Ricordare le stragi del ’92 per riflettere intorno alla magistratura. Un nuovo alfabeto per la giustizia
di Roberto Conti*
…ci sono delle verità – frantumi, come di specchio, di una ignota verità – che, una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili o molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»
[L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, in Opere, a cura di P. Squillacioti, Milano, 2019, Vol. II, Tomo II, 972]
Sommario: 1. Rileggere la giustizia a trent’anni dalle stragi del 1992. - 2. L’incertezza e l’imprevedibilità del diritto giurisprudenziale. È un male della giustizia? - 3. Il mestiere del giudice per Sciascia e per la società. - 4. Una, nessuna, centomila verità per Sciascia e per la giustizia. - 5. La leale cooperazione fra i diversi “costruttori di verità” verso la ricerca della verità. Per un nuovo alfabeto della giustizia.
1. Rileggere la giustizia a trent’anni dalle stragi del 1992.
Rileggere le stragi alla luce del sistema-giustizia e iniziare a cominciare a praticare un alfabeto nuovo nel quale compaiono (devono comparire) termini non nuovi ma percepiti, sentiti ed utilizzati come davvero nuovi.
Dunque, una prospettiva, quella che qui si vuol proporre, nuova - come nuovo e delicato è il momento che il sistema-giustizia sta vivendo -.
Oggi non possiamo più limitarci a celebrare le stragi e chi ha sacrificato il bene supremo della vita in nome della giustizia, ma abbiamo il dovere di interrogarci sul se questo sistema sia degno di quei sacrifici ed in generale adeguato a quello che la società civile si aspetta da noi.
Una prospettiva, dunque, diversa da quella celebrativa di cui - a dire il vero - siamo tutti un po’ stanchi, e molto più riflessiva, intesa (nelle intenzioni di chi parla) ad offrire a chi ascolta - e molti di coloro che ascoltano sono anch’essi a vario titolo ed a seconda delle diverse funzioni protagonisti di questo stesso sistema - non tanto risposte definitive quanto punti di riflessione, interrogativi e magari qualche prospettiva concreta.
Il coinvolgimento della Scuola della magistratura è, del resto, dimostrativo della volontà di offrire (recte, di provare ad offrire) una ragionata analisi del sistema giudiziario, di ciò che va, di ciò che non va e di ciò che potrebbe o dovrebbe andare meglio, in una prospettiva di effettività e concretezza, ben fuori da stentoree e ripetitive rievocazioni delle vicende che hanno portato alle stragi del 1992.
Il titolo di questa giornata è prodigo di consigli, poiché l’idea di accostare il mondo della giustizia a quello dell’arte e della letteratura è sicuramente vincente per tante ragioni. La contemporanea presenza in questi luoghi della mostra “Arte e diritti umani” organizzata dall’Associazione Pegaso in collaborazione con il Fai e l’Università Cattolica in mostre itineranti - ospitata proprio in questo museo[1] - è testimonianza vivente di quanto il mondo del diritto non sia un aliud rispetto alle arti e alla cultura, ma con esso debba stabilmente “camminare”.
Appunto questa è la prospettiva che intendo offrivi: quella di ragionare su quelle che sia e debba essere oggi la “cultura della giurisdizione”.
Per compiere questo itinerario è splendido attingere alle opere, ai racconti, ai resoconti giornalistici e alla storia politica di Leonardo Sciascia[2], e lo è in questo momento particolare per plurime ragioni.
Sciascia, anzitutto, ha vissuto di giustizia pur non essendo giudice o avvocato; per questo nel tempo le sue riflessioni, ancora oggi attuali come ci ricorda Gabriella Luccioli nella sua riflessione su La strega e il capitano[3], sono state volta a volta premonitrici, vaticinatrici di temi, problemi e mali della giustizia, culminando in quello storico convegno tenutosi a Racalmuto nel 1986 intitolato “Il problema della giustizia”.
Per altro verso, proprio in quel medesimo contesto temporale e territoriale si sviluppava e prendeva corpo parallelamente - anche se con percorsi non pienamente sovrapponibili - l’esperienza giudiziaria ed umana di Rosario Livatino che ha sacrificato la sua vita a pochi chilometri da questi luoghi meravigliosi sulle “questioni che ruotano attorno alla giustizia”.
In quel convegno Leonardo Sciascia, nella sua Racalmuto, il 27 aprile 1986 dichiarò di sentirsi ossessionato dalla giustizia.
Di seguito si cercherà di affrontare tre nodi problematici che affaticano chi vive di giustizia. Incertezza ed imprevedibilità del diritto, ruolo del giudice e diritto alla verità senza volere offrire risposte ma, semmai, cercando di mettere insieme dei punti di riflessione che possano essere di utilità a chi ascolta.
Una premessa è tuttavia necessaria ed è quella che, a sommesso giudizio di chi parla, chi abbia l’ardire di porsi come interprete fedele e autentico del “dire” di Sciascia finirebbe, in definitiva, per tradirlo, mistificando il senso delle sue ricerche e dimenticandone il pensiero e soprattutto il senso finale della sua ricerca della e delle verità.
Quando Sciascia afferma di avere detto “qualche inoppugnabile verità”, ma al contempo di avere in altre occasioni fallito, “ma mai in malafede”, sembra voler dire che per rispondere al quesito finale - Chi può mai trovare la verità? - è il procedere per approssimazioni, per dati esperienziali, a dare alimento alle passioni, senza le quali una moderna democrazia non può vivere, pur con le contraddizioni ed i nodi problematici che non sempre potranno sciogliersi.
Camminare con Sciascia in questo itinerario vuol dire porsi lontano dall’offrire dotte certezze ma, per quel nulla che vale, dare testimonianza di quello che Giovanni Fiandaca, rileggendo Sciascia, ha descritto come “bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia”[4].
2. L’incertezza e l’imprevedibilità del diritto giurisprudenziale. È un male della giustizia?
Più volte si richiama Sciascia per criticare l’attuale assetto della giustizia ed il bilanciamento fra giustizia e potere politico, al punto che si sarebbe realizzato uno sbilanciamento in favore della prima in danno del secondo, assecondando l’idea che la giustizia vesta i panni del legislatore senza averne alcuna legittimazione democratica. E ciò anche su temi eticamente sensibili - si pensi alle questioni che ruotano attorno al fine vita - che dovrebbero, invece, suggerire atteggiamenti prudenti della giurisdizione a pena di mettere in discussione i capisaldi della democrazia e lo stesso art. 101 Cost. La produzione sciascia viene intesa come inno alla legalità fondata sulle leggi alle quali il giudice non deve nè può, per Costituzione, sostituirsi. Anche di recente si è parlato, autorevolmente, di “decostruzione del sistema” che vedrebbe nel diritto giurisprudenziale[5] la prima causa di un ordinamento ormai inesorabilmente orientato verso l’eclissi del diritto, per dirla con il Prof. Castronovo. Insomma, espressioni, queste ultime che fanno il paio con l’idea, espressa in modo molto più crudo, di chi[6] ha stigmatizzato posizioni anche interne alla magistratura[7] e di una parte della dottrina[8] definite “eversive”, capaci per l’appunto di condurre ad uno stravolgimento dei principi costituzionali[9].
Il percorso che sembra tracciare Sciascia viene a volte richiamato per sostenere questa necessità di restringere i confini del potere giudiziario - innaturalmente da quest’ultimo estesi - per riportarli dove naturalmente essi hanno necessità di albergare, e ciò proprio in una prospettiva di salvaguardia di un’esigenza di certezza ed eguaglianza.
A me pare anche in questo caso molto importante partire da Sciascia ed affermare che se il giudice deve essere dall’altro lato del potere e contrastarne i vizi, ciò deve potere fare confrontandosi con la complessità del sistema ma anche e soprattutto con la centralità dell’uomo e dei valori che esso incarna.
Ora, l’attuale contesto della giustizia è aggrovigliato attorno a chi si accapiglia sul rapporto fra giudice e legge con prese di posizione che odorano, a volte, di scontri epici fra guelfi e ghibellini ed altre assumono il sapore di vere e proprie crociate, spesso condizionate dal risultato finale al quale perviene il decisore o pensatore di turno.
Il discorso parte da lontano e qui si può soltanto provare a sintetizzarlo, sopratuttto a beneficio delle generazioni di giuristi più giovani.
Fu infatti la presa di posizione della magistratura associata espressa in occasione del Congresso tenutosi a Gardone dal 25 al 28 settembre 1965 a dare una spinta decisiva al tema dell’interpretazione conforme a Costituzione e alla piena efficacia della Carta costituzionale. In quella occasione si abbandonò la concezione che pretende di ridurre l’interpretazione ad una attività puramente formalistica, indifferente al contenuto e all’incidenza concreta della norma nella vita del paese affermando che «il giudice, all’opposto, deve essere consapevole della portata politico–costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione». In quella stessa circostanza si affermò che « spetta pertanto al giudice, in posizione di imparzialità ed indipendenza nei confronti di ogni organizzazione politica e di ogni centro di potere: 1) applicare direttamente le norme della Costituzione quando ciò sia tecnicamente possibile in relazione al fatto concreto controverso; 2) rinviare all’esame della Corte costituzionale, anche d’ufficio, le leggi che non si prestino ad essere ricondotte, nel momento interpretativo, al dettato costituzionale; 3) interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, che rappresentano i nuovi principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statuale».
In questo sostrato culturale, allora condiviso dalla giusridizione, attecchì il tema del rapporto sempre più stretto fra giudice comune e Corte costituzionale, costruito per un verso attorno alla dottrina del “diritto vivente” capace di valorizzare in modo significativo il ruolo del giudiziario nell’individuazione del contenuto della norma impugnata e, per altro, verso, sull’invito rivolto ai giudici da parte della Corte costituzionale affinché questi facciano uso dei loro poteri interpretativi, privilegiando la lettura delle norme conforme ai principi costituzionali. Da qui una fase di grande fermento nella giurisdizione comune, investita di un significativo potere di intervento, in alternativa al giudice costituzionale concorrendo ad importanti operazioni di trasformazione dell’ordinamento repubblicano.
Accanto a questo fenomeno si è andato sviluppando, in modo non sempre articolato, il rapporto sempre più stretto fra giudice comune e fonti e Corti sovranazionali, sviluppatosi essenzialmente in ambito giurisprudenziale, ancora una volta per effetto di importanti grand arret della giurisprudenza costituzionale- sentenza Granital (Corte cost.n.169/1984) e sentenze gemelle nn.348 e 349 del 2007- che sono state occasionati dal crescente ed incisivo seguito goduto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte dei diritti umani presso il giudice comune. Il processo in atto in corso vede emergere una tendenza al riaccentramento del ruolo della Corte costituzionale a scapito della funzione del giudice comune, individuandosi in ogni caso delle significative affinità fra l’attivismo del giudice comune nella protezione dei principi fondamentali scolpiti dalle Carte dei diritti ed il ruolo proattivo di quello costituzionale. Ecco qui sintetizzate le due prospettive che guardano a questi fenomeni in modo dicotomico e dunque come espressive vuoi di un suprematismo giudiziario da arginare, vuoi di una democrazia giudiziaria non eliminabile in un sistema costituzionale dinamico quale sarebbe quello italiano. Queste prospettive sopra tratteggiate, d’altra parte, si scontrano con un sistema giudiziario fortemente orientato a fronteggiare il tema della durata dei processi, della scarsità delle risorse organizzative, della crisi del “sistema giustizia” prodotta dalla crisi pandemica che, seppur capace di determinare uno scatto in avanti verso forme di efficienza commendevoli, sembra a volte implicitamente muovere dal postulato che le tematiche qui esposte debbano riguardare in via prioritaria le “Alte giurisdizioni” e non il giudice di merito.
Come uscire da questo impasse?
La scommessa sta, forse, più che nella ricerca del tarlo dell’una o dell’altra posizione, piuttosto nell’aprirsi alla ricerca di un equo contemperamento fra l’avanzare di un costituzionalismo sociale ( C. Caruso, Un manifesto costituzionale: recensione a Tania Groppi, Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale, in Giustiziainsieme, 2 luglio 2022) e globale, nel quale assumono crescente peso e significato i principi fondamentali della persona e la necessità di realizzare una giusta convivenza con altri principi ed interessi di pari rango costituzionale, nessuno dei quali può assumere una posizione tirannica se non quello della dignità, come ci ricorda, di recente, Gabriella Luccioli, nel suo delizioso scritto dedicato al fine vita-Dignità della persona e fine della vita, Bari, 2022). E fa certo riflettere la posizione espressa di recente da chi, appunto, ha per tanto tempo valorizzato il ruolo del giudiziario nella protezione dei diritti fondamentali ed oggi si soffermi sul carattere camaleontico del ruolo di giudici- per il vero, soprattutto di quelli costituzionali – per evidenziarne l’innaturale propensione verso la funzione normativa[10].Quasi a volere confermare che il continuo processo di osmosi fra legge, giudici e giustizia porti i diversi "volti" ad assumere sembianze innaturali perchè innaturalmente considerate come sovrapponibili.
Quando si affronta il tema del rapporto fra legge e giudice a volte, forse, non ci si sofferma adeguatamente sulla complessità[11] – di Sciascia, della società, del suo dinamismo, della conformazione dei “diritti” – , sempre più difficile da imbrigliare in formule astratte e/o all’interno delle categorie, le quali non possono nè devono certo in alcun modo essere elise od eliminate, ma vanno continuamente sottoposte ad un lavorio di ponderazione in modo che esse risultino attualizzate ed adeguate rispetto al contesto, rinvigorite, riempite del nuovo rappresentato dall’attualità, in cui i confini crollano progressivamente a favore di una sempre più avvertita esigenza di protezione e salvaguardia della persona alla luce delle tutele nient'affatto soggettive dell'interprete, ma considerate al più alto livello della normazione costituzionale e sovranazionale.
Ed allora, quando Sciascia insiste sul ragionamento che dovrebbe star dietro alla giustizia, egli pensa dunque a quel diritto vivente burocraticamente rassicurante e certo, geometrico e meccanico che si aggancia alla regola, figlio di quel giuridicismo di cui parla, sapientemente, Giovanni Fiandaca nella sua indagine a proposito di Sciascia e la giustizia[12], ovvero pensa ad un diritto ragionato, pensato, complesso, variegato, capace di superare le derive formalistiche e - se vogliamo - il testo normativo in nome della ricerca del contesto?
Forse l’ideale di giudice al quale Sciascia sembra ispirarsi è quello che, pur nel rigoroso rispetto della legge cerca di ritrovare, di scoprire, di “inventare” il comando della legge onde evitare l’irreparabile, l’ingiustizia, la violazione dei diritti e della dignità dell’uomo, come e quanto chi ha sacrificato la vita per la giustizia ci ha insegnato.Il che è poi quello che suggeriva l'ultimo Calamandrei-P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Opere giuridiche – Volume I – Problemi generali del diritto e del processo, Roma 2019,604-quando ricordava che l’infinita ricchezza del casellario rappresentato dal sistema delle fonti scritte lascia spesso spazio al vuoto ed alla necessità di aggiungere una casella supplementare da parte del giudice attraverso l’interpretazione senza che ciò integri opera di creazione, essendo piuttosto “ricerca, nella legge generale e astratta, di qualche cosa che c’è già per volontà del legislatore, e che si tratta non di creare ex novo, ma di scoprire e riconoscere”
Tornano così alla mente, con una vena di tristezza, le parole del Professore e Presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi che in questi giorni è mancato ai vivi, ormai da lustri orientate a descrivere il mondo del diritto sempre più votato e indirizzato verso la postmodernità proprio per il caos normativo che costituisce la regola dell’essere giuristi del nostro tempo. Ed è stato proprio Grossi, di recente, a ricordarci, nella prefazione[13] a Il Mestiere del giudice[14] che "...La Costituzione è còlta - ripetiamolo, perché sta qui una soluzione davvero appagante - come testo e come sostrato valoriale, quasi un continente che affiora solo parzialmente alla superficie, ma la cui consistenza maggiore è sommersa (anche se perfettamente vitale). Realtà, dunque, di radici, di valori che non si irrigidiscono nella secchezza di comandi, ma divengono plastici principii con la immediata concretizzazione in diritti fondamentali del cittadino. Radici, sì, ma già ad origine giuridiche, basamento del complesso diritto positivo della Repubblica…”. Ed aggiungeva, ancora, che “…Il vecchio giudice, condannato ad essere 'bocca della legge' dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell'esegeta, ormai del tutto inadeguata, e indossare quella dell'interprete, dell'inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione…”
Parole da comprendere e riflessioni da assimilare con consapevolezza dagli operatori di giustizia.
3. Il mestiere del giudice per Sciascia e per la società
La crisi della giustizia della quale parecchio si discute impone di chiedersi cosa c’è e cosa dovrebbe esserci nella valigetta del giudicesecondo Sciascia, visto che nella sua opera è ricorrente la figura del decisore, accanto a quelle dell’avvocato e dell’investigatore.
Un mestiere, quello del giudice duro, difficile, oneroso e per il quale la riconosciuta indipendenza - anche economica - della funzione da ogni altro potere reclama livelli di professionalità e accortezza assai elevati, ai quali Sciascia sembra tenere in modo particolare.
Un giudice che Sciascia avrebbe voluto “schivo e silenzioso com’era”, amando “la giustizia schiva e silenziosa, non petulante, la giustizia che non fa spettacolo, la giustizia piena di pudore, la giustizia che alberga nell’animo di tanti anonimi giudici, tanti «piccoli giudici» che ogni giorno, nella sofferenza e nell’angoscia, soli con la propria coscienza, decidono della sorte dei loro simili”[15].
Quello stesso magistrato dovrebbe essere, anche d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo ma anche – e soprattutto – di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza…[16] –capace di esercitare quella funzione tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendo conto.
Ora, questo giudice, caro a Sciascia, che si contrappone ai poteri non essendone egli parte, ha necessità non soltanto di essere compreso nella difficoltà del suo giudicare, ma anche di essere salvaguardato e protetto da visioni distorte del sistema che lo fanno sempre e comunque “colpevole” degli esiti distonici del giudizio di colpevolezza nei diversi gradi di giudizio, in tal modo finendo col tradire i capisaldi del sistema, nel quale i diversi gradi di giudizio e le diversità di valutazioni fra giudici rispetto ad uno stesso processo sono fisiologici e non patologici.
Ciò che a volte oggi si rappresenta come fallimento del sistema-giustizia non è, spesso, che la fisiologica dimostrazione che un sistema democratico non può e non deve affidarsi alla voce di un solo giudice, ma ha necessità di prevedere delle possibilità di revisioni del giudizio, in qualunque senso esse si orientino. Non è questo forse il modo migliore per esercitare in modo autonomo indipendente e democratico la giustizia?
Se, per converso, si dovesse aderire al pensiero di chi considera la disomogeneità fra i diversi gradi di giudizio come “errore”[17] sarebbe logico rispondere che la soluzione capace di eliminare in radice gli errori è quella di impedire le impugnazioni, in modo da realizzare l’unica verità possibile.
Ma è davvero questo l’obiettivo che le persone ragionevoli devono perseguire ed avere come orizzonte, ovvero occorre rafforzare, al di là dei singoli ruoli, l’idea stessa di una giurisdizione attrezzata professionalmente alla quale partecipano in modo paritario e, ciascuno nel proprio ruolo, i diversi protagonisti del processo?
Ora questa protezione del ruolo del giudiziario che qui si invoca ab externo la magistratura intanto ha il diritto di pretendere in quanto essa si mostri adeguata, umanamente e professionalmente, al suo ruolo e, appunto, portatrice di quella professionalità che giustamente l’avvocatura spesso reclama non nel proprio interesse. E su questo tema avvocatura e magistrature devono camminare unite, perché esso non può che riguardare anche la classe forense che è l’altra faccia della medaglia della giustizia.
4. Una nessuna centomila verità, per Sciascia e per la giustizia.
Esiste una verità sul tema della giustizia o esistono tante verità?
In generale, può dirsi che il diritto alla verità rivolto a disvelare il mai conosciuto rispetto ad eventi tragici che hanno segnato la storia individuale (delle persone) e collettiva del Paese si riempie di contenuti e dimensioni plurali, pur ancora da compiutamente definire nelle quali si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto tra loro la prospettiva individuale – della o delle vittime – e quella collettiva, che vede in gioco lo Stato-persona – tenuto a indagare, condurre i processi, adottare misure ripristinatorie e repressive nei confronti dei responsabili –, ma anche lo Stato-collettività, al cui interno si collocano la polis, gli studiosi, i letterati, le associazioni del terzo settore[18]. È qui che dovrebbe emergere, secondo Sciascia, un “bisogno” diffuso di conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato stesso. Dunque, un “dovere di verità”.
Una Verità che segue una prospettiva ontologicamente bifronte, per l’un verso indirizzandosi quasi inconsapevolmente verso la dimensione primaria della persona, che è appunto rappresentata dalla sua dignità e, per altro verso, elevandosi a metro universale della democrazia dei Paesi e dei loro processi, alimenta un’ansia di tutele effettive che l’ordinamento giuridico ha l’obbligo giuridico di perseguire[19].
Il panorama reale della giustizia non sempre si è dimostrato capace di offrire verità appaganti, ancorché essa sia fondata sull'applicazione della legge, considerata per molto tempo espressione unica di verità[20] alla quale si affianca il processo come luogo naturale (e per molti considerato unico) in cui si accerta la verità (processuale) per il tramite del giudicato.
In Sciascia le verità hanno una dimensione davvero plurale, spesso richiamate come metafora del presente e che “una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili o molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le «menzogne convenzionali»”.
A volte l’assenza di giustizia e verità pare anche essere o voler essere critica feroce e impietosa, rivolta a quella parte di società che non sembra affatto preoccupata della verità.
Sciascia critica gli attori della giustizia, ma prim’ancora censura l’umanità e l’assenza di valori che non sembrano trovare adeguato posto e tutela al suo interno, tanto da suscitare l’intervento del letterato che rilegge o a volte riscrive la storia. Al punto che la crisi della giustizia nasconde la crisi dell’uomo, del suo sfuggire ai grandi temi che lo circondano, del suo appiattirsi ed acconciarsi a false verità di comodo, del suo fermarsi sulla soglia della verità, del disinteresse per il senso ultimo che il tema giustizia evoca, quello della dignità e del rispetto dell’uomo[21].
Questo pessimismo coinvolge in pieno il pianeta giustizia, attorno al quale ruotano da sempre plurime verità.
Verità che coinvolgono il mondo dell’informazione, del pubblico ministero, dell’avvocatura e delle vittime, oltreché ovviamente del potere politico.
Alle spalle di ciascuna verità rappresentata vi è un fascio di valori che innervano la nostra società e costituiscono la spina dorsale della democrazia, tra loro continuamente intrecciandosi. Valori contrapposti che devono confrontarsi in una prospettiva che non può essere tirannica, ma che deve tendere alla comprensione del ruolo che ciascun costruttore di verità, in questa rappresentazione dei problemi che abbiamo inteso offrire, deve avere.
Qual è dunque la verità, quella del giornalista chiamato ad esercitare una funzione che è ben espressa attraverso l’espressione “cane da guardia” della democrazia che si ritrova nella giurisprudenza della Corte Edu, tanto importante quanto delicata muovendosi in territori fragili nei quali le verità sono in progress, oppure quella del P.M. che ha a cuore primariamente le vittime di reati e l’obiettivo di salvaguardare la società per garantirne la sicurezza - chiamato non ad individuare i colpevoli, ma a raccogliere gli elementi in base ai quali il giudice dovrà verificare se gli imputati hanno realmente commesso i reati loro contestati -, oppure quella dell’avvocato che difende l’indagato/imputato o parte offesa con tutte le sue abilità professionali per raggiungere, nel pieno ed effettivo contraddittorio con il P.M., l’obiettivo della sua giustizia che è quello di trovare gli elementi capaci di dimostrare o smontare l’accusa che gli viene mossa o, ancora quella, quella del giudice, che al termine di questo percorso si conclude con una sentenza emessa in nome del popolo italiano, destinata a diventare giudicato?[22]
Il carattere poliedrico delle verità ha dunque centri di imputazione diversi che appaiono alimentarsi vicendevolmente e in modo inesauribile, al punto che risulta difficile individuare il confine fra le une e le altre.
Ed in questa ricerca in continuo divenire la sfera della vittima con tutta la sofferenza, il dolore, lo strazio che spesso la caratterizza va compresa, protetta, aiutata e tutelata.
Il grido di verità[23] che Fiammetta Borsellino[24] ed i suoi familiari alimentano, elevando “…la propria storia famigliare e le vicende della Sicilia al rango di altre grandi tragedie della storia e chiedono per questo che vengano affrontate con dignità, come meritano i traumi collettivi di una Nazione” [25], rinforza l’idea che la verità sia un valore che appartiene allo stesso tempo ad alcuni e a tutti, senza tempo, senza dimensione e per questo capace, quando tocca questioni vitali per il Paese e la società che tali li avverte, di riattivare il dolore e con esso l'esigenza di conoscenza non solo per appagare la vittima, diretta o indiretta, ma anche il popolo che sente la necessità di conoscere, a sua volta, quella verità. Il passaggio che lei ha fatto a proposito della ricerca della verità anche attraverso i carnefici di suo padre è stato straordinario. Anche un maledetto assassino può morire con dignità se contribuisce alla verità ed in questo percorso il ruolo della vittima non può trovare parole per essere descritta in tutta la sua portata transepocale. Ecco perché, allora, la verità non può a volte essere compressa e ridotta al contesto giudiziario, ma va oltre, o può comunque andare oltre.
E sono proprio le vicende ancora oggi oscure sulla strage di Via D’Amelio e sul più grosso depistaggio della storia giudiziaria italiana[26] ad aggrovigliarsi nel meraviglioso libro di Piero Melati[27] dedicato appunto all’amore della verità nel quale, non occasionalmente, si intrecciano le storie di vita di Paolo Borsellino e Sciascia, e non solo per quell’ormai famoso articolo sui professionisti dell’antimafia e per quella storica fotografia che ritrae i due seduti a pranzo, ma anche per la testimonianza postuma di Agnese Borsellino riportata da Melati (224) nel dire che Sciascia, parlando dei professionisti dell’antimafia, aveva in parte torto, ma in parte no, sono lì a testimoniare un “dovere di verità” sui tanti buchi neri che tante, tantissime vittime – spesso anonime e non conosciute dal grande pubblico - attendono di disvelare ed illuminare nell’interesse loro e della società. Disvelamento che, d’altra parte, potrebbe non arrivare dal processo penale per effetto della prescrizione[28] e che apre ulteriori scenari, collegati alla ricerca di luoghi diversi ove inseguire la verità.
5. La leale cooperazione fra i diversi “costruttori di verità” verso la ricerca della verità. Per un nuovo alfabeto della giustizia.
Ma, è questo il punto, parafrasando le parole di Sciascia in un suo articolo pubblicato sul Corriere della sera del 26 gennaio 1987: Chi ha il coraggio di bussare alle porte della verità? Quanti sono disposti realmente ad incanalarsi in quel percorso aspro? Quanto l’ansia della verità viene insegnata, condivisa, compresa, studiata? Quanto il mondo “non giudiziario”, la scuola, le istituzioni culturali si impegnano, oggi, per ricercare la verità riconoscendone il valore? Quanto va approfondito il tema del “dovere” di dire la verità, di ricercarla attraverso la storia che nutre la giustizia?
Quanto, per la parte che le spetta essa magistratura è pronta a riscattarsi anche agli occhi della società in nome della quale amministra la giustizia? Quanto essa intende mettersi al servizio della verità e non già del potere e ad essere, in definitiva, disobbediente[29] fino al punto da incarnare un atto di opposizione civile[30]?
Se il bisogno di giustizia di Sciascia, la sete di giustizia si manifesta tutta in opposizione al dominio del potere, sicché per esercitarla al meglio non bisogna essere potere[31], ma contropotere al servizio di un’idea, di un bisogno insopprimibile, il problema della giustizia sorge quando il giudice tende o è percepito esso stesso come potere e non come servitore, fallendo così miseramente la sua mission[32].
A me pare che occorra guardare al mondo della giustizia tenendo presente un nuovo alfabeto, nel quale campeggiano, come espressioni cardinali, quelle di dignità della persona, verità, leale cooperazione, formazione, etica, coraggio, responsabilità e fedeltà alla Costituzione[33].
A me pare che per unire le diverse verità che ruotano attorno al pianeta giustizia, tutte pienamente legittime e legittimate ad essere rappresentate al corpo sociale con le forme che alle stesse appartengono, occorra anzitutto una leale cooperazione che deve innervare i rapporti e le relazioni fra i diversi “costruttori di verità” lasciando ai margini la prospettiva della gerarchia e della logica "dell'ultima parola" figlia di quella del controllore e del controllato. E ciò anche sui temi spinosi e non sempre colti nella giusta prospettiva, dei rapporti fra sindacato di costituzionalità e interpretazione costituzionalmente orientata, della disobbedienza del giudice di merito alle decisioni della Cassazione e financo della Corte costituzionale e dei giudici sovranazionali, come ci è capitato di evidenziare in passato[34].
Una leale cooperazione che non può tralasciare l’esigenza di una formazione continua ed incisiva- sempre più comune con l’Avvocatura- capace di cogliere al fondo i nodi problematici e, appunto, favorendo la capacità di ragionare.
Quando Sciascia invocava che ogni magistrato in formazione potesse e dovesse conoscere direttamente l’odore e il sapore del carcere per sapere gli effetti del suo agire esprimeva un concetto tanto banale quanto centrale per chi vive di giustizia ed oggi dimostra quanto siano vitali e necessari per il buon giudicare livelli sempre più approfonditi di conoscenza effettiva, efficace, profonda.
Un’esigenza di leale cooperazione che deve lasciare ai margini atteggiamenti assolutisti, onniscienti, a volte supponenti e boriosi, di coloro che, pur in assoluta buona fede legittimamente portatori ed espressivi di una di quelle verità di cui qui si è detto la contrabbandano come “la verità unica”[35].
Tutto questo impone una grossa dose di coraggio in tutti i protagonisti del sistema: giornalisti coraggiosi, capaci di scavare alla ricerca dei fatti, avvocati coraggiosi, lontani da atteggiamenti di sudditanza psicologica o di (in)sofferenza nei confronti del decisore di turno, magistrati inquirenti e giudicanti, a loro volta garanti coraggiosi della correttezza dei compiti loro demandati, i primi nello svolgere legalmente l’attività del P.M. ed i secondi chiamati a giustificare la decisione assunta attraverso la sentenza. E senza che il cerchio possa dirsi definitivamente chiuso quando uno dei costruttori di verità abbia disvelato l’impostura che altri hanno spacciato per verità, anche se giudizialmente accertata.
Ma accanto al coraggio occorre una notevole e comune dose di responsabilità.
Quanto al giudiziario, se il magistrato è “privo del coraggio di mettersi in gioco anche – laddove necessario – esponendosi in prima persona farebbe bene a cambiare mestiere”, per dirla con Antonio Ruggeri.
Occorre parimenti che il magistrato abbia “mentalità ispirata al senso del limite e alla consapevolezza delle risorse di mente e di cuore di cui ciascun operatore deve essere dotato e che vanno fino in fondo portate a frutto”.
E se il giornalista deve avere il coraggio di affondare le sue ricerche per scoperchiare il malaffare, i comportamenti ostruzionistici ed aggressivi della nostra società soprattutto quando in gioco ci sono i diritti del più vulnerabili, deve essere anche perfettamente consapevole che la sua mission mette a rischio la reputazione dei soggetti individuati all’interno delle notizie e inchieste e, ancora, richiedere che una notizia emersa in fase di indagine debba essere seguita dalle notizie che riguardano gli sviluppi della vicenda giudiziaria, poiché non si è realmente “cani da guardia” della democrazia quando si danno solo notizie degli arresti e si tace o, peggio, si relega al trafiletto, la notizia dell’assoluzione.
Ogni condotta, ogni atteggiamento irresponsabile che non sia improntato al principio di leale cooperazione attenta alla credibilità del sistema nel quale siamo tutti parte, giudici, avvocati, giornalisti, legislatore, in modo che l’inosservanza di questo canone da parte dell’uno finisce col ricadere inesorabilmente sull’altro, minando la credibilità della giustizia.
Leale cooperazione vuol dire dunque che ciascuno nel proprio ruolo sia portato a cogliere nella prospettiva di quei mondi diversi costretti a convivere che c’è del buono nell’altro, di utile, di costruttivo, di necessario.
In definitiva quale conclusione sul mondo della giustizia mi sento di offrire.
A me pare che sia il momento di comporre in modo autenticamente nuovo i tanti ponti e muri[36] che vediamo innanzi a noi, attraverso un modo nuovo col quale ricercare un confine appagante fra le esigenze di sé e quelle degli altri.
La ricerca di un’alternativa reale alla prospettiva che intende eliminare l’uno e scegliere l’altro a favore di un approccio che, attingendo alle risorse di mente e di cuore, si sforza di mettere “insieme” l’un costruttore di verità rispetto e “con l’altro”, rimanendo ben incanalati alla risorsa preziosa, anche se aspra, onerosa e fastidiosa, del confronto e del dialogo. Rifuggire, dunque, da schematismi astratti e, soprattutto, da coloro che si ergono a tutori dell’uno o dell’altro corno della questione e si fanno portatori di un’unica e sola “verità” rifiutando "a prescindere" l'asprezza e durezza del confronto, invece di indirizzarsi verso la ricerca delle cause delle verità plurali che spesso si fronteggiano.
Il che non vuol certo nè deflettere dall'idea che della funzione ciascun ordine ha nè negare la necessità di affrontare le questioni nodali del nostro tempo con alla base alcune idee cardine non negoziabili, quali la tutela dei diritti fondamentali, il rispetto della Costituzione e la fedeltà ad essa, la salvaguardia dello Stato di diritto, i diritti di difesa, ma molto più semplicemente invitare tutti ad un approccio capace di ascoltare le diverse prospettive per coglierne ciò che di buono e vero esse potrebbero avere.
Insomma, ricordando Giorgio La Pira, occorre più che mai “osare l’inosabile”, investire su tutto ciò che è prodotto del pensiero umano per trarne forza e alimento e fondere, dunque, i ponti con i muri piuttosto che porsi in una prospettiva che vede il bianco nel ponte e il nero nel muro, superare l’idea stessa che sia sufficiente eliminare il muro, invece ponendo le basi per una linea di azione e di pensiero capace di capire le ragioni del muro per poterlo valicare insieme a chi, con onestà, ne ha rappresentato le esigenze.
Perseguire, dunque, per quanto possibile un ragionevole accomodamento fra le diverse prospettive ed i diversi volti della giustizia[37] che proprio la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione – sent. n.24414/2021- ha di recente individuato come Grundnorm per risolvere conflitti apparentemente insanabili in ambito religioso senza deflettere mai dall’idea di stare dalla parte della persona umana e dei valori che essa riflette e, soprattutto, della sua dignità.
Oggi, tra le tante verità spetta dunque alle persone di buon senso, sulle gambe delle quali vivono i mondi dell’informazione e della giustizia, del Pubblico Ministero e dell’avvocatura[38], orientare le proprie condotte alla cooperazione leale e franca ed all’affermazione dello Stato di diritto come bene primario che appartiene indivisamente a tutti i protagonisti, nella consapevolezza che ciascuna delle verità che ciascuna istituzione od ordine perseguono ha una sua ineludibile dignità, necessaria e vitale per la democrazia, senza la quale saremmo tutti meno liberi, meno consapevoli, meno coscienti. Ciò a patto che queste verità siano perseguite, ricercate, inventate – nel senso grossiano del termine - in modo eticamente corretto[39], andando così a definire un mosaico composto da tante tessere che in via tendenziale ambiscono a una verità finale. Una volta raggiunta, questa verità potrebbe essere posta in discussione nuovamente da uno di quei mondi ove si riuscisse a dimostrare che essa è stata "poco vera" perché alla verità si era anteposta, magari evocando (a sproposito) la ragion di Stato, l’impostura.
Ecco la lezione sciasciana ultima che mi pare possa costituire coscienza di questa giornata.
Una continua e strenua ricerca della verità, alimentata dal perenne valore del dubbio che non ne scalfisce la rilevanza, ma aiuta a renderla più ricca, più consapevole, più adeguata alla società del nostro tempo.
Tocca dunque impegnarsi in una continua ricerca, non in astratto ma in concreto, in vivo e non in vitro, del limite per ricercare il quale occorrono appunto, confronto, conoscenza, formazione degli avvocati e dei magistrati quanto più comuni e, con un occhio orientato al mondo del giornalismo, tutele forti ed effettive nei confronti di chi è chiamato ad esercitare quella professione, troppo spesso indecorosamente costretta a svolgere il ruolo centrale di cui qui si è detto, con retribuzioni e forme contrattuali che lasciano stupefatti per quanto cozzano con il concetto di dignità.
Raggiungere le migliori verità possibili perché ciascuno possa ricostruire in modo consapevole la sua verità, al punto da giungere alla conclusione finale che esiste un diritto alla verità inscindibilmente collegato al dovere di verità che una comunità deve perseguire, attraverso un percorso tortuoso e complesso.
Un futuro di sole apparenti "incertezze" che è anche futuro di maggiore consapevolezza del ruolo degli attori della giustizia attraverso il rispetto reciproco.
Un tempo che credo sia e debba essere il tempo del coraggio responsabile, eticamente ed umanamente corretto che, sotto l’ombrello di chi ha perso la vita per la giustizia come oggi i morti che ricordiamo, può forse davvero rappresentare un obiettivo tangibile e realizzabile e rendere la giustizia sempre più credibile e, soprattutto, degna di chi la vita per questa giustizia l’ha donata e guarda dall’alto al presente ed a chi ha raccolto quell’eredità.
*Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata dall’ANM Palermo, dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte di appello di Palermo e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento il giorno 8 luglio 2022 presso il Museo Griffo di Agrigento. Un particolare ringraziamento va all’ANM distrettuale di Palermo, nelle persone di Clelia Maltese e Maria Teresa Maligno, nonchè al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Agrigento e per esso alla Presidente Avv. Vincenza Gaziano.
[1] FAI e Progetto Genesi: Arte e diritti umani. Una nuova frontiera Intervista di Roberto Conti a Ilaria Bernardi e Giuseppe Taibi, in Giustiziainsieme, 1 giugno 2022.
[2] Per una riflessione più articolata su Sciascia e giustizia sia consentito il rinvio a R.G.Conti, Sulla strada di “Diritto verità giustizia. Un omaggio a Leonardo Sciascia dalla comunità dei giuristi, Cacucci, 2021, in Giustiziainsieme, 2 settembre 2021.
[3] G. Luccioli, Il sopravvento della superstizione sulla verità e sulla giustizia: “La strega e il capitano”, in Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, a cura di L. Cavallaro e R. G. Conti, Bari-Milano, 2021, 127.
[4] G. Fiandaca, Leggere Sciascia in procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi, in Il Foglio (www.ilfoglio.it), 6 novembre 2021. Il punto è richiamato da A. Ruggeri, In tema di diritto verità giustizia nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustiziainsieme, 26 maggio 2022.
[5] T. Epidendio, La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura, in Giustiziainsieme, 24 maggio 2022. Il tema è stato ripetutamente ripreso su Giustizia Insieme con scritti di G. Montedoro -Derrida, il giudice, il fare giustizia-, G. De Amicis- Per l’alto mare aperto…: la Magistratura tra sogni spezzati e nuove speranze-, A. Cosentino - Crisi della legge o crisi del giudice? Considerazioni a margine di un recente scritto di Tomaso Epidendio-e, da ultimo, B. Montanari - “La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica -.
[6] R. Bin, - Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quaderni costituzionali, 2019, n.4, 757; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali, n.2, 2019, 251.
[7] È lo stesso R. Bin a citare, in tema, R. Conti, La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto Ue, in Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai trattati di Roma, a cura di A. Ciancio, Torino 2017, 75 ss.
[8] R. Bin, nel saggio indicato alla nota 6, si riferisce anche ai molti scritti di A. Ruggeri, citando, fra gli altri, Trasformazioni della costituzione e trasformazioni della giustizia costituzionale, in Osservatorio sulle fonti, 2/2018, 1 ss. Il confronto fra i due Autori è proseguito in Giudice o giudici nell'Italia postmoderna? Intervista di R. Conti ad Antonio Ruggeri e Roberto Bin, in Giustiziainsieme, 10 aprile 2019.
[9] V., sulla questione esaminata nel testo e su posizioni dicotomiche rispetto a Bin, A Ruggeri, Diritto giurisprudenziale e diritto politico: questioni aperte e soluzioni precarie, in Consultaonline,2019, f.3, 16 dicembre 2019, 713 e 714 in note 26 e 30.
[10] A. Ruggeri, Il giudice-camaleonte e la salvaguardia dei diritti fondamentali, in Gruppodipisa, 12 luglio 2022.12 Luglio 2022
[11] Sul tema della complessità che ruota attorno al ruolo del diritto e della giustizia ed alal rilettura di Sciascia nei saggi di Irti e Lipari contenuti nel volume "Diritto verità giustizia" cit., insiste ora, ripetutamente M. Perrino, Rileggere Sciascia attraverso "Diritto verità giustizia" in Giustiziainsieme,25 maggio 2022. F. Messina, Il diritto alla verità. Presentazione dell’incontro con Marco Damilano – 3 giugno ore 18.00 – diretta su “zoom” e bacheca Facebook “Memoteca Montanari”, in Giustiziainsieme, 1 giugno 2020.
[12] G. Fiandaca, La giustizia secondo Leonardo Sciascia, in Todo Modo, 2019, 157, 160. Indagine di recente ripresa in occasione del webinar organizzato dall’Università di Palermo in memoria di L. Sciascia il 15 aprile 2021 sul tema Leonardo Sciascia tra giustizia sperata e giustizia negata: una ambivalenza irriducibile,
[13] P. Grossi, Il mestiere del giudice, Prefazione, in Il mestiere del giudice, a cura di R.G. Conti, Padova, 2020.
[14] AA.VV., Il mestiere del giudice, cit.
[15] G. Tranchina, Leonardo Sciascia, Leonardo Sciascia: e quanto parleremo di giustizia «ce ne ricorderemo, di questo pianeta»?, Relazione svolta, il 17 novembre 1994, nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, in occasione del Convegno su «La giustizia nella letteratura e nello spettacolo siciliani tra ‘800 e ‘900, da Verga a Sciascia, in Quando parleremo di giustizia, Palermo, 2010, 30.
[16] L. Sciascia, Per la responsabilità dei magistrati, in Corriere della sera, 7 agosto 1983, poi in A futura memoria, (se la memoria ha un futuro), in Opere, 1246.
[17] Sul punto v. le interessanti riflessioni di A. Mori, Chi sbaglia paga... Ma quand'è che il giudice sbaglia?, in Questionegiustizia, 7 luglio 2022 e, a proposito del concetto di "grave anomalia" introdotto dalla riforma Cartabia in tema di ordinamento giudiziario, in itinere, R. Magi, La delega Cartabia in tema di valutazioni di professionalità del magistrato: considerazioni a prima lettura , in Questione giustizia, 13 luglio 2022.
[18] Straordinario si sta rivelando l’apporto di Libera e dei tantissimi costruttori di verità che ne alimentano incessantemente le attività ormai senza confini e che, quotidianamente e silenziosamente, si battono per raggiungere la verità per quei tantissimi familiari di vittime della criminalità organizzata che ancora attendono di avere la loro verità- https://www.libera.it/documenti/schede/libera_diritti_vittime_manifesto_2020_2.pdf-.
[19] M. Taruffo, Verità e giustizia di transizione, in Criminalia, 2015, 23: “Prendendo ora in considerazione una dimensione per certi versi più specifica, ma di valenza non meno generale, va sottolineato che il principio di verità si configura come condizione essenziale per l’effettività dell’ordinamento giuridico. Se è vero, come pare indubbio, che le norme giuridiche, singolarmente e nel loro insieme, sono destinate a regolare i comportamenti dei consociati, pare altrettanto evidente che questa finalità verrebbe completamente frustrata qualora i cittadini pensassero che la violazione delle norme non comporterebbe alcuna conseguenza o provocherebbe conseguenze del tutto casuali, e qualora non vi fosse nessuna ipotesi credibile circa le conseguenze delle condotte dei singoli, siano esse conformi o contrarie a quanto prevedono le norme giuridiche. In altri termini, l’effettività dell’ordinamento giuridico si fonda sull’ipotesi che il sistema sia in grado di stabilire la verità rispetto a tali condotte, dato che solo in questo caso le relative conseguenze sarebbero conformi a ciò che l’ordinamento prevede”
[20] L. Salvato, Profili della presunzione di innocenza e della modalità della comunicazione nel d.lgs. n. 188 del 2021, in Giustizia insieme, 1 aprile 2022. In diversa prospettiva, P. Grossi, Sulla odierna “incertezza” del diritto, in Giustizia civile, n.4/2014 (anche in https://giustiziacivile.com/giustizia-civile-riv-trim/sulla-odierna-incertezza-del-diritto).
[21] V. il saggio dedicato a Sciascia da G. Tranchina, Leonardo Sciascia: e quanto parleremo di giustizia «ce ne ricorderemo, di questo pianeta»?, Relazione svolta, il 17 novembre 1994, nell’Aula magna della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania, in occasione del Convegno su «La giustizia nella letteratura e nello spettacolo siciliani tra ‘800 e ‘900, da Verga a Sciascia, in Quando parleremo di giustizia, Palermo, 2010, 19.
[22] Sul tema delle plurime verità ritorna, di recente, B. Montanari, “La fine di un sogno”. Una lettura epistemologica, in Giustizia insieme, 8 luglio 2022, cit.
[23] V. F. Borsellino: “Troppi depistaggi sulla morte di mio padre”, in https://rep.repubblica.it/pwa/lettera/2018/07/17/news/strage_borsellino_domande_fiammetta-202035147/. V., infatti, la recente Relazione approvata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e vigilanza sul fenomeno della mafia e della corruzione in Sicilia sul depistaggio di Via D’Amelio, 19 dicembre 2018:”Resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato – nel comportamento di molti – il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità.”
[24] Proprio rispetto alla vicenda ricordata nel testo sembrano straordinariamente calzanti le riflessioni di S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, cit., 220: “Lungo questo cammino, nella costellazione dei diritti, compare quello che forse meglio d’ogni altro esprime la novità e il distacco dal passato – il diritto al lutto. Qui la ritrovata verità, la restituzione della memoria rimuovono quello che era stato l’indicibile, il nascosto, l’invisibile. L’impossibilità di elaborare il lutto, perché la conoscenza era negata o impedita o preclusa a ogni parola detta in pubblico, ha rappresentato la forma più profonda di violenza, un’altra delle tante negazioni dell’umanità di persone che abbiamo conosciuto”.
[25] P. Melati, Paolo Borsellino, cit., 228: “La stessa cosa, spesso impavidamente, Sciascia ha fatto nei suoi libri. Ed è questo che hanno fatto anche i figli del giudice. Hanno combattuto per avere diritto di parola e l’hanno infine ottenuto. Così ancora oggi, a trent’anni dalla strage, possono invocare verità e giustizia, ..Hanno scelto un grande scenario, quello delle verità storiche, in luogo di protagonismi, compromessi e vantaggi di piccolo cabotaggio…”.
[26] A. Balsamo, Mafia. Fare memoria per combatterla, Milano, 2022, nel quale le più note e nebulose vicende di mafia vengono attentamente rilette alla luce dei diritti alla verità e alla speranza.
[27] P. Melati, Paolo Borsellino. Per amore della verità. Con le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, Milano, 2022. L’Autore intreccia i giorni precedenti e gli anni successivi vissuti dalla famiglia Borsellino con il pensiero sciasciano, ricordando non soltanto i saggi c e le raccolte- fra tutte, A futura memoria- nei quali si intrecciano i temi del ricordo e della memoria dello scrittore-105- ma anche i pensieri di Agnese Borsellino sul rapporto del marito con Sciascia, i luoghi che furono testimoni degli assassini dei giudici Saetta e Livatino quanto della bellezza di quello stesso territorio in cui si intrecciano i percorsi letterati degli scrittori agrigentini con lo storico anatema di Papa Giovanni Paolo II contro la mafia-108 ss.-
[28] Sul tema della prescrizione rispetto a crimini di particolare rilevanza per le vittime e la società ci eravamo soffermati in R. G. Conti, Il diritto alla verità, fra amnistia, prescrizione e giurisprudenza nazionale della Corte edu e della Corte interamericana dei diritti umani, in Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, a cura di R. Romboli e A. Ruggeri, Torino, 2019, 237.Da qui il rinnovato interesse verso forme e luoghi alternativi nei quali ricercare la verità, evocandosi le esperienze delle commissioni sulla verità - v. A. Lollini, Desmond Tutu e l’esperienza della Commissione Sudafricana per la verità e la riconciliazione, in Giustiziainsieme, 9 aprile 2022 - o quella delle commissioni parlamentari d'inchiesta - sulle quali di recente A. Balsamo, Commissioni d'inchiesta per le verità sulle stragi, Repubblica, 17 luglio 2022 -.
[29] V., sul significato dell’espressione giudice disobbediente nel contesto dei doveri nascenti dalla Costituzione Il giudice disobbediente nel terzo millennio. Intervista d. R.G. Conti a G. Silvestri, V. Militello e D. Galliani, in Giustiziainsieme, 5 giugno 2019.
[30] R. Scarpinato, «L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, 221: “Dunque far emergere la verità, raccontare la realtà quale essa è e quale non trova spazio in quella ufficialità che è occupata dal potere, costituisce un importante atto di opposizione civile.”
[31] L. Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, - pubblicato su Il giornale, anno I, n.12, dicembre, 1986, pp-9-210) - Appendice a Diritto verità giustizia, (cit.,153: “…Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi quietudine, al dubbio.”. …E l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia… deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estravertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio”.
[32] R. Scarpinato, «L’egida impenetrabile»: mafia e potere nell’opera di Leonardo Sciascia, in Giustizia e letteratura, a cura di G. Forti, C. Mazzucato, A. Visconti, Milano, 2014, 224: “occorre che i magistrati non si lascino corrompere o non siano omologati al potere.”
[33] Sia consentito il rinvio a precedenti riflessioni in R. G. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana?, Roma, 2019, 33 ss.
[34] V., volendo, le conclusioni all’intervista indicata alla nota 27.
[35] Il pensiero va, anche, alle recenti vicende che hanno visto una larga parte della magistratura non accogliere l’idea che fosse lo sciopero il “mezzo” per rappresentare le assolutamente legittime riflessioni critiche sulla riforma della giustizia in itinere. Un fatto, quest’ultimo che, al di là delle motivazioni variegate alla base dell’astensione, sembra in generale dimostrativo di un desiderio di impostare in modo nuovo le relazioni, osando il confronto anche se aspro, quanto più plurale e perciò autentico.
[36] Ponti v. muri, o muri e ponti, Editoriale, Giustizia insieme, 20 dicembre 2022.
[37] R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustiziainsieme, 4 marzo 2021.
[38] S. Sotomayor, Il mio mondo amatissimo. Storia di un giudice dal Bronx alla Corte Suprema, Bologna, 2022, 285: “..non considero pubblici ministeri e avvocati difensori nemici naturali, per quanto comune sia questa visione all’interno e all’esterno della professione legale. Sono semplicemente figure con due ruoli diversi, che devono essere ricoperti entrambi per raggiungere un fine più nobile: mettere in pratica lo stato del diritto Nonostante i due ruoli siano opposti, la loro esistenza dipende dalla condivisa accettazione del giudizio della legge, indipendentemente da quanto i due fronti mirino al risultato sperato Ciò non significa negare che a guidare gli sforzi di entrambe le parti sia la voglia di vincere, né sostenere una qualche semplicistica equivalenza tra accusa e difesa: piuttosto, si tratta meramente di sottolineare che, alla fine, per fare un buon servizio sia all’accusato che alla collettività, l’integrità del sistema deve essere posta più in alto rispetto ai fini più vantaggiosi per l’una o l’altra fazione”.
[39] V., di recente, sul tema dell'etica delle funzioni giudiziarie le ricchissime osservazioni di A. Nappi, Etica, deontologia e funzioni giudiziarie: tra efficienza, percezione ed effettività, in Questionegiustizia, 18 luglio 2022.