ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Lo scritto riprende alcuni dei temi trattati nel corso della relazione tenuta al convegno sul tema “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino. Si tratta della quarta di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno e costituisce una rielaborazione dell'intervento conclusivo della prima sessione dei lavori del Convegno. Si veda Diritto d'amore e responsabilità civile di Alessandra Cordiano, Diritto, biodiritto e amore di Roberto Giovanni Conti, Diritti d'amore e rapporti familiari di Mirzia Bianca.
Il diritto d’amore in una prospettiva multidisciplinare
di Gabriella Luccioli
1. Nell’accingermi a tracciare le conclusioni di questa prima sessione, presieduta dal professor Carratta, desidero innanzitutto compiacermi con l’organizzazione del congresso per aver scelto un bellissimo tema: un tema certamente non comune nelle sedi convegnistiche, che soltanto la sensibilità delle donne di Cammino poteva concepire.
La parola amore è una parola importante, che evoca il calore umano, il rapporto con gli altri, la solidarietà, l’altruismo, l’empatia; è un termine che dà pienezza alla relazione tra le persone ed esprime la libertà del vivere.
Usare la parola amore vuol dire riferirsi ad una relazione non soltanto paritaria, ma fondata sulla solidarietà e sul rispetto reciproco, vuol dire contrastare in modo diretto la forza oppositiva di parole come diseguaglianza, discriminazione, sopraffazione, subordinazione, pretesa, indifferenza.
Stefano Rodotà e Massimo Bianca, al cui insegnamento il tema del dibattito chiaramente e dichiaratamente si ispira, esaminarono il diritto d’amore secondo prospettive diverse, ma significativamente convergenti: per Rodotà si trattava di riflettere sul diritto di amare, per Bianca sul diritto di essere amati.
Nelle prime pagine del suo libro Diritto d’amore, che ha lo stesso titolo di questo incontro, Stefano Rodotà si domanda se i due termini diritto e amore siano compatibili o appartengano a logiche conflittuali destinate alla reciproca sopraffazione, essendo il primo connotato da rigidità e autorità, il secondo da flessibilità e libertà. La risposta che l’Autore si dà sta nella ricerca dei modi in cui il diritto moderno, a partire dalla riforma del 1975 del diritto di famiglia, ha rifiutato ogni pretesa di impadronirsi della vita sentimentale della persona ingabbiandola in regole rigorose e in categorie giuridiche tassative – come quelle di possesso, di proprietà, di credito, di adempimento, di responsabilità – per aprirsi alla valorizzazione dei diritti della persona e per tale via attrarre l’amore nella categoria dei diritti fondamentali.
In effetti negli ultimi anni il tema dei sentimenti è divenuto oggetto di un rinnovato interesse da parte della dottrina, anche sulla spinta di una chiara propensione ad estendere lo studio del diritto a profili extragiuridici. Per tale via si è cessato di chiedere se il sentimento sia configurabile come oggetto in sé di tutela, esaminando piuttosto l’incidenza della componente affettiva nella sfera dei diritti della persona.
Questo percorso di apertura dell’ordinamento ai sentimenti umani comporta la saldatura tra diritto e vita, tra diritto e amore, consentendo infine di configurare il secondo come oggetto del primo e così rintracciando nel diritto non solo la regola, ma anche la proiezione dei sentimenti.
Come sottolineano Angelo Falzea e Paolo Spaziani, in tutti i casi in cui il sentimento non esprime soltanto un atteggiamento individuale dell’anima, un’aspirazione o un desiderio personale, ma riflette un valore sociale, perché conforme al sentire dell’intera collettività nel momento dato, quel sentimento supera i confini del giuridicamente irrilevante per inserirsi nel quadro di valori recepiti dall’ordinamento giuridico e diventa un interesse meritevole di tutela.
Ciò vale a dire che in ogni caso in cui la valutazione positiva della coscienza individuale viene replicata e amplificata da una coincidente valutazione della coscienza sociale l’amore cessa di essere irrilevante per il diritto e si oggettivizza nella realtà, assumendo una dimensione collettiva che lo rende giuridicamente tutelabile, mentre nell’ipotesi opposta in cui alla valutazione individuale faccia riscontro una riprovazione sociale deve trovare tutela giuridica l’interesse contrario, volto alla repressione del sentimento disapprovato. In entrambi i casi, l’approvazione del sentimento o la sua disapprovazione sociale si traducono in norme giuridiche.
Il sentire della società si pone così a fondamento del diritto oggettivo, nella sua dimensione di diritto effettivo, intesa l’effettività come connotato essenziale della giuridicità, e il diritto d’amore si salda con il rispetto della persona umana, e specificamente della sua dignità,inserendosi tra i diritti fondamentali.
Come ci ricorda ancora Stefano Rodotà, l’amore nel farsi diritto non muta natura, ma si avvale di uno strumento che gli permette di esprimersi con pienezza nell’ambito delle relazioni giuridiche. E se il diritto rinuncia alla sua forza costrittiva, riconoscendo l’esistenza di uno spazio in cui non può entrare, esso recupera per sé una nuova fonte di legittimazione che ha radice nel rispetto delle persone, dei loro sentimenti e dunque anche del rapporto amoroso.
Nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 1776 è scritto che tutti gli uomini sono titolari di alcuni diritti inalienabili, e tra questi la vita, la libertà e la ricerca della felicità. Anche nella Costituzione francese del 1793 si richiama il valore della felicità come scopo della società. La nostra Costituzione non menziona la felicità, e anche nella giurisprudenza costituzionale e ordinaria non si trovano riferimenti alla felicità o al diritto ad essere felici, e tanto meno al diritto d’amore; e se pure è vero, come ci ricorda Massimo Recalcati, che la felicità come vita armoniosa, come stato dell’anima che esclude la sofferenza e la pena, si riduce nella realtà a mera illusione, perché la vita umana è sempre vita infranta, tuttavia la gioia e l’amore non ci sono preclusi e possono essere declinati in termini di diritti.
E invero dalla trama delle disposizioni contenute nella prima parte della Carta costituzionale, che riconosce i diritti fondamentali della persona, è agevole cogliere come il diritto alla felicità e il diritto d’amore siano trasversali a molti di tali diritti. Per questa via il diritto ad essere felici, declinato in termini di diritto d’amore, trova un riconoscimento che si proietta in ogni ambito della vita di relazione, come i vari interventi di questa sessione hanno messo in luce.
E tuttavia dobbiamo prendere atto che tale processo di espansione del diritto d’amore trova continui ostacoli nel nostro Paese in quei tanti pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni che allignano nel comune sentire e che si manifestano nel rifiuto del diverso, nel disconoscimento dei diritti fondamentali delle persone, nella negazione della libertà delle donne.
2. Gli interventi che abbiamo ascoltato nel corso della sessione offrono un affresco completo e armonico della capacità di penetrazione del sentimento amoroso in ogni settore del diritto.
La professoressa Lamarque ha sottolineato l’ineludibilità della prospettiva costituzionalistica, nonostante, come già rilevato, la nostra Carta fondamentale non parli di diritto d’amore e nonostante da qualche momento dei lavori dell’Assemblea Costituente si colgano alcune vischiosità, come nel dibattito sulla definizione dell’istituto del matrimonio, che hanno infine portato alla contestata formulazione dell’art. 29, definito da Calamandrei come un articolo che nasconde un nocciolo di ipocrisia.
L’ispirazione personalista della Costituzione trova diretta espressione nel riconoscimento dei diritti inviolabili dell’individuo, con particolare riguardo ai profili dell’eguaglianza sostanziale e al dovere di solidarietà politica, economica e sociale: il riferimento è in particolare agli artt. 2, 3, 4, 13, 27, 32, 36, 41 della Carta.
È peraltro noto che le esigenze solidaristiche sottese all’ordito costituzionale hanno ispirato infinite pronunce della Corte delle leggi, che hanno aperto la lettura della Carta fondamentale al mondo dei sentimenti, della continuità affettiva, del rispetto delle persone, offrendo soluzioni innovative e non esitando anche a modificare consolidati orientamenti alla luce dell’evoluzione della sensibilità sociale e anche della mutata funzione di taluni istituti giuridici.
Per questa via la Costituzione, vivificata dalla voce dell’Istituzione che ne è garante, con i suoi forti riferimenti alla dignità, al dovere di solidarietà, alla crescita sul piano economico e culturale di ogni persona, si offre a tutti i cittadini non solo come un manuale di convivenza, secondo la definizione di Giovanni Flick, ma come un libro aperto, come la fonte inesauribile di tutela di antichi e nuovi diritti.
E forse mai come in questo periodo è necessario evocare con forza i principi costituzionali di dignità, di eguaglianza e di solidarietà, a fronte delle ripetute offese che detti principi subiscono e dei tanti episodi che sembrano legittimare la definizione della nostra comunità come società del rancore.
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Nessun settore del diritto come il diritto di famiglia apre spazi significativi alla tutela giuridica degli affetti nella dinamica dei rapporti interpersonali.
Come ha ricordato la professoressa Bianca, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una rivoluzione copernicana nella configurazione del rapporto tra amore e diritto nell’ambito familiare. Se in una non lontana stagione i fatti di sentimento che caratterizzano le relazioni familiari avevano fortemente influenzato la percezione del diritto di famiglia come un diritto alieno all’invasione del diritto, quasi al confine tra sociologia e psicologia, come un’isola che il mare del diritto poteva soltanto lambire, nei tempi attuali la dimensione affettiva ha assunto un valore centrale nella configurazione giuridica dei rapporti familiari, sino a dare legittimità a nuovi modelli di genitorialità, diversi da quelli tradizionali basati sul rapporto biologico.
Viene in primo luogo in esame il diritto del bambino ad essere amato. Se già la riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva fortemente ridotto le discriminazioni tra figli legittimi e figli naturali, così che la filiazione non era più legittimata dalla sussistenza di certi requisiti formali, ma dal rapporto tra due persone generatore di una nuova vita, il legislatore del 2012 ha sancito il diritto del minore a ricevere amore dai suoi genitori, secondo la formulazione del primo comma dell’art. 315 bis c.c. (Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori). E se pure la norma non menziona esplicitamente il diritto del minore ad essere amato, non è dubbio che assistere moralmente voglia dire avere cura amorevole, assicurare vicinanza, comprensione, aiuto, conforto, ossia riversare sul minore quella carica affettiva di cui ha bisogno, soprattutto nel periodo della sua prima formazione. Il diritto all’assistenza morale si sostanzia quindi nel diritto all’amore, assunto come diritto fondamentale del fanciullo.
Lo stesso art. 315 bis c.c. nel suo secondo comma estende la tutela dell’affettività all’intera cerchia parentale, così come l’art. 337 ter c.c. riconosce al figlio il diritto di mantenere rapporti significativi con gli ascendenti e i parenti di entrambi i rami nel caso di crisi dei genitori. Particolare rilevanza assume in questo contesto la figura dei nonni, prima della riforma privi di specifici strumenti di tutela in relazione al cd. diritto di visita e ora titolari, ai sensi dell’art. 317 bis c.c., non solo del diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, ma anche del potere di chiedere al giudice, in caso di impedimento all’esercizio di tale diritto, i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse dei minori: ciò rende evidente l’acquisita consapevolezza del legislatore dell’importanza di tali figure nella crescita dei bambini, della ricchezza del rapporto affettivo tra nonni e nipoti e della ontologica diversità di esso rispetto a quello con i genitori, nonché della necessità di rendere effettiva la tutela di tale rapporto.
Da segnalare al riguardo la sentenza della Corte EDU 20 gennaio 2015 (Manuello e Nevi/ Italia, ric. n. 107) che ha condannato l’Italia per non essersi le autorità nazionali impegnate in maniera adeguata e sufficiente per mantenere il legame familiare del minore con i nonni e aver quindi violato il diritto di questi al rispetto della loro vita familiare, così comprendendo nella sfera dell’art. 8 della Convenzione anche la garanzia di una relazione stabile tra nonni e nipoti.
E anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea nel 2018 (sentenza 31 maggio 2018 n. C- 335/17) ha affermato che nella nozione di diritto di visita contenuta nell’art. 2 del Regolamento CE n. 2201/ 2003 va ricompreso il diritto dei nonni ad avere una regolare frequentazione con i nipoti.
La legge sull’adozione n. 184 del 1983 contiene numerosi richiami all’affettività, e quindi al diritto all’amore. L’art. 6, comma 2, dispone che gli aspiranti adottanti devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare, per tale via identificando l’idoneità ad adottare con l’idoneità affettiva, ossia con la capacità di trasmettere ai minori calore e affetto, così come l’art. 2, comma 1, postula ai fini dell’affidamento temporaneo la capacità della famiglia affidataria o della persona singola di assicurare al minore le relazioni affettive di cui ha bisogno. E ancora l’art. 8, nel far riferimento, in relazione allo stato di abbandono, alla privazione di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, individua nella carenza di affettività del nucleo di origine il presupposto dello stato di adottabilità. Infine, i nuovi commi 5 bis, 5 ter e 5 quinquies dell’art. 4 contengono disposizioni dirette a garantire la continuità delle positive relazioni affettive consolidatesi nel tempo.
È altresì da segnalare la recente sentenza della Corte Costituzionale n. 183 del 2023 di inammissibilità/ rigetto delle eccezioni di incostituzionalità dell’art. 27, comma 3, della legge n. 184 nella parte in cui esclude la possibilità di valutazione in concreto dell’interesse del minore a mantenere i rapporti con la famiglia di origine: la Corte delle leggi ha ritenuto che detta recisione riguardi solo i rapporti giuridici formali, e non anche quelli socio-affettivi in fatto, così che l’interesse dei minori adottandi a continuare dette relazioni affettive con componenti del nucleo originario, degradato dal piano del diritto a quello del fatto, ma non per questo meno rilevante, non si pone in contrasto con il contestuale loro interesse ad essere conosciuti come figli di una nuova famiglia. È evidente in tale decisione il riconoscimento della fondamentale rilevanza del mondo degli affetti per la serena crescita dei minori, nel solco di una crescente attenzione alla loro identità personale, secondo una prospettiva che guarda alla continuità delle relazioni affettive.
Sempre in materia di adozione è importante richiamare la recentissima sentenza della Corte delle leggi n. 5 del 2024 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 291, primo comma, c.c. nella parte in cui non consente al giudice, nell’adozione di maggiorenni, di ridurre l’intervallo minimo di età di 18 anni tra adottante e adottato nei casi di esiguo scostamento e sempre che sussistano motivi meritevoli. In tale decisione la Corte, nel fare propria una lettura fortemente evolutiva dell’istituto, ha posto in rilievo che l’adozione di soggetti maggiorenni, divenuta strumento duttile e sensibile alle sollecitazioni della società, in cui assumono crescente rilevanza i profili personalistici accanto a quelli patrimoniali, è ora volta a suggellare legami affettivo-solidaristici che, consolidatisi nel tempo e preesistenti al riconoscimento giuridico, sono rappresentativi dell’identità dell’individuo.
E ancora, come non ricordare la sentenza n. 79 del 2022, che ha riconosciuto l’incidenza dei rapporti affettivi sull’identità personale, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 55 della legge n. 184 nella parte in cui prevede che l’adozione particolare non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante?
Infine, la possibilità dell’adozione particolare del figlio del convivente, pacificamente riconosciuta nella elaborazione giurisprudenziale, si fonda sulla esigenza di continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante e adottato.
Ed è lo stesso principio del best interest of the child, che costituisce la stella polare che illumina l’intero diritto di famiglia, a richiamare un’idea di benessere del minore strettamente legato all’accoglienza, alla cura amorevole, all’ascolto.
Per quanto concerne il rapporto tra adulti, se pure è vero che non può ravvisarsi in via generale un diritto soggettivo all’amore, va per contro considerato che nella relazione tra i coniugi il dovere sancito dall’art. 143 c.c. di assistenza morale e materiale coinvolge chiaramente la dinamica degli affetti. Il dovere previsto dalla norma richiamata è ispirato ad una reciprocità che ha il suo fondamento nel principio di eguaglianza, secondo la logica paritaria ispiratrice della riforma del 1975, finalmente preminente rispetto ai cascami proprietari e gerarchici del passato e affrancato da obblighi che sancivano diseguaglianza e discriminazione.
Coerentemente, l’attuale configurazione della separazione personale tra i coniugi quale rimedio ad una prosecuzione della convivenza divenuta intollerabile esprime a termini invertiti la visione di una convivenza matrimoniale fondata su un rapporto di cura, di assistenza e di reciproco scambio: ove tale tensione affettiva venga meno può soccorrere la separazione.
Allo stesso tempo si delinea il riconoscimento del dato di realtà che il matrimonio non è l’unico luogo in cui riconoscere spazio all’amore, perché il mondo degli affetti può svilupparsi anche fuori da quel recinto. Se in passato il diritto aveva ingabbiato l’amore nell’unico perimetro del matrimonio, rigidamente regolamentato nelle sue componenti, nelle sue finalità e nella configurazione dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi, ora l’amore riceve legittimazione e tutela anche in altri spazi. Soccorrono al riguardo l’istituto dell’unione civile, che consente alle coppie omosessuali di liberare l’amore all’interno di una nuova categoria giuridica, superando stigmatizzazioni e discriminazioni fortemente avvertite in passato, ma ancora esistenti nel comune sentire, e quello della convivenza di fatto, che il comma 36 dell’art. 1 della legge n. 76 del 2016 identifica con la convivenza tra due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale: una convivenza che non può più essere intesa come uno stato transitorio, ma integra un diverso modello di famiglia in cui si dispiega la dinamica degli affetti e che nella sua stessa denominazione si contrappone a quella di diritto fondata su un riconoscimento formale.
Mettere al centro dell’ordinamento non già il vincolo matrimoniale, ma la qualità della relazione di coppia vuol dire riconoscere cittadinanza al diritto d’amore; disciplinare con la legge Cirinnà le unioni civili vuol dire affrancare in via definitiva quell’amore che non osa dire il suo nome amaramente evocato da Oscar Wilde.
È stato in questa sede ricordato che la Corte EDU fin dalla sentenza del 2010 Oliari e altri c. Italia ha operato un significativo avvicinamento tra diritti delle coppie coniugate e diritti delle coppie omosessuali, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla vita familiaredall’art. 8 della Convenzione.
L’art. 12 della CEDU e l’art. 9 della Carta di Nizza riconoscono ad ogni persona il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia, tenendo ben distinti i due diritti e al tempo stesso parificando le diverse forme di costituzione del nucleo familiare.
Non può al riguardo non farsi riferimento alla recente sentenza delle Sezioni Unite n. 35969 del 2023, che ha ritenuto la rilevanza, ai fini della determinazione della durata del rapporto in tema di assegno ai sensi dell’art. 5, comma 6, della legge sul divorzio, della convivenza di fatto precedente la formalizzazione dell’unione, in quanto espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole da equiparare al rapporto formale, quale sua coerente anticipazione.
E ancora va ricordato che con la recentissima ordinanza n. 1900 del 2024 le Sezioni Unite hanno sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 230 bis c.c. lì dove non include il convivente more uxorio tra i soggetti titolari dei diritti di mantenimento e partecipazione agli utili dell’impresa familiare.
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Per quanto attiene al rapporto tra diritto penale e diritto d’amore, sul quale si è soffermato Antonio Balsamo, è agevole constatare che nel linguaggio del legislatore penale è frequente il riferimento al mondo dei sentimenti, così da far emergere una stretta connessione tra la normativa penalistica e la dimensione affettiva. Già nel 1972 Angelo Falzea poneva l’accento sulla rilevanza della sfera delle emozioni e dei sentimenti nel sistema penale.
È immediata l’evocazione di concetti come il sentimento religioso, la pietà dei defunti, l’onore, il pudore, l’amore per gli animali, la nuova fattispecie di reato degli atti persecutori (art. 612 bis c.p.), o anche l’indicazione degli stati emotivi e passionali come non escludenti né diminuenti l’imputabilità (art. 90 c.p.), o ancora la previsione della reazione in stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui come circostanza attenuante comune (art. 62 n.2 c.p.). È altrettanto immediata la riflessione che alcune di tali previsioni hanno a che fare con l’amore malato, quello che concepisce la persona amata come oggetto di possesso esclusivo, che ne comprime ogni spazio di libertà e che si esprime anche con condotte violente, fino al femminicidio.
Poi c’è il mondo della pena e dei diritti dei detenuti. Scrive in un bell’articolo di stampa Natalino Irti che la dignitas poenae è una forma di dignitas curae: vedere il reo dietro il reato vuol dire passare dall’oggettività tecnico strumentale della privazione della libertà alla soggettività del dolore.
È stata pubblicata oggi la sentenza n. 10 del 2024 della Corte Costituzionale che, in accoglimento dell’eccezione proposta nella bella ordinanza del magistrato di sorveglianza di Spoleto, ha riconosciuto il diritto all’affettività delle persone detenute, rilevando che l’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive delle persone in tutte le formazioni sociali in cui esse si esprimono e che lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima, ma non può annullarla in radice. Il superamento del limite concreto entro il quale lo stato detentivo può giustificare la compressione di tale libertà è costituzionalmente ingiustificabile, in quanto si risolve in un sacrificio irragionevole della dignità della persona.
Si è inoltre fatto riferimento alla giustizia riparativa, nella sua nobile funzione di ricostruzione o costruzione di un rapporto fecondo tra autore del reato e vittima fondato sul rispetto reciproco e sull’ascolto.
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Il tema del rapporto tra amore e biodiritto, affidato a Roberto Conti, apre spazi sconfinati alla riflessione su amore e nuove forme di genitorialità, su amore e diritto a non soffrire, su amore e fine della vita. Attraverso il richiamo al concetto di mobilità la prospettiva si allarga alla disciplina vigente in altri ordinamenti e alle problematiche che dalle differenti normative possono scaturire, nonché alle giurisprudenze straniere al riguardo, che hanno progressivamente assunto un’importanza decisiva sul piano interno nella configurazione di diritti e di strumenti di tutela.
E invero il metodo comparatistico costituisce da tempo un fondamentale criterio ermeneutico per interpretare, adattare e completare il diritto interno, specie quando questo appaia poco chiaro o lacunoso. L’apertura al diritto internazionale e sovranazionale consente infatti di utilizzare la comparazione come strumento di ridefinizione di istituti di diritto nazionale, tanto più ove siano in discussione diritti fondamentali e valori di dimensione universale.
Per questa via la giurisdizione si apre a fenomeni regolati in altri ordinamenti e non disciplinati dal nostro: si tratta allora di verificare se la normativa straniera o ultranazionale possa trovare applicazione o debba essere impedita nell’ordinamento interno, se i provvedimenti adottati fuori del sistema nazionale possano essere riconosciuti o debbano essere respinti nel nostro Paese. Si tratta al tempo stesso di verificare se la disciplina interna sia conforme al complesso di valori che attingono dalla Costituzione e dalle Carte dei diritti fondamentali.
Il pensiero va alle pratiche di fecondazione assistita e al fenomeno della gestazione per altri, alla possibilità di configurare nel nostro ordinamento il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Il relatore ha ancora ricordato quanto ha a che fare con l’amore il ruolo dei familiari nella scelta o nel rifiuto delle cure mediche e il diritto del malato a non soffrire, inteso il dolore come malattia in sé e come attentato alla sua dignità.
E ancora vi è la delicatissima materia del suicidio assistito, che chiama in causa i sentimenti del soggetto infermo e di chi lo assiste, in nome di una solidarietà che esige comprensione, vicinanza, condivisione, empatia.
È notizia dell’altro ieri che il gip del Tribunale di Firenze, nella persistente latitanza del legislatore, pur sollecitato più volte dalla Corte costituzionale, ha sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui prevede, a seguito della sentenza della stessa Corte n. 242 del 2019, che la non punibilità di chi agevola il suicidio sia subordinata, tra l’altro, alla condizione dell’essere tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale. La Corte delle leggi sarà quindi chiamata a tornare su se stessa, valutando la legittimità costituzionale di una norma modificata dalla stessa Corte in una precedente sentenza, appunto per supplire all’assenza del Parlamento.
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Il tema del rapporto tra diritto d’amore, convivenza e amicizia ha riguardato le convivenze caratterizzate da legami diversi da quelli tradizionali, fondate sull’amicizia e sulla solidarietà. Il professor Morozzo della Rocca ha illustrato il fenomeno delle convivenze solidali, previste dalla legge catalana, e ne ha evidenziato le forti potenzialità, con particolare riguardo alle esigenze delle persone anziane, in quanto praticate con maggiore frequenza da tale fascia di popolazione. Si tratta di forme di convivenza stabile caratterizzate da spontaneità, e quindi non fondate su rapporti di servizio o di lavoro, che non realizzano una famiglia né una parafamiglia, ma si risolvono in mere formazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità degli individui.
I gravi problemi connessi all’invecchiamento della società italiana e le criticità del nostro sistema di welfare hanno indotto anche nel nostro Paese varie organizzazioni a promuovere e sperimentare tale modello di convivenza, allo scopo non solo di alleviare difficoltà economiche, ma anche di superare problemi di solitudine e trovare nuovi spazi di convivialità.
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Quanto infine al rapporto tra diritto d’amore e diritto processuale civile, il professor Danovi ha posto in evidenza l’apparente dicotomia e inconciliabilità tra le due tematiche, stante la rigidità delle forme che regolano il processo, ma ha osservato che tale dicotomia è solo apparente, atteso che anche nel processo si aprono spazi alla sfera dei sentimenti e dell’emotività, occupandosi pure il processo dell’amore e delle sue patologie sia nel suo svolgimento sia nella decisione finale.
Il richiamo è ai poteri anche officiosi del giudice in materia di scelte di fine vita, di tutela dei minori e degli incapaci, di affidamento dei figli nei casi di separazione e divorzio, o ancora di scelta dell’amministratore di sostegno e di definizione dei suoi poteri. Appare più in generale legittimo il riferimento alla materia della volontaria giurisdizione, nella sua funzione non già di risoluzione di conflitti, ma di composizione di interessi: e invero l’intervento di un giudice, soggetto terzo e imparziale, che collabora con le parti per la costituzione di un rapporto giuridico, specie ove si tratti di decisioni incidenti sullo stato delle persone, deve rivolgersi a soluzioni attente anche alla tutela dei sentimenti.
E ancora viene in gioco il ruolo del pubblico ministero nel processo civile, portatore di interessi diversi da quelli in conflitto delle parti.
Il relatore ha inoltre evocato la disciplina dell’ascolto del minore, che deve in ogni caso essere condotto nel segno del rispetto e in modo da evitare una sovraesposizione emotiva del fanciullo, nonché il ruolo del curatore (speciale e non) del minore nella recente riforma Cartabia.
È importante anche il richiamo alla nuova negoziazione assistita in materia familiare, che ha aperto spazi in passato inimmaginabili all’autonomia delle parti, promuovendo una cultura e una gestione della crisi familiare fondata non più sul conflitto, ma sulla composizione degli interessi e sul contemperamento delle diverse esigenze affettive.
In questa chiave di lettura della dinamica processuale il relatore ha conclusivamente e forse provocatoriamente stimolato ad intendere finanche il contraddittorio come atto d’amore, in quanto proposizione di tesi contrapposte nel segno del rispetto e dell’ascolto.
3. Dunque tanti spunti di riflessione, che muovendo da punti di partenza diversi ed evidenziando i molteplici momenti di emersione dell’amore rispetto al diritto, hanno posto il diritto d’amore come elemento unificante del sistema, restituendo alla sfera dei sentimenti, attraverso la forza di un pensiero che mai si accontenta (Paul Hazard), spazi sterminati di rilevanza.
(Immagine: Agostino Carracci, Omnia Vincit Amor, incisione, 1599, Metropolitan Museum of Art)
Qualche annotazione comparata sulla pronuncia di inammissibilità per difetto assoluto di giurisdizione nel primo caso di Climate Change Litigation in Italia
(in nota a Trib. Roma 6 marzo 2024)
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario. 1. Introduzione. – 2. Due osservazioni su contenzioso climatico e i suoi effetti. – 3. Il precedente “Urgenda” e la responsabilità civile dello Stato per fatto illecito. 3.1. Fatto illecito e violazione dei diritti umani. – 4. “Urgenda”, “Juliana”, e la soluzione alla “questione politica”. – 4.1. – Un breve appunto critico. - 5. La vicenda italiana. Le argomentazioni degli attori. – 5.1. (Segue). Responsabilità del custode e “Public Trust Doctrine”. – 6. Insindacabilità della questione e difetto assoluto (e relativo) di giurisdizione.
1. Introduzione
Con sentenza pubblicata il 6 marzo 2024, il Tribunale di Roma, seconda sez. civ., ha dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione il cd. “Giudizio Universale”, il primo - ma non l’unico - caso di contenzioso climatico (Climate Change Litigation) in Italia[1].
Il 5 giugno 2021, gli attori – tra i molti, l’associazione “A Sud Ecologia e Cooperazione OdV” – hanno citato in giudizio lo Stato italiano – per esso, la Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del Consiglio – mediante un’azione, in via principale, di responsabilità civile ex art. 2043 c.c. (e in via subordinata ad altri titoli), per l’inerzia di questo nell’affrontare adeguatamente a livello politico-normativo generale il problema del cambiamento climatico. In particolare, le associazioni lamentavano, tra le altre cose, l’insufficienza, alla luce di tutto un vasto contesto giuridico sovranazionale e scientifico, del “Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030” (cd. P.N.I.E.C., atto ministeriale e quindi di livello infra-legislativo). Secondo gli attori, questa programmazione comporterebbe una riduzione del 36 per cento delle emissioni generali di gas ad effetto serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, una percentuale considerata inadeguata per far fronte dell’emergenza. Veniva quindi chiesto al Tribunale (a) di dichiarare lo Stato responsabile civilmente a causa dall’inerzia nell’adottare obiettivi climatici più ambiziosi e «per l’effetto» (b) condannarlo a titolo di risarcimento del danno in forma specifica (art. 2058 c.c.) a adottare ogni misura necessaria per la riduzione del 92 per cento delle emissioni annuali entro il 2030.
L’Avvocatura Generale dello Stato ha eccepito per prima cosa il difetto assoluto di giurisdizione per essere la questione, così come formulata, riservata all’esclusiva gestione del potere politico. Il Tribunale, esaminata subito (in quanto logicamente pregiudiziale) questa eccezione di rito, la accoglie e, senza entrare nel merito delle pretese, pronuncia ex art. 37 c.p.c. il difetto assoluto di giurisdizione in relazione alla domanda risarcitoria, per non essere questa conoscibile da alcun giudice (pronuncia alla quale si accompagna quella del difetto relativo di giurisdizione, in ordine al solo ed eventuale sindacato di legittimità del P.N.I.E.C., per essere questa valutazione, nei termini indicati dal Tribunale, devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo).
2. Due osservazioni su contenzioso climatico e i suoi effetti
L’iniziativa processuale si inserisce nella già consolidata corrente globale della Climate Change Litigation, fenomeno di sempre maggior centralità nell’attuale governance internazionale ed europea di contrasto al cambiamento climatico[2]. In particolare, il caso italiano si innesta in quel numeroso insieme di processi civili intentati contro gli Stati – distinti da quelli intentati contro le imprese, soprattutto contro le cd. Carbon Majors, i grandi inquinatori del pianeta, ma anche, secondo sviluppi emergenti, contro istituti di credito[3] - con il fine di far dichiarare la loro responsabilità nella contribuzione al cambiamento climatico e ottenere una condanna specifica a un taglio delle emissioni (o a uno stop degli investimenti in imprese fortemente inquinanti, nel caso del contenzioso contro banche).
Questa tendenza nasce dalla sconsolata presa d’atto della incapacità, mancanza di volontà, o impotenza del potere politico nel prendere, e soprattutto tradurre in pratica, drastiche e immediate misure per mitigare l’aumento globale delle temperature. Ricorrere al potere giudiziario è quindi una strategia, che unisce scopi giuridici diretti e fini politici (nel senso di policy) indiretti, per vincere l’inazione dei soggetti – Stati o imprese - che più sono responsabili dell’immissione di gas climalteranti nell’atmosfera terrestre.
A questo proposito, mia siano consentite due riflessioni dal carattere generale:
(1) Da un punto di vista giuridico, il fenomeno induce a riflettere in maniera critica sulla misura e i limiti in cui il potere giurisdizionale può prendere decisioni che incidono su questioni che sono, a causa della rosa di interessi coinvolti e conseguenze a cascata, naturaliter politiche (o economico-imprenditoriali, nel caso del contenzioso contro imprese), i cui effetti possono non tener adeguatamente conto delle ricadute di sistema, e che pur ritengo siano importanti da calcolare. L’attività di risoluzione di un conflitto mediante l’applicazione del diritto a determinati fatti – ossia, ciò che una corte fa – ha per definizione un raggio di azione più circoscritto rispetto alla decisione politica. I confini del giudice sono quelli del caso ed egli non può (nel senso che non è attrezzato istituzionalmente) né comporre politicamente gli interessi in gioco né porsi il problema delle ripercussioni della propria decisione su altre sfere sociali.
Questa osservazione critica è acuita dalla vicenda in commento, data l’altissima percentuale di riduzione delle immissioni richiesta dagli attori e la brevità del periodo di azione (un taglio del 92 per cento annuale rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030), anche se la concreta percentuale in sé non è comunque il punto centrale. A prescindere dal tema – che pure considero d’importanza capitale - della legittimazione democratica delle decisioni concernenti le policies ambientali, l’ipotetico accoglimento da parte del potere giudiziario della domanda avrebbe posto con tutta l’evidenza possibile le questioni (a) della fattibilità pratica, dalla prospettiva tecnico-politica, del rispetto degli ordini giudiziali di riduzione secondo determinate percentuali delle emissioni (fattibilità della quale, nel caso italiano, è lecito dubitare), e quindi (b) della concreta coercibilità di tali obblighi, soprattutto quando il destinatario è lo Stato e questo si dimostri inadempiente (coercibilità della quale mi sembra parimenti lecito dubitare[4]), e (c) della valutazione, da parte delle corti stesse, della bontà, effettività ed efficacia delle misure messe in campo ai fini dell’adempimento. Tutti questi aspetti a me paiono assolutamente cruciali se vogliamo collocare la discussione su un piano giuridico e mi suggeriscono l’adozione di un mix di cautela e realismo nelle valutazioni.
(2) Quanto appena detto prescinde del tutto dagli effetti extragiuridici del contenzioso climatico cd. “strategico” (strategic litigation). Questi effetti di sensibilizzazione e mobilitazione dell’opinione pubblica, che si ottengono anche in caso di sconfitta, sono anzi spesso ricercati dai ricorrenti in via prioritaria[5]. Ci troviamo quindi di fronte a una funzione – che anch’essa può e deve essere pensata criticamente sine ira et studio - dello strumento processuale civile come pungolo e segnalazione, essenzialmente nei confronti del potere politico, di una sofferenza nel corpo sociale che deve essere affrontata con tutta la serietà possibile[6].
3. Il precedente “Urgenda” e la responsabilità civile dello Stato per fatto illecito
Nonostante siano presenti alcune differenze, il precedente immediato e naturale per il caso che qui si commenta è la celeberrima vicenda “Urgenda vs. Paesi Bassi”, ricordata, seppur velocemente, anche nella motivazione della sentenza italiana (il che indica, tra parentesi, un “dialogo transnazionale tra corti”, la presenza di una community of courts – quanto meno European - su molti temi comuni, tra questi sicuramente quello del cambiamento climatico). Il “Santo Graal” - come è stato definito - di tutte le iniziative processual-climatiche successive[7].
Non è possibile qui esaminare a fondo il caso “Urgenda” nelle sue innumerevoli implicazioni teorico-giuridiche, politiche, economiche. Vorrei limitarmi qui a metterne in luce un punto cruciale, che è in comune con la controversia italiana, e cioè che gli attori olandesi che hanno adito il giudice ordinario lo hanno fatto con il proposito di ottenere in primo luogo una condanna civile dello Stato olandese a fare di più, ad essere più ambizioso a livello normativo, secondo le regole generali che disciplinano la responsabilità civile extracontrattuale. Salvo quanto dirò più avanti sul ruolo giocato dai diritti umani (v. in questo Par., in fine), gli attori olandesi non hanno tanto inteso asserire l’illegittimità della normativa interna per contrarietà alla Costituzione o per contrarietà a impegni cogenti assunti dallo Stato sul piano internazionale, ma in primis l’antigiuridicità dell’ “inerzia normativa” dal punto di vista del diritto privato. Questo è un elemento importante da sottolineare: nella climate change litigation, sia contro Stati sia contro imprese, spesso il diritto privato è utilizzato strumentalmente come “meccanismo regolatorio” per provocare un cambiamento nelle politiche pubbliche o aziendali, valevoli a larga scala[8].
Nel dettaglio, Urgenda et al. hanno citato in giudizio lo Stato sul presupposto che omettere di fortificare, intensificare gli obiettivi della legislazione vigente contro il cambiamento climatico fosse un comportamento contrario all’art. 162 del Libro 6° del Codice civile olandese – il corrispettivo del nostro art. 2043 c.c. – il quale stabilisce, in via generalissima e valevole per tutti i soggetti dell’ordinamento (Stato compreso) che colui che causa con colpa ad altri un danno ingiusto deve ripararlo (e quindi, ovviamente e in prima battuta, deve smettere di causarlo; cd. inibitoria)[9]. La sentenza di primo grado del Tribunale de L’Aja, che ha dato ragione agli attori, per esprimere quest’obbligazione civile dello Stato di non (continuare a) causare danni ingiusti attraverso una legislazione considerata troppo morbida, fa riferimento più volte al “duty of care”, un concetto che in origine appartiene alle categorie tradizionali della responsabilità civile per colpa (tort of negligence) dei Paesi di common law, ma che ha assunto, nel linguaggio giuridico globale, una valenza più generica e universale. Semplificando: con duty of care non s’intende null’altro che quel “dovere di cura” – “dovere di attenzione”, potremmo anche dire - che tutti i soggetti dell’ordinamento, incluso lo Stato, si devono gli uni agli altri reciprocamente (cd. principio del neminem o alterum non laedere)[10]. Tale dovere richiede che in tutte le attività intraprese ci si conformi a certi standard di condotta ragionevoli, anche al di là degli stretti obblighi di legge, e il cui mancato rispetto può dar luogo a responsabilità nel caso in cui si provochi un danno ingiusto. Nelle categorie di civil law e nel linguaggio del giurista italiano tutto questo ragionamento entra a comporre la nozione di colpa, per cui affermiamo che è colpevole (nel senso di non diligente, negligente) l’azione di quel soggetto che, pur sapendo (o dovendo sapere) che il proprio agire non rispetta certi standard di condotta comunemente accettati dalla propria comunità di appartenenza (pratiche consolidate, buone norme, direttive, regole soft, le migliori indicazioni tecnico-scientifiche, indirizzi condivisi, e via discorrendo), ebbene, nonostante ciò continui a porre in essere il comportamento. La citata disposizione del Codice civile olandese esprime tutto ciò richiamandosi al rispetto delle “rules of unwritten law” («ongeschreven recht», art. 6:162, comma 2), quelle regole non scritte alle quali ognuno deve adeguarsi, se vuole esser esente da colpa[11].
La sentenza di primo grado (24 giugno 2015) accettò questa lettura[12]. I Paesi Bassi, continuando ad avere una legislazione poco ambiziosa, non in linea con gli obiettivi di contenimento delle temperature ricercati negli accordi internazionali e in disarmonia con le indicazioni scientifiche (atti che – si noti - sono in gran parte, o nella loro totalità, di soft law), stanno causando – o causeranno irreversibilmente – con colpa un danno ingiusto, quantomeno ai propri residenti. Danno ingiusto perché va a vulnerare quel diritto fondamentale a vivere in un “clima stabile” o in un clima “compatibile con una buona vita umana”[13]. Lo Stato sarebbe venuto meno al suo duty of care. È negligente perché non ha conformato la propria azione legislativa a quello “standard non scritto” di diligenza normativa, quando invece avrebbe dovuto farlo. La sua è una “colpa omissiva”. Ma come si è dato contenuto a questo “standard non scritto”? Attraverso la Costituzione olandese, gli artt. 2 e 8 della C.E.D.U. (v. anche infra), la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e i principi che ne formano parte, gli Accordi di Parigi, e soprattutto attraverso i reports scientifici dell’IPCC. Tutta questa mole di atti e documenti, dalla natura tra loro diversissima, hanno avuto un ruolo per così dire “determinativo”, nel senso che riempiono e danno contenuto effettivo e tangibile all’altrimenti indefinibile requisito del “dovere di cura”. Il loro effetto - nel ragionamento del Tribunale di primo grado de L’Aja - è quindi indiretto, mediato, giacché definiscono la doverosità dell’azione entrando attraverso la porta lasciata aperta dalla disposizione general-generica del principio del neminem laedere (si potrebbe anche dire che ciò che è soft è divenuto hard attraverso la clausola generale della responsabilità civile).
Alla luce di tutto ciò, il Tribunale di primo grado ha condannato con sentenza immediatamente esecutiva lo Stato a diminuire (un facere infungibile) le emissioni annuali di gas climalteranti all’interno dei propri confini di una percentuale fissata dai giudici del 25 per centro entro il 2020 e del 40 per cento entro il 2030 (considerati un “fair share”), valori maggiori di quelli che la legislazione del Paese aveva sovranamente fissato.
3.1. (Segue). Fatto illecito e violazione dei diritti umani
È noto che la sentenza è stata poi confermata sia in secondo grado (9 ottobre 2018) sia dal Tribunale Supremo (20 dicembre 2019), ma con una piega argomentativa differente, che merita essere ben enfatizzata[14]. Pur riconoscendo in via del tutto generale l’esistenza di un “dovere di cura”, fondato sulle categorie civilistiche, dello Stato verso i propri cittadini, le Corti di secondo e ultimo grado hanno giustificato la condanna sulla base prioritaria della violazione diretta da parte dei Paesi Bassi dei diritti umani riconosciuti dalla C.E.D.U. (ragionamento che invece il giudice di prime cure aveva escluso), e concretamente l’art. 2 (“diritto alla vita”) e l’art. 8 (“diritto alla vita privata e famigliare”), senza dilungarsi sulla configurabilità o meno di un tort da parte dello Stato. Vi è stato pertanto un passaggio dal tort ai human rights[15]. È quest’ultima base – ritengo – quella destinata ad aver maggior peso e successo nelle iniziative future di climate litigation, soprattutto contro gli Stati. Su questo preciso punto di diritto, infatti, si è recentissimamente espressa a favore la Corte E.D.U. (Grand Chamber) nel caso KlimaSeniorinnen vs. Switzerland, riconoscendo la violazione diretta dell’art. 8 della Convenzione (“diritto alla vita privata e famigliare”) nel comportamento dello Stato svizzero irrispettoso degli obblighi climatici di mitigazione[16]. La vicenda merita un approfondimento a parte, ma è indubbio fin da ora che l’argomentazione basata sulla violazione diretta di un diritto umano (human-right based) avrà una preminenza speciale.
4. “Urgenda”, “Juliana” e la soluzione alla “questione politica”
Si intuisce come questi processi pongano tutta una serie di difficoltà di “traducibilità” del fenomeno del cambiamento climatico nelle categorie tipiche del diritto privato (diritto soggettivo, ingiustizia del danno, colpa, nesso causale) e, di riflesso, del diritto processuale civile (legittimazione attiva e passiva, prova, mezzi di coazione del comportamento), con le quali i giuristi di molte giurisdizioni e latitudini sono soliti lavorare. Difficoltà che certo non sono insuperabili e anzi devono esserlo (sono dell’opinione che è il diritto che deve adattarsi ai bisogni che di volta in volta sorgono nel corpo sociale, e non viceversa; è il diritto al servizio della vita, non la vita a servizio del primo), ma che non possono nemmeno essere liquidati come cavillosi nonsense[17].
A monte, però, l’elemento giuridico-politico di maggior peso nel caso “Urgenda” è un altro, e che è risultato dirimente anche nella decisione italiana, almeno per ora. È legittimamente pronunciabile da parte di una corte (ordinaria) una condanna dello Stato a fare di più, ad avere una legislazione più ambiziosa, con l’indicazione di precise percentuali di raggiungimento, oppure un tale ordine sconfina nell’attività politica in senso stretto? E come si può tentare di tracciare (con quali criteri) il discrimine, che è certo mobile, non nitido, tra ambito della decisione politica (creazione di diritto) e ambito della decisione giurisdizionale (applicazione di diritto), tra legittimo dominio della legislation e legittimo dominio dell’adjudication?
A questo proposito, sempre nell’ottica di un contributo comparato, davvero interessante sarebbe anche la lettura dell’altro leading case, ancora pendente negli Stati Uniti, che ha posto con forza questo tema dei limiti del controllo giurisdizionale sulle politiche energetiche di uno Stato (in quel caso, dell’amministrazione federale) alla luce dell’emergenza climatica. Mi riferisco alla saga Juliana vs. United States[18]. Non è questa la sede per addentrarci negli infiniti rivoli di una battaglia processuale complessissima e dal percorso tutt’altro che lineare. Mi basta qui solo rilevare come il problema del se questa questione sia riservata al potere politico o no - cd. “political question doctrine” – è ancora in questo momento il principale terreno di scontro. In un primo tempo, la corte federale di primo grado (Stato dell’Oregon) aveva deciso per il no (cioè: la questione non è inerentemente ed esclusivamente politica e quindi può essere decisa da un giudice); in seguito la corte d’appello federale (Ninth Circuit) ha ribaltato la decisione e propeso, con una maggioranza di due a uno, per il sì (ossia: il processo deve fermarsi per “difetto assoluto di giurisdizione”); infine di nuovo la corte di primo grado ha ribadito il proprio no, quando gli attori, nel frattempo, si sono limitati a chiedere un provvedimento meramente dichiarativo (declaratory judgment) dell’illiceità delle politiche, e non anche una vera e reale condanna dello Stato alla revisione dei piani energetici, come invece era stato chiesto all’inizio (una differenza non da poco).
Torniamo al più vicino caso Urgenda. Il governo olandese ha reiterato l’eccezione di “politicità” della questione in tutti e tre i gradi di giudizio. Secondo questo, un’eventuale decisione condannatoria nei confronti dello Stato, da parte di un giudice, al raggiungimento di certi obiettivi climatici precisi, anche senza l’indicazione dei mezzi per conquistarli, si porrebbe in contrasto con il principio della separazione dei poteri (o principio dei “trias politica”, come dice la Corte), pilastro dei moderni regimi democratici.
Vale la pena leggere le argomentazioni con le quali i giudici olandesi si sono liberati di questa eccezione[19]. Nella sentenza del Tribunale di primo grado (Sez. E, punto 4.95) si legge testualmente che nei Paesi Bassi non vi è una “totale separazione” (“full separation”; “volledige scheiding”) tra i poteri dello Stato, in questo caso esecutivo e giudiziario. La distribuzione delle funzioni tra questi è piuttosto orientata a ottenere un “bilanciamento” (“balance”; “evenwicht”), di modo che nessuno dei tre assuma una primazia sopra gli altri. Ciascuno quindi ha una propria area di doveri e responsabilità. Rientra tra le funzioni del potere giudiziario, talvolta sotto forma potere, talaltra di dovere, valutare le azioni della politica, sotto il profilo della loro “legalità” (“lawfulness”; “rechtmatigheidsoordeel”). Questo controllo – prosegue il Tribunale – non è un controllo politico, ma deve limitarsi all’“applicazione del diritto” (“application of law”; “de toepassing van het recht”). Ciò comporta che le corti devono esercitare “grande cautela”, “grande moderazione” (“great caution”; “grote terughoudendheid”) quando si tratta di decisioni che implicano anche considerazioni d’ordine politico (“policy-related questions”; “beleidsmatige afwegingen”), che si riflettono, cioè, su una molteplicità d’interessi e sulla “struttura e organizzazione della società”. Detto ciò (punto 4.98), la Corte conclude che la controversia presentata all’attenzione è decidibile.
Qui vediamo che il Tribunale introduce una distinzione sfuggentissima – che è poi anche centrale nel caso “Juliana” – tra questioni che probabilmente, o anzi di sicuro, avranno una ricaduta politica (il che non impedisce a una corte di deciderle) e questioni che sono soltanto, o inerentemente, politiche (espressione d’indirizzo politico; in “Juliana” si fa l’esempio della scelta di uno Stato di entrare in guerra). Secondo il Tribunale dell’Aja rientrerebbero tra queste (punto 4.101) solo le concrete determinazioni di comeraggiungere il risultato finale giudizialmente obbligato, ma non l’obiettivo finale di riduzione. Lo Stato – precisa il provvedimento, prima di pronunciare la condanna definitiva – avrà quindi assoluta libertà (“full freedom”; “de volle… vrijheid”) di portare aventi le misure legislative che meglio crede. Soltanto in questo spazio può muoversi la libertà del potere politico e solo in questa auto-limitazione dei giudici si manifesta quella “moderazione” (“terughoudendheid”) della Corte nell’esercizio dei poteri affidati dalla legge.
4.1. (Segue). Un breve appunto critico
Questa parte della motivazione è senza dubbio molto ben argomentata, ma lungi dall’essere esente da problemi nella sostanza.
Innanzitutto, è del tutto evidente la porosità della demarcazione tra temi che hanno anche ricadute politiche e temi che sono soltanto politici. Credo che pochi negherebbero la presenza di una componente fortemente discrezionale nel delineare questa linea di confine. Di certo ciò non scandalizza coloro che adottano un approccio realista. Ciò però comporta – e dirlo con chiarezza non mi sembra affatto banale - che esista una zona grigia di potere che gli organi giurisdizionali possono occupare, oppure no, la quale non è determinabile con criteri oggettivi (i.e., puramente giuridici). Non si nega che esista una differenza tra ambito legittimo della decisione giudiziale e un (ristretto) ambito politico insindacabile; anzi, nella maggior parte dei casi questo dilemma non si pone nemmeno, perché risulta chiaro dove una certa questione si posiziona. Qui invece si afferma, realisticamente, che vi sono alcuni casi difficili, hard cases – come quello in esame - dove la distinzione in parola è il prodotto di argomentazioni, più o meno buone, di circostanze storiche, di fattori contingenti e sociali o, nel peggiore dei casi, di un braccio di ferro tra poteri (debolezza dell’uno, forza dell’altro). In ogni caso, la linea è mutevole.
Di conseguenza, va problematizzata anche la distinzione, fatta propria dalla decisione Urgenda, tra pronuncia di un ordine finale relativo all’ottenimento di certe percentuali molto precise di riduzione delle emissioni (“ambito legittimo del potere giudiziario”) e le concrete modalità politico-legislative di raggiungimento delle stesse (“ambito legittimo del potere politico”). Tant’è che sia la Corte d’appello federale statunitense (Ninth Circuit) nel caso “Juliana”[20] sia anche, in Europa, il Tribunale di primo grado di Bruxelles nella vicenda analoga a Urgenda, ossia “Klimatzaak vs. Regno del Belgio” (17 giugno 2021)[21] hanno considerato non pronunciabili vere e proprie condanne in forma specifica nei confronti dello Stato, per sconfinamento in attività legislativa (anche se, in quest’ultimo caso, la Corte d’Appello di Bruxelles ha di recente ribaltato la decisione e emesso un provvedimento condannatorio[22]). Ha scritto la Corte d’Appello Federale nel caso Juliana che «it is beyond the power of a […] court to order, design, supervise, or implement the plaintiffs’ requested remedial plan», dato che «any effective plan would necessarily require a host of complex policy decisions entrusted, for better or worse, to the wisdom and discretion of the executive and legislative branches». Anche soltanto la fissazione di un obiettivo finale di riduzione «plainly require consideration of “competing social, political, and economic forces,” which must be made by the People’s elected representatives, rather than by federal judges interpreting the basic charter of Government for the entire country» (p. 25)[23]. Chi ha ragione? Da parte mia, arduo mi pare non vedere la componente valutativa, di scelta, di compromesso (e quindi politica) nella difficile determinazione delle percentuali, ma soltanto quella tecnico-scientifica, come se quest’ultima si presentasse come del tutto oggettivizzata nei dati.
5. La vicenda italiana. Le argomentazioni degli attori
Guardiamo ora il caso italiano. Lo Stato, esattamente come nel caso “Urgenda”, viene chiamato in giudizio sulla base principale dell’art. 2043 c.c., norma di diritto privato (cfr. Par. VI, att. cit.[24]). L’inerzia (normativa, legislativa, esecutiva) dell’Italia sarebbe foriera di un danno ingiusto, in quanto idonea di per sé a ledere, già da ora o comunque in un futuro ravvicinatissimo, un diritto fondamentale e personale tutelato quantomeno implicitamente a livello costituzionale e sovranazionale (il “diritto a vivere in un clima stabile e compatibile con la vita umana”); cosicché il potere pubblico sarebbe tenuto fin da subito a impedirne l’imminente e potenzialmente irreversibile accadimento. Dall’atto di citazione emerge che l’omissione dello Stato è considerata colposa nel senso in cui ci siamo già dilungati precedentemente: nonostante vi sia, da parte della autorità pubbliche, «piena conoscenza e assoluta consapevolezza» (VI.11, att. cit.) della gravità del fenomeno e di quello che sarebbe richiesto per evitare il danno, le misure necessarie non verrebbero ancora messe a regime. Queste sono ricavate da tutta la serie materiali internazionali ed europei enumerati nella prima parte della domanda (ancora una volta: la UNFCCC, gli Accordi di Parigi, i Reports dell’IPCC; v. IV.2), oltre, più in generale, alle acquisizioni scientifiche della comunità. A parere degli attori è soprattutto il non essersi conformato a queste ultime che va inteso come sintomo e manifestazione della negligenza dello Stato, idonea a fondare la sua responsabilità civile. Sarebbe un’applicazione della cd. “riserva di scienza” (VI.11), quale limite alla discrezionalità per il potere pubblico[25]. Come in “Urgenda”, tutto questo corpus politico-tecnico-scientifico entra a individualizzare la colpa, ex art. 2043 c.c., nell’omissione dello Stato.
Capiamo che gli attori hanno quindi inteso contestare l’intera politica energetica e ambientale italiana, vista nella sua generalità. Questa poi essenzialmente si esprime nei documenti programmatici del potere esecutivo, soprattutto il “Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima” (P.N.I.E.C., v. infra), atto congiunto ministeriale di programmazione, peraltro in questo momento in fase di aggiornamento. Secondo le valutazioni tecnico-scientifiche di Climate Analytics (una istituzione no-profit tedesca) allegate dagli attori (ma contestate dallo Stato convenuto), le misure contenute nel Piano porterebbero a una diminuzione solo del 36 per cento delle immissioni annuali, rispetto ai valori del 1990[26]. Gli attori, invece, richiedevano una diminuzione in una percentuale del 92 per cento «ovvero in quell’altra, maggiore o minore, in corso di causa accertanda». Evidenziamo che, invece, nessuna percentuale specifica era stata richiesta dai ricorrenti olandesi.
5.1. (Segue). Responsabilità del custode e “Public Trust Doctrine”
Una menzione merita il fatto che gli attori, in subordine, hanno argomentato la responsabilità dello Stato anche a un diverso titolo, ossia quello della responsabilità del custode per le «cose» che ha in custodia, exart. 2051 c.c. (tipico esempio, nel nostro ordinamento, di responsabilità oggettiva), cfr. VI.13, att. cit. Se ben colgo, il ragionamento è questo: la cosa custodita (in questa particolare accezione, l’atmosfera, il clima terrestre) è sul punto di causare un danno agli esseri umani (una violazione al diritto a vivere in un clima stabile); pertanto, se ne ricava che è responsabilità del custode (qui, lo Stato, colui che ha in custodia il clima, che ha ed esercita una disponibilità materiale su di esso) fare tutto ciò che è scientificamente possibile per impedire la materializzazione – imminente e certa, ancorché futura – del danno (salvo la prova del caso fortuito). Dall’art. 2051 c.c. viene desunto quindi un obbligo di prendersi cura della cosa, a beneficio di coloro che potrebbero venirne danneggiati. In questa custodia della “cosa-clima” sarebbe poi implicito anche un successivo “dovere di consegna” di questa alle generazioni future (VI.17, att. cit.).
Questo argomento non occupa la stessa centralità di quello dell’art. 2043 c.c. nel contesto della lite. Penso però sia importante citarlo perché, pur “creativo”, non è peregrino, giacché richiama alla mente – per accostamento – una dottrina spesso impiegata nelle iniziative di Climate Change Litigation negli Stati Uniti, e cioè quella della “public trust”. Questa dottrina è stata centrale, tra gli altri, nel caso statunitense “Juliana” a cui ho fatto riferimento poco fa ed è servita come colonna argomentativa nel provvedimento in cui la giudice federale di primo grado, Ann Aiken, nel 2016, ha ricavato un diritto al clima a partire dalla Costituzione americana[27]. In base a questa ricostruzione del common law, lo Stato sarebbe l’af-fidatario(il paradigma è quello fiducia, della consegna fiduciaria) e il gestore di certe risorse naturali essenziali, per conto non solo delle generazioni presenti, ma anche di quelle future. Il modello è quello del trust: lo Stato (l’amministrazione pubblica) deve agire come un trustee, che amministra i beni in suo possesso a beneficio della popolazione presente e di quella a venire (i settlors e i beneficiaries del trust, nella metafora), con lealtà, prudenza e saggezza, a maggior ragione in riferimento a quei “beni pubblici globali” (global commons, quali l’atmosfera) che non possono essere affidati alla governance privata[28].
La dottrina è elegante ed affascinante. Ma a patto di prestare attenzione ai rischi di semplificazioni eccessive, sempre insiti nelle metafore accattivanti, che possono far perdere di vista tutti gli scogli (d’ordine pratico, politico, tecnico, amministrativo), i vincoli (di tempo, di denaro) e le molteplici stratificazioni di competenze nella difficilissima arte dell’amministrazione della cosa pubblica.
6. Insindacabilità della questione e difetto assoluto (e relativo) di giurisdizione
Il Tribunale di Roma ha ravvisato il difetto assoluto di giurisdizione in relazione alla pretesa risarcitoria generale, accogliendo l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la richiesta così come costruita (cioè: illiceità della “scarsa ambizione normativa” perché lesiva di un diritto soggettivo a un clima stabile) implica per forza una valutazione d’ordine politico-legislativo, in quanto tale riservata, appunto, ai poteri esecutivo o legislativo. L’effetto empirico di questo giudizio – desume il Tribunale di Roma - si tradurrebbe in pratica in un ordine di legiferare in una determinata maniera, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. In effetti questa deduzione non si può negare. Né, nella sostanza, lo avevano negato le corti olandesi: solo che quelle, come abbiamo visto, avevano fatto rientrare la fissazione delle percentuali di riduzione quali limiti alla discrezionalità politica nell’alveo dei legittimi compiti del potere giurisdizionale, lasciando però intoccata, a mio avviso, tutta la portata problematica di una tale affermazione (v. supra).
Il Tribunale di Roma propende invece per la politicità della questione e pertanto per la sua insindacabilità da parte di qualsiasi giudice, anche amministrativo (difetto assoluto di giurisdizione). Nel far ciò, la motivazione cita le massime della Corte di cassazione – riportate nella loro astrattezza - che ravvisano il difetto assoluto quando manca «nell'ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio» e la domanda non è conoscibile «né in astratto, né in concreto, da alcun giudice». Vengono richiamati due precedenti: Cass. Sez. Un., Ord. n. 15601/2023 e Cass. Sez. U. Ord. n. 15058/2023. La prima, se andiamo a vedere bene, si riferisce al caso della contestazione portata da un gruppo di cittadini mediante azione popolare all’attenzione del giudice amministrativo relativa alla scelta di un Comune veneto di concedere la cittadinanza onoraria all’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro; contestazione quindi di un atto amministrativo, giudicata non giustiziabile per assenza di un “parametro giuridico” di valutazione[29]. La seconda si riferisce alla richiesta di risarcimento dei danni, avanzata davanti al giudice ordinario, derivanti dalla mera assenza di norme a tutela di specifici interessi di specifiche categorie di persone (nella fattispecie, la maternità delle donne avvocato): cd. danno da “inattività legislativa”, non configurabile. In entrambi questi casi la Suprema Corte ha ravvisato il difetto assoluto di giurisdizione.
Per avvallare poi la non esistenza (nel merito) di un diritto soggettivo azionabile “a una buona legislazione” o - nelle parole del Tribunale - di un «diritto soggettivo dei cittadini a un corretto esercizio del potere legislativo»[30] (fuori naturalmente delle diversissime doglianze di tipo costituzionale), la motivazione porta gli esempi del rigetto (nel merito) della richiesta di risarcimento dei danni a una Regione per aver promulgato una norma poi dichiarata incostituzionale (Cass. n. 23730/2016, cd. danno da “attività legislativa”) o della stessa richiesta, rivolta allo Stato, per mancata o tardiva trasposizione di una Direttiva (all’epoca) CEE (Cass. S.U. n.9147/2009: ma con l’importante specificazione in nota[31]).
Resta aperta, invece, come correttamente afferma il Tribunale, la possibilità di avanzare la puntuale doglianza del P.N.I.E.C., in quanto atto della pubblica amministrazione (ministeriale), davanti al giudice amministrativo, ma solo «sotto il profilo della adeguatezza, coerenza e ragionevolezza» rispetto agli obiettivi di riduzione già individuati a livello europeo. Ricordiamo che il P.N.I.E.C. è atto di pianificazione generale, disciplinato dal Reg. UE 2018/1999 (che prevede l’obiettivo finale della riduzione del 55 per cento delle immissioni entro il 2030), e la cui redazione e attuazione sono poste sotto la vigilanza della Commissione europea. Ora, la possibilità di ricorrere alla giustizia amministrativa per la contestazione dell’adeguatezza di atti dell’amministrazione in relazione al cambiamento climatico è già stata esplorata con successo nell’ordinamento francese più d’una volta. In particolare, nel 2022 il Conseil d'État parigino, su ricorso della piccola città costale di Grande-Synthe, ha condannato l’amministrazione centrale a intraprendere tutte le misure necessarie per assicurare il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle immissioni già fissati dalla legge interna (e quindi auto-assunti dallo Stato stesso) e dal diritto europeo[32]. Strada, questa, meno ambiziosa, se così si può dire, di quella qui tentata nel caso in commento - e cioè della contestazione globale e generale delle aspirazioni climatiche statali - in quanto l’ipotetico processo davanti al T.A.R. sarebbe necessariamente vincolato, per la natura stessa del giudizio di legittimità amministrativa, ai target già fissati dalle leggi interne e soprattutto dalla governance europea esistente: obiettivi che, invece, i ricorrenti, da quanto si ricava, intendevano proprio impugnare.
[1] La sentenza è reperibile online, tra gli altri in https://www.ambientediritto.it/wp-content/uploads/2024/03/Sentenza-causa-climatica-giudizio-universale-Tribunale-Ordinario-di-Roma-Seconda-sezione-civile-Causa-n.39415-2021.pdf. Dico che questo non è l’unico caso perché risulta al momento pendente la causa intentata il 9 maggio 2023, sempre presso Il Tribunale di Roma, da Greenpeace Onlus e ReCommon APS (e altri attori) contro ENI S.p.A. e i suoi due maggiori azionisti, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti S.p.A.
[2] Per una visione d’insieme che dà conto della complessità del fenomeno, cfr., recentissimamente, E. D’Alessandro, D. Castagno (a cura di), Reports & Essays on Climate Change Litigation (Quaderni del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino), Torino, 2024, interamente disponibile al link https://iris.unito.it/handle/2318/1956352. Con aderenza alla vicenda italiana, v. ancora le considerazioni di D. Castagno, Le procès pour l’environnement et le climat en droit italien: potentialités, limites et alternatives dans un cadre de contentieux «stratégiques», in Rev. Int. Droit Comp., 2023, 583 e seg. Per un’analisi che affronta le principali difficoltà dal punto di vista del diritto sostanziale e processuale, S. Vincre, A. Henke, Il contenzioso “climatico”: problemi e prospettive, in BioLaw Journal. Rivista di Biodiritto, 2023, 137 e seg. (disponibile all’indirizzo https://teseo.unitn.it/biolaw/article/view/2704). Dell’importanza della governance di tipo giudiziale nelle iniziative di contrasto al cambiamento climatico avevo parlato in Giabardo, Climate Change Litigation, State Responsibility and the Role of Courts in the Global Regime: Towards a “Judicial Governance” of Climate Change?, in B. Pozzo, V. Jacometti (a cura di), Environmental Loss and Damage in a Comparative Law Perspective, Intersentia, 2021, 393 e seg.
[3] Il caso più emblematico di contenzioso climatico contro imprese è Milieudefensie vs. Shell, deciso in Olanda in primo grado nel 2021 con la vittoria dell’associazione ambientalista (ora in grado d’appello). Altri casi al momento pendenti sono quelli contro ENI (in Italia), contro Total (in Francia), contro Holcim, uno dei maggiori produttori di cemento al mondo (in Svizzera), contro RWE, colosso dell’energia elettrica (in Germania). Per quanto riguarda il contenzioso climatico “bancario” – che ha caratteristiche sue proprie, seppur accostabili – si segnalano, in Europa, la controversia contro la Banca Nazionale del Belgio (dichiarata inammissibile) e quella contro BNP Paribas (pendente a Parigi), ed è già stata comunicata l’intenzione di agire contro ING (in Olanda).
[4] Problematicissimo, a mio avviso, l’uso di misure coercitive, in questa e in altre ipotesi simili.
[5] Pertanto, almeno in alcuni casi, forse non parlerei nemmeno di effetti “indiretti”. Sul fenomeno, G. Ganguly, J. Setzer, V. Heyvaert, If At First You Don’t Succeed: Suing Corporations for Climate Change, in Oxford Journal of Legal Studies, 2018, 841 e seg.
[6] Contro quest’uso strumentale del processo nel contenzioso climatico cfr. la dura presa di posizione della High Court of Justice londinese (Business and Property Courts) nel caso ClientEarth v Shell’s Board of Directors [2023] EWHC 1137 (Ch): «However, it seems to me that where the primary purpose of bringing the claim is an ulterior motive in the form of advancing ClientEarth’s own policy agenda with the consequence that, but for that purpose, the claim would not have been brought at all, it will not have been brought in good faith» (Justice W. Trower). V. anche la decisione seguente, in senso confermativo, ClientEarth v Shell Plc [2023] EWHC 1897 (Ch).
[7] L’espressione “casi Santo-Graal”, usata criticamente, è di K. Bower, Lessons From a Distorted Metaphor: The Holy Grail of Climate Litigation, in Transnational Environmental Law, 2020, 347 ss.
[8] L’uso in chiave “regolatoria” del diritto privato non è certo fenomeno nuovo, specialmente nelle giurisdizioni di common law, ma richiederebbe un approfondimento a parte. V. comunque D. Kysar, The Public Life of Private Law: Tort Law as a Risk Regulation Mechanism, in European Journal of Risk Regulation, 2018, 48 e seg.
[9] Si può leggere Il testo dell’art. in questione, tradotto in inglese, in https://wilmap.stanford.edu/country/netherlands.
[10] Salvo poi vedere l’esatta estensione e le limitazioni d’ordine soggettivo e oggettivo di tale dovere. La questione eccede lo scopo di questa analisi. Comunque, per uno studio del problema applicato all’ambito della Climate Change Litigation, v. già D. Hunter, J. Salzman, Negligence in the Air: The Duty of Care in Climate Change Litigation, in University of Pennsylvania Law Rev., 2007, 1741 e seg.
[11] Cfr., nell’ordinamento italiano, la definizione di colpa data dall’art. 43, comma 3, c.p. (nella parte in cui fa riferimento all’ «inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline»).
[12] Il testo ufficiale in olandese della sentenza di primo grado è reperibile in https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:RBDHA:2015:7145&showbutton=true&keyword=urgenda&idx=6. Quello in lingua inglese, a cura della stessa corte, in https://uitspraken.rechtspraak.nl/details?id=ECLI:NL:RBDHA:2015:7196
[13] La tendenza sembra quindi essere quella a elaborare di un diritto autonomo e separato “a un clima stabile” (cd. “right to a stable climate” o “right to climate stability”), anche se tale diritto, a dire il vero, potrebbe già essere incluso e implicito in quello all’ambiente, evitando il moltiplicarsi delle categorie (v., a proposito, la nuova e ampia formulazione dell’art. 9 Cost. italiana, ove il riferimento all’ “ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi”). V. anche infra, nota 16.
[14] V. le sentenze in https://climatecasechart.com/non-us-case/urgenda-foundation-v-kingdom-of-the-netherlands/
[15] Enfatizzano l’importanza di entrambi i fondamenti di “Urgenda”, anche con riferimenti alla vicenda italiana prima che fosse decisa, M. Fermeglia, R. Luporini, ‘Urgenda-Style’ Strategic Climate Change Litigation in Italy: A Tale of Human Rights and Torts?, in Chinese Journal of Environmental Law, 2023, 345 e seg.
[16] https://www.echr.coe.int/w/grand-chamber-hearing-concerning-switzerland#
[17] Chi si è occupato del tema ha messo in luce da un lato queste difficoltà, ma dall’altro anche le possibilità di adattamento del diritto privato all’esigenza di far fronte alla sfida climatica; v., a proposito, D. Kysar, Professore alla Stanford Law School, che in un celebre articolo si chiedeva non cosa il diritto privato potesse fare per il cambiamento climatico, ma, al contrario, cosa quest’ultimo potesse fare per il diritto privato; v. What Climate Change Can Do About Tort Law, in Environmental Law, 2011, 1 e seg. Più di recente, soprattutto per quanto riguarda le dottrine di common law, J. Rossi, J. B. Ruhl, Adapting Private Law for Climate Change Adaptation, in Vanderbilt Law Review, 2023, 827 e seg. Mi permetto di rinviare anche a Giabardo, Climate Change Litigation and Tort Law. Regulation Through Litigation?, in Diritto e Processo, Annuario Giuridico dell’Università degli Studi di Perugia, 2020, 361 e seg., disponibile in https://www.rivistadirittoeprocesso.it/upload/Riviste/Rivista_2019.pdf
[18] Il caso risulta pendente dal 2015. Ha quindi attraversato tre amministrazioni USA (quella di Obama, di Trump e di Biden) ed è probabilissimo che entri nella quarta. La vicenda è stata caratterizzata da un’aggressiva strategia processuale da parte dell’amministrazione federale, orientata in tutti i modi a far dichiarare il processo inammissibile e a impedirne la prosecuzione (ad es., attraverso l’uso di molteplici motions to dismiss o di w). Per un assaggio della complessità della sua traiettoria, e per chi volesse approfondire, https://climatecasechart.com/case/juliana-v-united-states/
[19] V. supra, nt. 12.
[20] https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2020/20200117_docket-18-36082_opinion.pdf
[21] V. la decisione, in francese, in https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2021/20210617_2660_judgment.pdf
[22] Sempre in francese, v. https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/non-us-case-documents/2023/20231130_2660_judgment-1.pdf
[23] Ancora https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2020/20200117_docket-18-36082_opinion.pdf
[24] L’atto di citazione è consultabile sul sito web della campagna, https://giudiziouniversale.eu/wp-content/uploads/2023/07/Atto-di-citazione-A-Sud-VS-Stato-Italiano-2021.pdf
[25] Con chiarezza, su questo preciso fattore, M. Carducci, voce Cambiamento climatico (diritto costituzionale), in Dig. disc. pubb., (agg.), 2021, 51 ss., spec. 69 ss., a cui rimando anche per ulteriori riferimenti.
[26] Si contestano, inoltre, la “Strategia italiana di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra” (https://www.mase.gov.it/sites/default/files/lts_gennaio_2021.pdf), il “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR, nelle parti rilevanti), nonché i “Contributi Determinati Nazionali” (Nationally Determined Contributions, cd. NDC) della UE, comprensivi di quelli italiani.
[27] https://climatecasechart.com/wp-content/uploads/case-documents/2016/20161110_docket-615-cv-1517_opinion-and-order-2.pdf, soprattutto la Part IV (pag. 36 e seg.).
[28] Sul punto, v. l’analisi di Fanetti, La Public Trust Doctrine: dalle origini alla Climate Change Litigation, in The Cardozo Electronic Law Bulletin, 2022, 1 seg. (online). Ma vedi anche i numerosi spunti per il comparatista in B. Pozzo, Climate Change Litigation in a Comparative Law Perspective, in F. Sindico, M. Mbengue (a cura di), Comparative Climate Change Litigation: Beyond the Usual Suspects, 2021, 593 e seg.
[29] V. il cenno alla vicenda in R. Conti, Atto politico vs giustizia “politica”. Quale bilanciamento con i diritti fondamentali?, in Giustizia Insieme, 2 novembre 2023, in https://www.giustiziainsieme.it/en/costituzione-e-carta-dei-diritti-fondamentali/2941-atto-politico-vs-giustizia-politica-quale-bilanciamento-con-i-diritti-fondamentali
[30] Pag. 13 della sentenza.
[31] Ovviamente in quest’ultimo caso s’intende che la responsabilità dello Stato non è di tipo aquiliano (ex art. 2043 c.c.) e quindi non ne soggiace ai limiti, ma è autonoma (la responsabilità patrimoniale dello Stato, in queste ipotesi, è riconosciuta fin dalla sentenza della Corte di Giustizia Francovich del 1991). Sul tema, più in generale, molto interessante quanto detto da A. Pizzorusso, La responsabilità dello Stato per atti legislativi in Italia, in Foro it., 2003, V, p. 175 ss
[32] Conseil d'État, Commune de Grande-Synthe, 31 marzo 2022, n. 427301. V. anche, l’anno scorso, CE, Commune de Grande-Synthe, 10 maggio 2023, n. 467982, dove, in sede esecutiva, l’ordine all’amministrazione statale è stato ribadito, ma senza che a questo venisse aggiunta una astreinte (cioè, una misura coercitiva).
Dedicato ai magistrati resistenti[1].
La lunga vicenda processuale seguita all’omicidio dell’on. Giuseppe Di Vagno[2], tanto nella porzione svolta nel biennio 1922-1924, sia in quella successiva alla revisione del processo dopo la caduta della dittatura, rappresenta il paradigma dell’atteggiamento della magistratura professionale italiana (non già dei tribunali speciali costituiti dal regime con evidenti scopi persecutori) a fronte degli episodi di violenza commessi dai fascisti prima e durante l’affermazione del regime.
Quasi tre anni prima dell’uccisione di Giacomo Matteotti, nel sud barese si consumò un primo, meno noto, omicidio politico.
L’on. Di Vagno, deputato socialista, il 25 settembre 1921, venne raggiunto da una squadra fascista, mentre si apprestava a partecipare ad una iniziativa politica a Mola di Bari. Inseguito mentre fuggiva, venne attinto da due colpi da arma da fuoco, esplosi uno dopo l’altro, che colpirono la regione lombare e l’articolazione sacro coccigea. Dalle ferite ne derivò la morte.
La sentenza della Corte di assise di Bari del 1922, fra imputati amnistiati e complici la cui posizione era stata tralasciata già in fase di indagine, non rese mai giustizia al martirio del deputato socialista.
Nel 1944, la Corte di appello di Bari revocò l’amnistia concessa nel 1922 ed il Procuratore Generale presso la Corte di assise di Bari dispose nuove indagini sull’omicidio.
Scaturì il processo bis, celebrato per “legittima suspicione” a Potenza e concluso con la sentenza del 31 luglio del 1947 che accertava l’omicidio volontario e condannava esponenti fascisti baresi, nel frattempo divenuti “classe dirigente” locale.
In questa sede interessa, però, l’esito finale, ossia la sentenza della Corte di Cassazione del 22.3.1948, adottata in un’epoca in cui neppure vi era il timore che le decisioni giudiziarie contravvenissero alla volontà politica del fascismo.
La Suprema Corte, a conclusione del nuovo processo, qualificò l’omicidio come preterintenzionale e come tale, secondo gli ermellini, “coperto” dall’amnistia Togliatti.
Non serve scomodare gli annali della giurisprudenza, per precisare che l’omicidio è preterintenzionale quando la volontà dell'agente è diretta a percuotere o ledere ed il reo non prevede come conseguenza della sua azione l’evento morte, che – appunto – si verifica praeter l’intenzione.
Nel caso Di Vagno, lo svolgimento dell’azione, accertato pacificamente nei gradi di merito, palesa più elementi sintomatici dell’intento omicidiario: l’utilizzo di un’arma da fuoco, l’inseguimento della vittima, la pluralità dei colpi esplosi, le parti del corpo attinte. La conclusione della Suprema Corte piuttosto che fare uso dei canoni ermeneutici già allora affermati è facilmente sospettabile di avere puntato ad una “benevola” conclusione della lunga vicenda processuale, appunto tramite la qualificazione dell’omicidio come preterintenzione e conseguentemente riconoscendo l’amnistia in favore degli assassini del Di Vagno.
Al momento della sentenza il regime fascista era già venuto meno, si deve allora riflettere sui motivi di questo atteggiamento clemenziale. L’analisi verterà sulla condizioni e sulla composizione della magistratura italiana nel dopo guerra ed almeno fino al ricorrere di due eventi fondamentali, che si sarebbero verificati nel decennio successivo: l’entrata in funzione della Corte Costituzionale nel 1956 che promosse una lenta ma efficace rilettura dell’ordinamento e delle leggi fasciste alla luce dei precetti della Costituzione repubblicana e la legge istitutiva del Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958 che garantì la indipendenza ed autonomia del potere giudiziario.
Solo a partire dagli anni ’60, per effetto della piena operatività della Corte costituzionale e del Consiglio superiore ma anche per il fecondo clima culturale promosso da una generazione di giuristi attenti ai temi delle libertà, delle garanzie e dei diritti, la magistratura italiana cominciò un lungo viaggio che la rese coprotagonista della attuazione della Costituzione e del progresso della civiltà giuridica italiana.
Invece, la magistratura del dopoguerra era ancora quella mirabilmente descritta da Dante Troisi in Diario di un giudice: inconsapevole del suo ruolo costituzionale, ripiegata in se stessa, muta testimone delle rovine morali e materiali del dopoguerra ed attenta solo alle progressioni in carriera.
Circa le condizioni economiche, rileva quanto osservato da Meniconi “negli uffici giudiziari il clima era reso difficile dalle condizioni economiche e materiali in cui veniva amministrata la giustizia: affollamento delle cause civili e penali, diminuzione del numero di magistrati, dovuto al blocco dei concorsi, stipendi falcidiati dalla inflazione post bellica”. Un magistrato assunto nel 1910 con uno stipendio di 200 lire, si trovava ad essere consigliere di Cassazione con uno stipendio di 33.009 lire che però equivaleva alla capacità di acquisto di appena 150 lire nel 1910: ossia aveva visto, nonostante avesse raggiunto l’apice della carriera, diminuire di un quarto il potere di acquisto della sua retribuzione[3].
Una magistratura, schiacciata dall’eccessivo lavoro giudiziario ed insieme spinta a preoccuparsi dei propri bisogni materiali, è più facile che si sottragga all’approfondimento faticoso delle questioni ed alla decisione coraggiosa perché tendenzialmente troverà rifugio nella comodità del precedente giurisprudenziale e nella soluzione più semplice, se non addirittura in quella che meno scontenta la parte processuale più potente. Trova anche così giustificazione la motivazione della Corte di Cassazione nel processo “Di Vagno bis” che ha preferito dilatare i confini della nozione di omicidio preterintenzionale al fine di trovare una soluzione di compromesso (accertare la colpevolezza ma amnistiare i rei) che scontentasse il meno possibile. Si tratta di un “meccanismo” di inconsapevole autodifesa professionale che deve sempre essere tenuto presente quando si pretende l’adempimento delle funzioni giudiziarie secondo parametri quantitativi, seguendo l’approccio aziendalistico –oggi tanto in voga- ai temi della giustizia e la (purtroppo diffusa) pretesa di valutare l’attività giurisdizionale solo per il numero di affari definiti e non secondo la capacità di verificare, nel caso concreto, le ragioni ed i torti.
Ma si deve anche ragionare sulla composizione del ceto magistratuale del dopo guerra.
Il “corpo” della magistratura era rimasto quello del regime: come in generale per la pubblica amministrazione, la macchina dell’epurazione dei magistrati produsse pochissime decisioni di condanna anche per evitare la decapitazione di un’intera classe dirigente con la conseguente impossibilità per l’amministrazione di funzionare. Quanto lungo e difficoltoso sia stato il ricambio generazionale risulta dalla statistica riportata da Neppi Modona: assumendo come punto di riferimento i ruoli del 1968, risulta che erano stati assunti in servizio prima del 1944 tutti i magistrati di cassazione e ben il 70% dei magistrati di appello mentre erano il 99% i magistrati di tribunali assunti dopo il 1944. Quella che allora era definita l’“alta magistratura” (a più di venti anni dalla caduta del regime) era di origine “fascista” e non per nulla proprio dalla “bassa magistratura”, a partire dagli anni ’60, vennero gli stimoli per la stagione dell’affermazione dei diritti e delle garanzie.
È facile dunque immaginare quale fosse la composizione della magistratura al tempo del processo “Di Vagno bis” e quanto operasse in piena continuità con la tradizione fascista. Infatti, se è vero che i magistrati italiani potevano vantare il rifiuto di prestare giuramento alla Repubblica di Salò, è incontrovertibile che la loro carriera si era tutta sviluppata durante il fascismo così da avere il paradosso che fossero fra loro colleghi i magistrati che avevano avuto ruoli di vertice durante il regime[4] ed i magistrati che erano stati rimossi dal regime per motivi politici[5], a tacere dei magistrati resistenti ricordati da Borgna.
Si deve inoltre tenere presente che la cultura giuridica, dominante allora ed almeno per un altro decennio, era tutta fondata sul tecnicismo e sulla pretesa apoliticità dell’attività di interpretazione delle norme. Era dunque difficile l’immediato assorbimento dei principi fondanti la Carta costituzionale nata dalla Resistenza e comunque più complessa l’applicazione delle norme introdotte, dopo la Liberazione, per sanzionare i crimini fascisti, da più parte criticate per la loro vaghezza e per i loro difetti tecnici.
Si tratta dello stesso ritardo culturale che i magistrati hanno subito nel cogliere la gravità dei reati commessi in un contesto mafioso. Annota Isaia Sales[6] che dall’Unità d’Italia fino al 1992 a fronte di 10.000 omicidi ci furono in Sicilia solo 10 condanne all’ergastolo di mafiosi, mentre ce ne saranno 450 solo fra il 1993 ed il 2006. Al di là dell’inasprimento dell’apparato sanzionatorio antimafia, dovuto alla legislazione degli anni’80 e ’90, Salvatore Lupo[7], fra i maggiori storici della mafia, ha individuato questa radicale inversione di tendenza nel “processo di distacco della giovane magistratura dal potere; grazie alla scolarizzazione di massa che sottrae il reclutamento ai tradizionali canali riservati alla possidenza fondiaria ed alla classe dei grandi professionisti; grazie all’applicazione seppure tardiva del dettato costituzionale, che dà alla magistratura prima, al singolo magistrato dopo, un’autonomia della quale mai l’una e l’altra avevano goduto in passato”.
Ancora una volta solo la sua rinnovata composizione sociale e la definitiva affermazione della cultura costituzionale consentirono alla magistratura di affrancarsi da prassi giurisprudenziali conformiste e poco propense a smuovere lo status quo. Un tema, quella della composizione sociale della magistratura, che non deve cessare di interessare chi si occupa di giustizia e diritti, soprattutto di questi tempi quando le difficoltà concorsuali hanno innalzato l’età di accesso alle funzioni giudiziarie (con medie ben superiori ai trenta anni) con il rischio di ritorno ad un meccanismo censuario di selezione, perché solo chi è sostenuto da famiglie che possono garantire il mantenimento economico fino ai trenta anni può dedicarsi serenamente alla preparazione delle prove di accesso. Così come, tuttora, deve tenersi ben saldo l’assetto costituzionale del potere giudiziario, ben prevenire il rischio che gli organi giurisdizionali tornino a rimanere, anche solo inconsapevolmente, supini al gradimento delle maggioranze del momento.
È ora però di tornare al tema dell’atteggiamento della magistratura del dopo guerra rispetto ai crimini fascisti. Neppi Modona, tirando le fila dello studio sugli orientamenti giurisprudenziali di quegli anni in materia di sanzioni contro i fascisti e di processi per i crimini commessi dai partigiani durante la Resistenza, conclude che “il ceto giudiziario della Cassazione romana (a differenza dei giudici di merito delle zone dove maggiormente si sviluppò la guerra di Liberazione, come per esempio il Piemonte, nda) che non aveva vissuto in prima persone le barbarie nazifasciste e la cui compromissione con il regime era stata certamente maggiore, opera una scelta non solo di continuità ….ma di copertura dei reati comuni commessi dai nazifascisti”.
Ed in conclusione, rileva il giudizio di V. Zagrebelsky “in generale l’orientamento della magistratura può essere definito moderato e conservatore, conforme a quello politico prevalente in ogni campo e particolarmente favorito dall’atteggiamento della magistratura, per un verso di ostentata estraneità a tutto ciò che si richiamasse ad opzioni politiche e per altro verso naturalmente incline ad esprimere le scelte con argomentazioni tecniche. In fondo un simile atteggiamento era anche favorito dalla convinzione diffusa tra i magistrati che la magistratura fosse rimasta esente da influenze politiche persino durante il periodo fascista, come sarebbe dimostrato dal fatto che il fascismo, per ottenere una giustizia politicamente orientata, aveva istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato”.
Breve bibliografia
AAVV, Il processo Di Vagno, Camera dei Deputati, 2011.
BASSO, Il Principe senza scettro, Milano, Feltrinelli, 1999.
NEPPI MODONA, La magistratura dalla Liberazione agli anni Cinquanta. Il difficile cambiamento verso l’indipendenzain Storia dell’Italia Repubblicana, a cura di F. Barbagallo, vol. III, 2 Torino, Einaudi, 1997 pp. 83-137.
V. ZAGREBELSKY, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi in Storia d’Italia. Annali 14. Legge, diritto, giustizia a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 1998, pp. 713-790.
MENICONI, Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2012.
BORGNA, La magistratura resistente in Questione Giustizia on line.
[1] Alcuni nomi ricordati da Borgna: Carlo Alberto Ferrero, della Corte d’appello di Torino che, per aver definito «prive di fondamento giuridico» le sanzioni a carico dei familiari dei renitenti alla leva, fu catturato dai tedeschi, seviziato, costretto a sfilare nel paese di Chiusa Pesio con appeso al collo un cartello con la scritta «traditore» e infine fucilato.
Mario Fioretti che a Roma, il 12 dicembre 1943, fu ucciso in piazza di Spagna al termine di un comizio. Il giudice di Ferrara Pasquale Colagrande, il quale, incarcerato dai fascisti, quando gli si offri di fuggire, rispose «Salvarsi? O tutti o nessuno». E poco dopo, davanti al plotone di esecuzione, alzò il grido: «Assassini!». Dirà Calamandrei in un discorso commemorativo tenuto a Ferrara nel novembre 1950: «Quella non fu un’imprecazione; egli era un magistrato: quella fu una sentenza, l’ultima inappellabile sentenza di un magistrato eroico».
Il giudice cuneese Vincenzo Giusto, che cadde in combattimento dopo aver raggiunto sulle montagne le formazioni partigiane.
[2] Ben descritta da Marco Nicola Miletti Il doppio tradimento. Una lettura storico giuridica delle carte processuali, Giulio Esposito Le premesse del delitto e Vito Antonio Leuzzi La revisione del processo: tra reazione e democrazia tutti in Il processo Di Vagno, Camera dei Deputati, 2011.
[3] Venne addirittura proclamato lo sciopero descritto da Scalambrino in Questione Giustizia n. 1, 1984, pp. 219 e ss.
[4] Si pensi a Luigi Oggioni, già procuratore generale della Repubblica di Salò e poi procuratore generale presso la Corte di Cassazione in epoca repubblicana od ad Gaetano Azzariti, già presidente del Tribunale per la razza e poi giudice e presidente della Corte Costituzionale.
[5] Si pensi a Giuseppe Pagano, nominato primo presidente della Corte di Cassazione dal Guardiasigilli Togliatti od a Giuseppe Badia e Vincenzo Chieppa, dirigenti dell’associazione nazionale magistrati.
[6] La Mafia impunita in la Repubblica del 27.3.22.
[7] Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1996.
Il decreto PNRR n. 19/2024 (ri)attribuisce rilevanza penale agli illeciti previsti dall’art. 18 D.lgs 276/2003
Il presente contributo costituisce il seguito de I rischi penali dell'interposizione illecita di manodopera di Chiara Giuntelli, apparso su questa Rivista il 4 marzo 2024.
Con la recente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Legge 2 marzo 2024 n. 19 recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (cd. DLPNRR-bis), le varie forme di somministrazione abusiva di manodopera, utilizzazione illecita, appalto e distacco illeciti contemplati all’art. 18 D.lgs 276/2003, fattispecie colpite dalla depenalizzazione ad opera del D.lgs n. 8/2016, tornano ad assumere rilevanza penale. Si tratta di una delle misure di prevenzione e contrasto al lavoro irregolare adottate in via di urgenza a seguito dei tragici fatti di Firenze che, unitamente ad altre disposizioni, mirano a rafforzare gli strumenti di tutela dei lavoratori nell’ambito delle esternalizzazioni.
La tutela penale era ormai da tempo riservata, dopo una precedente abrogazione, all’ipotesi di somministrazione fraudolenta di manodopera prevista dall’art. 38 - bis d.lgs n. 81/2015, oltre che ad alcune limitate fattispecie previste nell’art. 18 D.lgs 276/2003 e non interessate dalla depenalizzazione.
L’art. 29 del Decreto Legge 19/2024 interviene in maniera radicale sull’art. 18 riscrivendo gli illeciti contravvenzionali e potenziando il trattamento sanzionatorio, con la previsione di una pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, anche rispetto all’originaria formulazione del reato introdotto dall’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003 (legge Biagi).
Con specifico riguardo alla somministrazione abusiva di lavoro prevista al comma 1 dell’art. 18, l'esercizio non autorizzato delle attività di cui all’art. 4 comma 1 lettere a) e b) è ora punito con la pena dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro.
È stata reintrodotta, altresì, la rilevanza penale dell’esercizio abusivo senza scopo di lucro della attività di intermediazione di cui all’art. 4 comma 1 lett. c) per cui è prevista la pena dell’arresto fino a due mesi o dell’ammenda da euro 600 a euro 3.000.
Per quanto riguarda, invece, l'esercizio non autorizzato delle attività di cui all'articolo 4, comma 1, lettere d) ed e), la pena è dell’arresto fino a tre mesi o dell’ammenda da euro 900 ad euro 4.500; se tali attività sono esercitate senza scopo di lucro la pena è dell’arresto fino a quarantacinque giorni o dell’ammenda da euro 300 a euro 1.500.
Importanti novità riguardano anche il trattamento sanzionatorio previsto per l’utilizzatore, che ricorra alla somministrazione di manodopera da parte di soggetti non autorizzati o al di fuori dai limiti normativi previsti a cui, ai sensi dell’art. 18 comma 2, si applica la pena dell’arresto fino ad un mese o dell’ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione.
Anche gli appalti e distacchi irregolari sono nuovamente passibili di sanzione penale. È stato, infatti, modificato il comma 5 - bisdell’art. 18 che ora recita: “Nei casi di appalto privo dei requisiti di cui all'articolo 29, comma 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all'articolo 30, comma 1, l'utilizzatore e il somministratore sono puniti con la pena dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione».
Il reato di somministrazione fraudolenta previsto dall’art. 38-bis D.Lgs. n. 81/2015, che si configura in tutti i casi in cui la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore, è stato abrogato ed inserito con la stessa formulazione al nuovo comma 5–ter dell’art. 18. È stata rafforzata, anche in questo caso, la previsione sanzionatoria con l’arresto sino a tre mesi o l’ammenda di euro 100 per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione.
Sono state, infine, introdotte due disposizioni che incidono sulle sanzioni. Ai sensi dell’art. 5-quater dell’art. 18 gli importi delle sanzioni previste da tale articolo sono aumentati del venti per cento ove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni penali per i medesimi illeciti, mentre il nuovo comma 5-quinquies prevede che l'importo delle sanzioni non può, in ogni caso, essere inferiore a euro 5.000 né superiore a euro 50.000.
Il Decreto PNRR apporta modifiche anche all’art. 29 D.lgs 276/2003 prevedendo che, al personale impiegato nell'appalto di opere o servizi e nell'eventuale subappalto è corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l'attività oggetto dell'appalto. È prevista, inoltre, l'estensione della responsabilità solidale dell’utilizzatore che ricorra alla somministrazione nei casi di cui all’art. 18 comma 2 nonché ai casi di appalto e distacco di cui all’art. 18 comma 5-bis.
Dall’analisi del nuovo contesto normativo emerge, inequivocabilmente, da parte del governo una decisa marcia indietro rispetto al passato visto il sempre più crescente e preoccupante fenomeno del lavoro sommerso e irregolare mascherato sovente da appalti e distacchi illeciti che celano, in realtà, mere forniture di manodopera.
Gli effetti di questo censurabile malcostume esplicano effetti negativi anche sulla salute e sicurezza dei lavoratori come spesso la triste cronaca rivela. Un parallelo pacchetto di interventi riguarda il sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei mobili di cui all’art. 89 comma 1 lett. a) D.lgs 81/08 con l’introduzione della c.d. “patente a crediti” oltre ad altre misure volte a rafforzare l’attività di vigilanza degli organi competenti.
Sarà il tempo a stabilire se la minaccia della sanzione penale reintrodotta per le varie forme di interposizione illecita possa rappresentare un vero deterrente, dato che, stante la natura contravvenzionale delle “nuove” fattispecie criminose, la previsione della pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, può condurre all’estinzione del reato, o in sede amministrativa secondo quanto previsto dall’art. 15 D.lgs 124/2004 e artt. 20 e 21 D.lgs 758/1994, o in sede penale attraverso l’istituto dell’oblazione facoltativa ex art. 162 - bis c.p. qualora ricorrano le condizioni previste dalla norma.
Certamente più efficace appare l’inasprimento generalizzato del trattamento sanzionatorio dei reati rendendo decisamente più onerosa rispetto al passato la definizione economica degli stessi da parte del contravventore.
COMUNICATO
della Fondazione Vittorio Occorsio in vista del 25 aprile, alla luce della censura di Scurati
La Fondazione Vittorio Occorsio è nata per tutelare la memoria di Vittorio Occorsio, assassinato il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine Nuovo. La memoria di un Paese è innanzitutto corretta ricostruzione degli eventi storici. Su questo la FVO è impegnata in oltre 100 scuole in tutta Italia.
Già il 7 luglio 2023 la FVO, attraverso la prolusione del suo presidente del Comitato Scientifico, Giovanni Salvi, in occasione dell’anniversario dell’attentato e della Giornata conclusiva del Progetto Scuola, presso la Scuola Ufficiali dell’Arma, stigmatizzò l’assenza di reazioni istituzionali alla celebrazione della morte del Concutelli da parte di centinaia di camerati, con il saluto fascista e con il grido “presente”. L’onore del camerata Concutelli, scrivemmo allora, consistette nell’uccidere con una mitraglietta un uomo disarmato e nell’assassinare in carcere due testimoni delle stragi di Brescia e Bologna, per le quali sono stati condannati con sentenza definitiva esponenti neofascisti.
In questi giorni si assiste alla celebrazione a reti e testate unificate del “filosofo” Giovanni Gentile, che solo filosofo non fu ma ebbe invece un ruolo determinante nel rafforzamento del fascismo e persino nei rapporti della RSI con i nazisti, definendo Hitler il grande condottiero nelle cui mani era il destino d’Italia (discorso di apertura dell’Accademia d’Italia, marzo 1944). Nel 1931 si batté per l’imposizione del giuramento fascista a chiunque svolgesse una carica pubblica e dunque anche a tutti i docenti del Paese. Egli non spese una sola parola pubblica per l’abominio delle leggi razziali e della deportazione degli Ebrei italiani con la complicità fascista: scelse solo, tra i suoi amici e conoscenti, chi aiutare e chi lasciare al suo destino. Non una parola pubblica spese per i 600.000 italiani rastrellati e deportati dai nazisti, anzi ne spese per uno solo, il figlio.
Qualche giorno fa, sulla rete pubblica Rai 2 si è giunti fino al punto di definire vili assassini i partigiani che – a rischio della vita – eseguirono un’azione militare contro uno dei principali esponenti della dittatura fasci-nazista. Ricordiamo – la memoria! – che tra quei vili assassini vi era Teresa Mattei, di appena vent’anni, il cui fratello, arrestato e torturato, pur di non rivelare il nome dei suoi compagni si era suicidato nella cella. Teresa Mattei è una delle madri della nostra Costituzione.
Oggi leggiamo che è stato impedito ad Antonio Scurati, uno dei maggiori scrittori di Storia contemporanea, di leggere un monologo sull’assassinio di Matteotti, sulle stragi fasci-naziste e sulle necessità che il Governo rappresenti la Repubblica e la Costituzione nate dalla Resistenza.
Non possiamo tacere, perché nostro compito è coltivare la memoria di chi ha sacrificato la vita, da magistrato, per i valori della democrazia e dell’antifascismo, come Vittorio Occorsio.
Giovanni Salvi (Presidente Comitato Scientifico)
Eugenio Occorsio e Vittorio Occorsio (Fondatori)
Melina Decaro (Segretaria Generale)
Roma, 21 aprile 2024
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