ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il presente contributo rappresenta la ideale prosecuzione di quanto già espresso su questa rivista in “Sulla soglia dell’Umanità. Un dialogo interrotto tra Roma e Strasburgo” cui si rimanderà per brevità su alcuni temi che saranno oggetto di indagine. Se in quella sede ci si era interrogati sulla congruità dei parametri assunti dalla giurisprudenza di legittimità, giudicando non condivisibili le statuizioni di principio emerse in seno alla Corte di Cassazione rispetto agli standard di tutela dell’art. 3 CEDU nell’interpretazione attualmente offerta dalla giurisprudenza di Strasburgo, a questo scritto spetta il compito arduo di rappresentare la pars construens di quel discorso, per rintracciare tra le interpretazioni possibili e nel solco della Carta Costituzionale una via italiana per la tutela della dignità delle persone ristrette avverso il sovraffollamento carcerario, eventualmente anche oltre l’art. 3 CEDU.
Una proposta radicale e radicata nell’art. 27 c. 3 Cost., che si offre al dibattito ed alla riflessione di chi per professione, per passione o mero senso civico, si interessa al mondo penitenziario.
Sommario: 1. Introduzione: il sovraffollamento carcerario, un tema ricorrente – 2. Nozioni e definizioni del fenomeno: il sovraffollamento tra scienze tecniche e diritto – 3. Spazio detentivo minimo e tecniche di tutela: l’art. 35 bis O.P. e l’art. 35 ter O.P. – 4. Il rilievo del sovraffollamento nell’art. 35 bis O.P.: norme rilevanti e criteri ermeneutici – 5. Gli standard di tutela dell’art. 3 CEDU, tra C.P.T. e Corte di Strasburgo – 6. Il letto di Procuste[1]: i criteri Mursic nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Cassazione – 7. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte I “Verso Mursic...” – 8. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte II “.... e oltre” – 9. La tutela dal sovraffollamento in chiave costituzionale: una proposta radicale.
1. Introduzione: il sovraffollamento carcerario, un tema ricorrente
Il tema del sovraffollamento carcerario occupa indubbiamente un posto di primario rilievo nel discorso pubblico e nella riflessione degli operatori in materia di esecuzione penale.
Al sovraffollamento - oltre che alla cronica carenza di risorse per il trattamento penitenziario - si imputano gran parte delle storture e delle inefficienze del “sistema carcere”, a sua volta messo ulteriormente sotto pressione dall’elevato tasso di recidiva che si registra nel nostro paese, in un moto circolare dove la causa scolora nell’effetto e viceversa, dipingendo un quadro a tinte fosche e scure.
In questo scenario, a farla da padrone è un uroboro asfissiante che ciclicamente ritorna a bussare alla porta delle coscienze di chi, per professione, per passione o mero senso civico, si interessa al mondo penitenziario, convinto che è dalla condizione delle carceri che si giudica la civiltà di un popolo[2].
Un serpente che si rigenera ed auto divora e che, talvolta, stringe le sue spire a guisa di nodo[3] - se è vero che a stento si muore e che di stenti si può anche morire[4] - senza lasciare apparente scampo.
E nonostante qualcuno, da lontano, gracchi un “Nevermore”[5], l’eterno ritorno delle carceri che scoppiano, inadeguate e che uccidono perseguita operatori penitenziari, avvocati e magistrati.
È chiaro: si tratta di problema complesso, che coinvolge la società tutta e chiama ad un’assunzione di responsabilità non solo i diversi operatori della giustizia, ma anche l’azione della politica, la cui soluzione richiederebbe interventi sinergici, coraggiosi e lungimiranti da parte di tutte le istituzioni coinvolte; doti rare, nell’evo contemporaneo (tam saeva et infesta virtutibus tempora, per dirla con Tacito[6]).
Quel che qui ci si propone è di indagare le risposte ordinamentali al tema dall’angolo prospettico degli strumenti di tutela giurisdizionale e del potere di intervento del giudice cui, sostanzialmente, l’intera materia è stata tralaticiamente demandata dal legislatore.
Giudice che (secondo una felice immagine della dottrina) nel labirinto delle fonti[7], pare aver perso il suo filo d’Arianna, la stella polare della Costituzione, avventurandosi per approdi lontani da porti sicuri, in cui l’esercizio della giurisdizione cede il passo alla fredda calcolatrice del geometra.
È, dunque, necessario recuperare il Nord, orientare la bussola e porre al centro del proprio cammino l’orizzonte costituzionale, nella cui roccia potrebbero (e secondo lo scrivente possono) riscoprirsi filoni auriferi nuovi, da cui trarre materia per plasmare, in via ermeneutica, il volto costituzionale della pena.
2. Nozioni e definizioni del fenomeno: il sovraffollamento tra scienze tecniche e diritto
Quando si parla di sovraffollamento carcerario, ci si riferisce ad un tema che coinvolge numerosi aspetti della realtà detentiva, ma che affonda le proprie radici anzitutto sul terreno dell’edilizia penitenziaria e della capacità ricettiva degli istituti.
Una struttura carceraria o una cella in tanto può essere definita sovra-affollata, in quanto ospita un numero di persone eccedente quello che potrebbe ordinariamente accogliere; il che postula che a monte esista un dato numerico che definisca la capienza dell’istituto o della camera detentiva.
Ma poiché la capienza degli istituti deve essere definita sulla base di criteri di abitabilità e vivibilità degli ambienti, e che questi, a loro volta, discendono da scelte valoriali ed assiologiche sullo spazio vitale minimo di cui ciascun detenuto ha bisogno, la definizione di un numero di capienza massima può essere giudicata più o meno accettabile nella misura in cui rispetta i criteri posti a monte della definizione stessa.
Esemplificando, si potrebbe pure stabilire che una cella di 10 mq sia idonea ad ospitare dieci persone; ma, chiaramente, tale indicazione si colorerebbe in termini di non accettabilità in quanto restituirebbe l’immagine di un ambiente non vivibile.
In questo senso, assume estrema rilevanza la definizione di standard di abitabilità/vivibilità minimi che definiscano quanto spazio occorre perché un ambiente possa essere considerato adeguato ad ospitare una o più persone.
Nella valutazione sulla abitabilità, ovviamente, al di là dello spazio rilevano ulteriori fattori, quali illuminazione, areazione, condizioni di temperatura etc.
Ai fini di interesse per l’odierna indagine, occorre limitare l’analisi al tema dello spazio vitale minimo, quale presupposto di partenza per un giudizio che porti a riscontrare una condizione di sovraffollamento.
Si tratta di un tema che è stato oggetto di approfondimento per lo più in ambito internazionale.
In particolare, le tre istituzioni che da un punto di vista tecnico si sono occupate di affrontare la materia sono le seguenti: nell’ambito del Consiglio d’Europa e della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo il Comitato di Prevenzione della Tortura; il Commissariato della Croce Rossa Internazionale; da ultimo, in seno alle Nazioni Unite, il Cometee Against Torture, istituito nell’ambito della Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984.
Seppur con approcci e standard non sempre omogenei, le fonti citate hanno dedicato particolare attenzione al tema, elaborando una serie di criteri per valutare l’adeguatezza delle condizioni detentive in termini di spazio personale, con specifico riferimento al fenomeno del sovraffollamento carcerario; standard che saranno oggetto di approfondimento nel corso del presente scritto.
Sul piano giuridico, invece, un ruolo di primaria importanza per l’evoluzione dell’ermeneutica in materia deve essere riconosciuto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ad essa, in particolare, si deve nel nostro ordinamento l’introduzione dei due strumenti normativi offerti agli operatori del diritto ed all’interprete per la tutela giurisdizionale della dignità dei ristretti (anche) rispetto a condizioni di sovraffollamento carcerario: gli artt. 35 bis e 35 ter L. 354/1975.
3. Spazio detentivo minimo e tecniche di tutela: l’art. 35 bis O.P. e l’art. 35 ter O.P.
Il tema dello spazio personale minimo all’interno delle celle detentive e del sovraffollamento carcerario è stato coltivato dalla giurisprudenza interna in massima parte nell’ambito del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter L. 354/1975, di cui si è detto ampiamente in altra sede, cui si rinvia[8].
Si tratta, in estrema sintesi, di un rimedio indennitario e risarcitorio, che riconosce uno sconto di pena o una liquidazione monetaria nei casi in cui si riscontri una lesione dell’art. 3 dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (d’ora innanzi CEDU), per come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
La norma è stata introdotta quale completamento della tutela astrattamente garantita dal reclamo giurisdizionale ex art. 35 bis L. 354/1975 (d’ora innanzi anche O.P.), sulla base della sentenza Torregiani v. Italy del 2013, nell’ambito del piano concordato tra il Consiglio d’Europa e lo Stato italiano per l’esecuzione della condanna. La sentenza citata, infatti, aveva tra le altre statuizioni, censurato ai sensi dell’art. 13 CEDU l’assenza di un rimedio effettivo che consentisse a livello di legislazione interna di ristorare i pregiudizi già esauritisi del diritto dei detenuti a non subire trattamenti disumani o degradanti ai sensi dell’art. 3 CEDU - da intendersi quale violazione degli obblighi positivi di tutela discendenti dalla Convenzione - a causa delle condizioni di sovraffollamento carcerario sistemiche del nostro paese, giudicando a tal fine insufficiente il reclamo ai sensi dell’art. 35 O.P.
Ma, a ben vedere, è la stessa sentenza Torregiani v. Italy ad indicare che lo strumento fisiologicamente più adatto a garantire effettiva tutela al diritto leso, sarebbe un reclamo giurisdizionale di tipo preventivo[9], oggi disciplinato dagli artt. 35 bis e 69 c. 6 lett. b O.P.
Gli articoli citati, infatti, consentono al detenuto o all’internato di proporre reclamo al Magistrato di Sorveglianza avverso l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni della legge sull’ordinamento penitenziario e del relativo regolamento da cui derivi un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti.
La normativa, sebbene l’art. 69 c. 6 lett. b) O.P. faccia riferimento a violazioni di disposizioni previste “dalla presente legge e dal relativo regolamento”, è pacificamente letta dalla giurisprudenza di merito e costituzionale alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata come volta a rendere giustiziabile innanzi alla Magistratura di Sorveglianza l’esercizio dei diritti in ambiente detentivo, consentendo al detenuto di ottenere una tutela effettiva avverso quegli atti o comportamenti dell’amministrazione penitenziaria che, impedendo tout court o limitando oltre misura tale esercizio, realizzino delle gravi lesioni di diritti costituzionalmente tutelati.
In questa prospettiva, la norma può essere viatico per censurare quelle scelte amministrative e quelle condotte attive o omissive dell’amministrazione che, pur attuate nell’ambito della discrezionalità propria dell’ente penitenziario, compromettano l’esercizio dei diritti dei detenuti oltre la misura necessaria rispetto a quella già insita nella privazione della libertà personale determinata dall’esecuzione inframuraria.
Si tratta di un giudizio che, evidentemente, consente alla Magistratura di Sorveglianza di vagliare, secondo canoni di proporzionalità e adeguatezza, anche la discrezionalità delle scelte amministrative di pertinenza dell’amministrazione penitenziaria.
Tale sindacato, tuttavia, può essere ammissibile (vertendosi in terreno particolarmente esposto ad una possibile ingerenza del potere giudiziario su quello esecutivo-amministrativo, con lesione della separazione dei poteri) solo ove la lesione attinga un diritto del detenuto o dell’internato e ove la lesione eventualmente riscontrata sia connotata dai caratteri di gravità ed attualità.
Non sempre, infatti, la limitazione di un diritto rappresenta, per ciò solo, una lesione dello stesso.
L’ermeneutica costituzionale ed internazionale in tema di diritti fondamentali è chiara nell’indicare che l’esercizio dei diritti da parte della persona in concreto può (e a volte deve) essere operativamente limitato in presenza di interessi contrapposti, eventualmente a loro volta espressivi di diritti fondamentali di altri soggetti o di interessi parimenti meritevoli di tutela tali da porsi, nel caso di specie, in termini antinomici rispetto alla piena soddisfazione dell’interesse fatto valere dalla persona.
Si ritiene di dover richiamare, sul punto, l’ampia giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha più volte chiarito come i diritti sanciti dalla Convenzione, ad eccezione di quelli incomprimibili di cui agli artt. 3, 4 e 7, non debbano essere intesi in termini assoluti nel loro esercizio e che possano subire una compressione o financo un sacrificio, laddove ciò risulti necessario per garantire altri diritti o esigenze egualmente meritevoli di tutela[10].
Quel che preme rilevare, in questa sede, è come la Corte di Strasburgo, nelle materie in cui è stata chiamata ad esprimersi, abbia indicato le condizioni (generalmente mediante l’elaborazione di test) che possono portare a ritenere adeguato al caso concreto il sacrificio imposto ai diritti tutelati nella Convenzione, adottando un approccio che, lungi dall’esaurirsi ad una statica considerazione dei diritti fondamentali, legge gli stessi nel loro dinamico farsi e comporsi, alla ricerca di quell’equilibrio che realizzi, a parità di tutela dell’uno, il minor sacrificio possibile dell’altro; ma che, astrattamente, non preclude anche l’instaurazione di legittimi rapporti di subvalenza/prevalenza tra diritti antinomici.
Si tratta, in verità, di concetti che non sono estranei all’ermeneutica della Corte Costituzionale italiana, che, seppur in un contesto di civil law tendenzialmente a trazione lege-centrica, ha da tempo enucleato come criterio di risoluzione delle antinomie tra i diritti e di valutazione delle opzioni normative il canone della ragionevolezza (in parte mutuato dalla giurisprudenza espressa dal Bundesverfassungsgericht a partire dalla Sentenza Apotheken-Urteil del 11.6.1958).
In origine costruito quale corollario dell’art. 3 Cost., ed ancorato nella sua operatività dal raffronto con un tertium comparationis, si tratta di un principio che negli ultimi anni la Corte ha utilizzato per garantire un sindacato sempre più attento e puntuale alla proporzionalità delle scelte legislative nell’ottica di garantire tutela adeguata ai principi costituzionali, valutando che il legislatore eserciti ponderatamente la discrezionalità che gli è propria[11] (sino a sanzionarne il mancato esercizio, con conseguente vuoto di tutela per i diritti costituzionalmente e convenzionalmente tutelati; si veda da ultimo C. Cost. 10/2024 in tema di sessualità-affettività inframuraria).
Anche in questo contesto, tuttavia, la Consulta ha più volte indicato che alcune esigenze pur costituzionalmente rilevanti, possono in concreto subire una compressione laddove sussistano ragionevoli elementi per limitare la soddisfazione delle stesse, accettando opzioni normative che hanno accordato prevalenza a taluni interessi a discapito di altri laddove l’opzione prescelta non risultasse manifestamente irragionevole, sproporzionata, incongrua o inadeguata[12].
Queste considerazioni, operate su un piano di teoria generale, servono ad inquadrare il metodo con cui occorre approcciarsi alla materia del reclamo giurisdizionale.
Perché possa ammettersi un sindacato sulle scelte amministrative in ambito penitenziario devono, dunque, ricorrere i seguenti presupposti:
- il detenuto deve vantare un diritto soggettivo/fondamentale, protetto dalla legge o dalla Costituzione (o dalla CEDU, tramite l’art. 117 Cost.);
- tale diritto deve subire una limitazione da parte di scelte organizzative o da condotte attive/omissive dell’amministrazione penitenziaria;
- la limitazione deve risultare grave, dovendo intendersi questo requisito integrato tutte le volte in cui la stessa si presenti come particolarmente incongrua e sproporzionata rispetto alla tutela che assicura ad eventuali diverse esigenze rilevanti nel caso di specie, sì da ledere irragionevolmente il diritto del detenuto;
- la lesione deve essere attuale, nel senso di perdurante al momento della decisione da parte del Magistrato di Sorveglianza, avendo lo strumento in esame l'obiettivo di fornire una tutela ripristinatoria in forma specifica al diritto leso, posto che eventuali pregiudizi esauritisi possono trovare forme di ristoro secondo gli ordinari strumenti previsti dall’ordinamento (innanzi al giudice civile ovvero, laddove la lesione attinga l’art. 3 CEDU con reclamo ex art. 35 ter O.P.).
Solo a queste condizioni, dunque, può consentirsi al potere giudiziario di valutare la congruità dell’assetto degli interessi nel caso concreto e, dunque, offrire tutela al diritto del detenuto.
Tale tutela si concreta in un potere del giudice di ordinare all’amministrazione penitenziaria ed alle amministrazioni coinvolte un facere specifico, vale a dire rimuovere entro un termine indicato dal provvedimento gli ostacoli all’esercizio del diritto da parte del detenuto, adottando le scelte necessarie in tal senso.
Laddove l’amministrazione non adempia, è poi consentito al detenuto o al suo difensore di agire per ottenere l’ottemperanza dell’ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza, garantendo, in un’ottica di effettività della tutela, la realizzazione coattiva del diritto da parte del giudice.
Questi potrà, ai sensi dell’art. 35 bis c. 6 O.P. ordinare l’ottemperanza, indicando modalità e tempi di adempimento (di fatto anche con facoltà di sostituirsi all’amministrazione), nominare un commissario ad acta per l’esecuzione dell’ordinanza, e dichiarare la nullità degli atti amministrativi adottati in violazione-elusione del giudicato (riecheggia, nella normativa citata, l’eco degli artt. 21 septies L. 241/1990 e dell’art. 114 D.Lgs. 104/2010).
Dalla rapida disamina dell’istituto, dunque, appare abbastanza evidente che le frecce nella faretra del Magistrato di Sorveglianza nell’ambito del reclamo giurisdizionale siano particolarmente perforanti, sì da poter aprire dei significativi varchi nella corazza apparentemente impenetrabile dell’azione amministrativa.
Nel reclamo ai sensi dell’art. 35 bis O.P. una condizione di sovraffollamento strutturale, infatti, potrebbe essere affrontata di petto dalla magistratura di sorveglianza, con l’adozione di provvedimenti cogenti e capaci di imporre all’amministrazione azioni concrete per rimuoverne le cause, ove occorra anche sul piano strutturale.
Eppure, statisticamente, il problema sovraffollamento carcerario viene affrontato nelle aule di giustizia quasi sempre sul piano risarcitorio del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter O.P., con un approccio che pare preferire il risarcimento/indennizzo alla tutela effettiva dei diritti. E ciò, se del caso, brandendo la sentenza Torregiani e l'art. 35 ter O.P. quale arma formidabile contro l’amministrazione e panacea dei mali del sistema, in quella che pare a chi scrive una chiara deviazione da quella che la Corte EDU aveva, effettivamente, indicato come la via maestra per garantire tutela all’art. 3 CEDU: l’art. 35 bis O.P.
Le tecniche di tutela dei diritti, infatti, classicamente si articolano, quantomeno su tre livelli.
Il livello minimo è rappresentato dal risarcimento per equivalente mediante attribuzione di una somma di denaro, tecnica di tutela che è utilizzata nei casi in cui non è possibile il ripristino né l’esatta realizzazione del diritto leso, ma solo ripararne simbolicamente il pregiudizio sul piano economico, anche laddove l’interesse del titolare del diritto non avesse ad oggetto una pretesa di tipo patrimoniale.
Forme intermedie possono essere quelle di tipo ripristinatorio quali il risarcimento in forma specifica, che sono utilizzate laddove il diritto leso viene ristorato nel suo esercizio mediante l’eliminazione del pregiudizio, che realizza di per sé l’accesso al bene della vita sotteso al diritto stesso.
Ma, occorre ricordare che la forma più elevata di tutela che un ordinamento giuridico può apprestare ad un diritto è quella preventiva, vale a dire quella che orienta le scelte normative nel senso di fissare regole volte a non consentire, quantomeno in astratto, che il diritto tutelato venga posto in pericolo.
Tale tecnica di tutela è, in genere, adottata per garantire beni giuridici particolarmente significativi per l’ordinamento, la cui sola messa in pericolo è considerata non accettabile.
È quest’ultima, secondo la Corte, la tutela che si dovrebbe garantire in via prioritaria all’art. 3 CEDU[13].
4. Il rilievo del sovraffollamento nell’art. 35 bis O.P.: norme rilevanti e criteri ermeneutici
Chiarito questo punto, occorre chiedersi, tecnicamente, in che termini il sovraffollamento carcerario potrebbe sorreggere una doglianza deducibile ai sensi degli artt. 35 bis e 69 c. 6 lett. b L. 354/1975.
Evidentemente, un eventuale reclamo sul punto dovrebbe mettere in discussione l’adeguatezza della camera di pernottamento sotto lo specifico profilo della carenza di spazio personale, che trova un proprio addentellato normativo nella legge sull’ordinamento penitenziario all’art. 6 L. 354/1975, laddove si afferma che le persone ristrette devono essere inserite in locali di pernottamento strutturalmente congrui e “di ampiezza sufficiente”.
La legge italiana, tuttavia, non stabilisce a monte una nozione o un indice numerico che definisca il concetto di “ampiezza sufficiente” (come avviene nella legislazione di altri paesi); con ciò rimettendo sostanzialmente alla discrezionalità amministrativa il compito di individuare cosa debba intendersi per spazio insufficiente e, dunque, quale sia il parametro minimo di spazio personale nelle camere detentive.
Laddove, tuttavia, l’amministrazione, spinta dalla contingenza di dover gestire un numero di ingressi superiore all’ordinario, provvedesse a sistemare nelle celle più persone del dovuto, potrebbe venire in rilievo il diritto costituzionalmente e convenzionalmente riconosciuto ai detenuti di non subire trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 c. 3 Cost.) ovvero disumani o degradanti (art. 3 CEDU e 117 Cost.), ribadito anche dall’art. 1 L. 354/1975.
La lesione di tale diritto può ben presentarsi, oltre che per gravi carenze strutturali della singola cella o dell’istituto, in quelle situazioni in cui, a causa del sovraffollamento carcerario, vengano allocati nella camera un numero di detenuti eccedente il limite di vivibilità all’interno della stessa.
In questo caso, spetterebbe al giudice valutare l’adeguatezza della condizione detentiva e delle scelte operative dell’istituto, e, ove riscontrasse una violazione dei diritti del condannato, censurare la condotta dell’amministrazione nell’ambito del reclamo giurisdizionale.
Ma, un tale giudizio, richiederebbe l’individuazione di uno standard minimo, che consenta di esprimere l’incidenza del sovraffollamento sul diritto leso.
Il rapporto tra sovraffollamento e spazi minimi di detenzione nelle camere di pernottamento non trova, però, una specifica elaborazione nella giurisprudenza interna, essendo stato in principalità affrontato nell’ambito del rimedio di cui all’art. 35 ter O.P., che, come detto, richiama espressamente l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’art. 3 CEDU; da ciò è comprensibile che l’analisi della tematica sia stata condotta in massima parte con un approccio di tipo derivativo.
Approccio che, però, non pare aver vagliato in termini approfonditi alcuni aspetti di contraddizione insiti nell’attuale assetto della tutela convenzionale rispetto all’art. 3 CEDU in punto di vivibilità degli ambienti e condizioni minime di detenzione.
Il sistema di tutela garantito dal Consiglio d’Europa all’art. 3 CEDU, infatti, poggia su due pilastri: da un lato le indicazioni provenienti dal Comitato di Prevenzione della Tortura (C.P.T.), compendiate nei Reports e nelle European Prison Rules; dall’altro, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Le due fonti, tuttavia, sono al momento in uno stato di disallineamento sul punto specifico dello spazio personale minimo, individuando standard detentivi parzialmente divergenti.
Su tale asimmetria, appare opportuno soffermarsi.
5. Gli standard di tutela dell’art. 3 CEDU, tra C.P.T. e Corte di Strasburgo
Il Comitato di Prevenzione della Tortura è un ente del Consiglio d’Europa che ha il compito di promuovere l’adozione di standard comuni per il rispetto dell’art. 3 CEDU.
Nei vari anni di attività, questa autorità indipendente e tecnica, ha elaborato numerosi report, culminati nella redazione delle European Prison Rules[14], in cui sono fissati diversi parametri orientativi per migliorare le condizioni detentive negli Stati aderenti perché non si realizzino violazioni dell’art. 3 CEDU.
Il Comitato, per quanto di specifico interesse in questa sede, ha dedicato particolare attenzione al tema del sovraffollamento carcerario, quale fenomeno capace di imprimere alla detenzione un portato afflittivo che, per carenza di spazio personale, ridondi in un trattamento inumano o degradante.
Nell’elaborazione del Comitato sono ben delineati i criteri di valutazione dello spazio personale nelle camere detentive al fine di riscontrare o meno una condizione di sovraffollamento carcerario, distinguendo tra misure auspicabili e misure minime.
Quanto ai parametri auspicabili cui gli Stati dovrebbero tendere, il Comitato indica che una cella singola dovrebbe avere misure di almeno 6 mq al netto del bagno, mentre le celle con più occupanti, fino ad un numero massimo di quattro, dovrebbero prevedere 4 mq netti in più per ciascun detenuto rispetto alla cella singola. Dunque, a titolo esemplificativo, una cella doppia dovrebbe misurare auspicabilmente 10 mq (6+4), una cella tripla 14 (6+4+4) e così via[15].
Viceversa, il parametro minimo al di sotto del quale il Comitato ritiene sussistano profili di lesione dell’art. 3 CEDU nelle celle con più occupanti è indicato costantemente in 4 mq di spazio personale ciascuno; esemplificando, una cella doppia non dovrebbe mai misurare sotto gli 8 mq, una cella tripla avere dimensioni inferiori ai 12 mq e così via.
Nel calcolo dello spazio personale, inoltre, il C.P.T. considera esclusivamente le dimensioni della cella, intendendo con essa la sola camera di pernottamento ad esclusione del locale bagno, dividendo poi il dato metrico per il numero di occupanti.
Sono, dunque, inclusi all’interno dello spazio disponibile nella metodologia di calcolo del C.P.T. anche gli arredi quali letti e/o armadi, trattandosi di suppellettili necessarie ed utili a rendere l’ambiente vivibile.
Si consideri, a tale proposito, che la presenza di un letto per ogni singolo occupante è valutata dal C.P.T. quale misura positiva, avendo riscontrato diverse situazioni in cui ai detenuti non era garantito un proprio luogo per il riposo, ma questi erano costretti o a dormire a terra, o in due per ogni singolo letto, ovvero ancora a turno. Parimenti dicasi per gli altri arredi, che rendono l’ambiente abitabile, consentendo lo svolgimento delle attività ordinarie di vita dentro la cella.
Preme evidenziare che lo stesso C.P.T. indica che i propri standard non sono dotati di valore tassativo, potendo escludersi una violazione dell’art. 3 CEDU laddove, a prescindere dallo spazio personale, sussistano congrui elementi ulteriori che consentano di valutare positivamente le condizioni detentive.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, viceversa, è l’organo giurisdizionale, interprete della Convenzione, chiamata a giudicare se in un caso concreto vi sia stata una violazione delle norme di principio da essa stabilite.
Rispetto alla tematica di interesse, la Corte, sulla premessa dell’impossibilità di stabilire in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto a ciascun detenuto ai termini della Convenzione, ha adottato un parametro orientativo di spazio personale minimo di 3 mq per ciascun ristretto all’interno delle camere detentive.
Nella copiosa giurisprudenza della Corte EDU sul punto, occorre fare primario riferimento alla sentenza della Grande Camera Mursic v Croatia del 20.10.2016[16].
La sentenza citata, infatti, rappresenta certamente il leading case della giurisprudenza EDU in materia, non solo perché proveniente dal più ampio consesso della Corte di Strasburgo, ma anche perché con tale pronuncia la Grande Camera ha individuato le regole di giudizio e le situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 3 CEDU attraverso un’opera di raccordo e selezione degli orientamenti emersi in seno alla Corte negli anni precedenti.
È con la sentenza Mursic v. Croatia ,infatti, che la Corte ha accolto e stabilizzato l’indirizzo per cui la soglia orientativamente idonea a porsi in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti debba essere fissata nelle celle con più occupanti in 3 mq pro capite, calcolati secondo la metodologia adottata dal Comitato di Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa (vale a dire calcolando la superficie della cella al netto del bagno e dividendola per il numero di occupanti)[17].
Tale condizione, infatti, secondo la Corte, implica un disagio o una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione, a causa della promiscuità degli ambienti tra più detenuti e della scarsa libertà di movimento all’interno della cella.
L’individuazione della soglia in 3 mq di spazio personale è stato un approdo non del tutto scontato né condiviso all’unanimità dai giudici di Strasburgo, atteso che vi era forte dibattito in seno alla Grande Camera circa la necessità di adottare il più elevato standard minimo indicato dal C.P.T. di 4 mq di spazio personale, che era stato accolto in alcune pronunce minoritarie (Cotleţ v. Romania (no. 2), n. 49549/11, §§ 34 e 36, 1.10.2013; Apostu v. Romania, n. 22765/12, § 79, 3.2.2015).
Tuttavia, la Grande Camera, a maggioranza, ha inteso ribadire che gli standard del C.P.T. indicano livelli minimi ed auspicabili e svolgono, dunque, una funzione preventiva e di indirizzo per gli Stati membri, laddove la Corte è chiamata a valutare situazioni reali ed effettive; pertanto, l’adozione di un parametro auspicabile per la valutazione dell’esistente, comporterebbe un giudizio non coerente con il tipo di tutela che la Corte EDU può assicurare nel sistema della Convenzione, andando a sovrapporsi a quella del Comitato.
La Corte, a ben vedere, non ha del tutto ignorato l’elaborazione del C.P.T. stabilendo che laddove lo spazio sia compreso tra i 3 ed i 4 mq, pur non essendovi applicazione dello strong presumption test, sussistono condizioni valutabili come problematiche, che richiedono adeguati elementi compensativi, per escludere la produzione di una lesione dell’art. 3 CEDU.
Laddove, da ultimo, lo spazio sia superiore ai 4 mq, non si evidenziano condizioni di pregiudizio sotto il profilo della carenza di spazio personale.
Sul punto della mancata adozione dello standard di 4 mq fissato dal C.P.T. non sono mancate le voci critiche dei giudici che avevano espresso orientamento di senso contrario in seno alla Grande Camera.
I giudici Sajò, López, Guerra and Wojtyczek hanno redatto una dissenting opinion congiunta, rimarcando la necessità che la Corte adottasse, quantomeno, gli standard minimi del C.P.T., posto che i 3 mq rappresentano un dato metrico particolarmente basso, che comporta per i detenuti una costante lesione dello spazio personale reciproco e che si colloca, peraltro anche al di sotto degli standard elaborati da altre organizzazioni internazionali[18].
Particolarmente approfondita è, ancora, la dissenting opinion del giudice Pinto de Albuquerque[19], il quale ha, in sintesi, osservato come la maggioranza dei giudici della Grande Camera, scegliendo di adottare uno standard di spazio minimo inferiore a quello accolto dal C.P.T. abbia sostanzialmente tradito la premessa maggiore da cui muove tutta l’ermeneutica della Corte EDU in materia di art. 3 della Convenzione: l’inderogabilità dell’art. 3 CEDU.
Se, argomenta il giudice portoghese, l’art. 3 CEDU individua un diritto inderogabile dell’individuo - concetto che nel sistema convenzionale significa non solo non violabile ex professo, ma soprattutto incomprimibile e, come tale, non bilanciabile nel suo esercizio con altri interessi o altri diritti, pur se garantiti dalla stessa Convenzione – non dovrebbe essere possibile accettare una soglia di tutela inferiore a quella minima fissata dal C.P.T.
E ciò anche in considerazione del fatto che il documento del C.P.T. contenente gli EPR (European Prison Rules) è stato espressamente adottato per impegnare i Governi degli Stati aderenti alla Convenzione a dotarsi di una legislazione nazionale che fissi chiari e specifici standard minimi di spazio personale (“the EPR are intended to compel Governments to declare by way of national law specific standards, which can be enforced” and these enforceable standards include certain European “minimum standards” in terms of accommodation: first and foremost, “there must be a clear minimum space”).
Alla luce delle chiare intenzioni del Consiglio e del Comitato nell’elaborazione del documento sugli standard detentivi minimi europei, ritenere lo stesso espressivo di indicazioni con mero valore programmatico anche nella parte in cui fissa gli standard minimi è giudicato dal giudice portoghese frutto di una lettura superficiale del testo.
La critica del giudice dissenziente è poi estesa anche al metodo adottato dalla Grande Camera: mentre lo standard C.P.T. di 4 mq è stato elaborato dal Comitato sulla base di un lungo lavoro di osservazione statistica e scientifica sugli effetti del sovraffollamento carcerario in termini di correlazione tra ovecrouding e inadeguatezza degli spazi personali, problematiche psicologiche ed insorgenza di agiti autolesivi, il parametro dei 3 mq è frutto della mera elaborazione della Corte EDU e non si confronta con gli argomenti a sostegno della soluzione più ampia (il paragrafo termina un irridente “in umbris est potestas”).
In conclusione, la dissenting opinion del giudice De Albuquerque evidenzia come con giudizi come quello reso nel caso Mursic v. Croatia la Corte non solo indebolisce e scredita il lavoro degli altri organi del Consiglio d’Europa, ma rinforza l’impressione che il sistema di tutela Europeo ai diritti fondamentali sia complessivamente incoerente.
Al netto della severità del giudizio conclusivo, le due dissenting opinion citate pongono all’attenzione dell’interprete un tema: un disallineamento tra Corte di Strasburgo e Comitato in punto di individuazione dello spazio personale minimo ai fini del rispetto della Convenzione.
L’analisi di tale distonia tra i due organi del Consiglio d’Europa sarà oggetto delle considerazioni e delle proposte successive.
Ma, prima, appare necessario confrontarsi sinteticamente con la giurisprudenza interna.
6. Il letto di Procuste[20]: i criteri Mursic nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Cassazione
La giurisprudenza convenzionale in materia, come detto, è stata approfondita dai giudici nazionali (di merito e di legittimità), prevalentemente nell’ambito del reclamo ex art. 35 ter O.P., con esiti che però appaiono allo stato non coerenti con il complessivo sistema di tutela convenzionale.
In particolare, l’ermeneutica della Corte di Cassazione ha inteso alcuni passaggi della sentenza Mursic in termini difformi rispetto a quanto effettivamente ivi indicato dalla Grande Camera, elevando lo standard di tutela dell’art. 3 CEDU in via ermeneutica.
In particolare, la Corte EDU, indicando lo spazio di 3 mq, ha precisato che, una volta calcolato questo al lordo del bagno e al netto del mobilio, deve poi verificarsi se, in concreto, i detenuti potessero muoversi liberamente/normalmente nello spazio così determinato.
Le Sezioni Unite[21], dunque, hanno proposto una interpretazione che sconti già gli arredi tendenzialmente fissi, sovrapponendo le nozioni di spazio personale e spazio di libero movimento già per la determinazione della regola di giudizio, detraendo arredi e letto a castello (anche qui, si consenta di rimandare ad altro scritto sul tema, in questa rivista).
Si tratta di operazione che, se non del tutto censurabile sul piano assiologico - in quanto sospinta dalla volontà di dare la maggiore tutela possibile - sul piano metodologico è stata compiuta interpretando in modo creativo e adattando le indicazioni della giurisprudenza di Strasburgo fino a stravolgerne la fisionomia (come nel proverbiale letto di Procuste), nonché esercitando un potere di interpretazione della giurisprudenza convenzionale che appare, come minimo, discutibile rispetto alla collocazione della CEDU nel sistema delle fonti indicata dalla Corte Costituzionale[22].
In particolare, la più recente ermeneutica emersa in seno alla Corte di Cassazione circa lo scomputo degli arredi fissi e, da ultimo, anche solo tendenzialmente fissi (quali il letto singolo[23]) per la determinazione dello spazio personale è frutto di una premessa maggiore non in linea con la giurisprudenza convenzionale, data dalla sovrapposizione delle distinte nozioni di spazio personale, calcolato al lordo degli arredi e funzionale ad individuare in via tendenziale la regola di giudizio (se strong presumption test o meno), e spazio di libero movimento, concetto che è calcolato in ambito EDU al netto di tutti gli arredi – anche mobili – e valorizzato per valutare l’effettiva realtà detentiva sperimentata dal ricorrente quale criterio suppletivo e concreto.
Si tratta di tema apparentemente di scarso respiro, ma che assume particolare rilevanza per stabilire, secondo la giurisprudenza convenzionale, il test e la regola di giudizio applicabile al caso di specie e che, dunque, se non correttamente inquadrato, rischia di portare ad esiti non coerenti con il sistema di tutela convenzionale.
E ciò non soltanto nell’ambito di quanto stabilito dalla giurisprudenza Corte di Strasburgo ma, anche, rispetto alle indicazioni dettate in ottica preventiva dal C.P.T.
Come si è già detto, infatti, il Comitato, pur adottando uno standard più elevato, utilizza un criterio di calcolo che individua lo spazio pro capite al netto del bagno e al lordo del mobilio.
In questo senso, l’ermeneutica interna, detraendo gli arredi tendenzialmente fissi già in fase di determinazione dello spazio personale, finisce con il far scivolare sotto soglia situazioni che rispetterebbero non solo gli standard minimi, ma persino quelli auspicabili indicati dal C.P.T.
Così ricostruito il quadro giurisprudenziale interno, può dubitarsi dell’effettiva validità dei canoni ermeneutici affermati in sede di legittimità.
Posto che le regole di giudizio assunte dalla Corte di Cassazione nell’ambito dell’art. 35 ter O.P. paiono frutto di un travisamento dei criteri espressi dalla giurisprudenza di Strasburgo ed eccedono nella sostanza la stessa elaborazione del C.P.T., queste non possono essere utilizzate per valutare se sussistano condizioni di sovraffollamento carcerario, semplicemente perché si discostano senza congrua motivazione dagli standard internazionali nella subjecta materia.
Il tema, dunque, allo stato attuale dell’elaborazione Costituzionale e Convenzionale, dovrebbe essere affrontato facendo riferimento alla sola giurisprudenza convenzionale tanto nell’ambito del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter O.P. (ed anzi, a fortiori in tale ambito, in cui la giurisprudenza EDU è legge per relationem) quanto dell’art. 35 bis O.P., considerando il rispetto dell’art. 3 CEDU quale obbligo internazionale dello Stato ai sensi dell’art. 117 c. 2 Cost.
In questo senso, il limite di spazio personale oltre il quale dovrebbe potersi riconoscere una condizione di sovraffollamento carcerario è rappresentato dai 3 mq indicati dalla sentenza Mursic da calcolarsi al netto del bagno ed al lordo del mobilio, salva la verifica in concreto sulla effettiva possibilità di movimento normale all’interno della cella.
7. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte I “Verso Mursic...”
Quanto sinora affermato appare necessario per fondare le considerazioni che seguiranno.
L'approdo cui si è giunti, per quanto coerente con il sistema della Convenzione e coi limiti costituzionali all’interpretazione del giudice comune rispetto alla CEDU, appare non soddisfacente e, invero, sollecita ulteriori interrogativi sul piano della sua congruità costituzionale.
In particolare, a parere di chi scrive, non ci si può esimere dal considerare che la sentenza Mursic ha adottato standard minimi inferiori a quelli provenienti dall’elaborazione del C.P.T., scelta su cui la stessa Grande Camera non ha raggiunto una decisione unanime.
Fondate e ampie ragioni di dissenso sul punto sono state espresse da molti giudici.
A fronte di questo dato, verrebbe da chiedersi se non possa immaginarsi la possibilità di valutare la congruità delle condizioni detentive di un carcere sovraffollato non tanto con riferimento all’art. 3 CEDU per come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma alla stregua dell’art. 27 c. 3 Cost., quest’ultimo da leggersi alla luce delle fonti internazionali che hanno affrontato il tema, elaborando una nozione autonoma di trattamento contrario al senso di umanità, che non si appiattisca sulla giurisprudenza EDU[24].
L’operazione ermeneutica qui proposta potrebbe, invero, risultare di primo acchito di tipo creativo, esponendosi dunque a critiche non dissimili da quelle rivolte all’interpretazione dell’art. 3 CEDU proposta dall’attuale giurisprudenza di legittimità.
Tuttavia, la stessa è in verità costruita sulla ritenuta possibilità di individuare in ambito internazionale dei parametri più tutelanti, frutto di elaborazione scientifica e di puntuale osservazione statistica, valevoli come riferimento costituzionalmente adeguato a riempire di significato la nozione di “trattamento contrario al senso di umanità” sancito dalla Costituzione.
Tale operazione, peraltro, sarebbe possibile esclusivamente nell’ambito del reclamo ex art. 35 bis O.P., posto che l’art. 35 ter O.P., richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 3 CEDU, vincola l’interprete al formante giurisprudenziale espresso dalla Corte.
Viceversa, nella sede del reclamo giurisdizionale, è compito del giudice individuare una posizione di diritto tutelabile e di specificarne il relativo contenuto, con il solo limite di radicare la stessa nell’alveo della normativa penitenziaria e nella Costituzione.
8. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte II “.... e oltre”
Ora, è indubbio che l’art. 27 c. 3 Cost., nella parte in cui vieta che la pena si traduca in un trattamento contrario al senso di umanità, faccia riferimento ad un concetto pre- o para- giuridico, appartenente alla sfera del pensiero, del sentimento e dello spirito, di difficile definizione anche perché inevitabilmente mutevole nello spazio e nel tempo (cosa è umanamente inaccettabile qui ed ora, infatti, un tempo era, o altrove lo è, ritenuto pacificamente tollerabile).
Potremmo descrivere l’umanità come un sentimento di solidarietà, di comprensione e di indulgenza verso gli altri uomini, che porta ad attribuire a ciascuno un portato minimo di dignità intangibile, derivante dal solo fatto di esser parte del consorzio umano. Alla base di questo sentimento vi è l’intuizione della comune natura, di un atto di riconoscimento reciproco tra l’io e l’altro da sé, fino alla costruzione di una identità condivisa (potrebbe dirsi uno specchiarsi nell’altro).
Contrario al senso di umanità, dunque, è ogni atto o trattamento che, tradendo la solidarietà tra pari, viene agito non riconoscendo la comunanza di destino con l’altro, che viola il perimetro intangibile dell’altrui dignità, che reifica o degrada la persona al punto da disconoscere ad essa il valore di uomo.
Sul concetto di umanità, nonché sui corollari principi di uguaglianza e dignità tra gli uomini, poggia l’intera costruzione del pensiero liberale (dal celeberrimo motto kantiano “Agisci in modo da trattare sempre l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo”) che ha posto le basi per il costituzionalismo moderno (a partire dalla Costituzione Americana: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”) e che ha condotto, dopo la deflagrazione dei totalitarismi e gli orrori delle Guerre Mondiali, al costituzionalismo contemporaneo ed alle Carte internazionali dei diritti, tra cui la CEDU.
Ad esso, la Carta Fondamentale della nostra Repubblica ha informato il proprio orizzonte programmatico, ponendo la persona umana al centro del progetto politico e organizzativo sancito in Costituzione (si vedano, in particolare l’art. 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; e l’art. 3 c. 2 “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”).
Nell’ambito dell’esecuzione penale, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che dagli artt. 2 e 27 della Costituzione debba trarsi il principio di civiltà giuridica per cui i detenuti mantengono la titolarità di diritti soggettivi e vedono garantita quella “parte di personalità umana” che la pur legittima privazione della libertà personale non può intaccare (ex multiis Sentenze n. 114/1979 e 349/1993).
In questa cornice si colloca il divieto di cui all’art. 27 c. 3 Cost., ribadito anche dall’art. 1 della L. 354/1975.
L’ermeneutica Costituzionale sulla nozione di trattamento contrario al senso di umanità evidenzia la già esposta indeterminatezza del concetto, facendo però alcune precisazioni.
In particolare, si è affermato che un trattamento contrario al senso di umanità è tale se caratterizza oggettivamente la detenzione stessa (Corte Costituzionale, sentenza 104/1982) sì da determinare una incompatibilità assoluta con il protrarsi della carcerazione.
Con specifico riferimento al sovraffollamento carcerario, sovviene poi la sentenza 274/2013 della Corte Costituzionale, che ha affrontato direttamente il tema.
In sintesi, a seguito della sentenza Torregiani, si voleva sollecitare la Corte ad introdurre nell’art. 147 c.p. una ipotesi di differimento della pena per sovraffollamento carcerario e violazione dell’art. 3 CEDU; la Corte, pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate per carenza di soluzioni a rime obbligate, ha evidenziato che il sovraffollamento carcerario è fenomeno idoneo pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale e ad incidere, comprimendolo, sul “residuo” irriducibile della libertà personale del detenuto.
Tuttavia, non esistendo in ambito nazionale una chiara nozione di sovraffollamento carcerario, la giurisprudenza Costituzionale nella sentenza citata (anche perché in tali termini era stata posta la questione) si è limitata a richiamare l’art. 3 CEDU per come interpretato dalla Corte EDU; ciò sulla base della ritenuta coincidenza tra il concetto di “trattamento contrario al senso di umanità” espresso dalla Costituzione e quello di “trattamento inumano o degradante” espresso dall’art. 3 CEDU.
La giurisprudenza interna, però, non considerando il già richiamato disallineamento nella tutela offerta all’art. 3 CEDU venutosi a creare tra le sentenze della Corte di Strasburgo e gli EPR elaborati dal C.P.T., non ha vagliato l’opzione che qui si intende sostenere: vale a dire che ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost. non sarebbe accettabile una tutela inferiore rispetto a quella minima indicata dal C.P.T., che individua un livello di protezione più elevato di quello offerto dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Tale asserzione trova le sue premesse nella considerazione per cui l’elaborazione del C.P.T., come indicato dal giudice Pinto de Albuquerque nella sua dissenting opinion alla sentenza Mursic v. Croatia, non è frutto di scelte arbitrarie e/o politiche, ma piuttosto il punto di arrivo di una lunga osservazione tecnica e scientifica delle realtà detentive europee, condotta dal Comitato, che ha il pregio di fissare dei parametri sia auspicabili che minimi per la definizione dello spazio vitale di cui necessita una persona ristretta.
La soglia di 4 mq al netto del bagno e al lordo del mobilio, in altri termini, è stata calcolata sulla base di una concreta valutazione degli effetti che uno spazio inferiore a tale limite produce nella persona detenuta, evidenziando che ad esso si associano statisticamente l’insorgenza di agiti autolesivi, l’emersione di disturbi del comportamento, maggiore frustrazione ed aggressività.
Per il C.P.T., dunque, al di sotto di tale soglia sussiste già sovraffollamento carcerario ed una condizione valevole ad integrare, quantomeno, un trattamento degradante o a mettere a rischio la dignità delle persone detenute.
È in questa cornice che, l’interprete dovrebbe chiedersi se, a prescindere dal rilievo che una certa condizione detentiva può assumere rispetto all’art. 3 CEDU (quale fonte sub-costituzionale, che trova ingresso nell’ordinamento tramite l’art. 117 Cost.), possa considerarsi o meno “contraria al senso di umanità” e, dunque, valevole per riscontrare una violazione dell’art. 27 c. 3 Cost. l’allocazione in una camera in cui sia garantito uno spazio personale inferiore allo standard minimo che un organismo internazionale indipendente (al quale il nostro paese da aderito) abbia giudicato di per sé indicativo di una condizione di sovraffollamento carcerario e fissato come limite minimo di accettabilità.
Con ciò attribuendo alla norma costituzionale un significato più ampio e tutelante di quello espresso dalla Corte di Strasburgo e, dunque, interpretando la normativa interna, laddove parla di spazio sufficiente, nel senso che non sia sufficiente uno spazio inferiore ai 4 mq calcolati con la metodologia C.P.T.
Ulteriore argomento a sostegno della possibilità di riempire di significato più ampio il concetto di trattamento contrario al senso di umanità può venire anche dalla considerazione che il limite di 3 mq al netto del bagno e al lordo del mobilio fissato dalla sentenza Mursic v. Croatia è, in ambito internazionale, lo standard più basso tra quelli emersi nell’elaborazione sul tema.
Si è già citato, in premessa, il Comittee Against Torture delle Nazioni Unite, istituito nell’ambito della Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984, ratificata dall’Italia il 12.1.1989.
Il Comitato (anche C.A.T.), infatti, nel proprio report del 2018[25] sui temi inerenti all’oggetto della Convenzione ha indicato che, sebbene sia impossibile stabilire con certezza degli standard uniformi, vi sono due organismi internazionali dotati di sufficiente autorevolezza che hanno indagato il tema del sovraffollamento carcerario e fissato dei parametri minimi per prevenire il fenomeno, che a sua volta si correla alla sottoposizione dei ristretti a trattamenti inumani e degradanti. Uno è il C.P.T., di cui si è già detto; l’altro è il Commissariato della Croce Rossa Internazionale, che il C.A.T. indica quale proprio modello primario e con cui ha redatto uno specifico documento in tema di sovraffollamento: il “Handbook on strategies to reduce overcrowding in prisons” del 2013.
L’I.C.R.C. ha elaborato, sulla base dell’esperienza maturata (verrebbe da dire sul campo), che lo spazio congruo da garantire ad un prigioniero perché possa dormire indisturbato, allocare i propri oggetti personali e muoversi dovrebbe essere di 5,4 mq per le celle singole, escluso il bagno ma inclusi 1.6 mq almeno di letto/spazio per dormire, mentre dovrebbe attestarsi in 3,4 mq a persona in camere condivise o dormitori comuni, incluso lo spazio in cui sono allocati i letti.
La Croce Rossa, tuttavia, evidenzia che anche spazi inferiori potrebbero essere adeguati, in considerazione delle condizioni complessive del regime detentivo, non potendo esaurirsi il sindacato nella mera valutazione dello spazio disponibile[26].
È chiaro a chi scrive che le fonti richiamate sono appartenenti al cosiddetto soft law, sicché attribuire ad esse valore direttamente cogente non sarebbe possibile.
Tuttavia, alcuni elementi rinforzano l’idea che le indicazioni in esse contenute possano essere utilizzate non tanto come parametro normativo, quanto piuttosto quali fonti di conoscenza, descrittive di quel che in ambito internazionale è considerato sovraffollamento carcerario; nonché di come, ed in che misura, su base scientifica e di osservazione statistica, al sovraffollamento così descritto venga associata una condizione di sofferenza ulteriore, data dalla carenza di spazio vitale.
Le fonti indicate, anzitutto, (così come la giurisprudenza EDU), convergono nell’individuare un metodo di calcolo lo spazio personale al netto del bagno e al lordo del mobilio; particolarmente chiare sul punto le indicazioni del ICRC e del CAT che specifica come rientrino nello spazio personale sia i letti singoli che i letti a castello (il che, ancora una volta, evidenzia la non adeguatezza della giurisprudenza interna sul tema).
In secondo luogo, le stesse indicano dei parametri minimi che fissano lo spazio personale che occorre garantire per evitare che la detenzione si connoti in termini di ill-treatment (maltrattamento).
Pur adottando, poi, un approccio multifattoriale per verificare se, in concreto, il trattamento degradante sussista, la base di partenza del ragionamento di entrambe le fonti citate è che quella soglia rappresenta il minimo accettabile in termini di spazio per escludere che possa porsi un problema di carenza di sufficiente vivibilità degli ambienti ed al di sotto del quale si verte già in una condizione di ovecrowding.
Da ultimo, entrambi gli organismi internazionali citati hanno fissato soglie più elevate di quelle accolte dalla giurisprudenza EDU nella sentenza Mursic.
In un quadro siffatto, l’interprete non può esimersi dal chiedersi quale opzione possa essere costituzionalmente accettabile ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost.: 3 mq, minimo fissato dalla giurisprudenza della Corte EDU; 3,4 mq, minimo fissato dal I.C.R.C. ed adottato dal C.A.T.; 4 mq, secondo l’elaborazione del C.P.T.
Tale ultima opzione appare quella più coerente con il sistema costituzionale nel suo complesso.
Se, come si è detto, il senso di umanità si caratterizza per l’essere frutto di un atto di riconoscimento reciproco che porta ad attribuire alla persona umana un minimo di dignità intangibile, ed è contrario ad esso ogni condotta che viola il perimetro intangibile di questa dignità, ponendo la persona in una condizione di sofferenza che finisce per disconoscere ad essa il valore di uomo, non potrebbe accettarsi costituzionalmente una tutela inferiore a quella che individua il punto oltre il quale la detenzione viene esperita in condizioni di sovraffollamento.
E ciò per la valida ragione che già questa soglia 4 mq di spazio personale, al lordo del mobilio e al netto del locale bagno, individua una condizione di pregiudizio per la persona ed uno spazio che viene giudicato insufficiente, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza EDU che, pur accogliendo uno standard più basso, valuta comunque come idonee a richiedere un sindacato per una potenziale violazione le condizioni in cui lo spazio personale è compreso tra i 3 ed i 4 mq.
L’assunzione di questo parametro è, dunque, comunque coerente anche con la giurisprudenza EDU, che pur non applicando lo strong presumption test considera già al di sotto dei 4 mq la sussistenza di una condizione problematica ai fini della tutela dell’art. 3 CEDU.
Giova, poi, evidenziare che una nozione autonoma eccedente l’art. 3 CEDU costruita in questi termini sarebbe ben compatibile con la tutela convenzionale. Lo stesso art. 53 CEDU, infatti, consente agli Stati di adottare standard più elevati di quelli espressi dalla convenzione; circostanza che, anche in un’ottica di sistema, rende la presente costruzione compatibile sia con il rispetto della Costituzione che della Convenzione.
Merita di essere segnalata sul tema la recentissima sentenza n. 33/2025 della Corte Costituzionale, in cui, ai paragrafi 7.1 e seguenti, la Corte ha ribadito che in virtù dell’art. 53 CEDU la tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione può essere assicurata dagli Stati membri anche in assenza di specifiche pronunce della Corte di Strasburgo su un determinato aspetto di quel diritto.
È chiaro che in questa sede si è di fronte ad un tema molto arato in ambito convenzionale e dove vi è, viceversa una stabile giurisprudenza a Strasburgo, il che non consentirebbe all’interprete-giudice comune di andare oltre la Corte deputata all’interpretazione della Convenzione (secondo Corte Costituzionale 49/2015).
Tuttavia è interessante ai fini del discorso qui in costruzione la pronuncia citata perché individua il metodo che potrebbe portare ad una corretta integrazione dei sistemi di tutela tra Costituzione e Convenzione: considerare la Convenzione parte del sistema costituzionale e elevare la protezione dei diritti allineando, ai sensi dell’art. 53 CEDU, la minor tutela in ambito convenzionale a quella (che qui si intenderebbe costruire) più elevata costruita sulla norma costituzionale[27].
9. La tutela dal sovraffollamento in chiave costituzionale: una proposta radicale
Alla luce della disamina condotta e richiamando le tecniche di tutela dei diritti, può dirsi che la dignità umana sia un bene che non meriterebbe costituzionalmente la più ampia forma di tutela possibile?
E se diversi organismi internazionali, pur adottando diverse soglie, concordano sul fatto che già tra i 3 ed i 4 mq di spazio personale ci si colloca in un range già insufficiente, capace di porre in dubbio il rispetto della dignità dei ristretti, non è costituzionalmente doveroso fare del parametro dei 4 mq il limite di riferimento ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost., alla luce del quale leggere poi le altre norme dell’ordinamento?
A questi interrogativi, si ritiene di poter dare risposta affermativa.
La carenza di spazio determinata dalla disponibilità di meno di 4 mq per ciascun ristretto, infatti, individua una caratteristica oggettiva della detenzione, che viene esperita in condizioni di chiara non adeguatezza ed insufficienza degli spazi detentivi, sino a porsi in termini non compatibili con il pieno rispetto della dignità dei ristretti; sarebbero, dunque, riscontrati in questo senso anche i criteri ermeneutici già accolti dalla giurisprudenza costituzionale sulla nozione di trattamento contrario al senso di umanità, sopra richiamati.
In questo senso emergerebbe una nozione autonoma di trattamento contrario al senso di umanità con specifico riferimento alle condizioni minime di spazio personale, ancorata all’art. 27 c. 3 Cost.
Sembrerebbe, dunque, poi possibile addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata degli art. 1 e 6 L. 354/1975, alla luce dell’art. 27 c. 3 Cost. nel senso di ritenere che, ai fini di individuare l’adeguatezza delle dimensioni delle camere detentive, lo spazio personale all’interno di ogni cella da garantirsi ordinariamente a ciascun detenuto debba essere pari a 6 mq nelle celle singole e 4 mq per detenuto nelle celle con più occupanti, calcolati al netto del locale bagno ed al lordo del mobilio, secondo lo standard C.P.T.
Una interpretazione in questi termini, ove venisse accolta e sostenuta, infatti, individuerebbe una opzione coerente sul piano assiologico, costituzionalmente adeguata e convenzionalmente conforme, orientata alla tutela dei diritti secondo standard effettivi.
Un’ermeneutica di questo tipo, inoltre, consentirebbe alla magistratura di offrire ai ristretti una ben più articolata, elevata ed adeguata risposta al problema del sovraffollamento carcerario, distogliendo la Magistratura di Sorveglianza da una mole defatigante di reclami tesi ad ottenere meri risarcimenti - spesso infondati, adottando l’effettiva giurisprudenza convenzionale sull’art. 3 CEDU - ed impegnando la stessa in una più puntuale valutazione delle effettive condizioni di detenzione nelle carceri del nostro paese, con poteri di intervento ben più pregnanti di quelli che attualmente la stessa sta esercitando.
Infatti, attraverso l’individuazione di un limite minimo di spazio personale costituzionalmente adeguato e superiore a quello rilevante per l’art. 3 CEDU secondo la giurisprudenza di Strasburgo, si potrebbe riempire di significato il dato normativo di cui all’art. 6 O.P., alla luce dell’art. 27 c. 3 Cost., e considerare grave ed attuale ogni allocazione in celle non compatibili con gli standard C.P.T.
Ciò consentirebbe al magistrato di intervenire nel caso specifico, disponendo ad esempio una diversa allocazione del detenuto, vietando di allocare in celle più detenuti di quelli che consentano il rispetto del limite indicato, eventualmente imponendo all’amministrazione con provvedimenti vincolanti di cessare nella condotta lesiva dei diritti delle persone ristrette, piuttosto che limitarsi ad offrire un magro ristoro (ristoro che, comunque, rimarrebbe azionabile in altra sede per i pregiudizi esauritisi).
Forse, un’ermeneutica di questo tipo potrebbe consentire interventi più efficaci e risolutivi di quelli sinora messi in campo, realizzando la tutela piena ed effettiva della dignità dei detenuti.
Una proposta, come detto, provocatoriamente radicale, ma che, lungi dal porsi quale imprudente balzo oltre la CEDU che dal labirinto ci schianti in mare, getta i suoi passi nel dedalo delle fonti seguendo il filo che promana dalla Costituzione, superando la paura ed il senso di impotenza; come quel del pastore che addenta il serpente e spezza il giogo dell’eterno ritorno.
[1] Cfr.“Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale”, F. Gianfilippi, in questa rivista.
[2] Celebre motto di Voltaire.
[3] F. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra – Un libro per tutti e per nessuno”, Adelphi, 1976.
[4] Il riferimento è qui al brano La Ballata degli Impiccati, di Fabrizio De Andrè: “Tutti morimmo a stento/ ingoiando l’ultima voce/ tirando calci al vento/ vedemmo sfumare la luce”; dall’album Tutti Morimmo a stento, 1968.
[5] Si allude a E. A. Poe, “The raven” poesia pubblicata sull’“American Review” nel febbraio 1845.
[6] P.C. Tacito, “De vita et moribus Iulii Agricolae”, Introduzione § 1-2, ed. Rizzoli, 1990.
[7] V. Manes, “Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni fra diritto penale e fonti sovranazionali” ed. Dike, Roma, 2012.
[8] Si rimanda, per una analisi esaustiva allo scritto “Sulla soglia dell’Umanità. Un dialogo interrotto tra Roma e Strasburgo”, in questa rivista.
[9] Cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, Causa Torregiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013, nella traduzione disponibile sul sito del Ministero della Giustizia, al paragrafo 50: “In particolare, la Corte ha già avuto modo di indicare che, nella valutazione dell’effettività dei rimedi riguardanti denunce di cattive condizioni detentive, la questione fondamentale è stabilire se la persona interessata possa ottenere dai giudici interni una riparazione diretta ed appropriata, e non semplicemente una tutela indiretta dei diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione (si veda, tra l’altro, Mandić e Jović c. Slovenia, nn. 5774/10 e 5985/10, § 107, 20 ottobre 2011). Così, un’azione esclusivamente risarcitoria non può essere considerata sufficiente per quanto riguarda le denunce di condizioni d’internamento o di detenzione asseritamente contrarie all’articolo 3, dal momento che non ha un effetto «preventivo» nel senso che non può impedire il protrarsi della violazione dedotta o consentire ai detenuti di ottenere un miglioramento delle loro condizioni materiali di detenzione (Cenbauer c. Croazia (dec.), n. 73786/01, 5 febbraio 2004; Norbert Sikorski c. Polonia, n. 17599/05, § 116, 22 ottobre 2009; Mandić e Jović c. Slovenia, sopra citata § 116; Parascineti c. Romania, n. 32060/05, § 38, 13 marzo 2012). In questo senso, perché un sistema di tutela dei diritti dei detenuti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione sia effettivo, i rimedi preventivi e compensativi devono coesistere in modo complementare (Ananyev e altri c. Russia, nn. 42525/07 e 60800/08, § 98, 10 gennaio 2012).”
[10] L’ermeneutica di Strasburgo sul punto è ingente, trattandosi di tema che riveste nell’interpretazione della Corte carattere metodologico; per un approfondimento si vedano in dottrina: V. Zagrebelski - R. Chenal - L. Tomasi “Manuale dei Diritti Fondamentali in Europa”, ed. il Mulino, 2022, Cap. 7, pagg. 147 e ss. dedicato al tema della giustificazione dell’interferenza Statale; J. Gerards, “General Principles of the European Convention on Human Rights”, ed. Cambridge University Press, 2019.
[11] Si segnala, sul tema generale, G. Silvestri, “La discrezionalità tra legalità e giurisdizione, in Sistema Penale, rivista online, 17.5.2024.
[12] Si veda A. Ruggeri – A. Spadaro “Lineamenti di giustizia costituzionale”, ed. Giappichelli, Torino, 2009; più di recente F. Viganò, “La proporzionalità nella giurisprudenza recente della corte costituzionale: un primo bilancio”, in Sistema Penale, rivista online, 8.1.2025.
[13] Cfr. Torregiani c. Italia, cit., § 50 e § 90 e ss.
[14] Cfr. European Prison Rules, 2006 Printed at the Council of Europe, aggiornate al giugno 2020 dalla “Recommendation Rec(2006)2-rev of the Committee of Ministers to member States on the European Prison Rules”.
[15] Si veda, in particolare “Living space per prisoner in prison establishments: C.P.T. standards” (C.P.T./Inf./2015/44).
[16] ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016.
[17] ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., cit. § 103-123: “The Court has stressed on many occasions that under Article 3 it cannot determine, once and for all, a specific number of square metres that should be allocated to a detainee in order to comply with the Convention. Indeed, the Court has considered that a number of other relevant factors, such as the duration of detention, the possibilities for outdoor exercise and the physical and mental condition of the detainee, play an important part in deciding whether the detention conditions satisfied the guarantees of Article 3 […] Accordingly, the Court’s assessment whether there has been a violation of Article 3 cannot be reduced to a numerical calculation of square metres allocated to a detainee. Such an approach would, moreover, disregard the fact that, in practical terms, only a comprehensive approach to the particular conditions of detention can provide an accurate picture of the reality for detainees”.
[18] Si veda la ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016, “Joint Partly Dissenting Opinion Of Judges Sajò, López, Guerra and Wojtyczek”, p. 65 e ss.
[19] Si veda ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016, “Partly Dissenting Opinion of Judge Pinto de Albuquerque” p. 73 e ss.
[20] Cfr.“Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale”, F. Gianfilippi, in questa rivista.
[21] Cassazione, SS. UU. Sentenza n. 6551 del 29.4.2021.
[22] Si veda la Sentenza n. 49/2015 del 14.1.2015, § 7“Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011). Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2011), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte.
Mentre, nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale.”.
[23] Cfr. Sez. 1, n. 11207 del 08.02.2024, Barone, Rv. 286126 “In tema di rimedi risarcitori ex art. 35-ter Ord. pen. nei confronti di detenuti o internati, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati da assicurare affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti stabilito dall'art. 3 della Convenzione EDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, non deve essere computato lo spazio occupato dal letto singolo del soggetto ristretto, in quanto arredo tendenzialmente fisso al suolo, non suscettibile, per il suo ingombro o peso, di facile spostamento da un punto all'altro della cella e tale da compromettere il movimento agevole del predetto al suo interno”.
[24] Si allude, in termini inversi, all’ermeneutica delle nozioni autonome elaborate in ambito CEDU.
[25] Si veda il “General Comment No. 4 (2017) on the implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22”, pubblicato il 9.2.2018.
[26] Cfr. “Handbook on strategies to reduce overcrowding in prisons”, United Nations, October 2013, p. 10-11.
[27] Il tema meriterebbe spazio maggiore, ma ci si ferma qui per brevità.
I principi dello stato di diritto, a livello globale, sono sempre più spesso messi in discussione, e tra essi in primo luogo i principi relativi all’autonomia ed indipendenza della magistratura e quelli dell’effettività del controllo giurisdizionale sull’attività del potere esecutivo e legislativo.
Si tratta di fenomeni che, pur nelle relative specificità, sono ormai compiutamente studiati nei loro tratti identificativi fino a ricondurli ad uno specifico modello politico, connotato da forme di regressione democratica che assumono oggi una connotazione nuova e specifica, ma mantengono punti di contatto con la matrice sovranista, tendenzialmente totalitaria e sostanzialmente antidemocratica che ispira i modelli politici di riferimento.
Di questo fenomeno sulle pagine di Giustizia Insieme cerchiamo di dare atto quotidianamente, sia con riferimento alla situazione italiana[1] sia con riferimento a quella di altri paesi[2], nella convinzione che la riflessione, la cultura della memoria e l’allenamento del senso critico siano le migliori armi di contrasto ad un fenomeno schiettamente politico e, quindi, culturale.
Gli strumenti istituzionali di contrasto a tali forme di regressione attuati a livello sovranazionale si rivelano, del resto, spesso inefficaci. Per quanto riguarda l’azione dell’Unione Europea, in particolare, è ormai evidente il rischio per cui l’impegno assunto dai governi interessati ad adottare riforme volte ad assicurare il rispetto dello stato di diritto possa tradursi in misure puramente formali che restano, semplicemente, inattuate, o la cui attuazione è a sua volta soltanto formale.
È il caso dell’Ungheria, dove il coinvolgimento del Consiglio Nazionale Giudiziario nell’iter legislativo in materia di giustizia, previsto da una riforma del 2023 negoziata con l’Unione, è stato eluso spudoratamente, provocando una forte reazione di indignazione nella magistratura e negli altri operatori della giustizia. Dare testimonianza di quella protesta è della massima importanza, non soltanto per sostenerla, ma per ribadire la preminenza del diritto, dell’esigenza sostanziale di giustizia intesa come risposta reale delle istituzioni in senso conformativo della realtà, sulla vuota formalità di azioni istituzionali formalmente lecite ma che finiscono per negare quella stessa giustizia.
Siamo quindi felici di ospitare oggi la testimonianza della nostra amica e collega Anna Madarasi, giudice della Corte Capitale di Budapest, Fondatrice e componente del comitato direttivo dell’Associazione di Magistrati Res Iudicata.
Sibilla Ottoni
Luce nella notte! Una testimonianza dall’Ungheria
di Anna Madarasi
Come punto di partenza, per capire meglio il percorso verso la manifestazione di febbraio a Budapest è importante ricordare che l’amministrazione del sistema giudiziario ungherese è un sistema ‘ibrido’[3], dalla riforma generale della magistratura che è avvenuta con l’entrata in vigore della nuova Costituzione, la Legge Fondamentale, nel 2012. Rispetto a questa ultima complessa riforma del sistema giudiziario ungherese la Commissione di Venezia ha espresso valutazioni fortemente critiche. L’amministrazione centrale dei tribunali è di competenza del Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura, eletto dal parlamento nazionale a maggioranza dei due terzi dei deputati. L’operato amministrativo del Presidente è soggetto alla vigilanza del Consiglio Nazionale Giudiziario, che esercita la vigilanza sull'amministrazione centrale dei tribunali ed è composto da 15 membri. Ne fa parte d’ufficio il Presidente della Corte suprema mentre gli altri 14 giudici sono eletti dai e tra i membri dell’assemblea dei giudici delegati. La Corte suprema è la massima autorità giudiziaria in Ungheria, che garantisce l’uniformità di applicazione del diritto da parte dei tribunali e, a tal fine, adotta decisioni di armonizzazione del diritto che sono vincolanti per tutti i tribunali. Il Presidente della Corte suprema è eletto dal parlamento nazionale a maggioranza dei due terzi dei deputati.
Deve inoltre osservarsi che l’aumento della rimunerazione dei giudici e del personale delle corti dipende ogni anno da una proposta del governo tramite la Legge del bilancio annuale e dal voto del parlamento. Le disposizioni legislative che riguardano la determinazione dello stipendio dei giudici non contengono una valorizzazione automatica annuale, come per esempio nel caso dei deputati parlamentari. La rimunerazione dei giudici è stata aumentata l’ultima volta nel 2021, nonostante l’aumento del 40 % del tasso di inflazione tra 2023 e 2024[4].
Il 20 novembre 2024 il Presidente dell’Ufficio Nazionale per la Magistratura, il Presidente della Corte Suprema e il Presidente del Consiglio Nazionale Giudiziario hanno stipulato un accordo con il Ministro della Giustizia, volto a migliorare l'efficienza del sistema giudiziario, che contiene l’impegno – non assicurato nella legislazione – di un aumento del 48% dello stipendio medio dei giudici in 3 anni ossia entro il 2027). Ma “l’offerta” del governo si accompagna all’annuncio di una riforma complessiva, di cui i dettagli non sono ancora noti, e che riguarda a tutti i livelli del sistema giudiziario e anche a qualche elemento fondamentale dell’accesso alla magistratura. Dell'esistenza dell'accordo la magistratura è stata informata dalla stampa, due giorni prima della riunione del Consiglio in cui è stato firmato, e il testo dell'accordo è stato reso disponibile sul sito del Consiglio solo a riunione già in corso. All’esito della stessa, il Consiglio Nazionale Giudiziario ha autorizzato il suo Presidente a firmare l’accordo con voto 8:7.
A questo punto è importante precisare che con una riforma del 2023, dopo un lungo dialogo con la Commissione Europea, è stata introdotta la previsione per cui, a tutela dell’autonomia e indipendenza del Consiglio, il potere esecutivo deve di acquisirne il consenso preventivo in relazione alla modifica di qualsiasi legge che riguarda al sistema giudiziario.
Subito dopo la stipulazione dell’accordo le due associazioni (Res Iudicata e MABIE) nelle loro comunicazioni hanno chiesto ai colleghi giudici e colleghi dello staff giudiziario di esprimersi sull'accordo[5]. In pochi giorni più di 2000 lettere e firme sono arrivate contro la stipulazione dell’accordo stesso da tutte le parti del paese. Molti giudici hanno sottolineato che il Consiglio con la decisione di firmare l’accordo ha dato il suo consenso preventivo ad una riforma giudiziaria dal contenuto ignoto ed indeterminato, perdendo così la sua credibilità, e conseguentemente non è più in grado di rappresentare la magistratura. I presidenti delle Corti disciplinari hanno sottolineato in un comunicato che, secondo le Convenzioni internazionali e la prassi domestica, tutti i giudici hanno la libertà di espressione per manifestare le proprie opinioni su questioni relative al sistema giudiziario, libertà che deve essere rispettata. Tale comunicato ha costituito un momento molto significativo. È importante sottolineare che non sono stati solo i giudici ad esprimere le loro preoccupazioni, ma anche un numero significativo di altri dipendenti come tirocinanti, segretari di tribunale e personale amministrativo.
L'11 dicembre l'Associazione Res Iudicata ha organizzato una manifestazione chiamata “Joint stand up for courts”[6] davanti al palazzo del Consiglio. Alla fine della manifestazione i rappresentanti dell’associazione hanno consegnato le lettere stampate dei colleghi alle parti che hanno firmato l’accordo. L'evento, senza precedenti, ha attirato l'attenzione dei media a livello nazionale.
Nonostante le ragioni e gli argomenti espressi in molte delle lettere, l'11 dicembre 2024 il neoeletto Presidente del Consiglio ha dichiarato che le migliaia di lettere ricevute erano il risultato di una mera provocazione, e ha sottolineato che “il potere legislativo e anche l’esecutivo hanno il diritto di determinare il quadro del sistema giudiziario, ma a causa del principio della separazione dei poteri, è essenziale ottenere il parere del sistema giudiziario durante la progettazione di una riforma giudiziaria, e un modo possibile per farlo è coinvolgere le organizzazioni giudiziarie, ad esempio il Consiglio nazionale della magistratura.”.
Il giorno dopo, il 12 dicembre, avverando le preoccupazioni dei colleghi alcuni disegni di legge di riforma legati all'accordo sono stati già presentati al Parlamento, senza coinvolgere il Consiglio nazionale della magistratura nella procedura legislativa. Il Ministero della Giustizia ha spiegato in una lettera scritta al Presidente del Consiglio i motivi procedurali per cui non è stata data la possibilità al Consiglio di presentare il proprio parere attraverso il processo legislativo. Tra le misure presentate, vi è ad esempio la modifica costituzionale relativa all'età minima per poter essere nominato magistrato, che prevede l’aumento del requisito da 30 a 35 anni.
Il legislatore non ha svolto consultazioni con le parti interessate, e in particolare non ha acquisito il parere preliminare del Consiglio come prescritto dalla legge. Tale metodo legislativo è stato già fortemente criticato più volte dalla Commissione Europea, perché non è in linea con la misura (milestone) C9.R27 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dell'Ungheria. Il processo legislativo usato dal governo ungherese per quanto riguarda la prevedibilità, la qualità e la trasparenza della legislazione elude l'obbligo di consultazione violando i valori fondamentali dell'Unione Europea, contribuendo così al deterioramento dello Stato di diritto, dei diritti fondamentali e della democrazia.
All’inizio dell’anno 2025 i giudici hanno ricevuto un aumento del loro stipendio del 15%, com’è stato stabilito nella Legge di bilancio 2025, in contrasto con la precedente proposta del Consiglio e del Presidente dell’Ufficio Nazionale, che conteneva la richiesta di un aumento del 35%. Ancora nei primi giorni dell’anno il Presidente della Corte Suprema, in una lettera scritta ai suoi colleghi, ma più tardi disponibile anche pubblicamente, ha criticato fortemente il fatto che i giudici abbiano espresso la loro opinione, e che le Corti disciplinari abbiano difeso pubblicamente tale libertà di espressione. La lettera conteneva anche parole pericolosamente minacciose.
L’associazione MABIE, a cui tradizionalmente è affidata la rappresentanza degli interessi comuni dei giudici, ha deciso di organizzare una manifestazione per il 22 febbraio 2025. Lo scopo della manifestazione era di proteggere l’indipendenza del sistema giudiziario e la libertà di espressione dei giudici, di sottoporre all’attenzione pubblica l’importanza di un processo legislativo che rispetti le regole dello stato di diritto e di un sistema di remunerazione che sia all’altezza della figura del giudice.
La manifestazione è stata supportata dall’Associazione Internazionale Europea dei Giudici, da molti avvocati, da varie ONG e dalla società civile, l’affluenza è stata di circa 4.000 persone. L’evento ha attirato l'attenzione dei media nazionali e internazionali. Tra gli speaker ha parlato anche Andras BAKA, ex-presidente della Corte Suprema, ex-giudice di Strasburgo, molto conosciuto per il caso Baka v. Ungheria. L’importante messaggio veicolato dalla manifestazione era che l’esprimersi dei giudici non è solo una possibilità, ma è anche un dovere, quando si tratta di attacchi contro il sistema giudiziario, La solidarietà sociale è fondamentale in tutti i tempi, particolarmente adesso.
Dopo la dichiarazione estremista e minacciosa del premier ungherese in occasione della festa nazionale ungherese del 15 marzo, pronunciata contro i giudici, i giornalisti e le organizzazioni non-governative, l’Associazione Res Iudicata ha ritenuto importante esprimere la sua opinione contro le parole d’odio, e per il 23 Marzo ha organizzato una nuova manifestazione dal titolo “LUCE NELLA NOTTE!”.
Il messaggio veicolato dall’evento era che i tempi recenti ricordano un periodo storico oscuro, che non si vuole rivivere. L’associazione voleva esprimere la sua protesta contro le parole d’odio che dividono la società e cercano di erodere la fiducia del cittadino nel sistema giudiziario. L’Associazione di magistrati ha chiesto tutti coloro che sono d’accordo con tale obiettivo di recarsi con una candela all’ingresso della Corte di Capitale di Budapest per accendere luce nella notte e difendere l’indipendenza della magistratura facendo una catena intorno al palazzo della Corte, perché non può esserci libertà né sicurezza senza giudici indipendenti e imparziali.
[1] Solo tra i più recenti contributi in materia, ad esempio: Il “posto” del diritto nelle regressioni democratiche ed il ruolo dei giuristi - www.giustiziainsieme.it; La Riforma della Corte dei conti. Si smantellano le funzioni per valorizzare l’esimente relativa alla responsabilità erariale a danno dei cittadini - www.giustiziainsieme.it; Riforma costituzionale dell’ordinamento giurisdizionale: procedura e obiettivo - www.giustiziainsieme.it.
[2] Si vedano ad esempio Governi e Magistratura. Diritti fondamentali e sistemi democratici a rischio - www.giustiziainsieme.it; Indipendenza della magistratura e regressione democratica nel contesto europeo; “Unpacking the courts”: prevenzione e reazione agli attacchi all’indipendenza dei giudici di Simone Pitto - www.giustiziainsieme.it; Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria di Simone Benvenuti - www.giustiziainsieme.it; La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale di Leonardo Pierdominici*; La proposta di judicial overhaul in Israele come paradigma di odierno attacco all’indipendenza della magistratura
[3] S. Penasa: L’amministrazione della giustizia in Ungheria:un sistema istituzionale ’bicefalo’ di derivazione ’democratico-illiberale’, Gli organi di governo autonomo della magistratura:un’analisi comparativa, Saggi-DPCE online, 2020/4, ISSN:2037-6677.
[4] Per quanto riguarda allo stipendio dei giudici l’Associazione Res Iudicata ha presentato una denuncia alla Commissione Europes: https://resiudicata.hu/en/complaint-for-the-immediate-restoration-of-the-institutional-independence-of-the-hungarian-judiciary/
[5] https://resiudicata.hu/kozlemeny-a-birosagokat-erinto-megallapodasrol/
https://mabie.hu/berjavaslat/felhivas-velemenynyilvanitasra-csatlakozo-nyilatkozatok-megkueldesere
Intorno all’autonomia scientifica del diritto dell’energia*
di Giampiero Paolo Cirillo
Sommario: 1. La crescente importanza dell’energia e le parti speciali nell’esperienza giuridica; 2. La peculiarità del bene al centro dei microsistemi. Il diritto della navigazione. I tipi contrattuali e in particolare la locatio-conductio del diritto romano. Il bene ambientale; 3. La nozione sostanziale e la nozione formale di energia. Tipi forme e fonti di energia. La normativa del codice civile e del codice penale; 4. Il bene-energia e il bene-rete. La necessaria costituzione del servizio pubblico a seguito del tramonto dei monopoli di diritto e del pericolo costante della formazione di monopoli di fatto. Il ruolo delle autorità amministrative indipendenti (ARERA e AGCOM); 5. Le norme di sistema; 5.1. L’art. 43 della Costituzione; 5.2. L’art. 194 del TFUE; 5.3. L’art. 41 della Costituzione; 5.4. L’art. 117, comma 3 della Costituzione; 6. I soggetti del mercato dell’energia; 7. Gli strumenti integrati di tipo amministrativo e di tipo civilistico; 8. La formula organizzatoria dell’energia come ordinamento sezionale. Gli atti interni dell’ordinamento sezionale e la loro sindacabilità. I principi e le regole del diritto dell’energia tra diritto privato e diritto amministrativo. La necessità di un codice dell’energia
1. La crescente importanza dell’energia e le parti speciali nell’esperienza giuridica
Il dibattito sull’energia va assumendo proporzioni sempre più larghe e profonde sia presso la dottrina sia presso gli operatori del settore, che sono costretti ad invocare con crescente frequenza l’intervento della giurisprudenza. La convegnistica si occupa giustamente e per lo più di temi specifici, anche se di grande interesse, quali le energie alternative come antidoto alle emergenze climatiche e ai danni ambientali; in particolare le CER (Comunità energetiche alternative)[1].
Tuttavia per il giurista, che, in quanto tale, deve fare uso accorto e rigoroso dei suoi strumenti, rimane ineludibile il problema della possibile autonomia del diritto dell’energia. Questo è necessario quantomeno al fine di comprendere se sia possibile ricavare all’interno della normativa di settore principi e regole generali o se esse vanno rinvenute nell’ordinamento generale (pubblico o privato; nazionale o europeo) e se, nel primo caso, siano essi compatibili con questi; e in caso negativo quali rimedi azionare.
L’esperienza giuridica conosce già il problema della separazione di settori dell’ordinamento da quello generale di riferimento; basti pensare al diritto della navigazione; al diritto agrario, al diritto del lavoro e sindacale ed altri. Poi vi sono discipline che, se pur staccate dal diritto privato, non hanno mai assunto una vera e propria dimensione autonoma, come ad esempio il diritto industriale e il diritto della proprietà intellettuale. Il diritto commerciale ha tutt’altra storia, anche se fino all’unificazione del codice commerciale con il codice civile ha avuto una autonomia anche normativa, che peraltro ancora conserva sul piano scientifico. Anche questa disciplina pone al centro del suo sistema il bene-azienda e l’impresa
Il modo di procedere degli studi giuridici, se si guarda alla storia del diritto, è stato quello di espungere una parte generale come premessa delle parti speciali, così il diritto penale e i diritti processuali. Naturalmente qui non vengono considerate talune prassi universitarie di vera e propria creazione surrettizia di materie nuove o di spacchettamenti di discipline al solo fine di moltiplicare gli insegnamenti, istituendo nuove cattedre.
Il diritto amministrativo ha seguito la stessa linea, dove la parte generale si occupa dell’organizzazione della soggettività pubblica, delle situazioni soggettive (ma questa è materia di teoria generale), dell’attività e del procedimento amministrativo, dei beni e della responsabilità, ivi compresa la tutela. Le parti speciali sono più numerose e le più importanti sono le espropriazioni, l’edilizia, gli appalti e i contratti pubblici, i servizi pubblici ed altri.
Tuttavia, ogni qual volta, un settore viene alla ribalta si pone il problema della sua autonomia scientifica, basti pensare al diritto ambientale.
La storia della legislazione è stata particolarmente interessante, in quanto per far fronte alla sterminata produzione normativa si è inaugurata trent’anni orsono una vera e propria stagione di testi unici e di codici, che, con l’ausilio del Consiglio di Stato, ha portato ad una significativa sistemazione delle varie discipline. Basti pensare al codice dei contratti pubblici, a quello dell’ambiente e dei beni culturali, a quello delle autonomie locali, a quello sulle espropriazioni e a quello sull’edilizia e altri.
Si era anche ipotizzato un codice amministrativo di diritto sostanziale, ma l’idea è sfumata. Sicchè la legge generale sul procedimento amministrativo, con le sue continue ‘novelle’, ha finito con il diventare un “piccolo codice”[2] al pari dell’invece grande codice civile, che pure conosceva già discipline contenute in leggi speciali, come la legge sui brevetti, la legge di protezione del diritto d’autore, le locazioni e i titoli di credito.
Anche la legislazione civilistica ha seguito la tecnica di collocare le normative in leggi speciali, anziché incidere, attraverso la tecnica della novellazione, nel corpo del codice del ’42, tranne lodevoli eccezioni, si pensi alla oramai lontana riforma del diritto di famiglia. Non a caso già in anni non proprio recentissimi si è parlato di età della decodificazione[3].
2. La peculiarità del bene al centro dei microsistemi. Il diritto della navigazione. I tipi contrattuali e in particolare la locatio-conductio del diritto romano. Il bene ambientale
Nel tentativo di allontanarsi da una visione puramente descrittiva, bisogna osservare che in tutti i settori che hanno aspirato ad una autonomia scientifica al centro del microsistema si pone la peculiarità del bene disciplinato o meglio le utilitates che dal bene stesso si possono trarre.
Se si guardano gli studi che si sono occupati del diritto della navigazione, che ha avuto sin dal 1942 un vero e proprio codice degno di questo nome (recentemente modificato nella parte aeroportuale dai decreti legislativi n.96/2005 e n.151/2006), è facile registrare come l’autonomia di quella disciplina, è stata ritenuta un concetto di carattere storico e di diritto positivo che si può realizzare solo quando nell’ordinamento giuridico si provveda alla statuizione di una particolare ed organica disciplina per una categoria particolare di rapporti nascenti dall’utilizzo della nave e dell’aeromobile o dei beni demaniali marittimi; in particolare delle concessioni balneari che hanno fatto ritornare in auge il codice del 1942. Si è messo in evidenza che il diritto della navigazione è caratterizzata dal particolare concorso di elementi pubblicisti e privatistici e che tale concorso si va estendendo a tutti i rami dell’ordinamento giuridico. Non si è mancato di mettere in evidenza che quei rapporti sono particolari proprio per il carattere squisitamente tecnico della materia e che da quella disciplina vanno desunti principi mediante un procedimento di astrazione da una norma o da un complesso di norme del diritto speciale. L’autonomia non esclude che il diritto della navigazione debba essere inquadrato nel sistema generale del diritto che comunque ha dei nessi profondi con le altre branche dell’ordinamento giuridico. Questa visione si distingueva da quello del cosiddetto ‘particolarismo’, affermato per il diritto marittimo dalla più antica dottrina francese, secondo la quale esso sarebbe un qualcosa di diverso dal diritto pubblico e dal diritto privato[4].
È significativo che queste osservazioni siano state fatte già agli inizi del secolo scorso.
Anche a proposito dello studio dei tipi contrattuali, non si è mancato di osservare come la locazione (la locatio-conductio del diritto romano) era in origine uno schema avente una grande capacità di adattamento, per l’elaborazione dei pratici e la tecnica dei giuristi. Ad essa venivano ricondotti contratti che oggi siamo abituati a considerare distinti e che ora distintamente la legge disciplina. Infatti appartenevano alla unitaria figura della locazione molti altri sottotipi, come la locazione di immobili urbani, l’affitto, il contratto d’opera e il lavoro subordinato. Gli ultimi due hanno assunto una autonomia scientifica netta, mentre i primi due continuano ad essere ricondotti alla figura generale; e nell’affitto di fondi rustici, l’affittuario è titolare di un’impresa medio o grande a seconda del capitale impiegato. Altre sottocategorie si sono aggiunte come l’affitto a coltivatore diretto, dove l’affittuario è un piccolo imprenditore che coltiva il fondo con il lavoro prevalentemente proprio e dei componenti della famiglia. In questa materia si è registrata in passato una legislazione, collocata fuori del codice civile, di favore per la classe contadina e per la stabilità dell’abitazione della famiglia, attraverso canoni prestabiliti dal legislatore, che fissava anche la durata minima del contratto e il diritto di prelazione a favore del conduttore[5]. Anche le concessioni di servizi attinenti all’uso dei beni demaniali marittimi si rifanno allo schema della locazione.
Come si intuisce facilmente la particolare natura del bene, ad esempio la mobilità della nave e dell’aeromobile (ma anche la natura particolare del demanio marittimo) nonché la produttività del bene nei fondi rustici, costituiscono il substrato giuridico di fondo da cui si dipanano i vari rapporti giuridici.
Anche per quanto riguarda il più attuale diritto ambientale si può dire che esso è diventato una disciplina compiuta che si può studiare in modo autonomo. La materia è stata isolata da dottrine autorevoli[6], che hanno lamentato il fatto che il problema dell’ambiente non veniva esaminato in sé e che veniva erroneamente il rilievo solo nell’ambito dello studio della disciplina del territorio o dei valori paesaggistici e culturali, oppure ancora dell’ecologia o della lotta all’inquinamento. Da quelle intuizioni l’ambiente è diventato nel tempo un valore costituzionale e la materia è ora disciplinata dal decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, che contiene oltre 300 articoli e una serie di allegati. Esso ha subito nel tempo molteplici modifiche e novelle.
Vi è stato un ampio dibattito sulla individuazione di una nozione appagante dell’ambiente. Esso è stato visto dapprima come un bene, ora individuale ora collettivo, per via del fatto che si registrava al suo interno il diritto soggettivo ad un ambiente salubre. Tuttavia è prevalsa la consapevolezza che l’ambiente ha soprattutto una valenza collettiva. Ricondurre l’ambiente alla nozione di bene aveva portato alla necessità di stabilire quali fossero i suoi caratteri, ossia se si trattasse di un bene tangibile, materiale o immateriale, e quale soggetto lo avesse in attribuzione. L’approfondimento del problema ha portato ad escludere che l’ambiente sia un bene, almeno in senso tradizionale. Esso è visto piuttosto come un ‘valore’ da salvaguardare con interventi legislativi e amministrativi che coesistono e si intersecano con altri principi e valori, quali lo sviluppo sostenibile e i diritti delle future generazioni. Esso ha un valore unitario e quindi al tempo stesso è qualcosa di più e qualcosa di meno di un bene[7].
Tuttavia la categoria di bene giuridico continua a far parte del dibattito in maniera non secondaria.
Il punto di contatto più rilevante tra l’attività energetica e l’ambiente, ma anche con il clima, è normalmente conflittuale, ed è legato alle c.d. esternalità aziendali negative, ossia gli effetti negativi della produzione (scorie, rifiuti tossici ed altro) che non vengono riassorbite all’interno della produzione, ma cadono all’esterno sulla collettività, la cui eliminazione genera costi che il sistema della legge tende a ricondurre in capo al produttore
3. La nozione sostanziale e la nozione formale di energia. Tipi forme e fonti di energia. La normativa del codice civile e del codice penale
Venendo finalmente all’energia, è necessario fornirne anzitutto la nozione, cosa non facile visto che la legge sul punto tace.
Tra quelle proposte la più precisa è quella che considera l’energia tutto ciò che ha “la capacità di compiere lavoro”[8]. Come si vede il vocabolo “lavoro”, rispetto al quale ora l’energia va intesa come sostitutiva o accrescitiva della forza-lavoro dell’uomo, evoca le prime forme di produzione di energia, ossia il lavoro umano, compiuto dagli schiavi nell’antica Roma, e poi via via fino alla prima industrializzazione, dove il lavoro è diventato uno dei fattori della produzione e quindi merce di scambio con il salario riconosciuto ai lavoratori all’interno dell’impresa produttiva.
Tuttavia essa nel tempo presente assume contorni più contenuti e precisi.
Nella manualistica vengono effettuate varie distinzioni. Pertanto vengono individuati più tipi di energia (animali, naturali, artificiali); forme di energia (meccanica cinetica termica e così via); fonti di energia (petrolio, carbone, uranio, gas naturale). Vi sono poi fonti di energia secondaria, come l’energia elettrica, che deriva dalla trasformazione di fonti energetiche primarie, come il carbone il petrolio e il gas naturale. Viene considerata invece fonte primaria quella idroelettrica e nucleare.
È importante notare come, mentre il gas e gli idrocarburi hanno una consistenza materiale percepibile -in quanto si tratta di sostanze fluide, e quindi comodamente rientrante nei beni mobili- l’energia elettrica ha una particolare natura trattandosi di una cosa incorporale, misurabile in watt di potenza ed è caratterizzata dalla assenza di autonomia, ossia non può essere isolata dalla fonte dalla quale si sprigiona. Tant’è che il codice penale (art. 624, comma 2, c.p.) è costretto a ricorrere ad una analogia giuridica laddove nel definire il reato di furto, attrae in questo anche il furto di energia elettrica ed ogni altra energia che abbia un valore economico. Peraltro anche il codice civile ricorre alla medesima tecnica della finzione, laddove, nel classificare le energie naturali che hanno un valore economico, le equipara a tutti gli altri beni mobili, dedicandovi uno specifico articolo (814 c. c.).
Dunque nel sistema della legge l’energia è un bene mobile, con tutte le conseguenze che tale classificazione comporta. È un bene perché ha un valore economico-industriale, come dimostra già il R. D. 29 luglio 1927, n. 1443, laddove assoggettava al regime delle miniere le energie del sottosuolo suscettibili di utilizzazione industriale. Ed è un bene mobile perché tale il legislatore lo considera. Inoltre il gas e l’energia elettrica sono beni consumabili (art. 995 c. c.).
Inoltre, l’energia elettrica, che, come si vedrà, costituisce il paradigma dell’evoluzione dei vari regimi giuridici che si sono susseguiti nel tempo, è anche una cosa incorporale, non separabile dal corpo materiale che la produce e la contiene. Essa rimane tale sia che venga prodotta da fonti rinnovabili (gli impianti eolici) sia che venga prodotta da fonti tradizionali (carbone). E nonostante le avanzate tecnologie oggi disponibili, essa non è immagazzinabile se non per mezzo di batterie e quindi in quantità ridotte e misurabili. Questo comporta che vi deve essere una corrispondenza tra i flussi di entrata e i flussi di uscita attraverso la creazione di un sistema di reti centralizzato, necessariamente sottoposto a controllo pubblico per garantire la continuità e la stabilità della frequenza di rete (servizio di dispacciamento). Data l’importanza e la diffusione dell’energia elettrica nel nostro paese (ma questo vale per tutti i paesi industrializzati del mondo), è stata necessaria la creazione di reti operanti a livello nazionale. Lo stesso sistema vale per il gas immesso nei gasdotti.
4. Il bene-energia e il bene-rete. La necessaria costituzione del servizio pubblico a seguito del tramonto dei monopoli di diritto e del pericolo costante della formazione di monopoli di fatto. Il ruolo delle autorità amministrative indipendenti (ARERA e AGCOM)
Questo comporta che il sistema delle reti e l’energia che in esse viene immessa costituiscono un vero e proprio bene primario per l’intera collettività. Ciò postula che il potere pubblico, per poter far fronte alle esigenze della collettività, deve organizzare un vero e proprio servizio pubblico o se si vuole un servizio di interesse generale, secondo la terminologia del diritto europeo.
Da ciò deriva che è possibile individuare, accanto al bene energia, un altro bene di più recente creazione, ossia la rete.
Le reti sono un vero e proprio bene in senso giuridico, che, per il loro modo di presentarsi nel mondo materiale, generalmente impianti radicati al suolo, ma anche nel caso di mulini ad acqua (esistono ancora mulini che producono energia elettrica) sono beni immobili, ai sensi dell’art. 812 del codice civile. Basti pensare alle reti elettriche e di telecomunicazione che portano energia alle abitazioni o alla rete ferroviaria o alla fibra o agli uffici locali del servizio postale. Normalmente le reti non sono replicabili dato il loro elevatissimo costo economico e quindi l’operatore deve poter accedere alla rete che innerva il mercato di riferimento, altrimenti l’attività d’impresa gli è preclusa. Questa è la ragione per cui attorno alle reti si addensano rapporti giuridici complessi, che implicano la soluzione di problemi legati alla proprietà e alla gestione della rete, oltre a quelli legati all’attività più propriamente commerciale. A questi si affiancano, oltre ai rapporti tra il gestore della rete e gli operatori economici, anche quelli legati alla corretta concorrenza tra imprese private e private- pubbliche.
A questi vanno aggiunti quelli con le autorità amministrative preposte al controllo del buon andamento del mercato di riferimento. I conflitti che insorgono vengono risolti dall’autorità amministrativa indipendente preposta al settore di mercato (ora ARERA) e dal giudice amministrativo.
Le reti hanno interessato a tal punto gli studiosi di diritto pubblico dell’economia[9] che si è ipotizzato un vero e proprio ‘diritto delle reti’ nei mercati regolamentati, separato dal diritto che governa i settori in cui esse vengono in rilievo. Le reti innervano non soltanto i settori dell’energia elettrica, delle ferrovie e del gas, ma anche quelli della comunicazione elettronica e postale, dell’acqua, dei rifiuti, delle autostrade, degli aeroporti, dei porti e del trasporto locale.
Quindi la rete è una infrastruttura essenziale nel settore dell’energia, anche se non esclusiva di tale settore.
In realtà proprio la presenza di essa, unitamente alle esternalità negative sull’ambiente e alle asimmetrie informative, ha impedito il realizzarsi di una vera e propria liberalizzazione del settore energetico sulla spinta europea (c.d. fallimento del mercato), che ha voluto estendere il principio della libera concorrenza anche ai settori produttivi sottoposti a un rigido sistema pubblicistico, dove l’attività era interamente riservata al potere pubblico, attraverso la creazione di enti pubblici che operavano in un regime di monopolio legale. Con la trasformazione degli enti pubblici preposti al settore energetico in società per azioni private non si eliminava il problema, poiché l’esistenza di una infrastruttura non duplicabile sul piano della convenienza economica generava un monopolio di fatto. Da qui la necessità di una disciplina che imponesse alla società proprietaria della rete di consentire l’accesso delle imprese che intendessero utilizzarla, a parità di condizioni e senza discriminazioni non giustificate, utilizzando meccanismi di gara nel caso in cui la capacità dell’infrastruttura si rivelasse insufficiente in relazione alla domanda di utilizzo[10].
Va anche ricordato che l’esistenza di un monopolio di fatto, nonostante il trasferimento formale a soggetti pubblici della proprietà della rete, ha comportato che il proprietario, oltre a gestirla, abbia anche svolto attività di utilizzazione della stessa ( si pensi nel trasporto ferroviario a Trenitalia e Italo), configurando così la possibilità di un abuso di posizione dominante e quindi la possibilità di intervento da parte dell’autorità preposta a garantire la corretta concorrenza (AGCOM), che pure, in virtù della sua trasversalità, contribuisce a governare il settore, assieme all’ARERA .
Questo ha indotto i legislatori nazionali ed europei a vedere con un certo sfavore le società ‘verticalmente integrate’, privilegiando invece la separazione tra il soggetto gestore e il soggetto proprietario-utilizzatore, attraverso l’instaurazione di un regime pubblicistico del servizio reso dall’infrastruttura medesima, considerata come oggetto di un servizio pubblico, affidandone la gestione a concessionari, soggetti ad obblighi non diversi da quelli dei concessionari delle altre infrastrutture essenziali.
Riprendendo la linea del discorso incentrata sul bene-rete, bisogna ricordare che non sempre la proprietà del bene è stata trasferita a soggetti privati. Ma anche quando questo è avvenuto, ed è avvenuto progressivamente quasi sempre, la separazione tra proprietà pubblica in senso soggettivo e quella in senso oggettivo consente di neutralizzare le possibili conseguenze sul piano giuridico, in quanto quel che rileva è la particolare destinazione del bene- rete, che prescinde dal mero fatto dell’appartenenza.
Infatti gli articoli 822 e 826 del codice civile, nell’elencare le categorie di beni che fanno parte rispettivamente del demanio e del patrimonio indisponibile degli enti territoriali (spesso proprietari formali dell’infrastruttura), fonda il particolare regime cui sono sottoposti sulla destinazione dei beni ad usi coerenti con l’interesse pubblico specifico ad essi inerente. Quindi la regola della non commerciabilità e la prevalenza del vincolo di destinazione attribuiscono a tali beni valore d’uso e non valore di scambio.
I beni destinati ai servizi pubblici, e tali sono le infrastrutture energetiche, appartengono al patrimonio indisponibile dell’ente che si impernia sul vincolo di destinazione dei beni al servizio pubblico. Tale regime si applica anche ai beni appartenenti agli enti pubblici non territoriali (art. 830, comma 2, del c. c.).
Si sono volute richiamare queste non recentissime norme, che sono di sistema, poiché esse vengono spesso dimenticate nei dibattiti, dove prevale la tendenza ad occuparsi di questioni di attualità (la guerra in Ucraina che ostacola, facendo crescere il prezzo, il flusso del gas proveniente dai grandi gasdotti della Russia e così via), dimenticando che il compito del giurista è quello di fare i conti con le norme esistenti da cui ricavare un sistema giuridico compiuto, anche per un settore come quello dell’energia caratterizzato da un alto tasso di politicizzazione.
5. Le norme di sistema
5.1. L’art. 43 della Costituzione
Il quadro generale sarebbe esageratamente incompleto se si omettesse di ricordare altre quattro norme che pure contribuiscono a formare il sistema generale del diritto dell’energia.
La prima che viene in rilievo è sicuramente l’art. 43 della Costituzione, che, laddove consente la collettivizzazione di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio aventi carattere di preminente interesse generale, ha costituito la base per introdurre un regime di monopolio legale del settore elettrico (l. 6 dicembre 1962, n.1643), istituendo l’ente nazionale per l’energia elettrica (ENEL). Questo era definito come un ente nazionale con personalità giuridica pubblica, riservatario e concessionario ex lege dell’intera filiera elettrica proprio in attuazione dell’art. 43 della costituzione richiamato, che consente la riserva di attività (produzione, trasmissione, distribuzione) anche a favore di enti pubblici. La legge indicata costituisce la prima applicazione della norma costituzionale[11].
Per gli idrocarburi non fu necessario istituire un regime di riserva legale, ai sensi del medesimo articolo della Costituzione, per via della esistenza di un monopolio di fatto che venne a determinarsi fino da quando è stata istituita l’Agenzia generale petroli italiani (AGIP).
Un altro ente del settore energetico è stato il Comitato nazionale per le ricerche nucleari (CNRN), costituito per acquisire e diffondere le conoscenze scientifiche sulle applicazioni pacifiche dell’energia nucleare.
Tale è stato il regime giuridico fino agli anni Novanta (iniziato nel 1992) del secolo scorso, allorquando si è proceduto alla c. d. privatizzazione, che ha riguardato i soggetti, i beni e i rapporti di larga parte del diritto amministrativo classico.
Sicchè, l’ENEL, al pari di tanti altri enti pubblici economici (Poste, Ferrovie dello Stato ed altri), è stato trasformato in società per azioni, con la dismissione graduale delle azioni detenute inizialmente dallo Stato (c.d. passaggio dalla privatizzazione fredda alla privatizzazione calda). La liberalizzazione ha portato successivamente, al fine di favorire una maggiore concorrenzialità, all’imposizione di un obbligo in capo all’ex monopolista ENEL di operare una separazione delle attività di produzione, trasmissione, distribuzione e vendita dell’energia, che furono affidate a società distinte, controllate da unaholding[12].
Sempre per effetto della c.d. privatizzazione calda è stata creata una apposita Autorità amministrativa indipendente (ora ARERA, con funzioni di regolazione e di controllo anche del ciclo dei rifiuti, pure quelli differenziati, urbani e assimilati), con la l. 14 novembre 1995 n. 481. Essa è tra le più importanti autorità amministrative indipendenti non trasversali, quindi di regolazione. L’indicata legge istitutiva costituisce ancora oggi la disciplina generale delle autorità di regolazione dei mercati regolati, laddove ne specifica le finalità e i poteri.
5.2. L’art. 194 del TFUE
A questo punto va indicata la seconda norma di sistema, visto che l’indicata liberalizzazione di settori così importanti come quello elettrico e quello del gas, ha comportato una produzione copiosa di normative europee proprio a partire dagli anni Novanta.
Ci si riferisce all’art. 194 TFUE, che attribuisce al Parlamento Europeo e al Consiglio la competenza a stabilire le misure necessarie per garantire il funzionamento del mercato interno dell’energia, la sicurezza degli approvvigionamenti, il risparmio energetico, l’efficienza energetica, l’interconnessione delle reti e soprattutto lo sviluppo delle energie rinnovabili. Si tratta di una materia concorrente con quella degli Stati membri che conservano il diritto di determinare le condizioni di utilizzo delle proprie fonti energetiche, oltre che la scelta tra le varie fonti della struttura generale dell’approvvigionamento energetico.
Sulla base di questa norma sono state emanate numerosissime direttive, che qui non possono essere ricordate. Va solo detto che esse vengono classificate distinguendo tra prima e seconda liberalizzazione. In esecuzione di esse sono state emanate alcune leggi fondamentali, come il cosiddetto decreto Bersani (decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79); la cosiddetta legge Marzano (legge 18 febbraio 2004 n. 39); il cosiddetto decreto Letta (decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164).
Nel 2009 è stato emanato il cosiddetto “terzo pacchetto”, composto da due direttive e tre regolamenti, che ha rafforzato il regime di separazione tra gestione della rete e l’attività di produzione e vendita, al fine di prevenire conflitti di interessi nelle imprese ‘verticalmente integrate’ e di promuovere gli investimenti per potenziare le reti. Con esso è stata istituita una rete europea dei sistemi di trasmissione dell’energia elettrica e del gas (ENTSO-E ed ENTSO-G), acronimo di European Network of Trasmission System Operators for Elecricity, ovvero for Gas, un’associazione di gestori dei sistemi di trasmissione dell’energia elettrica o del gas di vari Paesi in tutta Europa. Gli organismi ivi istituiti hanno il compito di elaborare i cosiddetti codici di rete che disciplinano i collegamenti con le reti di trasmissione, il funzionamento dei sistemi paneuropei e armonizzano il commercio interstatale. Con questo importante corpo normativo è stata rafforzata ulteriormente l’indipendenza delle autorità nazionali di regolazione, stabilendo che deve essere garantita non soltanto dalle imprese ma anche dai governi nazionali. Il coordinamento europeo viene assicurato dall’Agenzia per la cooperazione tra i regolatori nazionali dell’energia (ACER).
Parimenti non si può omettere di ricordare la direttiva 23 aprile 2009, n. 209/28/CE, relativa alla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, fissando una quota minima di questo tipo di energia che gli Stati sono tenuti a conseguire; in coerenza con l’obiettivo europeo di raggiungere nel 2020 una quota complessiva pari almeno al 20 per cento di tale energia. Gli Stati membri devono dotarsi di piani di azione nazionali per le energie rinnovabili. A questa sono succedute altre direttive.
La tappa più recente dell’evoluzione del diritto europeo è costituita dal cosiddetto Winter Pachage o Clear Energy Pachage, che, oltre a rafforzare la necessità di produrre energie da fonti rinnovabili, pone un obiettivo vincolante per l’unione europea da raggiungere nel 2030 con l’impiego di non meno del 32% di tale energia, introducendo la regola per cui il sostegno finanziario deve essere basato su meccanismi di mercato e sullo snellimento delle procedure. Esso autorizza i consumatori a divenire produttori e auto-consumatori di energia rinnovabile, prevedendo organismi di grande originalità, come le comunità di energia rinnovabile (CER, ma anche le CEC), che hanno soggettività giuridica autonoma e sono aperte all’adesione dei clienti finali. Queste possono produrre, consumare, immagazzinare e vendere, con scambi anche all’interno della comunità, l’energia rinnovabile.
Va infine ricordato, tanto più che alcuni dei protagonisti della geopolitica planetaria vogliono rimettere tutto in discussione, l’accordo di Parigi del 2015 sui cambiamenti climatici promosso dalle Nazioni Unite. Con esso si intende contrastare il riscaldamento globale e cercare di contenerne l’aumento al di sotto dei 2° centigradi. Si vuole raggiungere in Europa la riduzione del 55 per cento delle emissioni nell’atmosfera di gas a effetto serra entro il 2030 e nel 2050 raggiungere l’obiettivo di una completa neutralità climatica. Si parla appunto di epoca della transizione climatica.
In tale direzione già era andato il Protocollo di Kyoto del 1997, dove si prevedono per la riduzione delle emissioni alcuni meccanismi flessibili per il raggiungimento degli obiettivi. In Europa lo strumento attuativo del Protocollo è stato dapprima la direttiva 13 ottobre 2003, n. 2003/ 87, successivamente emendato dalla direttiva UE 14 marzo 2016, n. 218/410 e più di recente dalla direttiva 2023/958 del Parlamento europeo e del Consiglio, per quanto riguarda il contributo del trasporto aereo all’obiettivo di riduzione delle emissioni e la direttiva UE 2023/059, entrambe del 10 maggio 2023 che istituisce un sistema di scambio di quote di emissione del gas ad effetto serra. Con decreto legislativo 9 giugno 2020, n. 47, si era data attuazione alla direttiva UE 14 marzo 2018, n. 218/ 410; con il più recente decreto legislativo 10 settembre 2024 n. 147, sono state recepite le direttive del 2023.
Questo deve avvenire all’interno del cosiddetto Green Deal europeo. Esso consiste in un programma strategico risalente al 2019 che vuole avviare l’UE verso una ‘transizione verde’, con l’obiettivo finale di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. L’intero pacchetto di iniziative strategiche si fonda sulla constatazione che energia ambiente e clima costituiscono una triade inscindibile e quindi hanno bisogno di politiche regolatorie unitarie. Il cosiddetto Grean Deal europeo tende a fronteggiare i cambiamenti climatici, dove la strategia di crescita deve anzitutto proteggere la salute e il benessere dei cittadini dai rischi ambientali, senza rinunciare agli obiettivi di una società giusta e prospera, come richiede un’economia moderna. Si intende così promuovere una transizione ‘giusta ed inclusiva’ e indirizzare l’economia e la società su un percorso maggiormente sostenibile.
Nel 2021 la commissione europea ha adottato un programma organico di proposte normative (Fit for 55) per rendere più realistico il raggiungimento di obiettivi così ambiziosi, che egualmente mira alla “neutralità climatica” entro il 2055 (da qui la denominazione), prevedendo la riduzione a zero delle emissioni degli autoveicoli entro il 2035, dando così un impulso decisivo alla transizione da motorizzazioni fondate su motori a petrolio a quello fondato su motori elettrici.
Va infine ricordato che la strategia di cui si tratta si fonda su un profondo ripensamento delle politiche per l’approvvigionamento di energia, che deve essere ‘pulita’ in tutti i settori dell’economia.
In realtà la transizione energetica era stata già così delineata nel pacchetto “Unione dell’energia” del 2015. Sicché la regolazione futura dovrà riguardare: la sicurezza energetica, la piena integrazione del mercato europeo dell’energia, l’efficienza energetica, la decarbonizzazione dell’economia, la ricerca, la innovazione e la competitività[13].
5.3. L’art. 41 della Costituzione
Va da sé che l’intreccio indissolubile, rinvenibile nella indicata normativa, tra energia ambiente e clima consente di includere tra le cosiddette norme di sistema anche l’art. 41 della Costituzione, così come modificato dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022 n.1. Esso stabilisce che l’attività economica privata, pur rimanendo libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute all’ambiente alla sicurezza alla libertà e alla dignità umana. Inoltre la legge deve fissare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali. La medesima legge costituzionale ha aggiunto un ulteriore comma all’art. 9 della Costituzione, stabilendo che la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni e che la legge disciplina i modi e le forme di tutela degli animali. Inoltre la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione[14].
5.4. L’art. 117, comma 3 della Costituzione
Infine viene in rilievo l’art. 117, comma 3, della Costituzione, che, al pari di quella or ora vista circa i rapporti tra il Parlamento europeo e gli Stati membri, include tra le materie di legislazione concorrente, anche “la produzione, trasporto e distribuzione dell’energia”. La norma è stata introdotta con la l. costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha posto fine alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di energia. Le Regioni esercitano la competenza nel rispetto dei principi fondamentali posti dalle leggi statali e dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo (art. 117, commi 3 e 1, della Costituzione), con il vincolo della libera circolazione delle persone e delle cose e con quello della tutela dell’unità economica (art. 120 della Costituzione). Un ulteriore limite è costituito dalla tutela della concorrenza e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
La modifica costituzionale ha comportato un incremento dell’intervento della Corte costituzionale nei rapporti Stato-Regioni, in particolare la Corte ha dovuto affermare, in materia di regime autorizzatorio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, la necessità che queste ultime debbono conformarsi ai principi fondamentali in materia poste dal legislatore statale (il decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, in particolare) nonché delle Linee guida ministeriali, considerate come norme interposte, soprattutto perché sono state approvate anche in sede di Conferenza unificata Stato-Regioni.
Dalle varie sentenze della Corte costituzionale si ricava che sicuramente le Regioni possono individuare aree e siti non idonei alle installazioni di impianti in particolare per la tutela di valori ambientali e paesaggistici. Tuttavia c’è bisogno di una istruttoria specifica che opera un bilanciamento in concreto dei vari interessi in gioco, incluso quello della massima diffusione degli impianti da fonti di energia rinnovabili[15].
Per quanto infine riguarda le funzioni amministrative, la c. d. legge Marzano contiene un lungo elenco di funzioni esercitate dallo Stato e consente alle Regioni di determinare con proprie leggi l’attribuzione dei compiti e delle funzioni amministrative residue, che possono essere assegnate anche in capo agli enti locali.
Certamente l’inserimento delle Regioni tra i protagonisti pubblici è giudicata da più parti insoddisfacente, nonostante l’esito negativo della consultazione referendaria del 2016, e da più parti si reclamano modifiche volte a riportare allo Stato centrale la competenza esclusiva in materia.
6. I soggetti del mercato dell’energia
Sempre al solo al fine di rendere meno incompleto il presente contributo e prima di passare al tentativo di riportare a sistema la materia dell’energia, bisogna ricordare quali sono i soggetti operanti nel mercato regolato dell’energia e quali sono gli strumenti adottati dal legislatore per governarlo.
Conviene cominciare la breve rassegna indicando alcune società pubbliche che sono titolari di funzioni pubblicistiche in materia di energia elettrica e di gas, essendo queste le vere protagoniste del mercato in esame (decreto legislativo n. 79 del 1999).
In primo luogo va ricordato il Gestore dei servizi energetici S.p.A. (GSE), che ha come compito la promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili anche attraverso l’erogazione di incentivi economici. Si tratta di una società per azioni, interamente controllata dal Ministero dell’economia, con connotazioni pubblicistiche. Essa opera sulla base di indirizzi strategici e operativi definiti dal Ministero, unitamente con il Ministero della transizione ecologica. Esso, in base all’indicato decreto legislativo, originariamente aveva come compito primario la gestione delle attività di trasmissione e di dispacciamento dell’energia elettrica nella rete di trasmissione nazionale, la cui proprietà era in capo a Terna S.p.A., società controllata dall’Enel S.p.A.
Nel 2005, a seguito del recepimento della Direttiva 15 luglio 2003, n. 2003/ 54/CE, che introdusse l’obbligo della separazione societaria del gestore della rete di distribuzione, fu disposta l’unificazione della proprietà e della gestione della rete di trasmissione in capo a Terna S.p.A., affidando a GSE il compito principale di incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili. Questa ha come compito in particolare di ritirare e collocare sul mercato dell’energia prodotta da impianti da fonti rinnovabili e assimilate. Inoltre ha il compito di erogare incentivi alla produzione di elettricità da tali fonti e l’emissione dei cosiddetti certificati verdi. Essa è titolare di veri e propri poteri pubblicisti, come quello di ripristinare lo status quo ante e irrogare sanzioni pecuniarie allo scopo di garantire il rispetto delle norme da parte degli operatori in materia di fonti energetiche rinnovabili.
Va ricordato che la società in esame è titolare della partecipazione di altre società a controllo pubblico, in particolare dell’Acquirente unico S.p.A. (AU) e del Gestore dei mercati energetici S.p.A. (GME). Il primo è particolarmente importante, in quanto ha come compito principale quello di garantire la fornitura di energia elettrica alle famiglie (soprattutto i c.d. soggetti vulnerabili) e alle piccole imprese, a condizioni di economicità, continuità, sicurezza ed efficienza del servizio. Il secondo gestisce una piattaforma informatica per le transazioni che possono avvenire in due aree: il mercato a termine e il mercato a pronti, ossia la borsa elettrica, dato che il prezzo si forma sulla base di domanda e offerta complessiva.
La società GME gestisce anche il mercato del gas naturale e organizza la piattaforma di assegnazione della capacità di rigassificazione, nonché la piattaforma di rilevazione della capacità di stoccaggio e di transito di oli minerali.
Va infine richiamata la Cassa per i servizi energetici ambientali (CSEA), operante nei settori elettrico gas ed idrico. Si tratta di un vero e proprio ente pubblico economico sottoposto alla vigilanza di ARERA e del Ministero dell’economia e delle finanze.
Ciascuno di questi soggetti meriterebbe ben altra attenzione, che qui non è possibile assicurare.
Nel corso del presente lavoro si è già incontrata l’autorità amministrativa indipendente preposta al settore dell’energia e ora anche dei rifiuti (ARERA), che, unitamente al Ministero della transizione ecologica (MITE), cui sono state trasferite gran parte delle funzioni esercitate dal Ministero dello sviluppo economico in materia di politica energetica, sono i principali soggetti regolatori nazionali. Per quanto riguarda la regolazione europea si è già vista la funzione esercitata da ACER e dalla Commissione Europea.
L’ARERA, sul piano della struttura, presenta tutte le caratteristiche delle autorità amministrative indipendenti, in primo luogo quella di operare in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione. Qui si vogliono richiamare solamente alcune peculiarità, che sono sostanzialmente due: il rapporto con le funzioni di indirizzo nel settore energetico spettanti al Governo; il fondamento del potere regolamentare e il potere di garantirne l’osservanza, attraverso il riconoscimento di poteri, spesso impliciti, in capo all’autorità stessa.
Sul primo è possibile solamente ricordare che al Governo spettano funzioni di indirizzo particolarmente precise, in quanto, in base alla cosiddetta legge Marzano già ricordata, esso deve formulare indirizzi di politica generale del settore per l’esercizio delle funzioni attribuite all’autorità per l’energia elettrica e il gas e quest’ultima deve illustrare nella propria relazione annuale le iniziative assunte nel quadro delle esigenze di sviluppo dei servizi di pubblica utilità e in conformità agli indirizzi di politica generale del settore. Quindi la relazione annuale, che per le altre autorità indipendenti generalmente si risolve in un rito praticamente asfittico, nel settore dell’energia ha una rilevanza importantissima per la politica economica del Paese.
Quanto al fondamento del potere regolatorio, va ricordato che il problema si era posto per tutte le autorità amministrative indipendenti (ossia se in assenza di una legge queste potessero emanare regolamenti indipendenti), ma nel caso di ARERA assume contorni particolari, poiché le sue determinazioni, che sono appunto atti di regolazione, consistono nello stabilire le “regole del gioco” nel funzionamento concreto del settore energetico. Si tratta di regole perlopiù tecniche e di comandi nei confronti degli attori attivi del mercato, mentre invece nell’attività regolamentare propria dell’attività amministrativa tradizionale si tratta pur sempre di un’opera di bilanciamento tra l’interesse pubblico e gli altri interessi secondari, composti attraverso la norma[16].
Le “regole del gioco” hanno un intrinseco valore normativo, che solo la legge può autorizzare, soprattutto se a crearle è un organismo che sfugge al circuito democratico. Tuttavia la giurisprudenza amministrativa (in particolare quella del Tar di Milano e del Consiglio di Stato) ha ritenuto che, pur essendo innegabile che l’autorità amministrativa indipendente in esame spesso nell’esercizio della regolazione introduce misure e strumenti non espressamente previsti dalla legge e non compatibili con il principio di legalità (nelle sue due declinazioni di tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi) , ha aderito alla tesi secondo cui la particolare tecnicità della materia rende impossibile al legislatore determinare ex ante e tassativamente tutti gli strumenti e le misure che le autorità devono adottare per perseguire gli obiettivi posti.
Pertanto il giudice amministrativo ha effettuato una riflessione sulla tradizionale concezione del principio di legalità inteso in senso formale. Ha ritenuto che il modello di democrazia rappresentativa non è l’unico modello di legittimazione democratica, poiché accanto ad esso esiste anche un modello di democrazia deliberativa, secondo cui la legittimazione all’esercizio dell’autorità non discende dalla rappresentanza politica, ma si realizza attraverso la partecipazione degli interessati al processo decisionale. Da qui la necessità che il procedimento che porta alla creazione della ‘regola del gioco’ deve essere caratterizzato da un’ampia partecipazione delle imprese destinatarie della regola stessa e che deve essere ampiamente motivata, in deroga alla regola generale del procedimento amministrativo secondo cui gli atti generali non vanno motivati.
Quanto ai cosiddetti poteri impliciti va premesso che l’attività di regolazione si sostanzia più nella scelta e nella creazione delle regole che nella loro applicazione.
Tuttavia tra i compiti dell’autorità in esame rientra anche quella di assicurarsi l’esecuzione esatta della regolamentazione posta; il che postula l’esistenza di poteri idonei a garantirne l’osservanza. Anche in questo caso vi è l’assenza della legge nel predisporre misure e sanzioni, che possono essere poste solo da essa. Da qui la necessità di afferma l’assunto in base al quale se vi è il potere di esercitare la regolazione vi deve essere necessariamente anche quello di garantirne l’osservanza (c.d. teoria dei poteri impliciti)[17].
7. Gli strumenti integrati di tipo amministrativo e di tipo civilistico
Passando agli strumenti utilizzati nei complessi rapporti giuridici che si realizzano all’interno del pianeta-energia, si inizia la breve rassegna, prendendo in prestito da uno studio recente[18] la distinzione tra strumenti di tipo amministrativo e strumenti civilistici, e più precisamente di mercato.
Nei primi, denominati anche di command and control, rientrano gli atti di pianificazione, i regimi tariffari, le normative tecniche, gli atti autorizzativi, le attestazioni e certificazioni, iscrizione ad elenchi e registri, l’attribuzione di incentivi e sovvenzioni, i regimi impositivi, gli obblighi informativi, le sanzioni amministrative. I secondi invece si sostanziano nella predisposizione di regole incidenti sulle dinamiche di mercato (domanda ed offerta), ora operando in modo per così dire “naturale” ora istituendo veri e propri “mercati artificiali”.
Dei primi non si possono non ricordare i Piani nazionali integrati per l’energia e il clima (PNIEC), disciplinati dal Regolamento UE 11 dicembre 2018, n. 218/1999. La disciplina prende in considerazione le sinergie e le interazioni tra i vari settori di intervento e stabilisce che la predisposizione e l’approvazione dei piani debba avvenire in modo concertato e partecipato, sia a livello europeo sia a livello nazionale. La Commissione europea ha espresso una valutazione positiva sul PNIEC italiano il 17 settembre 2020. Il piano concorre con un altro atto di programmazione di derivazione europea, ossia il piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), pure approvato dall’unione europea il 13 luglio 2021, che contiene un’intera sezione dedicata alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica all’interno della quale figurano due sottosezioni: l’energia rinnovabile e l’efficienza energetica e riqualificazione degli edifici. Per il raggiungimento degli obiettivi indicati nelle due sottosezioni sono stati stanziati cospicui finanziamenti.
Anche per il settore degli idrocarburi è stato previsto uno strumento di pianificazione generale delle attività minerarie all’interno del territorio nazionale per individuare le aree dove è possibile svolgere in modo sostenibile le attività di ricerca e coltivazione (legge 11 febbraio 2019 n. 12).
Il potere tariffario è attribuito all’ARERA e serve a disciplinare i rapporti contrattuali relativo alle varie attività che sono gestiti in regime di esclusiva e altri casi in cui il potere di mercato di un soggetto altera le dinamiche della formazione dei prezzi.
I poteri di regolazione relativi all’accesso alle infrastrutture, l’art. 10, comma 2, del decreto legislativo n. 79 del 1999 garantisce condizioni di parità tra i soggetti interessati e in particolare in materia di importazioni di energia elettrica e di accesso alla rete per gli scambi transfrontalieri, attribuendo in capo al Ministero delle attività produttive, con il parere del ARERA, il compito di individuare modalità e condizioni delle importazioni nel caso risultino insufficienti le capacità di trasporto disponibili, tenuto conto di un’equa ripartizione complessiva tra mercato vincolato al mercato libero. Analogamente in materia di accesso alle infrastrutture del sistema del gas vengono attribuiti al medesimo ministero poteri di definizione dei principi e delle modalità per il rilascio delle esenzioni e per l’accesso alla rete nazionale dei gasdotti italiani.
Per quanto riguarda le concessioni qui si possono ricordare che esse, in quanto collegate a elementi di monopolio naturale (in particolare le reti) o a risorse scarse, devono essere rilasciate sulla base di procedure competitive.
Per le autorizzazioni amministrative è possibile solo ricordare l’autorizzazione per la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, che viene qualificata come attività libera (art. 12 del decreto legislativo n. 387 del 2003 e art. 1 del decreto legislativo n. 79 del 1999)
Nel settore del gas è sottoposta a un regime di autorizzazione l’importazione di gas naturale con contratti di durata superiore ad un anno effettuata attraverso la rete nazionale di gasdotti. Essa è rilasciata sempre dal Ministero dello sviluppo economico sulla base di criteri non discriminatori.
Gli idrocarburi sono qualificati come minerali di interesse nazionale e pertanto rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826 c. c.). Pertanto sono necessarie autorizzazioni e concessioni, non essendo un’attività libera.
Infine tra le concessioni vanno richiamate quelle relative alle derivazioni per usi idroelettrici che hanno ad oggetto un bene demaniale, ossia l’acqua (822). Esse si distinguono in concessioni di grandi e piccole derivazioni.
Sulle sanzioni vale quanto già detto, ossia che sono strumenti volti a dare effettività alla regolamentazione di settore, incluse le delibere adottate dall’ARERA. Esse costituiscono un tassello essenziale del disegno complessivo.
Per quanto riguarda gli strumenti di mercato in questa sede si possono ricordare solamente i cosiddetti mercati artificiali. Essi sono possibili solamente per effetto dell’imposizione di legge di certi tipi di obblighi a carico di imprese già operanti, ma anche creando i presupposti affinché un mercato possa sorgere e svilupparsi. Il fondamento di tali mercati si fonda su obblighi giuridici imposti ad alcune tipologie di operatori. Essi hanno per oggetto i certificati bianchi, rappresentativi di titoli di efficienza energetica, i certificati verdi relativi a quantitativi di energia prodotta da fonti rinnovabili e i certificati neri, rappresentativi di quote di emissione in atmosfera di gas ad effetto serra (cosiddetti diritti di inquinamento). Essi sono emessi trasferiti e annullati dal gestore dei mercati energetici (GME), nella misura corrispondente ai risparmi energetici certificati dal GSE.
In questa materia le controversie sono molto numerose e vengono risolte attraverso procedure di conciliazione e di arbitrato innanzi all’ARERA e poi innanzi al giudice amministrativo. Le liti più importanti vengono definite secondo i noti meccanismi giustiziali ed eventualmente giurisdizionali propri delle autorità amministrative indipendenti, il cui tratto caratterizzante è dato proprio dalla indefettibile presenza presso di esse di procedimenti sanzionatori esecutivi e sanzionatori puri, la cui decisine è sindacabile innanzi al giudice amministrativo (sindacato forte e non debole, come si era ritenuto in passato).
È utile ricordare che spesso le controversie hanno riguardato atti dell’autority che avevano invaso la competenza riservata alle regioni o altri organismi espressione del potere governativo (c. d. politico) del settore.
8. La formula organizzatoria dell’energia come ordinamento sezionale. Gli atti interni dell’ordinamento sezionale e la loro sindacabilità. I principi e le regole del diritto dell’energia tra diritto privato e diritto amministrativo. La necessità di un codice dell’energia
Dall’esposizione svolta è possibile osservare che il diritto dell’energia presenta contorni precisi e originali, che cospirano nel senso di poterlo riguardare come una branca scientifica autonoma.
In realtà l’ordinamento dell’energia si presenta come un ordinamento sezionale (o settoriale), che è una realtà giuridica del nostro tempo, soprattutto a seguito delle privatizzazioni dei grandi monopoli facenti capo agli enti pubblici economici[19]. Paradossalmente alla privatizzazione è seguita una copiosa regolamentazione, costituita da norme ‘interne’ al mercato di riferimento.
Si tratta di una formula organizzatoria, che ha trovato la sua compiutezza più nota nell’organizzazione del credito e nei regolamenti dell’organizzazione dei corpi militari. Gli ordinamenti sezionali hanno tutti una base economica ben identificabile e si profila quando l’attività economica presenta aspetti di pubblica utilità, per cui non può essere lasciata al mercato libero. La formula organizzatoria in esame è perfettamente compatibile con il principio di cui all’art. 41 della Costituzione, che consente il controllo pubblico di imprese private in presenza di un interesse pubblico.
Tali ordinamenti sono costituiti da imprenditori che per svolgere una certa attività hanno bisogno di un provvedimento amministrativo iniziale che le norme configurano ora come autorizzazione ora come concessione. Il provvedimento consente l’immissione nell’ordinamento degli imprenditori, la cui organizzazione è costituita da organi dello Stato o da un apposito ente, e hanno poteri normativi interni, poteri di direzione e di ordine nonché poteri di controllo, preventivi o repressivi.
Gli imprenditori del settore energetico naturalmente sono diversi dalle imprese che utilizzano energia per produrre altro. A tal proposito si distinguono i grandi consumatori di energia (c.d. idonei), da quelli medi e piccoli, incluse le fasce meno abbienti, che non possono essere escluse dalla fornitura di energie indispensabili (c.d. servizio universale).
La caratteristica fondamentale degli ordinamenti sezionali è data dal fatto che il controllo pubblico non è episodico ma programmatico e generale (ossia non individualizzato in una singola impresa).
É importante ricordare che gli organi che reggono l’ordinamento sezionale sono sempre qualificabili nell’ordinamento generale statale come provvedimenti amministrativi e che quindi essi soggiacciono alle misure di tutela date contro i provvedimenti invalidi.
Il problema più delicato, che attende una messa a punto, riguarda la qualificazione e il rapporto delle norme interne dell’ordinamento sezionale con quelle dell’ordinamento generale.
Infatti, se si segue il principio formale per cui gli atti normativi efficaci nell’ordinamento generale sono quelli espressamente previsti dalle norme sulla normazione dell’ordinamento statale, le norme dell’ordinamento sezionale sono sempre e comunque norme interne contenute in atti amministrativi interni. Va da sé che soprattutto nella materia energetica la continua produzione di norme contenute in atti generali genera non pochi problemi, in particolare per i giudici amministrativi, che comunque, e per fortuna, ritengono che la loro violazione costituisca un atto viziato da illegittimità, tralasciando tutto quanto ruota intorno alle conseguenze, talvolta impeditive, legate alla qualificazione di norma interna, che non sempre produce effetti nell’ordinamento generale. Per le norme interne si esclude la possibilità di ricorrere per Cassazione a seguito della loro violazione.
Se questi sono i caratteri propri dell’istituto dell’ordinamento sezionale, va da sé, per quanto esposto nei paragrafi precedenti, che l’organizzazione del mercato dell’energia vi rientra perfettamente.
Infatti: esiste una vera e propria governance in capo ai poteri pubblici; la particolarità del bene energia e la indefettibile presenza della rete in cui l’energia si innerva conformano schemi particolari dell’attività imprenditoriale; l’immissione nell’ordinamento avviene attraverso gli strumenti, sopra ricordati, delle concessioni e delle autorizzazioni; il controllo è di tipo programmatico e generale, e a questi fini è irrilevante che esso venga svolto anche con il coinvolgimento di autorità europee.
Con il presente studio si è voluto semplicemente dimostrare che la classificazione dell’energia tra gli esempi più vistosi di ordinamento sezionale già di per sé fa del diritto che lo governa una scienza autonoma, che prende in prestito strumenti del diritto privato e del diritto amministrativo. Tuttavia non bisogna trascurare il fatto che essa si fonda sulla specificità dei beni che stanno alla base della particolare disciplina, ossia il bene energia e il bene rete.
Prima di concludere la nostra disamina occorre riprendere quanto si osservava nel paragrafo iniziale a proposito del diritto della navigazione e degli altri diritti autonomi.
L’ordinamento sezionale dell’energia non ha niente a che vedere con il ‘particolarismo’ propugnato agli inizi del secolo scorso dalla dottrina francese, ossia esso non è separato dagli ordinamenti generali del diritto privato e del diritto amministrativo. Anzi esso utilizza indifferentemente lo strumentario dell’uno e dell’altro, a seconda della convenienza e della necessità giuridica. Quindi non ha molto senso collocarlo nell’una o nell’altra grande disciplina, in quanto entrambe lo alimentano. Anzi il diritto dell’energia costituisce l’ulteriore riprova che bisogna finalmente abbandonare la visione dicotomica e approdare ad una concezione integrata dei due sistemi giuridici[20].
Quanto al tema se dall’ordinamento particolare è possibile espungere principi e regole particolari, è sufficiente ricordare che vi sono stati dei tentativi in tal senso nella dottrina più recente[21]. Essi sono stati individuati nel principio della giustizia energetica, ossia un sistema globale di regole e principi in grado di distribuire equamente sia i benefici sia i costi dei servizi energetici con l’adozione di decisioni più rappresentative e imparziali possibili; il principio della sovranità sulle risorse energetiche; l’accesso ai servizi; l’uso prudenziale e sostenibile delle risorse naturali; la salvaguardia dell’ambiente e della salute umana; il combattimento del cambiamento climatico; la sicurezza energetica e l’affidabilità; il principio della resilienza, ossia un equilibrio non statico ma di adattamento continuo che ha origine dall’estrema variabilità e interconnessione degli ecosistemi naturali.
Tutti questi principi sono coerenti con il sistema delineato e possono essere accettati, anche se essi attendono di essere adeguatamente giustificati dall’analisi delle singole norme disseminate negli ordinamenti giuridici multilivello in materia, onde evitare che si traducano in opzioni filosofiche, morali o politiche.
Certamente l’assenza di un codice o di un testo unico che raggruppi e razionalizzi, alla luce di precisi principi generali, le tante norme in materia non facilita il compito.
*Il saggio è destinato alla pubblicazione sul primo numero della rivista di prossima uscita, Rivista dell’Ambiente e dell’Energia, edita dalla Jovene di Napoli. Qui, per gentile concessione della direzione, se ne anticipa la pubblicazione.
[1] Sul tema si veda da ultimo il bel volumetto coordinato da L. Martiniello, B. Giliberti e A. Presciutti (a cura di), Parteniariato pubblico privato e comunità energetiche a trazione pubblica, FrancoAngeli, Milano, 2025; in particolare S. Di Cunzolo e B. Ciliberti, CER a partecipazione pubblica: tematiche e modelli, ivi, p. 75 e ss. Più in generale, A. Brandonisio, Diritto e cambiamento climatico, in Cultura e diritti, v. 13, n.1, 2024, pp. 11-44.
[2] G.P. Cirillo, La pubblica amministrazione e le società intermedie, in federalismi.it, n. 20, 2017, p. 3 e ss.
[3] N. Irti, L’età della decodificazione, Giuffrè, Milano, 1979; S. Rodotà, Ideologia e tecniche della riforma del diritto civile, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, I, 1967, 1967, p. 83 e ss.
[4] Per tutti, A. Lefevre D’Ovidio e G.Pescatore, Manuale di diritto della navigazione, Giuffrè, Milano, 1969, p. 5. J. Bonnecase, Le droit commercial maritime, son particolarisme, 1932, p. 8 e ss.
[5] P. Rescigno, Manuale di diritto privato, Wolters Kluwer, Alphen aan den Rijn, 2000, edizione a cura di G.P. Cirillo, p. 685 e ss.; E. Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Edizione Ricerche, ristampa corretta, 1972, p. 511 e ss.
[6] M.S. Giannini, Diritto dell’ambiente e del patrimonio naturale e culturale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1971, p. 1125.
[7] G.P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Wolters Kluwer, CEDAM, Alphen aan den Rijn, Padova, 2a ed., 2021, p. 373 e ss.
[8] G. Gentile, Lezioni di diritto dell’energia, Giuffrè, Milano, 1989, p. 6 e ss.
[9] C. San Mauro (a cura di), Manuale di diritto delle reti nei mercati regolati, Giappichelli, Torino, 2024.
[10] V. Smil, Storia dell’energia, il Mulino, Bologna, 1994, p. 22 s. A. Clò, S. Clò e F. Boffa, Riforme elettriche tra efficienza ed equità, il Mulino, Bologna, 2014. Sul servizio pubblico in generale e gli obblighi che da esso derivano, L. De Lucia, La regolazione amministrativa dei servizi pubblici, Giappichelli, Torino, 2002, p. 165 e ss.; P. Ranci, L’energia elettrica e il gas, in G. Tesauro e M. D’Alberti (a cura di), Regolazione e concorrenza, il Mulino, Bologna, 2000, p. 133 s.
[11] Sui riflessi economici dell’art. 43 della Costituzione, G. Guarino, L’elettricità e lo Stato, in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Giuffrè, Milano, 1970, p. 482 e ss. A. Predieri, voce ‘Collettivizzazione’, in Enciclopedia del Diritto, VII, 1960, Par. 12, p. 418 e ss.
[12] Sulla vicenda si veda C. Cost., 7 marzo 1964, n. 14, che ha dichiarato legittima l’operazione del legislatore. Si veda anche A. Zito, La legge istitutiva dell’Enel nella sentenza della corte costituzionale n. 14 del 1964: considerazioni inattuali sulla sua attualità, in R. Di Raimo e V. Ricciuto (a cura di), Impresa pubblica e intervento dello Stato sull’economia. Il contributo della giurisprudenza costituzionale, ESI, Napoli, 2007, p. 60 e ss.; G D’Orta, La programmazione energetica, in S. Cassese (a cura di), Governo dell’energia, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 1992, p. 119 e ss.
[13] Per una completa rassegna sull’influsso del diritto europeo, si veda l’ottima voce di M. Clarich, voce ‘Energia’, in Enciclopedia del Diritto, estratto I Tematici, III-2022, ‘Funzioni amministrative’, diretto da B. Mattarella e M. Ramajoli, Giuffrè, Milano, 2002, p. 448 e ss., con le note ivi contenute.
[14] Sull’art. 41 naturalmente la letteratura è molto vasta. Sulla legge di riforma costituzionale, si vedano: T.E. Frosini, La Costituzione in senso ambientale. Una critica, in federalismi.it, 6/2021; G. Santini, Costituzione e ambiente: la riforma degli articoli 9 e 41 Cost., in Forum di quaderni costituzionali, 2/2021, p. 480; G. Severini, P. Carpentieri, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’art. 9 della Costituzione, 22.9.2021, disponibile al link https://www.giustiziainsieme.it/; R. Montaldo, La tutela costituzionale dell’ambiente nella modifica degli articoli 9 e 41 Cost.: una riforma opportuna e necessaria, in federalismi.it, n. 13, 2022, p. 149 e ss.
[15] Sentenze n. 308 del 2011, n. 99 del 2012, n. 2224 del 2012, n. 13 del 2014, n.69 del 2018, n.106 del 2020. Ma si veda anche Cons. St., sez. VI, 8 aprile 2021, n. 2848.
[16] Per un’approfondita rassegna, si veda ancora: M. Clarich, voce ‘Energia’, cit., pp. 458-465.
[17] Sul tema si veda. F. Cintioli, I servizi di interesse economico generale ed i rapporti tra antitrust e regolazione, in C. Rabitti Bedogni e P. Barucci (a cura di), 20 anni di antitrust, tomo II, Giappichelli, Torino, 2012, p. 781. Più di recente, G.P. Cirillo, I limiti del potere regolatorio di ARERA, in www.giustizia-amministrativa.it, voce Dottrina, 2025.
[18] Ancora il più volte citato M. Clarich, voce ‘Energia’, cit., pp. 465-475.
[19] Per tutti, M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, Giuffrè, Milano, 1993, p. 171 (vol I) e p. 453 (vol II).
[20] Sul punto si rinvia al citato G.P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, in particolare pp. 1-25.
[21] Tra i primi a ipotizzare una trama di principi: R.J. Heffron, L’energia attraverso il diritto, a cura di L.M. Pepe, Editoriale scientifica, Napoli, 2021, p. 224; L.M. Pepe, Il diritto dell’energia fondato su principi. La transizione ecologica come giustizia energetica, in www.ambientediritto.it, n. 4, 2021, p. 25.
Il referendum abrogativo del D. Lgs. 4 marzo 2025, n. 23 sui licenziamenti nell’ambito del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (c.d. Jobs Act)
V. A. Poso. Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data12 aprile dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024).Il primo, sinteticamente denominato dai promotori “Reintegro-Licenziamenti” ha ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?». Il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro tutelato”, è inteso, in estrema sintesi, ad ottenere la “reintegrazione” nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo con l’abrogazione totale del c.d. Jobs Act (d. lgs. n. 23/2015) in materia di licenziamenti, che si applica ai lavoratori (non tutti) assunti dopo il 7 marzo 2015. Dico in estrema sintesi perché anche il Jobs Act prevede, in alcuni casi e a determinate condizioni, la tutela reintegratoria piena, come quella statutaria dell’art. 18; e disciplina anche altri istituti, sempre connessi alla materia dei licenziamenti.
Chiedo, in particolar modo, ai giuslavoristi in cosa consiste la disciplina normativa oggetto di referendum. Innanzi tutto, un quadro sintetico dei soggetti ai quali si applica, spiegando, anche, le ragioni di politica del diritto poste a fondamento di questa riforma, che, a torto o a ragione, è stata definita “epocale”, considerata la resistenza, per oltre quarant’anni, della tutela, reale e piena, approntata dallo statuto dei lavoratori con l’art. 18, nonostante le modifiche introdotte dalla l. 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Riforma Fornero).
M. T. Carinci. Con il cd. Jobs Act il Governo dell’epoca - Presidente del Consiglio on. Matteo Renzi - ha modificato profondamente le tutele previste per il licenziamento individuale per i dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015, superando in modo inequivocabile la centralità della tutela reale riconosciuta - a partire dall’entrata in vigore dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 - come cardine del sistema rimediale per il licenziamento contra legem (nullo, ingiustificato o viziato dal punto di vista procedurale) da parte di datori di lavoro di dimensioni medio-grandi.
È vero che la cd. Legge Fornero del 2012, nel modificare l’art. 18 St.lav., aveva già inciso su quel principio, introducendo diverse ipotesi in cui il rimedio previsto è solo indennitario. Tuttavia, nella lettura poi fornitane dalla giurisprudenza - ed in coerenza con i principi insiti nel sistema - la tutela reale nell’art. 18 St.lav. post l. Fornero aveva continuato a rimanere centrale. Viceversa, nelle realtà di più piccole dimensioni fin dall’entrata in vigore della l. 604/1966, salvo il caso del licenziamento nullo, la tutela prevista per il licenziamento viziato è sempre stata ed è poi sempre rimasta solo di tipo economico.
Il Jobs Act, dunque, da una parte - opportunamente - riunifica in un unico testo normativo la disciplina del licenziamento individuale nel suo complesso, quale che siano le dimensioni occupazionali del datore di lavoro, superando così la separazione tra le discipline basata sul requisito dimensionale, dall’altra - con una scelta a mio parere discutibile e come subito dirò non idonea agli scopi che si prefiggeva - capovolge la prospettiva statutaria per i lavoratori assunti da datori medio-grandi dopo il 7 marzo 2015: la tutela riconosciuta dalla legge per il licenziamento individuale privo di giustificazione o affetto da vizi formali o procedurali è per tutti i lavoratori, anche se dipendenti da datori di lavoro con un maggior numero di occupati, una tutela esclusivamente economica e per di più molto contenuta.
Nel nuovo sistema, dunque, la reintegrazione diviene inequivocabilmente marginale, trovando applicazione solo nei casi più gravi in cui il licenziamento viene ritenuto (maggiormente) lesivo della dignità della persona del lavoratore: il licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale.
Perché dunque il legislatore del Jobs Act compie questa scelta “epocale”?
Due erano gli obiettivi dichiarati (come si evince dall’art. 1, co. 7, l. delega 183/2014): in primo luogo “fluidificare” il mercato del lavoro, rendendo meno costoso il turn over fra i lavoratori occupati e quelli in cerca di occupazione; in secondo luogo, ridurre la “segmentazione” (realizzatasi in particolare in conseguenza della “riforma Biagi”, D. Lgs. 276/2003) fra i lavoratori più tutelati assunti con il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e quelli meno tutelati, soprattutto giovani, assunti, di regola, con una miriade di contratti atipici e flessibili. Quegli obiettivi vengono perseguiti nella sostanza abbassando le tutele - ed i costi - del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato soprattutto con riguardo al licenziamento (ma non solo: si pensi alla rivisitazione in senso “flessibilizzante” della disciplina dello ius variandi o dell’ampliamento del potere di controllo a distanza del datore di lavoro), e, al contempo, trasferendo parte dei costi connessi alla ricerca di un posto di lavoro sulla fiscalità generale (tramite il rafforzamento dei servizi per l’impiego, la previsione di un contratto di ricollocazione, ecc.).
Sullo sfondo della riforma aleggiava tuttavia un’ulteriore idea e cioè che l’abbassamento dei costi connessi al licenziamento potesse avere anche riflessi positivi sull’occupazione nel suo complesso, inducendo i datori di lavoro ad assumere di più, e potesse in definitiva stimolare, in uno con l’accresciuto potere di fatto del datore nell’ambito del rapporto, la produttività del lavoratore.
I fatti però hanno dimostrato che l’obiettivo occupazionale non poteva essere perseguito con quegli strumenti: le regole giuslavoristiche di per sé non possono certo creare nuova occupazione; per raggiungere un tale risultato servono infatti strumenti di politica economica.
D’altra parte, la produttività del lavoro dipende innanzitutto dal tipo di produzioni e servizi, a più o meno alto valore aggiunto, che caratterizzano un certo sistema economico, nonché dal tipo di professionalità posseduta dai lavoratori che operano in tali settori, da formare ed aggiornare costantemente con investimenti specifici da parte delle imprese. Insomma, neppure la produttività del lavoro è promossa o favorita dall’abbassamento delle tutele per il licenziamento, ma richiede di essere sostenuta con altri strumenti volti a stimolare investimenti sulla formazione del lavoratore ed a fidelizzarlo.
Il Jobs Act, dunque, non ha raggiunto gli obiettivi che dichiarava di perseguire, né poteva raggiungerli.
Al contrario, esso ha determinato una ulteriore segmentazione del mercato del lavoro (fra lavoratori più protetti, i “vecchi assunti” fino al 7 marzo 2015, e quelli meno protetti, i “nuovi assunti”) finendo per promuovere un modello di impiego il cui “cuore” non è la valorizzazione di chi lavora ma, piuttosto, una più spinta “precarizzazione” e soggezione ai poteri (di diritto e di fatto) del datore di lavoro.
In effetti parte della dottrina ha fin da subito rimarcato - a mio parere a ragione - che la riforma violasse il principio di uguaglianza posto dall’art. 3 Cost., poiché nessuna ragionevole giustificazione sorreggerebbe la scelta del legislatore di tutelare in modo più blando - a fronte dei medesimi vizi dell’atto di recesso - i lavoratori assunti, anche nella stessa azienda, prima o dopo una certa data. Com’è noto, però, C. Cost. 194/2018, ha respinto la questione di incostituzionalità dell’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015 (nel testo sia antecedente che successivo al d.l. cd. 87/2019, cd. “Decreto Dignità”) per violazione del principio di uguaglianza (una posizione analoga sarà poi assunta da C. Cost. 7/2024 con riferimento alla disparità di tutela in punto di violazione dei criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi fra lavoratori assunti fino o dopo il 7 marzo 2015).
La Corte costituzionale, pur dando atto che la tutela per il licenziamento ingiustificato posta dal D. Lgs. 23/2015 è deteriore rispetto a quella posta dall’art. 18 St.lav., ha ritenuto infatti che il criterio temporale prescelto dalla legge per l’applicazione delle tutele (la data di assunzione del lavoratore) trovi ragionevole giustificazione nello «scopo, dichiaratamente perseguito dal legislatore, di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (così C. Cost. 194/2018, punto 6), scopo che viene coerentemente perseguito favorendo coloro che a partire da una certa data possano effettivamente aspirare all’assunzione a tempo indeterminato.
Nonostante la presa di posizione della Corte - in qualche modo necessitata, a meno di non voler giungere alla demolizione dell’intera riforma - sul punto il dibattito non si è sopito, ed a ragione. La Consulta si è infatti limitata a valutare l’astratta corrispondenza fra lo scopo dichiarato dalla legge e la fissazione dello spartiacque temporale senza valutare però, da una parte, se lo scopo astrattamente perseguito sia stato poi raggiunto in concreto in modo ragionevole e, dunque, con strumenti adeguati (conclusione del tutto discutibile come ho già sottolineato) e, dall’altra - soprattutto -, senza considerare in alcun modo il vero nocciolo della questione e, cioè, se le disparità di trattamento sul piano sostanziale fra lavoratori assunti fino o dopo il 7 marzo 2015 - anche se tutti dipendenti da uno stesso datore di lavoro e dunque oggettivamente equiparabili - possa trovare esaustiva ed adeguata giustificazione in una astratta finalità di promozione dell’occupazione prescindendo da altri aspetti cruciali in gioco. In particolare, la questione che rimane ancora da sciogliere è se la tutela della persona del lavoratore, esposta al potere di diritto e di fatto del datore di lavoro nell’ambito di una medesima organizzazione, possa essere ragionevolmente differenziata dalla legge senza considerare la dimensione imprescindibile di potere propria dell’atto di licenziamento.
Alla luce di tutto ciò ritengo che il referendum promosso dalla CGIL per l’abrogazione del Jobs Act, ove accolto, possa determinare effetti positivi per il sistema nel suo complesso: la congiuntura economica, sociale e geopolitica che stiamo vivendo richiede, infatti, una forte coesione sociale e, dunque, una particolare attenzione a quella componente essenziale della nostra società costituita dai lavoratori subordinati.
Rafforzare le tutele del licenziamento - snodo cruciale per l’effettivo godimento di tutti i diritti di cui il lavoratore è titolare nel corso del rapporto - è a mio parere un segnale importante in questo momento storico per riaffermare la centralità della persona che lavora quale parte integrante e determinante del sistema economico-sociale del Paese.
B. Caruso. La collega Maria Teresa Carinci ha ben sintetizzato i presupposti di politica del diritto che hanno indotto la CGIL a indire un referendum popolare di abrogazione della parte relativa ai licenziamenti del Jobs Act. Va, però, ricordato che il Jobs Act costituisce un complesso di interventi ad ampio spettro (contratti flessibili, regolazione del mercato del lavoro, controlli a distanza ecc.) che hanno introdotto riforme, ancora vigenti, che non hanno riguardato soltanto il licenziamento, molte delle quali neppure i governi di segno politico diverso dal famigerato “governo Renzi” hanno mai provato ad abrogare.
Si può contestare, nei presupposti di policy e negli effetti, quella stagione legislativa, ma non si può negare il fatto che, soprattutto se si confronta con il piccolo cabotaggio delle politiche del lavoro attuali, il Jobs Act fu un tentativo organico di riforma della legislazione del lavoro, in parte riuscito in parte no, ma che ridurre a un tentativo di liberalizzazione del mercato del lavoro di stampo neoliberista appare un po’ riduttivo.
Come pure va ricordato che molti economisti che parteciparono alla stesura di quelle norme - non certamente di scuola neoliberista o neoclassica (per esempio M. Leonardi e T. Nannicini) - segnalano che il Jobs Act non ha prodotto l’ondata di licenziamenti che i giuristi apocalittici avevano pronosticato.
A dirla tutta, poi, i problemi che oggi affrontano le imprese, ma persino le pubbliche amministrazioni - anche in ragione di complesse ragioni strutturali di tipo economico, demografico e tecnologico - sono esattamente agli antipodi della maggiore o minore libertà di licenziare, e si concentrano sul versante dell’offerta di lavoro. È acclarata, infatti, statisticamente la situazione di grave carenza di forza lavoro che gli uffici di recruitment delle imprese devono gestire, sia relativamente alle professionalità ricercate e adeguate al mutamento tecnologico, sia in termini assoluti in ragione della riduzione progressiva, per la notte demografica che il sistema Italia sta attraversando ormai da anni, di persone disponibili ad essere assunte; e tale gap, come gli statistici e i demografi ci dicono, viene solo in parte colmato dagli immigrati. È questo il vero problema del mercato del lavoro e delle imprese, oggi.
A fronte di questa dura e concreta realtà non voglio dire che il referendum abrogativo del Job Act costituisca una “arma di distrazione di massa”, ma certamente se ne evidenziano le valenze politiche e simboliche piuttosto che i concreti effetti giuridici. Anche la formulazione del quesito molto semplificato rispetto al precedente sempre sui licenziamenti, ha una funzione suggestiva e quasi pedagogica rispetto all’elettorato.
Al contrario di altri referendum complessi e inintelligibili anche agli addetti ai lavori, e quindi di fatto “elitari”, il referendum sul Jobs Act, nella sua eccessiva semplificazione, più che un referendum popolare politicamente sembra essere un referendum populista (il populismo secondo note analisi politologiche non è solo di destra ma anche di sinistra).
Del resto, un grande sociologo del lavoro scomparso, come Aris Accornero, definiva la reintegrazione e l’art. 18 dello Statuto una sorta di tabù (A. Accornero, A. Orioli (con la collaborazione di), L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, Laterza, 1999) sottolineandole le valenze ideologiche che, dopo la oceanica manifestazione di Roma del 23 marzo 2002 all’insegna del “giù le mani dall’art. 18”, si erano fortemente esaltate. La verità è che, dopo gli interventi ripetuti della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, pensare di abrogare il Jobs Act, come risposta ai problemi (enormi) del lavoro oggi, alcuni dei quali come quello che ho prima segnalato agli antipodi della libertà o meno di licenziare, equivale (gli animalisti mi passino la metafora) a un cacciatore miope che, in una battuta di caccia grossa, scambiasse un placido gattone con una tigre (probabilmente anche di carta).
Con questo non voglio dire che l’attuale quadro normativo sul sistema di sanzioni contro il licenziamento illegittimo non necessiti di una semplificazione e di una razionalizzazione normativa, anche per dare maggiore certezza agli operatori economici e agli stessi lavoratori (con i colleghi del “Gruppo Freccia Rossa” stiamo lavorando su questo); ma penso che tale compito debba essere, in un sistema normale, affidato al legislatore (già chiamato direttamente a intervenire dalla Consulta quanto meno sulla questione delle regime sanzionatorio nelle piccole imprese) e non ai giudici o al corpo elettorale; in una democrazia rappresentativa che funzioni, tale compito spetta agli organi di governo e al parlamento.
Oltretutto mi chiedo, e molti osservatori si sono concentrati su questo, se portare indietro le lancette alla legge “Fornero” (per altro non all’art. 18 dello Statuto come un cultore “duro e puro” della reintegrazione, come il segretario della CGIL Maurizio Landini, avrebbe dovuto pretendere), senza ulteriori aggiustamenti, sia davvero una mossa conveniente; e ciò anche in ragione del fatto che il Jobs Act è in alcuni passaggi (per esempio per il regime indennitario forte o, come ricorda la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 12/2025 sulla ammissibilità dei quesiti referendari al punto 4.5,) più favorevole ai lavoratori in materia di licenziamento per mancato superamento del comporto, per disabilità e nelle organizzazioni di tendenza, e posto pure che la differenza regolativa in ragione dell’entrata in vigore sta progressivamente attenuandosi, proprio per il trascorrere del tempo (si calcola che la legge Fornero si applichi ormai a una quota residuale di lavoratori).
Il dibattito, dunque, come sottolinea Maria Teresa, non si è sopito. Ma rispetto ai reali problemi in gioco esso è in parte artefatto, in parte ridondante, in parte troppo acceso nei toni se si guarda ai possibili effetti di natura tecnica, invero secondari soprattutto se riferiti a un quadro normativo già ampiamente rimaneggiato dai giudici. L’indizione del referendum è una legittima opzione politico-costituzionale, ma in tal caso, abbastanza irrilevante quanto ai mutamenti regolativi sostanziali che potrebbe produrre se il corpo elettorale si dovesse pronunciare positivamente; si configura invece come una scommessa politica, o un azzardo, dell’attuale gruppo dirigente della CGIL che soltanto l’esito dirà se fondata o meno.
Se volessi sintetizzare con riguardo agli effetti regolativi, direi con Shakespeare, Much ado about nothing.
M.T. Carinci. Vorrei replicare brevemente ad alcune delle osservazioni appena avanzate da Bruno Caruso, circa l’inutilità del referendum sulla scorta della duplice considerazione che altri sono i problemi del diritto del lavoro di oggi e che il risultato concreto che ne conseguirebbe dopo il riassetto della disciplina già compiuto dalle Corti sarebbe modesto, se non addirittura controproducente per i lavoratori.
Credo innanzitutto che non si possa imputare al referendum - la cui portata può essere solo abrogativa – di non rispondere agli “enormi problemi” del lavoro di oggi. Di ciò dovrebbe infatti farsi carico il legislatore, che invece non ha neppure iniziato a mettere mano al riordino della disciplina dei licenziamenti, nonostante le esplicite sollecitazioni della Corte costituzionale, in particolare per quanto riguarda le piccole imprese. Allo strumento referendario, dunque, non si può certo imputare di non fare ciò che non può fare!
Ben venga a mio parere invece una presa di posizione popolare su una questione cruciale come la disciplina del licenziamento che cerchi di rimettere al centro dell’agenda politica i problemi del lavoro.
In secondo luogo, penso che l’abrogazione del Jobs Act considerato nel suo complesso - con la conseguente riespansione dell’art. 18 post legge Fornero e della l. 604/1966 - comporti due risultati molto positivi: la riunificazione delle tutele senza distinzioni in conseguenza della data di assunzione ed un effettivo rafforzamento delle tutele per i lavoratori. È vero, come illustrerò meglio in seguito (in particolare v. risposta alla domanda 8), che per alcuni aspetti la tutela arretrerebbe, ma nel suo insieme essa risulta rafforzata specie con riguardo al licenziamento ingiustificato che costituisce l’ipotesi più frequente di illegittimità, con benefici effetti di sistema sull’effettività di tutti diritti riconosciuti al lavoratore nel corso del rapporto di lavoro. È infatti ben noto che la tutela del licenziamento costituisce la chiave di volta per assicurare l’effettivo esercizio da parte del lavoratore di tutti i diritti propri del rapporto di lavoro.
V. A. Poso. Nel testo originario della riforma come era configurato il sistema delle tutele?
M. T. Carinci. Come anticipato, nel sistema del Jobs Act, superando le ambiguità della legge Fornero, la tutela indennitaria diviene la regola e la tutela reintegratoria l’eccezione.
La prima, dunque, avrebbe dovuto trovare generale applicazione, salvi i casi in cui la legge non avesse espressamente disposto l’applicazione della tutela reale, nella versione “forte” (prevista per il licenziamento nullo: discriminatorio; “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”; privo di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore; e - in virtù di una condivisibile lettura - irrogato in caso di mancato superamento del periodo di comporto) o “attenuata” (prevista nel solo caso del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo soggettivo in cui “fosse direttamente dimostrato in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”).
Ogni altra ipotesi, incluse tutte quelle di licenziamento ingiustificato non eccettuate o del licenziamento “con violazione del requisito di motivazione” o della procedura prevista dall’art. 7 St.lav. ricadevano nell’alveo della tutela puramente economica.
Quanto a quest’ultima, divenuta appunto di generale applicazione, nella versione originaria del Jobs Act risultava assai ridotta per l’operare congiunto delle modalità di calcolo rigidamente fissate dalla legge, che ne determinavano la crescita automatica in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore, e della fissazione di importi minimi e massimi assai contenuti. L’esiguità dell’indennità risarcitoria risultante dall’applicazione di tali parametri ne faceva per questo, in molti casi, uno strumento inadeguato sia sul piano deterrente-sanzionatorio - per scoraggiare il datore dal commettere l’illecito e poi punirlo - che risarcitorio - per ristorare adeguatamente il lavoratore per il danno subito.
È noto come la Corte costituzionale abbia poi inciso in modo significativo su questo quadro, sia rivisitando le modalità di calcolo della indennità, sia ampliando - a mio parere del tutto condivisibilmente - i confini della tutela reale. Il Jobs Act, infatti, nella sua versione originaria, nel tentativo di rendere centrale la tutela indennitaria, violava per molti aspetti vincoli di sistema.
È bene ricordare comunque come la Corte in molte occasioni abbia ribadito al contempo che la tutela reale non è di per sé costituzionalizzata e, dunque, che la scelta fra tutela reale ed indennitaria è rimessa alla discrezionalità del legislatore (v. fra le tante C. Cost. 46/2000; C. Cost. 194/2018; C. Cost. 59/2020; C. Cost. 128 e 129/2024), purché però la tutela prescelta sia “adeguata” e “sufficientemente dissuasiva” (C. Cost. 128 e 129/2024), avendo riguardo alla singola forma di tutela in sé considerata (C. Cost. 194/2018 e 150/2020), e purché la graduazione delle tutele sia ragionevole in rapporto alle varie tipologie di vizi, tanto all’interno dello stesso disposto normativo (C. Cost. 59/2021 e 125/2022), quanto a fronte della disciplina dei licenziamenti nel suo complesso (C. Cost. 7/2024). A queste condizioni, dunque, la tutela indennitaria può essere scelta come “tutela regolare” dalla legge.
Se questo ha sempre costituito lo sfondo del ragionamento della Consulta, sono però proprio le scelte concretamente compiute dal Jobs Act nell’articolare la linea di distinzione fra tutela reale ed obbligatoria e nello strutturare quest’ultima a risultare in contrasto con principi cardine del nostro sistema costituzionale. Rimandando alle prossime risposte a questa intervista un più articolato richiamo alle pronunce della Corte costituzionale, si vuole qui sottolineare - a titolo di esempio delle enormi contraddizioni ed aporie insite del Jobs Act- l’insostenibilità sistematica della distinzione tracciata in punto di tutele fra licenziamento ingiustificato perché privo della ragione soggettiva - che avrebbe dato luogo in caso di insussistenza del “fatto” alla reintegrazione - e licenziamento privo della ragione oggettiva di tipo economico - che avrebbe dato luogo in caso di insussistenza del “fatto” solo alla tutela indennitaria (sul punto C. Cost. 128/2024). Come è infatti possibile a fronte di un licenziamento comunque privo di giustificazione (e dunque in ogni caso “acausale”) differenziare la sanzione in dipendenza unicamente della giustificazione formalmente addotta dal datore ma, in concreto, insussistente? Ciò non comporta rimettere al datore stesso la scelta della sanzione da applicare e, dunque, in ultima analisi svilire il principio di necessaria giustificazione del licenziamento?
È dunque proprio per la non linearità e coerenza delle scelte concretamente compiute che il Jobs Act è rimasto esposto agli “strali” della giurisprudenza ed alle pronunce della Corte costituzionale.
B. Caruso. Approfitto ancora della funzione civetta della risposta di Maria Teresa e mi aggancio alla sua per riflessioni ulteriori sulla domanda.
Il quadro sistemico delineato da entrambe le riforme della disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo si è assestato su un punto di non ritorno, come ho detto prima ormai accettato anche dai più radicali sostenitori della cultura della reintegrazione: dalla opzione statutaria del rimedio unico (l’antico art. 18), al sistema plurale: a “ogni licenziamento la sua sanzione”.
La dialettica tra indennizzo e reintegrazione, che il Jobs Act ha innescato in maniera più radicale della riforma Fornero, non ha dunque riguardato il criterio della disseminazione delle sanzioni in ragione della diversa fattispecie espulsiva; bensì la calibratura e la ponderazione tra i due rimedi; detto altrimenti, il reciproco rapporto di regola ed eccezione.
Se nel regime “Fornero” non era del tutto chiaro quale fosse la regola e quale l’eccezione, individuandosi per alcuni un sostanziale e armonico equilibrio tra i due rimedi (Riccardo Del Punta); per altri (Arturo Maresca) - e per una certa fase almeno anche per la Suprema Corte - l’indennizzo come regola e la reintegra come eccezione, proprio tale incertezza (anche in ragione delle prime interpretazioni “correttive” della giurisprudenza di merito), indusse il legislatore del Jobs Act a rompere l’equilibrio e a delineare, con maggiore nettezza, un regime di prevalenza dell’indennizzo sulla reintegrazione.
Quel che è avvenuto dopo è noto: la Cassazione stessa e soprattutto la Corte costituzionale hanno giocato non semplicemente di cacciavite ma anche di pialla, e l’equilibrio perduto con il Jobs Act - tra ipotesi di reintegra e di indennizzo - è stato in larga misura ripristinato, se non addirittura capovolto a favore della reintegra, al punto, ma questo è un altro discorso, che appare dubbio che possa ancora considerarsi attuale l’indirizzo della Corte di cassazione sulla prescrizione che considera la data cessazione del rapporto di lavoro come termine a quo della prescrizione sul presupposto che sarebbe venuto meno, per le riforme attuate, la tutela reale in via generalizzata e quindi il regime di stabilità.
Persino la summa divisio - che era l’imprinting del Jobs Act - tra licenziamenti disciplinari, ove poteva operare una ipotesi, ancorché residuale, di reintegra attenuata (l’insussistenza del fatto contestato) e tutta l’area dei licenziamenti economici (per giustificato motivo oggettivo e collettivi), assistiti soltanto dal rimedio indennitario ancorché forte (36 mensilità come tetto massimo), è stata messa in discussione dalla Corte Costituzionale (con la sentenza n. 128/2024, che ha reintrodotto la reintegra anche nella ipotesi acclarata di insussistenza del giustificato motivo oggettivo).
Certamente, ed è un dato da non trascurare, rimane indiscussa, anche per l’avallo della Corte costituzionale (sent. n. 7/2024), la scelta del Jobs Act di collocare l’intera disciplina dei licenziamenti collettivi nell’alveo della tutela indennitaria (ricordo che la legge Fornero prevedeva la reintegrazione nella ipotesi di violazione dei criteri di scelta). Onde sui licenziamenti collettivi l’eventuale abrogazione del Jobs Act avrebbe certamente un effetto ripristinatorio della reintegra almeno per l’ipotesi di violazione dei criteri di scelta.
Allo stato attuale, dopo l’ampio rimestio ortopedico, quale sia la regola e quale l’eccezione tra i due rimedi è davvero difficile da discernere.
Il quadro regolativo è ormai divenuto altamente frastagliato e complesso; esso è costituito da regole incerte, orientamenti giurisprudenziali antitetici e sentenze ortopediche dei giudici costituzionali che, a loro volta, potrebbero dare la stura a possibili orientamenti di merito difformi: si pensi ai problemi interpretativi che apre la sentenza n. 129/2024 con riguardo alla lettura delle clausole contrattuali sulle fattispecie disciplinari “aperte” ovvero dettagliate e precise nei contorni.
Risulta pertanto urgente un intervento razionalizzatore del legislatore, tecnicamente attrezzato, e non certo del corpo elettorale attraverso lo strumento referendario, inadeguato alla bisogna per la sua natura binaria: si/no.
Una dimostrazione in vitro, di quanto sostenuto, deriva proprio dall’osservazione di un effetto distorsivo e rifrangente di cui neppure i promotori si avvedono, e non potevano evidenziarlo anche in ragione dei limiti intrinseci dello strumento referendario. Una delle norme del Jobs Act lesiva dei diritti dei lavoratori ingiustamente licenziati e reintegrati - che riproduce tale e quale la norma della Fornero, per cui l’esito referendario non potrà comunque incidere - è quella che pone a loro carico l’alea della durata del processo; ciò al contrario dell’articolo 18 originario che la poneva, altrettanto ingiustamente, per intero a carico dei datori di lavoro: la norma che, nel caso di reintegra attenuata, pone il limite delle 12 mensilità come risarcimento massimo a favore del lavoratore reintegrato. Orbene, già con il rito Fornero, ma a maggior ragione dopo la sua abrogazione, è fatto notorio che una sentenza di reintegra interviene normalmente ben oltre 12 mesi dal licenziamento, persino in primo grado. Onde il rischio della lunghezza del processo è, oggi, a carico del lavoratore, per esperienza risultando un pallido surrogato del rito Fornero la norma processuale di accelerazione delle controversie in materia di licenziamento con richiesta di reintegrazione: art. 441bis cpc. Ciò perché in qualunque momento dovesse avvenire la reintegrazione, il datore di lavoro ha la certezza di un tetto di risarcimento (12 mensilità), mentre il lavoratore ingiustamente licenziato con reintegra attenuata, perderà, per probabilità statistica, una parte delle retribuzioni che sarebbero maturate senza il licenziamento.
Pare evidente che - senza necessariamente ripristinare un automatismo eguale e contrario e in assenza di dispositivi processuali finalizzati ad accelerare realmente la durata dei processi di licenziamento, come quello che, con tutte le aporie tecniche rilevate, era comunque costituito dal rito Fornero - si presenti l’esigenza di una riforma della disciplina che consenta almeno al giudice, discrezionalmente, di elevare la misura della indennità risarcitoria oltre le 12 mensilità magari sino a un tetto massimo in caso di reintegra “attenuata”, tenendo conto dei tempi del processo. In alternativa, riterrei più opportuno agire sul processo, abbreviandone i tempi strutturalmente: il rito Fornero andava migliorato ed emendato da alcune irrazionalità processuali, ma non semplicemente abrogato, come improvvidamente avvenuto.
M. T. Carinci. Vorrei aggiungere solo qualche parola circa l’osservazione - giustamente avanzata da Bruno - per cui anche nel nuovo sistema che si dovesse realizzare dopo il positivo esito referendario l’alea del processo tornerebbe a danno del lavoratore dal momento che l’art. 18 St.lav. oggi vigente pone il tetto di 12 mensilità al risarcimento che accompagna la reintegrazione “attenuata”.
Ricordo un suo articolo di diversi anni fa in cui si interrogava su quali modifiche fossero opportune a fronte dell’originario testo dell’art. 18 St.lav. (v. B. Caruso, Per un ragionevole, e apparentemente paradossale, compromesso sull’art. 18: riformarlo senza cambiarlo, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 140/2012). In quel contributo Bruno affermava che uno degli interventi cardine che avrebbe potuto evitare lo “smantellamento” dell’art. 18 St.lav. era da individuare nella previsione di meccanismi processuali che permettessero una definizione molto rapida delle cause in materia di licenziamento. Già allora avevo ritenuto assolutamente da condividere la sua posizione; quella soluzione avrebbe potuto evitare di imboccare la strada impervia dello “sfrangiamento” delle tutele, poi invece seguita in sede di riforme.
Concordo inoltre con lui sul fatto che per evitare l’esito di un risarcimento “inadeguato” sarebbe oltremodo opportuno che la legge demandasse al giudice il potere di calibrare l’indennità risarcitoria anche oltre il limite delle 12 mensilità, così da renderla effettivamente risarcitoria e adeguatamente dissuasiva a beneficio del lavoratore.
A ben vedere il problema della fissazione di un “tetto” alle indennità risarcitorie si pone, qui, come si è già posto in altri “snodi” della disciplina.
Mi riferisco in particolare al limite massimo dell’indennità risarcitoria prevista come “tutela regolare” ex art. 3 D. Lgs. 23/2015. Con riguardo a quella norma - con una presa di posizione a mio parere discutibile - C. Cost. 194/2018 ha ritenuto però la previsione di un “tetto” all’importo dell’indennità giustificabile alla luce del sistema, purché l’importo previsto sia “adeguato” (v. risposta alla domanda 5). A mio parere una disciplina che volesse essere coerente dovrebbe prevedere sempre la possibilità di adeguamento dell’importo dell’indennità da parte del giudice, sia nel caso in cui l’indennità affianchi la reintegrazione “attenuata”, sia - e tanto più - nel caso essa costituisca l’esclusiva forma di tutela prevista dalla legge.
V. A. Poso. Restava, comunque, la differenziazione delle tutele in base alle dimensioni del datore di lavoro, che si colloca in linea conseguente alla disposizione normativa dell’art. 18 e della l. 15 luglio 1966 sui licenziamenti individuali (ancora applicabile ai vecchi assunti).
M. T. Carinci. In effetti il Jobs Act conferma la scelta già compiuta dall’art. 18 St.lav. e dalla l. 604/1966 per i “vecchi assunti”, prevedendo che anche i “nuovi assunti” da datori di lavoro di più piccole dimensioni in ragione del numero di lavoratori occupati godano - salvo nel caso del licenziamento nullo - di una tutela esclusivamente indennitaria e per di più molto contenuta (l’importo infatti è dimezzato rispetto a quello previsto per i datori medio-grandi e non può comunque superare le 6 mensilità di retribuzione, cfr. art. 9 D. Lgs. 23/2015; viceversa l’art. 8 l. 604/1966 prevede un’indennità fra 2,5 e 6 mensilità elevabile fino 14 mensilità in dipendenza dell’anzianità del lavoratore).
Tale duplice scelta del legislatore - id est: l’esclusione della tutela reintegratoria e la previsione di una tutela indennitaria molto esigua - non è conforme alla Costituzione.
Quanto alla questione della esclusione per i datori di lavoro di più piccole dimensioni dalla tutela reintegratoria, è noto come la Corte costituzionale, più volte chiamata in passato a valutare sotto questo profilo la legittimità costituzionale dell’art. 18 St.lav., abbia ritenuto ragionevole alla luce della Costituzione quella disparità di tutele - radicata nel numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro - , vuoi per non gravare i datori di più piccole dimensioni di oneri eccessivi, vuoi per la natura fiduciaria dei rapporti di lavoro che caratterizza queste organizzazioni, vuoi per le tensioni che un ordine di reintegrazione potrebbe ingenerare in tali contesti (C. Cost. 2/1986; C. Cost. 189/1973; C. Cost. 152/1975).
Sennonché nel sistema produttivo altamente tecnologizzato di oggi non è certo il numero dei lavoratori occupati che denota le capacità economiche di un’impresa: datori di lavoro con pochi dipendenti che sfruttino le nuove tecnologie ed operino in settori economici particolarmente ricchi possono realizzare performance economiche molto più significative (fatturato; ricavi; ammontare degli investimenti, ecc.) di altri che abbiano alle proprie dipendenze molti lavoratori. Rimane, certo, la questione della difficoltà di ricostituire un sereno rapporto fra il lavoratore illegittimamente licenziato e il datore di lavoro costretto a reintegrarlo, ma è una questione che si pone anche in altre situazioni (si pensi al licenziamento nullo, discriminatorio, ecc.) in cui l’ordinamento non esita a prevedere anche per i datori di lavoro con un minor numero di dipendenti la sanzione della reintegrazione.
In breve: il parametro del numero di occupati non può più costituire nel contesto produttivo odierno il criterio per escludere l’applicazione della tutela reintegratoria, come del resto statuito da C. Cost. 183/2022 (punto 5.3. cons. dir.).
Quanto poi all’importo dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 9 D. Lgs. 23/2015, con tutta evidenza essa è troppo esigua e pertanto non in grado di svolgere la propria duplice funzione al contempo deterrente/sanzionatoria e risarcitoria del danno patito dal lavoratore. Anche su questo punto appare a mio avviso inequivocabile ed assolutamente condivisibile la posizione espressa da C. Cost. 183/2022 (punto 4.2 cons.dir.).
Tuttavia, la Corte nella pronuncia appena citata - pur segnalando l’irragionevolezza della disciplina - ha dichiarato la questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 9, c. 1, D. Lgs. 23/2015 inammissibile. Secondo la Corte, infatti, “rientra nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario”. Al contempo, però, la Corte ha rivolto un monito al legislatore affinché si affretti a fornire adeguata tutela anche ai lavoratori delle realtà di più piccole dimensioni: “la Corte non può conclusivamente esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte” (v. C. Cost. 183/2022 punto 7 cons.dir.).
Occorre inoltre ricordare che di recente il Tribunale di Livorno (con ord. 240 del 24 dicembre 2024) ha nuovamente investito la Corte della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, c. 1, D. Lgs. 23/2015.
Se dunque il referendum non avrà successo, la Consulta sarà nuovamente chiamata a pronunciarsi sul punto e, considerata la posizione tranchant già assunta, nonostante le difficoltà di rinvenire nel sistema i criteri cui il giudice dovrà poi attenersi, è prevedibile che finisca per dichiarare la norma incostituzionale.
Se viceversa il referendum dovesse avere successo gli esiti possibili sono due.
Il primo, legato all’abrogazione referendaria unicamente del Jobs Act, avrebbe come conseguenza l’applicazione alle imprese di minori dimensioni (individuate sulla base sempre del numero dei dipendenti) dell’art. 8 l. 604/1966: il lavoratore avrebbe dunque diritto ad una indennità il cui importo massimo sarebbe più alto di quello oggi previsto dal Jobs Act (fino a 14 mensilità per i lavoratori con maggiore anzianità di servizio). Viceversa, se venisse contemporaneamente approvato anche il quesito referendario rivolto all’abrogazione di parte dell’art. 8 l. 604/1966, l’esito sarebbe l’eliminazione tout court per i lavoratori delle imprese minori di ogni limite massimo al risarcimento.
B. Caruso. Il tema del rafforzamento del sistema di tutele contro il licenziamento illegittimo nelle piccole imprese, come segnala Maria Teresa, è certamente all’ordine del giorno di un possibile intervento di ritorno della Corte costituzionale - che ha già lanciato un monito in tal senso - nel caso in cui il legislatore dovesse rimanere inerte (a maggior ragione dopo la rinnovata sollecitazione del Tribunale di Livorno).
Ci sono due diverse possibilità tecniche per rafforzare la tutela dei lavoratori nelle imprese minori, lo ricorda bene la Corte costituzionale nella sentenza n. 13/2025 di ammissione del quesito. Una prima è quella tranchant, sottoposta dai promotori del referendum al corpo elettorale, e consiste nel non porre limite alcuno alla indennità risarcitoria nel caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese.
Occorre però precisare che il calcolo dei promotori del referendum, per raggiungere tale risultato, è basato su due convergenti abrogazioni, il Jobs Act per intero e l’art. 8 della 604/1966; perché se il corpo elettorale si esprimesse, cosa improbabile ma non astrattamente impossibile, in maniera asimmetrica - per esempio abrogando l’art. 8 ma non l’art. 9 del Jobs Act - l’abrogazione del primo articolo sarebbe inutiliter data, rimanendo in vigore la norma di minor favore del Jobs Act che sarebbe destinata con il tempo ad applicarsi a tutti i lavoratori. Quindi un effetto, anche se solo potenziale, boomerang.
Ma a parte questi possibili cortocircuiti connessi allo strumento referendario a cui si affidano i promotori, osserviamo da vicino i diversi dispositivi di tutela dei lavoratori nelle imprese minori.
Dicevo che il primo meccanismo è quello di un rafforzamento dell’indennizzo, escludendosi per scelta ormai consolidata nelle imprese minori la reintegra. Tale rimedio è stato ontologicamente scartato per le ragioni pragmatiche a suo tempo evidenziate dalla Corte cost.: al di là delle intrinseche difficoltà organizzative di ripristinare un rapporto di lavoro in un contesto organizzativo minore, la rottura del vincolo fiduciario è certamente più netta nelle imprese minori anche sul versante del lavoratore licenziato. È vero come dice Maria Teresa che, in astratto, l’eventuale qualificazione come nullo del licenziamento consente la reintegra anche nel contesto dell’impresa minore; ma sfido chiunque a portare un caso pratico di un lavoratore che accetta la reintegra in un micro ambiente lavorativo dopo la dichiarazione di nullità del proprio licenziamento in un contesto di relazioni personali, gomito a gomito, definitivamente deteriorate.
Detto questo, si può pensare a rafforzare la portata dissuasiva dell’indennizzo come abbiamo provato a fare come “Gruppo Freccia Rossa” (all’art. 6, comma 3, del nostro progetto è prevista “una indennità commisurata all’ultima retribuzione di cui all’art. 2121 c.c., determinata in un importo non inferiore a quattro mensilità e non superiore a dodici mensilità, nel caso di anzianità di servizio non superiore a dieci anni, e fino a diciotto mensilità, nel caso di anzianità di servizio superiore a dieci anni”). Ma ci deve essere un tetto massimo all’indennizzo, al contrario di quel che propongono i promotori, se non si vuole penalizzare eccessivamente il sistema delle piccole imprese che regge l’economia italiana, già sotto stress per i dazi di Trump.
Accarezzare, pertanto, il sogno di una indennità senza limite, lasciata soltanto alla valutazione solipsista del giudice, è opzione irrealista per un verso, e pregiudizialmente anti impresa per l’altro, che è cultura diffusa tra una parte degli intellettuali, giudici e dottrina giuslavorista italiana (come ho sottolineato altrove in un saggio a doppia firma – con Corrado Caruso, Licenziamento e «politiche» giurisdizionali del lavoro. Riflessioni interdisciplinari a partire dalle sentenze nn. 128 e 129/2024 della Corte Costituzionale), RIDL,3, 2024, I,323 e ss. (parte prima) e 4, 2024, I, 531 e ss. (parte seconda).
L’altra possibile strada di intervento a favore dei lavoratori delle piccole imprese è rivedere i criteri di individuazione della impresa minore per meglio definirne i confini allo scopo dell’applicazione dei diversi regimi di tutela: obbligatorio e reale si diceva un tempo. Suggerimenti in tal senso provengono pure dalla sentenza monito della Consulta, la n. 183/22.
Anche in ragione di ciò il “Gruppo Freccia Rossa” ha provato a trovare una soluzione congrua e realistica per una riqualificazione degli indici di accertamento della dimensione imprenditoriale che andasse oltre il numero dei dipendenti: fatturato, ricavi, investimenti e capitale ammortizzato, EBITDA, MOL, ecc. Abbiamo preso in considerazione altri contesti normativi ove la definizione di impresa minore è affidata a indici economico-finanziari, ma essi sono risultati tutti inadatti, nel contesto della disciplina dei licenziamenti. Nessuno funziona: l’unico che dà certezza è quello del numero dei dipendenti che traccia una linea di distinzione certa e relativamente immediata, perché individua una soglia netta e non finanziariamente opaca o quanto meno fluida.
Rendere più complessi gli indici di accertamento, avrebbe, come unico probabile effetto, il blocco sine die o quasi delle controversie in cui preliminarmente si eccepirebbe l’applicabilità della disciplina in ragione della dimensione d’impresa e con aumenti di costi dovuti alla necessità che il giudice avrebbe di ricorrere a onerose consulenze finanziarie specialistiche. Sull’altare del diverso accertamento della soglia di applicazione del regime di licenziamento si sacrificherebbero, allora, le ragioni di celerità dell’accertamento della illegittimità del licenziamento.
V. A. Poso. Il testo originario del d. lgs. n. 23/2015, risulta modificato ad opera di successivi interventi legislativi, ma anche per i corposi interventi della Corte Costituzionale.
Chiedo, innanzitutto, a Maria Teresa Carinci di tracciare un quadro sintetico delle riforme legislative intervenute sino alla data della comunicazione dell’iniziativa referendaria e una breve valutazione delle stesse.
M. T. Carinci. È così: il Jobs Act è stato modificato in punto di disciplina del licenziamento dapprima, in parte, dallo stesso legislatore e poi, soprattutto, da alcune importantissime pronunce della Corte costituzionale.
Quanto alle modifiche legislative, il riferimento è soprattutto al cd. “Decreto Dignità” (d.l. 87/2018 conv. in l. 96/2018), approvato dal primo Governo presieduto da Giuseppe Conte, con l’intento dichiarato di tutelare la dignità delle persone, dando un “colpo mortale al precariato” (dalla Conferenza stampa del Ministro del lavoro Luigi Di Maio del 3 luglio 2018).
Ulteriori interventi normativi, che non hanno intaccato in alcun modo la struttura del Jobs Act, hanno riguardato, invece, il raccordo fra le tutele da esso previste in tema di licenziamento collettivo ed il Codice della crisi d’impresa (art. 10 D. Lgs. 23/2015).
Soffermandosi sul “Decreto Dignità”, è noto come esso si sia limitato ad elevare (per vero in modo significativo) gli importi minimo e soprattutto massimo dell’indennità risarcitoria già prevista dal Jobs Act per il licenziamento ingiustificato (rispettivamente da 4 a 6 mensilità e da 24 a 36 mensilità di retribuzione). L’intervento è stato indubbiamente opportuno, in quanto l’importo dell’indennità che caratterizzava l’originaria versione del decreto era decisamente inadeguato per assolvere le plurime funzioni assegnatile dalla legge: risarcitoria - cioè fornire adeguato ristoro ai danni patiti dal lavoratore illegittimamente licenziato - e deterrente/sanzionatoria - cioè prevenire e punire il datore che ponesse in essere un licenziamento viziato.
Tuttavia, il “Decreto Dignità” ha, al contempo, lasciato intoccato ogni altro aspetto: non solo non ha inciso sulla scelta di porre al centro del sistema la tutela indennitaria, ma, quanto alla tutela economica, non ne ha modificato né gli importi in caso di vizio di motivazione o di procedura, né il meccanismo di calcolo, vero punto critico di questa parte della disciplina, che è pertanto rimasto ancorato in modo automatico all’anzianità di servizio del lavoratore.
In breve, l’impianto della riforma non è stato messo in alcun modo in discussione.
V. A. Poso. È, questa, una valutazione condivisibile?
B. Caruso. La prima valutazione che mi viene sul quesito posto (il quadro dello stato dell’arte della disciplina sino alla prova referendaria) è in qualche modo preliminare e di tipo politico-istituzionale: se il governo Renzi ha compiuto le nefandezze neoliberiste di cui si dice, veicolate per altro da dispositivi tecnici improbabili, non si capisce perché nessuno dei governi multicolori e arcobaleno che si sono succeduti, abbia posto mano ad una radicale riforma di quella riforma, reintroducendo la reintegra pervasiva.
Anzi il “Decreto Dignità”, richiamato da Maria Teresa, conferma una convinzione probabilmente subliminale degli stessi riformatori anti Jobs Act: e cioè che la reintegrazione, come rimedio, non è quel totem da adorare irrazionalmente, il tabù intoccabile per ragioni simboliche e politiche, potendo costituire anche l’indennizzo un rimedio alternativo, altrettanto ripristinatorio e dissuasivo.
A questo punto bisogna chiarire un passaggio: molti cultori della reintegra, senza se e senza ma, ammantano tale idolo con la tesi dell’ossequio ai sacri principi del diritto civile: se la sanzione civilistica tipica per l’inadempimento è la restitutio in integrum, scostarsi dal rimedio integralmente ripristinatorio nell’ipotesi del licenziamento illegittimo significa invertire la relazione antica tra diritto primo e diritto secondo (per cui quest’ultimo nasce storicamente non solo per specializzare ma per integrare le carenti strutture rimediali del primo nei rapporti di lavoro). Onde la reintegra non solo come rimedio normale, ma come panacea per i lavoratori, che dovrebbe soffrire al più limitatissime eccezioni (per esempio le piccole imprese).
In disparte che tecnicamente, anche in chiave di pura applicazione dei principi civilistici, questo assunto non è vero perché dogmatico in senso tecnico (non posso dilungarmi in questo); e in disparte che se così fosse non si capisce come mai in nessun sistema comparato, anche a tradizione civilistica, la reintegrazione abbia assunto questo valore taumaturgico e totalizzante che ha avuto invece in Italia; ricordo, per inciso, che la stagione dello Statuto aveva una sua ratio storica formidabile; non ontologica o dogmatica, dunque, ma socialmente e politicamente contingente, come spiegò Massimo D’Antona nella sua basilare monografia.
Dico questo perché la visione pan-reintegrazionista dei rimedi contro il licenziamento illegittimo non è condivisa neppure dai lavoratori in carne e ossa che affrontano il contenzioso giudiziale. È esperienza di qualunque avvocato (anche degli avvocati della CGIL), che si confronta con controversie in materia di licenziamento, che i clienti, nove volte su dieci, preferiscono soluzioni monetarie indennitarie, sia in fase di conciliazione stragiudiziale sia a fronte a una sentenza che consente loro la scelta se accettare la reintegra giudiziale o optare per l’indennità sostitutiva.
E tale atteggiamento non è certo espressione dell’abdicazione della classe lavoratrice alle magnifiche e progressive sorti leopardiane e all’adesione alla religione del dio denaro (i segnali di tale decadimento culturale delle classi subalterne sono altrove, basta studiare con attenzione i flussi elettorali nell’America di Trump o la base di consenso di cui gode l’attuale compagine governativa sovranista e anti europeista); ma è espressione di un approccio realistico e pragmatico. Chiudere una esperienza lavorativa ormai anche psicologicamente esaurita (la rottura del contratto psicologico) con un compenso monetario, è un atteggiamento non utilitaristico ma assolutamente ragionevole: finire per ricominciare e rimettersi in gioco altrove, a partire tuttavia da una compensazione economica non umiliante ma, appunto, equilibrata e positiva.
M. T. Carinci. Vorrei obiettare a Bruno che non mi pare che la questione sul tappeto sia se il legislatore possa scegliere fra tutela reale o obbligatoria: come ho già sottolineato è la stessa Corte costituzionale ad affermare a più riprese che la tutela reale contro il licenziamento non è costituzionalizzata.
Quello che mi sembra il referendum voglia mettere in questione è, da una parte, la coerenza delle discipline e, dall’altra, l’opportunità in questo momento storico di tutelare con forza la posizione dei lavoratori.
Il referendum intreccia questi due snodi: vuole da una parte ricomporre la “frattura” fra vecchi e nuovi assunti e dall’altra riportare al centro del discorso politico la tutela del lavoro.
V. A. Poso. Chiedo, invece, a Bruno Caruso di tracciare un quadro sintetico della giurisprudenza della Consulta nel primo “miniciclo” dal 2018 al 2021. Anche quelle che hanno rigettato le questioni di legittimità costituzionale, per completezza.
B. Caruso. Presto detto. Nel saggio a quattro mani sulla RIDL a cui ho fatto cenno, si è partiti da un quadro sinottico delle pronunce della Consulta che facilitasse anche una lettura in chiave di metodo realista del suo itinerario. Non vi è alcun dubbio che le sentenze sino al 2021, nel segno della redattrice, l’autorevole collega e amica Silvana Sciarra, hanno una impronta di policy chiara.
Dico subito che, in questo ideale primo miniciclo di sentenze della Corte, inserirei anche la n.125/2022 che ha eliminato con riguardo alla legge Fornero la qualificazione di “manifesta” con riguardo alla insussistenza del giustificato motivo oggettivo allo scopo della reintegra attenuata.
In questo primo miniciclo la Corte si muove ovviamente sulla base degli input provenienti dai giudici rimettenti, attraverso un dialogo diretto che le consente di contrastare, in prima battuta, le maggiori “durezze” regolative del Jobs Act: in particolare quel po’ di firing cost ideology a cui la riforma si ispirava con riguardo alla predeterminazione del costo del licenziamento attraverso una forma di automatismo nel calcolo dell’indennizzo entro la forbice prevista dalla legge. Ricordo, a tale proposito, che nella teorizzazione originaria del premio Nobel Jean Tirole, non avrebbe dovuto essere comunque il magistrato a fissare il costo del licenziamento; l’economista francese considerava questa una “missione impossibile” (Economia del bene comune, Mondadori, 2017, p. 263), onde tale compito sarebbe spettato direttamente alla legge o all’autorità amministrativa.
Nel Jobs Act il calcolo veniva invece affidato al giudice (e qui lo scostamento dalla firing cost theory ortodossa), ma in guisa notarile o ragionieristica; su questo vulnus alla tradizionale discrezionalità giudiziale dell’accertamento del quantum di danno (l’automatismo del calcolo), affonda il bisturi la Corte costituzionale con le due sentenze abbrivio della complessiva manipolazione ortopedica: la n. 194 del 2018 e la n. 150 del 2020. La Corte si spinge anche sino a una valutazione di merito, certamente condivisibile, circa la scarsa dissuasività e la pochezza del rimedio indennitario, soprattutto per i neoassunti.
In questo miniciclo, tuttavia, la Corte introduce pure due ragionamenti, non a caso stigmatizzati dai cultori della reintegra, che invece rendono, almeno politicamente, bilanciata l’operazione ortopedica.
Il primo relativo ai licenziamenti collettivi, ove (sentenza n. 254/20) la Corte dichiara brutalmente inammissibili le ordinanze di illegittimità relativamente alle nuove regole del Jobs Act mirate ad eliminare ogni ipotesi di reintegrazione nei licenziamenti collettivi (personalmente avevo avuto modo di criticare già le ordinanze dei giudici di Napoli e di Milano in un saggio, Il contratto a tutele crescenti nella tenaglia della doppia pregiudizialità, DML, 3, 2019, p. 381 e ss.). Il secondo argomento, in seguito più volte ripreso, va nella direzione di salvare la scelta legislativa del doppio regime in ragione del trascorrere tempo (la famosa cesura del 7 marzo 2015 per i due diversi trattamenti).
L’argomento utilizzato dalla Corte, in tale ultimo caso, non è particolarmente potente né sotto il profilo dell’argomentazione giuridica, né della finezza in punto di teoria economica: vale a dire la dichiarata, dal Governo, funzionalizzazione del discrimen temporale agli obiettivi di incremento occupazionale.
Ma la Corte manda un messaggio di carattere generale per giustificare l’operazione di bilanciamento complessiva: se un governo giustifica esplicitamente una scelta di differenziare i trattamenti (e i diritti) ratione temporis, sulla base di risultati economici attesi dalla propria misura di natura occupazionale, questa scelta non può essere contestata e va considerata costituzionalmente legittima; ove gli echi della celeberrima sentenza Mangold della Corte di giustizia dell’UE sono evidenti (CGE 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold).
Nella seconda parte del miniciclo la Corte invece si rivolge non più al Jobs act ma alla legge Fornero. Sembrerebbe un incedere sistematico rispondente ad un ordito logico e di policy: prima le discrasie costituzionali più evidenti dove operare con l’accetta; poi il lavorio affidato al bisturi o al cacciavite; se non fosse che la cronologia degli interventi è fissata dai giudici che sollevano le questioni di costituzionalità. Fatto è che nella seconda fase del miniciclo, la Corte, e la sua autorevole redattrice, si dedicano a “ripulire” la legge Fornero dagli elementi di imperfezione, imprecisione tecnica e corriva mediazione del legislatore che, pur tali, finiscono per restringere un ideale perimetro di “giusta tutela” contro il licenziamento illegittimo.
Faccio riferimento alle sentenze (la n. 59 del 2021 e la n. 125 del 2022) più debitrici delle lezioni di Gianrico Carofiglio sul lessico e sull’ecologia del linguaggio: notoriamente la Consulta cassa l’avverbio “manifestamente” riferito all’insussistenza del GMO; ma poi inopinatamente se la prende con la discrezionalità del giudice, che aveva prima difeso a proposito della determinazione del quantum dell’indennità, allorché sostituisce al verbo “potere” (nell’accezione di possibilità, libertà) il verbo “dovere” (nell’accezione obbligato a), sempre a proposito della decisione di reintegrazione nel caso del GMO semplicemente insussistente e non più manifestamente tale. Due pesi e due misure, si potrebbe dire con riguardo al valore della discrezionalità giudiziale; ma quando si tratta di strategie sostanziali di tutela - potrebbe essere questo il metro di valutazione dell’operato della Consulta - il criterio logico della coerenza può pure trascurarsi: ma sempre di manifesta illogicità si tratta.
V. A. Poso. Sono condivisibili queste osservazioni di Bruno Caruso?
M. T. Carinci. C’è del vero nella ricostruzione che Bruno propone con riferimento alle pronunce della Corte costituzionale che in questa prima fase hanno investito il Jobs Act.
La Corte demolisce, infatti, una delle scelte più dirompenti del Jobs Act relativa alle modalità di calcolo di quell’indennità risarcitoria che è stata fatta assurgere, almeno nelle intenzioni, a tutela “regolare” del licenziamento viziato - nella sostanza una sorta di firing cost destinato ad operare però solo in caso di licenziamento illegittimo e non in presenza di qualunque licenziamento anche legittimo - ritenendola in contrasto con il sistema, ma non giunge fino a mettere in discussione l’intero impianto della riforma, come invece avrebbe potuto fare se fosse stata coerente con le proprie stesse premesse e con il sistema.
Da una parte, infatti, C. Cost. 194/2018 e C. Cost. 150/2020 hanno dichiarato incostituzionale il meccanismo di calcolo automatico dell’indennizzo secondo la progressione lineare dell’anzianità di servizio e hanno rimesso di conseguenza al giudice, nell’esercizio della sua discrezionalità e sulla base di parametri già presenti nel sistema (art. 8, l. 604/1966; art. 18 St.lav.; art. 30, l. 183/2010), la concreta individuazione dell’importo dovuto al lavoratore in una forbice tra il minimo e il massimo fissato dalla legge. L’indennità risarcitoria, già significativamente elevata nei suoi importi dal c.d. “Decreto Dignità” e rimessa ora a seguito della pronuncia della Corte ad una modulazione in concreto da parte del giudice, riacquista così la possibilità di esplicare effettivamente la propria funzione al contempo risarcitoria e sanzionatorio-deterrente.
Incidendo su tale meccanismo la Corte ha dunque rafforzato significativamente questa forma di tutela in linea con i principi costituzionali, che come anticipato, pur lasciando il legislatore libero di effettuare una scelta fra tutela reale e tutela obbligatoria, gli impongono però di congegnare tutele “adeguate” e “ragionevoli”.
Rimane però sul tappeto la questione del limite massimo fissato dalla legge all’importo dell’indennità: in alcune ipotesi (per es. in presenza di un’elevata anzianità del lavoratore, quando vengano in considerazione datori di lavoro di grandi dimensioni, in ipotesi in cui il danno patito dal lavoratore sia elevato, ecc.) il “tetto” posto dalla legge potrebbe costituire ostacolo al pieno dispiegarsi della funzione risarcitoria e sanzionatorio/deterrente che caratterizzano l’indennità. È con riferimento a questo aspetto che, a mio avviso, la Corte non porta il ragionamento fino alle sue estreme (ma coerenti) conseguenze le quali avrebbero richiesto che, pur con adeguata motivazione ed in casi estremi, quel limite potesse essere ritenuto superabile dal giudice.
C. Cost. 194/2018, infatti, pur ritenendo di non essere stata investita dal giudice remittente della questione, afferma però esplicitamente che la misura massima prevista dalla legge (nel testo originario pari a 24 mensilità ed a seguito del “Decreto Dignità” pari a 36 mensilità) realizza in ogni caso un “adeguato” contemperamento degli interessi in gioco, bilanciando adeguatamente il diritto al lavoro, da una parte, e la libertà di iniziativa economia, dall’altra. L’affermazione non è motivata e lascia dunque perplessi. Né la Corte ha ritenuto di valorizzare l’art. 24 della Carta Sociale Europea pure invocato dal giudice remittente come intrepretata dal Comitato europeo dei diritti sociali (l’organo deputato ad interpretare la Carta) che ritiene l’indennizzo per il licenziamento “adeguato” solo qualora ristori il lavoratore da tutte le perdite economiche patite dal momento del licenziamento a quello della sentenza e non sia soggetto a limiti massimi che ne pregiudichino l’integrale ristoro.
Per quanto riguarda l’altro passaggio compromissorio di C. Cost. 194/2018 si è già detto (v. riposta alla domanda 1) e concerne la ritenuta legittimità costituzionale, con riferimento al principio di uguaglianza, dello “spartiacque temporale” per l’applicazione del Jobs Act costituito dalla data di assunzione del lavoratore, (ritenuto dalla Corte, con una motivazione non convincente, giustificato dallo «scopo, dichiaratamente perseguito dal legislatore, di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione»).
Tuttavia, è evidente che l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale su questo punto avrebbe comportato la demolizione dalle fondamenta del Jobs Act.
B. Caruso. Mi limito a replicare che in altri sistemi (per esempio quello francese ma pure quello spagnolo) non è che i limiti massimi siano molto più alti, anzi; e comunque il discorso è chiuso dal c.d. “Decreto Dignità” che porta questo limite a 36 mensilità, tendenzialmente per tutti. Se sono queste le preoccupazioni di Maria Teresa, per paradosso, dovrei invitarla a votare contro l’abrogazione del Jobs Act, ma credo che in tal caso non gradirebbe il ragionamento per paradossi e preferirebbe quello tutto politico Landiniano…
V. A. Poso. Ci sono, poi, le pronunce del secondo “miniciclo” dal 2022 al 2024 (anche oltre la data di presentazione della richiesta referendaria). Chiedo, questa volta, a Maria Teresa Carinci di tracciare un quadro sintetico di queste decisioni della Corte Costituzionale.
M.T. Carinci. Anche in questa seconda “stagione” la Corte mette pesantemente in discussione le scelte del Jobs Act soprattutto con riguardo alle tutele da riconoscere al licenziamento individuale viziato. Tuttavia, in questa fase lo fa riespandendo in più ambiti la tutela reale a scapito della tutela indennitaria, senza però giungere a smantellarne l’impianto dalle fondamenta (come invece a mio parere avrebbe richiesto una lettura coerente del sistema), anzi, tentando al contrario di ricondurre a coerenza e razionalità l’impianto dell’intera disciplina dei licenziamenti individuali posto dal Jobs Act e dall’art. 18 St.lav. post legge Fornero.
Nel far ciò tuttavia la Corte, adotta soluzioni interpretative discutibili, contraddittorie rispetto alla propria precedente giurisprudenza e, a mio parere, nemmeno coerenti con il sistema.
La rassegna è assai complessa e articolata.
La prima pronuncia su cui intendo soffermarmi non pone a dire il vero i problemi segnalati, ma si mostra coerente con l’impianto dell’ordinamento. C. Cost. 22/2024, infatti, dichiara incostituzionale per eccesso di delega l’art. 2 D. Lgs. 23/2015 includendo così - sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale già affermatosi come prevalente - nello spettro della tutela reintegratoria “piena” tutte le ipotesi di nullità dell’atto di licenziamento “espressamente” (nullità testuali) o non “espressamente previste” (nullità virtuali): le prime si realizzano quando la disposizione imperativa violata contempla l’espressa e testuale sanzione della nullità; le seconde ricorrono quando sia possibile rinvenire, comunque, dal carattere imperativo della norma violata la conseguente sanzione di nullità. All’esito di tale pronuncia non solo il campo di applicazione della tutela reale “forte” si amplia significativamente, inglobando ipotesi prima incerte o discusse (si pensi al licenziamento ritorsivo, al licenziamento per motivo illecito, al licenziamento per frode alla legge, al licenziamento pretestuoso) ma, soprattutto, si allinea a quanto previsto dall’art. 18 St.lav.
C. Cost. 22/2024 realizza dunque in punto di nullità quel riassetto complessivo del sistema cui prima facevo cenno.
In seguito, C. Cost. 128/2024, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, c. 2, del Jobs Act nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria “attenuata”, riservata dalla norma alle sole ipotesi di licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, statuisce che essa debba essere riconosciuta, in luogo di quella meramente indennitaria originariamente prevista, anche nelle ipotesi di licenziamento per g.m.o. di tipo economico “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale rimane estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore”.
L’ipotesi del “fatto materiale insussistente” cui si applica la tutela reale “attenuata”, dunque, viene identificato dalla Corte nella carenza di due dei tre elementi che per costante orientamento della giurisprudenza compongono la fattispecie del g.m.o. di tipo economico: la riorganizzazione dichiarata dal datore di lavoro, ma poi non effettivamente realizzata, ed il nesso causale fra la riorganizzazione e mansioni del lavoratore. Per la Corte rimane, invece, estranea all’area di applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” l’ipotesi di insussistenza del cd. repêchage.
C. Cost. 128/2024 - tanto più se letta congiuntamente alla sentenza “gemella” 129/2024 - a mio parere è sorretta dall’intento politico di ricondurre per quanto possibile ad armonia il sistema di tutele del licenziamento nel suo complesso, mantenendo al contempo fra i due plessi normativi (id est: lo Statuto, da una parte, ed il Jobs Act, dall’altra) quel décalage di tutele voluto dal legislatore del 2015 per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro degli outsider.
A questo obiettivo di fondo però le due sentenze “gemelle” del 2024 sacrificano la coerenza della disciplina del licenziamento.
Partendo dalla prima delle due pronunce va osservato come C. Cost. 128/2024 - pur chiarendo in modo del tutto condivisibile che il licenziamento per g.m.o. per “fatto materiale insussistente” è in realtà un licenziamento acausale (o pretestuoso), cioè privo di una qualunque ragione giustificatrice prevista dalla legge ed indistinguibile come tale da un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo privo di giustificazione - non ritiene poi, contraddittoriamente, di riconoscere per l’ipotesi di insussistenza del g.m.o. comprensivo di tutti i suoi elementi costitutivi (riorganizzazione, nesso causale e repêchage) sempre la medesima tutela reintegratoria, escludendo dal raggio della tutela reale “attenuata” l’insussistenza del repêchage.
Ma com’è possibile sanzionare diversamente un licenziamento in ogni caso acausale, quale che sia l’elemento strutturale del g.m.o. che risulti carente, se è vero, come la stessa Corte aveva in precedenza affermato (v. C. Cost. 59/2020 e 125/2021) che, sulla scorta del diritto vivente (v. Cass. 4509/2016), il g.m.o./causa/ragione dell’atto di recesso è composto in modo inscindibile da quei tre elementi consustanziali e fra loro inestricabili: la riorganizzazione, il nesso causale e il cd. repêchage?
D’altra parte, penso fermamente che il legislatore non possa modulare a suo piacere la nozione di g.m.o. di tipo economico, adottandone una più incisiva a fronte dell’art. 18 St.lav. ed una più blanda a fronte del Jobs Act, così da riconoscere nei due casi differenti tutele. Se infatti è vero che la ragione che caratterizza il licenziamento per ragioni economiche è di tipo tecnico-organizzativo (così anche C. Cost. 128/2024, punto 5.1 cons. dir.) - nel senso che l’ordinamento consente al datore di recedere dal contratto al fine di modificare la componente personale della propria organizzazione, licenziando quei lavoratori le cui mansioni si dimostrino non più utili nella sua nuova struttura (art. 3 l. 604/1966 ed art. 41 Cost.) - il repêchage non può che costituirne elemento consustanziale, necessario ed ineliminabile. Esso infatti non aggiunge alcunché alla ragione tecnico-organizzativa voluta dalla legge, ma ne denota unicamente l’effettività, imponendo al datore che dichiara la sussistenza di una ragione tecnico-organizzativa di dimostrare, poi, che essa ricorre nel caso concreto e, cioè, che le mansioni dei lavoratori licenziati, come dal datore stesso dichiarato, effettivamente non possono più essere impiegate nella nuova struttura da lui stesso liberamente predisposta, perché nessuna posizione a cui quel lavoratore possa essere adibito risulta in quel momento vacante. Che le cose stiano così lo testimonia del resto – seppur in modo contraddittorio - anche C. Cost. 128/2024 laddove afferma che il cd. repêchage “trova la sua giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro, che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale” (C. Cost. 128/2024 punto 5.3 cons. dir.).
Dunque, anche C. Cost. 128/2024 – come già C. Cost. 22/2024 - riespande la tutela reale nel Jobs Act, in parallelo con le previsioni dell’art. 18 St.lav., senza però in questo caso ricalcarne appieno l’estensione.
Anche C. Cost. 129/2024 - sentenza interpretativa di rigetto - con un percorso simile a quello della sua “gemella” opera un’estensione, questa volta in via interpretativa, della tutela reale ad un’ipotesi originariamente non contemplata dall’art. 3, c. 2, D. Lgs. 23/2015.
La Corte, infatti, respinge la questione di costituzionalità dell’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015 nella parte in cui non prevede la tutela reintegratoria attenuata anche per il licenziamento disciplinare irrogato per un “fatto materiale” in relazione al quale la contrattazione collettiva preveda al contrario sanzioni conservative (come invece esplicitamente previsto dall’art. 18 St.lav.), fornendone però un’interpretazione adeguatrice. Contrariamente all’interpretazione consolidata in giurisprudenza, infatti, per la Corte il “fatto materiale contestato” la cui carenza determina l’applicazione della tutela reale non solo ricomprende il fatto giuridico dell’inadempimento (cd. “fatto materiale legale”), ma ad esso va equiparata l’ipotesi d’inadempimento sussistente e specificamente tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione di una sanzione solo conservativa (“fatto materiale convenzionale”). Ciò per evitare il contrasto della norma con l’art. 39 Cost. di cui il codice disciplinare è assai spesso espressione.
L’equiparazione fra art. 18 St.lav. e Jobs Act però anche su questo punto non è completa. Per la Corte infatti non ogni licenziamento irrogato in violazione di clausole del codice disciplinare contrattuale va ricondotto ai sensi del Jobs Act all’area di applicazione della tutela reale, ma unicamente quel licenziamento che violi clausole che tipizzino in modo specifico la condotta inadempiente del lavoratore punendola con sanzioni conservative; ne rimarrebbero escluse, viceversa, i casi di licenziamenti disciplinari irrogati in violazione di clausole generali o elastiche del contratto collettivo. Ciò perché l’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015 - come si evince dalla specificazione per cui è preclusa ogni valutazione di proporzionalità - vuole che la sanzione più grave, la reintegra, si applichi solo nei casi in cui il datore consapevolmente violi la legge o il contratto collettivo, vuoi perché licenzi il lavoratore in assenza di un qualunque inadempimento, vuoi perché lo licenzi in presenza di un inadempimento esplicitamente considerato dal codice disciplinare convenzionale meno che “notevole”, anzi - secondo le parole della Corte - “fatto assai lieve” (punto 9.3 cons. dir.).
Ancora una volta la Corte costituzionale, dunque, ricrea un parallelismo fra Jobs Act e art. 18 St.lav., mantenendo però al contempo un gap fra i due plessi normativi e le tutele da ciascuno assicurate al lavoratore. A mio parere l’interpretazione qui adottata dalla Corte ancora una volta non è condivisibile: come si può sostenere, alla luce del principio di ragionevolezza, che solo la violazione di clausole puntuali del codice disciplinare pattizio può dar luogo alla tutela reale e non anche la violazione di clausole generali o elastiche? Le clausole generali o elastiche, infatti, non solo sono a pieno titolo espressione dell’autonomia negoziale collettiva protetta dall’art. 39 Cost., ma risultano assai spesso imprescindibili per predisporre un codice disciplinare adeguatamente articolato a fronte di obblighi del lavoratore a loro volta individuati tramite disposizioni ampie o generali (quali per es.: la diligenza, la buona fede, ecc.). Ragionare nei termini indicati dalla Corte implica, dunque, una drastica compressione dell’autonomia delle parti sociali in pieno contrasto con l’art. 39 Cost., autonomia che verrebbe incanalata e costretta verso un modello regolativo non voluto dagli agenti negoziali ed in molti casi neppure praticabile in concreto.
Insomma, la Corte costituzionale con queste pronunce compie a mio parere una chiara operazione di salvataggio del Jobs Act in punto di disciplina dei licenziamenti individuali anche a costo di forzare i limiti del sistema.
Al “miniciclo” 2022-2024 vanno ascritte - oltre alla pronuncia “monito” C. Cost. 183/2022 sui piccoli datori di lavoro di cui si è già detto - anche due ulteriori sentenze di rigetto, una ancora dedicata alle tutele previste per i licenziamenti individuali e la seconda ai licenziamenti collettivi. Entrambe respingono le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici remittenti alla luce della ratio del Jobs Act, cioè delle finalità occupazionali perseguite con la riforma. Ritengo - come ho già rilevato con riferimento a C. Cost. 194/2018 - che la posizione della Corte sia discutibile, sia perché lo strumento prescelto per raggiungere lo scopo di incrementare l’occupazione (diminuire le tutele del licenziamento per i “nuovi assunti”) non è di per sé adeguato, sia perché la Corte omette di considerare la dimensione di potere dell’atto di licenziamento e di valutare la soluzione legislativa anche in questa prospettiva. Una osservazione, quest’ultima, che ha tanto più rilievo quando a fronte di una stessa procedura di licenziamento collettivo due lavoratori, ugualmente licenziati in violazione dei criteri di scelta, siano passibili di diverse tutele in ragione della data di assunzione.
C. Cost. 44/2024, si pronuncia ancora una volta sulla legittimità costituzionale del Jobs Act in punto di disciplina dei licenziamenti individuali, respingendo le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015 per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., ritenendo conforme alla ratio della legge delega l’estensione della disciplina del Jobs Act anche ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 da datori di lavoro di più piccole dimensioni, datori che però dopo quella data in virtù di nuove assunzioni abbiano raggiunto le soglie occupazionali proprie dei datori medio-grandi. Per la Corte la scelta discrezionale compiuta sul punto dal legislatore è in linea con lo scopo perseguito dalla legge delega (quello di incentivare l’occupazione) dal momento che “per il datore di lavoro di una piccola impresa la prospettiva che, superata la soglia dei quindici dipendenti nell’unità produttiva, la disciplina dei licenziamenti individuali fosse la stessa (quella del decreto legislativo) per tutti i suoi dipendenti - sia neoassunti, sia già in servizio - rappresentava uno stimolo (o il venir meno di un freno) alle nuove assunzioni” (punto 11).
C. Cost. 7/2024 respinge le questioni di costituzionalità proposte con riferimento alla disciplina dei licenziamenti collettivi, ritenendo in particolare conforme a Costituzione la scelta compiuta dal Jobs Act di prevedere la sola tutela indennitaria per la violazione dei criteri di scelta di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Com’è noto l’art. 3, c. 1, D. Lgs. 23/2015, dispone infatti per tutti i licenziamenti effettuati per “motivi economici” la tutela meramente indennitaria, con la conseguenza che in caso di violazione dei criteri di scelta mentre i “vecchi assunti” godono ancora della tutela reale prevista dall’art. 18 St.lav., i “nuovi assunti” beneficiano invece solo della tutela indennitaria posta dal Jobs Act. Ne deriva che lavoratori coinvolti in una medesima procedura di licenziamento collettivo, in ipotesi di violazione dei criteri di scelta, beneficeranno ora della tutela reale (“vecchi assunti”), ora della tutela indennitaria (“nuovi assunti”) a seconda del puro dato estrinseco costituito dalla data di assunzione.
Questa pronuncia ha fatto molto discutere ed a ragione: la disparità di trattamento fra “vecchi” e “nuovi assunti” è qui particolarmente evidente e ancor più difficilmente giustificabile.
V. A. Poso. Bruno Caruso, condividi queste valutazioni di Maria Teresa Carinci?
B. Caruso. Ho già avuto modo di confrontarmi a fondo con le due sentenze (la n. 128 e la 129 del 2024) che caratterizzano il secondo miniciclo, i cui snodi decisionali sono stati bene descritti da Maria Teresa e pertanto non li ripercorro. Lasciami però dire che le critiche che formula ad alcune posizioni della Corte sono espressione in vitro della “cultura della reintegra”. Essa suona più o meno, salve varianti più o meno radicali, nel seguente modo: occorre riportare le lancette della storia ai tempi della reintegrazione se non come rimedio unico, tendenzialmente tale; ogni accomodamento mediatorio, ancorché al rialzo come quello effettuato dalla Corte nel secondo miniciclo, è da rifiutare; per cui ben venga il referendum spazzatutto.
Anziché, dunque, plaudire all’operazione della Corte, la cultura della reintegra indugia, invece, sulle difformità, a questo punto residuali, rispetto all’obiettivo di integrale ripristino del regime Fornero, criticando, il non pieno ossequio della Consulta al diritto vivente giurisprudenziale precedente, quello almeno considerato più garantista: la posizione sul repêchage e l’orientamento restrittivo sulle clausole contrattuali. È chiaro allora che quando la Consulta concede il dito all’opzione ipergarantista, i cultori di quest’ultima finiscono per pretendere tutta la mano.
Eppure, nel secondo miniciclo (il ciclo del Giudice Giovanni Amoroso che succede al ciclo della Giudice Silvana Sciarra) il tentativo di operare un bilanciamento complessivo “al rialzo”, vale a dire, a favore della reintegrazione come regola, è ancor più evidente. Lo riconosce pure Maria Teresa: le tre sentenze simbolo di questo miniciclo, tutte del 2024, (la 22, la 128 e la 129) altro non sono che un tentativo abbastanza riuscito (anche se certamente foriero di aporie) di riaccorciare le distanze tra legge Fornero e Jobs Act, intaccando punti qualificanti della riforma Renzi molto di più di quanto sia avvenuto nel miniciclo Sciarra; in particolare: a) la distinzione netta dei rimedi tra licenziamenti per ragioni soggettive (ove opera il doppio regime di reintegra) e licenziamento economico, dove scompare la reintegra; b) la eliminazione della doppia ipotesi di reintegra attenuata nel licenziamento soggettivo; c) la previsione solo delle nullità manifeste e non di quelle virtuali.
Ci sarebbe stato materiale per essere più che soddisfatti con riguardo all’opzione del rientro nel regime di reintegrazione come regola; eppure i cahiers de doléances si spingono sino al punto di rivendicare l’intangibilità di un dogma dottrinale e giurisprudenziale (perché tale è la teorizzazione del repêchage come elemento integrativo della fattispecie GMO è quindi generatore di insussistenza del fatto organizzativo), onde la critica alla Consulta per averlo espunto dal perimetro del fatto insussistente e ad averlo inserito, a mio avviso correttamente, tra le ipotesi di ingiustificatezza semplice; e poi la critica all’adesione della Corte all’orientamento della Cassazione restrittivo sulle clausole tipizzate e non elastiche, che, prima facie, appare molto più razionale ed equilibrato dell’altro, più lasco, che prese il sopravvento nel torno del secondo decennio (al punto che qualcuno si è spinto a teorizzare che la Consulta non ha mai affermato una cosa del genere e che, se mai l’avesse fatto, la Cassazione dovrebbe operare un fin de non-recevoir).
Detto questo, non è che le aporie nell’itinerario della Consulta non siano evidenti; ma a mio avviso sono da considerare l’effetto di risulta del ruolo di decisore politico che si è auto attribuita, piuttosto che un risultato che promana dalle singole decisioni. Aporie di sistema più che della singola decisione.
Così è evidente che la Corte ha finito per rendere nuovamente opaca e incerta una scelta sistematica del legislatore, di fissare cioè una linea netta di demarcazione dei rimedi nell’ipotesi di licenziamenti che incidono sulla dignità della persona e licenziamenti dettati da ragioni economiche. Ha evitato di confrontarsi con il fatto che, per ragioni che è inutile qui ribadire, il recesso datoriale non è una fattispecie unica (come indulge a pensare invece anche la Corte), ma licenziamento soggettivo ed economico hanno strutturalmente rationes diverse che ne giustificano una diversa modulazione funzionale dei rimedi.
Essendo stata contestata dalla Corte costituzionale questa razionale linea di faglia individuata dal legislatore - una ragione di policy, contrabbandata per irragionevolezza intrinseca di trattamento dei due regimi di insussistenza del fatto - diventa poi difficile comprendere sul piano logico e degli interessi, e in questo Maria Teresa ha ragione, per quale motivo la Corte confermi la scelta del Jobs Act di sottrarre ad ogni ipotesi di reintegra i licenziamenti collettivi.
V. A. Poso. Qual è, in proposito, l’opinione di Andrea Morrone?
A. Morrone. Personalmente penso che la disciplina del Jobs Act sia stata manipolata dalla giurisprudenza in maniera profonda e, data la sua casualità e frammentarietà, che questa giurisprudenza abbia aumentato i margini di incertezza e di irrazionalità del diritto vivente. Gli appelli del giudice delle leggi, per una razionalizzazione della disciplina, sono importanti, ma non devono fare dimenticare quel dato, oltre al fatto che un giudice, neppure quello costituzionale, può sostituirsi al legislatore rappresentativo, né tantomeno imporgli di intervenire sulla base delle sue sollecitazioni. Come dirò più avanti, nel nostro caso questi ripetuti interventi manipolativi sul Jobs Act e sulla disciplina dei licenziamenti illegittimi non solo hanno cambiato la sostanza della disciplina vigente, ma hanno giocato anche un ruolo centrale nella valutazione di ammissibilità del referendum sul d.lgs. n. 23/2015. Il punto è capire in che senso lo hanno fatto.
V. A. Poso. Come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria sul Jobs Act? Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito è che “Il lavoro deve essere tutelato perché è un diritto costituzionale”. L’abrogazione totale del Jobs Act tutela in misura maggiore i lavoratori e realizza un mercato del lavoro più equilibrato?
M. T. Carinci. A mio parere la richiesta referendaria, ove accolta, avrebbe innanzitutto il pregio di ricondurre a maggiore ragionevolezza un sistema di tutele del licenziamento che, come ho già sottolineato, pur dopo le pronunce della Corte costituzionale, è ancora fortemente squilibrato e contraddittorio. Tutti i lavoratori, infatti, risulterebbero soggetti ad un’unica disciplina, diversificata al suo interno solo in ragione del tipo di licenziamento irrogato (individuale o collettivo) e delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro (piccolo o medio-grande) senza il discrimen costituito dalla data di assunzione. Peraltro, come già detto, sarebbe oltremodo opportuno che il legislatore - non solo a fronte del Jobs Act, ma anche dell’art. 18 St.lav. - ripensasse il criterio discretivo del numero dei dipendenti, assolutamente non più adeguato, oggi, per modulare le tutele fra piccoli e grandi datori di lavoro.
È difficile, tuttavia, dare una risposta secca alla domanda se l’abrogazione del Jobs Act comporti un miglioramento delle tutele nella prospettiva dei lavoratori. Considerando le singole disposizioni il risultato che emerge infatti è “in chiaroscuro”, dunque non esclusivamente migliorativo, ma in parte anche peggiorativo per i lavoratori rispetto alla disciplina attualmente vigente; se invece si pongono a confronto nel loro complesso i due sistemi normativi (il D. Lgs. 23/2015, da una parte, e l’art. 18 St.lav. e la l. 604/1966, dall’altra) il risultato finale mi sembra decisamente favorevole per i lavoratori.
Volendo però esaminare la situazione nel dettaglio, se si guarda ai lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro medio-grandi il risultato finale conseguente all’abrogazione del Jobs Act appare a mio parere, nel complesso, migliorativo in conseguenza della riespansione della tutela reale. Infatti, i lavoratori non solo godrebbero in caso di licenziamento nullo della tutela reale piena come del resto già oggi accade (a seguito di C. Cost. 22/2024), ma beneficerebbero altresì della tutela reale attenuata (a differenza di quanto previsto dal Jobs Act) sia in ogni ipotesi licenziamento privo di g.m.o. di tipo economico (inclusa l’ipotesi di mancato rispetto del cd. obbligo di repêchage), sia - senza che si possano porre dubbi di sorta, v. C. Cost. 129/2024 - in caso di licenziamento disciplinare posto in essere in violazione di clausole del codice disciplinare pattizio che prevedano sanzioni conservative (siano esse elastiche o puntuali). Tuttavia, al contempo, quei lavoratori non godrebbero più della tutela reale piena nel caso di licenziamento irrogato in violazione dell’art. 2110 c.c. o per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore perché, a differenza del Jobs Act, l’art. 18 St.lav. in questi casi prevede testualmente la sola tutela reintegratoria attenuata.
Viceversa, nelle altre ipotesi di licenziamento individuale ingiustificato passibili della sola tutela economica, l’importo dell’indennità è più cospicuo nel Jobs Act (fra 6 e 36 mensilità) rispetto all’art. 18 St.lav. (fra 12 e 24 mensilità), almeno nel suo importo massimo. La norma statutaria, però, confina la tutela indennitaria nel caso del licenziamento ingiustificato in ipotesi del tutto residuali (nel licenziamento individuale plurimo per motivo economico nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta; nel licenziamento disciplinare quando l’inadempimento sussista e però non risulti violata una clausola, elastica o puntuale, del contratto collettivo che contempli una sanzione conservativa), cosicché la diminuzione dell’importo massimo dell’indennità che ne conseguirebbe appare ampiamente compensato dall’espandersi dell’area della tutela reintegratoria.
Quanto ai vizi di motivazione (esclusa l’ipotesi di assenza di motivazione che dà luogo in ogni caso alla tutela reale piena) e di procedura, l’art. 18 St.lav. contempla una tutela indennitaria più alta nel minimo (fra 6 e 12 mensilità) rispetto a quella prevista dal Jobs Act (fra 2 e 12 mensilità).
Se si considera poi la tutela prevista per i lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro di più piccole dimensioni, l’applicazione della l. 604/1966 conseguente all’abrogazione del Jobs Act comporterebbe un innalzamento dell’importo massimo dell’indennità nel caso di licenziamento ingiustificato (fino a 14 mensilità in dipendenza dell’anzianità del lavoratore, contro le 6 mensilità massime previste dall’art. 9 D. Lgs. 23/2015), mentre il licenziamento affetto da vizi procedurali - in particolare per violazione dell’art. 7 St.lav. - dovrebbe a rigore essere considerato nullo con applicazione della tutela reale di diritto comune. Anche per i datori di lavoro di piccole dimensioni, dunque, l’abrogazione del Jobs Act comporterebbe un innalzamento delle tutele per i lavoratori.
Una notazione merita anche la disciplina applicabile ai lavoratori alle dipendenze di aziende di tendenza, che viceversa vedrebbero un peggioramento delle tutele loro riconosciute: mentre oggi infatti sono soggetti alla disciplina generale applicabile a tutti i datori di lavoro (art. 9, c. 2, D. Lgs. 23/2015) con l’abrogazione del Jobs Act potrebbero godere unicamente della tutela indennitaria prevista dall’art. 8 l. 604/1966 (ex all’art. 4 l. 108/1990).
Infine, con riferimento alla disciplina prevista in materia di licenziamenti collettivi, l’accoglimento del quesito referendario comporterebbe l’applicazione a tutti i lavoratori della tutela reale nel caso di violazione dei criteri di scelta; viceversa, la violazione delle procedure determinerebbe il riconoscimento di una indennità che, come per il licenziamento individuale, è (almeno nel massimo) meno cospicua (v. supra).
Alla luce di tutto ciò mi pare di poter concludere che, nel complesso, la riespansione della tutela reale e gli importi più cospicui della tutela indennitaria prevista per i piccoli datori di lavoro garantiscano effettivamente ai lavoratori una maggiore tutela.
D’altronde un assetto assolutamente coerente della disciplina dei licenziamenti non può certo essere raggiunto tramite lo strumento del referendum abrogativo - che ha il differente compito di premettere l’espressione della volontà popolare su temi che toccano da vicino la vita dei cittadini; spetta al legislatore.
B. Caruso. Mi limito a rispondere con una breve considerazione. Con tutti i distinguo sottili di Maria Teresa appare evidente come l’abrogazione del Jobs Act lungi da semplificare, razionalizzare e rendere sistematico il quadro normativo e quindi tutelare il lavoro, aggiungerebbe altre dosi di complessità a quanto già procurato dall’opera di rammendo, ricucitura e dal patchwork di risulta operato dalla Corte.
Già è complicato razionalizzare con una opera accurata e diuturna di riscrittura complessiva dei testi come abbiamo provato a fare come “Gruppo Freccia Rossa”, figuriamoci se possa avere una parvenza di sistematicità una riscrittura affidata al quesito si/no. Tutelare il lavoro come diritto costituzionale attraverso il referendum sul Jobs Act è, allora, esattamente quel che tu dici: uno slogan politico, non una seria opzione regolativa di tutela del lavoro. Il mercato del lavoro, i lavoratori in carne ossa e le stesse imprese, come dicevo all’inizio, hanno da affrontare diversi (la carenza di professionalità e di manodopera) che non uscire dal presunto inferno neoliberista procurato dal Jobs Act. Per non dire che con Trump e le politiche dei dazi, Putin e le sue guerre di annessione e i sovranismi nazional-populisti, la globalizzazione neoliberista e internazionalista è quasi persino da rimpiangere…
V. A. Poso. Passo, ora, ad illustrare, anche a beneficio dei lettori, l’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024, che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito dell’intero d.lgs. n. 23/2025, nel testo vigente, tenuto conto delle modifiche apportate dal legislatore e delle pronunce della Corte Costituzionale, di cui abbiamo detto sopra. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito è stato assegnato il seguente titolo sintetico, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Contratto di lavoro a tutele crescenti- disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione”.
L’Ufficio Centrale per il Referendum ha rilevato - a me pare correttamente - che non sussiste la condizione ostativa prevista dall’art. 38 della l. n. 352 del 25 maggio 1970, in ragione della riproposizione del quesito referendario già dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 27 gennaio 2017, n. 26, « posto che il citato articolo limita, per il periodo di cinque anni, la possibilità di promuovere nuovamente la medesima iniziativa referendaria solo nel caso in cui i cittadini si siano effettivamente espressi per il mantenimento della normativa sottoposta al loro sindacato, ovvero nell’ipotesi in cui la consultazione abrogativa sia risultata invalida ai sensi dell’art. 75, quarto comma, Cost. (n.d.r.: che ritiene necessari i requisiti del voto espresso dalla maggioranza degli aventi diritto e della maggioranza dei voti validamente espressi, limitazioni entrambe non presenti nel caso di specie (vd. ordinanze dell’Ufficio Centrale per il Referendum dell’11 dicembre 1996 e del 7 dicembre 1999, in ipotesi di quesiti referendari dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale)».
M. T. Carinci. Si tratta, anche a mio avviso, di conclusioni assolutamente lineari e condivisibili.
B. Caruso. Credo che il dato della legittimità della richiesta referendaria sia ormai in ogni caso tratto, perché ci apprestiamo a votare o a non votare, esprimendo la scelta che la Costituzione e la legge ci riservano come elettori. Per i commenti tecnici dell’ordinanza mi affido alle risposte dei colleghi giuscostituzionalisti.
A. Morrone. Quella dell’Ufficio Centrale per il Referendum è una precisazione del tutto superflua, nel caso di specie. Il quesito promosso dalla Cgil nel 2016 non solo non era formalmente identico a quello presente (che riguarda integralmente il d.lgs. n. 23/2015) ma, soprattutto, non aveva superato il giudizio di ammissibilità (sent. n. 26/2017). Quindi la fattispecie era totalmente diversa, rispetto a quella descritta dall’art. 38, l. n. 352/1970, che, appunto, si riferisce a un referendum celebrato e all’esito confermativo della disciplina sottoposta al voto, nella cui circostanza è vietata la ripresentazione della “medesima” domanda di abrogazione popolare. Perché sia stata fatta quella precisazione dall’Ufficio Centrale per il Referendum è incomprensibile: forse per dire che il quesito presente non è il medesimo quesito precedente? Cosa del tutto ovvia.
V. A. Poso L’Ufficio Centrale per il Referendum, a pag. 5 e ss. della sua ordinanza, ha dato correttamente conto di tutti gli interventi di modifica e integrazione, normativi e costituzionali, successivi alla emanazione del decreto legislativo oggetto della richiesta di abrogazione, al fine di procedere alla verifica della vigenza del testo sottoposto a referendum abrogativo (è del tutto evidente e scontato che si tratti di atto avente forza di legge, rientrante, per sua natura, nella previsione dell’art. 75, Cost. (nell’ordinanza viene richiamata la pronuncia della Corte Costituzionale n. 251 del 22 dicembre 1975), compito ad esso spettante ai sensi di quanto previsto dall’art. 32, l. n. 352/1970 (in tal senso anche Corte Cost. n. 251/1975 sopra citata). Vi chiedo se la Corte di Cassazione ha bene interpretato e applicato l’art. 39, l.cit., alla luce anche della pronuncia della Corte Costituzionale 17 maggio 1978, n. 68, tenuto conto che la richiesta referendaria ha ad oggetto il d. lgs. n. 23/2015 nel testo originario.
M. T. Carinci. A mio parere la Corte di Cassazione ha ben interpretato l’art. 39 l. 352/1970 dal momento che il quesito referendario mirava sì all’abrogazione della versione originaria del D. Lgs. 23/2015, tuttavia il testo oggi vigente - quale risultante dalle modifiche normative successivamente intervenute e dalle pronunce della Corte costituzionale sopra richiamate - non costituisce una disciplina nuova. Essa, infatti, ricalca (come riconosciuto da C. Cost. 68/1978) gli stessi principi ispiratori e gli stessi contenuti essenziali dei singoli precetti del testo originario: il Jobs Act, nella versione originaria ed in quella oggi vigente, limita la tutela reale e ridimensiona quella indennitaria (v. Cass. Ufficio centrale del referendum, ord. 12 dicembre 2024). Per tutte queste ragioni ritengo che la Corte di Cassazione correttamente abbia ritenuto legittimo il quesito referendario pur se volto ad abrogare il testo originario del Jobs Act.
B. Caruso. Anche su questo mi affido ai commenti dei colleghi giuscostituzionalisti, in ogni caso non mi pare che si possa far marcia indietro anche a non essere d’accordo con quel che dice Maria Teresa.
A. Morrone. La legge n. 352/1970 affida all’Ufficio Centrale per il Referendum il compito di verificare – oltre al numero delle sottoscrizioni necessarie per sostenere una richiesta abrogativa – la “vigenza” della disciplina oggetto della domanda. In linea di principio possono essere oggetto di abrogazione popolare solo “leggi vigenti”; non avrebbe senso sottoporre a referendum abrogativo una legislazione già abrogata. Dico in linea di principio, perché, come sappiamo, v’è almeno un precedente in cui il contenuto di tale regola non è stato seguito: mi riferisco al referendum promosso dal Partito comunista – l’unico presentato da quel partito politico nella storia dell’istituto – sulla “scala mobile”, che aveva ad oggetto una disciplina non vigente (perché il “taglio” cui si riferiva l’abrogazione popolare del cd. decreto di San Valentino riguardava i punti di contingenza già riconosciuti: sent. n. 35/1985).
Il controllo sulla vigenza della legge si è affermato in via di prassi. Esso riguarda modifiche giuridiche relative alle disposizioni oggetto della domanda popolare. Nel concetto di “modifica giuridica” vanno ricomprese sia – com’è ovvio – quelle derivanti da atti legislativi successivi all’entrata in vigore delle norme oggetto del quesito, sia fatti normativi che possono essere considerati analoghi negli effetti caducatori a quelli di un atto legislativo. In quest’ultima categoria, per prassi della giurisprudenza dell’Ufficio Centrale per il Referendum, vi cadono le decisioni di accoglimento della Corte costituzionale: la motivazione deriva dall’art. 136 Cost., laddove la previsione della nostra Carta fondamentale stabilisce, com’è arcinoto, che le pronunce di accoglimento producano l’effetto della cessazione dell’applicazione delle disposizioni dichiarate contrarie alla Costituzione (ex tunc, con le note eccezioni, derivanti dall’art. 30, l. n. 87/1953, come interpretato e applicato dalla giurisprudenza costituzionale unanime).
Ora, ogni qualvolta l’Ufficio Centrale per il Referendum riscontra che le disposizioni inserite nel quesito referendario siano state interessate da fenomeni di ius superveniens deve verificarne la perdurante vigenza. Se abrogate o dichiarate illegittime, detto Ufficio deve stabilire se esiste ancora un oggetto della richiesta referendaria e dichiarare in caso di esito positivo, in tutto o in parte, la cessazione delle operazioni referendarie. A questo proposito sorgono diversi problemi.
Il primo riguarda l’esile disciplina positiva di questo potere dell’Ufficio centrale per il Referendum. L’art. 32 non ne fa menzione, limitandosi a parlare e della correzione di eventuali “irregolarità” e della possibile “concentrazione” delle richieste referendarie che, nella medesima tornata, avessero il medesimo contenuto (letteralmente “uniformità o analogia di materia”). L’art. 39, invece, si riferisce alla “cessazione delle operazioni referendarie” susseguenti alle sole novelle legislative sopravvenute fino alla “data di svolgimento del referendum”, senza menzionare atti assimilabili, come le sentenze di accoglimento della Corte.
Su questa disposizione è intervenuta la sentenza manipolativa della Corte costituzionale (n. 68/1978) che ha stabilito, in via pretoria, l’importante regola secondo la quale non qualsiasi modifica sopravvenuta determina la cessazione delle operazioni, ma solo quelle che ne modificano i principi ispiratori o i contenuti essenziali dei singoli precetti. Se la novella non ha queste caratteristiche, l’Ucr opera il “trasferimento” del quesito dalle originarie disposizioni a quelle successive abrogative, ma solo formalisticamente e non materialmente, di quelle inserite ab origine nella domanda popolare.
La giurisprudenza dell’Ucr si è mossa in modo ondivago. Non distingue, come andrebbe fatto, tra novelle precedenti il deposito in Cassazione della richiesta referendaria (corredata delle sottoscrizioni o delle delibere regionali necessarie a sostenerla) e novelle intervenute dopo il medesimo deposito. Nel primo caso, è onere dei promotori farsi carico di formare un quesito referendario su una “legge vigente”, tenendo conto di tutte le modifiche nel frattempo intervenute (non potendosi ritenere afferente alla mera “irregolarità” la mancata menzione di novelle legislative o addirittura sentenze di accoglimento che hanno modificato il contenuto della disciplina positiva interessata dall’abrogazione popolare).
Nel secondo caso, poiché le novelle intervengono quando il procedimento di controllo è ormai avviato, grazie al deposito di una richiesta formale in Cassazione, esse sfuggono alla responsabilità dei promotori, per dipendere integralmente dall’autore della novella o dalla giurisprudenza: qui andrebbe applicato l’art. 39 della legge n. 352/1970. L’Ucr, in secondo luogo, non distingue tra novella legislativa e sentenza di accoglimento della Corte costituzionale: l’una e l’altra possono determinare la cessazione delle operazioni referendarie o la correzione del quesito. Quando corregge il quesito nella fase immediatamente successiva al deposito della richiesta, di fronte allo ius superveniens (precedente lo stesso deposito e non considerato dai promotori), si limita a riscriverlo, se l’intervento modificativo non elimina l’oggetto della domanda, facendo riferimento alle “successive modificazioni” intervenute per via legislativa (indicando gli estremi nel quesito), o i termini di riconoscimento delle sentenze manipolative della Corte costituzionale. Il trasferimento è dichiarato allorché le novelle legislative e giurisprudenziali sono intervenute dopo l’ordinanza dello stesso Ucr dichiarativa della legittimità di una richiesta referendaria, nella fase che va da quel momento sino alla “data di svolgimento” del referendum.
Detto tutto ciò, in questa tornata, l’Ucr ha arricchito la sua giurisprudenza con un nuovo “primo” precedente. Nell’ordinanza sul regionalismo differenziato (12 dicembre 2024), l’Ucr ha ritento di dover dichiarare la cessazione delle operazioni referendarie con riferimento al quesito parziale della legge n. 86/2024, per effetto di una pronuncia interpretativa di rigetto, contenuta nel lunghissimo dispositivo della sent. n. 192/2024 della Corte costituzionale.
Il fatto singolare è che l’Ucr ha ritenuto “vincolante”, al pari di una decisione di accoglimento, parificandone anche gli effetti positivi, l’affermazione secondo la quale, la devoluzione delle competenze statali a favore della regione richiedente in una materia “no-Lep” alla sola condizione che le stesse non riguardassero diritti fondamentali (civili o sociali), perché, come riconosciuto in linea di principio dalla Consulta, nessuna devoluzione è possibile senza previa definizione dei Lep da parte dello Stato se le singole funzioni trasferibili interessino un diritto fondamentale.
Qui l’Ucr ha ritenuto pienamente soddisfatto il quesito referendario parziale, che chiedeva di abrogare la previsione sulle materie “no-Lep”, che la legge n. 86/2024 sottraeva dall’applicazione della regola generale sulla determinazione previa dei Lep nei soli casi previsti dalla legge stessa.
Al di là della questione di merito, il fatto nuovo sta proprio nella circostanza, mai vista prima, dell’equiparazione, ai fini della verifica della “legge vigente”, di una decisione interpretativa di rigetto alla sentenza di accoglimento. La cosa singolare è che, nella stessa ordinanza, l’Ucr aveva ritenuto legittima e, quindi, sottoponibile al voto il referendum totale sulla legge n. 86/2024, argomentando che, nonostante l’ingente intervento demolitorio della Consulta, permanesse un “contenuto minimo” normativo che giustificava il permanere della legge, consentendone la sottoposizione al voto popolare.
Come sappiamo, però, la Consulta nella sent. n. 10/2025 ha avuto un’opinione esattamente opposta a quella dell’Ufficio Centrale per il Referendum, ritenendo, dal punto di vista materiale, che ciò che rimaneva della legge n. 86/2024, dopo la sua decisione n. 192/2024, fosse insuscettibile di essere sottoposto al voto popolare, perché il quesito era diventato oscuro, tale da confondere l’espressione del voto. A suo dire (ma in maniera del tutto implausibile), s’è aggiunto che il referendum era divenuto una sorta di plebiscito sulla previsione costituzionale stessa, disciplinante l’autonomia differenziata (l’art. 116.3 Cost.). Cosa, quest’ultima, che rendeva inammissibile la domanda popolare, perché sull’an di quella disposizione, l’unico procedimento attivabile avrebbe dovuto essere la revisione costituzionale della prescrizione.
Nel caso del referendum sul Jobs Act, inoltre, va ricordata un’altra circostanza: le modifiche operate dalla legislazione successiva e, soprattutto, dalla stessa giurisprudenza costituzionale, avevano una portata innovativa notevole. La Corte costituzionale aveva sostanzialmente riscritto il Jobs Act, rovesciandone il criterio di base (l’automatismo legale fondato sul solo indice dell’anzianità), adeguando la disciplina secondo il criterio del parallelismo delle tutele tra licenziamento discriminatorio e per ragioni economiche. La situazione, da questo punto di vista, era molto prossima a quella della disciplina dell’autonomia differenziata, riscritta dall’unica sent. n. 192/2024. Tutto questo non ha avuto rilievo nel giudizio di ammissibilità: nel caso del d. lgs n. 23/2015 la Consulta ha ritenuto ammissibile il voto, nonostante le modifiche apportate alla disciplina dal legislatore e dalla sua stessa giurisprudenza; e, va aggiunto, nonostante la disomogeneità contenutistica delle tutele apprestate dal Jobs Act nelle diverse situazioni (come dalla Consulta stessa rilevato, ma ritenuto del tutto irrilevante). Ha, viceversa, dichiarato inammissibile il referendum sull’autonomia differenziata, ritenendo che la propria sentenza avesse sostanzialmente modificato oggetto e finalità della legge n. 86/2024, rendendo, come detto, non chiaro e diverso il contento della domanda popolare.
Due pesi e due misure, per situazioni sostanzialmente analoghe.
V. A. Poso. Bisogna, allora, fare un passo indietro ed entrare nel merito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 26/2017, sopra richiamata, che ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo dell’intero d. lgs. n. 23/2015 oltre che di plurime disposizioni dell’art. 18, st. lav.
M. T. Carinci. A me pare che il quesito referendario oggi proposto sia molto diverso rispetto a quello dichiarato inammissibile da C. Cost. 26/2017.
Allora la domanda referendaria mirava, infatti, all’abrogazione non solo dell’intero D. Lgs. 23/2015, ma anche di parole, frasi, commi contenuti nell’art. 18 St.lav. nell’intento non solo di eliminare dal sistema la disciplina del Jobs Act, ma anche (interpolandone il testo) di ampliare la tutela reale prevista dalla norma statutaria ben oltre il suo ambito di applicazione originario con riferimento sia ai lavoratori coinvolti, sia alle fattispecie considerate sia, soprattutto, ai datori di lavoro di più piccole dimensioni. Proprio alla luce di ciò C. Cost. 26/2017 ritenne allora inammissibile quel quesito, considerandolo in primo luogo non abrogativo, ma propositivo (poiché, tramite l’utilizzo della tecnica del “ritaglio” di parti dell’art. 18 St.lav., mirava ad introdurre nel sistema norme non previste) e ritenendolo in secondo luogo non univoco né omogeneo (dal momento che unificava e sovrapponeva al suo interno questioni diverse - quali l’espansione della tutela reale a: diversi gruppi di lavoratori id est “vecchi” e “nuovi assunti”; un novero più ampio di vizi del licenziamento; datori di lavoro di minori dimensioni - con la conseguenza di coartare la libertà dell’elettore costretto ad esprimere un voto bloccato su tematiche non sovrapponibili).
Il quesito referendario oggi proposto - che chiede l’abrogazione di un unico testo normativo: il D. Lgs. 23/2015 nella sua interezza -, al contrario mi pare unicamente abrogativo, omogeneo e coerente se è vero che mira alla integrale abrogazione del Jobs Act, cioè di quel testo normativo che ha ridotto le tutele per il licenziamento viziato per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Nel caso di approvazione del quesito referendario si riespanderà, dunque, la disciplina attualmente vigente per i soli dipendenti assunti fino al 7 marzo 2015, cioè l’art. 18 St.lav. e la l. 604/1966, che diverrà applicabile a tutti i lavoratori a prescindere dalla data di assunzione.
B. Caruso. Sono d’accordo con le considerazioni di Maria Teresa, il quesito di oggi è molto più chiaro e conforme con la disposizione costituzionale, che presuppone che esso sia tale da rendere evidente all’elettore da dove si parte (il quadro vigente) e dove si vuole arrivare con l’abrogazione (l’effetto di risulta). Il quesito del 2017 era “furbo”, non solo poco chiaro. Si voleva riscrivere il sistema attraverso una, comprensibile solo agli esperti, operazione di taglio, cucito e ricamo, degno di una sartoria di pizzi e merletti giuridici e non di una consultazione popolare. Si mirava ad un abito sartoriale di haute couture di rigidità garantista e ben ha fatto a suo tempo la Corte costituzionale ad impedirlo.
A. Morrone. Come ricordato, il quesito Cgil promosso nel 2016 era diverso non solo contenutisticamente, ma anche formalmente. Aveva una portata fortemente manipolativa perché pretendeva, attraverso un chirurgico ritaglio di singole parole, di applicare a tutte le imprese con più di cinque dipendenti (come le agricole) il rimedio della reintegra. Un classico caso di “taglia e cuci” non vietato in generale, ma inammissibile – stando alla giurisprudenza costituzionale pregressa (come detto nella sent n. 36/1997) – allorché tenda a costruire una disposizione del tutto artificiosa, frutto della manipolazione referendaria e non della “espansione” di una regola positiva già esistente nella legislazione vigente, la cui applicazione derivi automaticamente (per i noti fenomeni di auto-integrazione dell’ordinamento giuridico) dall’abrogazione popolare.
Nella fattispecie, il quesito pretendeva di applicare a tutte le imprese la regola speciale valevole solo per le agricole (ipotesi, questa, del tutto singolare nella stessa giurisprudenza sui referendum abrogativi).
Va ricordato, anche, che, l’esito del giudizio, è stato traumatico, portando alla rinuncia, da parte della giudice relatrice, Silvana Sciarra, al compito di redigere la motivazione assunta dalla maggioranza del Collegio, scritta, invece, da Giorgio Lattanzi. Il quesito, allora, era nettamente diverso da quello promosso, in passato, dall’estrema sinistra, che pretendeva, invece, di abrogare qualsiasi criterio dimensionale al fine di generalizzare la reintegra a tutte le imprese (comprese le piccole). Soluzione, questa, che la Corte costituzionale aveva ritenuto ammissibile dal punto di vista della disciplina del referendum abrogativo (sent. n. 41/2003).
V. A. Poso. L’Ufficio Centrale per il Referendum (pagg.16 e 17 dell’ordinanza più volte citata) ha affermato che «la fattispecie razionalmente unitaria, richiamata nel quesito qui in esame (e cioè il principio abrogativo sotteso al procedimento referendario) consista nella intera disciplina del d. lgs. n. 23 del 2015, in attuazione della legge delega n. 183 del 2014, laddove “limita la tutela reale e ridimensiona quella indennitaria soprattutto per i lavoratori con anzianità di servizio non elevata». E in coerenza con questa impostazione il quesito è stato riformulato con riferimento a tutte le fonti, normative e costituzionali, successivamente intervenute, con riferimento a queste ultime, anche dopo il formale deposito della iniziativa referendaria (trattasi della sentenza n. 128/2024, della quale abbiamo detto sopra).
Condividete il percorso motivazionale dell’ordinanza alla quale facciamo riferimento?
A. Morrone. Come ho spiegato in precedenza, la decisione dell’Ufficio Centrale per il Referendum di ritenere legittima la richiesta e di riformulare il quesito è coerente con i suoi precedenti. La verifica sulla vigenza della legge è sempre stata molto superficiale, quindi, non mi stupisce la velocità in cui, pure stavolta, gli Ermellini abbiamo risolto la questione, limitandosi a richiamare le novelle e la giurisprudenza costituzionale intervenuta sulla disciplina del Jobs Act, senza addentrarsi nel dettaglio sui contenuti materiali dello ius superveniens.
In questo caso, come ho precisato sopra, la superficialità dell’Ucr ha facilitato il controllo di ammissibilità della Consulta (sent. n. 12/2025). Anche se, tuttavia, per la Corte costituzionale l’onere di motivazione avrebbe dovuto essere più rigoroso: il giudizio sull’esistenza di una matrice razionalmente unitario è stato basato, esclusivamente, sulla prevalenza della “forma” sulla “sostanza” (l’esatto opposto di quanto fatto nell’inammissibilità del quesito totale sul regionalismo differenziato, dove la “sostanza” ha prevalso sulla “forma”, ma tornerò sul punto).
M. T. Carinci. Non mi sembra ci sia nulla da eccepire al percorso argomentativo dell’ordinanza della Corte di Cassazione: il quesito proposto relativo all’abrogazione integrale del D. Lgs. 23/2015 nel testo originario mirava ad eliminare dal sistema un complesso normativo che nel suo insieme emarginava la tutela reintegratoria e riduceva la tutela indennitaria. Le modifiche in seguito intervenute al testo del Jobs Act, sia quelle operate dalla legge, che quelle conseguenti alle pronunce della Corte costituzionale, non ne hanno intaccato l’impianto di fondo, dal momento che quel testo, oggi come allora, conserva comunque una propria unitarietà, omogeneità ed un proprio comune principio ispiratore (Corte di Cassazione, Ufficio centrale del referendum 11 dicembre 1996) e, cioè, la limitazione della tutela reale a favore di quella obbligatoria e la riduzione di quest’ultima (come ho già cercato di porre in luce rispondendo alla domanda 8).
B. Caruso. Non concordo con il giudizio di Maria Teresa e ho già detto pure perché. Dopo le manipolazioni subite, il Jobs Act è ridotto a una tigre di carta neoliberista se mai si dovesse ritenere che sia stata quella l’ideologia originaria dei redattori del testo normativo. Dopo gli interventi ortopedici delle Alte Corti, la verità è che nel sistema attuale non si sa quale sia la regola e quale l’eccezione rimediale, anzi a volte domina l’incertezza pura e semplice di quale sia la regola da applicare e come.
Il referendum non risolve alcun problema; aggiungo che rischia di screditare ulteriormente questo strumento di democrazia diretta se ancora una volta si dovesse arrivare a un nulla di fatto per mancato raggiungimento del quorum di validità. Tale risultato costituirebbe un bell’assist a chi intende oggi, da altri punti di vista, screditare gli istituti procedurali della democrazia classica, in questo caso quella diretta. Servirebbe, invece, una riscrittura del Parlamento, mirata alla semplificazione e alla razionalizzazione sistemica della disciplina.
V. A. Poso. Con la sentenza n. 12 del 7 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione del Jobs Act relativo ai licenziamenti illegittimi approvato con il D. Lgs n. 23/2015, nel testo che risulta vigente all’esito delle modifiche legislative e delle pronunce della Stessa Corte, così come stabilito dall’Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte di Cassazione.
Dopo aver delineato la cornice normativa di riferimento, questa è l’argomentazione centrale della Corte Costituzionale: «L’odierno quesito referendario […] punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente: la disciplina dettata dal suddetto decreto legislativo si è affiancata a quella dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dando così luogo a «un duplice e parallelo regime» (sentenza n. 44 del 2024).
L’effetto innovativo sulla disciplina vigente, connaturale alla abrogazione referendaria, consisterebbe quindi nella «fisiologica espansione della sfera di operatività» (sentenza n. 50 del 2000) di norme già presenti nell’ordinamento, tuttora vigenti, anche se compresse, per effetto della applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum, su un ambito di efficacia limitato ai soli licenziamenti individuali dei lavoratori già in servizio alla data del 7 marzo 2015».
Quali sono le Vostre osservazioni, di carattere generale, in merito? È, quella di ammissibilità, una pronuncia attesa?
A. Morrone. Nella sent. n. 12/2025, all’esito di una ricostruzione del quadro normativo complesso, il Jobs Act viene connotato come una nuova disciplina della materia, rispetto alla “riforma Fornero”, all’art. 18 e alla legge n. 604/1966 (dando conto di una stratificazione normativa tra discipline applicabili a seconda di un differente “tempo giuridico”). Si sottolinea, in aggiunta, la disomogeneità materiale del Jobs Act in ragione dei contenuti della tutela, diversificata mediante un giudizio di valore in melius e in peius rispetto alla previgente disciplina.
Su questi due punti la motivazione presenta un cortocircuito argomentativo.
La sent. n. 12/2025 ha escluso l’esistenza di cause di inammissibilità del quesito. In particolare, l’oggetto non era né una disciplina “costituzionalmente necessaria” o “a contenuto costituzionalmente vincolato”, né priva di una “matrice razionalmente unitaria”. In entrambe le evenienze, era necessario vincere la prova opposta: si doveva, per un verso, dimostrare che l’eventuale abrogazione non avrebbe esposto il lavoratore a “una lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro” e, per altro verso, superare l’obiezione che la domanda avesse un contenuto eterogeneo proprio perché la disciplina recava tanto un “arretramento” quanto un “ampliamento” delle tutele.
Sul primo punto si afferma – vale la pena riportare il passo integrale – che il quesito “punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente: la disciplina dettata dal suddetto decreto legislativo si è affiancata a quella dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dando così luogo a «un duplice e parallelo regime» (sentenza n. 44 del 2024). L’effetto innovativo sulla disciplina vigente, connaturale alla abrogazione referendaria, consisterebbe quindi nella «fisiologica espansione della sfera di operatività» (sentenza n. 50 del 2000) di norme già presenti nell’ordinamento, tuttora vigenti, anche se compresse, per effetto della applicabilità delle disposizioni oggetto del referendum, su un ambito di efficacia limitato ai soli licenziamenti individuali dei lavoratori già in servizio alla data del 7 marzo 2015”.
Sul secondo punto, la Corte ricorda che l’art. 75 Cost. permette “l’abrogazione anche totale”, compresa “anche la possibilità che il referendum investa un testo articolato e complesso, ed escludendo di conseguenza che tali caratteri di un atto siano pregiudizialmente motivo di inammissibilità del quesito”. Riconoscere che, nel caso, esiste una matrice razionale unitaria equivale ad ammettere che sussiste una finalità unitaria, “mirante all’abrogazione di un corpus organico di norme e funzionale alla reductio ad unum, senza più la divisione tra prima e dopo la data del 7 marzo 2015, della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, con la riespansione della disciplina pregressa, valevole per tutti i dipendenti, quale che sia la data della loro assunzione”.
Individuato il verso dell’abrogazione popolare, è stato possibile superare la contraddizione interna al Jobs Act laddove prevede tanto un “arretramento di tutela” quanto un “ampliamento delle garanzie per i lavoratore”. Detta circostanza, infatti, “non assume una dimensione tale da inficiare la chiarezza, l’omogeneità e la stessa univocità del quesito”, perché la domanda “chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua articolata formulazione” (enfasi non testuale). Il fine unitario giustificherebbe, quindi, il risultato di un abbassamento dei livelli di protezione. La Corte lo spiega così: i limiti costituzionali al referendum (impedire, da un lato, “la distorsione in senso plebiscitario del precipuo strumento di democrazia diretta contemplato dalla Costituzione”; e, dall’altro, “l’incisione sulla libertà del voto dell’elettore, che potrebbe maturare «convincimenti diversi» rispetto a una pluralità di questioni profondamente difformi e insuscettibili di essere ricondotte ad unità”) “non precludono l’abrogazione totale di un testo normativo che contempla soluzioni differenti (…) qualora rimanga comunque salvaguardato un nesso di coerenza tra il mezzo e il fine referendario” (enfasi non testuali).
Come si evince, in definitiva, la Corte ha ammesso che, in tale caso, la forma prevale sulla sostanza: se il quesito presenta una matrice razionale unitaria – l’abolizione di un intero corpus normativo – non rileva la materiale diversità delle garanzie apprestate nelle fattispecie astratte.
Il risultato è, quindi, esattamente opposto a quello conseguito dalla sent. n. 10/2025 sull’autonomia differenziata. Lì la sostanza ha prevalso sulla forma e per tale ragione la decisione è stata di inammissibilità. Qui, viceversa, nessun rilievo ha avuto la circostanza che la disciplina dei licenziamenti del JA fosse stata più volte modificata successivamente, soprattutto da parte della Consulta stessa (l’ultima delle pronunce sul Jobs Act, la sent. n. 128/2024, è stata pubblicata nello stesso tempo del deposito della richiesta, avvenuta il 19 luglio 2024, mentre la decisione è stata pubblicata sulla G.U. il 17 luglio, quindi, sono “coeve”) E non s’era trattato di modifiche di contorno, ma di aggiustamenti sostanziali che, per utilizzare il medesimo giudizio di valore della Consulta, sono andate verso un “avanzamento” delle tutele, la cui abrogazione, a rigor di logica, avrebbe comportato un loro “arretramento”.
Una nutrita giurisprudenza costituzionale, come abbiamo ricordato, aveva ridefinito i contenuti materiali del Jobs Act, se non di più, almeno altrettanto incisivamente come la sent. n. 192/2024 aveva fatto sulla “legge Calderoli”. Come detto, la sent. n. 194/2018 aveva svuotato la nota essenziale della “riforma Renzi”, rovesciando il criterio legale di determinazione dell’indennizzo, passato da un meccanismo automatico (la sola anzianità di servizio), ad uno discrezionale (la valutazione caso per caso del giudice sulla base di plurimi criteri oltre l’anzianità), ritenuto più adeguato a Costituzione. Le pronunce intervenute dopo quella decisione di riferimento hanno seguito una stessa linea demolitrice, modificando profondamente la disciplina del d.lgs. n. 23/2015. Ciò nonostante, la Consulta ha dato rilievo differente a questo ius superveniens nei due casi comparati. Sia detto per chiarezza. Sottolineare questi profili mi serve per mettere in evidenza le aporie argomentative e la disomogenea valutazione di due referendum molto simili per la comune confluenza, sull’oggetto del quesito, di norme positive e di norme giurisprudenziali. Non voglio, cioè sostenere che anche il referendum sul JA fosse inammissibile. Era, come correttamente riscontrato, pienamente ammissibile, solo che, a mio giudizio, era ammissibile anche quello sul regionalismo differenziato che, però, la Corte costituzionale ha ritenuto di non sottoporre al voto popolare.
M. T. Carinci. La posizione assunta oggi da C. Cost. 12/2025 nel dichiarare ammissibile il referendum non mi ha sorpreso. I soggetti promotori, memori della dichiarazione d’inammissibilità da parte di C. Cost. 26/2017, hanno attentamente ed opportunamente formulato l’attuale quesito, che risulta omogeneo, coerente, chiaro. Esso, infatti, chiede l’abrogazione integrale del D. Lgs. 23/2015, disciplina applicabile solo ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015; ne consegue, come giustamente ritiene la Corte costituzionale, che la sua abrogazione non determinerà la reviviscenza di norme abrogate, ma la mera espansione del campo di applicazione di norme attualmente vigenti, cioè l’art. 18 St.lav. e la l. 604/1966.
B. Caruso. Confermo quanto detto in precedenza. Il quesito attuale è molto più chiaro e meno subliminale o furbo di quello precedente, ma l’effetto che ne deriverebbe con riguardo alla disciplina rimediale del recesso non aiuterebbe a risolvere i nodi ancora da sciogliere.
V. A. Poso. La Corte Costituzionale ( richiamando anche la sentenza n. 56 del 2022) ha ricordato, nelle sentenze pronunciate il 7 febbraio 2025 che il referendum abrogativo non si deve trasformare «– insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (v. sentenza n. 16 del 1978, richiamata nella sentenza n. 56 del 2022), trattandosi di «un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può “introdurre una nuova statuizione, non ricavabile dall’ordinamento” referendum ex se (v. sentenza n. 36 del 1997)».
Ritenete rispettato questo limite?
A. Morrone. Su questo punto la giurisprudenza costituzionale è molto oscillante e impossibile da riassumere anche perché ondivaga e contraddittoria. Il principio generale è che il referendum sia diretto all’abrogazione totale o parziale di leggi e atti aventi forza di legge. Fuori quadro dovrebbe essere qualsiasi consultazione popolare che non avesse queste caratteristiche, senza necessariamente arrivare al “plebiscito” (la cui configurazione astratta è molto controversa), escludendo pure referendum “propositivi” (che, pure, sono molto ambigui: in che senso una domanda è “propositiva”?). Ma questo contenuto minimo costituzionale (la lettera dell’art. 75.2 Cost.) è stato riscritto in concreto dalla giurisprudenza.
La più importante innovazione del diritto vivente è il “quesito manipolativo”, l’abrogazione di disposizioni finalizzata a modificare la legislazione vigente al fine di introdurre una disciplina diversa dalla precedente e in questo senso “nuova”. Del resto, il più attento costituzionalista dei fenomeni normativi aveva notato che anche soltanto “abrogare” implica “innovare”, perché l’abrogazione non equivale a un “non disporre” ma a un “disporre diversamente” (Vezio Crisafulli nelle sue Lezioni di diritto costituzionale, Cedam, 1984).
La giurisprudenza sui referendum in materia elettorale, dopo una iniziale e problematica chiusura (che non trova nessun appiglio nell’art. 75 Cost.) almeno nei confronti di referendum abrogativi “totali” (sent. n. 29/1987 sulla legge elettorale del Consiglio superiore della Magistratura), aveva ritenuto ammissibili quesiti elettorali al ricorrere di alcune condizioni (sentt. nn. 47/1991 e 32/1993 poi sempre confermate in seguito): 1) che i quesiti fossero necessariamente “parziali”, ovvero su singole disposizioni o frammenti di disposizione (e quindi “manipolativi”); 2) che dall’abrogazione parziale o manipolativa conseguisse necessariamente una “normativa di risulta” di carattere “autoapplicativo” (che, nel caso, fosse sufficiente al rinnovo dell’organo la cui legge elettorale era interessata da una richiesta di abrogazione popolare).
La conseguenza di questa giurisprudenza – estesa a tutti i quesiti parziali o “manipolativi” – è che il referendum da “abrogativo” è (pretoriamente) diventato necessariamente “propositivo”, almeno nel senso che l’abrogazione è in funzione della innovazione normativa. Chi chiede un referendum non vuole solo abolire una disciplina ma (soprattutto) sostituire quella abrogata con un’altra legislazione. Ecco, dunque: la principale responsabile della trasfigurazione del referendum, della sua originaria versione prescritta nell’art. 75 Cost., è stata la Consulta che, per evitare o limitare i referendum elettorali, ha finito per legittimare i referendum manipolativi diretti a introdurre norme mediante l’abrogazione di norme. Da qui la necessità di “correre ai ripari”, ossia la giurisprudenza successiva che esige che il referendum popolare non si trasformi in un “inammissibile” e “distorto strumento di democrazia rappresentativa”. Che il popolo sovrano non possa, mediante un referendum (abrogativo), farsi legislatore rappresentativo è scontato. Quale sia – una volta ammessi dal punto di vista della legittimità costituzionale quesiti parziali e manipolativi – il confine tra legislazione popolare e legislazione rappresentativa è impossibile da stabilire. O, meglio, dipende dalla giurisprudenza costituzionale e dalle sue volubili nuances.
I precedenti ci consegnano degli indici sintomatici, spesso rivisti, aggiustati, modificati e, quindi, tutt’altro che sicuri. Tra questi il criterio della “assoluta” novità della “norma popolare” frutto del ritaglio referendario: assoluta rispetto all’ordinamento vigente e alle sue evoluzioni positive. Non rispetto al materiale normativo esistente nell’ordinamento. Per riprendere il parallelo con il quesito Cgil del 2016, allora la volontà di applicare la reintegra a tutte le imprese commerciali con più di cinque dipendenti come per le imprese agricole è stata ritenuta inammissibilmente diretta a introdurre una regola mai esistita nell’ordinamento dei licenziamenti, attraverso vieppiù l’estensione, del tutto artificiosa, di una previsione speciale sempre riferita alle imprese agricole (in ragione delle specialità dell’organizzazione e dell’attività economica propria di queste ultime).
Nel caso del quesito presente, l’abrogazione del d.lgs. n. 23/2015 ha come obiettivo positivo l’applicazione della disciplina, da esso sostituita a partire dal 7 marzo 2015, dalla “riforma Fornero”. Una legislazione, quest’ultima, non solo esistente (ancorché non applicabile a nuovi assunti dopo quel crinale temporale), ma ritenuta utilizzabile giuridicamente proprio per colmare il “vuoto” conseguente al referendum. Come si vede, anche in questa sent. n. 12/2025, la Corte costituzionale dice che il referendum sul Jobs Act non crea in modo non consentito un vuoto, perché quel vuoto viene colmato con la “riforma Fornero”; e, si può aggiungere, è proprio questo motivo che rende ammissibile il quesito. Altrimenti – e, cioè, una mera abrogazione del Jobs Act – avrebbe lasciato privi di tutela i diritti del lavoratore ingiustamente licenziato. Il che conferma che, per la Corte costituzionale, i referendum hanno (rectius: non possono non avere) una forza manipolativa della legislazione vigente, nel senso che l’abrogazione deve mirare necessariamente all’innovazione, specie quando sono in gioco diritti fondamentali. Un altro modo per superare le colonne d’Ercole del dettato dell’art. 75 Cost.
B. Caruso. Certamente in tutta la vicenda che ha inizio con la sentenza n. 194 del 2018, e, a prescindere dall’ultima di ammissione del referendum, la Corte ha giocato nella materia una partita in proprio. Quale sia stato il ruolo della Consulta, l’hanno sintetizzato bene i colleghi costituzionalisti e con uno di loro ne abbiamo scritto nel saggio a quattro mani.
M. T. Carinci. Penso che il quesito referendario dichiarato ammissibile da C. Cost. 12/2025 non rivesta alcuna valenza propositiva che possa trasformarlo in “un distorto strumento di democrazia rappresentativa” dal momento che si limita a chiedere l’abrogazione integrale del D. Lgs. 23/2015. Né l’abrogazione del Jobs Act determinerà l’introduzione di nuove statuizioni non presenti nel sistema, bensì la mera espansione del campo di applicazione di norme vigenti, cioè dell’art. 18 St.lav. e della l. 604/1966.
B. Caruso. Su questo punto dissento da Maria Teresa. La Corte non ha svolto il ruolo di “anima bella”, custode dei valori laburisti e dei principi costituzionali, come si tende a presentarlo nella vicenda. Tutt’altro: si è “sporcata le mani” nella contesa politica, giuridica e giudiziaria; ha menato a destra e manca degli schieramenti, dettando la linea e il compromesso politico ritenuto giusto e sorbendosi, a volte, e a mio raro ricordo, anche critiche e valutazioni pesanti che ritengo ingiuste, ingenerose e a volte sopra le righe da parte di colleghi; ha bacchettato in alcuni casi i giudici rimettenti (i giudici di Napoli); altre volte li ha quasi incoraggiati ad andare oltre (il dialogo con il Tribunale di Ravenna, rimettente compulsivo ma intelligente); ha “ammonito” il legislatore quando ha ritenuto di farlo (sentenza sulle piccole imprese), si è erta a soggetto arbitratore di contrasti di indirizzi della Corte di Cassazione, come nel caso delle clausole elastiche e ne ha inteso correggere indirizzi consolidati (la posizione sul repêchage). Chiederei retoricamente a Maria Teresa ovviamente in modo assolutamente bonario e richiamando, mi si passi la dissacrazione, un famoso slogan pubblicitario di un noto amaro: cosa vuoi di più dalla vita?
V. A. Poso. Prendo a prestito le parole chiare utilizzate dalla Consulta nella sentenza n. 10 del 7 febbraio 2025 che si è espressa per l’inammissibilità della richiesta referendaria relativa alla l. 26 giugno 2024,n.86, sulla c.d. autonomia differenziata: «Per costante giurisprudenza costituzionale, il giudizio sull’ammissibilità della richiesta referendaria è volto a «verificare che non sussistano eventuali ragioni di inammissibilità sia indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario; sia relative ai requisiti concernenti la formulazione del quesito referendario, come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria» (sentenze n. 59 del 2022 e n. 17 del 2016)».
Sussiste, a Vostro avviso, qualcuna delle cause di inammissibilità indicate nell’art.75, c. 2, Cost., in ragione dell’oggetto del quesito riconducibile alle categorie di leggi ivi elencate, anche in via di interpretazione logico-sistematica?
M. T. Carinci. Ritengo che tutti i requisiti richiesti dalla Corte costituzionale sussistano.
B. Caruso. Concordo con Maria Teresa. Il percorso motivazionale, su questo punto, della Corte Costituzionale è coerente con la sua precedente giurisprudenza e coerente con le altre sentenze del 7 febbraio 2025.
A. Morrone. Nel caso del quesito sul Jobs Act non ritengo esistenti motivi di inammissibilità. Il quesito riguarda un decreto legislativo nella sua interezza, non ci sono ritagli di disposizioni, il contenuto non rientra nei limiti dell’art. 75 Cost. o in quelli creati, in via pretoria, dal giudice dell’ammissibilità. Come ho cercato di dire, i problemi erano altri: quelli derivanti dalla stratificazione normativa e soprattutto della giurisprudenza successiva che aveva più volte modificato il testo di quella disciplina; nonché, le contraddizioni derivanti comparando la sent. n. 12/2025 con la 10/2025 sull’autonomia differenziata.
Il punto, lo dico diversamente, è che, oggi, ancora non sappiamo il valore che possono avere le modificazioni sopravvenute della disciplina oggetto di un referendu, ai fini del controllo tanto dell’Ufficio Centrale per il Referendum quanto della Corte costituzionale. Il dato che emerge, è l’insignificanza dello ius superveniens, nel senso che ciò che conta sembra essere soltanto la disciplina positiva, quasi che delle novelle o delle modifiche poi intervenute (per abrogazione o per caducazione integrale delle norme oggetto) si dovesse tenere conto solo ai fini della correzione del quesito, dandone conto. Invero, sappiamo bene che non può essere così, e non è così: nel referendum sull’autonomia differenziata, anche se la Corte non lo dice apertamente, l’inammissibilità consegue alla sent. n. 192/2024 che, essa sì, proprio a seguire il ragionamento della decisione, ha reso incerto ex post l’oggetto della domanda di integrale abrogazione della relativa regolazione positiva.
V. A. Poso. Come sapete, la giurisprudenza della Corte Costituzionale – ci è stato ricordato anche nelle sentenze del 7 febbraio 2025 - ha ritenuto preclusa al referendum l’abrogazione di leggi costituzionalmente necessarie od obbligatorie (sentenze n. 57, n. 56 e n. 50 del 2022, n. 10 del 2020, n.15 e 16 del 2008, n. 49 del 2000 e n. 35 del 1997). Il decreto delegato oggetto di referendum incontra questo limite? Nella sentenza in esame la Consulta lo ha escluso «dal momento che l’eventuale esito positivo del referendum non determinerebbe una lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro: dall’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 deriverebbe l’applicabilità, anche ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, della disciplina dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966».
A. Morrone. Come ho cercato di dire nelle risposte precedenti, la domanda corretta, in proposito, è la seguente. Il referendum pone in questione una “lacuna di tutela” del diritto al lavoro o, piuttosto, rileva una problematica disomogeneità di tutele interne al Jobs Act? Più che la prima, è la seconda questione che avrebbe dovuto essere ponderata nel caso presente, al fine di apprezzare le conseguenze dell’abrogazione del Jobs Act, anche ai fini dell’ammissibilità. Come ho accennato e come dirò nella successiva risposta, qui la Corte ha ritenuto di accentuare il primo profilo, con la risposta che il preteso vuoto sarebbe risolto attraverso l’applicazione della disciplina della “riforma Fornero”. Mentre sulla seconda, la Corte ha solo sfiorato il nodo, anzi lo ha minimizzato, ritenendo che, nonostante la disomogeneità delle tutele esistenti nel Jobs Act, messe in chiaro anche dai colleghi giuslavoristi, la matrice razionalmente unitaria della domanda (abolire l’intero decreto legislativo n. 23/2015), fosse sufficiente a sciogliere quel nodo.
M. T. Carinci. Ritengo condivisibile la posizione espressa dalla Corte: l’abrogazione del Jobs Act non lascerebbe privo di tutele il lavoratore illegittimamente licenziato in quanto, a seguito di tale abrogazione, si riespanderebbe il campo di applicazione dell’art. 18 St.lav. e della l. 604/1966 anche ai lavoratori assunti fino al 7 marzo 2015. Tale disciplina garantisce non solo una tutela al lavoratore illegittimamente licenziato, come richiesto dalla Costituzione, ma una tutela nel complesso più incisiva di quella assicurata attualmente dal Jobs Act (v. risposta alla domanda n. 8).
B. Caruso. Ho l’impressione di aver già risposto e quindi passo per non appesantire l’intervista.
V. A. Poso. Secondo la Corte Costituzionale - premesso che l’art. 75, Cost. consente la richiesta referendaria per l’abrogazione anche totale di una legge o di un atto avente valore di legge – la matrice razionalmente unitaria è salvaguardata anche dalla presenza di un testo articolato e complesso (v. sentenza n.56 del 2022), a condizione che «il quesito incorpori «l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira (sentenza n. 29 del 1987), nel senso che dalle norme proposte per l’abrogazione sia dato trarre con evidenza “una matrice razionalmente unitaria” (sentenze n. 16 del 1978; n. 25 del 1981), “un criterio ispiratore fondamentalmente comune” o “un comune principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale” (sentenze n. 22, n. 26, n. 28 del 1981; n. 63, n. 64, n. 65 del 1990)» (sentenza n. 47 del 1991)».
Nel caso di specie che ora ci occupa viene valorizzato il profilo teleologico che mira all’abrogazione di un corpus organico di norme, funzionale alla reductio ad unum del sistema sanzionatorio applicabile a tutti i dipendenti, a prescindere dalla data di assunzione del 7 marzo 2015.
Condividete questa interpretazione della Consulta?
A. Morrone. Questa affermazione della Corte costituzionale conferma che, nella sent. n. 12/2025 (a differenza della sent. n. 10/2025), la “forma” prevale sulla “sostanza”. Quello che conta è se la richiesta referendaria abbia un fine chiaro ed evidente e che vi sia una coerenza tra l’oggetto e lo scopo dell’abrogazione popolare. Il contenuto non conta. Se così fosse stato, nulla quaestio. La giurisprudenza, tuttavia, ha fatto un’applicazione sincopata e apodittica di questo dato. Nella sent. n. 10/2025, infatti, la “sostanza” ha prevalso sulla “forma”. La Consulta ha smentito l’Ufficio Centrale per il Referendum, che aveva ritenuto esistente un fondo positivo vigente nonostante la sent. n. 192/2024, ritenendo che, proprio per effetto di quella decisione, il contenuto della disciplina positiva non fosse più tale da rendere chiaro su cosa l’elettore sarebbe stato chiamato a votare. Nella decisione sul JA è l’unità formale dell’atto oggetto di abrogazione che legittima l’ammissibilità di un voto popolare. Nonostante quel contenuto, non solo sia stato sostanzialmente riscritto, ma contenga ab origine, forme di tutela differenziate nei confronti di categorie di lavoratori interessati dalla sua applicazione.
M. T. Carinci. Mi sembra che, in linea con quanto ritiene la Corte, il quesito referendario nel chiedere l’abrogazione integrale del Jobs Act possegga quella “matrice razionalmente unitaria” data innanzitutto dalla riconduzione ad unità della disciplina dei licenziamenti per i lavoratori assunti fino e dopo il 7 marzo del 2015. A mio parere il quesito referendario - nonostante i “chiaroscuri” già evidenziati - possiede anche un’altra “ratio unitaria” che lo sorregge e, cioè, quella di rafforzare nel complesso le tutele dei lavoratori, soprattutto riespandendo l’area della tutela reale. Un profilo, quest’ultimo, però non valorizzato dalla Corte.
B. Caruso. Anche su questo punto mi limito a rinviare alle mie risposte precedenti.
V. A. Poso. Al punto 4.5. della sentenza la Corte Costituzionale prende in esame tutte le ipotesi in cui il decreto delegato comporta un ampliamento delle tutele (in controtendenza rispetto al complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita), che verrebbe meno con l’approvazione referendaria. Nonostante ciò, resterebbero comunque confermati i requisiti di chiarezza, omogeneità e univocità del quesito posto al corpo elettorale chiamato ad esprimersi a favore o contro l’abrogazione dell’intero decreto delegato, a prescindere dalla differente regolamentazione di alcune fattispecie. Scrive la Corte che nel caso di specie «riman[e] comunque salvaguardato un nesso di coerenza tra il mezzo e il fine referendario: in tal caso non si concreta un uso artificioso del referendum abrogativo (ancora, sentenza n. 16 del 1978), tale da eccedere le previsioni dell’art. 75 Cost.».
Leggete anche Voi questa linea di coerenza? Lo chiedo perché, in contrario avviso a quanto affermato dalla Corte, utilizzando le sue stesse parole, potrebbero ritenersi violati i limiti costituzionali al referendum «essenzialmente preordinati a evitare, da un lato, la distorsione in senso plebiscitario del precipuo strumento di democrazia diretta contemplato dalla Costituzione (sentenze n. 56 del 2022 e n. 16 del 1978) e, dall’altro, l’incisione sulla libertà del voto dell’elettore, che potrebbe maturare «convincimenti diversi» rispetto a una pluralità di questioni profondamente difformi e insuscettibili di essere ricondotte ad unità (ex plurimis, sentenza n. 12 del 2014)».
B. Caruso. Lascio la risposta ai colleghi giuscostituzionalisti che possono ovviamente con la loro autorevolezza dialogare direttamente con la Corte sulle questioni che poni. Dal punto di vista di noi giuslavoristi, la sentenza è ormai un dato; dobbiamo concentrarci sull’esito ed eventualmente sul dopo.
M. T. Carinci. Condivido la posizione della Corte. Come ho già illustrato in precedenza, nel suo complesso l’abrogazione del Jobs Act comporta un rafforzamento delle tutele per i lavoratori; scelta a mio avviso auspicabile.
A. Morrone. Ho già risposto: la forma prevale sulla sostanza, e la Corte riconosce la coerenza tra il mezzo e il fine. Si tratta di una soluzione “lineare” (rispetto a quelle, molto più problematiche, del passato, e a quella della sent. n. 10/2025): che sembrerebbe farci intendere che il referendum abrogativo sia una sorta di “contrarius actus”, diretto ad abolire (solo in negativo) ciò che ha posto il legislatore rappresentativo. La realtà, come ho cercato di dire, è molto più complessa di quanto appare anche da questa schematica motivazione. Condivido questa linea, ma la Corte non l’ha quasi mai seguita.
V. A. Poso. Meditando sulle precedenti risposte date da Andrea Morrone, faccio questa considerazione. La Corte Costituzionale non ha argomentato a sufficienza (come invece ha fatto nella sentenza gemella n. 10/2025 in tema di autonomia differenziata, in ragione della intervenuta sentenza n. 192 del 3 dicembre 2024, che ha dichiarato l’incostituzionalità di diverse disposizioni, rimandando al legislatore ogni opportuno intervento, nel quadro riformatore intrapreso dalla maggioranza parlamentare ora al governo) sul «massiccio effetto demolitorio» che si è riversato sul testo del decreto delegato oggetto di richiesta referendaria, in parti essenziali modificato a seguito degli interventi legislativi e delle sue stesse pronunce. Con tutto ciò che ne consegue in termini di chiarezza e semplicità del quesito referendario, sufficienti a consentirne l’ammissibilità, quanto alla possibilità di esprimere un voto libero e consapevole da parte degli elettori.
A. Morrone. Come ho precisato, proprio dal confronto delle due decisioni emergono le contraddizioni più evidenti della giurisprudenza costituzionale, in questa, e nelle tornate precedenti. Rimando alle precedenti risposte date per i dettagli.
V. A. Poso Dopo la sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si possono prospettare mi sembrano problematici, anche in ragione dei tempi ristretti, per evitare il voto popolare. Innanzitutto – si fa per ragionare a voce alta - quale potrebbe essere l’intervento del legislatore (escluderei quello demolitorio, ovviamente, anche in ragione della attuale maggioranza parlamentare al governo) sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
M. T. Carinci. Come dici, anche a me sembra decisamente improbabile che il legislatore intervenga in questo momento. Infatti, quello che sarebbe necessario per evitare il referendum - a parte l’abrogazione del Jobs Act - sarebbe la rimodulazione complessiva della disciplina dei licenziamenti per tutti i lavoratori, assunti fino e dopo il 7 marzo 2015, riconducendo ad unità il sistema delle tutele. Ciò, tuttavia, comporterebbe scelte politicamente assai delicate: decidere se posizionare il discrimen fra tutela reale ed obbligatoria nel punto fissato dall’art. 18 St.lav. o dal Jobs Act o fare scelte ancora diverse; decidere se rimodulare l’importo della tutela indennitaria; definire quali datori di lavoro debbano essere soggetti all’una o all’altra tutela, ecc.
Voglio qui ricordare l’esercizio teorico compiuto dai colleghi del “Gruppo Freccia Rossa” che di recente hanno redatto un testo di riforma offerto al dibattito della comunità accademica: quel “progetto di legge”, pur sicuramente ben congegnato sotto il profilo tecnico e completo, presta però il fianco (ed ha prestato il fianco nel convegno tenutosi presso l’Università di Bologna il 21 febbraio 2025) a molte critiche perché decisamente sbilanciato a sfavore dei lavoratori.
Su un punto in ogni caso un intervento del legislatore sarebbe urgente ed importante: nell’individuazione di nuovi criteri per segnare la distinzione fra grandi e piccoli datori di lavoro. Diversamente sarà la Corte costituzionale, nuovamente investita della questione dall’ordinanza del Tribunale di Livorno del 24 novembre 2024, a dover definire la questione (rinvio, sul punto, alle mie risposte alle precedenti domande).
B. Caruso. Ormai a votare si va, è deciso. Semmai il problema è il dopo.
A prescindere dall’esito del referendum credo che sia opportuno che il Legislatore ponga mano alla disciplina dei licenziamenti e dei suoi rimedi, anche se prevedo che questo non avverrà nel breve medio-periodo, salvo che, soprattutto sul regime delle piccole imprese, la Consulta non scuota in maniera decisiva l’atteggiamento di inerzia opportunistica del parlamento.
Dal punto di vista della razionalità di risulta del quadro normativo post referendum, prescindendo dalla razionalizzazione normativa necessaria, non so quale sia il risultato migliore, se l’abrogazione del Jobs Act o il suo mantenimento (anche ottenuto con il mancato raggiungimento del quorum che equivale, per l’effetto, alla prevalenza del no). Dico questo non in termini di opzione a favore dell’uno o dell’altro esito, ma proprio interrogandomi su quale sia la soluzione migliore sotto il profilo del valore della certezza e della razionalità sistemica del quadro regolativo.
In astratto, su questo insiste molto Maria Teresa, l’esito abrogativo potrebbe comportare un quid pluris di razionalità e certezza in ragione dell’unificazione normativa che si otterrebbe: non più due regimi, ratione temporis, ma uno soltanto. Ma se questo esito per così dire “asettico”, al di là delle diverse regole di merito, fosse l’obiettivo dei promotori, il risultato auspicato non cambierebbe molto perché il tempo andrebbe comunque verso l’unificazione dei regimi ancorché con il prevalere del Jobs Act sulla Fornero, che è invece l’esito opposto perseguito.
Ribadisco però che il referendum non è la soluzione, ma semmai il problema, meglio è un problema che aggroviglia il problema esistente e non lo risolve.
Onde l’esercizio teorico a cui ci siamo dedicati come “Gruppo Freccia Rossa” e a cui accennava prima Maria Teresa.
Non entro nel merito dei contenuti e delle proposte e rinvio i lettori di questa intervista alla lettura del testo che sarà presto pubblicato ma che è stato già fatto circolare in occasione del convegno Bolognese, anche se la nuova versione tiene conto dei rilievi tecnici costruttivi che sono stati proposti da molti colleghi in quella sede. Dico solo che il giudizio di Maria Teresa, di essere un testo sbilanciato a sfavore dei lavoratori, mi sembra non solo esso stesso sbilanciato, ma soprattutto ingeneroso nei confronti dei componenti del “Gruppo Freccia Rossa”, certamente più vicini alle posizioni pro referendum e che hanno raggiunto rispetto a coloro, come il sottoscritto, meno schierati con esse, un compromesso che ritengo ragionevole e tecnicamente adeguato. A dimostrazione che il metodo deliberativo e l’arte dell’ascolto reciproco, non scevra da ragionevoli confutazioni, serve a trovare incroci virtuosi, pur partendo da posizione distanti e apparentemente inconciliabili.
A. Morrone. Anche io ritengo ormai improbabile un intervento legislativo, è più facile contare sull’astensionismo (molto probabile anche in questa tornata, venuto meno il referendum con maggiore appeal mediatico, quello sul regionalismo differenziato). Il fatto è, per rispondere in positivo, capire quale dovrebbe essere un intervento legislativo “utile” al fine di evitare il referendum. In questo caso vale l’art. 39 della legge n. 352/1970, che chiede modifiche sostanziali (relative ai “principi fondamentali” o ai “contenuti essenziali”). Nella giurisprudenza si desume che l’intervento legislativo successivo, per bloccare il referendum dovrebbe soddisfare l’obiettivo (soggettivo? oggettivo? È incerto!) della domanda referendaria. Nel nostro caso, il minimo sufficiente, sarebbe la mera abrogazione del d.lgs. n. 23/2015.
V. A. Poso. Sono così ovvi e scontati gli scenari che si prospettano in caso di esito positivo del voto popolare? Mi sono chiesto, ad esempio, e lo chiedo a Voi, se si risolve tutto con l’azzeramene della normativa del 2015, con la semplice reviviscenza della normativa precedente anche per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Sarebbe, quantomeno, necessaria una norma transitoria.
M. T. Carinci. L’abrogazione del Jobs Act non richiede a mio parere una disciplina transitoria. Infatti, l’esito positivo del referendum non determina nel nostro caso alcun vuoto di tutela: tutti i licenziamenti irrogati dal giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto che attesta l’esito positivo del referendum (art. 37, c. 2 l. 352/1970) saranno infatti soggetti ad un sistema di tutele esaustivo e completo già vigente e dunque immediatamente operativo: l’art. 18 St.lav. e la l. 604/1966.
Ove si ravvisasse, però, l’opportunità politica di dar tempo ai datori di lavoro di adattarsi alla modifica normativa, l’art. 37, c. 2 l. 352/1970 contempla comunque la possibilità che, su proposta del Ministro del Lavoro e previsa delibera del Governo, il Presidente della Repubblica, con il decreto che attesta l’avvenuta abrogazione del Jobs Act, fissi un termine, non superiore a 60 giorni, per l’entrata in vigore dell’abrogazione (art. 37, c. 2, l. 352/1970).
B. Caruso. Ritengo altamente improbabile l’esito positivo della prova referendaria e la conseguente abrogazione del Jobs Act. Gli osservatori tendono a pronosticare un nulla di fatto conservativo per mancato raggiungimento del quorum.
A. Morrone. Non ho le idee chiare, proprio perché la ricostruzione del quadro normativo dipende essenzialmente dall’interpretazione, in assenza di un intervento di razionalizzazione del legislatore. Io penso che, all’esito positivo della consultazione, resti ferma la confusione normativa che caratterizza questa materia, dopo i ripetuti interventi positivi, le numerose pronunce della Corte costituzionale. Che, va ricordato, ha denunciato la confusione normativa della materia e, più volte, ha sollecitato l’intervento del legislatore. Un referendum abrogativo, anche letto nella direzione dell’applicazione della “riforma Fornero” in luogo della disciplina abrogata dagli elettori, non farebbe chiarezza. Penso, in particolare, che il risultato sarà quello di vedere crescere il ruolo e il protagonismo creativo del giudice del lavoro, cui, nei fatti, viene riconsegnata questa materia nelle coordinate larghe e confuse delle leggi vigenti. Sul piano della politica del diritto non vedo molte luci. Quali saranno gli effetti sul mercato del lavoro? Quali i risultati per la Cgil in termini di “forza politica”? Quali, soprattutto, i vantaggi effettivi per i lavoratori di fronte alle sfide dell’economia e della politica presenti?
V. A. Poso. Quali potrebbero essere le ripercussioni sul mercato del lavoro e, più in generale, sul tessuto sociale ed economico, in caso di esito positivo del referendum? Credo che siano maturi i tempi per realizzare una regolamentazione, organica e semplificatoria, della materia dei licenziamenti come richiesto anche dalla Corte Costituzionale nelle sentenze di monito al legislatore.
A. Morrone. L’unica conseguenza del referendum è di avere posto all’attenzione dell’opinione pubblica la necessità – che non nasce col referendum – di una profonda riforma della disciplina dei licenziamenti illegittimi, da riscrivere pienamente in linea, nell’incertezza del quadro economico generale (e non solo), con i principi della Costituzione. In questa direzione molto va fatto. I protagonisti di questa stagione sono all’altezza? Nei limiti della politica (legislativa e sindacale), quel che resta è l’egemonia della giurisdizione. Ma è questa la strada costituzionale per una tutela “eguale” del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi?
B. Caruso. Ho già risposto a questa domanda. Mi limito a richiamare lo sforzo riformatore compiuto dal “Gruppo Freccia Rossa”, anche in termini di dignitoso compromesso tra le diverse posizioni.
M. T. Carinci. Come anticipavo, diverse indagini sul campo hanno dimostrato - dopo le modifiche dell’art. 18 St.lav. ad opera della cd. “Legge Fornero” (l. 92/2012) e dell’ulteriore arretramento della disciplina ad opera del Jobs Act - che la diminuzione delle tutele per il licenziamento non determina di per sé un incremento dell’occupazione; dubito, dunque, che un irrobustimento di quelle tutele possa bloccare la crescita occupazionale con un impatto negativo sul mercato del lavoro.
Penso, invece, che l’esito positivo del referendum sarebbe un segnale importante nella direzione di una maggiore tutela del lavoro e di una rinnovata attenzione verso una componente fondamentale della nostra società: i lavoratori. Il momento storico richiede una forte coesione sociale per fronteggiare le difficili sfide che provengono da un quadro geopolitico in movimento, che richiederà prevedibilmente l’uso di ingenti risorse per la difesa.
Le leggi a tutela del lavoro - e del licenziamento in particolare - possono dare un contributo importante affinché i lavoratori possano percepirsi ed essere percepiti per quello che in realtà sono: una parte fondamentale del Paese, da proteggere e valorizzare per il loro contributo essenziale al benessere collettivo.
Immagine: Honoré Sharrer, Lavoratori e dipinti, 1943, Moma, New York.
Sommario [1]: 1. L’impatto sistematico - 2. La triade valoriale sulla quale si fonda questa decisione - 3. Riflessioni conclusive.
1. L’impatto sistematico
La Corte costituzionale con la decisione n. 33 del 2025 interviene ancora una volta[2] sulla disciplina delle adozioni per dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis della legge 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6, non include le persone singole residenti in Italia tra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità ad adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione. La questione di costituzionalità dell’art. 29-bis l. adoz. era stata sollevata dal Tribunale dei minorenni di Firenze con ordinanza del 20 maggio 2024[3].
La lettura della decisione che, come dirò nelle pagine seguenti, si caratterizza per una coerenza sistematica e per una composizione mirabile dei vari interessi in gioco, suscita nell’interprete sensazioni duplici. Da un lato è innegabile il plauso verso un’apertura dell’adozione alle persone singole da tempo attesa. Le aperture previste nella normativa europea[4] e internazionale[5] non avevano finora trovato riscontro nella legge italiana sull’adozione, sebbene auspicate da tempo da parte della dottrina[6] e dalla stessa giurisprudenza costituzionale[7]. Dall’altro, tuttavia, aumenta il senso di smarrimento dell’interprete e insorgono vari e tanti dubbi, tra i quali, quello della futura estensione degli effetti anche con riferimento all’adozione nazionale e alle coppie di fatto[8]. Emerge così con forza la necessità, ormai non più procrastinabile, di una revisione generale del sistema delle adozioni, da tempo auspicata e incentivata dalle recenti pronunce della Corte costituzionale[9] che hanno innovato e al contempo accorciato le distanze tra adozione piena e adozione in casi particolari. In questa sede non è possibile affrontare questo grande tema. Mi concentrerò su un altro quesito che la lettura di questa decisione solleva. Quali sono gli scenari futuri e quale impatto produrrà questa apertura nel quadro generale dei modelli di genitorialità diversi dalla genitorialità di sangue? Occorre a mio parere rispondere al quesito se l’apertura dell’adozione alle persone singole sia foriera di ulteriori aperture anche con riferimento ad altri modelli di genitorialità, quale per esempio, quella derivante da PMA, ovvero sia da ritenersi circoscritta al modello adottivo, quale modello di genitorialità connotato dal principio di solidarietà verso un minore abbandonato o comunque vulnerabile (mi riferisco in quest’ultimo caso alle ipotesi previste dall’art. 44 l. adoz. del modello dell’adozione in casi particolari). In parole povere occorre decidere se assegnare a questa importante decisione una portata circoscritta al settore delle adozioni oppure una portata sistematica più ampia volta a ricomprendere i nuovi e tanti modelli di genitorialità, correlati ai nuovi e tanti modelli familiari[10]. La tentazione di estenderne l’impatto è evidente dato che, sia nel modello genitoriale adottivo che in quello derivante da PMA, è interessato il principio di autodeterminazione, enucleato nel diritto alla vita privata dell’art. 8 della Cedu, e in quanto in entrambi i casi si tratta di stabilire quali sono i requisiti di accesso alla genitorialità. Deve dirsi che la commistione tra i due modelli di genitorialità è stato reso agevole da un percorso giurisprudenziale che, in mancanza di una disciplina ad hoc per la genitorialità di intenzione, ha fatto ricorso all’adozione, sia pure nel tipo dell’adozione in casi particolari, portando ad una inevitabile commistione tra le ragioni dell’uno e dell’altro modello[11]. È innegabile che se si fosse tentati da quest’ultima prospettiva forse verrebbe in gioco non solo il diritto alla vita privata, ma anche il diritto alla vita familiare, sia pure nella sua variante genitoriale[12], in quanto si avrebbe il riconoscimento di un ulteriore modello familiare, quello monoparentale. Occorrerebbe in tal caso chiedersi se la nozione di genitorialità sia mutata e non richieda più come in passato la presenza di due genitori di sesso diverso, ma unicamente la presenza di un focolare domestico e familiare, qualunque sia la sua composizione, che possa assicurare al bambino cura, protezione e affetto.
La necessità di rispondere a questo quesito si pone con urgenza anche considerando che a breve la Corte costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi proprio sulla legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 40 del 2004 nella parte in cui esclude l’accesso alla PMA alla donna single[13].
Al tentativo di rispondere a questo quesito sono dedicate le pagine che seguono. Prima di tentare, ritengo preliminare dar conto delle rationes fondanti di questa questa bella e rivoluzionaria decisione che ha il merito, oltre che di aver superato il varco dei requisiti soggettivi contenuto nell’art. 6 l. adoz., di contribuire all’avanzamento del diritto della famiglia e delle persone. Saranno proprio le ragioni della decisione che mi supporteranno nel tentativo di rispondere al quesito che ho posto.
2. La triade valoriale sulla quale si fonda questa decisione
Volendo sintetizzare le ragioni che hanno portato la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis l. adoz., come è indicato anche nel titolo di questa nota, si tratta di una triade valoriale composta da tre principi che tutti sono posti a fondamento della decisione e che dialogano tra loro: a) il principio di autodeterminazione; b) il principio di solidarietà e c) il principio del best interest of the child.
Come già accennato, si tratta di principi che non sono monadi isolate, ma dialogano l’uno con l’altro.
a) Il principio di autodeterminazione, espressione del diritto alla vita privata ai sensi dell’art. 8 Cedu, viene evocato dalla Corte quale libertà correlata ai principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 31 Cost. ed esso è il fondamento della scelta di diventare genitori, che non deve essere arbitraria e non si traduce mai in diritto alla genitorialità, diritto che la stessa Corte non ha mai riconosciuto esistente[14]. Il principio di autodeterminazione sottende diversi interessi tra i quali l’interesse del minore e, in questo caso, il principio di solidarietà. Si afferma infatti in motivazione che “se dunque la scelta di diventare genitori rientra nell’ampia nozione di autodeterminazione, quest’ultima, tuttavia, può sottendere diversi interessi”. Significativo appare a chi scrive altro passaggio in cui si sottolinea che “i presupposti costitutivi di un vincolo genitoriale non solo, infatti, coinvolgono una pluralità di interessi, ma devono essere anche orientati alla realizzazione del potenziale figlio, cui è inscindibilmente collegato il vincolo genitoriale”.
Appare allora evidente che nella ricostruzione della Corte il principio di autodeterminazione non è fine a se stesso, ma deve dialogare con altri principi, che valgono a legittimarlo e a sostenerlo. Questa sottolineatura della Corte appare a chi scrive determinante in quanto nel dibattito sulle nuove genitorialità pone uno spartiacque necessario tra le aspirazioni degli adulti e i reali interessi dei minori.
b) Altro principio che si collega all’autodeterminazione è il principio di solidarietà. Si afferma in motivazione che “il diritto alla vita privata, inteso come libertà di autodeterminazione, che si declina nel contesto in esame, quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, rendendosi disponibile all’adozione di un minore straniero…. si coniuga con una finalità di solidarietà sociale, in quanto rivolge le aspirazioni alla genitorialità a bambini o ragazzi che già esistono e necessitano di protezione”. In queste parole della Corte riecheggiano le parole della dottrina[15] che già in passato, proprio sollecitando l’apertura dell’adozione alle persone singole aveva significativamente evidenziato che “tenendo ferma la chiusura nei confronti della persona singola l’Italia si è messa in una posizione isolata rispetto a tutti gli altri ordinamenti. Si tratta di una posizione che va superata”, sottolineando che “in contrario non vale addurre l’interesse del minore alla bigenitorialità” in quanto se “è certamente più rispondente all’interesse del minore essere educato da due genitori, vivere con una persona che lo mantenga lo educhi e lo curi come un figlio è per il minore abbandonato una scelta esistenziale incomparabilmente più favorevole rispetto a quella del ricovero presso una struttura di assistenza”. La stessa dottrina non era rimasta inerte ma si era adoperata per lavorare ad un progetto di legge che includeva tra gli adottanti le persone singole, gli uniti civilmente, le coppie di fatto[16].
Molto importante è il collegamento operato dalla Corte tra autodeterminazione e solidarietà, elemento questo che rappresenta il nucleo fondante della genitorialità adottiva. Solo per questo modello di genitorialità l’aspirazione degli adulti non è autoreferanziale ma solidale, in quanto diretta a soddisfare il diritto del minore a crescere in una famiglia[17] e a non restare abbandonato. Riemerge così la vera finalità dell’istituto dell’adozione[18], che è quella di dare una famiglia a chi è stato abbandonato. È proprio questa finalità solidaristica che consente di porre una marcata linea di distinzione con altre genitorialità, come quella derivante da PMA.
c) Il collegamento tra autodeterminazione e solidarietà conduce al terzo principio, ai primi due intimamente connesso: il principio del best interest of the child, o principio del migliore interesse del minore. La Corte si pone il problema di quale sia il migliore interesse del minore abbandonato e la risposta non può che essere quella di non restare abbandonato. L’apertura verso la persona singola è una soluzione che trova piena legittimazione nell’esigenza di cura e di protezione del minore senza una famiglia. In particolare la Corte rileva come la restrizione della platea dei minori abbandonati incida concretamente sull’esigenza della loro protezione e tutela. Significativo un passaggio della Corte in cui si evidenzia che “la possibilità di incidere sull’effettività della tutela dei bambini abbandonati è un rischio riconducibile anche alla restrizione della platea dei potenziali adottanti”. Questa preoccupazione, insieme a quella già evidenziata di tutela di “bambini che già esistono e che necessitano di protezione” pone in luce la diversa declinazione che assume l’interesse del minore nella genitorialità adottiva rispetto a quella derivante da PMA, come peraltro la Corte costituzionale aveva da tempo evidenziato[19]. Nella genitorialità adottiva, sia nell’adozione piena che in quella in casi particolari, si tratta di valutare il migliore interesse di un bambino già esistente. Nella genitorialità derivante da PMA, si tratta di valutare il migliore interesse di un bambino non ancora esistente, di cui si programma la procreazione. La distinzione non è di poco conto in quanto solo nel primo caso e quindi nel modello di genitorialità adottiva, emerge il profilo solidaristico di una genitorialità finalizzata a supplire la famiglia mancante. È quindi evidente che l’adozione si pone quale strumento direttamente collegato all’interesse del minore ad una famiglia e, come è stato efficacemente affermato nell’ordinanza di rimessione alla Corte, “il minore è il vero centro di gravità dell’istituto dell’adozione”[20]. Nella genitorialità derivante da PMA, non essendo ancora esistente il minore, il suo interesse appare di difficile individuazione e spesso risulta confuso con gli interessi degli adulti.
3. Riflessioni conclusive
Fatta questa breve sintesi sulla triade valoriale che è posta a fondamento di questa decisione, tento di provare a rispondere al quesito che ho posto all’inizio di questo contributo. Alla luce delle considerazioni in parte svolte, credo che la portata innovativa di questa decisione vada limitata all’istituto dell’adozione e non sia estensibile ad altri modelli di genitorialità, quale per esempio quella derivante da PMA. Ciò perché la triade valoriale composta da autodeterminazione, solidarietà e interesse del minore a non restare abbandonato non è riproducibile per altri modelli di genitorialità, che si fondano su ragioni diverse, quale la PMA che presuppone uno stato di infertilità patologica.
È proprio la funzione solidaristica che dà legittimazione ad un modello di famiglia monoparentale che sarebbe allo stato difficilmente replicabile per altri modelli di genitorialità.
Ciò non vuol dire che il legislatore non possa in futuro ritenere che anche le persone singole possano accedere alla PMA, come avviene in altri Paesi del contesto europeo, ma questo è un altro capitolo della storia ancora da scrivere, che si fonderebbe su altre e diverse ragioni ed implicherebbe in ogni caso una riforma della l. n. 40 e dei suoi presupposti.
Il merito di questa decisione risiede proprio nel far emergere con rigore sistematico le criticità dell’attuale legge sulle adozioni e nell’evidenziare la necessità ormai non più procrastinabile di un intervento del legislatore che possa dare coerenza e armonia a questo importante modello di genitorialità che coniuga desiderio di genitorialità e dono di un focolare familiare ai bambini che sfortunamente ne sono privi.
[1] Dedico questo mio scritto al ricordo indelebile del mio adorato Papà, giurista illuminato e lungimirante, che da tempo aveva rilevato la necessità di aprire l’adozione alle persone singole, in nome del principio di solidarietà e del diritto del minore a non restare abbandonato.
[2] Nell’arco degli ultimi anni, questa è la terza decisione significativa che incide sulla disciplina delle adozioni: la n. 79 del 2022 e la n. 183 del 2023.
[3] T. Minorenni Firenze, 20 maggio 2024 che ha sollevato la questione di costituzionalità con riferimento agli articoli 2 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Cedu.
[4] V. l’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 1967 che, dando ingresso all’adozione quale strumento di tutela dei minori, aveva espressamente previsto l’adozione da parte dei single. V. al riguardo le osservazioni di C.M. BIANCA, Note per una revisione dell’istituto dell’adozione, pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma, Torino, 2023, 259 e ss.
[5] V. art. 2 della Convenzione dell’Aja sull’adozione internazionale.
[6] V. C.M. BIANCA, Note per una revisione dell’istituto dell’adozione, pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma, cit., 259 e ss.
[7] C. Cost. n. 183 del 1994.
[8] V. al riguardo C. 19 dicembre 2023, n. 35437, decisione che ha affermato che l’adozione estera può essere riconosciuta in Italia anche se i soggetti adottanti non sono sposati. Interessante la motivazione: «Ove ricorrano le condizioni per il riconoscimento della sentenza di adozione straniera, ex art. 41, comma 1, l. 184/1983, la mancanza di vincolo coniugale tra gli adottandi non si traduce in una manifesta contrarietà all'ordine pubblico, ostativa al suddetto riconoscimento automatico degli effetti della sentenza straniera nel nostro ordinamento, anche a prescindere e dall'accertamento in concreto della piena rispondenza del provvedimento giudiziale straniero all'interesse della minore»
[9] V. le decisioni citate alla nota 2 del testo.
[10] V. M. ACIERNO, L’autodeterminazione non egoista secondo la Corte costituzionale, in Questione giustizia 25 marzo 2025.
[11] Al riguardo è interessante rilevare che nell’ordinanza del Tribunale di Firenze (del 9 settembre 2024, cit.) che ha sollevato il problema di legittimità costituzionale dell’art. 5 della l. n. 40 del 2004 si sia fatto un rinvio proprio all’adozione in casi particolari: “L'art. 5 richiamato prevede un'irragionevole disparità di trattamento, senza che possa tale disparità essere giustificata da alcun interesse costituzionalmente rilevante, tra categorie di soggetti, a seconda che si tratti di coppia o di single, sebbene nel nostro ordinamento venga ammessa e tutelata la famiglia monogenitoriale (vedi adozione di persone singole in casi particolari) e a seconda delle risorse economiche”.
[12] Nell’ordinanza del Tribunale dei minorenni che ha sollevato il giudizio di legittimità costituzionale viene preliminarmente escluso che la questione riguardi il diritto alla vita familiare che “in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo presupporrebbe l’esistenza di una famiglia o quanto meno la potenziale relazione tra, ade esempio, un figlio nato fuori dal matrimonio e il padre naturale o … il rapporto che deriva da un’adozione legale e genuina sottolineando come l’art. 8 non garantisce ex se né il diritto di fondare una famiglia né il diritto di adottare”.
[13] La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal T. Firenze, 9 settembre 2024: “È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, l. 16 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui esclude la donna single dall'accesso alle tecniche di p.m.a. (anche eterologa maschile), poiché tale disposizione contrasta sia con gli artt. 2,3,13,32 e 117 della Costituzione che con gli artt. 8 e 14 della CEDU, configurando un'irragionevole disparità di trattamento nonché una violazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte procreative, del rispetto della vita privata e familiare e del diritto all'integrità fisica e psichica”
[14] V. Corte cost. n. 33 del 2021, n. 230 del 2020 e n. 221 del 2019
[15] Così testualmente nei passaggi indicati in corsivo, C.M. BIANCA,
[16] V. C.M. BIANCA, Proposta di Riforma sull’adozione (condivisa con gli allievi), in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma, cit., 353; ivi, 358 v. anche C.M. BIANCA, Ipotesi di revisione della disciplina dell’adozione. Questa proposta che prevedeva l’apertura alla persona singola che avesse compiuto 25 anni, alle coppie di fatto registrate da almeno tre anni e alle coppie unite civilmente da almeno tre anni. Questa proposta è stata accolta con piccolissime modifiche nel progetto di legge n. 630 presentato il 15 maggio 2018 dai deputati Rosato e altri. Si riporta qui la proposta di modifica dell’art. 6 l. adoz: “ART. 6. – 1. L’adozione è consentita alle coppie coniugate da almeno tre anni, alle coppie unite civilmente da almeno tre anni e alle coppie di conviventi di fatto che abbiano iniziato la convivenza da almeno tre anni. L’adozione è consentita anche alle persone singole di oltre trenta anni di età quando abbiano avuto un minore in affidamento familiare per almeno tre anni”.
[17] Sia consentito al riguardo il rinvio ad un mio scritto dedicato al diritto del minore alla famiglia, in cui operavo la distinzione tra il diritto preliminare alla propria famiglia di origine e al diritto succedaneo ad avere comunque una famiglia, in caso di abbandono dalla famiglia di origine, M. BIANCA, Il diritto alla famiglia, in Autorità Garante per l’Infanzia e l’adolescenza, La Convenzione delle Nazioni unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Conquiste e prospettive a 30 anni dall’adozione, Roma, 241 e ss.
[18] Così testualmente C.M. BIANCA, Abbandono del minore e diritto di crescere in famiglia: spunti in tema di adozione speciale, in Studi Sassaresi, VII, Serie III. 1979-80. Napoli, 191 e ss, con il titolo originario La situazione di abbandono: in particolare, adozione e funzione di solidarietà e poi pubblicato in C.M. BIANCA, Realtà sociale ed effettività della norma. Scritti giuridici, Vol. I. t. 1, 605: “La situazione di abbandono costituisce il punto nodale dell’istituto dell’adozione speciale. Ciò si spiega in quanto la situazione di abbandono identifica la funzione dell’istituto, che è una funzione di solidarietà volta ad offrire al minore una nuova famiglia e ad assicurargli quell’assistenza che la famiglia di origine non ha potuto o non voluto dargli”.
[19] C. cost. n. 221 del 2019, così testualmente in motivazione: “Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo”.
[20] V. in motivazione la citata ordinanza del T. Minorenni di Firenze, 20 maggio 2024.
Immagine: Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi, olio su tela, 1555, Museo Nazionale, Poznán.
Qui la decisione commentata.
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