell’Unione, per la portata e gli effetti, può risultare più idonea al perseguimento di un determinato scopo rispetto a quella presa a livello statale, regionale e locale[11]. Sullo stesso piano si colloca il principio di proporzionalità[12], il quale impone alle istituzioni dell’Unione di adottare solo atti che non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi. Le medesime considerazioni possono estendersi, evidentemente, ad altri principi di carattere generali, quali ad esempio, solo per citarne alcuni, quelli di solidarietà, di leale cooperazione e di non discriminazione[13].
Su un piano formalmente differente si collocano, invece, i principi specifici in materia ambientale[14], che sono posti a fondamento della politica dell’Unione, la quale deve mirare ad un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità nelle varie regioni d’Europa (art. 191, par. 2, TFUE). Si tratta di principi aventi natura e portata differenti, che risentono di una varietà di obiettivi perseguiti dall’Unione, ma che hanno in comune la tutela, diretta o indiretta, dell’ambiente (a titolo esemplificativo l’integrazione ambientale e lo sviluppo sostenibile, a carattere omnicomprensivo; o ancora il principio chi inquina paga[15], dal contenuto più specifico e circoscritto; il principio di precauzione[16], che si inserisce in una logica di intervento ex ante[17]).
Per quanto qui di immediato interesse, quindi, pare opportuno provare a costruire un’ulteriore distinzione, cioè tra principi ormai consolidati (quelli indicati dall’art. 191 TFUE supra ad esempio), e quelli, invece, di nuova (o nuovissima) generazione, che sono emersi in modo compiuto solo recentemente, come - ad esempio - quello della “neutralità climatica” o “di non arrecare un danno significativo”[18] (do not significant harm, “DNSH”), direttamente discendenti pure dal Green Deal[19].
Sulla neutralità climatica, da obiettivo a principio, non è immediata la riflessione, anzitutto perché nemmeno la Commissione UE si avventura nella sua definizione esatta. Essa, infatti, è presentata, anzitutto, come obiettivo complessivo della strategia in esame e, sul piano contenutistico, la si intende come l’azzeramento delle emissioni nette di gas a effetto serra. Neutralità climatica come neutralità di emissioni in sostanza. La normativa europea sul clima, però, aiuta a scolpirne i contenuti in modo più chiaro[20]. Ed infatti, il Regolamento UE 2021/1119 ci fornisce anzitutto un chiarimento di sostanza in tal senso: che la neutralità climatica (già qui elevata a principio?) ha dei suoi obiettivi autonomi (art. 2 del Regolamento cit.) e si poggia su due capisaldi. Il primo, quello della riduzione irreversibile e graduale delle emissioni. Il secondo, l’aumento degli assorbimenti dai pozzi regolamentati nel diritto UE, che includono tanto le soluzioni naturali quanto quelle tecnologiche. In questo modo, in sostanza, «si introduce nella strategia europea la capacità che la stessa natura ha di contrastare il cambiamento climatico, ponendo al centro del progetto gli ecosistemi e la loro protezione»[21]. L’idea di fondo che emerge dalla lettura in combinato disposto dei due articoli (artt. 1 e 2 del Regolamento clima) è, quindi, sostanzialmente, la seguente: poiché oggi si emette più anidride carbonica di quanta se ne possa assorbire - e ciò contribuisce drammaticamente al riscaldamento globale -, occorre trovare un nuovo equilibrio per compensare le emissioni antropogeniche; da un lato, riducendo le emissioni e tenendole sotto controllo; dall’altro, promuovendone la rimozione e la cattura attraverso soluzioni tecnologiche o naturali[22].
Nella formulazione complessiva della normativa europea sul clima, in uno con il GD, quindi, si evince come la neutralità climatica vada oltre la mera decarbonizzazione, trascendendo l’obiettivo ed elevandosi, per ambizione e ampiezza, a vero e proprio principio guida, per lo spettro di azioni che copre a tutela dell’ambiente e per la profondità di funzione sugli interventi che prospetta[23]. Il principio de quo, del resto, sembrerebbe emergere anche da una lettura attenta di ulteriori atti di sviluppo e applicazione del GD qui esaminato, ad esempio del Regolamento (UE) 2024/1781 che istituisce un quadro per la definizione dei requisiti di progettazione ecocompatibile che i prodotti dovranno rispettare per essere immessi sul mercato europeo o messi in servizio. Ed infatti, i plurimi scopi e obiettivi del Regolamento appena citato sono, a tutta evidenza, legati dall’unico fil rouge della - sopra elevata - neutralità climatica, ossia: la fissazione di requisiti di progettazione eco-compatibile e di specifici obblighi di informazione riguardanti, tra gli altri, durabilità, riparabilità, riutilizzabilità, circolarità, impronta di carbonio e impronta ambientale dei prodotti, da fornire ai consumatori per favorire scelte di consumo sostenibili[24]; l’introduzione del Digital Product Passport[25], volto a facilitare la tracciabilità dei prodotti lungo l’intera catena del valore; la definizione di requisiti obbligatori per gli appalti pubblici verdi, al fine di incentivare l’acquisto di prodotti sostenibili da parte delle P.A.; la previsione del divieto di distruzione dei prodotti di consumo invenduti, a vantaggio di riparazione, riutilizzo e riciclaggio; il rafforzamento dei controlli doganali e delle attività di vigilanza del mercato, allo scopo di garantire l’osservanza dei requisiti di progettazione ecocompatibile.
Ma tra i principi in materia ambientale di più recente introduzione nell’ordinamento dell’Unione, occupa certamente rilievo il principio di non arrecare un danno significativo (DNSH[26]), che si traduce, anche in tal caso, in una valutazione di conformità delle misure adottate dalle istituzioni europee e dagli Stati membri, in attuazione del diritto dell’Unione[27]. Tale principio è conosciuto soprattutto perché costituisce un limite al finanziamento delle misure nazionali introdotte attraverso i vari PNRR[28], assumendo estrema rilevanza nelle differenti fasi di attuazione, monitoraggio e controllo[29]. Ora. al nuovo principio DNSH si deve riconoscere, anzitutto, «una più chiara incidenza e attitudine a condizionare le scelte politiche», in virtù dell’inserimento di regole puntuali nel PNRR, nonché l’idoneità ad orientare le scelte delle imprese e i relativi[30]. Tuttavia, in punto di riflessione critica, non si può non rilevare che la portata del principio in esame potrebbe contrastare con quella degli altri principi ambientali supra se sol si consideri, ad esempio, il principio di precauzione[31], o quello dell’azione preventiva e lo stesso principio di integrazione, che sembrano ambire alla protezione dell’ambiente senza stabilire un limite di tollerabilità dell’inquinamento, là dove, il principio DNSH (come bene evidenziato in dottrina[32]) assolve una funzione «più tipicamente compromissoria che promozionale»: le misure non devono arrecare un danno che, peraltro, per essere scongiurato deve essere significativo. Ne consegue che attraverso la descritta tecnica «vengano implicitamente ammessi tutti gli altri interventi ancorché possano determinare un impatto ambientale negativo»[33].
Sulla base di quanto appena esposto, pare quindi il caso di rilevare come il DNSH non sembrerebbe essere identificabile tout court quale principio-valore (a differenza del principio di neutralità climatica, invero questo obiettivo primario del GD); ed infatti, a ben vedere, il Regolamento Tassonomia sembrerebbe configurare il DNSH quale strumento al più per raggiungere gli obiettivi di ecosostenibilità (in altri termini, un mezzo per addivenire alla neutralità supra citata). Sembrerebbe, invece, trovare una migliore configurazione se pensato quale principio-regola (tanto è vero che il “non arrecare un danno significativo all’ambiente” tout court - con riferimento ai finanziamenti PNRR e quindi, a cascata, con riferimento a tutte le opere che attingono al Piano de quo - costituisce regola precisa e bene perimetrata).
Ora, va da sé che, benché ognuno dei principi indicati renda necessario un bilanciamento di interessi confliggenti, in questo caso il punto di equilibrio sembra essere stato fissato piuttosto al ribasso. In parole povere, il perseguimento dell’interesse “prevalente” alla neutralità climatica non sostituisce i vincoli del DNSH e non garantisce da sé l’eco-sostenibilità come obbligazione di risultato nella mitigazione climatica. Del resto, la neutralità climatica è qualificata vincolante dal Regolamento UE n. 2021/1119 solo sul versante della scadenza temporale: il 2050. Essa, cioè, «fissa il termine entro il quale ottenere le obbligazioni di risultato della mitigazione climatica, nel rispetto sia dei vincoli del principio-criterio DNSH sia del consensus internazionale di UE e Stati sulle soglie qualitative e quantitative del pericolo, che UNFCCC e Accordo di Parigi richiedono di garantire»[34].
2.1. (segue) l’azione del principio di neutralità climatica.
Ad ogni buon conto, si consideri che la neutralità climatica, per come espressamente tracciata supra, ossia «quell’equilibrio tra le emissioni e gli assorbimenti di tutta l’Unione dei gas a effetto serra da raggiungere entro il 2050», agisce sotto due profili: da un lato, si mira alla riduzione irreversibile e graduale delle emissioni antropogeniche dei gas a effetto serra e, dall’altro, all’aumento degli assorbimenti dai pozzi, cioè foreste, vegetazione, suolo, corpi idrici (così artt. 1 e 2 regolamento UE 2021/1119, ovvero la normativa europea sul clima). E allora se - da obiettivo - si elevasse la neutralità in esame a principio, come sembrerebbe militare una lettura sistematica delle disposizioni eurounitarie sul punto, parrebbe ancor più agevole leggere le componenti principali del GD. In primo luogo, un principio a guida di una rinnovata politica industriale, coerente con gli obiettivi di graduale azzeramento delle emissioni fissati dalla strategia per la neutralità climatica. In secondo luogo, un principio posto a inequivocabile presidio del processo di decarbonizzazione, che della neutralità climatica è un aspetto centrale[35].
Ora, si è correttamente evidenziato che la locuzione “principi del diritto europeo” è una sintesi verbale, di fenomenologie diverse, non tutte riconducibili ai principi del diritto in senso stretto[36]. Il nucleo duro dei principi, scritti e non scritti, è quello di essere delle norme generalissime che indicano dei valori, degli obiettivi generali da raggiungere, lasciando peraltro, poi, all’interprete e in particolare alla giurisprudenza ampi margini di apprezzamento. Nel diritto ambientale, come sopra detto, si pensi alla precauzione (che impone di arrestare un’attività di fronte al dubbio scientifico della sua pericolosità[37]). Altre volte i principi indicano dei criteri di scelta, su cui compiere delle valutazioni: si pensi al principio di proporzionalità (da intendersi come criterio per individuare il minor sacrificio) o al buon andamento (come criterio di efficienza ed efficacia dell’azione). E allora, proprio in tale ottica, il GD richiede un approccio che si attua mediante canoni di flessibilità tali da accompagnare con i minimi urti il percorso di transizione[38], di guisa da richiedere ex se un principio guida o, comunque, un principio “valore”: esso è la neutralità climatica (nei cui confronti la regola del DNSH è al più uno strumento, un mezzo, per raggiungere gli obiettivi di ecosostenibilità, non viceversa).
Contestualmente e all’esito, quindi, della realizzazione degli obiettivi del GD, pare evidente il cambio di paradigma con riferimento alla neutralità climatica, che si candida ad essere elevato a nuovo principio generale oltre che ambientale, riflettendo esso un nuovo assetto sociale ed ecologico europeo, che trova oggi applicazione anche al di fuori delle attività e delle decisioni squisitamente ambientali (si pensi anche alle questioni e alle tematiche intergenerazionali). Del resto, tanto è quanto accaduto con riferimento al principio della sostenibilità (dall’ambiente ai conti pubblici), al principio di sussidiarietà (introdotto in prima battuta dall’Atto Unico Europeo con riferimento al solo ambiente) e, più recentemente al principio di precauzione, che, dal diritto dell’ambiente, ha preso le mosse per trovare poi applicazione anche ai settori della sanità, della lotta alla corruzione o della tutela della privacy[39]. Tanto è possibile prevedere, dunque, con riferimento alla vis espansiva del principio di neutralità climatica.
3. Il principio DSNH at a glance: funzioni e caratteristiche.
Muovendo, ora, al DNSH, giova prendere le mosse, anzitutto, dal dato normativo eurounitario da cui il principio de quoimmediatamente discende. In particolare, il Regolamento (UE) 2021/241, che istituisce il Dispositivo per la ripresa e la resilienza, stabilisce che tutte le misure dei Piani nazionali per la ripresa e resilienza (PNRR) debbano soddisfare il principio di “non arrecare danno significativo agli obiettivi ambientali”. Tale vincolo si traduce in una valutazione di conformità degli interventi al principio DNSH, con riferimento al sistema di tassonomia delle attività ecosostenibili indicato all’articolo 17 del Regolamento (UE) 2020/852[40]. L’art. 2 del Regolamento 852 cit., in particolare, introduce quattro distinte condizioni per qualificare un’attività economica come ecosostenibile. Si tratta, in particolare, di verificare che la stessa: contribuisca al raggiungimento di uno o più degli obiettivi ambientali; non arrechi un danno significativo a nessuno degli obiettivi ambientali; sia svolta nel rispetto delle garanzie minime di salvaguardia e sia conforme ai criteri di vaglio tecnico fissati dalla Commissione e specificati negli articoli successivi ovvero attraverso successivi regolamenti delegati.
Qui il DNSH (a differenza di quanto avviene nel successivo Regolamento 241 cit.) non è enunciato, espressamente e immediatamente, come un principio, ma al contrario come una delle condizioni della ecosostenibilità di un’attività. Così al DNSH, declinato sui sei obiettivi ambientali definiti nell’ambito del sistema di tassonomia delle attività ecosostenibili, viene data, quale perimetrazione di scopo, quella di valutare se una misura possa o meno arrecare un danno ai sei obiettivi ambientali individuati nell’Accordo di Parigi per come riprodotti nel GD[41].
In particolare, un’attività economica arreca un danno significativo (da un punto di vista generale, con ampi margini di discrezionalità si direbbe): (i) alla mitigazione dei cambiamenti climatici, se porta a significative emissioni di gas serra (GHG); (ii) all’adattamento ai cambiamenti climatici, se determina un maggiore impatto negativo del clima attuale e futuro, sull’attività stessa o sulle persone, sulla natura o sui beni; (iii) all’uso sostenibile o alla protezione delle risorse idriche e marine, se è dannosa per il buono stato dei corpi idrici (superficiali, sotterranei o marini) determinandone il deterioramento qualitativo o la riduzione del potenziale ecologico[42]; (iv) all’economia circolare, inclusa la prevenzione, il riutilizzo ed il riciclaggio dei rifiuti, se porta a significative inefficienze nell'utilizzo di materiali recuperati o riciclati, ad incrementi nell'uso diretto o indiretto di risorse naturali, all’incremento significativo di rifiuti, al loro incenerimento o smaltimento, causando danni ambientali significativi a lungo termine; (v) alla prevenzione e riduzione dell’inquinamento, se determina un aumento delle emissioni di inquinanti nell’aria, nell’acqua o nel suolo; (vi) alla protezione e al ripristino di biodiversità e degli ecosistemi, se è dannosa per le buone condizioni e resilienza degli ecosistemi o per lo stato di conservazione degli habitat e delle specie, comprese quelle di interesse per l’UE [sul piano nazionale, per la valutazione di detti obiettivi e, quindi, per l’applicazione del DNSH, è stata predisposta la “Guida operativa per il rispetto del principio di non arrecare danno significativo all’ambiente” (Guida DNSH)[43], periodicamente aggiornata].
Di poi, la Comunicazione 2021/C 58/01 della Commissione UE, precisa che la valutazione del danno significativo dovrebbe includere la fase di produzione, la fase di uso e quella di fine vita, ovunque si prevedano i maggiori danni. Ad esempio, per una misura che sostiene l’acquisto di veicoli, la valutazione dovrebbe tenere conto, tra l’altro, dell’inquinamento (ad es. emissioni nell’atmosfera) generato durante il montaggio, il trasporto e l’uso dei veicoli, e della gestione adeguata dei veicoli a fine vita. In particolare, una gestione adeguata a fine vita delle batterie e dei componenti elettronici (ad es. il loro riutilizzo e/o riciclaggio di materie prime critiche ivi contenute) dovrebbe assicurare che non è arrecato nessun danno significativo all’obiettivo ambientale dell’economia circolare.
Da tale angolo visuale, quindi, il Regolamento (UE) 2020/852 (unitamente al Regolamento Delegato 2021/2139[44]) descrive, de facto, i criteri generali affinché ogni singola attività economica non determini un “danno significativo”, contribuendo quindi agli obiettivi di mitigazione, adattamento e riduzione degli impatti e dei rischi ambientali. Si assiste, poi, a un cambio di registro: ossia che gli interventi del PNRR devono rispettare il “principio” DNSH[45] e, sulla base di quanto previsto dal Dispositivo per la ripresa e la resilienza, almeno il 37% (art. 18, comma 4, Reg. 2021/241) delle risorse complessive del Piano deve contribuire alla transizione verde e alla mitigazione dei cambiamenti climatici, come definito dal c.d. “tagging” climatico[46].
In punto metodologico, si evidenzia come la conformità con il principio del DNSH viene verificata ex ante per ogni singola misura tramite schede di auto-valutazione standardizzate, che condizionano il disegno degli investimenti e delle riforme e/o qualificano le loro caratteristiche con specifiche indicazioni tese a contenerne il potenziale effetto sugli obiettivi ambientali ad un livello sostenibile[47]). I criteri tecnici riportati nelle autovalutazioni DNSH, opportunamente rafforzati da una puntuale applicazione dei criteri tassonomici di sostenibilità degli investimenti, costituiscono quindi elementi guida lungo tutto il percorso di realizzazione delle misure del PNRR.
Le Amministrazioni sono qui, quindi, chiamate a garantire concretamente che ogni misura non arrechi un danno significativo agli obiettivi ambientali, adottando specifici requisiti in tal senso nei principali atti programmatici e attuativi. In particolare, nella fase attuativa, occorre dimostrare che le misure sono state effettivamente realizzate senza arrecare un danno significativo agli obiettivi ambientali, sia in sede di monitoraggio e rendicontazione dei risultati degli interventi, sia in sede di verifica e controllo della spesa e delle relative procedure a monte. Appare evidente, adunque, che la responsabilità del rispetto del principio viene affidata integralmente alla P.A. titolare o attuatrice della misura, nonché all’eventuale soggetto gestore, lungo le varie fasi di attuazione del progettato intervento - ossia ex ante, ma anche in itinere ed ex post in punto di monitoraggio -, ciò senza alcuna apparente garanzia di controllo esterno e senza un corpusnormativo di dettaglio che ne dia chiara attuazione.
3.1. (segue) e il suo perimetro applicativo.
Quanto all’applicazione in concreto del principio DNSH, sorge, anzitutto, naturale l’interrogativo sul suo rapporto con il più risalente principio dello sviluppo sostenibile. Come evidenziato in dottrina, infatti, mentre quest’ultimo aveva e ha come fine quello di contemperare le spesso non convergenti esigenze economiche, sociali e ambientali, in omaggio a quanto chiedeva già la Commissione Bruntland, il principio in trattazione «pare isolare il fattore ambientale per sottrarlo a qualsiasi forma di bilanciamento con gli interessi economici»[48]. Non anche a quelli sociali, però, giacché il Regolamento Tassonomia, agli art.3, par.1, lett. c) e 18, chiede espressamente il rispetto delle garanzie minime di salvaguardia in materia di diritti sociali. Tuttavia, leggendo il secondo Considerando del Regolamento de quo, è possibile rinvenire un punto di contatto tra sviluppo sostenibile e DNSH, ed è l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile[49].
Ora, preme qui ribadire che l’art. 5 del Regolamento UE 2021/241 stabilisce che il dispositivo finanzia unicamente le misure che rispettano il principio “non arrecare un danno significativo”. L’art. 18 del Regolamento cit., al par. 4, lett. d), conferma tale previsione, richiedendo agli Stati membri di indicare nei propri Piani le modalità con cui possono garantire che nessuna misura per l’attuazione delle riforme e degli investimenti in esso inclusa arrechi un danno significativo agli obiettivi ambientali.
Il legislatore europeo non sembrerebbe, quindi, aver preteso un contributo di segno positivo (il c.d. “contributo sostanziale”), ma avrebbe solo posto un requisito negativo: quello di non peggiorare significativamente le condizioni ambientali (ossia il DNSH), la cui valutazione è rimessa alle Amministrazioni deputate all’attuazione del Piano rispetto a ciascuna delle diverse misure agevolative previste. Le Amministrazioni nazionali sarebbero dunque chiamate - anche in fase di attuazione - a garantire concretamente che ogni misura non arrechi un danno significativo agli obiettivi ambientali[50].
Il principio de quo, quindi, in punto applicativo, condiziona, di fatto, trasversalmente la realizzazione di ogni misura del Piano, diventando pure uno specifico vincolo all’attività di pianificazione. Tuttavia, è proprio da tale angolo visuale che il DNSH scricchiola quanto a natura giuridica di principio squisitamente ambientale, dal momento che esso sembrerebbe svolgere più funzioni (checché non direttamente alternative). La prima e più evidente applicazione, infatti, riguarda il ruolo di criterio di “condizionalità ambientale”, con l’effetto di escludere dal sostegno finanziario quei progetti e investimenti che risultano incompatibili con la salvaguardia dell’ambiente. Una seconda funzione di questo principio consiste, poi, nel rafforzare tout court la protezione ambientale, quale cioè ulteriore livello di controllo rispetto alla normativa green tradizionale. Si aggiunge una terza dimensione, che mira a garantire che i finanziamenti UE siano destinati esclusivamente a investimenti con elevate prestazioni ambientali (è il caso PNRR che si discosta da altri programmi eurounitari, es. il programma “InvestEU”, che sembrerebbe prediligere le prime due accezioni applicative del DNSH).
In buona sostanza, adunque, può dirsi che il principio in questione si articola in tre obblighi ben distinti: due di natura restrittiva e uno di carattere propositivo. Il primo, come emerge de plano da quanto sopra evidenziato, impone di non causare un impatto negativo significativo su nessuno degli obiettivi ambientali stabiliti dall’articolo 9 del Regolamento UE 2020/852[51]. Il secondo elemento è il rispetto delle cosiddette “garanzie minime di salvaguardia”, previste dall’articolo 18 del Regolamento UE 2020/852. Ciò implica l’obbligo di tutelare i diritti umani, in coerenza con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, e di aderire al principio del “non nuocere”, che costituisce un pilastro della normativa europea sul clima, come evidenziato nei considerando 6 e 9 del Regolamento UE 2021/1119. Infine, l’elemento a carattere positivo richiede che le decisioni e le misure adottate apportino un contributo rilevante agli stessi obiettivi ambientali sanciti dal Regolamento UE 2020/852. In questo modo, il principio DNSH si declina pure in un quadro di criteri operativi, dettagliati negli articoli da 11 a 15 del Regolamento cit., i quali determinano gli effetti concreti dell’azione pubblica. Questi tre elementi non operano in modo indipendente o alternativo, ma sono strettamente integrati tra loro, contribuendo congiuntamente non solo alla mitigazione del cambiamento climatico ma anche a garantire il rispetto del principio di neminem laedere.
4. Il DNSH nel settore dei contratti pubblici.
Come detto, il principio DNSH comporta una verifica specifica da effettuare valutando l’impatto ambientale dell’attività economica che assume rilievo di volta in volta e dei prodotti e servizi da essa forniti durante il loro intero ciclo di vita, in particolare prendendo in considerazione produzione, uso e fine vita di tali prodotti e servizi. In particolare, si è avuto modo di affermare in via pretoria come la previsione, nelle lex specialis, della conformità delle forniture al principio di che trattasi (ove finanziate con il PNRR) non introduce cause di esclusione ulteriori in violazione del principio di tassatività - disciplinato dall’art. 10 del d.lgs. n. 36/2023 - ma di prendere atto che il «documento richiesto - ossia la checklist contenente gli elementi di controllo per l’analisi DNSH - si atteggia quale elemento essenziale dell’offerta tecnica che, una volta non allegato alla medesima, impedisce alla stazione appaltante di compiere la doverosa verifica circa il rispetto del principio do not significant harm»[52].
Ed invero, con specifico riferimento al settore dei contratti pubblici (con finanziamenti PNRR), una corretta allocazione del principio DNSH dovrebbe prevedere l’inserimento dello stesso, in maniera chiara, trasparente e inequivocabile, non solo nella fase di gara vera e propria ma anche, e forse soprattutto, nella fase di esecuzione. Quanto alla prima fase, si pensi che già il disciplinare di gara dovrebbe recare un richiamo univoco al Regolamento Tassonomia e al principio de quo, con indicazione delle dichiarazioni rilevanti da rendersi a cura dell’operatore economico concorrente (ossia di assumersi gli obblighi specifici del PNRR[53] relativamente al non arrecare un danno significativo agli obiettivi ambientali e, ove applicabili, agli obblighi trasversali, quali, inter alia, il principio del contributo all’obiettivo climatico e digitale, il tagging). Dichiarazioni, peraltro, dovute pure dal subappaltatore (art. 119 del d.lgs. n. 36/2023) e dall’eventuale soggetto ausiliario in caso di avvalimento (art. 104 d.lgs. cit.). E ciò, si badi, oltre alla puntuale indicazione, nella lex specialis, della conformità dell’offerta degli O.E. alle specifiche tecniche e alle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi (CAM[54]) applicabili ex art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 36/2023. Non a caso, proprio i CAM mirano a selezionare prodotti e servizi o ad affidare lavori migliori dal punto di vista ambientale[55], vale a dire con minori impatti ambientali (rispetto alle opzioni prive di requisiti ambientali), ciò considerando l’approccio del ciclo di vita, a partire dalla scelta delle materie prime sino alla fase di smaltimento al termine della vita utile del prodotto o servizio[56] (circostanza, questa, che bene ancora il DNSH pure all’interno dei criteri di che trattasi, laddove si consideri che i CAM sono in costante e periodica evoluzione[57] proprio per tenere conto delle innovazioni ambientali, dei progressi tecnici e tecnologici nei mercati di riferimento). Il rispetto dei criteri ambientali minimi, da tale prospettiva, può assicurare il rispetto del requisito tassonomico del DNSH. Nell’ambito delle azioni volte alla riduzione dell’impatto ambientale degli appalti PNRR, invero, si intravede una forte correlazione tra le disposizioni per il rispetto del principio DNSH e le prescrizioni contenute, ad esempio, nel CAM “Edilizia” di cui al d.m. 23 giugno 2022, n. 256.
Quanto sopra, poi, dovrebbe necessariamente riverberarsi anche nella fase esecutiva, per il mezzo di clausole contrattuali precise e dettagliate con riferimento al rispetto del DNSH. Tanto, a titolo esemplificativo, potrebbe rinvenirsi nella sezione dedicata agli obblighi specifici in capo all’aggiudicatario (quanto al rispetto e all’attuazione dei principi e degli obblighi specifici PNRR), alle modalità di svolgimento del servizio (fermo restando il fatto che i soggetti attuatori sono tenuti a disciplinare nelle condizioni particolari di gara tutte le prescrizioni tecniche specifiche dell’intervento), alle cause di risoluzione (laddove il mancato rispetto delle condizioni per la compliance al principio DNSH, oltre all’applicazione di penali contrattuali, può costituire causa di risoluzione del contratto pubblico ai sensi dell’art. 1456 c.c.).
Inoltre, in evidente applicazione del principio in commento, pare opportuno evidenziare l’utilità di previsioni contrattuali volte alla imposizione in capo all’appaltatore della valorizzazione, ove applicabile, di soluzioni volte alla riduzione dei consumi energetici e all’aumento dell'efficienza energetica, determinando un sostanziale miglioramento delle prestazioni energetiche e contribuendo alla riduzione delle emissioni di GHG. Da tale prospettiva, la piena implementazione del DNSH nella fase esecutiva della commessa pubblica imporrebbe pure la traslazione della responsabilità, in capo all’aggiudicatario, del rispetto delle norme e dei regolamenti vigenti nell’ambito del raggiungimento degli obiettivi di mitigazione, adattamento e riduzione degli impatti e dei rischi ambientali (oltre, ovviamente, alla responsabilità circa il concreto e pieno recepimento delle indicazioni specifiche finalizzate al rispetto del principio DNSH e al controllo dell’attuazione dello stesso nella fase realizzativa, anche negli Stati di Avanzamento dei Lavori-SAL, di guisa che gli stessi contengano una descrizione dettagliata sull’adempimento delle condizioni imposte dal rispetto del principio in esame).
5. Il principio DNSH nei procedimenti ambientali.
Giova premettere che la non sovrapponibilità tout court tra DNSH e legislazione ambientale (come detto supra) ha l’indubbio merito di rafforzare pure il livello di protezione ambientale. In altre parole, si vuole evidenziare qui come la conformità alla legislazione ambientale diventa la soglia minima mentre il DNSH diventa un requisito ulteriore, con susseguente innalzamento della soglia di protezione appena citata[58], come una sorta di ispessimento dei filtri di carattere ambientale. Ed infatti, il principio DNSH rafforza ex se l’interesse ambientale, quasi a mo’ di falange; e ciò è evidente laddove sol si consideri il fatto che esso sarebbe vincolante non solo nella condotta (cioè, prestare la massima attenzione, nella valutazione amministrativa, al profilo ambientale) ma anche nel risultato (non arrecare un danno significativo al bene ambiente), quasi a escludere, o comunque a molto depotenziare, qualsiasi ponderazione degli altri interessi coinvolti[59].
Trattandosi di valutazione squisitamente tecnica, pochissimo spazio, invero, viene riservato qui al bilanciamento dei profili di sostenibilità ambientali con quelli sociali/economici, isolando adunque il fattore ambientale «dalle diverse influenze che potrebbero intaccarlo, comprese le pur legittime esigenze o aspirazioni dei soggetti su cui la misura riverserà i propri effetti»[60].
Ora, con riferimento a procedimenti preliminari per il rilascio di titoli tipicamente ambientali[61], quali ad esempio la VIA[62], la VAS, l’AIA e l’AUA[63], i vincoli DNSH agiscono tendenzialmente, pure alla luce di quanto ripercorso nei paragrafi precedenti, nella fase ante operam, di guisa che sarà cura del soggetto attuatore tenerne conto in fase di proposta dell’investimento[64]. È interessante notare come, con riferimento a tali aspetti, si è efficacemente proposto (cfr. la Guida DNSH citata) che il corretto mantenimento di tutte le condizioni previste in sede autorizzativa possa essere supportato pure da un sistema documentato di responsabilità e di registrazioni come quello previsto dai sistemi di gestione ambientale tipo ISO 14001 o EMAS, verificati da un organismo di valutazione della conformità accreditato per lo specifico scopo a norma del Regolamento (CE) n. 765/2008. Ad ogni buon conto, diversamente dal caso dei contratti pubblici, nel caso delle autorizzazioni ambientali, sarà qui cura delle P.A. coinvolte quantomeno: (i) garantire il corretto mantenimento di tutte le condizioni previste in sede autorizzativa, richiamando in tal senso l’adempimento alla verifica di ottemperanza delle condizioni ambientali associate ai provvedimenti autorizzatori (sebbene, soprattutto nel caso di amministrazioni di piccole dimensioni, l’assenza del coinvolgimento obbligatorio di istituzioni o organi tecnici di supporto tecnico-scientifico, potrebbe assurgere a problematicità quanto alla corretta verifica delle misure proposte dall’operatore rispetto ai sei obiettivi ambientali del DNSH[65]); (ii) la raccolta e la conservazione di tutti gli elementi di verifica. Approccio, quest’ultimo, che consente, nei fatti, di verificare la coerenza con il principio DNSH all’interno dello stesso processo di VAS o VIA che al contempo garantisce la presenza delle valutazioni e analisi a supporto di livello strategico, necessarie per giustificare il rispetto dello stesso principio di che trattasi[66].
Restano, tuttavia, alcune incoerenze nell’applicazione del principio DNSH nella materia in esame. La prima riguarda un aspetto concettuale, ossia che la valutazione DNSH debba considerare l’impatto ambientale di una misura in termini assoluti, ossia confrontandolo con una situazione di impatto nullo (aspetto, questo, che conduce a esiti problematici, come la valutazione negativa di soluzioni basate sul gas naturale, poiché, in termini assoluti, la sua produzione comporta senza dubbio alcuno emissioni di CO2[67]). Una seconda criticità riguarda l’applicazione stessa del DNSH, che potrebbe imporre - nei procedimenti di che trattasi - un criterio comparativo non perfettamente coerente per valutare l’impatto ambientale, basato cioè sul confronto con la situazione esistente che l’investimento andrebbe a sostituire[68] (piuttosto che con uno scenario privo di impatti). In terzo luogo, manca, oggi, un coordinamento normativo ordinato tra il DNSH e le procedure ambientali, onde evitare uno sdoppiamento di valutazioni poco logico (si pensi, ad esempio, che i criteri attraverso cui si esplica il principio DNSH ben potrebbero essere inclusi fra quelli già adoperati nella VIA quanto alla valutazione di progetti specifici; ancora, si consideri che i sei obiettivi della mitigazione e dell’adattamento ai cambiamenti climatici sembrerebbero già rispondenti alla ratio della VAS, nonché della VIA medesima).
6. Conclusioni.
Si è osservato come il principio DNSH abbia trovato la sua prima applicazione concreta nell’ambito dell’economia e della finanza. La conformità a tale criterio, in questo scenario, rappresentava un riconoscimento per gli operatori economici che desideravano distinguersi come responsabili da un punto di vista green, in contrapposizione alla pratica di segno opposto del greenwashing. Tuttavia, si badi, non esisteva alcun obbligo generalizzato di rispettarlo. Grazie, però, alla sua struttura, il criterio DNSH è stato rapidamente adottato in altri settori, acquisendo un’importanza sempre più crescente (si pensi alla sua rilevanza oggi nell’assegnazione dei fondi previsti dal Dispositivo per la Ripresa e Resilienza).
La valutazione di conformità DNSH è, quindi, divenuta un requisito imprescindibile e si è affiancata alle altre procedure ambientali destinate a verificare la sostenibilità delle attività umane. Ora, rispetto a strumenti e normative già orientati de natura alla tutela ambientale (come la VIA e la VAS e i principi sottostanti), il principio DNSH sembrerebbe, di fatto, un’evoluzione del principio di integrazione, nel senso di rafforzarne l’efficacia nel prevenire la realizzazione di progetti contrari ai principi della sostenibilità (si veda, in parallelo, la riduzione della discrezionalità amministrativa nella verifica del rispetto del DNSH rispetto a quanto avviene, ad esempio e con riferimento ai plurimi interessi da bilanciare nel gioco procedimentale, nella VIA). A differenza, però, del principio di integrazione, il DNSH appare decisamente più rigido: esso mira a garantire un livello minimo e inderogabile di protezione ambientale, indipendentemente dal tipo di attività svolta e dalla sua rilevanza economica o sociale[69].
Il valore aggiunto di questo principio, adunque, sembrerebbe consistere in una maggiore (e rinnovata) attenzione al dato tecnico-scientifico e nel rafforzamento del principio di prevenzione. Peraltro, è evidente la capacità del DNSH, in quanto principio, di espandersi sia in ampiezza orizzontale che in profondità verticale: con riferimento al primo profilo, infatti, il DNSH è sempre più “richiesto” (e applicato) in molteplici settori strategici per la crescita economica degli Stati membri dell’UE, non solo se si guarda al PNRR ma anche se si volge lo sguardo ai Fondi Strutturali Europei 2021-2027; quanto al secondo profilo, non può tacersi circa il fatto che la verifica di conformità DNSH è altamente pervasiva, essendo obbligatoria per qualsiasi misura, indipendentemente dalla previsione di impatti negativi significativi sugli ecosistemi.
Nel settore dei contratti pubblici, questo si traduce pure nel fatto che gli impegni presi dalle Amministrazioni, in sede di autovalutazione DNSH, devono essere tradotti in precise avvertenze e monitorati fin dai primi atti riferibili alla misura fino al collaudo/certificato di regolare esecuzione degli interventi o alla conclusione delle attività. Costituisce, a titolo esemplificativo, valore aggiunto l’esplicitazione degli elementi essenziali necessari all’assolvimento del DNSH nei decreti di finanziamento e negli specifici documenti tecnici di gara, eventualmente prevedendo meccanismi amministrativi automatici che comportino la sospensione dei pagamenti e l’avocazione del procedimento in caso di mancato rispetto del DNSH stesso. Allo stesso modo, nelle gare d’appalto, sarà utile che i documenti d’indirizzo alla progettazione (così come la lex specialis nel suo complesso) fornisca indicazioni tecniche per l’applicazione progettuale delle prescrizioni finalizzate al rispetto del DNSH; analogamente i documenti di progettazione, capitolato e disciplinare dovrebbero riportare indicazioni specifiche affinché sia possibile riportare anche negli stati di avanzamento dei lavori una descrizione dettagliata sull’adempimento delle condizioni imposte dal rispetto del principio de quo[70].
Del resto, il valore aggiunto del principio DNSH sta proprio nel maggior ossequio al dato tecnico-scientifico, cui è ancorata la valutazione, e al potenziamento del principio di prevenzione, grazie al vincolo applicativo generalizzato, non tipologico[71]. DNSH che, nei fatti, contribuisce a definire i caratteri e, al contempo, la causa di giustificazione dello stesso intervento nell’economia di matrice europea, perché garantisce un sostegno finanziario già conformato ad alcuni obiettivi ambientali per investimenti che, altrimenti, non si sarebbero realizzati.
Vero è che, nella pratica, le P.A., a livello nazionale, spesso si limitano a recepire le indicazioni contenute nella Guida DNSH, in quanto i bandi e i contratti di finanziamento obbligano i soggetti attuatori a svolgere, pena la decadenza dal beneficio, a svolgere la procedura di autovalutazione secondo le indicazioni della Guida medesima (pur in assenza di alcun carattere vincolante). Circostanza questa registrata più volte in via pretoria (da ultimo nella pronuncia in commento), ove si rileva come le Amministrazioni - titolari del finanziamento - recepiscono proprio i contenuti della Guida (pure per il mezzo della lex specialis), ma loro carattere cogente. Tuttavia, non può tacersi, sul punto, come il dato giurisprudenziale[72] confermi anche il fatto cha la P.A. può certamente sempre discostarsi dai contenuti autovalutativi della Guida de qua, purché motivatamente, lasciando quindi intendere che qui non è tanto necessario il rispetto di una predefinita griglia di criteri del DNSH, quanto piuttosto la sua ratio (il principio, per l’appunto, di non arrecare danno all’ambiente, misurabile in concreto per il mezzo di plurimi indicatori purché idonei allo scopo).
Ed è forse da tale prospettiva che è maggiormente sentita la necessità di una definitiva positivizzazione del principio in esame. Sul punto, il d.lgs. n. 152/2006 - nel fare propri i principi comunitari di tutela ambientale a cui devono uniformarsi sia il potere pubblico, nella sua attività di normazione ovvero di esercizio delle funzioni amministrative, sia i privati nelle proprie attività economiche e di vita quotidiana - non contempla ancora espressamente il DNSH. Ora, sebbene la mancanza di un riferimento formale non ne compromette certo né la rilevanza né l’applicabilità, è lecito comunque chiedersi se, in una prospettiva futura di riforma, non sia opportuno positivizzare esplicitamente il principio in oggetto[73]. Ciò, peraltro, permetterebbe di indirizzare con maggiore certezza - negli ambiti supra descritti - l’azione dei poteri pubblici nazionali, già orientata alla tutela ambientale, alla solidarietà tra generazioni e allo sviluppo sostenibile, anche in relazione agli obiettivi stabiliti dalla tassonomia ambientale[74]. Circostanza, invero, necessaria qualora si intendesse applicare il DNSH, quale principio per l’appunto, anche al di fuori delle disposizioni che ne prevedono espressamente l’applicazione (inter alia, gli affidamenti PNRR), superando così anche quelle criticità evidenziate in dottrina quanto alla natura di mero criterio del DNHS in esame (checché la portata stessa della regola insita nel concetto “do not significant harm”, sul piano ambientale, rechi in sé una vis espansiva tale, come visto, da superare i confini formali del Regolamento Tassonomia[75], straripando su tutte le valutazioni ambientali, anche in assenza di espresso riferimento ad esso).
Del resto, nel contesto della transizione ecologica, l’intervento statale in ambito economico si conforma sempre più al principio di non arrecare danni significativi agli obiettivi ambientali, indipendentemente dalla natura delle risorse impiegate. Questo processo spinge, inevitabilmente, a qualificare i criteri di sostenibilità ambientale come veri e proprio vincoli strutturali all’esercizio della stessa discrezionalità amministrativa (come bene emerge dagli spunti pretori offerti nelle prime pronunce sul tema); cambiamento, questo, destinato a persistere ben oltre la scadenza del PNRR.
[1] Il DNSH, in particolare, fa la sua comparsa a novembre 2019 nel Regolamento (UE) 2019/2088 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari (disclosure di sostenibilità). Esso, infatti, introduce, per tutti i partecipanti al mercato finanziario e per i consulenti finanziari, l’obbligo di comunicare come i rischi di sostenibilità siano considerati e integrati nelle loro scelte di investimento e quale considerazione assumano gli impatti negativi sui fattori di sostenibilità nei loro processi e nelle loro politiche di impegno. Più nel dettaglio, il considerando 17, con riferimento agli “investimenti sostenibili”, specifica che «le imprese che beneficiano di tali investimenti rispettino prassi di buona governance e sia assicurato il principio di precauzione teso a non arrecare danni significativi, affinché non sia pregiudicato in maniera significativa né l’obiettivo ambientale né quello sociale». L’art.2, par.1, n. 17, del regolamento cit. (dove si fornisce la definizione di “investimento sostenibile”) non reca poi, però, una definizione di “danno significativo”. Sul rapporto DNSH e sostenibilità pure finanziaria, si veda M. Delsignore, Il principio DNSH e la lotta al greenwashing, in Federalismi.it, 2024, 27.
[2] Il GD europeo è una strategia di contrasto al cambiamento climatico lanciata dall’UE nel dicembre 2019. L’atto che ne tratteggia le linee essenziali è, di fatto, una Comunicazione della Commissione, un documento di policy, intitolato per l’appunto Green Deal europeo COM(2019)640. L’esordio della comunicazione illustrativa del GD cattura subito il senso della roadmap: «ogni anno […] l’atmosfera si riscalda e il clima cambia. Degli otto milioni di specie presenti sul pianeta un milione è a rischio estinzione. Assistiamo all’inquinamento e alla distruzione di foreste e oceani. Il Green Deal europeo è la risposta a queste sfide. Si tratta di una nuova strategia di crescita mirata a trasformare l’UE in una società giusta e prospera, dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva che nel 2050 non genererà emissioni nette di gas a effetto serra in cui la crescita economica sarà dissociata dall’uso delle risorse». In dottrina, tra i contributi più recenti, si veda D. Bevilacqua, Il Green New Deal, Milano, 2024; Id. Il green deal, l’economia circolare e lo “stato conformatore”, in RGE online, 2023, 38; Id., La normativa europea sul clima e il Green New Deal, in Riv. trim. dir. pubb., 2022, 297 ss.; D. Bevilacqua, E. Chiti, Green Deal, costruire una nuova europa, 2023, Il Mulino; E. Chiti, Verso una sostenibilità plurale? La forza trasformatrice del Green Deal e la direzione del cambiamento giuridico, in Riv. Quadr. Dir. Amb., 2021, 3; A. Moliterni, Il Green Deal europeo e le sfide per il diritto dell’ambiente, in Riv. Quadr. Dir. Amb., 2022, 34 ss.
[3] D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 44 ss.; G. Monti, Four options for a greener competition law, in Journal of European Competition Law & Practice, 2020, 11, 124 ss.; A. Gerbrandy, The difficulty of conversations about sustainability and European competition law, in Antitrust Chronicle, 2020, 12, 62 ss.; K. Pouikli, Towards mandatory Green Public Procurement (GPP) requirements under the EU Green Deal: Reconsidering the role of public procurement as an environmental policy tool, in ERA Forum, 2021, 21.
[4] Questo quanto evidenziato pure da D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 31 ss. Sul punto, si vedano anche le riflessioni di F. De Leonardis, Lo stato ecologico, Torino 2023; A. Moliterni, La transizione alla green economy e il ruolo dei pubblici poteri, in G. Rossi, M. Monteduro (a cura di), L’ambiente per lo sviluppo. Profili giuridici ed economici, Torino, 2020, 55 ss.; M. Cocconi, La regolazione dell'economia circolare. Sostenibilità e nuovi paradigmi di sviluppo, Milano, 2020; E. Frediani, Lo sviluppo sostenibile: da ossimoro a diritto umano, in Quad. cost., 2017, 3, 626 ss.
[5] L’EGD opera, difatti, in maniera assai differente rispetto agli strumenti tradizionali delle politiche ambientali europee, operanti secondo lo schema determinato dagli artt. 191 e 192 TFUE, con particolari conseguenze sul principio di “no harm” secondo A. Sikora, European Green Deal, op. cit., 687 ss. che conclude l’analisi della riconducibilità all’ordinamento europeo del programma sostenendo che «what the EGD fails to address and explore is the constitutional dimension of environmental protection in the EU legal order. Constitutional entrenchment of environmental protection seems to be precisely a missing point of the EGD».
[6] Pare opportuno evidenziare che, a livello internazionale, esistono nozioni analoghe al DNSH. Un esempio è il tema dei sussidi dannosi per l’ambiente: nell’ambito della biodiversità, la Convenzione di Kunming-Montreal (art. 18) mira espressamente a identificare ed eliminare finanziamenti destinati ad attività che ne compromettono la tutela.
[7] Cfr. F. Torres, The European Green Deal: More than an Exit Strategy to the Pandemic Crisis, a Building Block of a Sustainable European Economic Model, in Journal of Common Market Studies, 2021, 170 ss.; C. Hamilton, Earthmasters: The Dawn of the Age of Climate Engineering, 2021, Yale University Press; B. Tonoletti, Cambiamenti climatici come problema di diritto pubblico universale, in Riv. Giur. Amb., 2021, 37 ss.
[8] Il famoso rapporto Brundtland del 1987 (“Our Common Future”) ha definito come “sostenibile” lo sviluppo capace di soddisfare le necessità del presente senza compromettere le opportunità delle generazioni future. L’idea è ripresa esattamente dagli artt. 3 e 11 del T.F.U.E.. Queste norme, infatti, fanno degli imperativi della sostenibilità e dell’integrazione l’architrave della tutela ambientale, in chiave sistemica. I due macro-principi di che trattasi ambiscono ad impedire che, durante la coevoluzione dei due sistemi “società” e “ambiente”, un pericoloso scarto si insinui, nel tempo e nello spazio, tra la scala delle azioni, dei processi e delle responsabilità umane e la scala dei processi e delle dinamiche ambientali. Da qui discendono due necessità simmetriche: la cautela e l’apprendimento. Ed è a questa logica che rispondono i principi di prevenzione, precauzione, intervento alla fonte, responsabilizzazione del potenziale inquinatore, condivisione delle informazioni. Si veda M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente. Come sistema complesso, adattivo, comune, 2007, Torino, 102 ss.; R. Ferrara, La tutela dell’ambiente e il principio di integrazione: tra mito e realtà, in Riv. Giur. Urb., 2021, 2, 16 ss.; S. Grassi, La tutela dell’ambiente nelle fonti internazionali, europee ed interne, in Federalismi.it, 2023; M. Onida, Il diritto ambientale dell’UE nel tempo, tra agenda europea e politiche nazionali, in Federalismi.it, 2020.
[9] Il T.U.E. stabilisce, all’art. 5, che nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, “la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà”. In altri termini, il principio non fissa stabilmente la titolarità formale delle funzioni, ma vale a dislocarne l’esercizio verso l’alto o verso il basso in rapporto alla natura delle questioni in gioco. La sentenza della CGUE, 25 maggio 2023, n. 575 ha, ad esempio, ritenuto che, in applicazione del principio di sussidiarietà, spettasse agli Stati la fissazione delle soglie o dei criteri utili a stabilire in concreto l’entità dell’impatto ambientale dei progetti ai fini dell’applicazione degli artt. 4 e 11 della Direttiva 2014/52/UE in tema di VIA. Il Consiglio europeo ha messo limpidamente a fuoco il punto in un passo della Risoluzione sul V Programma di azione ambientale che «combina il principio della sussidiarietà con il concetto più ampio di condivisione delle responsabilità. Quest’ultimo concetto non si basa tanto sulla scelta di operare ad un livello ad esclusione degli altri, ma piuttosto sulla scelta di combinare gli strumenti e gli attori a diversi livelli, senza per questo voler rimettere in questione la divisione delle competenze tra Comunità, gli Stati membri e le autorità regionali o locali. Per un singolo obiettivo o problema l’accento può essere posto a livello della Comunità, nazione, regione e per un altro a livello regionale, locale, settoriale oppure a livello di aziende, collettività, consumatori». In dottrina, si veda F. Fonderico, La disciplina comunitaria dell’ambiente, in Rassegna parlamentare, 2003, 4, 961 ss.; Id., Sesto programma d’azione per l’ambiente e le strategie tematiche, in Riv. giur. amb., 2007, 5, 695 ss.; R. Giuffrida, F. Amabili (a cura di), La tutela dell’ambiente nel diritto internazionale ed europeo, 2018, Torino.
[10] Firmato nel 1986, l’Atto Unico di che trattasi integrò il Trattato CEE con disposizioni finalmente dedicate all’ambiente, che fecero della protezione ambientale una componente essenziale del processo di integrazione europea (artt. 130r-130t). Le scelte dell’Atto Unico, non a caso, furono poi confermate nel Trattato di Maastricht del 1992, che elevò la tutela dell’ambiente a competenza formale e dichiarata dell’Unione, consacrando l’obiettivo dello sviluppo sostenibile e codificando i principi fondamentali in materia.
[11] M.C. Carta, Il Green Deal europeo. Considerazioni critiche sulla tutela dell’ambiente e le iniziative di diritto UE, in Eurojus, 2020; M. Faioli, Sul significato sociale della dimensione europea, in Federalismi.it, 2019; F. Munari, Do Environmental Rules and Standard Affect Firms’ Competitive Ability?, in European Papers, 2019, 207 ss.; R. Ferrara, Brown economy, green economy, blue economy: l’economia circolare e il diritto dell’ambiente, in Dir. e Proc. Amm., 2018, 801 ss.
[12] Anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza eurounitaria, pare corretto misurare la proporzionalità in ragione dell’obiettivo di elevato livello di tutela: CGUE, 07 settembre 2004, in causa C-127/02, cit. Il principio secondo cui, «in linea generale la tutela dell’ambiente ha trovato anticipata applicazione rispetto all’evento dannoso con l’introduzione, nell’ordinamento, del principio di precauzione (art. 174, § 2, del Trattato CE, oggi art. 191, § 2 Trattato FUE, art. 301 codice dell’ambiente), in forza del quale per ogni attività che comporti pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente, deve essere assicurato un alto livello di protezione», ad esempio, è affermato da Cons. di Stato, sez. IV, 7 maggio 2021, n. 359. Nel senso della stretta necessità della misura, in tema sanitario e ambientale, cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655; Id., sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 1240, tutte in giustizia-amministrativa.it.
[13] In dottrina, M. Monteduro, Le decisioni amministrative nell’era della recessione ecologica, in Rivista AIC, 2018, 37 ss.; P. Lombardi, Ambiente e generazioni future: la dimensione temporale della solidarietà, in Federalismi.it, 2023; M. Cecchetti, Diritto ambientale e conoscenze scientifiche tra valutazione del rischio e principio di precauzione, in Federalismi.it, 2022.
[14] Sui principi, in particolare, si vedano le riflessioni di F. Fracchia, I principi generali nel codice dell’ambiente, in Riv. quad. dir. amb., 2021, 3, 4 ss.; Id., L’ambiente nella prospettiva giuridica, in F. Cuturi (a cura di), La natura come soggetto di diritti. Prospettive antropologiche e giuridiche a confronto, 2020, Firenze, 159 ss.; Id., La tutela dell’ambiente come dovere di solidarietà, in Dir. econ., 2009, 491 ss. Si veda anche F. Fonderico, La tutela dell’ambiente, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, 2003, Milano, 1021 ss.; Id. La “codificazione” del diritto dell’ambiente in Italia: modelli e questioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 612 ss.; F. Giampietro, I principi ambientali nel d.lgs. n.152/06: dal T.U. al Codice dell’ambiente ovvero le prediche inutili?, in Ambiente e sviluppo, 2008, 6; D. Sorace, Tutela dell’ambiente e principi generali sul procedimento amministrativo, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. I procedimenti amministrativi per la tutela dell’ambiente, 2020, Milano, 3 ss.; F. Lorenzotti, B. Fenni (a cura di), I principi del diritto dell’ambiente e la loro applicazione, 2015, Napoli; S. Grassi, Ambiente e Costituzione, in Riv. quadr. dir. amb., 2017, 4 ss.; R. Ursi, La terza riforma della Parte II del Testo unico ambientale, in Urb. e app., 2011, 13 ss.; F. De Leonardis, Le trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, 2021, Roma, 123 ss.; R. Ferrara, I principi comunitari della tutela dell’ambiente, in Dir. amm., 2005, 509 ss.; M. Renna, I principi in materia di ambiente, in Riv. dir. amb., 2012, 70 ss., che evidenzia come, in particolare, «la sussidiarietà è servita a far sì che la Comunità potesse attrarre verso l’alto e, di conseguenza, svolgere competenze normative che al livello più basso, ossia al livello degli Stati membri, non potevano essere o, comunque, non erano svolte adeguatamente, a motivo, in particolare, delle dimensioni degli obiettivi da realizzare e delle competenze da esercitare»; G. Tesauro, Manuale di diritto dell’Unione europea, 2021, Napoli, 170 ss.; P. Dell’Anno, Principi di diritto ambientale internazionale ed europeo, 2004, Milano; Id., Il ruolo dei principi del diritto ambientale europeo: norme di azione o norme di relazione?, in Gazzetta Ambiente, 2003, 131 ss.
[15] La CGUE ha chiarito che l’art. 191, par. 2, TFUE, che contiene il principio in parola, «è rivolto all’azione dell’Unione e non può essere invocato dai provati al fine di escluderne l’applicazione di una normativa nazionale emanata in una materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell’UE adottata in base all’art. 192 TFUE che disciplini specificamente l’ipotesi di cui trattasi» (CGUE, 13 luglio 2017, n. 129/16).
[16] Il Comitato economico sociale europeo ha riassunto in poche efficaci battute detto principio vale a dire: «il principio di precauzione presenta tre componenti fondamentali: la precauzione richiede anzitutto maggiori sforzi volti ad accrescere le conoscenze; la precauzione presuppone la creazione di strumenti di vigilanza scientifica e tecnica per identificare le nuove conoscenze e comprenderne le implicazioni; la precauzione comporta infine l’organizzazione di un ampio dibattito sociale in merito a ciò che è auspicabile e ciò che è fattibile» (parere su “Il ricorso al principio di precauzione”, 2020, Bruxelles). Secondo T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 17 febbraio 2016, n. 2107, in giustizia-amministrativa.it, il principio di precauzione non può divenire «un canone di interpretazione della normativa di settore» con l’effetto di sottoporre la realizzazione dell’impianto a prescrizioni molto più severe di quelle previste dalla legge pur quando non vi sia una incertezza scientifica circa i rischi legati a una determinata attività»; è solo «la mancanza di certezze scientifiche dovute a insufficienti informazioni e conoscenze scientifiche riguardanti la portata dei potenziali effetti negativi di un organismo o di una sostanza che impone l’adozione di misure adeguate al fine di evitare o limitare effetti potenzialmente negativi». Si veda anche M. Allena, Il principio di precauzione: tutela anticipata v. legalità-prevedibilità dell'azione amministrativa, in Dir. econ., 2016, 411 ss.; S. Cognetti, Precauzione nell'applicazione del principio di precauzione, in Scritti in memoria di Giuseppe Abbamonte, 2019, Napoli, 387 ss.
[17] Anche il primato della, diversa, “prevenzione” è costantemente affermato dalla giurisprudenza della CGUE. Si pensi, recentemente, alla sentenza della Corte del 17 aprile 2018 (Commissione c. Repubblica d Polonia) ove, in tema di protezione della biodiversità, si è stabilito che « l’articolo 12, paragrafo 1, lett. a) e d) della direttiva 2009/147/CE impone agli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari ad istituire un regime di rigorosa tutela delle specie animali»; regime che presuppone «l’adozione di misure coerenti e coordinate di carattere preventivo».
[18] Come evidenziato in dottrina, «il concetto di “danno significativo”, o meno, risulta assolutamente vago: siamo, dunque, di fronte ad un concetto giuridico indeterminato, il cui contenuto è sostanzialmente lasciato alla discrezionalità tecnica delle autorità che sono chiamate ad applicare il criterio». A. Bartolini, Green Deal europeo e il c.d. principio DNSH, in Federalismi.it, 2024, 2. Si veda anche D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 237 ss., ove l’Autore evidenzia che «in futuro avrà un ruolo chiave il modo in cui verrà interpretato il concetto di “danno significativo”: su questo punto riprende vigore la discrezionalità del soggetto attuatore, quindi dalle amministrazioni nazionali, ma questa a sua volta sarà condizionata, di volta in volta, dagli organi giudiziari coinvolti in eventuali dispute».
[19] B. De Witte, The european union’s Covid 2019 recovery plan: the legal engineering of an economic policy shift, in Common Market Law Review, 2021, 635 ss. Si veda anche A. Averardi, Potere pubblico e politiche industriali, Iovene, Napoli, 2018, 122 ss.; L. Butti, S. Nespor, Il diritto del clima, Milano, Mimesis, 2022, 89 ss.; A. Bonomo, Il potere del clima. Funzioni pubbliche e legalità della transizione ambientale, Cacucci, Bari, 2023, 13 ss.; L. Salvemini, Il nuovo diritto dell’ambiente tra recenti principi e giurisprudenza creativa, Torino, Giappichelli, 2022, 145 ss.
[20] F. Rolando, L’attuazione del principio di integrazione ambientale nel diritto dell’Unione europea, in DPCE online, 2022, 3, 23 ss.
[21] Cfr. C. Sabel, D.G. Victor, Fixing the climate strategies for an uncertain world, Princeton University Press, 2022.
[22] In dottrina, si veda D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 89 ss.
[23] B. Tonoletti, I cambiamenti climatici come problema di diritto pubblico universale, in Riv. Giur. Amb., 2021, 37 ss.; E. Bruti Liberati, Politiche di decarbonizzazione, costituzione economica europea e assetti di governance, in Dir. Pubb., 2021, 415 ss.; F. Rolando, L’attuazione del Green Deal e del Dispositivo per la ripresa e resilienza: siamo effettivamente sulla strada per raggiungere la sostenibilità ambientale?, in Dir. Un. UE, 2022.
[24] Ai sensi del Regolamento supra, il primo piano di lavoro dovrà essere adottato dalla Commissione entro il 19 aprile 2025 e dovrà dare precedenza ai prodotti che hanno un impatto ambientale maggiore, ex plurimis: ferro e acciaio, alluminio, prodotti tessili, detergenti, vernici e sostanze chimiche.
[25] Il Passaporto Digitale del Prodotto è uno strumento che, nella logica del Regolamento citato, consente di raccogliere, in maniera accurata, completa e aggiornata, informazioni sul prodotto e sul suo ciclo di vita, dalla sua realizzazione alla fine della sua vita utile al fine di promuovere la trasparenza e la sostenibilità della supply chain.
[26] Preme evidenziare come sulla natura di “principio” del DNSH non vi è uniformità di vedute. Secondo A. Bartolini, op. ult. cit., il principio DNSH sarebbe in realtà «ontologicamente un criterio di selezione dei danni significativi o non significativi all’ambiente: per cui a fini di chiarezza espositiva occorrerebbe finirla con usare il termini principio e sostituirlo con il termine criterio». Secondo l’Autore, il DNSH potrebbe essere inquadrato quale “condizionalità ambientale” ossia rientrante in quegli «obblighi gravanti tra stati o comunque tra autorità pubbliche, per cui un determinato vantaggio è condizionato all’avverarsi di determinati comportamenti o attività da parte dell’altra, avvicinandosi sostanzialmente allo schema dell’onere […]. Tra le condizionalità ambientali in senso ampio introdotte dal dispositivo di ripresa e resilienza (c.d. recovery fund) vi è anche l’implementazione del criterio DNSH». Cfr. pure P. Casalino, La fase di prima attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza: gestione, monitoraggio e controllo, principi trasversali e condizionalità per il corretto utilizzo delle risorse europee, in Riv. Corte Conti, 2021, 5, 5 ss.
[27] Non è questa la sede per una trattazione di dettaglio del principio in parola. Tuttavia, preme evidenziare qui come lo stesso sembrerebbe essere, come bene evidenziato in dottrina, una diretta applicazione del principio di sostenibilità, in quanto tende a coniugare la tutela dell’ambiente con quella dello sviluppo economico e in qualche modo collegabile a quello di non regressione; cfr. F. De Leonardis, Lo stato ecologico, 2023, Torino, 262 ss. Sul punto, si veda anche F. Spera, Da valutazione “non arrecare un danno significativo” a “principio DNSH”: la codificazione di un nuovo principio europeo e l’impatto di una analisi trasversale rivolto al futuro, in I Post di ASIDUE, 2022, IV.
[28] Si veda, sul punto, T.A.R. Lazio, Roma, sez. V, 08 ottobre 2024, n. 17304, in giustizia-amministrativa.it.
[29] A ben vedere, il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza, come meglio si dirà nel seguito, non stabilisce una definizione di questo principio, ma rinvia all’atto che lo ha effettivamente introdotto: il Regolamento Tassonomia. Secondo il regolamento in esame, un’attività è considerata “ecocompatibile” se non arreca un danno significativo ad uno dei sei obiettivi ambientali definiti dall’art. 9 (ex aliis, la mitigazione dei cambiamenti climatici; l’uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine; la transizione verso un’economia circolare; la prevenzione e la riduzione dell’inquinamento; ecc.). Per ognuno di essi, l’art. 17 descrive le attività che determinerebbero un danno significativo, chiarendo che l’impatto ambientale deve essere valutato tenendo conto dei prodotti e servizi forniti durante il loro intero ciclo di vita.
[30] I. Costanzo, La valutazione di conformità al principio “Do No Significant Harm” (DNSH), in Giorn. dir. amm., 2023, 5, 676 ss.; G.M. Caruso, Il principio “do no significant harm”: ambiguità, caratteri e implicazioni di un criterio positivizzato di sostenibilità ambientale, in La Cittadinanza europea, 2022, 2, 151 ss.
[31] T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 5 giugno 2019, n. 543, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui «in realtà, per il principio di precauzione, è possibile e doveroso applicare valori limite più conservativi di quelli in vigore, qualora l'impianto inquinante disponga della tecnologia idonea, o possa esserne dotato con una spesa ragionevole, e la gestione dell'attività rimanga economicamente sostenibile»; si è comunque affermato (T.A.R. Molise, sez. I, 15 marzo 2017, n. 82) che, «poiché la complessità dei sistemi ecologici non permette di avere un quadro completo delle conoscenze, né di prevedere con esattezza lo sviluppo delle dinamiche dei sistemi», il principio di precauzione «richiede che si agisca avendo sempre come riferimento lo scenario più prudente tra quelli possibili, vale a dire quello che corrisponde all'attuale livello di dubbio nella conoscenza delle situazioni e nella previsione dei fenomeni futuri».
[32] Si veda, nello specifico, A. Bartolini, Green Deal europeo e il c.d. principio DNSH, in Federalismi.it, 2024, 15, 51 ss.
[33] In termini G. Cordini, P. Fois, S. Marchisio (a cura di), Diritto ambientale. Profili internazionali, europei e comparati, 2017, Torino, 144 ss.
[34] M.C. Verciano, La discrezionalità del potere nella lotta al cambiamento climatico, in Federalismi.it, 2023, 3. In particolare, secondo l’A. sembra che il Green Deal europeo non rifletta affatto la «più alta ambizione possibile», richiesta dall’Accordo di Parigi nella pianificazione delle quote di abbattimento delle emissioni in una prospettiva di DNSH e ciò in quanto mancherebbe il parametro quantitativo e temporale del Carbon Budget globale residuo. Detta circostanza renderebbe la previsione europea viziata su quattro fronti: (i) in termini di irragionevolezza, «dato che il Regolamento non assume espressamente, come parametro di riferimento, il Carbon Budget globale residuo, allo scopo di calcolare il proprio»; (ii) per conseguente irrazionalità, poiché qualsiasi mitigazione climatica, anche quanto funzionalizzata a un obiettivo autoreferenziale come la neutralità climatica, «consiste pur sempre in un’appropriazione di quote del Carbon Budget globale residuo, sicché ignorarlo non vuol dire escluderlo»; (iii) per ulteriormente connessa illogicità, in quanto la previsione di bilancio è proiettata sulla finestra temporale 2030-2050 cioè quando il Carbon Budget globale residuo sarà già esaurito, come ormai pacificamente accertato dalla comunità scientifica; (iv) per consequenziale contrarietà con il principio DNSH, in quanto «prevedere un bilancio tardivo e inutile implica praticamente andare incontro a decisioni e azioni significativamente difformi dal contenuto di mitigazione climatica, indicato dall’art. 1 del Regolamento Ue n. 2020/852, e per ciò stesso dannose».
[35] Cfr. in dottrina i rilievi di U. Barelli, Il PNRR ed il principio “Do not significant harm”, in RGA on line, 2023, 39 e di I. Costanzo, La valutazione di conformità al principio do not significant harm (DNSH), in Giorn dir. amm., 2023, 676 ss.
[36] Si veda, recentemente, in argomento G. Morbidelli, I principi eurounitari e la legge n. 241/1990: quale rapporto?, in A. Bartolini, T. Bonetti, B. Marchetti, B.G. Mattarella, M. Ramajoli (a cura di), La legge n. 241 del 1990, trent’anni dopo, 2021, Torino, 34 ss.
[37] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 febbraio 2018, n. 1240: «il Collegio ritiene che il principio di precauzione: a) i cui tratti giuridici si individuano lungo un percorso esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi-carattere necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura; b) non può legittimare un'interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli; c) non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, privi di ogni riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo esso stesso una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell'attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile».
[38] Come efficacemente evidenziato da D. Bevilacqua, Il Green New Deal, op. cit., 237 ss., «in futuro avrà un ruolo chiave il modo in cui verrà interpretato il concetto di “danno significativo”: su questo punto riprende vigore la discrezionalità del soggetto attuatore, quindi dalle amministrazioni nazionali, ma questa a sua volta sarà condizionata, di volta in volta, dagli organi giudiziari coinvolti in eventuali dispute».
[39] La tendenza espansiva dei principi ambientali trova una espressa conferma nel dettato dell’art. 3 quater del d.lgs. n. 152/2006, ove si riconosce allo sviluppo sostenibile il rango di principio potenzialmente applicabile a tutte le attività umane concernenti l’ambiente e alle scelte amministrative ambientali. In particolare, ai sensi del comma 2, il principio va rispettato anche ove non si faccia questione di interventi pubblici specificamente destinati alla tutela dell’ambiente.
[40] Il Regolamento ha classificato le attività economiche ai fini della loro ecosostenibilità, individuando con chiarezza sia gli obiettivi ambientali da perseguire sia i criteri di vaglio tecnico da rispettare nel riconoscimento dei finanziamenti e degli investimenti delle attività economiche. Sul punto si veda L. Lionello, Il Green Deal europeo. Inquadramento giuridico e prospettive di attuazione, in Vita e Pensiero, 2022; A.S. Bruno, Il PNRR e il principio del “Do Not Significant Harm” davanti alle sfide territoriali, in Federalismi.it, 2022; C. De Vincenti, Il principio “Do Not Significant Harm”: due possibili declinazioni, in Astrid, 2022.
[41] Con l’Accordo di Parigi, adottato il 12 dicembre 2015 (ed entrato in vigore il 4 novembre 2016) nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC), è stato convenuto di mantenere l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, proseguendo gli interventi volti a limitare tale aumento a 1,5°C. L’obiettivo di intensificare l’impegno globale a favore del clima, gettando le basi per una transizione rapida, giusta ed equa, sostenuta da profondi tagli alle emissioni e dal potenziamento degli investimenti nel settore ambientale, è stato sottoscritto dai Paesi partecipanti alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (“COP 28”), svoltasi negli Emirati Arabi Uniti dal 30 novembre al 12 dicembre 2023. Nell’ambito della successiva “COP29” di Baku, per quanto qui di immediato interesse, è stato previsto lo stanziamento di 300 miliardi l’anno in aiuti climatici (quello che in termini tecnici è il New Collective Quantified Goal, il “Nuovo Obiettivo Quantitativo Globale” 2025-2035) che dovrebbero arrivare in quota crescente entro 11 anni in forma di sovvenzioni a fondo perduto o in prestiti a basso tasso di interesse, in finanza pubblica e privata mobilitata, con i Paesi sviluppati nel ruolo di leader. Si badi bene, tuttavia, che qui non è rinvenibile alcun vincolo giuridico: l’accordo, da tale angolo visuale, resta un’astratta aspirazione, pure per i Paesi più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. L’occasione, quindi, è mancata anche laddove si consideri il testo dell’art. 9 dell’Accordo di Parigi, ove si prevede che «le Parti che sono paesi sviluppati forniscono risorse finanziarie per assistere le Parti che sono paesi in via di sviluppo per quanto riguarda sia la mitigazione che l'adattamento, continuando ad adempiere agli obblighi ad essi incombenti in virtù della convenzione».
[42] Con riferimento a tale aspetto, in relazione al rispetto del principio DNSH, si veda T.A.R. Marche, sez. I, 31 gennaio 2024, n. 118, in giustizia-amministrativa.it.
[43] La Guida, in particolare, per come aggiornata dalla circolare del MEF n. 22 del 14.05.2024, fornisce una disamina di dettaglio pure degli aspetti più pratici qui esaminati. La Guida, infatti, che si compone - tra l’altro - di Schede tecniche relative a ciascun settore di intervento, ha la funzione di fornire alle amministrazioni titolari delle misure PNRR e ai soggetti attuatori, una sintesi delle informazioni operative e normative che identificano i requisiti tassonomici, ossia i vincoli DNSH e nelle quali sono riportati i riferimenti normativi, i vincoli DNSH e i possibili elementi di verifica. Si consideri che la circolare si premura di specificare che la Guida in oggetto non ha carattere vincolante, specificando che «la Guida è uno strumento di orientamento e supporto. Rimane in capo alle Amministrazioni titolari la responsabilità di assicurare la conformità ai requisiti DNSH degli interventi finanziati, anche tramite la trasmissione di indicazioni puntuali ai soggetti attuatori in sede di monitoraggio e rendicontazione dei traguardi e obiettivi (milestone e target) e in sede di verifica e controllo della spesa».
[44] Si consideri che il Regolamento Delegato (UE) 2021/2139 della Commissione del 04 giugno 2021 integra il Regolamento (UE) 2020/852 del Parlamento europeo e del Consiglio fissando i criteri di vaglio tecnico che consentono di determinare a quali condizioni si possa considerare che un’attività economica contribuisce in modo sostanziale alla mitigazione dei cambiamenti climatici o all’adattamento ai cambiamenti climatici e se non arreca un danno significativo a nessun altro obiettivo ambientale. Detto Regolamento è stato integrato dal Regolamento Delegato (UE) 2023/2485 che introduce criteri di vaglio tecnico supplementari per gli obiettivi climatici per nuove attività economiche non previste nel precedente documento.
[45] Questo è il caso, a titolo meramente esemplificativo, dell’investimento relativo all’efficientamento energetico delle cittadelle giudiziarie (Missione 2 Componente 3 del PNRR), per il quale è stato esplicitato come la misura non comporti emissioni di gas ad effetto serra (GHG) significative in quanto gli edifici non sono dedicati all'estrazione, stoccaggio, trasporto o produzione di combustibili fossili e, soprattutto, come il programma intenda, invece, aumentare l'efficienza energetica, portando a un sostanziale miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici già esistenti interessati.
[46] Peraltro, si segnala come investimenti e attività PNRR non devono: produrre significative emissioni di gas ad effetto serra, tali da non permettere il contenimento dell’innalzamento delle temperature di 1,5 C° fino al 2030 (sono pertanto escluse iniziative connesse con l’utilizzo di fonti fossili); essere esposte agli eventuali rischi indotti dal cambiamento del clima, quali ad es. innalzamento dei mari, siccità, alluvioni, esondazioni dei fiumi, nevicate abnormi; compromettere lo stato qualitativo delle risorse idriche con una indebita pressione sulla risorsa; utilizzare in maniera inefficiente materiali e risorse naturali e produrre rifiuti pericolosi per i quali non è possibile il recupero; introdurre sostanze pericolose, quali ad es. quelle elencate nella cosiddetta Authorization List del Regolamento UE n. 1907/2006 c.d. “Reach”; compromettere i siti ricadenti nella rete Natura 2000.
[47] Metodologia, quest’ultima, applicata anche per l’iniziativa “REPower EU”, che si innesta sul Dispositivo per la ripresa e resilienza per dare una risposta all’eccessiva dipendenza dell’UE dalle importazioni di gas, petrolio e carbone dalla Russia e a fronte delle perturbazioni del sistema energetico mondiale. Il Regolamento (UE) 2023/435 del 27 febbraio 2023 individua gli obiettivi specifici di questa iniziativa, le fonti di finanziamento e conferma le modalità di valutazione delle proposte di misure già adottate per i PNRR. Viene in questo contesto confermato il principio DNSH che continua ad applicarsi alle riforme e agli investimenti, al netto di una specifica deroga per le misure che contribuiscono a migliorare le infrastrutture energetiche per soddisfare il fabbisogno immediato di sicurezza dell'approvvigionamento (e che non può riguardare più del 30% dei costi totali stimati delle misure incluse nel capitolo REPowerEU.
[48] R. Bifulco, Nascita di un principio? la tormentata formazione del do no significant harm, in RGA online, 2024. L’Autore evidenzia come «mentre nel regolamento Tassonomia il DNSH è applicato nei confronti delle attività economiche, nel regolamento sul dispositivo esso trova un’applicazione per ogni misura, sia che si tratti di riforme sia che si tratti di investimenti. Inoltre queste due tipologie di attività possono concernere, a loro volta, diversi livelli, come lo sviluppo di piani di investimento (progetti per la ricarica delle batterie per autoveicoli), orientare investimenti pubblici (investimenti in materia di impianti per il trattamento dei rifiuti), indirizzare e incentivare investimenti privati (si pensi agli schemi per dirottare fondi verso progetti a sostegno dello sviluppo nella transizione verso l’idrogeno). Dunque, all’interno del regolamento sul dispositivo, il principio è utilizzato nella maniera più trasversale possibile».
[49] Adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, essa fissa gli obiettivi di sviluppo sostenibile (c.d. “OSS”) con riguardo alle sue tre dimensioni: economica, sociale e ambientale.
[50] In giurisprudenza, si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 23 dicembre 2024, n. 10317, in giustizia-amministrativa.it.
[51] Aspetto che colloca il DNSH, de facto, all’interno dell’architettura normativa europea, rendendolo complementare ad altri principi cardine, come quello di integrazione ambientale e le cosiddette “garanzie minime”, con l’obiettivo di contrastare il cambiamento climatico. Di conseguenza, qualsiasi incertezza sull’ambito di applicazione del DNSH non è lasciata alla discrezionalità dei singoli poteri, ma è soggetta all’interpretazione della Corte di Giustizia dell’UE per garantire un’applicazione uniforme.
[52] T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 04 marzo 2024, n. 263, in giustizia-amministrativa.it.
[53] Su DNSH come condizionalità imposta dal dispositivo per la ripresa e resilienza v. P. Casalino, La fase di prima attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza: gestione, monitoraggio e controllo, principi trasversali e condizionalità per il corretto utilizzo delle risorse europee, in Riv. Corte Conti, 2021, 5, 10 ss.
[54] Al momento sono stati adottati CAM per 24 tipologie di forniture e affidamenti: arredi per interni (d.m. 254/2022); arredo urbano (d.m. 07 febbraio 2023); ausili per l’incontinenza (d.m. 24 dicembre 2015); calzature da lavoro e accessori in pelle (d.m. 17 maggio 2018); carta (d.m. 04 aprile 2013); cartucce (d.m. 17 ottobre 2019); edilizia (d.m. 256/2022); eventi culturali (d.m. 347/2022); illuminazione pubblica (fornitura e progettazione; d.m. 27 settembre 2017); illuminazione pubblica (servizio; d.m. 28 marzo 2018); illuminazione e raffrescamento/riscaldamento per edifici (d.m. 07 marzo 2012); infrastrutture stradali (d.m. 279/2024); lavaggio industriale, noleggio di tessili (d.m. 09 dicembre 2020); prestazione energetica (d.m. 12 agosto 2024); pulizie e sanificazione (d.m. 51/2021); rifiuti urbani e spazzamento stradale (d.m. 255/2022); ristorazione collettiva (d.m. 65/2020); ristoro e distributori automatici (d.m. 06 novembre 2023); servizi energetici per gli edifici (d.m. 07 marzo 2012); servizi energetici a prestazione per sistemi edifici-impianti (d.m. 12 agosto 2024); stampanti (d.m. 17 ottobre 2019); tessili (d.m. 07 febbraio 2023); veicoli (d.m. 17 giugno 2021); verde pubblico (d.m. 63/2020). Tutti questi decreti, peraltro, vengono aggiornati periodicamente sulla base dell’evoluzione tecnologica e di mercato.
[55] Sulla obbligatorietà dei CAM, ex plurimis, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 05 agosto 2022, n. 6934: «la ratio dell’obbligatorietà dei CAM sta nell’esigenza di garantire che la politica nazionale in materia di appalti pubblici verdi sia incisiva non solo nell’obiettivo di ridurre gli impatti ambientali, ma anche in quello di promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibili, “circolari” e nel diffondere l’occupazione “verde”».
[56] In dottrina, ex aliis, si veda F. Di Giovanni, “Appalti verdi” e responsabilità sociale dell’impresa, in M. Pennasilico (a cura di), Contratto e ambiente. L’analisi “ecologica” del diritto contrattuale, Napoli, 2016, 63 ss.; F. De Leonardis, L’uso strategico della contrattazione pubblica: tra GPP e obbligatorietà dei CAM, in Riv. quadr. dir. amb., 2020, 3, 67 ss.; O. Hagi Kassim, Gli appalti verdi, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2021, 509 ss.; G. Fidone, F. Mataluni, Gli appalti verdi nel Codice dei Contratti Pubblici, in Riv. quadr. dir. amb., 2016, 3; D. Bevilacqua, La normativa europea sul clima e il Green New Deal. Una regolazione strategica di indirizzo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 2, 297 ss.; F. Fracchia, S. Vernile, I contratti pubblici come strumento dello sviluppo ambientale, in Riv. quadr. dir. amb., 2020, 2, 15 ss.; I. Baisi, Criteri di sostenibilità ambientale, in G.F. Cartei, D. Iaria (a cura di), Commentario al nuovo Codice dei contratti pubblici, Napoli, 2023, 426 ss.
[57] Si veda, ex aliis, il Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione adottato con decreto del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro delle imprese e del Made in Italy del 03 agosto 2023, ove è confermata l’indicazione di revisionare e l’aggiornare i CAM vigenti nonché la definizione dei CAM su nuove categorie di appalti o concessioni.
[58] Si pensi alla realizzazione di impianti alimentati da energia fossile, i quali, astrattamente, possono ben essere conformi alle disposizioni di cui al d.lgs. n. 152/2006 (in termini di VIA ad esempio); e però il mancato rispetto del principio DNSH precluderebbe comunque al progetto l’accesso al finanziamento con fondi pubblici.
[59] A differenza, a titolo esemplificativo, della VIA, ove il rispetto del principio di integrazione si manifesta proprio nella ponderazione di plurime istanze - ambientali e non - rilevanti per la scelta. Si rileva, qui, a differenza del DNSH, un carattere compromissorio, che non si risolve tout court nella inibizione di opere e progetti che abbiano impatti negativi sull’ambiente. In buona sostanza, nel procedimento di che trattasi, l’interesse ambientale è sì vincolante ma non predominante rispetto ad altre istanze, di guisa che esso può essere modulato a seconda del peso che assume in specifici contesti e tempi.
[60] Si veda anche I. Costanzo, Il principio do no significant harm (DNSH) nel processo di transizione ecologica: un itinerario di riflessione, in Riv. it. dir. pubb. com., 2023, 4, 702 ss.
[61] Si veda, sul punto, la Comunicazione della Commissione 2021/C58/01 con riferimento al valore probatorio ai fini DNSH del positivo espletamento delle procedure VIA e VAS.
[62] La VIA, invero, costituisce culla di molteplici principi del diritto ambientale, in specie quello di prevenzione e di integrazione. Quest’ultimo, in particolare, prevede che nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle azioni dell’UE siano tenute in debita considerazione le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente. A livello applicativo, il principio de quo si traduce nell’obbligo, nel procedimento, di valutazione dell’interesse ambientale. Se così perimetrato, è facile coglierne la continuità con il principio DNSH, in quanto, analogamente al principio di integrazione, esso mira ad integrare la valutazione dell’interesse ambientale nelle scelte economiche e di sviluppo, al fine di realizzare le condizioni per uno sviluppo sostenibile. Sul punto I. Costanzo, op. ult. cit., 710 ss.
[63] Ancorché buona parte dei requisiti DNSH siano previsti dalla normativa nazionale, si evidenzia, tuttavia, come alcuni elementi specifici potrebbero non essere previsti nell’istruttoria dei procedimenti citati (ad esempio alcuni obiettivi ambientali, quai la mitigazione dei cambiamenti climatici o l’adattamento ai cambiamenti climatici che non sempre rientrano nella prassi). In altri casi, gli interventi previsti potrebbero addirittura non prevedere autorizzazioni ambientali.
[64] Si veda, sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 05 agosto 2024, n. 6966, in giustizia-amministrativa.it.
[65] A differenza del procedimento di VIA, ad esempio, ove il provvedimento di compatibilità ambientale è emanato, a seconda dei casi previsti dalla legge, a livello regionale o statale, qui pure con il coinvolgimento di una Commissione tecnica di verifica ad hoc.
[66] Cfr., sul punto, la Guida DNSH.
[67] Da tale prospettiva si apprezza anche la differenza, in punto procedurale, con la VIA: mentre la verifica DNSH si applica orizzontalmente a tutte le misure finanziabili tramite il Dispositivo per la resilienza, la VIA riguarda solamente tipologie di interventi espressamente individuate dalla normativa. Stante l’obiettivo della neutralità climatica fissato dal GD, peraltro, molti progetti individuati dal d.lgs. n. 152/2006 negli Allegati rilevanti (es. raffinerie o attività di perforazione) sarebbero, alla luce del DNSH, non autorizzabili.
[68] Aspetto questo, invero, poco fondato, in quanto una valutazione assoluta è richiesta, a ben vedere, solo quando esiste un’alternativa praticabile dal punto di vista tecnologico ed economico. In assenza di tale alternativa, è certamente possibile dimostrare la conformità al DNSH adottando le migliori tecnologie disponibili nel settore per minimizzare l’impatto ambientale dell’investimento/opera.
[69] Si veda, sul punto, I. Costanzo, op. ult. cit., 711 ss.
[70] Come chiarito anche nella Guida DNSH, per assicurare il rispetto dei vincoli DSNH in fase di attuazione è opportuno che le Amministrazioni titolari di misure e i soggetti attuatori: (i) indirizzino, a monte del processo, gli interventi in maniera che essi siano conformi inserendo gli opportuni richiami e indicazioni specifiche nell’ambito degli atti programmatici di propria competenza, tramite per esempio l’adozione di liste di esclusione e/o criteri di selezione utili negli avvisi per il finanziamento di progetti; (ii) adottino criteri conformi nelle gare di appalto (o procedure di affidamento) per assicurare una progettazione e realizzazione adeguata degli interventi; (iii) raccolgano le informazioni necessarie per la rendicontazione di ogni singola milestone e target nel rispetto delle condizioni collegate al principio del DSNH e definiscano la documentazione necessaria per eventuali controlli. Cfr. A. Bartolini, Green Deal europeo e il c.d. principio DNSH, in Federalismi.it, 2024, 15, 51 ss.
[71] G.M. Caruso, Il principio “do non significant harm”: ambiguità, caratteri e implicazioni di un criterio positivizzato di sostenibilità ambientale, in La cittadinanza europea, 2022, 2, 141 ss.
[72] T.A.R. Lazio, Roma, sez. V ter, 26 marzo 2024, n. 5923, in giustizia-amministrativa.it.
[73] Cfr. U. Barelli, Il principio DNSH e il nuovo criterio DNSH, in RGA online, 2023, 39; F. Spera, Da valutazione “non arrecare un danno significativo” a “principio DNSH”: la codificazione di un nuovo principio europeo e l’impatto di una analisi trasversale rivolto al futuro, in I Post di ASIDUE, 2022, 4.
[74] Sul punto, la stessa Guida DNSH costituisce solo un tentativo (nobile e di indubbia utilità) di indirizzare l’attività dei funzionari amministrativi, attualmente sforniti non solo di un chiaro quadro legislativo a regolazione del principio in esame, ma anche di strategie per valutare con consapevolezza e competenza l’effettiva sostenibilità degli interventi da attuare.
[75] Si ricorda che l’obbligo di non arrecare un danno significativo nasce, invero, al di fuori del diritto ambientale e dei Piani, collocandosi nell’ambito della regolazione della finanza privata. Cfr. R. Ferrara, La valutazione di impatto ambientale fra principio di precauzione e DNSH (do no significant harm): spunti di riflessione, in Riv. giur urb. 2024, 12.
Nel caso Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha evidenziato che in tema di accesso, ispezioni e verifiche fiscali il quadro normativo interno viola l’articolo 8 della CEDU, avendo conferito alle autorità nazionali un margine di discrezionalità illimitato, senza fornire, di contro, adeguate garanzie procedurali, giurisdizionali o giustiziali al contribuente.
La sentenza è dirompente non solo per i principi espressi, ma per le modalità in cui questi sono resi. Spogliandosi della veste di giudice delle controversie individuali, la Corte di Strasburgo esprime un chiaro monito al legislatore nazionale, indicando la strada da perseguire nella riformulazione della legge. Si tenterà di evidenziare che, in attesa di una idonea novella legislativa, il rimedio può essere fornito sin da subito in sede giurisdizionale, interpretando la normativa vigente in chiave convenzionalmente orientata.
Sommario: 1. Premessa – 2. L’articolo 8 della Convenzione EDU e l’interpretazione della Corte di Strasburgo – 3. Il monito della Corte Edu al legislatore italiano e gli strumenti a disposizione del giudice nazionale.
1. Premessa
Con la sentenza Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha evidenziato la contrarietà all’articolo 8 della CEDU dell’intero impianto di disciplina degli accessi, ispezioni e verifiche fiscali previsto dalla disciplina interna.
Muovendo dalla nozione di diritto rilevante sul piano convenzionale, da intendersi in senso sostanziale non solo quale legge in senso formale, ma comprensiva degli atti normativi di rango inferiore, degli atti interpretativi e della relativa giurisprudenza, la Corte di Strasburgo evidenzia che in tema di verifiche fiscali eseguite nei locali destinati ad attività commerciale né la legge in senso formale, né la prassi amministrativa né tanto meno l’interpretazione giurisprudenziale sono state in grado di individuare chiaramente i limiti al potere intrusivo attribuito all’autorità pubblica.
Ne risulta un rapporto totalmente asimmetrico, in cui il contribuente attinto da una verifica fiscale appare propriamente in balia di un potere autoritativo discrezionale e illimitato, privo di strumenti idonei a garantirgli un’adeguata tutela, né in fase procedimentale, né in fase successiva.
Il contesto normativo relativo agli aspetti procedurali dell’attività di controllo ai fini dell’Imposta del valore aggiunto e delle Imposte dirette è costruito dal combinato disposto degli articoli 33 del D.P.R. 600/1973 e 52 del D.P.R. 633/72.
L’articolo 33 del D.P.R. 600/73 prevede i controlli ai fini delle imposte dirette con espresso rinvio all’articolo 52 del D.P.R. 633/72 che regolamenta gli aspetti procedurali per l’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche ai fini dell’imposta del valore aggiunto, così disciplinando i poteri degli uffici.
Rubricata “Accessi, ispezioni e verifiche”, la norma prevede che gli uffici possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni, ricerche e ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e la repressione dell’evasione.
Nel dettaglio, è previsto che “Gli uffici possono disporre l'accesso di impiegati dell'Amministrazione finanziaria nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, nonché in quelli utilizzati dagli enti non commerciali e da quelli che godono dei benefici di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l'accertamento dell'imposta e per la repressione dell'evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l'accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell'ufficio da cui dipendono. Tuttavia, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l'autorizzazione del procuratore della Repubblica. In ogni caso, l'accesso nei locali destinati all'esercizio di arti e professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.
L'accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni.
È in ogni caso necessaria l'autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell'autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l'accesso a perquisizioni personali e all'apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l'esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all'articolo 103 del codice di procedura penale”.
Le disposizioni richiamate sono da leggere in combinato disposto con l’articolo 12 della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (d’ora in avanti “Statuto del Contribuente”) che, significativamente rubricato “diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”, al primo periodo del primo comma dispone che “tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo”.
Il comma 2 dello stesso articolo 12, per quanto qui di interesse, prosegue statuendo che “quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda”.
Se allora è vero che l’articolo 52 del D.P.R. 633/72 pare distinguere l’accesso ai locali adibiti (esclusivamente o anche) ad abitazione privata rispetto ai locali adibiti alle attività commerciali genericamente intese, richiedendo solo nel primo caso che alla necessaria autorizzazione del capo ufficio si aggiunga l’autorizzazione del procuratore della Repubblica, è pur vero che i diritti e le garanzie del contribuente vanno individuate altrove.
L’articolo 12 dello Statuto del contribuente non distingue le attività ispettive in base al luogo in cui si realizza l’accesso, richiedendo, al comma 1, in ogni caso che le attività ispettive siano “effettuate sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo” e delineando, al comma 2, il diritto del contribuente ad essere ad essere informato, ad inizio dell’attività di verifica, delle ragioni che abbiano giustificato la verifica e dell’oggetto della stessa.
È evidente che il diritto ad essere informati delle ragioni che giustificano l’attività di verifica, anche in relazione al comma 1 dell’articolo 12, richiede che tali ragioni siano espresse e portate a conoscenza del contribuente, in conformità con la ratio della disposizione normativa che è prevista a tutela di quest’ultimo.
In assenza di una espressa sanzione prevista per la violazione del dovere di cui sopra, puntum dolens è stato comprendere la valenza delle prescrizioni contenute nello Statuto e quali siano gli effetti della eventuale inosservanza degli obblighi previsti a carico dell’amministrazione finanziaria.
In questo senso, sembra che le garanzie e i diritti riconosciuti all’articolo 12 dello Statuto non abbiano trovato adeguata declinazione nei chiarimenti interpretativi, né in sede di documenti di prassi, né in sede giurisprudenziale.
Dalla apparente minor tutela riconosciuta all’articolo 52 all’accesso in locali commerciali, rispetto all’accesso ai locali adibiti al domicilio si è fatta erroneamente discendere una minore tutela anche in punto di garanzie e diritti del contribuente attinto dalle misure.
La giurisprudenza nazionale[1] ha affermato che non è necessario motivare l’autorizzazione che consenta l’accesso ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionali che non siano residenze private, ritenendo l’autorizzazione “mero requisito procedurale”, mentre si è ritenuta necessaria la motivazione dell’autorizzazione rilasciata dal pubblico ministero per l’accesso alle abitazioni private.
La Corte di Cassazione[2] ha inoltre affermato che gli agenti della Guardia di Finanza, in qualità di appartenenti alle forze dell’ordine, avevano facoltà di accedere ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionale senza autorizzazione scritta.
Si è così delineato un doppio statuto delle garanzie del contribuente, orientato dalla natura del locale adibito all’accesso, già evidentemente in contrasto con l’articolo 12 dello Statuto.
In queste considerazioni si pone in senso dirompente la sentenza Italgomme pneumatici s.r.l. e altri contro Italia, del 6 febbraio 2025, con cui la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha nettamente tracciato la strada da seguire non solo al legislatore, ma anche all’autorità amministrativa e ai giudici nazionali.
2. L’articolo 8 della Convenzione EDU e l’interpretazione della Corte di Strasburgo
Ai sensi dell’articolo 8 della CEDU “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”.
Il paragrafo 2 dello stesso articolo chiarisce che “non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha precisato che “sebbene l’articolo 8 della Convenzione non contenga requisiti procedurali espliciti, il processo decisionale che conduce alle misure di ingerenza deve essere equo e tale da rispettare gli interessi tutelati al singolo dall'articolo 8 (v. M.S. v. Ucraina, n. 2091/13, § 70, 11 luglio 2017, e Veres v. Spagna, n. 57906/18, § 53, 8 novembre 2022).
La premessa da cui muove la sentenza della Corte di Strasburgo è la conferma del principio già espresso in casi precedenti secondo cui anche in caso di perquisizione di locali commerciali vi è un'interferenza con "il diritto al rispetto del domicilio" e alla "corrispondenza" (cfr. Bernh Larsen Holding AS e altri c. Norvegia, n. 24117/08, § 105, 14 marzo 2013 e ulteriori riferimenti ivi contenuti).
In sintesi, ai sensi dell’articolo 8 CEDU non vi è alcuna distinzione in punto di “domicilio” del contribuente tra abitazione o sede dell’attività lavorativa[3].
Più chiaramente, è ribadito che l’articolo 8 deve essere interpretato nel senso che include il diritto al rispetto della sede legale, delle succursali o di altri locali commerciali di una società, nonché il diritto al rispetto dei locali adibiti all'attività professionale.
Muovendo da questi presupposti i giudici di Strasburgo si occupano di valutare se, nel caso sottoposto, l’ingerenza nel domicilio (inteso come sopra) trovi fondamento in una legge, come richiesto dal paragrafo 2 dell’articolo 8.
Al tal fine, è ribadito il principio ormai consolidato per cui la conformità a legge è rispettata ove vi sia una base legale nel diritto interno che sia accessibile all’interessato e le cui conseguenze derivanti dalla violazione siano prevedibili[4].
La legge è da intendersi, come detto, in senso sostanziale, comprensiva non solo della legge formale (i.e. legge scritta), ma anche degli gli atti normativi di rango inferiore e della relativa giurisprudenza.
Pertanto, nel valutare la liceità dell’ingerenza e, in particolare, la prevedibilità del diritto interno, si tiene conto sia del testo della legge sia del modo in cui esso è applicato e interpretato dalle autorità nazionali.
Per rispettare l’accessibilità, la prevedibilità e la prevenibilità, la Corte Edu chiarisce che è necessario che la norma interna offra una protezione giuridica contro le interferenze arbitrarie delle autorità pubbliche con i diritti garantiti dalla Convenzione. A tal fine, la legge deve indicare con sufficiente chiarezza la portata di tale potere discrezionale conferito alle autorità competenti e le modalità del suo esercizio.
Significativamente, si afferma che, sebbene gli Stati possano ritenere necessario ricorrere a tali misure al fine di ottenere prove pertinenti, i poteri relativamente ampi nelle fasi iniziali dei procedimenti fiscali non possono essere interpretati nel senso di conferire all'amministrazione finanziaria un potere discrezionale illimitato.
È necessario che il diritto interno offra garanzie procedurali idonee a proteggere i soggetti passivi delle verifiche fiscali da qualsiasi abuso o arbitrarietà, anche considerando se eventuali carenze procedimentali possano essere compensate da altri strumenti idonei, ex post, a garantire adeguata tutela.
Tirando le fila, muovendo dalla nozione di domicilio inteso in senso ampio, comprensivo dei locali commerciali, la Corte Edu evidenzia che, affinché sia rispettato il paragrafo 2 dell’articolo 8 della Convenzione, è necessario che la norma interna sia in grado di delimitare il potere di ingerenza conferito all’Amministrazione offrendo idonei strumenti di garanzia in fase procedimentale (i.e. ex ante) o comunque in sede giurisdizionale (i.e. ex post), dovendosi ritenere violativo dell’articolo 8 CEDU il conferimento di un potere discrezionale e illimitato.
Tanto chiarito, la Corte di Strasburgo esamina la compatibilità del diritto interno sia con riguardo alla presenza di garanzie in fase procedimentale, sia con riguardo alla presenza di eventuali strumenti di garanzia successivi.
Individuata la base legale nel diritto interno, quanto alla fase procedimentale la Corte ritiene che la base giuridica nel diritto interno non sia idonea a delimitare la portata del potere discrezionale conferito alle autorità nazionali.
Considerata la legge in senso sostanziale, la Corte Europea dei diritti dell’uomo evidenzia, infatti, che le disposizioni nazionali, anche integrate dagli orientamenti amministrativi pertinenti, non impongono alle autorità di giustificare l'esercizio dei loro poteri.
In tal senso, ai sensi dell'articolo 35 della legge n. 4/1929, gli agenti e gli agenti della Guardia di Finanza sono autorizzati ad accedere "in qualsiasi momento" ai locali adibiti a scopi commerciali e industriali per lo svolgimento di "verifiche" e "indagini" al loro interno. Lo stesso potere è attribuito ai funzionari dell'Agenzia delle Entrate dagli articoli 51 e 52 del decreto n. 633/1972, in modo che possano "accedere [ai locali]" ed effettuare "ispezioni". Ai sensi di queste ultime disposizioni, l'autorizzazione all'amministrazione finanziaria per l'accesso ai locali commerciali e commerciali può essere rilasciata ai fini di "un accertamento fiscale e per combattere l'evasione fiscale e altre violazioni fiscali".
Tra i documenti di indirizzo finalizzati a finalità di politica fiscale pubblicati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, il comma 2 degli Orientamenti 2016-2018, del 22 dicembre 2015, prevedeva che, nell'ambito delle attività volte a contrastare l'evasione e l'elusione fiscali, l'amministrazione finanziaria dovesse "ridurre i controlli intrusivi" attraverso "l'ulteriore sviluppo dell'analisi dei rischi rilevanti", anche attraverso l'utilizzo di strumenti automatizzati, quali le banche dati.
La lettera f) dei criteri generali degli orientamenti 2018-2020, del 5 dicembre 2017, fissava il seguente obiettivo: l'ulteriore implementazione di sistemi informatizzati e automatizzati che migliorassero l'efficacia dei controlli attraverso l'uso efficiente di banche dati la cui capacità di funzionare efficacemente con altri sistemi sarebbe migliorata.
Nondimeno, la Corte rileva che non è possibile alcun controllo sulla base dei soli criteri di selezione sopra menzionati e in assenza di informazioni pubbliche trasparenti su quali locali commerciali sono ispezionati nel tempo e quali no, e non si può escludere la possibilità che gli agenti fiscali esercitino un margine di discrezionalità illimitato dietro l'apparente rispetto di tali criteri.
Nello stesso senso, come sopra anticipato, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione non è necessario motivare l'autorizzazione rilasciata da un responsabile dell'Agenzia delle Entrate o da un pubblico ministero che consenta l'accesso ai locali commerciali e ai locali adibiti ad attività professionali che non siano residenze private, in quanto le disposizioni di legge in materia non richiedono condizioni specifiche per il rilascio di tale autorizzazione, e pertanto l'autorizzazione è un "mero requisito procedurale".
Inoltre, nei casi di cui sopra, se l'autorizzazione è illegittima per motivi formali o sostanziali, si è ritenuto che ciò non pregiudichi la validità dell'avviso di accertamento definitivo o l'utilizzo di documenti e prove acquisiti con i provvedimenti impugnati con il consenso del contribuente (cfr. Corte di cassazione, sentenze n. 8344 del 19 giugno 2001, n. 27149 del 16 dicembre 2011, n. 4066 del 27 febbraio 2015 e n. 8547 del 29 aprile 2016).
Tirando le fila, né la legge formale di disciplina delle misure, né i documenti di prassi amministrativa, né le sentenze della Corte di Cassazione (i.e. legge in senso sostanziale) appaiono idonee ad offrire al contribuente sufficienti strumenti di garanzia in sede procedimentale. In tal senso, la Corte ritiene che la base giuridica delle misure impugnate non sia in grado di delimitare in modo sufficiente l'ambito di discrezionalità conferito alle autorità nazionali e, di conseguenza, non soddisfi il requisito di "qualità del diritto" di cui all'articolo 8 della Convenzione.
Così concluso, la Corte di Strasburgo si preoccupa poi di verificare se ex post vi siano strumenti idonei a colmare il deficit di tutela evidenziato in fase procedimentale.
Quanto alla possibilità del contribuente di agire con reclamo al tribunale tributario, ai sensi dell'articolo 19, comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992, le autorizzazioni di accesso non sono atti autonomamente impugnabili dinanzi al giudice tributario.
La giurisprudenza interna, ritenendo l’autorizzazione atto endoprocedimentale non autonomamente impugnabile, ha ritenuto che ove le verifiche sfocino in un avviso di accertamento, il contribuente sia legittimato a contestare anche l’autorizzazione, unitamente all’avviso.
Nondimeno, la Corte di Strasburgo considera tale possibilità inidonea ad offrire un adeguato strumento di controllo dell’autorizzazione in sede giurisdizionale, tenuto conto che per la giurisprudenza interna la liceità dell'autorizzazione non pregiudica la validità dell'avviso di accertamento definitivo né la possibilità di utilizzare come prova e l’impossibilità di ritenere il rimedio della doppia impugnazione sufficientemente tempestivo.
Quanto alla prospettazione di un ricorso dinanzi ai giudici civili, secondo la Corte Edu l’affermazione giurisprudenziale per cui il contribuente, in assenza di un avviso di accertamento, possa ricorrere dinanzi al giudice civile, competente in materia di accesso illecito, è astratta e di difficile attuazione considerando che, in assenza di disposizioni che richiedano espressamente una condizione o motivazione prima dell'attuazione delle misure impugnate, il giudice civile difficilmente potrebbe esercitare un controllo significativo di tali misure.
Infine, quanto allo strumento del reclamo al Garante del Contribuente, ai sensi dell'articolo 13 della Legge n. 212/2000 la Corte rileva che tale autorità non emette decisioni vincolanti, ma semplici raccomandazioni all'amministrazione tributaria non idonee, quindi, ad essere considerate un rimedio effettivo ai fini delle garanzie contro l'arbitrarietà richieste dall'articolo 8 della Convenzione.
Tirando le fila, non si rivengono idonei strumenti di garanzia del contribuente, capaci di evitare un potere arbitrario e illimitato dell’autorità amministrativa, né in sede procedimentale né in sede giurisdizionale o comunque ex post.
3. Il monito della Corte Edu al legislatore italiano e gli strumenti a disposizione del giudice nazionale
A questo punto, la Corte Europea dei diritti dell’uomo sembra abbandonare la propria natura di giudice delle petizioni individuali spingendosi di fatto - contrariamente a quanto da essa stessa affermato al paragrafo 102 della sentenza in esame[5] - a valutare la compatibilità della disciplina normativa interna con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, fornendo indicazioni al legislatore italiano.
La Corte ritiene fondamentale che lo Stato convenuto adotti le misure generali appropriate al fine di allineare la sua legislazione e la sua prassi alle conclusioni tutte sopra esposte.
La sentenza individua le questioni che dovranno essere chiaramente disciplinate nel quadro giuridico interno.
Preliminarmente, si evidenzia la bontà degli articoli 12 e 13 della legge n. 212/2000, considerati idonei a garantire la maggior parte delle misure necessarie.
Ancora, sul piano delle legge intesa in senso sostanziale, la Corte ritiene che, anche mediante indicazioni di prassi amministrativa, la normativa dovrebbe indicare chiaramente le circostanze e le condizioni in cui le autorità nazionali sono autorizzate ad accedere ai locali e a effettuare verifiche in loco e controlli fiscali sui locali commerciali e sui locali adibiti ad attività professionali, pur tenendo conto che, nell'ambito fiscale, considerazioni di efficienza potrebbero giustificare poteri relativamente ampi nelle fasi iniziali dei procedimenti tributari.
A detta della Corte di Strasburgo, la normativa interna dovrebbe imporre alle autorità nazionali l'obbligo di fornire una motivazione e di giustificare di conseguenza la misura in questione alla luce di tali criteri, dovendosi stabilire garanzie per evitare l'accesso indiscriminato o almeno la conservazione e l'uso di documenti e oggetti non connessi con l'obiettivo della misura in questione, fatto salvo l'esercizio del potere delle autorità di avviare procedimenti amministrativi separati o, se del caso, procedimenti penali.
In secondo luogo, il quadro giuridico interno dovrebbe garantire un controllo giurisdizionale effettivo, considerando l’attività di verifica immediatamente lesiva. In sintesi, è necessario garantire al contribuente che ritenga il controllo non conforme a legge uno strumento idoneo di tutela intermedio, da utilizzare prima che il controllo sia realizzato.
Il monito al legislatore italiano reso dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, seppur non usuale, si ritiene possa avere ricadute rilevanti ed immediate nell’ordinamento interno, anche sui giudizi in corso.
Lo scollamento dalla posizione individuale delle parti attribuisce alla decisione sicuramente un’ampia portata, le cui conclusioni sono di fatto comunque già supportate dall’articolo 12 dello Statuto del contribuente che, al primo comma, richiede che tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali sono effettuati sulla base di esigenze effettive di indagine che, evidentemente, devono risultare espresse nell’atto che le autorizza.
In tal senso, un’autorizzazione priva di adeguata motivazione appare già in violazione di legge, in quanto contraria all’articolo 12 citato.
È allora il caso di evidenziare che, in sede di recente riforma fiscale, il legislatore delegato ha introdotto nello Statuo del contribuente l’articolo 7-quinquies che, riprendendo il divieto d’uso delle acquisizioni probatorie effettuate senza il rispetto delle previsioni normati, già noto al processo penale (il riferimento è all’articolo 191 c.p.p. di discussa applicazione al procedimento tributario), per quanto qui di interesse, precisa che non sono utilizzabili ai fini dell'accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti in violazione di legge.
A rafforzamento della rilevanza della novella, si evidenzia che la volontà del legislatore è ancor più chiara ad un confronto con il citato articolo 191 c.p.p. secondo cui “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate”. Se la norma processual-penalistica statuisce l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazioni di divieti normativi, l’articolo 7-quinquies dello Statuto del contribuente, in conformità alla ratio dello Statuto stesso, ha invece previsto un rimedio generalizzato, applicabile a tutte le acquisizioni probatorie realizzate in violazione di una legge.
Per tutto quanto evidenziato, nell’attesa di un intervento legislativo risolutore, è auspicabile che la giurisprudenza sin da ora, prendendo atto del monito della Corte di Strasburgo, provveda ad interpretare le norme interne appena richiamate in senso conforme alla Convenzione.
[1] Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 16424 del 21 novembre 2002; cfr. anche Corte di Cassazione, sentenze n. 26829 del 18 dicembre 2014, e n. 28563 del 6 novembre 2019.
[2] Corte di Cassazione, sentenze n. 16017 dell'8 luglio 2009, 10137 del 28 aprile 2010, 17525 e 17526 del 28 giugno 2019.
[3] G. Melis, “Manuale di diritto tributario”, Giappichelli, 2024, pag. 333
[4] Cfr. De Tommaso v. Italia [CG], n. 43395/09, § 107, 23 febbraio 2017
[5] Testualmente “102. La Corte ribadisce che, nei casi derivanti da petizioni individuali, il suo compito non è solitamente quello di riesaminare la legislazione pertinente o una pratica contestata in astratto. Al contrario, essa deve limitarsi, per quanto possibile, senza perdere di vista il contesto generale, ad esaminare le questioni sollevate dalla controversia di cui è investito (v. Naumenko e SIA Rix Shipping, sopra citata, § 57). Pertanto, in questo caso, il compito della Corte non è quello di controllare, in abstracto, la compatibilità con la Convenzione della normativa nazionale che disciplina l'accesso ai locali commerciali e commerciali e i locali adibiti ad attività professionali e il loro controllo nella versione vigente all'epoca dei fatti, ma per determinare, in concreto, l'effetto dell'ingerenza nei diritti dei richiedenti ai sensi dell'articolo 8 della convenzione.”
La decisione commentata si può consultare qui.
Sommario: 1. La vicenda di fatto – 2. La pronuncia del TAR – 3. Considerazioni sulla pronuncia – 4. Spunto di riflessione.
1. La vicenda di fatto[1]
Il pomeriggio del 28 marzo 2025 si sarebbe dovuto tenere, in un’aula dell’Università di Torino, un evento accademico regolarmente autorizzato, intitolato “Storia e legalità internazionale del conflitto Russia-Ucraina” e organizzato da un docente di diritto civile di quella Università, con la proiezione di un documentario della tv “Russia Today” seguita da un dibattito con due docenti provenienti da altri Atenei, inteso ad analizzare il filmato per verificarne la natura propagandistica e/o informativa.
A seguito di proteste di Radicali locali, che invocavano la normativa europea che vieta la diffusione di prodotti della propaganda russa, il 18 marzo il Rettore dell’Università di Torino revocava la disponibilità dell’aula universitaria già concessa.
Il docente organizzatore dell’evento impugnava davanti al giudice amministrativo il provvedimento di revoca e gli atti presupposti, chiedendone l’immediata sospensione.
2. La pronuncia del TAR
Con il decreto che si commenta, emesso in forma monocratica inaudita altera parte, il TAR del Piemonte ha respinto la richiesta di sospensiva e fissato la trattazione del merito a data successiva a quella dell’evento accademico non consentito, escludendo il pericolo nel ritardo e dubitando dell’interesse ad agire del ricorrente perché non vi sarebbe evidenza: 1) di lesione della libertà di insegnamento del ricorrente, docente di diritto civile, trattandosi di documentario estraneo a insegnamenti giuridici; 2) di pregiudizio per gli studenti, stabilendo la normativa europea che la Federazione russa ricorre in modo sistematico alla manipolazione dei media e alla distorsione dei fatti per destabilizzare i Paesi confinanti e della UE.
3. Considerazioni sulla pronuncia
La motivazione del giudice amministrativo, pur assumendo di escludere il pericolo nel ritardo, riguarda evidentemente il solo fumus boni iuris. Nessuna persona di buon senso potrebbe infatti ritenere non urgente, a prescindere dalla sua fondatezza o meno, la richiesta di consentire lo svolgimento di un evento autorizzato per il 28 marzo, e vietato solo il 18 marzo. Al di là di questa sorprendente confusione terminologica, è il contenuto intrinseco del decreto a suscitare serie perplessità.
Risulta anzitutto singolare l’idea che la proiezione e analisi collettiva di un documento relativo a un conflitto che è oggetto di valutazioni per il diritto internazionale e non (si pensi solo all’incidenza sulle libertà di impresa e di commercio delle sanzioni applicate alla Russia) non riguardi la libertà di insegnamento di un docente di diritto civile, e sia perfino estranea a insegnamenti giuridici, sì da far venir meno l’interesse ad agire di quel docente.
L’idea di libera comunità di docenti e studenti interessati alla conoscenza, a tutta la conoscenza svincolata da finalità immediate, che sta all’origine dell’istituzione universitaria, non è mai venuta meno nel corso della sua complessa evoluzione storica[2]. Se così non fosse, del resto, non si spiegherebbe l’originaria autorizzazione data dall’Ateneo torinese.
Di fatto, l’argomento in esame finisce per risolversi, più che nella vetusta prescrizione “Qui non si fa politica”, in una più attuale prescrizione “Qui si fa solo diritto” (oppure solo matematica, o solo filosofia, o solo scienza della comunicazione, ecc.). Dove la definizione vincolante dell’oggetto di studio “diritto” (o matematica, filosofia, scienza della comunicazione, ecc.), di cui gli ex-libertari Radicali invocano l’accezione restrittiva, è data dalla magistratura.
Ancora più sconcertante, se possibile, è l’idea che esaminare criticamente un prodotto comunicativo, russo o meno che sia, significhi ratificarne l’eventuale portata manipolativa anziché imparare a difendersene. L’uscita dell’uomo dallo stato di minorità, caratteristica secondo Kant dell’illuminismo, non potrebbe quindi maturare neppure nello spazio universitario, i cui utenti andrebbero tutelati attraverso la soave censura preventiva eurofila.
Peraltro, l’idea che tutto quanto è russo sia propaganda e manipolazione era molto presente durante i primi mesi dell’occupazione dell’Ucraina, quando si cercava di censurare anche le opere musicali o letterarie dei secoli scorsi. Oggi sarebbe possibile un atteggiamento più maturo, perché l’affermazione eurounitaria “la Federazione russa attua una sistematica campagna internazionale di manipolazione dei media e di distorsione dei fatti” ha carattere descrittivo e non normativo (altrimenti vi sarebbe la scienza della comunicazione di Stato, o meglio eurounitaria), e non riguarda necessariamente ogni aspetto della realtà, senza possibilità di verifica e controprova. Verifica e controprova che interessano quegli uomini e quelle donne che sono così desiderosi di uscire da ogni stato di minorità, da iscriversi ad un’Università.
4. Spunto di riflessione
La vicenda esaminata induce a chiedersi dove sia mai possibile esaminare e discutere i prodotti della ipotizzata disinformazione russa, se neppure l’Università sarebbe una sede adatta. Qualcuno da qualche parte lo dovrà fare: quanto meno per batterlo, un nemico bisogna pur conoscerlo. Magari si può fare solo con le agenzie che oggi è di moda chiamare di intelligence – parola straniera rassicurante, rispetto alla declinante intelligenza naturale e alla debordante intelligenza artificiale. Quelle agenzie che però sempre servizi segreti sono. Almeno i servizi, loro sì che i documenti dei nemici li devono analizzare.
Non è questa una risposta solo ironica, visto che l’art. 31 del disegno di legge “sicurezza” discusso nei mesi scorsi in Parlamento prevedeva, per le pubbliche amministrazioni e altri soggetti, l’obbligo di prestare ai servizi “la collaborazione e l'assistenza richieste, anche di tipo tecnico e logistico, necessarie per la tutela della sicurezza nazionale”, anche stipulando apposite convenzioni che potevano prevedere “la comunicazione di informazioni ai predetti organismi anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza”.
Disegno di legge che, a causa delle difficoltà incontrate nella sua approvazione, dovrebbe essere sostituito da un decreto-legge che, recependo alcuni rilievi di Mattarella, prevederebbe tra l’altro la facoltà e non l’obbligo di collaborazione delle pubbliche amministrazioni con i servizi, e senza deroga alle normative sulla privacy. La modifica non può fugare le perplessità, perché prevedere espressamente la possibilità di collaborazioni con i servizi che non erano mai state vietate in precedenza significa di fatto incentivarle: quale delle nostre Università sottofinanziate (quasi tutte, e non solo al Sud) potrà mai rinunciare ai benefici economici e di prestigio derivanti dalle sinergie prospettate dal mondo dei servizi e dai suoi referenti politico-economici? E chi potrà fare affidamento sull’effettivo rispetto della privacy (ad es. sulla mancata schedatura di studenti e professori che protestino contro lo sterminio dei palestinesi in Terra Santa), se solo considera che con il decreto legge si vogliono esentare da pena gli agenti dei servizi che (non si limitino a infiltrarsi ma) partecipino ad associazioni terroristiche? Una volta giustificato il terrorismo di Stato in nome della sicurezza, sarebbe difficile non giustificare, quanto meno di fatto, anche la schedatura di Stato.
Conclusione – Può darsi che, in un eventuale futuro, un documentario russo come quello oggi vietato dal Rettore torinese possa essere liberamente proiettato e analizzato, purché in adempimento di qualche convenzione, facoltativa ma tanto “consigliata”, tra Università e servizi segreti. Magari alla presenza di barbe finte e di politici post-pannelliani. Se questa è libertà di insegnamento.
[1] Le informazioni essenziali sono tratte da https://www.torinoggi.it/2025/03/20/leggi-notizia/argomenti/politica-11/articolo/cancellata-la-proiezione-del-documentario-russo-il-professor-ugo-mattei-la-censura-non-riguarda-l.html
[2] Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/universita_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/
Qui la decisione commentata TARPiemonteN
Sommario: 1. Premessa e contesto di riferimento - 2. Contenuti della proposta di riforma della Corte dei conti - 2.1 Interventi sulla responsabilità erariale- 2.2. Interventi sulla funzione di controllo - 2.3 I profili organizzativi – 3. Conseguenze della riforma sull’intero sistema delle garanzie.
1. Premessa e contesto di riferimento
Dopo un letargo durato quasi un anno la riforma della Corte dei conti si è risvegliata e punta a completare l’iter approvativo alla Camera dei Deputati con il dibattito in Aula il 7 aprile. prossimo. Obiettivo di Governo e maggioranza è ottenere un primo via libera a Montecitorio entro aprile, perché alla fine di aprile scade l'ennesima proroga dello scudo erariale, norma che impedisce alle procure contabili di perseguire i danni erariali per «colpa grave ( disposizione varata nel periodo pandemico con l’art 21 del DL 76/2020,e più di recente prorogata ancora nel decreto mille proroghe DL 27/12/24, n 202»), una riforma approdata al secondo ramo del Parlamento darebbe un argomento forte per superare possibili obiezioni costituzionali sull'ennesima proroga.
Il «Ddl Foti», presentato il 19 dicembre 2023 dall’attuale ministro per il Pnrr quando era capogruppo di Fratelli d´Italia, atto Camera n. 1621, è tornato alla ribalta all’inizio di quest’anno anche per una riformulazione del testo con emendamenti a cura dei due nuovi relatori, che, nello stravolgere il testo originario, hanno anche proposto con l’emendamento 2.07. (art 2bis.) una delega con diversi punti di intervento volti a ridefinire in modo massiccio le attribuzioni e l’organizzazione della Corte dei conti.
La Corte dei conti è un giudice garante imparziale degli equilibri economico finanziari del settore pubblico e della corretta gestione delle risorse, al servizio della collettività, così è stata definita, in diverse sentenze, dalla Corte costituzionale, in attuazione dell’art 100 Cost e, ai sensi dell’art 103 Cost, ha giurisdizione nelle materie di Contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
Da molti mesi quindi un organo di garanzia, vitale negli snodi del sistema democratico, è posto sotto scacco dalla minaccia di un radicale cambiamento delle proprie funzioni. La causa scatenante di tale riforma non è l’esigenza di migliorare il sistema delle funzioni ma “è la paura della firma del funzionario pubblico che affligge il funzionamento della pubblica amministrazione italiana”, questo è indicato nella relazione che accompagna il disegno di legge.
Sotto tale profilo è illuminante l’intervista rilasciata sull’argomento dal procuratore di Napoli Gratteri il 27 marzo scorso a Piazza Pulita “La riforma della Corte dei conti è un colpo di spugna (…) Si parla molto poco di questa riforma (…) i pubblici amministratori possono fare quello che vogliono senza dare conto a nessuno e senza avere un minimo di responsabilità. Nell’attuale sistema essi rispondono solo per colpa grave (…) essi risponderanno solo se fanno un danno con dolo (…) nessuno pagherà più. Pagheranno solo gli italiani (…) A vantaggio di chi? (…) Si sentono perseguitati la paura della firma, come anche sull’abuso d’ufficio che è stato abrogato, si narrano favole, il sindaco non firma nulla è il funzionario che firma e non il sindaco, comunque se il sindaco ha un dubbio può chiarirsi chiedendo al segretario comunale, alle prefetture, specialisti in diritto amministrativo”.
Sostanzialmente le modifiche proposte sulle due funzioni rispondono alla logica di creare esimenti relative alla responsabilità erariale a cui sono tenuti i funzionari pubblici che causano un danno alle risorse pubbliche, in caso di colpa grave e non hanno quindi l’obiettivo di migliorare le funzioni.
Il quadro che emerge non lascia dubbi in ordine alla possibilità di favorire l’impunità per i politici coinvolti in cattiva gestione dei fondi pubblici. Inoltre la riforma che va emergendo potrebbe indebolire il sistema dei controlli sulle risorse pubbliche, riducendo la possibilità di chiedere conto agli amministratori degli eventuali danni erariali causati. Il rischio è che si possa consentire agli amministratori pubblici di sfuggire alle proprie responsabilità senza dover risarcire adeguatamente i danni causati alla collettività dalla propria azione gravemente colposa.
Fin dalla presentazione del DDLL vanno registrate delle anomalie, non solo la disponibilità del testo si è avuta solo dopo due mesi dalla sua presentazione, ma lo stesso è stato interessato anche da varie riscritture del testo base per interventi radicali dei relatori. Inoltre, nonostante le diverse audizioni dei vertici della Corte (Presidente, Procuratore Generale) e dell’Associazione magistrati e la consegna di documenti fra cui un parere reso dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti n 3/2024, che ha fornito con completezza profili di criticità, nessun elemento fra quelli proposti è stato recepito. L’impressione è che l’attività parlamentare abbia un peso relativo rispetto a decisioni assunte altrove. Tale conclusione la si trae anche seguendo il dibattito nelle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati, presso le quali si esamina il DDLL. Infatti, se si analizza l’iter dei lavori e l’approvazione degli emendamenti presentati, prevalentemente, dalle opposizione, si assiste al rigetto sistematico degli stessi da parte della maggioranza senza o con limitato dibattito, ed invece all’approvazione di quelli, limitati nel numero ma molto insidiosi, presentati dalla maggioranza, anche se assolutamente improponibili (si segnala su tutti il recente sub emendamento 1.23- definito un salvacondotto per i politici), attraverso un copione scontato e prevedibile.
Nel completare preliminarmente il contesto di riferimento, è necessario segnalare anche la recente sentenza della Corte costituzionale n 132/2024 con cui la Corte, nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate sulla reiterazione dello “scudo erariale”, ha formulato, in modo inusitato, vere e proprie linee direttive al legislatore riprendendo in più punti il disegno di legge richiamato.
Dai lavori parlamentari emerge che sono già stati esaminati la metà degli emendamenti e sub emendamenti presentati (n 240).
2. Contenuti della proposta di riforma della Corte dei conti.
Con l’obiettivo di modificare il sistema di responsabilità amministrativa e rendere più efficienti i controlli sulla gestione della cosa pubblica, la riforma interviene su tre linee di azione: responsabilità erariale (giurisdizione e procure), controllo e organizzazione.
2.1 Interventi sulla responsabilità erariale
Sono numerose le criticità nel testo della riforma.
- La quantificazione del danno erariale addebitabile e risarcibile. Il risarcimento non potrà superare il 30% del danno accertato e non potrà eccedere il doppio della retribuzione annua del responsabile, fissando quindi un tetto massimo per le condanne (emendamento 1.58). In caso di danni di notevole entità, la misura del risarcimento risulterà assolutamente irrilevante. Si rammenta che nella disciplina attuale la responsabilità erariale è assistita da particolari condizioni rispetto al sistema di risarcimento civilistico, non solo per il livello della colpa, (colpa grave)ma anche rispetto all’entità del danno da risarcire, visto che il giudice ha la possibilità di applicare il potere riduttivo sull’entità del danno accertato.
- L´indeterminatezza nella scriminante dell´atto vistato (si veda oltre sul controllo)
- L´avvenuto spontaneo adempimento del pagamento di ogni importo indicato nella sentenza definitiva di condanna determina la cessazione di ogni altro effetto della condanna medesima. Quindi ai sensi di questa norma, approvata con l’emendamento 1.60, qualora l’agente provveda spontaneamente al pagamento degli importi indicati nella sentenza definitiva non si avranno ulteriori ricadute in termini disciplinari o con riguardo ad altre sanzioni accessorie (Ad esempio, se il funzionario pubblico colpevole paga quanto previsto ed estingue il debito indicato, non operano le incompatibilità, potrà partecipare a concorsi pubblici).
- Il decorso del termine per la prescrizione Con un altro emendamento dei relatori approvato dalle Commissioni è stato modificato in modo rilevante il regime della prescrizione. Si prevede che il diritto al risarcimento del danno si prescrive in ogni caso in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso "indipendentemente dal momento in cui l’amministrazione o la Corte dei conti ne siano venuti a conoscenza". In caso di occultamento doloso del danno, "realizzato con una condotta attiva", precisa l´emendamento, (1.61), “la prescrizione di cinque anni si considera dalla data della sua scoperta”. Il concetto di “condotta attiva” dell'interessato è tutto da costruire sul piano della giurisprudenza. Nei casi più comuni in cui l’amministrazione omette la segnalazione che aveva l’obbligo di effettuare è evidente che la fattispecie di danno è interamente ascrivibile all’inerzia ed all’incuria del titolare dell’obbligo. Pertanto l’approvazione di questa norma costituisce un ulteriore colpo alla possibilità di ottenere un risarcimento del danno erariale visto che aumenteranno i casi di prescrizione dell’azione.
- L’introduzione di uno scudo per i politici “la buona fede dei titolari degli organi politici si presume, fino a prova contraria, fatti salvi i casi di dolo, quando gli atti adottati dai medesimi titolari nell’esercizio delle proprie competenze, sono proposti, vistati o sottoscritti dai responsabili degli uffici tecnici o amministrativi in assenza di pareri formali interni o esterni di contrario avviso”. Con tale norma gli amministratori (membri del governo, sindaci, responsabili di organi regionali e provinciali), in virtù di una singolare presunzione di buona fede, non saranno più responsabili per danno erariale, qualora gli atti amministrativi siano stati approvati sulla base di pareri tecnici o amministrativi. In pratica, poiché vi sono sempre alla base come presupposti dei pareri tecnici e/o amministrativi (del segretario comunale, del responsabile finanziario, dell’ufficio tecnico) i politici saranno esenti da responsabilità per colpa grave. Saranno condannati solo nel caso venga dimostrato il dolo, ovvero l’intenzione fraudolenta. L’emendamento presentato dalla maggioranza e approvato rafforza quanto previsto dalla legge 20/1994, che già dispone, nel caso di atti rientranti nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, che la responsabilità non si estenda “ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione”. Nell’attuale disciplina la buona fede deve essere documentata, invece con la recente norma non dovrà più essere provata ma sarà presunta fino a prova contraria, invertendo, pertanto, l’onere della prova, che viene posto a carico del giudice contabile. ll provvedimento estende quindi il perimetro dell’irresponsabilità contabile in modo irragionevole, in violazione dei princìpi costituzionali e dello Stato di diritto, ipotizzando una sostanziale impunità. È evidente che tale modifica indebolisce il sistema dei controlli di legalità sulla spesa pubblica, riducendo e sostanzialmente vanificando la possibilità di chiedere conto agli amministratori per eventuali danni causati all’erario e crea un vulnus all’intero sistema della finanza pubblica. È evidente che l’indebolimento dei controlli sulle risorse pubbliche consentirà agli amministratori pubblici di sfuggire alle proprie responsabilità riducendo l’effetto di deterrenza e favorendo l’elusione del principio di prudenza e precauzione che ha sempre caratterizzato la gestione della cosa pubblica, con grave tenuta del sistema democratico, in un momento in cui, l’utilizzazione delle consistenti risorse europee legate al PNRR imporrebbe l’accentuazione di tali cautele, come richiesto dall’art 22 del REG EU 241/2021, che impone agli SM di prevenire, con adeguati controlli, le frodi, le irregolarità, i conflitti d’interessi, i doppi finanziamenti, la corruzione. Dalla disciplina approvata emerge, senza ombra di dubbio, che nel caso di violazioni l’Italia risponderà, con riguardo ai comportamenti negligenti dei propri funzionari, sacrificando solo risorse del proprio erario e quindi di tutti i cittadini. Siamo molto lontani dal principio etico di chi ritiene che ad un grande potere corrisponda una grande responsabilità, si tratta invece di considerare, che a maggiori poteri corrisponda l’insindacabilità. Seguendo tale linea di intenti è possibile leggere la recente norma dell’art 8, comma 7 del DL 25/2025, che ha previsto,per i politici che si siano resi responsabili del dissesto di un ente, la candidabilità, modificando il precedente regime addirittura attraverso l’utilizzo di uno strumento d’urgenza quale è il decreto legge.
- La riorganizzazione degli uffici di procura e del loro ruolo e la gerarchizzazione delle Procure territoriali rispetto alla Procura Generale. L’emendamento 2.07, ha aggiunto l’art 2 bis, prevedendo una delega in materia di organizzazione ed efficienza della Corte dei conti, che, fra i principi ed i criteri direttivi ha indicato, al c 2, lett d,) ed e ), la riorganizzazione delle funzioni requirenti. Attualmente seguendo il codice di giustizia contabile si individua un Procuratore generale e un procuratore Regionale con vice procuratori generali e sostituti procuratori generali addetti all’ufficio per ogni Regione, con competenza esclusiva a promuovere le azioni di responsabilità nel territorio di competenza. La norma di riforma, ancora nella fase della proposta, fa riferimento alla Procura generale ed a procure territoriali (non più regionali) rette da un procuratore preposto all’ufficio (non più un procuratore regionale) sotto il coordinamento del Procuratore generale; a quest’ultimo sarebbero riconosciuti generali poteri di indirizzo e coordinamento, poteri di avocazione delle istruttorie in caso di violazione degli indirizzi ed ancora l’obbligo del PG di sottoscrivere, a pena di nullità, gli atti più rilevanti, congiuntamente al procuratore territoriale. È evidente che l’assetto indicato, qualora approvato, creerebbe un’ampia gerarchizzazione che mal si concilia con l’autonomia di cui sono dotati i magistrati, che, secondo la Costituzione, si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni (art 107, c. 3, Cost). L’assetto proposto segna un ritorno alla situazione antecedente agli anni 1991 /93 in cui la funzione requirente era accentrata, in prevalenza, presso gli uffici del Procuratore Generale a Roma. Ma è evidente, anche con riguardo alla giurisprudenza del Giudice delle leggi ed in linea con l’esperienza più che trentennale, che le Procure Regionali, nell’interesse delle medesime amministrazioni presenti sul territorio, non possono essere ridotte a involucri vuoti, ma devono continuare ad essere veri presidi di legalità sul territorio, efficaci e tempestivi non solo nella repressione ma anche nella prevenzione del danno erariale, svolgendo un fondamentale ruolo di deterrenza.
2.2 Interventi sulla funzione di controllo
La Corte dei conti svolge diversi controlli sia in sede centrale che nelle sedi regionali, la riforma si occupa del potenziamento del controllo preventivo su atti, perché direttamente collegato all’effetto esimente della responsabilità del funzionario/-agente. Ma la modifica proposta investe l’intero sistema dei controlli visto che, soprattutto in sede regionale, per la mole di atti presumibilmente in arrivo e la scarsità di risorse umane disponibili, sarebbero difficilmente eseguibili gli altri controlli.
I profili più rilevanti delle modifiche in itinere sono i seguenti.
-Si stabilisce che qualora un atto della PA superi il controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti, non sia più possibile sottoporre a giudizio per responsabilità erariale gli amministratori che lo abbiano adottato, qualora dalla sua attuazione derivino danni all’erario. È evidente che tale norma è indirizzata a definire un’esimente automatica, a prescindere dalle azioni che ne conseguono e dal comportamento del funzionario/amministratore.
-Si segnala poi l’emendamento 1.56, che modifica l'articolo 1 della legge n.20/1994, prevedendo l'esclusione della gravità della colpa, quando il fatto dannoso tragga origine, non solo dall'emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, ma anche dagli atti richiamati e allegati che costituiscono il presupposto logico e giuridico dell'atto sottoposto a controllo. Con tale disposizione le condotte gravemente colpose e dannose saranno intangibili, indiscriminatamente, a condizione che derivino dall'atto vistato o da quelli allegati e richiamati nello stesso È evidente che c’è anche il rischio di un rallentamento dell'azione amministrativa, non in linea con la conclamata esigenza di semplificazione. E ’infatti immaginabile che possa essere necessario ampliare l'istruttoria del controllo, spinti dalla necessità di svolgere anche un ulteriore controllo sugli atti richiamati.
-Altra norma ha previsto che, trascorsi i trenta giorni indicati dal procedimento di controllo, in assenza di deliberazione da parte della Sezione, l’atto si intende registrato, anche ai fini dell’esclusione della responsabilità. Con una sorta di silenzio assenso, si considererà eseguito il controllo della Corte dei conti senza che nessun vaglio di legittimità sia stato svolto dai magistrati, estendendo il medesimo regime di esenzione previsto in caso di vaglio preventivo di legittimità. Un'estensione pericolosa, come è stato evidenziato dal parere sulla proposta di legge Foti, reso dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti (n.3/2024), che ha osservato come "sul piano sostanziale, l'esclusione dalla colpa grave in caso di silenzio determina l'apodittico discarico da responsabilità rispetto ad atti per i quali non vi è stata alcuna valutazione di legittimità”. Il silenzio assenso sarà equivalente alla registrazione degli atti sottoposti a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, indipendentemente dal fatto che il magistrato contabile si pronunci o meno. Si tratta di una norma che "crea evidenti profili di incertezza su dove estendere questa sorta di scudo tombale perché alla base non vi è neppure un atto di registrazione ufficiale del magistrato, ciò impedirà di procedere nei confronti dei dirigenti pubblici per colpa grave, quindi per grave negligenza, incuria, imperizia ed il relativo, eventuale danno sarà a carico dei cittadini. Tale modalità potrà essere oggetto di censure davanti alla Corte Costituzionale".
La riforma DDL 1621 del 2024 introduce, poi, in materia di PNRR e Piano nazionale di Investimenti Complementari (PNC)) un controllo preventivo eventuale su atti di aggiudicazione di appalti lavori e forniture o su atti conclusivi di affidamento a richiesta degli enti locali o delle Regioni, attraverso un macchinoso procedimento. Il controllo positivo o il mancato controllo per scadenza del termine produce l’effetto esimente della responsabilità del funzionario che ha sottoscritto l’atto, qualora derivino danni all’erario. È poi prevista un’incongruente estensione a tutti i soggetti pubblici che gestiscono il PNRR ed il Piano nazionale di Investimenti Complementari (PNC), che com’è noto sono i più disparati ed in notevole numero.
È un pericoloso ritorno al passato, a prima del gennaio 1994, quando la legge n. 20/1994 ha drasticamente ridotto i controlli preventivi della Corte dei conti a favore dei controlli sulla gestione come previsto negli altri Paesi UE e per il bilancio UE. Con riguardo alle Regioni ed agli enti locali, enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita, possono essere poi sollevati delicati problemi di costituzionalità dopo la riforma del Titolo V (legge n 3/2001). Va poi evidenziato che l’anticipazione del controllo preventivo, al momento dell’aggiudicazione dell’appalto allontana i controlli della Corte dalle fasi dell’esecuzione, nelle quali si annidano inerzie, inefficienze ed altre irregolarità gestionali foriere spesso di gravi ritardi. Inoltre sottrae risorse preziose ai controlli finanziari svolti dalle Sezioni di controllo regionali sui bilanci degli enti locali e sui bilanci delle Regioni, controlli indispensabili per tenere sotto controllo gli equilibri degli enti territoriali (art. 81 Cost) e scongiurare disavanzi eccessivi. Il ruolo di ausilio tecnico dei controlli della Corte dei conti è volto in questi casi ad evidenziare, con tempestività, le criticità finanziarie della gestione, che possono emergere per indebitamenti eccessivi ed incontrollati e che necessitano di misure tempestive di risanamento stabili per evitare di compromettere il futuro degli enti e quindi i servizi ai cittadini. È infatti evidente che un indebitamento eccessivo e fuori controllo condurrà l’ente all’impossibilità di onorare i propri debiti verso i creditori, con forti rischi di dissesto degli enti medesimi.
Viene quindi in rilievo l’esigenza di assicurare la buona gestione dei conti pubblici, anche in relazione ai vincoli che derivano all’Italia dall’appartenenza all’UE, assicurando, con un controllo costante sui bilanci e sui rendiconti degli enti territoriali, che siano preservati gli equilibri delle relative finanze, per evitare disavanzi eccessivi. Si rammenta, infatti, che il Piano strutturale di bilancio di medio termine, presentato dal Governo in attuazione del nuovo Patto di stabilità individua un percorso prestabilito per la finanza pubblica (per i prossimi 4 anni estesi a 7 anni), al fine di raggiungere una riduzione del rapporto debito PIL ed una diminuzione del debito pubblico, che va garantita anche dalle amministrazioni locali che impegnano 1/3 della spesa delle Amministrazioni Pubbliche. Ciò va assicurato favorendo ed incentivando il debito buono, a sostegno della crescita e degli investimenti, rispetto a quello cattivo (indebitamento per spesa corrente), è imprescindibile l’esigenza di una rigorosa azione della Corte dei conti sotto il doppio profilo della lotta agli sprechi e della correzione dei disavanzi. Ma tale problematica sembra estranea al legislatore del DDLL 1621.
2.3 I profili organizzativi
L’emendamento 2.7, nel prevedere la legge delega, non fa cenno ad una Commissione deputata allo studio e redazione delle norme con componenti dotati di quei requisiti di tecnicità e competenza necessari per l’elaborazione di una disciplina così complessa.
La delega nelle linee direttive oltre alle funzioni di procura, in precedenza menzionale, richiama anche altri profili organizzativi relativamente alle funzioni di controllo, consultive e giurisdizionali (art 2 bis, c 2, lett a) ); il criterio proposto fa riferimento a livello centrale a Sezioni “abilitate a svolgere unitariamente funzioni di controllo, consultive, referenti e giurisdizionali ordinate in collegi con provvedimenti del Presidente della Corte (senza fare riferimento a criteri oggettivi e predeterminati, come sarebbe stato preferibile), mentre sul territorio, distingue in modo chiaro la previsione di una sezioni con funzioni consultive, di controllo e referenti e di una sezione con funzioni giurisdizionali ( art 2 bis, c 2lett c), n1.)
La differenza fra le sezioni centrali e quelle del territorio non ha motivo di esistere e può forse spiegarsi con una svista… Infatti la diversa tipologia delle funzioni giustifica la struttura territoriale indicata nelle due sezioni. Sotto tale aspetto le posizioni non sembrano ancora particolarmente chiare e denotano da parte del legislatore una scarsa conoscenza dell’Istituto su cui opera la riforma e delle relative funzioni.
Viene poi affermata, sotto il profilo delle risorse umane e strumentali, l’esigenza di rafforzare il sostegno alle funzioni consultiva e di controllo, rispondendo alla logica che anima l’intera riforma che vorrebbe attribuire alla Corte dei conti un ruolo consulenziale preventivo (si parla infatti di rilasciare pareri non più su fattispecie astratte, ma bensì su fattispecie concrete), volto ad influenzare la gestione delle Amministrazioni pubbliche, a servizio dello Stato apparato, più che valorizzare, nel ruolo indipendente e neutrale, il ruolo di garanzia della correttezza finanziaria, in ausilio allo Stato Comunità e quindi al servizio dei cittadini, come in più sentenze ha sottolineato la Corte costituzionale.
3. Le conseguenze della riforma sull’assetto dell’intero sistema
Emerge dal quadro descritto un radicale ridimensionamento delle funzioni dell’Istituto, che diventa più simile ad un’autorità amministrativa indipendente (Autority), perdendo le caratteristiche di un potere giudiziario non accentrato e gerarchizzato, ma diffuso e orizzontale.
La perdita di effettività della giurisdizione e l’indubbia limitata incidenza dell’azione di responsabilità erariale da parte delle procure contribuirebbero a marginalizzare i giudici contabili rispetto alle altre Magistrature.
È evidente che il ruolo della magistratura contabile ne esce profondamente snaturato con gravi conseguenze sui beni e sui valori che in base alla Costituzione la Corte dei conti è chiamata a difendere. Non ultimo gli equilibri di bilancio e la lotta agli sprechi, che, in un momento di risorse limitate come quello attuale, comprometterebbe, in misura sensibile, la tutela dei cittadini nella difesa dei diritti fondamentali, soprattutto a danno delle fasce più deboli della popolazione, a cui sarà sempre più difficile assicurare servizi essenziali, con la conseguenza della violazione di un principio fondamentale dello Stato di diritto, il principio di uguaglianza, previsto dall’art 3 della Costituzione, favorendo pochi a danno di molti.
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quarta puntata: Toccata e... volo in Europa
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Quinta puntata: balbettare sul diritto internazionale
Sommario: 1. Un arresto che viene da lontano - 2. Un controverso resoconto - 3. Procura internazionale contro Governo italiano - 4. Cosa resta dello scandalo.
1. Un arresto che viene da lontano
Secondo la Corte penale internazionale, l’arresto di Osama Elmasry/Almasri Njeem si è reso necessario, ai sensi dell’art. 58 del Trattato istitutivo[1], perché a suo giudizio, una volta esaminati la richiesta e le prove del Procuratore, sussistono fondati motivi di ritenere che abbia commesso un crimine nella giurisdizione della Corte (comma 1.a) e che il suo arresto possa garantirne la comparizione personale al processo (comma 1.b.i). Il mandato era diretto, più che a privare la libertà, ad assicurare la presenza dell’incolpato davanti alla CPI.
Il 26 febbraio 2011 Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva segnalato al Procuratore presso la Corte la situazione perdurante in Libia dal giorno 15, con commissione di crimini di guerra e contro l’umanità; in questo modo era maturata la condizione per l’esercizio della giurisdizione della CPI stessa (art. 13.b)[2].
Dal 2017 il Procuratore riferisce due volte l’anno al Consiglio di sicurezza dei numerosi crimini contro l’umanità commessi in danno dei migranti. Secondo quell’ufficio, da allora al 2 ottobre 2024 più di 120.000 bambini, donne e uomini adulti “sono stati catturati, rapiti e trasferiti con la forza dal Mediterraneo alla Libia e poi detenuti in campi atroci, dove sono stati sottoposti ai delitti di prigionia, omicidio, tortura, stupro, riduzione in schiavitù, sparizioni forzate e altri atti inumani”[3].
L’arresto nei confronti di Njeem – così Almasri è chiamato nel mandato della CPI – è stato giustificato dall’attribuzione personale a lui di crimini di guerra (oltraggio alla dignità personale, trattamento crudele, tortura, violenza sessuale, omicidio e stupro) e crimini contro l’umanità (detenzione abusiva, tortura, violenza sessuale, stupro, omicidio e persecuzione), consumati all’interno della prigione di Mitiga dal 15 febbraio 2015 al 2 ottobre 2024. Tra le vittime, vi sarebbero 34 persone uccise e un bimbo di cinque anni violentato.
La prigione di Mitiga è stata costruita, dopo la caduta di Gheddafi e l’ascesa del Governo di accordo nazionale (GNA) fedele a Fayaez al-Serraj, nell’area aeroportuale omonima –scalo civile di diverse compagnie di bandiera tra cui, da gennaio 2025, di ITA-Airways – e affidata al controllo di Njeem, che ha ai propri ordini le guardie carcerarie di questa e di altre prigioni della Libia occidentale oltre ad almeno due brigate di combattenti.
Il collegio che ha emesso il mandato nei suoi confronti è costituito nella camera preliminare, la quale, per Statuto della CPI, esercita le funzioni decisionali durante l’inchiesta ed è competente ad emettere mandati di arresto e ordini di comparizione (artt. 56-58). Era presieduto da Iulia Antoanella Motoc (Romania) e composto da Reine Alapini-Gansou (Benin) e Socorro Flores Liera (Messico). Quest’ultima ha espresso un’opinione dissenziente sull’emissione del mandato nei confronti di Njeem. L’atto è stato dunque adottato a maggioranza non per un contrasto sul merito della misura, bensì per dissenso sulla giurisdizione della CPI in relazione alla correlazione tra i crimini contestati e quelli che avevano reso inizialmente procedibile l’azione del Procuratore.
2. Un resoconto controverso
Sabato 18 gennaio 2025 la camera preliminare della Corte emette la misura nella pienezza dei poteri. Dopo la sua esecuzione da parte della Digos di Torino domenica 19, la liberazione e il rimpatrio di Njeem, avvenuti nelle controverse e frenetiche ore comprese tra le 11 e le 19.51 di martedì 21 gennaio, scatenano polemiche politiche, reazioni disparate nella stampa e nell’opinione pubblica, sconcerto da parte delle istituzioni europee.
Dopo quella degli antefatti, ecco un’altra cronaca da raccontare.
22 gennaio. Njeem è atterrato da poche ore a Mitiga col Falcon messogli a disposizione dal ministero dell’interno. La CPI emette un comunicato stampa che precisa come essa abbia “continuato a impegnarsi con le autorità italiane per garantire l’effettiva esecuzione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta della Corte. In tale contesto, la Cancelleria ha anche ricordato alle autorità italiane che qualora esse individuassero problemi che possano ostacolare o impedire l'esecuzione della presente richiesta di collaborazione, dovrebbero consultare senza indugio la Corte al fine di risolvere la questione”.
Fatta questa premessa, il comunicato stampa della CPI conclude: “Il 21 gennaio 2025, senza preavviso o consultazione con la Corte, Osama Elmasry Njeem sarebbe stato rilasciato dalla custodia e rimpatriato in Libia. La Corte sta cercando, e deve ancora ottenere, una verifica dalle autorità sulle misure che sarebbero state prese. La Corte ricorda il dovere di tutti gli Stati parti di cooperare pienamente con la Corte nelle sue indagini e nei procedimenti giudiziari per i crimini commessi”.
La CPI, dunque, non è ancora stata messa al corrente dall’Italia dell’accaduto.
23 gennaio. Il governo finalmente fa sentire la propria voce. Nel question time al Senato il ministro dell’interno Matteo Piantedosi offre una prima spiegazione dell’accaduto: una volta scarcerato dalla corte d’appello, Njeem, che allo stato “era a piede libero in Italia”, è stato “rimpatriato a Tripoli, per urgenti ragioni di sicurezza, con mio provvedimento di espulsione, vista la pericolosità del soggetto”[4].
Si contesta anche la tempistica riguardante la richiesta, l’emissione e l’esecuzione del mandato di cattura internazionale. La presidente del Consiglio nota che il provvedimento è scattato dodici giorni dopo l’inizio del viaggio di Njeem in giro per l’Europa, quando il libico aveva già attraversato Regno Unito, Belgio e Germania, superando i controlli, e dopo che, nei mesi scorsi, era già stato, a quanto le risulta, anche in Francia, Olanda e Svizzera.
Il ministro degli esteri Tajani, a sua volta, mette in discussione i vincoli dell’Italia contratti col Trattato istitutivo della Corte internazionale: “L’Aja non è il verbo. Siamo tra i fondatori della Carta di Roma, ma non è che chi governa l’Aja è la bocca della verità”[5].
28 gennaio. La presidente Meloni si reca da Mattarella per comunicargli di essere stata iscritta nel registro degli indagati e subito dopo, in un messaggio sui social, annuncia di avere ricevuto un avviso di garanzia dal procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi (“lo stesso del fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona”) “per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio del cittadino Almasri, avviso inviato anche ai ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano, presumo al seguito di una denuncia che è stata presentata dall'avvocato Luigi Ligotti .. conosciuto per avere difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi ”. Trova “curioso” che la CPI abbia emesso il mandato mentre Njeem si trovava in Italia dopo avere “serenamente” soggiornato per dodici giorni in altri tre Stati europei[6].
29 gennaio. Salta la prevista informativa dei ministri Nordio e Piantedosi sul “caso Almasri”. Su richiesta delle opposizioni, i lavori in aula alla Camera e al Senato vengono sospesi in attesa i ministri si presentino a riferire.
31 gennaio. Rispondendo alla domanda di un giornalista, un portavoce della Commissione UE risponde: “non spetta alla Commissione europea fare rispettare i mandati di arresto della Corte penale internazionale, ma ricordiamo che nel 2023 il Consiglio europeo ha invitato tutti gli Stati membri a garantire la piena cooperazione con la Corte, compresa la tempestiva esecuzione dei mandati di arresto.
2 febbraio. Lam Magok Biel Ruei, cittadino sudanese del Darfur con status di rifugiato in Francia, deposita presso la CPI un esposto contro Meloni, Piantedosi e Nordio per il reimpatrio di Njeem, dopo le torture che questi gli ha inflitto e che aveva denunciato[7].
3 febbraio. Palazzo Chigi comunica che a riferire al Parlamento saranno i ministri Nordio e Piantedosi e non, come chiesto dalle opposizioni, la presidente Meloni [8].
5 febbraio. Dopo sei giorni di sospensione dei lavori parlamentari, i ministri arrivano a riferire. Le informative sono dense e dettagliate nella difesa dell’azione del governo. Si ascoltano critiche alla CPI, “che ha fatto un pasticcio frettoloso”, e a “certi magistrati", perché intervenuti “in modo sciatto”. I due interventi vengono spesso interrotti da proteste, da scambi di accuse urlate fra maggioranza e opposizione, a volte anche verso e dai banchi dell’Esecutivo[9].
5 febbraio. L’ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale – in base alla denuncia del cittadino sudanese – chiede di avviare un procedimento nei confronti di Meloni, Nordio e Piantedosi.
3. Procura internazionale contro Governo italiano
Il Procuratore avanza la richiesta in applicazione dell’art. 70 dello Statuto della CPI. In particolare fa riferimento alla condotta di “ostacolare... la presenza o la deposizione di un testimone .. distruggere, manomettere o interferire con la raccolta di prove” (art. 70.1.c).
Lascia un senso di intimo sconcerto leggere un atto dove un’autorità internazionale qualifica le massime cariche del governo italiano come “indagati”, per avere abusato dei loro poteri al fine di interferire e vanificare i procedimenti legali ed evitare le responsabilità, in ordine sia allo scandalo del contrabbando di Al-Masri sia ai crimini di cui Al-Masri è accusato sia all’imputazione penale di loro stessi per crimini contro i migranti[10].
Già perché, secondo il Procuratore, è dal 2017 che le autorità italiane si sono rese indisponibili a perseguire i cittadini italiani o stranieri per “indiscussi crimini contro l’umanità in danno dei migranti”. Il “caso Al-Masri” dimostrerebbe ora un salto di qualità nelle violazioni dell’Italia: “il governo e la magistratura italiani non sono nemmeno in grado di collaborare con la CPI quando quest’ultima cercherà finalmente di perseguire e giudicare in modo indipendente questi crimini”[11].
L’incapacità della magistratura è derivata da quella governativa. Gli “indagati”, infatti, non si sono resi responsabili di un’omissione, ma hanno agito in maniera attiva “per fare fallire e vanificare i procedimenti penali e internazionali”; una volta che è stato reso pubblico il loro “piano per contrabbandare un fuggitivo nel suo Paese di origine”, essi si sono mossi per attaccare la CPI, la polizia italiana “e persino per attaccare i giudici italiani, sostenendo falsamente che il Ministro della Giustizia non era stato informato e che la magistratura italiana è parziale, non indipendente e politicamente motivata”. In questo modo Meloni, Nordio e Piantedosi avrebbero cercato di eludere le indagini sulle proprie condotte a favore di Njeem e sulle proprie “complicità nei crimini contro l’umanità commessi contro i migranti nella rotta del Mediterraneo centrale”[12].
È un j’accuse implacabile, che riconducendo al 2017 l’inizio della politica italiana complice con i criminali libici fa riferimento, evidentemente, al Memorandum firmato il 2 febbraio 2017 dal presidente del consiglio, Paolo Gentiloni, e dal presidente al-Serraj. L’Italia vi si è impegnata a fornire risorse al GNA per arginare in più modi “i flussi di migranti illegali” e individuare i “metodi più adeguati per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani”.
Da allora le risorse italiane sono state impiegate nel rafforzare i mezzi e le operazioni della guardia costiera locale per ricondurre in Libia i migranti diretti nel Mediterraneo verso nord e nel consolidare centri di restrizione come Mitiga. La politica del Governo Meloni avrebbe intensificato i crimini contro l’umanità favoriti da quell’accordo[13].
Nella motivazione delle proprie accuse l’ufficio del Procuratore istituito dall’ONU presso la CPI scardina la ricostruzione della vicenda fornita dall’esecutivo italiano: al ministro dell’interno che aveva giustificato l’immediatezza del reimpatrio con la pericolosità del soggetto, replica che Njeem era già stato in Italia il 6 gennaio e vi si trovava di nuovo dal giorno 18 e che comunque il suo collega guardasigilli non aveva ritenuto che tale pericolosità meritasse una rapida presentazione alla corte d’appello di Roma di un’autonoma richiesta di esecuzione dell’arresto; alla presidente del Consiglio contesta che l’asserita irritualità della comunicazione al ministro della giustizia del mandato d’arresto da parte della CPI è stata smentita dal ministro della giustizia stesso, che nella sua informativa ha motivato la propria inerzia in tutt’altro modo; a quest’ultimo addebita l’illegittimità delle sue omissioni, motivate con dichiarazioni sorprendenti (la richiesta “è arrivata in inglese senza essere tradotta”; abbiamo ricevuto “un’email informale di poche righe dell’Interpol tre ore dopo l’arresto”; “è stato fatto un immenso pasticcio”; il ministro “non è un passacarte”) e dirette a minare – insieme con le accuse di politicizzazione mosse dalla presidente Meloni – l’integrità della del sistema giudiziario internazionale e interno, quest’ultimo reo di “avere semplicemente cercato di rispettare la legge italiana”[14].
Secondo l’ufficio del Procuratore, gli indagati avevano chiesto di non rendere pubblico l’arresto di Njeem. Ciò andrebbe letto insieme con la predisposizione del Falcon 900 – che lo ha rimpatriato in serata – già all’alba del 21 gennaio, ben prima cioè che la Corte decidesse il rilascio, e con l’inattività del guardasigilli, che pure ben sapeva di essere l’unica autorità che avrebbe dovuto procedere entro 48 ore, per evitare la scadenza dell’arresto provvisorio. La decisione di non darvi esecuzione e di riportare Njeem in Libia è dipesa, dunque, “non da ragioni legali, ma politiche e criminali”.
4. Cosa resta dello scandalo
Il Trattato istitutivo (o Statuto) pone un obbligo generale di “cooperare pienamente con la Corte nelle inchieste e azioni giudiziarie” in capo agli Stati parti (art. 86). In particolare, lo Stato parte che riceva una richiesta di fermo o di arresto o di consegna “prende immediatamente provvedimenti per fare arrestare la persona”, secondo la propria legislazione e le disposizioni dello Statuto stesso (art. 59.1 St.). Solo la presenza nella legislazione interna di un divieto alla specifica richiesta di assistenza ammette la mancanza di cooperazione, ma ciò comporta l’avvio di una consultazione urgente con la Corte (art. 97e 99 St.).
Le norme dello Statuto precludono dunque al Ministro della giustizia qualsiasi sindacato politico o di legalità – quasi che, in questa seconda ipotesi, fosse egli stesso una corte di legittimità[15] – sul mandato di arresto. È vero, come egli ha dichiarato in Parlamento, che l’art. 2 della l. n. 237/2012, per l’adeguamento del nostro ordinamento allo Statuto, gli attribuisce la facoltà di concordare la propria azione con altre autorità interne, ma ciò è in funzione delle modalità di esecuzione della richiesta ricevuta, in particolare di quelle di assistenza previste dall’art. 93 St., non sulla possibilità o meno di cooperare con la Corte.
Nei confronti di Njeem non vi era una procedura di estradizione, che investe una relazione tra Stati. C’era invece una procedura giurisdizionale riconosciuta dall’Italia come vincolante mediante l’adesione al Trattato, con cui essa ha ceduto una parte di sovranità.
In relazione alla vicenda di Njeem, l’11 febbraio il Parlamento europeo ha avviato una discussione sulla “protezione del sistema di giustizia internazionale e le sue istituzioni, in particolare la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”. Nel frattempo, però, il presidente USA Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per sanzionare la CPI, per avere intrapreso “azioni illegali contro gli Stati Uniti e il nostro stretto alleato Israele”. Tra le sanzioni, il divieto d’ingresso negli Stati Uniti a funzionari e impiegati coinvolti nel lavoro investigativo della Corte, oltre che ai loro familiari più stretti, e il blocco dei loro beni[16].
Il dibattito dei parlamentari europei, incentrato inevitabilmente su questo nuovo evento, non ha mancato di toccare la corresponsabilità dell’Italia nella delegittimazione degli organi giudiziari sovranazionali. Nella parte conclusiva, la necessità di difendere la CPI e il diritto internazionale in un momento in cui le dinamiche di risoluzione dei conflitti e le tendenze politiche nel mondo sembrano ignorarli è stata affermata solennemente[17].
Ma forse, a ricordarci la funzione della giurisdizione nella lotta contro l’impunità locale o globale, valgono più di ogni dibattito le parole di chi ha ancora sul proprio corpo e nel proprio animo le ferite delle violenze subite da Njeem: “molte persone che lo hanno denunciato, ora hanno paura di parlare, stiamo perdendo fiducia nelle autorità. Sono stato in quella prigione, non posso accettare che lo abbiano lasciato andare. Significa che tornerà a uccidere e torturare altre persone in Libia. Non lo posso accettare”[18].
[1] Il Trattato, o Statuto, fu firmato a Roma il 17 luglio 1998, durante la conferenza diplomatica convocata dall’assemblea generale dell’ONU nella sua cinquantaduesima sessione. La conferenza, riunita dal 15 giugno, era presieduta da Giovanni Conso ed ebbe uno svolgimento molto travagliato, con l’opposizione della gran parte delle rappresentanze partecipanti e il culmine di una conseguente mobilitazione di organizzazioni non governative nella fiaccolata che dal Campidoglio giunse al Circo Massimo in cui Romano Prodi, prossimo presidente della Commissione europea, che tanto aveva sostenuto l’evento, consegnò al rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite, Hans Corell, la petizione per l’istituzione della Corte. La conferenza, riunita nel vicino palazzo della FAO, pervenne infine, nella notte del 17 luglio, all’approvazione con 120 voti favorevoli su 147. Lo Statuto è efficace dall’1 luglio 2002. Alle iniziali 72 firme, apposte in Capidoglio, si sono aggiunte nel tempo quelle di altri 139 Paesi. Tra gli aderenti vi sono tutti gli Stati dell’Unione Europea, non invece, tra gli altri, USA, Russia, Cina, India, Israele, Iran, Egitto, Arabia Saudita e Turchia.
[2] Consiglio di sicurezza ONU, risoluzione 1970, 26 febbraio 2011, S/RES/1970(2011).
[3] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, documento pubblico del 5 febbraio 2025, richiesta di avviare un procedimento ai sensi dell’articolo 70 dello Statuto di Roma contro la signora Giorgia Meloni, il signor Carlo Nordio e il signor Matteo Piantedosi.
[4] Question time al Senato sul caso Almasri, 23 gennaio 2025, in YouTube, consultato il 9 marzo 2025.
[5]Almasri, Tajani: “La Corte dell’Aja non è la bocca della verità”, in YouTube, consultato l’8 marzo 2025.
[6] Giorgia Meloni indagata: “Non mi faccio intimidire”, 28 gennaio 2025 in YouTube, consultato l’8 marzo 2025.
[7] Accusa Meloni e i ministri Nordio e Piantedosi di favoreggiamento. “Mi hanno tolto la possibilità di avere giustizia”, A. Candito, in La Repubblica, 3 febbraio 2025.
[8] Scontro su Meloni i Aula, arrivano Nordio e Piantedosi, 3 febbraio 2025, in ansa.it, consultato il 9 marzo 2025.
[9] Informativa di Nordio e Piantedosi su caso Almasri, 5 febbraio 2025, YouTube, consultato il 9 marzo 2025. Il testo integrale del resoconto stenografico dei due interventi si trova in sistemapenale.it, YouTube, consultato il 16 marzo 2025. Piantedosi ha affermato, tra l’altro: “dopo la mancata convalida dell’arresto mi è apparso chiaro che si prospettava la possibilità che Almasri permanesse a piede libero sul territorio nazionale per un periodo indeterminato, che ritenevo non compatibile con il suo profilo di pericolosità sociale. Per tali motivi, il 21 gennaio ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, ai sensi dell’art. 13, comma 1, del testo unico in materia di immigrazione, e ricordo che, dall’insediamento del Governo, sono stati ben 190 i provvedimenti di espulsione per motivi di sicurezza, dei quali 24 adottati ai sensi proprio dello stesso articolo 13, comma 1. In precedenza, Nordio, dopo avere asserito che il mandato di arresto presentava delle “contraddizioni”, tanto da avere suscitato il dissenso della giudice messicana, ha riferito di avere dovuto ponderare la posizione da assumere nei confronti della richiesta della CPI. E, invocando l’art. 2 dello Statuto, ha dichiarato che il ministro della giustizia “non è un passacarte, è un organo politico che deve meditare il contenuto di queste richieste in funzione di un eventuale contatto con altri ministeri, con le altre istituzioni e con gli altri organi dello Stato”.
[10] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 59.
[11] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 55.
[12] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 55 e 58.
[13] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 45.
[14] Ufficio del Procuratore presso la Corte penale internazionale, 5 febbraio 2025, cit., p. 37.
[15]Così A. Nappi, Caso Almasri: il Governo in Parlamento, in sistemapenale.it, 7 febbraio 2025. L’autore commenta conclusivamente: “L’opposizione ha sostenuto in Parlamento che il Ministro Nordio ha parlato come difensore di Almasri. Non è così. Il Ministro ha inscenato una requisitoria contro la Corte penale internazionale, per dissimulare la realtà di un’autodifesa rispetto a quell’ipotesi di accusa della cui esistenza ha egli stesso informato il Parlamento”.
[16]Stati Uniti, Trump impone sanzioni alla Corte penale internazionale per le indagini su Israele, in it.euronews.com, 7 febbraio 2025, consultato il 13 febbraio 2025.
[17] Così M. Mc Grath, intervenuto per la Commissione UE: “Noi nell'Unione Europea riconosciamo assolutamente l'urgenza di fornire supporto alla corte, sia finanziariamente che diplomaticamente, e continueremo a utilizzare gli strumenti a nostra disposizione per proteggere la CPI. La Commissione sta esplorando tutte le possibili vie d'azione per sostenere la Corte... perché dobbiamo vincere la lotta contro l'impunità globale. Il dibattito di questa sera mostra anche l'importanza e la complessità di garantire la protezione del diritto internazionale e del sistema giudiziario internazionale. Dobbiamo assicurarci che i nostri valori fondamentali non siano minacciati dai tentativi di minare i principi chiave del nostro ordine internazionale basato sulle regole su cui si basano le nostre relazioni internazionali, la nostra sicurezza e, in ultima analisi, il nostro futuro. Alla luce dei molteplici conflitti in corso, insieme alla tendenza allarmante a ignorare il diritto internazionale, è essenziale restare impegnati nell'ordine internazionale basato sulle regole, sostenendo fermamente le Nazioni Unite e i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite”.
[18] A. Camilli, Quello che non torna del caso Almasri, in internazionale.it, 29 gennaio 2025.
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