ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Valparaiso, ricordo di Matilde e Pablo
di Paolo Spaziani
Da Santiago del Cile la baia di Valparaiso dista poco più di 100 chilometri.
Per andarvi si può prendere un autobus sull’Avenida Bernardo O'Higgins, nei pressi del Palacio de la Moneda. Inseguendo il sole al tramonto, il traffico dirada verso il cielo rosso del grande oceano, mentre l’odore del mare si impadronisce dei sensi e il rumore della metropoli cede il posto al silenzio degli aironi in volo.
La luminosa Avenida cittadina si spegne nella sonnolenta autopista costiera, ove il traffico, pur intenso nei fine settimana estivi, sembra progressivamente illanguidirsi, come a preconizzare il riposo delle vicine spiagge.
***
Valparaiso non era tra le mie destinazioni; avevo viaggiato per il Pantanal brasiliano cercando più volte di raggiungere Corumbà, da dove avrei voluto rientrare a Bahia, per poi salutare il Brasile e tornare a casa.
Peraltro, Corumbà sembrava irraggiungibile, così Hans – che avevo conosciuto navigando lungo il fiume Paraguay, su un barcone diretto ad Asunción – mi aveva convinto ad andare in Cile.
Era un ragazzo svizzero-tedesco, di una ricchissima famiglia di Zurigo. Viveva di rendita e passava il tempo girando il mondo, particolarmente il Sud America.
In un primo momento aveva deciso di scrivere un libro sulla musica folk brasiliana e sull’onda di questa decisione aveva viaggiato per tutto il Nordeste del Brasile, dal Cearà al Maranhão, dallo Stato di Bahia al Pernambuco e al Sergipe.
Successivamente aveva concepito l’ambizioso progetto di scrivere un volume di archeologia: ma non gli interessavano i Maya o gli Inca, era piuttosto attratto dai Moai e dal mistero della civiltà scomparsa di una piccola isola, situata a circa 3.500 miglia al largo di Valparaiso.
Durante il viaggio mi aveva parlato dell’originario gruppo di donne e uomini che vi sarebbe giunto in canoa dalle Marchesi, solcando coraggiosamente l’oceano per miglia e miglia a bordo di fragili canoe.
Essi – mi disse – si riconoscevano in un unico capostipite, colui che li avrebbe guidati in quel mitico viaggio, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi fino a scolorarsi in una figura diafana: il leggendario Hotu-Matua.
Nell’ascoltarlo, mi pareva di ricordare quanto avevo letto nei manuali di diritto romano sulla distinzione tra familia proprio iure, familia communi iure e gens nella Roma più antica.
Il nucleo originario degli abitanti di quell’isola era quindi una “famiglia diacronicamente allargata”, collocabile concettualmente tra la gens e la familia communi iure romana, in cui il comune capostipite esisteva nella memoria delle persone, ma non era più certamente identificabile, se non nel ricordo, che annegava nella leggenda.
Sarebbe stata questa figura leggendaria ad ispirare i Moai: i grandi tutori dell’isola che, con il volto verso la preziosa terra e le spalle al mare, avrebbero protetto le persone dai pericoli dell’ignoto pelago, rendendo loro dolce quella terra preziosa.
Solo sette di essi – quelli dell’Ahu Akivi (il luogo dell’anima, l’ombelico della terra, la sede dello spirito) – avrebbero guardato verso il mare; perché nell’onirica visione del religioso Hotu Matu, l’anima della guida leggendaria sarebbe volata attraverso l’Oceano e, dopo avere avvistato l’isola, rientrata nel corpo, avrebbe inviato i più coraggiosi del gruppo, acciocché vi arrivassero per primi e attendessero gli altri. Così sette pionieri avrebbero raggiunto la preziosa terra in anticipo e sarebbero rimasti in attesa per accogliervi il re. Le sette statue rivolte verso il mare sarebbero state erette in loro memoria ed onore.
Valparaiso, dunque, non era una delle mete del nostro peregrinare, ma piuttosto un punto di partenza; il punto da dove avremmo fatto il gran salto nell’immensità del Pacifico; da dove avremmo raggiunto quel luogo così dimenticato dalla storia, eppure pieno di storia, da sembrare la porta di un’altra dimensione: un luogo chiamato Rapa Nui.
***
Dal porto di Valparaiso la nave per l’Isola di Pasqua avrebbe viaggiato per dodici giorni. Ci avrebbe condotti al posto più remoto e isolato del pianeta. Distante quasi 4.000 chilometri dalle coste cilene e oltre 4.000 da Tahiti. Il luogo abitato più vicino – la romanzesca Pitcairn, l’isola dei discendenti degli ammutinati del Bounty – si sarebbe trovato a circa 2.000 chilometri.
All’ultimo momento rifiutai di imbarcarmi. Ero in viaggio da due mesi, avevo voglia di fermarmi e Valparaiso – luogo lirico per eccellenza, dove aveva riposato la sua tumultuosa anima e disteso le membra, stanche di una vertiginosa esistenza, uno dei miei poeti preferiti – mi sembrava il posto giusto per prendere una pausa.
Salutai Hans - ci dicemmo che ci saremmo reincontrati di nuovo, in futuro, in qualche angolo di mondo – e lo vidi sparire tra la folla nel porto.
***
Nei giorni successivi percorsi la baia.
Nonostante l’impietoso incedere di un’edilizia selvaggia, essa non aveva perduto il suo fascino innato. Tra ripidi pendii e dolci declivi sabbiosi, l’azzurro del Pacifico penetrava con lingue profonde i promontori di roccia dura e le penisole friabili di arena rossa.
Come perle preziose, lungo la baia, risaltavano di uno splendore naturale inoffuscabile le spiagge di Renaca, di Cartagena, di Viña del Mar, e, più a sud, di Isla Negra.
Qui, a ridosso del mare, quasi protetta dal rumore delle onde, meta di ininterrotto pellegrinaggio, sorgeva, lunga e stretta, la modesta casa di Pablo Neruda, trasformata in un museo.
Le lunghe vetrate, che chiudevano i piccoli locali, quasi scavalcavano la scogliera protettiva. E mentre questa respingeva con fermezza paziente la spuma sferzante delle maestose onde oceaniche, quelle sembravano quasi invitarle ad invadere l’intimità delle stanze luminose e a travolgere i numerosi oggetti che vi erano ordinatamente contenuti.
L’immagine dell’Oceano che, come un amante temuto e desiderato, è, ad un tempo, attratto e respinto dalla piccola abitazione, colpisce oggi il visitatore prima e più di ogni altra cosa.
Quella stessa immagine, simbolo di grandezza e di violenza, di pericolo e di vitalità, dovette essere tenuta presente dal poeta quando scrisse uno dei più bei componimenti del Canto General: El Gran Océano.
Quella stessa immagine consente, oggi – credo –, di comprendere la poetica di Pablo Neruda, nel suo continuo transitare tra realismo e surrealismo.
L’oceano è il Foro esterno, la realtà, che può essere sia la realtà materiale, composta dai suoi elementi primordiali (terra, acqua, fuoco, aria) o meno primordiali (l’oceano, la montagna, la natura), sia la realtà politica e sociale (la libertà, il popolo, la dittatura, il regime, l’oppressione, la tirannia).
La piccola dimora e le sue vetrate sono il Foro interno, la sfera intima, lirica ed elegiaca, l’anima che alberga in ognuno, il regno dei sentimenti.
La realtà invade l’anima che in parte se ne difende in parte ne viene travolta. I sentimenti sono forgiati dalle sensazioni. L’empirismo di ciò che si prova determina il moto della coscienza che interiorizza la sensazione e la valuta come sentimento.
Questo, dunque, non è altro che l’interiorizzazione della realtà materiale, delle sensazioni, dei sensi; ma in tale interiorizzazione, la realtà materiale viene a perdere la consistenza di mondo inanimato, per elevarsi a entità panteistica, ad ordine spirituale.
L’oceano, penetrato nella piccola casa, non è più soltanto
la potenza distesa delle acque
quanto piuttosto
l’immota solitudine affollata di vite.
E l’onda non è solo
quella che frange le coste e genera
la pace di arenile che contorna il mondo
quanto piuttosto
tempo, forse, o calice colmo
di ogni movimento, unità pura
non sigillata dalla morte, verde viscere
della totalità bruciante.
Anche il sentimento dell’amore è forgiato dalla realtà dei sensi.
Nella poesia Due Amanti Felici, il 48° dei Cento Sonetti d’Amore, due amanti felici sono pane aria e vino, e si fondono in un unico aroma.
Essi
non hanno fine né morte,
nascono e muoiono più volte vivendo,
hanno l’eternità della natura.
Nella poesia Corpo di Donna, componimento della raccolta giovanile Venti poesie d’amore e una canzone disperata, il corpo della donna amata è come la terra per il contadino.
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra.
Nella poesia Quando morrò, 89° dei Cento sonetti, l’amore sopravvive alla morte se l’amante superstite continuerà ad udire lo stesso vento, a sentire lo stesso aroma del mare, a calpestare la stessa arena.
Quando morrò voglio le tue mani sui miei occhi:
voglio la luce e il frumento delle tue mani amate
passare una volta ancora su di me la loro freschezza,
sentire la soavità che cambiò il mio destino.
Voglio che tu viva mentr’io, addormentato, t’attendo,
voglio che le tue orecchie continuino a udire il vento,
che fiuti l’aroma del mare che amammo uniti
e che continui a calpestare l’arena che calpestammo.
L’amore non è per Neruda un’avventura intellettuale. Egli non conosce un concetto di amore. L’amore è metamorfosi incompiuta delle sensazioni nei sentimenti. È trasfigurazione del senso nell’interiorità dell’elegia.
Dunque, non assume dimensioni filosofiche, non è domanda, né risposta, non è sillogismo, non è esercizio di logica. È un insieme disordinato di odori, di sapori, di visioni, di contatti, di suoni. Il sentimento nasce dalla sensazione, esiste in quanto c’è quella.
Peraltro, la sensazione è la sua matrice, ma non il suo limite. La morte della sensazione non determina quella del sentimento. Pur generato dalla sensazione, il sentimento vive di vita propria, si affranca dal senso e diviene afflato di eternità.
Amore mio, se muoio e tu non muori,
amore mio, se muori e io non muoio,
non concediamo ulteriore spazio al dolore:
non c’è immensità che valga quanto abbiamo vissuto.
Polvere nel frumento, sabbia tra le sabbie,
il tempo, l’acqua errante, il vento vago,
ci ha trasportato come grano navigante.
Avremmo potuto non incontrarci nel tempo.
Questa prateria in cui ci siamo trovati,
oh piccolo infinito! la rendiamo.
Ma questo amore, amore, non è finito,
così come non ebbe nascita,
non ha morte, è come un lungo fiume,
cambia solo di terra e labbra
È l’attitudine del sentimento, pur generato dal senso, a rivestirsi di infinito, a sfidare i limiti del tempo.
E nel sonetto successivo, il 93°, l’amore vince la fine consentendo agli amanti di vivere per sempre, confusi nell’eternità di un bacio.
Se un giorno il tuo petto si arresta,
se qualcosa cessa d'andar ardendo per le tue vene,
se la voce nella tua bocca esce senz'essere parola,
se le tue mani dimenticano di volare e s’addormentano.
Matilde, amore, lascia le tue labbra socchiuse
perché quell’ultimo bacio deve durare con me,
deve restare immobile per sempre sulla tua bocca
perché anche così m'accompagni nella mia morte.
Io morirò baciando la tua pazza bocca fredda,
abbracciando il grappolo perduto del tuo corpo,
cercando la luce dei tuoi occhi chiusi.
Così quando la terra riceverà il nostro abbraccio
andremo confusi in una sola morte
a vivere per sempre l’eternità di un bacio.
“Se un giorno il tuo petto si arresta”.
Leggevo questo sonetto, mentre, salito al primo piano della casa, avevo abbandonato i tanti, forse troppi, oggetti del piano inferiore e mi ero rifugiato nella silenziosa camera da letto, donde si udiva l’Oceano ritmicamente infrangersi sulla barriera delle rocce sottostanti.
Lo leggevo mentre immaginavo Matilde e Pablo sotto le coperte, dondolanti al mormorio della risacca, accompagnati, nell’amore e nel riposo, nella veglia e nel sonno, nelle parole e nel silenzio, dalla presenza infinita del Pacifico.
Lo leggevo quando, voltato l’angolo del giardino della villa, proprio di fronte all’oceano, scoprii la lapide nera dei due amanti, con i loro nomi lievi incisi: Matilde Urrutia e Pablo Neruda.
Non distante, eppure lontana dalle molte cose della casa.
Separata dai numerosi oggetti del passato.
Quasi sospesa come in un luogo e un tempo immutabili ed eterni.
Un tempo presente come le persone.
Come l’amore che le unì.
Immagine: Porto di Valparaíso via Wikimedia Commons.
Riteniamo opportuno per l’attualità del tema ripubblicare questo contributo, già pubblicato il 13 novembre 2018 su Questa Rivista
Il Tribunale dei ministri, questo sconosciuto. Annotazioni sparse
di Zaira Secchi
Parlare del Tribunale dei ministri è come entrare nella storia della Repubblica.
Il testo originario della Costituzione licenziato nel dicembre 1947 dall’Assemblea Costituente prevedeva all’art. 96, in combinazione con gli artt. 134 e 135, che fosse la Corte Costituzionale a giudicare il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, dopo la loro messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune. La legge costituzionale 11 marzo 1953, numero 1, consente infine l’effettivo funzionamento della Corte Costituzionale con l’introduzione delle norme integrative di cui all’art. 137, Cost. .
Pertanto in origine per i ministri era prevista una giurisdizione speciale del tutto analoga a quella del Presidente della Repubblica, per il quale invece, ancora oggi, è stata mantenuta la competenza della Corte Costituzionale nell’ambito di un procedimento che più recentemente anche da noi è stato denominato “impeachment” (anche quest’ultimo salito agli onori della cronaca da poco!), mutuando in maniera impropria tale termine dall’ordinamento anglosassone, istituto ivi utilizzato a partire dal 1376 per colpire i ministri del Re resisi responsabili di gravi prevaricazioni.
La disciplina oggi ancora in vigore viene, infine, introdotta nel 1989 con la legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, qui, invece, il destino penale dei ministri viene separato da quello del Presidente della Repubblica, consegnandolo alla giurisdizione ordinaria, ma attraverso un procedimento speciale molto articolato, pieno di particolarità e caratterizzato da un difficile sbocco giudiziale. A questa svolta si giungeva ben 11 anni dopo l’iniziativa popolare referendaria, quando, in seguito alla deflagrazione del cosiddetto “scandalo Lockheed” nel 1977, in cui erano stati coinvolti alcuni ministri, si era proposto di eliminare la giurisdizione speciale che non si percepiva più come garanzia, bensì come mero privilegio a favore dei ministri, che si volevano invece equiparati agli altri cittadini. Però il quesito, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale insieme ad altri tre tra gli otto proposti, veniva accantonato un mese prima della sua sottoposizione alla volontà popolare grazie ad un intervento legislativo operato con legge 10 maggio 1978, n. 170, che in realtà non mutava affatto la natura di “giustizia politica” propria del procedimento originario. E’ inoltre significativo ricordare che il caso Lockheed fu l’unica vicenda giudiziaria penale a carico di ministri della Repubblica, che, passando attraverso le forche caudine della Commissione parlamentare inquirente, riuscì ad approdare davanti alla Corte Costituzionale. Alla svolta costituzionale del 1989 si arrivava, infine, dopo due anni dall’esito referendario -al secondo tentativo si riuscì, infatti, a tenere il relativo referendum- che abrogò nel novembre 1987 i primi otto articoli della legge 10 maggio 1978, n. 170, proprio quella con la quale si era “dribblata” la precedente iniziativa referendaria.
Con la legge costituzionale del 1989, quella ancora oggi in vigore, il legislatore ha spostato il connotato della “specialità” dalla figura del Giudice, prima Corte Costituzionale oggi Giudice ordinario, al procedimento che per la sua complessità ed articolazione può essere rappresentato visivamente come un percorso ad ostacoli, di cui l’ultimo ostacolo è rappresentato dall’autorizzazione a procedere. Tale autorizzazione può essere concessa dalla Camera di appartenenza o dal Senato in tutti i casi in cui il Presidente del Consiglio o il ministro non appartenga a nessuna delle due (come sarebbe il caso, per esempio, dell’attuale Presidente del Consiglio, che non fa parte di nessuna delle due Camere). Ma tale snodo del procedimento crea una radicale discontinuità tra il Tribunale dei ministri, che per tutta la fase delle indagini si muove secondo le regole del diritto penale valevoli per tutti, e la Camera interpellata, che in sede di autorizzazione a procedere è legittimata ad esprimere un giudizio, assolutamente insindacabile e di natura squisitamente politica, su quale interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o su quale preminente interesse pubblico nella funzione di governo sia concretamente prevalso o meno rispetto all’interesse invece tutelato dalla norma incriminatrice. L’autorizzazione a procedere concessa dalla competente Camera vale come condizione di procedibilità e risulta necessaria perché il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello competente per territorio possa, poi, procedere oltre secondo le norme ordinarie del codice di procedura penale, ma senza che nell’organo giudicante ci siano quegli stessi magistrati che hanno fatto parte del Collegio che ha svolto le indagini e che ha richiesto l’autorizzazione a procedere.
Iniziamo con l’individuare quale sia l’autorità giudiziaria a cui è stata assegnata la competenza ad indagare e a cui il Procuratore della Repubblica deve, omessa ogni indagine, trasmettere entro 15 giorni gli atti con le sue richieste. Va precisato innanzitutto che il ruolo del PM è più incisivo di quello che sembrerebbe emergere da una prima lettura degli articoli di legge, infatti egli: 1) prima di inviare gli atti al Tribunale dei ministri, deve comunque avere svolto tutte quelle indagini che gli consentano di qualificare il fatto come reato ministeriale, 2) deve dare parere obbligatorio, ma non vincolante, sull’archiviazione, potendo anche richiedere ulteriori indagini, se ritenute necessarie, 3) deve dare il proprio parere al Collegio che ritenga di rimettere gli atti alla competente Camera per acquisirne l’autorizzazione a procedere, 4) sarà il PM stesso, nel caso in cui lo richieda il Tribunale dei ministri, a trasmettere gli atti alla Camera competente per l’autorizzazione a procedere.
Il Tribunale dei ministri è un organo collegiale inesistente nello scenario ordinario e viene costituito ad hoc con sorteggio dei tre componenti ogni biennio nell’ambito di ogni singola Corte di appello: ha infatti una competenza distrettuale ovvero il Tribunale dei ministri si insedia presso il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte di appello. Naturalmente quello di Roma ha una competenza di fatto quasi totalizzante, perché è la regola che i ministri esercitino le funzioni all’interno dei loro ministeri o delle riunioni consiliari, ma non è detto che l’evento antigiuridico si consumi sempre nell’ambito romano. La competenza territoriale, sempre di natura distrettuale, segue le regole ordinarie del codice di procedura penale nella ripartizione tra i vari Tribunali dei ministri. L’organo, si diceva, è collegiale ed è composto da un Presidente e da due Giudici a latere, che ne diventano i membri effettivi, sorteggiati tra tutti i magistrati di Tribunale del distretto aventi una anzianità non inferiore ai cinque anni. Viene infatti istituito presso la Corte di appello un seggio elettorale composto da tutti i Giudici civili e penali insieme ed è questa la prima particolarità, poiché tramite il sorteggio possono essere chiamati a decidere in materia penale anche Giudici civili. E’ infatti il caso a scegliere e magari può capitare che tutti e tre i componenti sorteggiati siano dei Giudici civili (come è capitato qui a Roma, dove peraltro la competenza non è mai promiscua), ma ci si attrezza: siamo Giudici o no? Dal sorteggio vengono esclusi i magistrati collocati fuori ruolo e vengono inserite all’interno di un’urna le schede recanti il nome di ogni singolo Giudice del distretto. All’estrazione a sorte procede in pubblica udienza il Collegio elettorale appositamente riunito presso la Corte di appello e presieduto dal Presidente della Corte e, una volta sorteggiati i tre membri effettivi, nella stessa seduta possono già venire estratte con le medesime modalità altre tre schede per i tre supplenti, al fine di garantire il costante funzionamento dell’organo collegiale; altrimenti ad ogni impedimento o trasferimento si dovrà procedere ad altro sorteggio con costituzione di una Commissione elettorale ad hoc. Si diceva che la durata di ogni singolo Collegio sorteggiato è di due anni, ma tale periodo può subire delle proroghe con riferimento a quei procedimenti per i quali siano già iniziate, seppure non terminate, le indagini: insomma tutto ciò che incameri fino al giorno prima della tua scadenza rimane tuo fino a conclusione delle indagini. Presidente lo diventa chi possiede le funzioni più elevate e, a parità di funzione, è il più anziano di età e non di carriera. Altra curiosità: ci si è infatti fidati maggiormente dell’esperienza di vita, piuttosto che professionale del magistrato.
E che funzioni si è chiamati a svolgere! Insieme di indagine e decisionali, insomma il Tribunale dei ministri cumula in sé la figura del PM e quella del Giudice delle indagini preliminari: una figura molto simile a quello che era il vecchio Giudice istruttore, ma questa volta in versione collegiale. Sì, perché si fanno le indagini sempre in tre, ma senza una propria polizia giudiziaria con la quale avere potuto costruire una pregresso affiatamento: il Tribunale dei ministri infatti si può rivolgere all’ “universo mondo” per la delega delle indagini, insomma con una totale discrezionalità nella scelta. La collegialità, che è senz’altro un valore, in questo caso affatica e rallenta non poco le attività, perché i tre Giudici possono, come capita assai spesso, avere tra loro sedi lavorative differenti, non solo nell’ambito della medesima città, ma anche nell’ambito di città diverse. Trattandosi di competenza distrettuale, il Tribunale dei ministri di Roma, per esempio, attinge i suoi componenti, oltre che dalla sede di Roma, anche tra i giudici dei Tribunali di Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Latina, Rieti, Tivoli, Velletri e Viterbo, a distanza di centinaia di chilometri tra loro e senza che sia prevista una qualche esenzione dal lavoro ordinario. Quindi il Giudice del Tribunale dei ministri è costretto a muoversi sul territorio per riunirsi con gli altri componenti e a combinare i propri impegni con questi ultimi al fine di decidere collegialmente cosa fare e al fine di provvedere con atti collegiali, continuando comunque a svolgere appieno le proprie udienze ed a osservare tutte le scadenze nel deposito dei propri provvedimenti. Ma quale è il problema, ci si attrezza: siamo Giudici o no?
Il Tribunale dei ministri entro novanta giorni dal ricevimento degli atti o archivia con decreto non impugnabile oppure con relazione motivata trasmette gli atti al PM per l’inoltro alla Camera competente ai sensi dell’art. 5, l. cost. n. 1/1989. Il decreto di archiviazione può essere revocato dal Collegio qualora sopravvengano nuove prove, su specifica richiesta del PM. Il termine di novanta giorni per il compimento delle indagini dà il senso dell’estrema celerità con cui gli atti debbano essere compiuti e con cui si debba giungere ad una decisione conclusiva, ma comunque esso non è perentorio, bensì meramente ordinatorio. I reati ministeriali, si diceva, sono solo quelli commessi nell’esercizio delle loro funzioni dal Presidente del Consiglio e dai ministri, ma questi ultimi possono essere sottoposti al procedimento speciale in questione anche dopo che siano cessati dalla carica, nel caso in cui ovviamente la notitia criminis sia emersa o sia arrivata al Tribunale dei ministri successivamente.
Nulla è scontato in questo procedimento, neppure chi debba decidere sulla natura ministeriale del reato: il pubblico ministero che per primo raccoglie la notizia di reato, il Tribunale dei ministri che la riceve ed indaga su di essa o la Camera chiamata a pronunciarsi sull’autorizzazione a procedere? Al riguardo è stato infatti più volte sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, che, via via chiarendo sempre di più gli aspetti procedurali, ha infine statuito sul conflitto sollevato dalla Cassazione contro il Senato in riferimento ai reati di ingiuria e diffamazione attribuiti all’allora ministro Castelli <<che non spetta all’organo parlamentare la valutazione in ordine alla natura ministeriale del reato, rimessa invece in modo esclusivo all’Autorità giudiziaria>> (Corte Cost. 25.2.2014, n. 29). In tali occasioni la Corte Costituzionale non è stata mai chiamata a sindacare il contenuto delle decisioni prese, bensì a regolare il procedimento, individuando semplicemente chi avrebbe dovuto decidere sul punto, se, appunto, l’organo giudiziario o quello parlamentare.
In conclusione, attingendo dall’esperienza personale, posso dire che lo svolgimento di tali funzioni può rappresentare una bella palestra professionale, giocata sempre sul filo della difficile conciliabilità degli impegni lavorativi, della delicatezza dei temi e della necessità di rapidità dell’intervento.
A questo link è possibile consultare il testo della Legge costituzionale n.1/1989. (LEGGE COSTITUZIONALE 16 gennaio 1989, n. 1, Art. 6 1. I rapporti, i referti e le denunzie concernenti i reati indicati dall'articolo 96 della Costituzione sono presentati o inviati al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d'appello competente per territorio.2. Il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio di cui al successivo articolo 7, dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati.)
Immagine via MET.
Interpretazione secondo buona fede degli accordi in materia urbanistica (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 5 settembre 2024, n. 7435).
di Michele Ricciardo Calderaro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. L’interpretazione degli accordi tra Amministrazione e privati secondo la giurisprudenza amministrativa. – 3. La natura dei termini per la presentazione di un Piano Urbanistico Attuativo e della documentazione di valutazione ambientale. – 4. Osservazioni conclusive.
Il problema giuridico sotteso alla sentenza che si annota attiene alla tematica degli accordi amministrativi di cui all’art. 11, legge n. 241 del 1990 e, in particolare, ai canoni ermeneutici da seguire per la loro corretta interpretazione.
È necessario, quindi, anzitutto ricostruire esattamente la vicenda che ha portato alla pronunzia del Consiglio di Stato.
Il 31 gennaio 2008 il Comune di Ozzano dell’Emilia approvava la variante n. 16 al Piano Regolatore Generale (PRG) mediante la quale veniva ammessa la possibilità di effettuare un intervento di stoccaggio rifiuti.
Successivamente, il 27 giugno 2011 il Comune sottoscriveva con tre imprese specializzate del settore uno specifico accordo ex art. 18 l.r. Emilia Romagna n. 20/2000 per l’inserimento nelle previsioni della variante del Piano Operativo Comunale (POC) di un’area adatta alla realizzazione di un impianto per la gestione ed il coordinamento dell’attività di raccolta e selezione dei materiali riciclabili e di un impianto di stoccaggio temporaneo e di recupero dei rifiuti classificati non pericolosi.
L’8 maggio 2017 veniva stipulato un nuovo accordo ex art. 18, l.r. Emilia Romagna n. 20/2000, nel quale si prevedeva un periodo di due anni, decorrente dall’approvazione della variante di Piano Operativo Comunale avvenuta il 20 dicembre 2017, entro il quale le parti si impegnavano ad individuare una localizzazione alternativa dell’impianto e le imprese attuatrici si impegnavano a non presentare il progetto. Decorso tale periodo, alle attuatrici erano concessi sei mesi per presentare le istanze necessarie all’approvazione del progetto.
Il 19 giugno 2020 le imprese attuatrici presentavano l'istanza di Piano Urbanistico Attuativo (PUA) con valore di permesso di costruire, ma il Comune, in data 1° ottobre 2020, previa valutazione delle osservazioni degli istanti, comunicava il provvedimento di rigetto.
Il 5 ottobre 2020 le imprese attuatrici inviavano al Comune una istanza di riesame con richiesta di annullamento in autotutela, rigettata però dall’Amministrazione comunale.
Le imprese attuatrici decidevano allora di impugnare i suddetti provvedimenti con ricorso straordinario al Capo dello Stato, che veniva successivamente trasposto dinanzi al T.A.R. competente, ovvero il T.A.R. Emilia Romagna, sede di Bologna.
Il T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, con sentenza n. 825 del 2021, accoglieva il ricorso presentato dalle imprese attuatrici.
In particolare, il ricorso aveva per oggetto l’annullamento del provvedimento del 1° ottobre 2020 con cui il Comune ha respinto l'istanza di Piano Urbanistico Attuativo con valore di permesso di costruire presentata dalle imprese attuatrici, in quanto sarebbe divenuto inefficace il Piano Operativo Comunale del 2017 relativamente alla previsione denominata “Comparto per il completamento del polo impianti per il trattamento e riciclo dei rifiuti Ca’ Bassone”.
Ciò perché, ai sensi dell’art. 3, co. 2, dell’accordo stipulato ex art. 18, l.r. Emilia Romagna n. 20 del 2020, le imprese attuatrici, secondo la prospettazione dell’Amministrazione Comunale, avrebbero dovuto presentare le istanze necessarie all’approvazione del progetto entro 30 mesi decorrenti dall’approvazione della variante al Piano Operativo Comunale. Nel caso di specie, le imprese avrebbero però presentato entro il termine predetto, che sarebbe scaduto il 20 giugno 2020, esclusivamente l’istanza di permesso di costruire e non anche quella, altrettanto necessaria, di V.I.A. che è stata presentata solo in data 2 settembre 2020.
Il T.A.R. Emilia Romagna ha accolto il ricorso delle imprese attuatrici in quanto, anzitutto, il Comune avrebbe violato i principi di correttezza e buona fede nello scadenzare i tempi di presentazione delle istanze necessarie all’approvazione del progetto con valore di permesso di costruire, dato che dopo il biennio accordato nel precipuo interesse del Comune, i soggetti privati dovevano concentrare gli sforzi in una cornice temporale troppo ristretta; in ogni caso la presentazione dell’istanza di V.I.A. sarebbe tempestiva perché l’iniziale termine entro cui presentare le istanze necessarie all’approvazione del progetto è stato prorogato di 90 giorni alla luce dell’art. 103, co. 2-bis, d.l. 17 marzo 2020, n. 18; da ultimo, l’unica istanza da avviare entro i 30 mesi aveva per oggetto la VAS/Valsat (Valutazione della Sostenibilità Ambientale e Territoriale) e le imprese attuatrici hanno provveduto tempestivamente depositando il rapporto ambientale unitamente all’istanza di Piano Urbanistico Ambientale.
La sentenza del T.A.R. Emilia Romagna è stata impugnata dal Comune dinnanzi al Consiglio di Stato, che è stato chiamato a pronunziarsi sulla natura e sull’interpretazione degli accordi amministrativi ex art. 11, legge n. 241 del 1990.
Da qui occorre partire.
2. L’interpretazione degli accordi tra Amministrazione e privati secondo la giurisprudenza amministrativa.
In questo caso, come emerge dal paragrafo precedente, si è dinnanzi ad un accordo di cui all’art. 11, legge n. 241 del 1990, nell’ambito del quale l’Amministrazione comunale, nell’esercizio della sua potestà di pianificazione, tenendo conto della preoccupazione di almeno una parte della cittadinanza per nuovi impianti di trattamento dei rifiuti, ha chiesto alle imprese attuatrici di non presentare le istanze necessarie all’approvazione del progetto per almeno due anni dall’approvazione della variante del Piano Operativo Comunale.
Su queste basi, il Comune avrebbe dovuto, quindi, valutare l’istanza delle imprese attuatrici con ragionevolezza e con lo stesso spirito collaborativo mostrato dalle stesse.
Non si tratta certamente di legittimare una facoltà esercitabile senza limiti di tempo secondo l’arbitrio delle attuatrici, ma di contemperare opposte esigenze, ovvero quello certamente legittimo alla tempestiva definizione del procedimento, anche se per due anni tale esigenza non è stata soddisfatta per la stessa volontà dell’Amministrazione comunale, e quello, altrettanto legittimo, delle società attuatrici, di portare ad esecuzione, dopo due anni di attesa, gli interventi programmati con la presentazione delle istanze necessarie alla realizzazione del progetto.
Secondo il Comune la domanda di Piano Urbanistico Attuativo con valore di richiesta di permesso di costruire doveva essere respinta perché le imprese attuatrici hanno presentato l’istanza di V.I.A. solo il 2 settembre 2020 allorquando il termine sarebbe scaduto già il 20 giugno del medesimo anno.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto questa conclusione sproporzionata e irragionevole, in considerazione della circostanza, correttamente evidenziata dal T.A.R., che il Comune ha prima chiesto (e ottenuto) una sorta di differimento dell’esecuzione della realizzazione del progetto di due anni, per poi richiedere che la presentazione delle istanze necessarie alla realizzazione del progetto avvenisse entro termini ritenuti decadenziali.
Questa interpretazione dell’Amministrazione comunale non è però corretta neanche seguendo i criteri di interpretazione del contratto, applicabili al caso di specie, sia se si qualificasse l’accordo in questione ai sensi dell’art. 11, legge n. 241 del 1990, sia se lo si qualificasse come contratto di diritto privato.
Anzitutto occorre soffermarsi sugli accordi tra Amministrazione e privati, perché in questa categoria rientra l’accordo previsto dalla legge regionale Emilia Romagna oggetto del contenzioso.
Richiamando le parole di Nigro, l’accordo deve essere “visto e compreso non già come una rottura del procedimento, come una soluzione eccezionale ed anomala dei problemi aperti dall'iniziativa di procedimento, ma come uno sbocco alternativo all'atto e come questo direttamente e coerentemente discendente dallo sviluppo dello stesso procedimento, nel cui complesso dispiegarsi ... si pongono le premesse e si creano le condizioni per la formazione di quella consensualità che l'accordo porta alle sue naturali conseguenze”[1].
Gli accordi tra Amministrazione e privati, disciplinati dalla legge n. 241 del 1990[2], costituiscono una possibile conclusione del procedimento amministrativo (accordi sostitutivi) ovvero rappresentano la modalità di definizione di alcuni elementi del provvedimento amministrativo finale (accordi integrativi), afferendo sempre all’esercizio di un potere pubblico e costituendo dunque moduli convenzionali di esercizio del potere amministrativo[3].
Infatti, ripercorrendo il magistrale insegnamento di F.G. Scoca, “in tutti gli atti consensuali, siano essi necessari o eventuali, il potere che l'amministrazione esercita è sempre potere amministrativo, mai (almeno in linea di principio, e fatte salve eventuali situazioni speciali, o, meglio, eccezionali) un potere libero, qualificabile (a pieno titolo) come autonomia privata. Si tratta sempre, autoritativo o non autoritativo che sia, di potere (precettivo) soggetto allo statuto tipico dell'azione amministrativa”[4].
Proprio perché trattasi di esercizio del potere[5] occorre sottolineare che l'art. 11, co. 1, legge n. 241 del 1990 non impone la conclusione di accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento amministrativo, ma lascia la facoltà di scelta in capo all'Amministrazione procedente, che senza dubbio può determinarsi in senso negativo con riguardo alla loro stipulazione. Al di là di tale aspetto deve poi potersi riscontrare, quale elemento necessario per poter utilizzare lo strumento convenzionale, il perseguimento dell'interesse pubblico[6] riferito ad attività di natura discrezionale e non vincolata, non potendosi contrattare con soggetti privati l'esercizio di un potere già conformato dal legislatore e quindi condizionato nella sua esplicazione[7].
L’accordo, ove ricorrano queste circostanze, superando il carattere unilaterale del potere dell’Amministrazione[8], unisce (o almeno dovrebbe unire) in sé i vantaggi degli strumenti pubblicistici e di quelli privatistici[9], consentendo di ottenere un equilibrio sull'assetto degli interessi altrimenti non raggiungibile per via autoritativa[10]. Il risultato delle manifestazioni concordi delle parti può essere considerato, secondo una parte della dottrina, come frutto d'una co-decisione: difatti, la manifestazione del privato, qualora si disconoscesse un suo valore determinante in questo senso[11], rappresenterebbe un semplice apporto alla decisione altrui[12] ed una partecipazione soltanto formale dei privati all’azione amministrativa[13].
Per quanto concerne l’interpretazione degli accordi, si deve fare riferimento all’art. 11, co. 2, legge n. 241 del 1990 che prescrive l’applicabilità agli accordi tra Amministrazione e privati, ove non diversamente previsto, dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, tra cui devono farsi rientrare anche i criteri di interpretazione del codice civile.
Difatti, se è vero che l'art. 11, legge n. 241/1990 non rende automaticamente applicabili agli accordi in cui sia parte l’Amministrazione le norme del codice civile in tema di obbligazioni e contratti nella loro interezza, bensì i principi[14], è altrettanto vero che non può escludersi la stessa applicazione delle norme dettate in tema di obbligazioni e contratti, nei casi in cui agli accordi debba riconoscersi, come nel caso di specie, una natura prettamente contrattuale[15].
Tra i criteri di interpretazione previsti dal codice civile, il criterio teleologico della comune volontà delle parti, di interpretazione letterale (art. 1362 cod. civ.) e di buona fede (art. 1366 cod. civ.) devono orientare l’interprete nell’esegesi dell’accordo in questione[16].
L’accordo, difatti, se correttamente interpretato, prevede il termine decadenziale solo per la presentazione della domanda di permesso di costruire, circostanza che nel caso di specie si è verificata con la presentazione del Piano Urbanistico Attuativo entro il termine di due anni da parte delle imprese attuatrici, ma non anche per altre istanze, come quella inerente la V.I.A. Ciò emerge chiaramente dal fatto che la decadenza è esplicitamente prevista solo per la presentazione dell’istanza di permesso di costruire.
Nello stesso senso depone anche l’interpretazione secondo buona fede ex art. 1366, cod. civ., criterio privilegiato di interpretazione che si pone quale collegamento tra i criteri di interpretazione soggettiva e oggettiva[17]: proprio la modulazione dei tempi per la presentazione delle istanze necessarie all’approvazione del progetto, decisamente sperequata a favore del Comune impone, nel dubbio, un’interpretazione meno rigorosa dei termini entro cui presentare le istanze diverse da quella relativa al permesso di costruire, considerando tali termini non perentori.
Il criterio di interpretazione secondo buona fede non può essere, difatti, relegato a criterio di interpretazione meramente sussidiario rispetto ai criteri di interpretazione letterale e funzionale, in quanto l’elemento letterale deve essere integrato con gli altri criteri di interpretazione, tra cui quello di buona fede o correttezza ex art. 1366, cod. civ., avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta[18].
D’altronde, l’art. 1362, cod. civ., prevede che “nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.
Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
È altresì vero, come ricordato recentemente dal Consiglio di Stato[19], che sull’applicazione di questa disposizione non v’è unanimità di orientamenti neppure nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.
In base ad un primo orientamento, infatti, nell'interpretazione del contratto, il carattere prioritario dell'elemento letterale non deve essere inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell'art. 1362, cod. civ. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l'indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici, anche laddove il testo dell'accordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti. In questo senso pertanto assume valore rilevante anche il criterio logico-sistematico di cui all'art. 1363, cod. civ., che impone di desumere la volontà manifestata dai contraenti da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza alla materia in contesa, tenendosi, altresì, conto del comportamento, anche successivo, delle parti[20].
Secondo un secondo orientamento, invece, i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale il criterio del senso letterale delle parole, di cui all'art. 1362, co. 1, cod. civ. è prevalente, potendo risultare assorbente di eventuali ulteriori e successivi criteri interpretativi[21].
Ma, anche l’orientamento che prefigura la priorità gerarchica del criterio letterale afferma che la regola compendiata dal brocardo “in claris non fit interpretatio” non trova applicazione quando le espressioni letterali utilizzate, benché chiare, non siano “univocamente intellegibili” oppure il loro significato risulti “ambiguo”[22] .
Ciò porta a ritenere che il carattere decadenziale del termine fosse previsto dall’accordo solo per la presentazione della domanda di permesso di costruire e non anche per le altre istanze urbanistiche/ambientali, aderendo, in particolare, all’orientamento della Cassazione secondo cui la lettera del contratto deve essere integrata con altri canoni ermeneutici, come quello basato sulla buona fede.
L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366, cod. civ., quale criterio d’interpretazione del contratto (fondato sull’esigenza definita in dottrina di "solidarietà contrattuale"[23]) si specifica in particolare nel significato di lealtà, e si concreta nel non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte[24].
Secondo il Consiglio di Stato, nessun accordo, di diritto privato o di diritto pubblico, può essere interpretato in contrasto con il principio di buona fede che affascia tutti i rapporti di diritto privato (art. 1175, 1375, cod. civ.) e di diritto pubblico (art. 1, co. 2-bis, l. n. 241 del 1990, art. 5 d.lgs. n. 36 del 2023).
Qualunque accordo, anche qualora riconducibile alla categoria degli accordi amministrativi ex art. 11, legge n. 241 del 1990, deve essere interpretato ed eseguito secondo correttezza e buona fede da entrambe le parti, quindi anche dall’Amministrazione, in considerazione di principi che sono espressione del dovere costituzionale di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.[25] e del principio di buon andamento ex art. 97 Cost., i quali caratterizzano lo statuto generale dell’attività amministrativa[26]: lo impone anzitutto la lettura degli articoli 1175 e 1375, cod. civ. cui compie espresso rinvio l’art. 11, co. 2, legge n. 241 del 1990, secondo cui a questi accordi “si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”.
Il criterio di buona fede oggettiva non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte[27] e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell’accordo negoziale[28].
Assume dunque fondamentale rilievo che l’accordo venga interpretato avendo riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale[29], con convenzionale determinazione della regola volta a disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372, cod. civ.)[30].
L’accordo in questione, poi, malgrado il vano tentativo del Comune di qualificarlo come una generica “intesa preliminare”, può essere certamente fatto rientrare nella categoria delle convenzioni urbanistiche[31], le quali, secondo giurisprudenza consolidata, concretizzano un accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento di cui all’art. 11, legge n. 241/1990[32].
La natura di tali accordi è stata chiarita dalla giurisprudenza, secondo la quale all'interno delle convenzioni di urbanizzazione risulta prevalente il profilo della libera negoziazione[33]. In sostanza, sebbene sia innegabile che tali convenzioni, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresentino un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che nelle stesse, pur vincolate dallo scopo del perseguimento dell’interesse generale, si assista all'incontro di volontà delle parti contraenti, con tutto ciò che ne discende in termini di interpretazione delle relative clausole contrattuali[34] in applicazione del principio di buona fede oggettiva.
Interessano in particolare gli art. 1366, 1362 co. 2 e 1371, cod. civ. secondo i quali la convenzione deve essere interpretata tenendo conto del comportamento delle parti anche posteriore alla stipula e, qualora essa rimanga oscura, nel senso più favorevole per l'obbligato, se a titolo gratuito, e in modo da realizzare l'equo contemperamento degli interessi delle parti, se a titolo oneroso. Per chiarire il contenuto della convenzione ove le parti non abbiano disposto in modo espresso, interessano poi, sotto un altro e complementare profilo, le norme di legge suppletive[35].
Come tali, le convenzioni urbanistiche sono assoggettate, ove non diversamente stabilito e nei limiti della compatibilità, ai principi generali in materia di obbligazioni e contratti, e, in particolare, a quelli di correttezza e buona fede nell'esecuzione dell'accordo[36], e di tutela dell'affidamento della controparte[37] sulla situazione venutasi a creare per effetto della conclusione dell'accordo medesimo[38].
Si può, pertanto, affermare che la convenzione urbanistica si sostanzia in un accordo bilaterale, intercorrente fra i privati e l'Amministrazione, alternativo rispetto agli strumenti urbanistici attuativi e avente ad oggetto la definizione dell'assetto urbanistico di una parte del territorio comunale.
Lungi dal costituire un contratto di diritto privato immediatamente disciplinato dal codice civile, deve essere inquadrata tra i contratti ad oggetto pubblico, per i quali trova applicazione, rientrando essi tra gli accordi sostitutivi di provvedimento, la disciplina degli accordi di cui all'art. 11 della legge n. 241 del 1990, in quanto moduli consensuali di esercizio del potere amministrativo sottoposti ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti se compatibili[39].
Ma vi è di più.
Come correttamente richiamato dal Consiglio di Stato, correttezza, buona fede e tutela dell’affidamento costituiscono principi generali dello statuto dell’attività amministrativa in quanto applicazione di principi costituzionali, che sussisterebbero anche se non fossero codificati dalla legge[40].
Il legislatore però è voluto intervenire, si potrebbe dire a scopo rafforzativo, primariamente nella legge generale sul procedimento amministrativo. Questa, difatti, all’art. 1, co. 1-bis[41], stabilisce che l’Amministrazione, allorquando non adotta atti autoritativi, agisce secondo le norme di diritto privato, e quindi secondo i principi stabiliti dal codice civile[42]; ma il co. 2-bis della medesima norma, introdotto dal decreto Semplificazioni del 2020, si spinge oltre, prevedendo esplicitamente che i rapporti tra il cittadino e l’Amministrazione debbono essere improntati ai principi della collaborazione e della buona fede.
Difatti, come ricordato anche dalla giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato, le parti del rapporto amministrativo devono tenere una condotta conforme ai principi di collaborazione e di buona fede. Si tratta di una tendenza normativa a voler configurare un rapporto di tipo orizzontale tra cittadini ed Amministrazione, che, se genera in capo alla seconda doveri di protezione o obblighi correlati a diritti soggettivi, parimenti comporta anche una più marcata responsabilizzazione dei primi[43], sia in seno al procedimento che con riguardo al processo[44].
Nel caso di specie si pone un evidente problema di tutela dell’affidamento che le imprese attuatrici avevano riposto nell’accordo stipulato con l’Amministrazione comunale: si tratta di un affidamento tipizzato, a fronte del quale recede il potere di pianificazione urbanistica.
Il Comune ha infatti indotto il privato ad attendere 24 mesi, per poi pretendere nei successivi 6 il deposito di documentazione (per l’assoggettabilità a VIA) non chiaramente determinata a priori.
Questo in considerazione del fatto che occorre intendere l'affidamento come un principio generale dell'azione amministrativa che opera tanto con riferimento all'attività paritetica dell’Amministrazione quanto a quella autoritativa. Esso non costituisce, quindi, una posizione giuridica soggettiva autonoma, ma si colloca nella tradizionale dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, potendo riferirsi a posizioni dell'uno come dell'altro tipo a seconda dell'attività posta in essere dall’Amministrazione[45].
Ovviamente la lesione del legittimo affidamento potrebbe al massimo operare quale presupposto per il configurarsi di una fattispecie di responsabilità risarcitoria in capo all’Amministrazione (sussistendo però tutti gli altri elementi della fattispecie), non già quale vizio di legittimità del provvedimento impugnato, sulla base della nota distinzione tra regole di validità e regole di responsabilità[46]: in questo caso l’illegittimità del provvedimento di diniego consiste nella violazione di previsioni puntuali dell’accordo urbanistico che il Comune ha sottoscritto.
D’altronde, la sentenza del Consiglio di Stato che si commenta è del tutto conforme all’orientamento dell’Adunanza Plenaria che, con la pronunzia n. 5 del 2018, ha evidenziato, in particolare, come la giurisprudenza, sia civile che amministrativa, abbia in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'Amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), ma anche le norme generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell'altrui scorrettezza[47].
È un dato di fatto che l'Amministrazione non possa liberarsi legittimamente dal vincolo di un accordo amministrativo con un privato, peraltro dopo che lo stesso ha avuto consistente e durevole esecuzione, mediante un'attività provvedimentale che, in assenza di un adeguato corredo motivazionale comparativo degli opposti interessi, leda l'affidamento del privato stesso, al di fuori degli strumenti tipici del recesso esercitato mediante un formale provvedimento assunto ai sensi dell'art. 11, co. 4, legge n. 241 del 1990, ovvero dell'annullamento d'ufficio[48].
In questo caso, invece, l’Amministrazione comunale è volontariamente venuta meno agli obblighi assunti in via convenzionale con i soggetti attuatori, attraverso un’interpretazione del tutto sbilanciata a proprio favore, anche per quanto concerne la natura perentoria o meno dei termini di presentazione delle istanze.
Proprio sui termini occorre svolgere alcune ulteriori considerazioni.
3. La natura dei termini per la presentazione di un Piano Urbanistico Attuativo e della documentazione di valutazione ambientale.
Secondo la pronunzia del Consiglio di Stato che si commenta l’interpretazione del Comune risulta contraria ai canoni di buona fede e correttezza anche sotto un altro punto di vista.
Difatti, secondo i giudici di Palazzo Spada non può essere seguita l’impostazione fornita dal Comune, in quanto, in relazione alle istanze necessarie all’approvazione del progetto, esclusa quella relativa al permesso di costruire, non era previsto alcun termine a pena di decadenza. Contrariamente a quanto sostiene l’Amministrazione, proprio la circostanza che l’istanza di Piano Urbanistico Attuativo equivalga ad istanza di rilascio di permesso di costruire comporta l’assoggettamento di quest’ultima, ma solo di questa istanza, al termine di decadenza.
In questo senso depone, peraltro, anche la circostanza che i termini perentori devono essere interpretati in senso restrittivo, perché il carattere della perentorietà del termine può essere attribuito a una scadenza temporale solo da una espressa norma di legge: e difatti, nello Stato di diritto, solo la legge può collegare in via generale al decorso del tempo il mutamento di una situazione giuridica, sia esso un potere dell'Amministrazione (perenzione), sia esso un diritto o una facoltà del privato (decadenza).
Quindi, in assenza di specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell'Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine deve essere inteso come meramente sollecitatorio o ordinatorio[49].
D’altronde, come ricordato dalla giurisprudenza amministrativa, ove manchi un'espressa indicazione relativa alla natura del termine, deve aversi riguardo alla funzione che lo stesso in concreto assolve nel procedimento, nonché alla peculiarità dell'interesse pubblico coinvolto, con la conseguenza che, in mancanza di elementi certi per qualificare un termine come perentorio, per evidenti ragioni di favor, esso deve ritenersi ordinatorio[50].
L'individuazione del termine come perentorio, dunque, - oltre che dalla definizione come tale - discende in primo luogo dalla ragione della sua introduzione, normalmente consistente nell'esigenza di celerità insita nella fase specifica del procedimento[51], in coerenza con la giurisprudenza prevalente, secondo cui, per i termini esistenti all'interno del procedimento amministrativo, il carattere perentorio o meno deve essere ricavato dalla loro ratio[52] nonché dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico che lo svolgimento di un adempimento in un arco di tempo prefissato è indirizzato a soddisfare[53].
Di conseguenza, i termini previsti nell’accordo in questione non potevano considerarsi perentori, ad eccezione di quello previsto per la presentazione del Piano Urbanistico Attuativo avente valore di istanza di permesso di costruire.
L’interpretazione dell’accordo fornita dal Comune è ancor più irragionevole se si pensa che le società attuatrici hanno presentato il 19 giugno 2020 istanza di Piano Urbanistico Attuativo con valore di permesso di costruire, unitamente al rapporto ambientale indispensabile per la Valutazione della Sostenibilità Ambientale e Territoriale (VALSAT), che ha escluso la necessità di assoggettare l’intervento previsto alla Valutazione d’Impatto Ambientale.
Peraltro, l’Amministrazione comunale ha definitivamente approvato il Piano Urbanistico Attuativo inerente il Comparto con delibera della Giunta comunale del 10 agosto 2023 e sottoscritto la convenzione urbanistica il successivo 13 settembre 2023.
Tutto ciò dimostra che una lettura eccessivamente formalistica della presente vicenda sarebbe, comunque, controproducente e non in linea con lo spirito di leale collaborazione che deve caratterizzare il rapporto tra cittadino ed Amministrazione.
Si aggiunga che, come correttamente ritenuto dal T.A.R. in primo grado e dalla sentenza del Consiglio di Stato annotata, all’accordo stipulato tra il Comune e le imprese attuatrici si applica l’art. 103, co. 2-bis, d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. in legge 24 febbraio 2020, n. 27, secondo cui “il termine di validità nonché i termini di inizio e fine lavori previsti dalle convenzioni di lottizzazione di cui all'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ovvero dagli accordi similari comunque denominati dalla legislazione regionale, nonché i termini dei relativi piani attuativi e di qualunque altro atto ad essi propedeutico, in scadenza tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020, sono prorogati di novanta giorni”[54].
Si tratta di una norma la cui ratio consisteva nell’esigenza di prorogare i termini in un periodo storico in cui, a causa delle conseguenze socio-economiche della pandemia da Sars Covid-19, era particolarmente difficoltoso rispettarli[55].
Il Piano Operativo Comunale, susseguente all’accordo, ha introdotto l’obbligo di presentazione di un Piano Urbanistico Attuativo (e dunque un Piano attuativo), che le società attuatrici hanno depositato il 19 giugno 2020. Dato che la disposizione si riferisce testualmente a qualunque atto ad essi propedeutico, nell’elencazione esemplificativa non può che trovare collocazione anche un’intesa, come quella oggetto del giudizio, la quale disciplina tempi e modalità di presentazione del permesso di costruire, del Piano Urbanistico Attuativo e degli atti collaterali.
Pertanto, non solo il Piano Urbanistico Attuativo è stato depositato tempestivamente, ma anche qualora si considerassero perentori gli altri termini – ipotesi errata secondo quanto ricostruito in precedenza – anche la procedura di screening ambientale a partire dalla VALSAT è stata attivata in anticipo rispetto ai termini prorogati dal d.l. n. 18 del 2020, ricordando che lo screening, data la sua complessità e l'autonomia riconosciutagli dallo stesso Codice dell’ambiente, che all'art. 19 ne disciplina lo svolgimento, è esso stesso una procedura di valutazione di impatto ambientale, meno complessa della V.I.A., la cui previsione risponde a motivazioni comprensibilmente diverse[56].
Per questo motivo lo screening è spesso definito in maniera impropria come un subprocedimento della V.I.A., pur non essendo necessariamente tale. Esso è qualificato altresì come preliminare alla V.I.A.[57], dizione questa da intendere solo in senso cronologico, stante che è realizzato preventivamente, ma solo con riguardo a determinate tipologie di progetto rispetto alle quali alla valutazione vera e propria si arriva in via eventuale, in base cioè proprio all'esito in tal senso della verifica di assoggettabilità[58].
Il rapporto tra i due procedimenti appare configurabile graficamente in termini di cerchi concentrici caratterizzati da un nucleo comune rappresentato dalla valutazione della progettualità proposta in termini di negativa incidenza sull’ambiente, nel primo caso in via sommaria e, appunto, preliminare, nel secondo in via definitiva, con conseguente formalizzazione del provvedimento di avallo o meno della stessa[59].
Quindi, soltanto ove venga effettivamente ravvisata una significatività del progetto in termini di incidenza negativa sull'ambiente[60], si impone il passaggio alla fase successiva della relativa procedura, che in questo caso è stata esclusa.
Nel caso di specie lo screening ambientale correttamente instaurato dalle società attuatrici nei termini previsti dall’accordo ha condotto la Regione ad escludere la necessità di assoggettamento dell’intervento alla procedura di V.I.A.
4. Osservazioni conclusive.
L’analisi dei criteri interpretativi degli accordi tra Amministrazione e privati ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990 deve far riflettere su come debbano essere utilizzati moduli negoziali di esercizio del potere da parte dell’Amministrazione per il perseguimento dell’interesse generale[61]. In questi casi, il rispetto dei principi di buona fede, correttezza e tutela dell’affidamento[62] emerge come fondamento essenziale, determinando una forma di responsabilità pubblica nella comparazione di tutti gli interessi, pubblici e privati.
L’interpretazione degli accordi, specie quelli attuativi della pianificazione urbanistica, deve poggiare non solo su criteri letterali e teleologici, ma altresì sull’applicazione rigorosa della buona fede, della correttezza e quindi della protezione degli affidamenti legittimi riposti dai cittadini nell’azione dell’Amministrazione. Così, quest’ultima, qualora richieda nell’accordo, mediante cui essa stessa si è auto-vincolata, una temporanea sospensione della presentazione delle istanze, deve adottare criteri di proporzionalità e ragionevolezza, senza generare pregiudizio per l’affidamento del privato. La sentenza del Consiglio di Stato che si commenta conferma questa impostazione, oramai consolidata nella giurisprudenza amministrativa, sancendo che l’esercizio del potere pubblico non può ledere la fiducia legittimamente riposta dai privati, rafforzando così il concetto di lealtà e di reciproca collaborazione.
L’approccio integrato tra diritto pubblico e privato, basato sui principi del codice civile applicabili agli accordi tra Amministrazione e privati, si rivela indispensabile per costruire un rapporto di fiducia tra cittadini ed Amministrazioni.
Gli accordi amministrativi devono, infatti, fungere da strumenti di co-decisione che valorizzano un’Amministrazione orientata alla collaborazione piuttosto che all’esercizio del potere esclusivamente in via unilaterale[63]. Questo equilibrio tra flessibilità negoziale, assicurata dagli atti consensuali, e il dovere di tutelare l’interesse pubblico favorisce una forma di Amministrazione il più possibile paritaria e garantisce che la salvaguardia dell’interesse generale resti prioritaria proprio perché l’Amministrazione continua ad esercitare un potere pubblico[64].
Solo mediante questi canoni interpretativi che impongono la necessità di una buona fede e correttezza reciproca si può giungere ad una efficace gestione giuridica dei vincoli pattuiti che assicuri però, al contempo, coerenza, prevedibilità e integrità dell'azione amministrativa, comparando in modo organico esigenze pubbliche e private, anche nella pianificazione territoriale[65].
[1] Così M. Nigro, Il procedimento amministrativo fra inerzia legislativa e trasformazioni dell'amministrazione (a proposito di un recente disegno di legge), in F. Trimarchi (a cura di), Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell'amministrazione, Milano, Giuffrè, 1990, 3 ss.
[2] Cfr. in tema le osservazioni di V. Cerulli Irelli, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 2003, 217 ss.; G. Pastori, L'amministrazione per accordi nella recente progettazione legislativa, in F. Trimarchi (a cura di), Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell'amministrazione, cit., 77 ss.
[3] Corte cost., 15 luglio 2016, n. 179, in Giur. cost., 2016, 4, 1361 ss., secondo cui, in quanto inserite nell’ambito del procedimento amministrativo, le convenzioni e gli atti d’obbligo stipulati tra l’Amministrazione ed i privati costituiscono pur sempre espressione di un potere discrezionale della stessa Amministrazione Tali moduli convenzionali di esercizio del potere amministrativo non hanno, quindi, specifica autonomia. In coerenza con i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, il fondamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo viene legittimamente individuato nell’esercizio, ancorché in via indiretta o mediata, del potere pubblico. La giurisprudenza della Corte così come quella del Consiglio di Stato è spesso riconducibile all’orientamento di F.G. Scoca, Accordi e semplificazione, in Nuove aut., 2008, 558 ss.
[4] F.G. Scoca, Autorità e consenso, in Dir. amm., 2002, 431 ss.
[5] Si rinvia a P.L. Portaluri, Potere amministrativo e procedimenti consensuali. Studi sui rapporti a collaborazione necessaria, Milano, Giuffrè, 1998, 210 ss.
[6] G. Soricelli, Premesse per un’analisi giuridica degli accordi amministrativi ex art. 11, L. 11 agosto 1990 n. 241, in Foro amm., 2000, 1596 ss., osserva, al riguardo, come “il fatto che la p.a. possa utilizzare lo strumento negoziale in via alternativa e, sotto certi aspetti, in modo ulteriore rispetto al provvedimento unilaterale, non significa snaturare la portata e la rilevanza giuridica del connotato pubblicistico dell'agire imperativo. Anzi, significa stimolarne il miglior perseguimento dell'interesse pubblico”.
[7] In tema si v. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 8 novembre 2021, n. 2470, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Per le diverse tesi sulla natura di questi accordi cfr. G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino, Giappichelli, 2003; E. Bruti Liberati, Accordi pubblici, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, Aggiornamento, Vol. V, 2001, 1 ss.
[9] Cfr. M. Ramajoli, Gli accordi tra amministrazione e privati ovvero della costruzione di una disciplina tipizzata, in Dir. amm., 2019, 674 ss.
[10] Specialmente in materia urbanistica: si v. V. Cerulli Irelli, L'accordo nella sistemazione e nella attrezzatura del territorio, in A. Masucci (a cura di), L'accordo nell'azione amministrativa, Roma, Formez, 1988, 63 ss.
[11] Secondo P.L. Portaluri, Sugli accordi di diritto amministrativo, in Riv. giur. edil., 2015, 147 ss., la funzione dell’art. 11 è stata “quella di fornire una sorta d’informe contenitore giuridico ex post, buono per raccogliere nel suo interno ogni vicenda in cui appare in risalto il ruolo del privato, la cui collaborazione fosse necessaria per il raggiungimento dell’obiettivo d’interesse pubblico. Insomma, tutti quei casi in cui la mistica dell’autosufficienza dell’atto unilaterale è troppo distante dalla realtà — e dunque ipocrita — per poter essere seriamente sostenuta: volendo usare una bella espressione della dottrina, si tratta di quelle situazioni, diffuse nella realtà, in cui una p.A. non ha la disponibilità della fattispecie”.
[12] Così F. Ledda, Appunti per uno studio sugli accordi preparatori di provvedimenti amministrativi, in Dir. amm., 1996, 391 ss.
[13] Sul punto cfr., ad esempio, A. Cauduro, Gli obblighi dell’amministrazione pubblica per la partecipazione procedimentale, Napoli, Jovene, 2023; Id., La partecipazione amministrativa come trasparente “associazione” o “dissociazione” dalle scelte dell’amministrazione pubblica, in Dir. amm., 2022, 181 ss.; R. Ferrara, La partecipazione al procedimento amministrativo: un profilo critico, in Dir. amm., 2017, 209 ss.; M. Ricciardo Calderaro, La partecipazione nel procedimento amministrativo tra potere e rispetto dei diritti di difesa, in Foro amm., fasc. 5-2015, 1310 ss.; ma già S. Cassese, La partecipazione dei privati alle decisioni pubbliche, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 13 ss.; M. Occhiena, Partecipazione al procedimento amministrativo, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 2006, Vol. V, 3 ss.; R. Caranta, L. Ferraris, S. Rodriquez, La partecipazione al procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 2005; M. Clarich, Garanzia del contraddittorio nel procedimento, in Dir. amm., 2004, 59 ss.; M.R. Spasiano, La partecipazione al procedimento amministrativo quale fonte di legittimazione dell’esercizio del potere: un’ipotesi ricostruttiva, in Dir. amm., 2002, 283 ss.; F. Trimarchi, Considerazioni in tema di partecipazione al procedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 2000, 627 ss.; C.E. Gallo, La partecipazione al procedimento, in P. Alberti, G. Azzariti, G. Canavesio, C.E. Gallo, M.A. Quaglia, Lezioni sul procedimento amministrativo, Torino, Giappichelli, 1992, 57 ss.; M. Nigro, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1980, 225 ss.; E. Casetta, La partecipazione dei cittadini alla funzione amministrativa nell'attuale ordinamento dello stato italiano, in La partecipazione popolare alla funzione amministrativa e l'ordinamento dei consigli circoscrizionali comunali, Atti del XXII Convegno di Scienza dell'Amministrazione, Varenna-Villa Monastero, 23-25 settembre 1976, Milano, Giuffrè, 1977, 67 ss.
[14] M.A. Quaglia, Il contenuto della proprietà e la pianificazione mediante accordi, in Riv. giur. edil., 2020, 505 ss., evidenzia al riguardo che “l'aver ricondotto gli accordi pubblicistici alle regole e ai criteri che governano l'ordinario esercizio del potere amministrativo, comporta, da parte dell'amministrazione, non un libero esercizio di autonomia negoziale — sono applicabili solo i principi del codice civile “compatibili” —, bensì il compito di perseguire il pubblico interesse negli stessi termini e con gli stessi limiti con cui lo stesso avrebbe dovuto essere perseguito mediante gli strumenti tradizionali — in forma autoritativa — dell'attività amministrativa”.
[15] Sul punto T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 12 giugno 2020, n. 2359, in Foro amm., 2020, 1296 ss.
[16] Costituisce orientamento consolidato del Consiglio di Stato quello secondo cui i criteri di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss., cod. civ., oltre che per l'interpretazione dei contratti, degli atti unilaterali (in quanto compatibili, ai sensi dell'art. 1324, cod. civ.), dei provvedimenti amministrativi (nei limiti della compatibilità), devono applicarsi anche agli accordi di cui all'art. 11, legge n. 241 del 1990, in ragione del rinvio, da parte del secondo comma della suddetta disposizione, ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili: così Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2024, n. 7407, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 1° marzo 2024, n. 2038, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 19 febbraio 2019, n. 1150; ivi; id., 3 dicembre 2015, n. 5510, ivi; id., 16 giugno 2015, n. 2997, ivi; id., 17 dicembre 2014, n. 6164, ivi; id., 25 settembre 2014, n. 4812, in Foro amm., 2014, 2292 ss.
[17] In tema cfr. G. Sciullo, Buona fede e inadempimento negli accordi amministrativi, in Urb. e app., 2014, 196 ss.
[18] Cass. civ., Sez. III, 19 marzo 2018, in Giust. civ. Mass., 2018; Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2011, n. 11295, in Giust. civ., 2012, 2, I, 430 ss.
[19] Cons. Stato, Sez. IV, 9 luglio 2024, n. 6068, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] Cfr. Cass. civ., Sez. III, 17 novembre 2021, n. 34795, in Giust. civ. Mass., 2022; Cass. civ., Sez. I, 2 luglio 2020, n. 13595, in Giust. civ. Mass., 2020.
[21] Cfr., ex aliis, Cass. civ., Sez. lav., ord. 25 gennaio 2022, n. 2173, in Giust. civ. Mass., 2022; Cass. civ., Sez. lavoro, ord. 03 novembre 2021, n. 31422, in Giust. civ. Mass., 2021.
[22] Cass. civ., Sez. lavoro, ord. 6 aprile 2022, n. 11182; Cass. civ., Sez. II, ord. 11 novembre 2021, n. 33451, in Giust. civ. Mass., 2021.
[23] V., da ultimo, le riflessioni di G. Alpa, Il principio di solidarietà nel diritto contrattuale, in Vita notarile, 2023, fasc. n. 3.
[24] Cass. civ., Sez. III, 19 marzo 2018, n. 6675, in Giust. civ. Mass., 2018; Cass. civ., Sez. III, 6 maggio 2015, n. 9006, in Resp. civ. e prev., 2015, 1293 ss.; ma già Cass. civ., Sez. lav., 20 maggio 2004, n. 9628, in Giust. civ. Mass., 2004.
[25] Cons. Stato, Sez. IV, 20 giugno 2024, n. 5514 e Cons. Stato, Sez. IV, 30 maggio 2022, n. 4331, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[26] Sullo statuto generale dell’attività amministrativa, che è tale anche allorquando l’Amministrazione ricorra ad un atto consensuale, cfr. la tesi di F.G. Scoca, Attività amministrativa, in Encicl. Dir., Milano, Giuffrè, 2002, Agg. VI, 75 ss.; ovviamente, occorre rinviare altresì alla voce di M.S. Giannini, Attività amministrativa, in Encicl. dir., Milano, Giuffrè, 1958, 988 ss.
[27] Cass. civ, Sez. III, 23 maggio 2011, n. 11295, in Giust. civ., 2012, 2, I, 430 ss.
[28] Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 6 maggio 2024, n. 1356, in www.giustizia-amministrativa.it, ma altresì Cass. civ., Sez. Un., 18 febbraio 2010, n. 3947, in Giust. civ., 2011, 2, I, 497 ss.
[29] Cass. civ., Sez. III, 22 novembre 2016, n. 23701, in Giust. civ. Mass., 2017.
[30] T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 26 novembre 2021, n. 2619; in www.giustizia-amministrativa.it, che richiama Cass. civ., Sez. III, 19 marzo 2018, n. 6675, in Giust. civ. Mass., 2018.
[31] Cfr., ex aliis, M. Nigro, Convenzioni urbanistiche e rapporti fra privati (problemi generali), in Atti del Convegno sul tema Convenzioni urbanistiche e tutela nei rapporti tra privati, Milano, Giuffrè, 1978, ora anche in Scritti giuridici, Milano, Giuffrè, 1996, tomo II 1303 ss.; ma più recentemente v. anche M. De Donno, Il principio di consensualità nel governo del territorio: le convenzioni urbanistiche, in Riv. giur. edil., 2010, 279 ss.; F. Manganaro, Nuove questioni sulla natura giuridica delle convenzioni urbanistiche, in Urb. e app., 2006, 344 ss.
[32] Ex pluribus, T.A.R. Piemonte, Sez. II, 28 ottobre 2019, n. 1090, in Foro amm., 2019, 10, 1651 ss.; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 18 giugno 2018, n. 1525, in Riv. giur. edil., 2018, 5, I, 1362 ss.; in senso concorde, ad esempio, cfr. G. Poli, Il problema della sinallagmaticità nell’accordo amministrativo. Brevi note sull’eccezione di inadempimento, in Dir. amm., 2014, 725 ss.
[33] Difatti, sono altresì definite l'archetipo dell'accordo pubblico-privato nella pianificazione urbanistica: cfr. A. Crismani, Spunti e riflessioni sul modello consensuale nella gestione dei beni pubblici ambientali, in Riv. giur. edil., 2021, 47 ss.; P. Urbani, Urbanistica consensuale, “pregiudizio del giudice penale” e trasparenza dell'azione amministrazione, in Riv. giur. edil., 2009, 47 ss.
[34] Così, ad esempio, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 8 gennaio 2019, n. 36, in Guida dir., 2019, 14, 22 ss.
[35] T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 16 luglio 2009, n. 1504, in Foro amm. Tar, 2009, 1991 ss.
[36] Cons. Stato, Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 293, in www.giustizia-amministrativa.it.
[37] T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 12 marzo 2015, n. 107, in www.giustizia-amministrativa.it.
[38] T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 10 novembre 2023, n. 2608, in Foro amm., 2023, 11, II, 1488 ss.
[39] Sul punto v. T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 9 febbraio 2021, n. 102, in www.giustizia-amministrativa.it.
[40] Così, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 20 giugno 2024, n. 5514, in www.giustizia-amministrativa.it.
[41] Sull’opportunità dell’introduzione di questa norma nella legge n. 241 del 1990 si rinvia quantomeno tra i primi commenti a: V. Italia, Commento al comma 1-bis, in Aa.Vv., L'azione amministrativa. Commento alla l. 7 agosto 1990, n. 241 modificata dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 e dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, Milano, Giuffrè, 2005, 76 ss.; B.G. Mattarella, Il provvedimento amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2005, 469 ss.; G. Napolitano, L'attività amministrativa e il diritto privato, in Giorn. dir. amm., 2005, 481 ss.; N. Paolantonio, Commento all'art. 2, comma 1-bis, in N. Paolantonio, A. Police, A. Zito, La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, Giappichelli 2005, 77 ss.; A. Travi, Autoritatività e tutela giurisdizionale: quali novità?, in Foro amm. Tar, supplemento n. 6/2005, 17 ss.; F. Trimarchi Banfi, L'art. 1, comma 1 bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm. CdS, 2005, 947 ss.; D. De Pretis, L'attività contrattuale della p.a. e l'art. 1-bis della legge n. 241 del 1990: l'attività non autoritativa secondo le regole del diritto privato e il principio di specialità, in GiustAmm,, 2006; L. Iannotta, L'adozione degli atti non autoritativi secondo il diritto privato, in Dir. amm., 2006, 353 ss.
[42] B.G. Mattarella, Fortuna e decadenza dell’imperatività del provvedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2012, 1 ss., osserva, al riguardo, che “il co. 1-bis, nell'escludere l'applicazione del diritto privato quando la legge disponga diversamente, nega se stesso, perché la legge dispone sempre diversamente, ogni volta che attribuisce un potere amministrativo. O, per lo meno, questa è la conclusione che si deve trarre dal fatto che atti come le concessioni e le autorizzazioni hanno continuato ad avere la forma di provvedimenti amministrativi, emanati a seguito di procedimenti e impugnabili dinanzi al giudice amministrativo (per fortuna, dato che procedimento e giurisdizione amministrativa sono strumenti di controllo e garanzia e non di sopraffazione)”.
[43] Come ricordato anche da Cons. Stato, Ad. Plen., 24 aprile 2024, n. 7, in Foro it. 2024, 78, III, 404, con riferimento alle procedure di appalto pubblico.
[44] Così Cons. Stato, Sez. III, 13 dicembre 2023, n. 10744, in www.giustizia-amministrativa.it.
[45] Da ultimo, cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 4 ottobre 2023, n. 5392, in Foro amm., 2023, 1379 ss.
[46] Cfr., in tema, Cons. Stato, Sez. IV, 21 agosto 2024, n. 7193, in www.giustizia-amministrativa.it.
[47] Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2018, n. 5, in Resp. civ. e prev., 2018, 1594 ss., con nota di S. Foà, M. Ricciardo Calderaro, Responsabilità contrattuale della p.a. tra correttezza e autodeterminazione negoziale.
[48] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 4 giugno 2021, n. 3747, in Foro amm., 2021, 1037 ss.; v. altresì Cons. Stato, Sez. VI, 24 novembre 2020, n. 7373, in Foro amm., 2020, 2121 ss.
[49] Così Cons. Stato, Sez. IV, 6 agosto 2024, n. 7004, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2289, in L’Amministrativista.
[50] Cons. Stato, Sez. II, 9 maggio 2024, n. 4200, in www.giustizia-amministrativa.it.; Cons. Stato, Sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2718, ivi; T.A.R. Piemonte, Sez. I, 16 febbraio 2024, n. 160, ivi.
[51] Cons. Stato, Sez. VII, 30 marzo 2024, n. 2979, in www.giustizia-amministrativa.it.
[52] Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 10, in Foro it., 2014, 4, III, 213.
[53] Cons. Stato, Sez. V, 7 marzo 2023, n. 2354, in www.giustizia-amministrativa.it.
[54] Peraltro, Corte cost. 21 dicembre 2021, n. 245, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 28, co. 1, lett. a), legge reg. Lombardia 7 agosto 2020, n. 18, come delimitato - nel suo ambito di applicazione - dall'art. 20, co. 2, lett. b), legge reg. Lombardia 27 novembre 2020, n. 22, laddove prevede la proroga dei termini dei titoli abilitativi disposta durante l'emergenza COVID-19 in scadenza dal 31 gennaio 2020 e fino al 31 dicembre 2021, per tre anni dalla data di relativa scadenza, perché in contrasto con la disciplina statale che, incidendo sulla durata dei titoli abilitativi, partecipa della natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio. L'art. 28, co. 1, lett. a), legge reg. Lombardia n. 18 del 2020, nel disporre la proroga dei titoli abilitativi in modo difforme da quanto previsto nella disciplina statale (artt. 103, co. 2, d.l. n. 18 del 2020, come convertito, e 10, co. 4, d.l. n. 76 del 2020, come convertito), entra in collisione con un principio fondamentale. Il raffronto tra le norme statali interposte e la disciplina regionale rende palese la diversità della proroga automatica disposta dalla Regione Lombardia, con riferimento sia all'oggetto - individuato in tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti o titoli abilitativi, comunque denominati in scadenza dal 31 gennaio 2020 fino al 31 dicembre 2021, laddove l'art. 103, co. 2, d.l. n. 18 del 2020, prevedeva la proroga automatica degli atti e titoli abilitativi in scadenza tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020 -, sia alla durata della proroga, che la disposizione regionale ha indicato in tre anni dalla scadenza, mentre la norma statale ha individuato il termine finale nel novantesimo giorno successivo alla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza.
[55] P. Otranto, In tema di normazione ad effetto incerto. Dalla “cura” al “rilancio”: legislazione dell’emergenza e disciplina dell’attività edilizia, in Riv. giur. edil., 2020, 397 ss., osserva criticamente come, “considerate le conseguenze — urbanistiche e non solo edilizie — degli interventi previsti dalla convenzione di lottizzazione e la consistenza degli stessi, appare irragionevole la norma richiamata, laddove, ai sensi del comma 2, per interventi di minore impatto e rilevanza (finanche per quelli oggetto di semplice s.c.i.a.) la proroga di novanta giorni decorre non dalla originaria scadenza dell'atto, ma dalla dichiarazione di cessazione dello stato di emergenza. Siamo probabilmente innanzi ad un'ulteriore previsione introdotta senza un'adeguata valutazione della complessiva coerenza rispetto ad altre disposizioni della stessa legge e, più in generale, all'intero sistema”.
[56] Cons. Stato, Sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379, in Foro amm., 2020, 9, 1709 ss.; e in Riv. giur. edil., 2021, 192 ss., con nota di G.A. Primerano, La verifica di assoggettabilità a valutazione d’impatto ambientale. Questioni attuali.
[57] Cfr. R. Dipace, A. Rallo, A. Scognamiglio (a cura di), Impatto ambientale e bilanciamento di interessi. La nuova disciplina della Valutazione di impatto ambientale. Raccolta degli Atti del Convegno Nazionale Associazione Italiana di Diritto dell'Ambiente 2018 (Campobasso, 13 aprile 2018), Napoli, Esi, 2018.
[58] Cons. Stato, Sez. IV, 10 giugno 2024, n. 5154, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 13 gennaio 2023, n. 443, ivi.
[59] Cons. Stato, Sez. II, 7 settembre 2020, n. 5379, cit.
[60] In questi termini v. F. Fracchia, I procedimenti amministrativi in materia ambientale, in A. Crosetti, R. Ferrara, F. Fracchia, N. Olivetti Rason, Introduzione al diritto dell'ambiente, Bari, Editori Laterza, 2018, 260.
[61] Anche E. Casetta, Attività amministrativa, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1987, Vol. I, 522 ss., resta perplesso sulla “presenza di autonomia in ogni attività di diritto privato della pubblica amministrazione”.
[62] Su questo non si può che rimandare allo studio di F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, Giuffrè, 1970.
[63] In tema v. già la ricostruzione di R. Ferrara, Intese, convenzioni e accordi amministrativi, in Dig. disc. pubbl., Torino, Utet, 1993, Vol. VIII, 543 ss.; F. Merusi, Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo le recenti riforme, in Dir. amm., 1993, 21 ss.
[64] P. Urbani, Alla ricerca della città pubblica, in Riv. giur. edil., 2023, 3 ss., evidenzia come invece purtroppo spesso “negli accordi urbanistici assistiamo al contrario alla degradazione dell'interesse pubblico a favore dell'interesse privato”.
[65] Cfr., al riguardo, N. Aicardi, La disciplina generale e i principi degli accordi amministrativi: fondamento e caratteri, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, 1 ss.; più di recente v. A. Giannelli, Gli accordi amministrativi (ancora) in cerca di identità: riflessioni sull’ipotesi della connotazione doverosa, in Dir. e soc., 2021, 59 ss.
Lo stato regionale dopo la sent. n. 192 del 2024
di Andrea Morrone
Sommario: 1. Una “sentenza quadro”, con luci e ombre. – 2. Una decisione sull’art. 116.3 Cost. che riscrive il titolo V? – 3. I molti volti della sussidiarietà: clausola di supremazia, ascensore, canone di adeguatezza. – 4. I limiti generali della differenziazione regionale (impliciti all’art. 116.3 Cost.). – 5. Le “materie sospette” difficilmente devolvibili, soggette a uno “strict scrutiny”: un nuovo “comma 22” e il problema degli elenchi. – 6. Oltre 100 pagine, 52 pronunce, un solo dispositivo. Quale “nucleo normativo” resta, dopo la “colegislazione” della Corte, anche ai fini dei referendum abrogativi. – 7. Le singole pronunce di accoglimento. L’oggetto della differenziazione per “specifiche funzioni” e non per “intere materie”, tra illusione e realtà. – 8. Il “test di adeguatezza” e la “giustificazione sufficiente” contenuto della “motivazione” necessaria per la legge di autonomia differenziata. – 9. Apologia della democrazia fondata sulla dialettica di unità-pluralismo e della centralità parlamentare: una legge di approvazione sostanziale e non “prendere o lasciare”. – 10. I limiti intrinseci della forma di governo parlamentare a garantire una differenziazione costituzionalmente adeguata e lo spostamento di potere dal Parlamento alla Corte costituzionale. – 11. Il nodo della determinazione dei Lep. Illegittimità del meccanismo di determinazione (non della necessità dei Lep): una delega legislativa in bianco e l’incoerenza intrinseca dei Dpcm. – 12. Senza il meccanismo di determinazione dei Lep, una legge inapplicabile? – 13. Come stabilire i Lep, tra legge e dpcm. La strada dei livelli di assistenza sanitaria. Lep e funzioni caso per caso. – 14. Concetto dei Lep. Differenza tra contenuto minimo di un diritto (right security) e Lep (right safety). Il nodo della condizionalità finanziaria dei Lep e il diritto alle risorse corrispondenti. – 15. Dopo la sentenza 192, due modelli di finanziamento del regionalismo: a) la “forma” costituzionale. – 16. (Segue): b) la “variazione sul tema” contenuta nella legge generale come manipolata dalla Corte costituzionale: finanziamento dinamico dei Lep, invarianza della compartecipazione. – 17. Una sintesi sulla “gestione efficiente” della differenziazione: una soluzione impossibile?
1. Una “sentenza quadro”, con luci e ombre
Per la terza volta nella storia della sua giurisprudenza, la Corte costituzionale ha adottato una decisione di portata generale sulla struttura della Repubblica “una e indivisibile, che riconosce e promuove le autonomie locali” (art. 5 Cost.). E già questo aspetto è rilevante.
Come nella sent. n. 177 del 1998 sull’interesse nazionale e, poi, nella sent. n. 303 del 2003 sul principio di sussidiarietà, anche nella sent. n. 192 del 2024 sul regionalismo differenziato i giudici di palazzo della Consulta hanno dato prova della volontà di tratteggiare le linee portanti del regionalismo. Il risultato è, però, un affresco con molte luci e molte ombre. È forse una conseguenza, inevitabile, della scelta di anteporre al giudizio sulle molteplici questioni di costituzionalità sulla legge n. 86 del 2024 – quasi solo l’occasio della pronuncia – una valutazione globale sullo stato dell’arte presente e futuro del nostro sistema pluralistico.
Molto si potrebbe dire comparando le tre decisioni generali oltre a questa osservazione preliminare sull’ambiguità di fondo di pronunce che vorrebbero chiudere una volta per tutte ma che, invece, finiscono per aprire molte porte. La sensazione – abbandonate le posizioni delle opposte tifoserie schierate in campo – è la distanza che si registra tra la “forma” della Costituzione scritta e la sua interpretazione vivente[1].
Nei precedenti ricordati, l’interesse nazionale e la sussidiarietà sono stati configurati come i criteri per ordinare i principi di unità e di differenziazione a vantaggio della centralizzazione, ma non hanno impedito affatto la regionalizzazione. L’unità della Repubblica (insieme a tutti i corollari che ne riempiono il contenuto ampiamente richiamati nella 192) nell’interpretazione recente della Consulta, invece, diventa la leva per rendere estremamente improbabile (se non impossibile) la forma più estrema della differenziazione territoriale prefigurata nell’art. 116.3 Cost. La legge n. 86/2024 ha portato allo scoperto tutte le ambiguità di quella norma: ed è l’aspetto positivo dell’intera vicenda sull’uso politico della differenziazione. Dopo la sent. n. 192, però, sembra di assistere all’ennesimo requiem del nuovo Titolo V.
Se mettiamo in fila l’esperienza degli ultimi vent’anni, quelli di una revisione costituzionale che aveva l’obiettivo di modernizzare il Paese attraverso un più avanzato processo di decentramento e di regionalizzazione, non è difficile scorgere le tracce del fallimento di un’impresa collettiva. In fondo, lo svuotamento sostanziale della legge n. 86 del 2024 non è che l’ultimo e, tutto sommato, marginale tassello di un mosaico depauperato (da parte di tutti gli attori: Parlamento, Governo, autonomie territoriali, Corte costituzionale) di tutte le tessere essenziali: la promessa trasformazione della “seconda camera” in un “senato delle regioni” (travolta dalle riforme costituzionali mancate, da quelle realizzate finora e dalla prassi parlamentare sul “monocameralismo di fatto”); una legge sul trasferimento delle funzioni mai nata dopo la revisione (basti ricordare il “ridicolo” tentativo della cd. “legge La Loggia” svuotata da Corte cost. sent. n. 280 del 2004); una decisione effettiva sull’allocazione delle risorse finanziarie di uno Stato pluralista complesso (entrate, spese, perequazione) sostituita da interventi settoriali che hanno perpetuato una finanza decentrata per trasferimenti vincolati (stante il “congelamento”, mediante i rinvii reiterati – l’ultimo dei quali contenuto nel Pnrr fino al 2027 – della legge sul cd. federalismo fiscale e di tutti i suoi decreti delegati)[2]; e, last but not least, la concreta difficilissima possibilità di accedere al cd. regionalismo differenziato, proprio dopo l’importante sent. n. 192.
2. Una decisione sull’art. 116.3 Cost. che riscrive il titolo V
La strategia argomentativa della pronuncia è quella di ribaltare il punto di vista. Essa si concentra non sulla legge n. 86 del 2024 (o non soltanto su di essa), impugnata da quattro regioni contrastate da altre tre, ma soprattutto sull’art. 116.3 Cost. Questo è il “vero” oggetto della decisione.
Ciò non dipende dal fatto che, almeno in uno dei ricorsi regionali, si contestava la legittimità della novella introduttiva del regionalismo differenziato rispetto ai principi supremi dell’ordinamento (possibile ex sent. n. 1146 del 1988), in primis quello di unità e indivisibilità della Repubblica (trattandosi, in fondo, di una censura messa in subordine rispetto a tutte le altre). Si potrebbe aggiungere che, del resto, nei ricorsi sembrava difficile separare la critica della legge da quella alla disposizione costituzionale. Il rischio paventato, in fondo, poteva essere che la legge n. 86 andasse considerata, non soltanto negli ambienti della maggioranza parlamentare che l’aveva voluta e approvata, la fedele riproduzione dei contenuti dell’art. 116.3 Cost. e, quindi, inattaccabile in sé e per sé, senza contestare (direttamente o indirettamente) la legittimità della “norma di riconoscimento”. Per superare questa prospettiva e, soprattutto, per allontanare il “calice amaro” di una inedita, per tanti versi difficile, e oltremodo improbabile, dichiarazione di incostituzionalità della previsione costituzionale in questione, la Corte ha fatto una scelta decisiva. Separare la norma costituzionale dalla legge di attuazione, interpretando in modo conforme ai principi supremi la prima, e manipolando in più punti e in maniera diversificata la seconda.
Lo si dice chiaramente fin dall’incipit: il 116.3 non è “un monade isolata” ma va collocato nel “quadro complessivo della forma di stato italiana, con cui va armonizzata”. Che questo fosse il da farsi non pare dubitabile. Solo un marziano – absit iniura verbis per coloro che avevano indossato questo figurino prima della presente decisione – poteva dubitare che l’art. 116.3 Cost. e la sua attuazione positiva avrebbero potuto svolgersi in contraddizione con il sistema costituzionale[3].
Il problema della sentenza è un altro. Siamo certi che il risultato ottenuto sia quello di una interpretazione sistematica? O, piuttosto, la Corte costituzionale ha riscritto i contenuti della forma di stato definiti dal nuovo Titolo V? Unità e pluralismo nella Costituzione scritta conducono alle conclusioni cui sono portati dalla decisione della Corte costituzionale?
3. I molti volti della sussidiarietà: clausola di supremazia, ascensore, canone di adeguatezza
Il principio di sussidiarietà è riletto rispetto alla sent. n. 303/2003. Dal fare le veci di una clausola di supremazia costituzionale (un surrogato aggiornato dell’interesse nazionale delineato, nella sent. n. 177 del 1988, con i corollari della leale collaborazione e della ragionevolezza), torna ad essere una sorta di “ascensore”, un canone “dotato di intrinseca flessibilità” nella distribuzione delle competenze tra centro e periferie, più in linea con il tenore e la ratio dell’art. 118 Cost., non quindi della “sentenza Mezzanotte” appena richiamata.
Nondimeno, la Corte – anche di fronte al silenzio dell’art. 116.3 Cost. che, invece, menziona solo l’art 119 Cost. – lo utilizza pure in un’altra prospettiva: quale principio per regolare il regionalismo differenziato, attraverso la sua metamorfosi in un canone generale “adeguatezza” (declinata partitamente nei criteri di efficienza, equità, responsabilità), quasi confondendo questo concetto con quello di sussidiarietà (nonostante la distinta menzione di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione nell’art. 118 Cost.).
Non basta. Addirittura, si arriva a sostenere che l’art. 116.3 Cost. è “espressione della flessibilità propria del principio di sussidiarietà”, dato che “contiene una clausola generale di flessibilità che consente a ciascuna regione di chiedere di derogare all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”.
Singolari affermazioni. L’art. 116.3 Cost. rappresenta, sì, il mezzo per derogare il regionalismo valido in via ordinaria (che la Corte definisce come “ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”), ma il risultato delle leggi rinforzate è quello di creare una situazione privilegiata, differenziata appunto, rispetto alle altre regioni (dette “terze”), che è rigida e definitiva (rebus sic stantibus: finché le intese e le leggi correlative non sono modificate), e che, se i testi hanno un senso, resta di norma impermeabile a qualsiasi applicazione della sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost. L’ascensore, per come dice il testo della Costituzione, vale rispetto al regionalismo ordinario, non certo nei confronti delle “regioni differenziate”. La flessibilità è propria del modello costituzionale, non certo di quello in deroga per effetto della differenziazione negoziata. O, viceversa, si vuole ammettere che, nonostante le leggi di differenziazione, la clausola di sussidiarietà possa essere attivata (e da chi? dallo Stato?, secondo il senso della sent. n. 303 del 2003?) per flessibilizzarne i relativi contenuti, portando (unilateralmente) verso l’alto alcune delle funzioni decentrate, oppure riportando a valle altre funzioni erariali, senza una nuova intesa con la regione interessata?
Nuovi usi della sussidiarietà, insomma, inediti anche rispetto alla stessa giurisprudenza costituzionale pregressa.
4. I limiti generali della differenziazione regionale (impliciti all’art. 116.3 Cost.)
La riscrittura del 116.3 Cost., per renderlo compatibile con la Costituzione – perché di questo si discute nella sentenza in esame – va apprezzata anche con riferimento ad altri dati.
La sintesi può essere letta in una delle tante formule “definitive”: “In conclusione, l’art. 116, terzo comma, Cost., richiede che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, definite in relazione all’oggetto e/o alle finalità, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà” (p.n. 4.3). Tornerò sul punto delle “specifiche funzioni” e della giustificazione del trasferimento, in uno con la questione del finanziamento, compreso il nodo dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep).
La sentenza snocciola una serie di limiti, derivanti dall’art. 116.3 Cost., ma dei quali, per la verità, non c’è traccia nel testo scritto. Proprio accogliendo il suggerimento dei ricorrenti, per cui il trasferimento deve essere necessariamente differenziato per “specifiche funzioni” e non per materie, la Corte precisa che, quandanche le funzioni siamo spostate alla competenza legislativa piena della regione richiedente le “forme e condizioni particolari di autonomia”, restano fermi una serie di vincoli: non solo i limiti generali dell’art. 117.1 Cost. – inutile precisazione, spiegabile solo se fosse rivolta a occasionali e frettolosi lettori della Costituzione scritta – ma anche le competenze trasversali come la tutela della concorrenza, i Lep, l’ordinamento civile, fermo il potere sostitutivo di cui all’art. 120.2 Cost., aggiungendo che la devoluzione non può sorpassare le “colonne d’Ercole” individuate “dall’art. 116, terzo comma, Cost., come precedentemente interpretato, a garanzia della permanenza dei caratteri indefettibili della nostra forma di stato”.
L’effettività di questi limiti è assicurata dal controllo di costituzionalità, che la Corte si riserva, sulle singole leggi di autonomia differenziata “alla stregua dei principi sin qui enunciati”. Tale sindacato è attivabile o in via incidentale, o in via d’azione su ricorso delle “regioni terze”, dato che la violazione dei limiti così individuati dell’art. 116.3 Cost. da parte delle singole leggi rinforzate si traduce in un “regime privilegiato per una determinata regione”, che si trasforma nella violazione “di per sé” della “par condicio tra le regioni”, ovvero della “loro posizione di eguaglianza davanti alla Costituzione” ex artt. 5 e 114.
Il costruttivismo interpretativo conduce ad un ampliamento dei poteri del Custode. Questi i profili palesi; ve ne sono anche altri che restano sottintesi. Ne dirò avanti.
5. Le “materie sospette” difficilmente devolvibili, soggette a uno “strict scrutiny”: un nuovo “comma 22” e il problema degli elenchi
Non paga, la decisione 192 stabilisce in un esteso paragrafo (p.n. 4.4) che, inoltre, vi sono “materie, cui pure si riferisce l’art. 116, terzo comma, Cost., alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è in linea di massima difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà”.
Scelta impegnativa, sia perché nel testo della Costituzione non c’è traccia di una simile “riserva indiana”, sia perché contraddittoria rispetto a quanto detto dalla Corte sulla sussidiarietà come “ascensore” per l’allocazione ottimale di tutte le funzioni (e non solo di alcune).
Ne deriva un lungo e argomentato elenco, che integra l’art. 117 di un nuovo “comma 22”, relativo a materie che “motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico (…) ne precludono il trasferimento”, per le quali “l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà diventa, perciò, particolarmente gravoso e complesso”. Così tanto, si allega, da implicare, nientedimeno che uno “scrutinio stretto di legittimità costituzionale” (sia detto per incidens: negli altri casi lo scrutinio non sarebbe “stretto”?).
Il “comma 22” prevede così (lo dico in sintesi): il commercio con l’estero, il commercio con l’Unione Europea (Ue), la tutela dell’ambiente; la produzione, il trasporto, la distribuzione nazionale dell’energia; i porti e gli aeroporti civili e le grandi reti di trasporto e di navigazione; le professioni; l’ordinamento della comunicazione; le norme generali sull’istruzione.
Sono materie molte delle quali fortemente incise dalle “trasformazioni intervenute sul piano geopolitico e geoeconomico”, e, più concretamente, dal diritto dell’Ue e, quindi, come quella ambientale per tutte, su cui Bruxelles ha esercitato poteri normativi “in modo assai ampio”.
Quando si fanno elenchi, il rischio che si corre è quello degli assenti. Anche in questo caso, a voler seguire il ragionamento della Consulta, ci si potrebbe chiedere perché solo queste materie e non altre, come ad esempio la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute (la voce di bilancio più rilevante della spesa nazionale e regionale), la tutela e sicurezza del lavoro, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile ecc. In fondo, per qualsiasi delle materie individuate nell’art. 117.3 Cost. è possibile indicare funzioni espressione di “esigenze di carattere unitario” e quindi infrazionabili, interessate dal diritto europeo.
Continuando sulla strada seguita dalla Corte, certo, si sarebbe potuto arrivare alla conclusione che il regionalismo differenziato non avrebbe avuto alcun senso. Pare, nondimeno, difficile allontanare l’impressione che i limiti individuati pretoriamente abbiano di mira un risultato assai prossimo a quello appena paventato.
6. Oltre 100 pagine, 52 pronunce, un solo dispositivo. Quale “nucleo normativo” resta, dopo la “colegislazione” della Corte, anche ai fini dei referendum abrogativi
Una volta inquadrato il contenuto dell’art. 116.3 nella costellazione dei vincoli costituzionali, la sent. n. 192 si dedica alla risoluzione delle censure relative alla legge n. 86/2024. Anche in questo ambito, tuttavia, l’esame delle disposizioni legislative è stato preceduto da considerazioni di carattere generale, che hanno plasmato i contorni interpretativi di tutti i concetti fondamentali della Costituzione.
La Corte se ne occupa classificando i capitoli del “libro” sul regionalismo italiano a seconda che si tratti delle fonti di produzione e dei loro rapporti, della determinazione dei Lep, del sistema di finanziamento, della leale collaborazione.
I numeri aiutano a capire la singolarità della 192: nelle oltre 100 pagine di motivazione, la decisione ha restituito un dispositivo che contiene 52 pronunce, di cui 14 dichiarazioni d’incostituzionalità (6 accoglimenti secchi, 5 sostitutive, 1 additiva, 2 illegittimità consequenziali), 12 inammissibilità (motivate non solo in punto di rito, ma contenenti precisazioni esegetiche), 26 dichiarazioni di infondatezza (di cui almeno 3 interpretative di rigetto, relative ai punti qualificanti della disciplina).
Scendendo di piano, la demolizione della legge n. 86/2024 non ha tanto l’aspetto di una caducazione, quanto quello di una sua manipolazione interpretativa, frutto di una sorta di “co-legislazione” esercitata dal giudice costituzionale. La legge generale (la cui illegittimità “totale” è stata esclusa da tutti i profili censurati) è stata riscritta, nel senso che anche gli accoglimenti si sono risolti nella positivizzazione di contenuti normativi diversi da quelli originari.
Sulla base di questa considerazione, del resto, lo stesso Ufficio centrale per il referendum della Cassazione ha ritenuto – in applicazione analogica dell’art. 39 della legge n. 352 del 1970 – di trasferire il quesito abrogativo totale sul testo della legge risultante a seguito della sent. n. 192 (così come, parallelamente, ha dichiarato la cessazione delle operazioni per il quesito parziale, concernente il trasferimento di materie definite dalla legge “no-Lep” essendo stato raggiunto il risultato che anche per quegli stessi ambiti materiali la predeterminazione dei Lep consegue all’esistenza di funzioni concernenti diritti). È, pertanto, ragionevole ritenere, con la Cassazione, che il corpo elettorale poteva essere chiamato a pronunciarsi sulla perdurante vigenza di una legge generale sull’attuazione dell’art. 116.3 Cost., sia pure nella forma di “un nucleo normativo che non solo resta oggi formalmente vigente, ma vi resta convalidato nella interpretazione adeguatrice che ne è stata data”[4].
Questo non significa che il quesito sia pure ammissibile. La questione è in certo senso nuova: la Corte è chiamata a stabilire l’ammissibilità di un quesito totale su una legge che esse stessa, riscrivendola in alcuni punti, ha contribuito a rendere immune da vizi di costituzionalità[5].
La decisione di inammissibilità che è stata presa dalla Consulta, però, si spiega proprio in ragione della premessa che facevo. Avendo la sent. n. 192 deciso sulla compatibilità costituzionale del 116.3 Cost., l’oggetto del referendum è stato mutato, perché più che sulla legge n. 86/2024, il corpo elettorale sarebbe stato chiamato a pronunciarsi sulla norma costituzionale. Come in un “miracolo costituzionale” (quelli di cui parlava il decisionista Carl Schmitt) la legge di attuazione da facoltativa (la Corte ha escluso apertamente che sia una “legge necessaria”) è diventata “a contenuto costituzionalmente vincolato”. Non per nascita, ma per gli sviluppi successivi, prodotti dalla sent. n. 192[6].
7. Le singole pronunce di accoglimento. L’oggetto della differenziazione per “specifiche funzioni” e non per “intere materie”, tra illusione e realtà
L’effetto normativo della sent. n. 192 si è appuntato su alcuni nodi della legge: l’estensione alle regioni speciali (l’unica disposizione “palesemente” incostituzionale per evidente e chiarissimo contrasto con la lettera dell’art. 116 Cost.); l’oggetto della differenziazione (con la sostituzione delle “materie” con “specifiche funzioni”); la determinazione dei Lep (con l’annullamento della delega legislativa “in bianco”, dell’aggiornamento dei Lep mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e della procedura transitoria di determinazione dei Lep sempre mediante Dpcm); l’allineamento “fabbisogni-compartecipazioni” (sulla base del criterio della “spesa storica” anziché di quello dei “costi standard” o della “spesa efficiente”); il concorso delle regioni differenziate agli obiettivi di finanza pubblica (previsto come facoltativo anziché obbligatorio). Nessuna censura è stata accolta in materia di violazione del principio di leale collaborazione.
Se la prima decisione appariva scontata (tanto da sembra persino superfluo fare riferimento all’art. 10, legge cost. n. 3 del 2001, al fine di rintracciare una qualche ragione che potesse superare la “specialità” regionale, garantita mediante statuti approvati con legge costituzionale), le altre – quelle che hanno dato luogo ad altrettante decisioni di accoglimento – potevano dirsi controverse, e per nulla sicure (tutte quelle rigettate nel merito erano per me scontate).
Cominciamo dall’oggetto della differenziazione. Dopo aver escluso l’incostituzionalità dell’intera legge, la Corte ha annullato la disciplina positiva che disponeva trasferimenti indiscriminati, potenzialmente interessanti “tutte le funzioni di tutte le materie”.
Sulla decisione ha pesato l’esperienza delle prime intese, che avevano proprio questo contenuto (almeno quelle di Veneto e di Lombardia). Non era questo l’oggetto della causa petendi, però; anche se è difficile escludere che quel dato non fosse un “convitato di pietra” – anche perché la stessa legge rivitalizzava gli accordi già stipulati.
La Corte accoglie e sostituisce le “materie” con le “specifiche funzioni”, perché questo dato deriverebbe dal testo dell’art. 116.3 Cost.
Strana considerazione, se è vero che proprio quell’articolo parla di “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie (…)”. Formula che, evidentemente, ha generato un “equivoco” interpretativo (nella prassi e nel dibattito pubblico). Qui emerge lo iato creato dalla Corte tra il parametro e la legge: l’illegittimità di quest’ultima su tale punto discende dalla prima, ma per come essa è stata adeguata a Costituzione nella parte generale della sentenza, non certo per il suo tenore letterale.
Dal punto di vista positivo e applicativo, i trasferimenti riguardano sempre “funzioni”, non materie. In questi termini ne parlano gli artt. 116, 117, 118 e 119 Cost.; così si esprimono gli statuti speciali – il termine di comparazione più diretto con il regionalismo differenziato, stante la stessa fraseologia usata nell’art. 116 Cost. (cfr. ad es. art. 4, St. Friuli-Venezia Giulia: la regione “ha potestà legislativa nelle seguenti materie”; artt. 4 e 8, St. Trentino-Alto Adige). Lo stesso art. 1.2 della Legge n. 86 (oggetto di intervento manipolativo-sostitutivo) contempla “l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (…) relative a materie o ambiti di materie (…)”.
Era, quindi, necessaria la precisazione della Corte? L’unica novità vera riguarda l’aggettivo “specifiche” funzioni, in effetti mancante nella formula legale (ma anche nel parametro!). Nondimeno: la precisazione impedisce che, trasferendo anche per “specifiche funzioni”, si arrivi comunque al risultato che si è voluto sterilizzare? Ossia che la devoluzione possa avere ad oggetto tutte le funzioni relative ad una o più materie indicate nel testo dell’art. 116.3 Cost. (al netto, ovviamente, dei limiti costituzionali individuati dalla Corte)?
Il merito della Corte è di avere colpito questa parte della disciplina per sgombrare il campo da ogni equivoco, imponendo trasferimenti solo per “specifiche funzioni”, che quindi vanno individuate di volta in volta, e – questo l’aspetto più rilevante che supera ogni dubbio – affinché con riferimento a ciascuna specifica funzione devolvibile vi sia una altrettanto specifica “giustificazione” della devoluzione.
Da questo punto di vista, ciò che viene aggiunto al testo della Costituzione è la necessità di una motivazione in termini di adeguatezza della differenziazione. Un trasferimento per “specifiche funzioni” purché “adeguato”.
8. Il “test di adeguatezza” e la “giustificazione sufficiente” contenuto della “motivazione” necessaria per la legge di autonomia differenziata
Giustificare per differenziare è il primo nodo da affrontare. Si tratta di un percorso ad ostacoli, a voler seguire l’indicazione della Corte, fatto dell’applicazione dei criteri di adeguatezza, del rispetto dei consistenti limiti costituzionali, dell’esperimento di una “idonea istruttoria”.
Sui primi la sent. n. 192 si dilunga assai. Il test di adeguatezza – che vale tanto per le parti dell’intesa, quanto ai fini del successivo eventuale giudizio di costituzionalità sulla legge rinforzata – sono individuati in valutazioni circa l’efficacia e l’efficienza ex art. 97 Cost., l’equità-eguaglianza ex art. 3 Cost., la responsabilità politica (nel quadro del “pieno rispetto” degli obblighi internazionali ed europei). Si chiarisce che la giustificazione dell’adeguatezza va fatta con riferimento alle caratteristiche della funzione e del contesto della devoluzione, previa “istruttoria approfondita” suffragata da “metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”. Infine, si indicano i vincoli da rispettare che, come anticipato, vanno da quelli generali del 117.1 Cost., alle materie trasversali come concorrenza, Lep, ordinamento civile, alle cd. “materie sospette” il cui trasferimento sarebbe “difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà”.
Molti i dubbi che un simile discorso suscita. Il procedimento per la differenziazione esce ancora più complicato rispetto alla legge n. 86/2024.
Consideriamo l’idonea istruttoria, dalla quale dovrebbe emergere l’applicazione dei criteri di adeguatezza: chi dovrebbe svolgerla, e quando andrebbe fatta? La sent. n. 192 al p.n. 4.3. riferisce l’istruttoria all’iniziativa regionale che, quindi, dovrebbe esserne supportata. È evidente, tuttavia, che da sola la regione non sarebbe in grado di risolvere tutti i passaggi del test, anche perché l’adeguatezza non riguarda (non potrebbe) solo il contesto della richiedente (come sembrerebbe ritenere Lorenza Violini[7]), ma implica una visione di insieme che coinvolga direttamente anche lo Stato, attraverso il governo (non a caso nel p.n. 22.1 si evoca una “gestione più efficiente allo Stato”).
Non potrebbe essere altrimenti. Anche perché è lo Stato che deve trasferire le funzioni e le relative risorse; è lo Stato che deve determinare e garantire i Lep, e le relative risorse; e, quindi, è lo Stato che deve definire, insieme all’autonomia particolare della regione richiedente, anche il quadro delle grandezze organizzative che riguardano il resto del Paese (che deve poter andare avanti, nonostante la regione differenziata).
Non si dice, ma è come se la sent. n. 192 avesse imposto una “motivazione” sufficiente alla legge rinforzata (riaprendo il noto tema se la “legge” sia suscettibile di allegare una simile giustificazione).
9. Apologia della democrazia fondata sulla dialettica di unità-pluralismo e sulla centralità parlamentare: una legge di approvazione sostanziale delle intese e non un “prendere o lasciare”
Un ragionamento simile porta acqua al mulino del Parlamento, valorizzato nella sua funzione di rappresentanza degli interessi nazionali, senza colpire affatto il tenore della legge n. 86/2024, soltanto interpretando l’art. 116.3 Cost. nel quadro del sistema costituzionale. Pure stavolta non si rinuncia a sovrabbondanti argomentazioni retoriche. A volte contraddittorie.
Nella parte generale di questo “manuale” di diritto costituzionale e regionale, la Consulta sente il bisogno di partire ab imis, dalla definizione della democrazia italiana, fondata sulla dialettica di pluralismo e unità, precisando che essa “può essere mantenuta solamente se le molteplici formazioni politiche e sociali e le singole persone, in cui si articola il ‘popolo come molteplicità’, convergono su un nucleo di valori condivisi che fanno dell’Italia una comunità politica con una sua identità collettiva. In essa confluiscono la storia e l’appartenenza a una comune civiltà, che si rispecchiano nei principi fondamentali della Costituzione. A tutto ciò si riferisce la stessa Costituzione quando richiama il concetto di ‘Nazione’ (artt. 9, 67 e 98 Cost.)”.
In sostanza si postulano una serie di identificazioni: tra l’identità collettiva, la storia e la civiltà, la nazione, che costituirebbero un tutto. Il popolo (poco prima inteso come “molteplicità”) e la Nazione diventano, ora, unità non frammentabili, che postulano la “unicità della rappresentanza politica nazionale”.
Da qui opposte valutazioni: da un lato le modifiche costituzionali del 2001 “non permettono di individuare ‘una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali’ (sentenza n. 365 del 2007)”; da un altro lato, la “ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana non può trovare espressione in un’unica sede istituzionale, ma richiede una molteplicità di canali e di sedi…”. Ciò nondimeno, si aggiunge che “spetta, però, solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo istituzionale”. Anche se la tutela delle esigenze unitarie fa parte “dell’indirizzo politico della maggioranza e del Governo, nel rispetto del quadro costituzionale”, il Parlamento è il luogo del “confronto trasparente con le forze di opposizione”, che “permette di alimentare il dibattito nella sfera pubblica, soprattutto quando si discutono questioni che riguardano la vita di tutti i cittadini”. Sicché Il Parlamento “deve, inoltre, tutelare le esigenze unitarie tendenzialmente stabili, che trascendono la dialettica maggioranza-opposizione”, come dimostrano la riserva di competenza esclusiva “in alcune materie in cui siano curate esigenze unitarie”, e i compiti unificanti nei confronti del pluralismo istituzionale mediante i principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente, le materie trasversali, la perequazione finanziaria.
Una simile scolastica, ma utile, apologia del Parlamento non poteva che condurre all’altrettanto ovvia deduzione – ovviamente dimenticata dalla maggior parte degli interpreti (comprese le regioni impegnate sulla differenziazione) – che la legge di approvazione delle intese non può essere un passaggio formale, ma un atto deliberativo sostanziale, perché l’art. 116.3 Cost. affida alle “alle Camere un ruolo centrale nella fase finale del procedimento” che si traduce in “un potere legislativo pieno” (p.n. 11.3), che può rimettere in moto il negoziato presupposto.
Del resto, solo a coloro che dimenticano la “nobile arte del distinguere” – tanto cara a Marco Cammelli[8] – poteva sfuggire che le regole degli artt. 8 e 116.3 Cost., per dirla con la n. 192, “pur essendo formulate in modo simile, si occupano di fattispecie eterogenee” (p.n. 5.5). L’avevo scritto in tempi non sospetti[9]. Inascoltato.
10. I limiti intrinseci della forma di governo parlamentare a garantire una differenziazione costituzionalmente adeguata e lo spostamento di potere dal Parlamento alla Corte costituzionale
Una considerazione a margine su quest’ultimo punto. Il discorso è ineccepibile in un manuale. Nella realtà delle nostre istituzioni di governo parlamentare è eccessivamente semplice. Ci consegna una visione elementare, in cui il governo è il contraltare del Parlamento, quando, invece, il governo è emanazione permanente di una maggioranza parlamentare, cui si contrappone, questa volta sì, una opposizione (l’una e l’altra spesso divise in diversi gruppi o partiti, ma questa è un’altra storia). E allora: la valutazione della giustificazione di una richiesta di regionalismo differenziato in termini di adeguatezza, l’apprezzamento sostanziale del Parlamento in sede di approvazione della legge rinforzata, come si conciliano con la realtà costituzionale del governo parlamentare? Un governo con una solida maggioranza può facilmente piegare la volontà parlamentare sull’uno e sull’altro fronte.
Da questo punto di vista, il disegno costituzionale, e la legge n. 86/2024, si presentano non adeguati alla rilevanza delle questioni connesse alla differenziazione negoziata, vieppiù di fronte alle corrette sollecitazioni della Consulta.
Sicché, le esigenze unitarie di cui il Parlamento dovrebbe essere il custode, sono destinate ad essere assorbite nell’indirizzo politico della maggioranza, ossia proprio il contrario di quanto vorrebbe farci credere la sent. n. 192. Un risultato comunque è stato ottenuto, ma non è la garanzia della “centralità parlamentare”, o di una dialettica maggioranza-opposizione equilibrata, de iure condito prive, entrambe, di adeguati sostegni.
Il controllo intorno all’adeguatezza del regionalismo differenziato da “politico” diventa “tecnico-giuridico”, nella misura in cui viene trasferito di fatto dalle aule parlamentari nella camera di consiglio della Corte costituzionale. Quel che emerge, anche dalla sent. n. 192, è la devoluzione al giudizio di costituzionalità della custodia del regionalismo differenziato. Non saranno le istituzioni politiche a svolgere quel test di adeguatezza di cui abbiamo detto; sarà la Corte costituzionale a farlo, sollecitata o in via incidentale o in via d’azione, caso per caso.
È una pellicola già vista. Come ricordano i regionalisti, il giudizio sull’interesse nazionale, che la Costituzione del 1948 – non la Consulta – aveva affidato al Parlamento era stato trasformato – dal giudice costituzionale – da un controllo successivo di merito politico a un “presupposto di legittimità” costituzionale del regionalismo. Siamo oggi nella stessa situazione, quindi, anche se nel mezzo c’è stata una revisione costituzionale, che aveva l’obiettivo di ridisegnare il volto della Repubblica delle autonomie a partire dalle istituzioni di governo politico, non per mezzo dell’iniziativa dei giudici.
Condivido, perciò, quanto dice Lorenza Violini[10], che le leggi di approvazione delle intese non saranno sorrette da nessun test preventivo di adeguatezza, e si limiteranno al mero trasferimento di funzioni e risorse, ieri come domani. Aggiungo, come detto, che tutto il resto, sulla adeguatezza della differenziazione, è stato riservato, da sé stessa, alla Corte costituzionale.
11. Il nodo della determinazione dei Lep. Illegittimità del meccanismo di determinazione (non della “necessità previa” dei Lep): una delega legislativa in bianco e l’incoerenza intrinseca dei Dpcm
Sul regionalismo differenziato grava la spada di Damocle dei Lep, la cui previa determinazione (in senso ampio, di “specificazione” degli standard e del relativo “finanziamento”, come si dirà) è la conditio sine qua non dei trasferimenti di “specifiche funzioni”. Questa previsione legislativa viene confermata e ulteriormente rilanciata dalla sent. n. 192. L’affresco che ne risulta, però, resta tutto da colorare.
Com’è noto, la legge n. 86/2024 affidava, a regime, la determinazione dei Lep ad una delega legislativa (art. 3), costruita per relationem, rinviando alla disciplina transitoria dettata dalla legge di bilancio per il 2023 (art. 1, commi 701-801-bis, l.n. 197/2022).
L’una e l’altra sono state dichiarate incostituzionali. La delega legislativa è caduta per l’insufficienza dei “criteri direttivi” richiamati a rispettare i canoni dell’art. 76 Cost., risolvendosi in un conferimento di poteri “in bianco” (sicché sono venuti meno, oltre al comma 1, anche i commi 2, 4, 5, 6, 10 dell’art. 3). Ciò avrebbe ulteriormente svilito la funzione di controllo del Parlamento, ampiamente valorizzata nei punti precedenti.
L’accoglimento è in linea con la premessa generale, che la differenziazione interessi “specifiche funzioni” e sia “giustificata adeguatamente”. Una delega per “numerose e variegate materie”, sostiene la Corte, mal si concilia col fatto che ogni materia “ha le sue peculiarità” e, quindi, che ognuna richiede “distinte valutazioni e delicati bilanciamenti”. In questa circostanza il legislatore non ha seguito neppure i precedenti, dato che, in passato, stabilire i Lep è stato fatto “in modo distinto per ciascuna materia” (così per i livelli di assistenza in materia sanitaria, per i Lep nei servizi sociali, nell’istruzione e nella formazione professionale).
Parallelamente, la Corte ha annullato sia la previsione dell’aggiornamento dei Lep mediante un Dpcm, per incoerenza intrinseca alla stessa norma, rispetto alla previsione di un atto legislativo primario per la loro determinazione (art. 3, c. 7); sia la determinazione dei Lep, nelle more dell’adozione dei decreti legislativi, sempre mediante Dpcm, per un’incongruenza sopravvenuta tra il regime transitorio e quello ordinario (art. 3, c. 9, con illegittimità conseguenziale sopravvenuta alla data di entrata in vigore della l.n. 86/2024 della disciplina contenuta nella richiamata legge di bilancio per il 2023).
12. Senza il meccanismo di determinazione dei Lep, una legge inapplicabile?
I dubbi che emergono in proposito sono diversi. Ci si può chiedere se, caduta questa disciplina, sia venuta meno la stessa possibilità di applicare la legge n. 86/2024 e, con essa, l’art. 116.3 Cost. Un argomento simile è stato speso da chi ha ritenuto inammissibile il referendum totale (dimenticando, però, che l’applicatività in concreto non rileva nel giudizio, perché, ai fini dell’abrogazione, conta la “vigenza” e, addirittura, come nel precedente sul referendum abrogativo della “scala mobile”[11], anche la non vigenza, se da essa possono derivare conseguenze giuridiche[12]).
L’intervento demolitorio è stato chirurgico: è stata annullata con effetto ex tunc la norma sulla delega legislativa (che, eventualmente, andrà riscritta seguendo le indicazioni della Corte), mentre il procedimento di adozione dei Dpcm è venuto meno “a decorrere da”, restando valido fino alla data di entrata in vigore della legge n. 86/2024. Il fatto che medio tempore, sulla base di quest’ultima disciplina, non siano stati adottati nuovi Dpcm sui Lep rende, di fatto, inapplicabile la regola della loro previa determinazione rispetto ai trasferimenti di funzioni.
Ciò impedisce l’iniziativa regionale ai sensi dell’art. 116.3 Cost.?
Come specificato anche dalla Corte, la legge generale non era necessaria, ma frutto di una libera e legittima decisione del legislatore. Anche per tale ragione, l’art. 116.3 Cost. va considerato autoapplicativo, non richiede l’interpositio legislatoris. C’è oggi, però, la legge di attuazione, manipolata in più punti dalla Corte, della quale resta un “nucleo normativo” vigente, ma non sul punto specifico della concreta possibilità di previa determinazione dei Lep. Dal ragionamento complessivo, pare desumersi che, mentre il trasferimento delle funzioni debba avvenire per specifiche funzioni, la determinazione dei Lep vada assicurata – analogamente a quanto accaduto nei casi citati (come la sanità) – “in modo distinto per ciascuna materia” (si noti la sfumatura concettuale, che distingue il trasferimento per “specifiche funzioni” e la determinazione dei Lep per “ciascuna materia”).
Ora, poiché la Corte ha affermato come regola generale che non sia sostenibile costituzionalmente la distinzione legale tra “materie Lep” e “materie no-Lep” (art. 3.3, interpretato, per questa parte, in modo conforme a Costituzione), per cui ogni qualvolta una funzione differenziata riguardi un diritto (civile o sociale) ciò impone allo Stato di stabilire i relativi livelli essenziali delle prestazioni prima della devoluzione, se ne deduce che i negoziati possono essere avviati e, direi anche, che l’intesa può essere stipulata (anche perché come fa lo Stato a sapere se deve fissare i Lep?), fermo restando che l’approvazione per legge non può esserci finché lo Stato non ha determinato i Lep (con le relative risorse) nelle materie su cui insistono le specifiche funzioni richieste dalla regione. Ne consegue, quindi, che ad impedire l’attuazione dell’art. 116.3 Cost. non è tanto il venir meno della delega e della disciplina transitoria (il meccanismo), quanto soprattutto il criterio normativo che ha stabilito l’ordine temporale tra determinazione dei Lep e trasferimento delle funzioni.
13. Come stabilire i Lep, tra legge e dpcm. La strada dei livelli di assistenza sanitaria. Lep e funzioni caso per caso
Sul meccanismo di determinazione dei Lep vale la pena di insistere. Com’è noto la critica maggiore concerne la scelta di stabilire i Lep mediante Dpcm in violazione della riserva legislativa rinvenuta nell’art. 117.2, lett. m). Dopo la sent. 192, quella tesi ha avuto un riconoscimento? Non sarei sicuro a rispondere affermativamente[13].
Come detto, la Corte ha fatto cadere la delega legislativa per insufficienza dei criteri direttivi e ha censurato la concorrenza di fonti eterogenee (primarie e secondarie) nella stessa materia, ma non ha detto né che l’atto legislativo è necessario, né che un Dpcm è uno strumento inadeguato. Proprio il riferimento alla consolidata esperienza dei Lea in materia sanitaria, previsti dalla legge n. 502 del 1992 e specificati nei relativi patti intergovernativi (l’ultimo risale al 2008) e in appositi Dpcm, fa ritenere duplicabile questo schema misto di intervento anche in altre circostanze.
L’art. 117.2 lett. m) è una norma attributiva di una competenza legislativa, nel quadro del riparto dei poteri di normazione primaria tra lo Stato e le regioni: non è una riserva di legge e, comunque, non si risolve in una riserva assoluta di legge. È con atto legislativo statale che vanno determinati i Lep, ma ciò non impedisce che entro una chiara e definita cornice legale, la specificazione delle singole prestazioni possa essere fatta con una fonte secondaria, come il Dpcm. Come di norma avviene in materia di tutela della salute.
Nel nostro caso, dopo la n. 192, la maggioranza parlamentare potrebbe riscrivere il procedimento di delegazione legislativa, risolvendo i vizi emersi nella presente decisione. Non penso sia necessario (e neppure opportuno) ormai, proprio perché la sent. n. 192, nell’imporre i Lep “in modo distinto per ciascuna materia”, consiglia di procedere in concreto e caso per caso, in relazione alle funzioni oggetto di un’iniziativa regionale, piuttosto che per mezzo di una delega generale, pure articolata per specifiche materie. Insomma, quel che emerge dalla decisione n. 192 è la necessità che la determinazione dei Lep preceda la devoluzione, che le rispettive attività sono strettamente collegate, a partire dal giudizio di adeguatezza che devono sorreggere entrambe, ma pure perché, tanto l’una che l’altra, sono soggette ai criteri di specificazione e di determinatezza.
14. Concetto dei Lep. Differenza tra contenuto minimo di un diritto (right security) e Lep (right safey). Il nodo della condizionalità finanziaria dei Lep e il diritto alle risorse corrispondenti
È sulla qualificazione dei Lep che la sentenza offre spunti al contempo interessanti e problematici. Si riducono i margini di incertezza che avevano, come una nebbia, offuscato il dibattito e la stessa codificazione sulla differenziazione.
I Lep sono correttamente inquadrati come il risultato di una decisione politica che la Costituzione affida al legislatore statale e si risolvono in standard uniformi relativi alle prestazioni necessarie in materia di diritti da garantire in tutto il Paese “tenendo conto delle risorse disponibili”. Essi “implicano una delicata scelta politica, perché si tratta – fondamentalmente – di bilanciare uguaglianza dei privati e autonomia regionale, diritti e esigenze finanziarie e anche i diversi diritti fra loro” (p.n. 9.2; p.n. 14).
Se nella pregressa giurisprudenza era difficile separare i Lep dal “contenuto minimo” di un diritto – i due concetti, anzi, potevano dirsi confusi – nella 192 si compie uno sforzo per precisarne i confini (anche se non fino in fondo).
Dai lavori preparatori della legge cost. n. 3/2001 la Corte trae che la formula “livelli essenziali delle prestazioni” è stata preferita a quella dei “livelli minimi di garanzia” proprio perché si voleva così “assicurare uniformità dei diritti fondamentali” in tutto il Paese; assicurare, cioè, “se possibile uno standard di tutela superiore al nucleo minimo del diritto, in collegamento (per quel che riguarda i diritti sociali) con l’art. 3, secondo comma, Cost., che affida alla Repubblica il compito – di più ampio respiro rispetto all’erogazione delle prestazioni minime – di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Se ben intendo, si è così introdotta una distinzione tra due tipi di garanzia dei diritti fondamentali. Posso tradurla utilizzando i due concetti inglesi di “sicurezza” (security e safety): la tutela minima ovvero sufficiente di un diritto (right security); la tutela essenziale o adeguata di un diritto (right safety). La prima è consustanziale alla nozione stessa di diritto, sicché mancando la tutela del contenuto minimo non c’è neppure un diritto. La seconda, che presuppone che la prima condizione sia stata soddisfatta, implica una garanzia del diritto adeguata in ragione della natura del diritto (civile o sociale, individuale o collettivo), e del contesto di riferimento (sociale, economico, politico).
Riletta, l’argomentazione, in questi termini, si spiegano meglio le conseguenze che la Corte ne trae.
La prima. Dalla distinzione concettuale deriva la risoluzione della problematica circa la sostenibilità finanziaria. Posto che la garanzia dei diritti implica (sempre) costi economico-finanziari a carico della collettività, il contenuto minimo proprio perché diretto alla right security va necessariamente garantito e, quindi, non può essere condizionato da considerazioni di carattere finanziario (secondo la formula giurisprudenziale, fortunata, ma che solo così può assumere un senso razionale, per cui “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”: sentt. nn. 275/2016, 152/2020, 309/1999). I Lep, viceversa, in quanto diretti alla right safety, a realizzare un’adeguata protezione di un diritto, sono discrezionali, frutto di decisioni politiche, condizionate dalle risorse economico-finanziarie disponibili.
La seconda conseguenza riguarda il rapporto tra i Lep e l’autonomia regionale. La Corte spiega che mentre il contenuto minimo costituisce “un limite derivante dalla Costituzione” che va garantito dallo stesso giudice costituzionale “anche nei confronti del legislatore statale, a prescindere da considerazioni di carattere finanziario”, i Lep “sono un vincolo posto dal legislatore statale, tenendo conto delle risorse disponibili, e rivolto essenzialmente al legislatore regionale e alla pubblica amministrazione; la loro determinazione origina, poi, il dovere dello stesso Stato di garantirne il finanziamento”. Come viene ribadito più avanti, dalla determinazione dei Lep, deriva per le regioni differenziate il “diritto” a ricevere le risorse sulla base del principio costituzionale di corrispondenza (art. 119.4 Cost.).
15. Dopo la sentenza 192, due modelli di finanziamento del regionalismo: a) la “forma” costituzionale “ottimale”
Da queste affermazioni, i dubbi. Se i Lep sono frutto di scelte non imposte dalla Costituzione, ma dipendenti dall’indirizzo politico di maggioranza in ragione delle risorse disponibili, non si comprende per quale ragione essi devono essere necessariamente predeterminati nel caso della differenziazione. O sono necessari o sono facoltativi.
Ragioni di opportunità, quindi, giustificano la scelta del legislatore (nel 2022 e nel 2024), e della stessa Corte costituzionale, di contemplarne la determinazione ex ante rispetto alla devoluzione di specifiche funzioni. Per la Corte “nel momento in cui il legislatore statale conferisce una maggiore autonomia a una determinata regione con riferimento a una specifica funzione, che implica prestazioni concernenti diritti civili o sociali” deve “previamente determinare uno standard uniforme di godimento del relativo diritto in tutto il territorio nazionale, in nome del principio di solidarietà (…). La determinazione dei Lep (e dei relativi costi standard) rappresenta in necessario contrappeso della differenziazione, una ‘rete di protezione’ che salvaguarda condizioni di vita omogenee sul territorio nazionale”.
La domanda lecita è: a che cosa serve la differenziazione, se quel che una regione chiede, con riferimento a funzioni Lep, deve essere garantito su tutto il territorio nazionale? E se i Lep vanno comunque garantiti, essendo una “spesa obbligatoria”, quale sarebbe l’interesse della regione richiedente in questo scenario? Solo quello di poter disporre di autonomia piena in ordine ad “altre funzioni”, diverse da quelle interessate dai Lep?
L’interpretazione della Corte va poi inquadrata nel sistema (cosa che non mi pare faccia fino in fondo la sent. n. 192)
Nel regime ordinario della Costituzione (l’ottimo secondo la qualificazione della sentenza) i Lep possono essere stabiliti dal legislatore statale ex ante o ex post e, qualora lo fossero, costituiscono un limite al potere di conformazione dei diritti riconosciuto alle regioni nelle materie di propria competenza. Secondo il combinato disposto degli artt. 117, 118 e 119 Cost. è lo Stato che “determina” i Lep che, se tagliano trasversalmente materie regionali, sono le regioni a dover garantire, sulla base delle risorse disponibili in base al proprio bilancio.
Ecco perché, nel modello disegnato dal nuovo titolo V, le regioni e le altre autonomie territoriali dovrebbero disporre di fonti di finanziamento adeguate a coprire le spese relative alle attribuzioni assegnate dalla Costituzione (tributi ed entrate proprie, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio, fondo perequativo senza vincolo di destinazione) o dagli statuti speciali. La mancata attuazione del cd. federalismo fiscale ha lasciato sulla carta questo aspetto fondamentale. Ma non è venuto meno il criterio costituzionale per cui la responsabilità finanziaria dei Lep segue il criterio di riparto delle competenze (chi ha la competenza normativa ha anche il potere-dovere di spesa).
Nel caso del regionalismo differenziato, proprio il richiamo al “rispetto dei principi di cui all’articolo 119”, implica l’applicazione di un analogo criterio: delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” rispondono finanziariamente le regioni richiedenti, cui spetta la copertura delle spese dei Lep stabiliti o prestabiliti dal legislatore statale. Anche l’art. 116.3 Cost., dunque, implica l’attuazione dell’art. 119 Cost., senza il quale non l’autonomia differenziata, ma l’autonomia territoriale è sostanzialmente un flatus vocis.
È da questo, non insignificante, particolare che nascono molte delle contraddizioni della legge n. 86/2024 e, a cascata, della sent. n. 192 (che ne segue la logica “distorta” rispetto al Titolo V). Le regioni che hanno chiesto la differenziazione hanno preteso la corresponsione di risorse adeguate al finanziamento delle nuove competenze, Lep compresi. Per puntellare questo percorso si è “inventato” il criterio della previa determinazione dei Lep rispetto al trasferimento delle funzioni, prima nella legge di bilancio per il 2023, poi nella legge 86/2024 e, quindi, confermato dalla stessa Corte costituzionale. Da questa premessa sono derivate le nuove regole sul finanziamento dei Lep (e delle altre funzioni devolute), che finiscono per disegnare un regime in deroga rispetto al modello costituzionale.
16. (Segue): b) le “variazioni sul tema” contenute nella legge generale come manipolata dalla Corte costituzionale: finanziamento dinamico dei Lep, invarianza della compartecipazione
Vediamo il regime del finanziamento che emerge dalla sent. n. 192. In ordine alle disposizioni finanziarie, la Corte costituzionale ha sostanzialmente salvato l’impianto complessivo, avvalorandolo. Com’è noto, la legge n. 86/2024 prevede per la sua attuazione l’invarianza della spesa pubblica; contempla la copertura delle spese relative ai Lep in ragione dell’aumento dei costi; individua genericamente nella “compartecipazione” (il 119 Cost. dice: “al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale”) la fonte di finanziamento della differenziazione, aggiungendo la possibilità di un suo allineamento al variare della spesa relativa; assicura genericamente alle “regioni terze” la garanzia della invarianza finanziaria e della perequazione (art. 4, 5, 9).
Due sole sono state le disposizioni annullate: la norma sull’allineamento tra i fabbisogni e le aliquote delle compartecipazioni, perché riferita al criterio non efficiente e deresponsabilizzante della “spesa storica” (art. 8.2: illegittimità “secca”; la Corte ricorda che non c’è traccia di un simile allineamento nell’art. 119 Cost., aggiungendo che, comunque, potranno essere previsti “aggiustamenti” delle compartecipazioni in via straordinaria, purché regolati dalle leggi rinforzate e all’interno di un trasparente processo che coinvolga anche il Parlamento); cade, poi, la norma sulla mera facoltatività anziché sulla “doverosità”, per le regioni differenziate, di “concorrere agli obiettivi della finanza pubblica” (art. 9.4: pronuncia sostitutiva).
Il presupposto di questo magro bottino (rispetto alla mole delle censure regionali, in larga parte rigettate) è la lettura adeguatrice dell’impianto finanziario della legge n. 86/2024.
La previsione sulla “invarianza finanziaria” dell’attuazione è ritenuta “coerente” con la ratio dell’art. 116.3 Cost. laddove impone una differenziazione “funzionale a migliorare gli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alla attese e ai bisogni dei cittadini, in attuazione del principio di sussidiarietà”. Ne consegue, per un verso, che il trasferimento delle funzioni deve avvenire senza aumentare la spesa o riducendola; per altro verso, che il criterio deve essere quello per cui i relativi costi vanno depurati delle “inefficienze” (“come può essere il costo e il fabbisogno standard, da applicare se la funzione attiene ad un Lep”).
Questa premessa generale sulla “gestione efficiente” porta la Corte ad escludere dalla legittimità prescritta dall’art. 116.3 Cost. il riferimento alla “spesa storica”; nonché ad imporre, alle intese, di tener conto del “quadro generale della finanza pubblica, degli andamenti del ciclo economico, del rispetto degli obblighi eurounitari[14], anche alla luce del nuovo sistema di governance”.
Su questa scena non potevano continuare ad insistere le due previsioni ricordate e per questo annullate. Posso aggiungere che, proprio sul mancato rispetto dei vincoli di bilancio, avevo previsto il vulnus più grave della legge n. 86/2024[15].
L’invarianza della spesa, tuttavia, non riguarda il finanziamento dei Lep. Qui la sentenza valorizza la disciplina positiva laddove distingue la spesa per i Lep e la spesa per le altre funzioni devolute: mentre le variazioni dei costi dei Lep (in aumento) implicano la relativa copertura e il trasferimento delle funzioni correlative potrà avvenire solo ex post, dopo aver trovate le risorse corrispondenti, le altre funzioni sono soggette all’invarianza della spesa.
Uno dei problemi[16] che pone un simile argomento è come conciliare un trasferimento “a costo zero” e l’invarianza quale metro della compartecipazione ai fini della “neutralità” finanziaria, con la flessibilità dei costi previsti per i Lep.
Il quadro normativo risultante dalla sentenza disegna due sistemi di finanziamento paralleli? Uno (ma quale sarebbe?) per le funzioni Lep (permeabile all’aumento dei costi), l’altro per le altre funzioni (mediante compartecipazioni vincolate all’invarianza)? Se, invece, il sistema fosse unico, dipendente solo dalla compartecipazione, come si concilia l’invarianza della spesa con il fatto che essa comprende anche quella, suscettibile di essere aumentata, dei Lep? L’aumento della spesa essenziale per i Lep dovrà comportare ulteriori trasferimenti di risorse adeguate? Pare difficile escluderlo.
Sulla compartecipazione “a costo zero” molto si potrebbe dire: fra le tante critiche, quella più consistente deriva proprio dalla motivazione. Prodromico alla differenziazione è il giudizio di adeguatezza, che comprende anche la valutazione dei costi secondo il criterio della gestione efficiente. Ciò significa che la compartecipazione da destinare alla regione differenziata, per essere efficiente, equa, responsabile, dovrà essere determinata al netto della spesa statale per le funzioni trattenute, per quelle che vanno garantite a tutte le regioni terze, nonché al netto della spesa per i Lep da garantire sempre per tutto il resto del Paese. Che dire: un “vasto programma”.
Vorrei aggiungere, ma non posso approfondire, che il concetto di compartecipazione usato dalla sent. n. 192 non ha quasi nulla a che vedere con quello dell’art. 119.2 Cost.: qui si parla di uno strumento variabile perché calibrato sul diverso gettito espresso dal territorio regionale di riferimento, un mezzo di “sperequazione finanziaria” che, insieme alla potestà tributaria regionale (e alle entrate), giustifica, nella logica dell’art. 119 Cost., la perequazione ordinaria mediante il fondo senza destinazione “per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Nella sent. n. 192, invece, le compartecipazioni sono molto più simili alle “quote di tributi erariali” previste dal vecchio art. 119 Cost.: trasferimenti di risorse predeterminate e tendenzialmente fisse.
17. Una sintesi sul postulato di una “gestione efficiente” della differenziazione: una soluzione impossibile?
Provo a riassumere il quadro dopo la sent. n. 192. La differenziazione regionale potrebbe avvenire alle seguenti condizioni:
a) mediante trasferimenti per “specifiche funzioni”;
b) se toccano diritti (civili e sociali) il trasferimento è subordinato alla determinazione previa dei Lep (non ha più alcun rilievo la distinzione “materie Lep” e “materie no-Lep”);
c) la garanzia dei Lep costituisce un vincolo per le regioni differenziate;
d) lo Stato deve: 1) determinare i Lep; 2) individuare le risorse corrispondenti secondo il criterio del “costo standard”, adeguando la spesa alle variazioni (in aumento), il tutto nei limiti dell’equilibrio di bilancio e dei vincoli europei;
e) con riferimento ai Lep, così determinati, lo Stato deve trasferire le risorse alla regione differenziata al netto di quelle necessarie a garantirli per tutte le altre regioni che non accedono alla differenziazione (risorse trattenute, che vanno ad aggiungersi a quelle relative alle funzioni, diverse dai Lep, anch’esse mantenute dallo Stato nelle materie in cui insistono quelle altre funzioni trasferite alla regione differenziata);
f) lo strumento da cui attingere le risorse (per le funzioni differenziate, attinenti ai Lep o alle funzioni no-Lep) sono le compartecipazioni (la cui determinazione è tutta da costruire: non essendo stata definita né nella legge n. 86 né nella sent. n. 192);
g) le compartecipazioni devono garantire l’invarianza della spesa e la gestione efficiente;
h) le politiche di bilancio della regione differenziata, quindi, sul lato delle spese, conosceranno due regimi: una spesa necessaria per i Lep (le relative risorse, trasferite dallo Stato, saranno perciò a destinazione vincolata, com’è oggi per la spesa sanitaria), una spesa discrezionale per le altre funzioni (diverse dai Lep);
i) per le regioni terze, invece, la garanzia dei Lep, relativi alle funzioni devolute alla regione differenziata, continuerà ad essere assicurata dallo Stato.
Si tratta di un “sistema” veramente complesso. Allora, davvero l’ultima domanda è questa: prima ancora di chiedersi se tutto ciò, dopo la sent. n. 192, sia effettivamente realizzabile (politicamente e giuridicamente), quello qui rappresentato, frutto di una funzione colegislativa della Corte costituzionale, rappresenta esso stesso un “modello” (ammesso che si possa usare questo termine) per una “gestione efficiente” della nostra Repubblica?
Non avevamo bisogno di quest’ultima, sia pure importante, decisione della Corte costituzionale per prendere coscienza del fatto che, allo scopo di realizzare il nuovo titolo V, mancano alcuni presupposti fondamentali, che non possono certo dirsi inverati, se si continua a pensare – come si è fatto dal 2001 ad oggi – che, per costruire una “casa ben ordinata” (la Repubblica delle autonomie), si deve cominciare dal tetto (procedere ad una differenziazione, caso per caso, senza alcun quadro generale, positivizzato ed effettivo, di riferimento funzionale e finanziario), anziché dalle fondamenta (trasferire funzioni e risorse in via ordinaria a tutte le regioni e agli enti locali).
[1] Denuncia la “tendenza della Corte a superare la lettera del Titolo V” confermata in questa sentenza, bollata di “una certa artificiosità dell’operazione interpretativa” C. Pinelli, Perché la disciplina dell’autonomia differenziata non va intesa come “una monade isolata” (Osservazione a Corte cost. n. 192 del 2024), in www.diariodidirittopubblico.it, 23 dicembre 2024.
[2] Ho trattato funditus del tema dell’allocazione delle risorse come presupposto dell’autonomia nel mio studio Il sistema finanziario e tributario della Repubblica. I principi costituzionali, Bologna, Bononia University Press, 2021 (open access: https://buponline.com/prodotto/il-sistema-finanziario-e-tributario-della-repubblica/). Sull’argomento ritorna G. Rivosecchi, Regioni, finanza, livelli essenziali e principio democratico, www.lecostituzionaliste.it, ottobre 2024.
[3] Cfr. A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in “Federalismo fiscale”, 2007, 139 ss.
[4] Ucr, ord. 12 dicembre 2024.
[5] Riprendendo una tesi di S. Ceccanti (da ultimo: Sulla legge Calderoli agisca il Parlamento, in “QN – Nazione-Il Resto del Carlino-Giorno”, 20 gennaio 2025) anche A. Poggi, Il referendum sul regionalismo differenziato: i principi, l’attuazione, le Corti e la sovranità popolare, www.federalismi.it, 1 gennaio 2025, ha sostenuto l’inammissibilità per mutamento dei principi e inapplicabilità della legge oggetto del referendum totale. Per l’ammissibilità, invece, L. Castelli, Divagazioni sparse intorno all’ammissibilità del referendum sulla legge Calderoli, www.diariodidirittopubblico.it, 7 gennaio 2025.
[6] Si è detto tra l’altro che se di difetto di chiarezza si deve discutere “qui non sarebbe dovuto alla mano dei promotori bensì a quello della stessa Corte”: A. Ruggeri, Dopo la pronuncia della Cassazione, il referendum “totale” sulla legge 86 del 2024 cambia pelle, convertendosi in…parziale, www.dirittiregionali.it, 16 dicembre 2024.
[7] L. Violini, Alcune considerazioni sulla sentenza nr. 192/2024 della Corte costituzionali, in www.lecostituzionaliste.it.
[8] M. Cammelli, Istituzioni deboli e domande forti, ora in Id., Amministrazioni pubbliche e nuovi mondi, 2019, Bologna, 267 e ss.
[9] A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, cit.
[10] L. Violini, op. cit.
[11] Corte cost. sent. n. 35/1985.
[12] Sul punto rinvio ai miei studi: A. Morrone, La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica (1946-2022), Bologna, Il Mulino, 2022.
[13] Non convince la tesi di C. Buzzacchi, Pluralismo, differenze, sussidiarietà ed eguaglianza: dalla sentenza n. 192 del 2024 il modello per il sistema regionale “differenziato”, in www.astridrassegna, n. 18/2024, secondo cui la sent. n. 192 avrebbe preservato “in maniera completa” la competenza del Parlamento sui Lep.
[14] Una prece: smettiamo di parlare di diritto “eurounitario”, di obblighi “eurounitari”. Il concetto è sbagliato, sia perché non c’è ancora una “unità” in Unione europea, sia perché l’aggettivo qualificativo giuridicamente corretto è “europeo/a”: Unione europea, diritto europeo, obblighi europei…!
[15] A. Morrone, Differenziare le regioni senza un disegno di Repubblica, in Nuove Autonomie, 2024, 219 ss.
[16] Per una analoga critica su questo punto debole della decisione C. Buzzacchi, op. cit.
Etica e deontologia nella professione del magistrato
di Gabriella Luccioli
Sommario: 1. L’etica e la deontologia dei magistrati. 2. I principi di imparzialità e indipendenza. 3. L’apparenza dell’indipendenza. 4. Il codice etico dei magistrati. 5. L’etica nella motivazione delle sentenze. 6. La questione del linguaggio. 7. Conclusioni.
1. L’etica e la deontologia dei magistrati
Ogni volta che la Scuola mi invita a parlare ai m.o.t. di etica e di deontologia avverto il peso di una grande responsabilità: la responsabilità di affidare a giovani che stanno per ricevere le funzioni giurisdizionali il messaggio giusto, di trovare parole che lascino il segno, le parole – tra le tante che possono dirsi parlando di etica e di deontologia – più efficaci a trasmettere un’idea di magistrato conforme al modello delineato in Costituzione. E questo senso di responsabilità si fa tanto più forte nell’attuale momento storico, in cui la magistratura sta affrontando il livello più basso di stima e di credibilità nel nostro Paese ed è oggetto di proposte di riforma tese a limitarne l’indipendenza.
A tale responsabilità non ho mai voluto sottrarmi, perché sono convinta della necessità di parlare a coloro che hanno appena vinto il concorso di deontologia prima ancora che di diritto[1], perché il rispetto delle regole deontologiche è condizione della credibilità del magistrato, perché credo che per superare la crisi che ci affligge e recuperare la fiducia che tanti cittadini ci negano sia indispensabile l’impegno di ciascuno ad esercitare al meglio le proprie funzioni e ad assumere un modello professionale che sappia coniugare preparazione, sobrietà, umanità, in adesione ai valori costituzionali dell’imparzialità, dell’indipendenza, della disciplina e dell’onore.
Proverò quindi a svolgere alcune riflessioni che, lontane da ogni moralismo, trovano aggancio nei principi costituzionali, ed in particolare nei principi di imparzialità e indipendenza, perché è la Costituzione che delinea lo statuto costituzionale del magistrato e che integra la prima fonte degli imperativi etici.
Cercherò di evitare le astrazioni, spesso ricorrenti quando si parla di etica, per soffermarmi su aspetti concreti dell’operare del magistrato.
2. I principi di imparzialità e indipendenza
Imparzialità e indipendenza sono nozioni concettualmente distinte, attenendo la prima alla posizione del magistrato in relazione a singole vicende giudiziarie e la seconda al rapporto tra ordine giudiziario e altri poteri dello Stato, ma entrambe costituiscono il fondamento della deontologia del magistrato.
All’imparzialità si riferisce l’art. 111, comma 2, Cost., che prevede il contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale; tale disposizione va letta in stretta connessione da un lato con il disposto dell’art. 54, comma 2, che fa carico a tutti i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, in aggiunta al dovere generale di fedeltà alla Repubblica, di adempiere a dette funzioni con disciplina e onore, dall’altro lato con il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge, di cui all’art. 101, comma 2. Va inoltre richiamato l’art. 97, comma 2, che trova applicazione anche in ambito giudiziario e che impone a tutti coloro cui sono affidate funzioni pubbliche di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Il principio di indipendenza è sancito dall’art. 104, comma 1, secondo il quale la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, e dall’art. 107, comma 3, il quale dispone che i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni. A tutela del valore supremo dell’indipendenza l’art. 98, ultimo comma della Costituzione sancisce che si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati. In adesione a tale previsione l’art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109 del 2006 ha configurato come illecito disciplinare l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.
A livello sovranazionale mi limito a richiamare come disposizioni di riferimento l’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’art. 6, comma 1, della CEDU e l’art. 47, comma 2, della Carta di Nizza.
Nel dare concretezza a tali concetti mi preme chiarire innanzi tutto che imparzialità non vuol dire lontananza o indifferenza alle vicende politiche e alle questioni di rilevanza sociale che investono il Paese, perché un magistrato non attento al dibattito politico e culturale e disinteressato ai temi della giustizia sociale e della democrazia, un magistrato asceta, ove pure esistesse, non sarebbe un buon magistrato e neppure un buon cittadino. Il magistrato non è e non deve essere soltanto un tecnico che fa buon uso del ragionamento sillogistico, ma è una persona che ha le sue convinzioni politiche e i suoi orientamenti culturali, che acquista alcuni e non altri giornali, e che nel momento in cui giudica non può spogliarsi del proprio mondo interiore e della propria scala di valori[2]. Il modello di riferimento non può essere quello che Marco Ramat definiva magistrato di clausura, che come le suore vive nel chiosco e in tal modo si protegge da ogni contaminazione, o quello portatore di una coscienza solitaria ed autosufficiente, separata dal mondo che lo circonda. Si delinea pertanto il profilo per certi aspetti paradossale di un magistrato che è immerso nelle dinamiche politiche, culturali e sociali, ma nello stesso tempo deve essere rigorosamente terzo rispetto ad esse.
Se allora imparzialità non significa assenza di pensieri, occorre intercettare un diverso significato della parola, che recepisca e rispetti i valori di terzietà, di parità, di solidarietà, di dignità delle persone che innervano la nostra Costituzione: occorre insomma riferire l’imparzialità alle parti del giudizio e ai loro contrapposti interessi, e non ai valori in gioco nel processo.
Ciò vuol dire operare con la massima onestà intellettuale, assicurare il rigoroso rispetto delle garanzie processuali ed attenersi saldamente al principio di soggezione soltanto alla legge, ricercando la verità nelle singole vertenze poste al proprio esame, valutandole con il loro carico di umanità e nella loro specificità ed unicità, senza trascurare il contesto giuridico e sociale in cui si manifestano, restando sempre immuni da vincoli esterni e da influenze che possono indurre a decidere in modo diverso da quanto suggerito dalla propria scienza e coscienza.
Vuol dire quindi mantenere salda durante il processo la determinazione a decidere solo sulla base delle prove legittimamente acquisite, liberandosi da preconvincimenti o pregiudizi che alterano l’oggettività del giudizio.
Ma che cos’è il pregiudizio?[3] Possiamo identificare il pregiudizio in un atteggiamento interiore, in un preconcetto culturale privo di fondamento scientifico che deve essere rimosso attraverso la sua percezione e la messa in discussione delle ragioni sulle quali presume di fondarsi. Se ne occuparono Voltaire e D’Holbach, e prima ancora Bacone e Cartesio. Norberto Bobbio lo considerava un errore più tenace e più pericoloso di qualsiasi errore di opinione, a causa della sua resistenza ad essere sottoposto al controllo della ragione. In quanto giudizio emesso prima, esso deve innanzi tutto essere percepito nella sua esistenza e poi razionalmente demolito, così che al pregiudizio si sostituisca il giudizio.
Il mio pensiero al riguardo non può non andare innanzi tutto al gender bias, il pregiudizio di genere, oggetto già dagli inizi degli anni ’80 del secolo scorso di analisi e di riflessioni negli USA: specifiche ricerche sul campo hanno messo in evidenza quanto sia forte nel sistema statunitense l’influenza del gender bias in tutti i tipi di processi e quanto tale fenomeno richieda di essere messo in luce e denunciato.
L’imparzialità va quindi identificata in quella posizione che rifiuta atteggiamenti partigiani o settari o ripiegamenti sul pensiero dominante, che prende le distanze da ogni valutazione che sia altra dall’accertamento dei fatti e dalla ricerca delle cause che in un determinato contesto li hanno determinati.
Imparzialità vuol dire inoltre disponibilità all’ascolto e alla considerazione di tutte le opinioni, anche di quelle più lontane dalle proprie, nonché accettazione sul piano epistemologico del carattere probabilistico, e non assoluto, della verità processuale, e quindi consapevolezza che la sentenza che reca la propria firma è una sentenza solo tendenzialmente giusta, in quanto condizionata dai limiti posti dal rito e dal quadro probatorio acquisito e corroborata da una motivazione plausibile. Ciò comporta avere ben presente il senso e il limite della funzione svolta e possedere una solida cultura della giurisdizione.
Questo significa coltivare il valore dell’umiltà, ricordando le parole di Piero Calamandrei: Signori giudici, il vostro potere è così grande che l’umiltà per voi è il prezzo dovuto perché siate legittimati ad esercitarlo.
Vuol dire ancora, secondo l’insegnamento di Luigi Ferrajoli[4], coltivare l’etica del dubbio, da assumere come aspetto fondamentale della deontologia giudiziaria, come abito mentale da non dismettere mai, rifiutando ogni tipo di arroganza o supponenza nell’attività investigativa ed in quella valutativa, rendendosi sempre pronti a rivedere le proprie opinioni, perché l’errore è sempre possibile.
Vuol dire altresì porsi di fronte all’imputato come di fronte ad un soggetto che forse ha sbagliato, ma che deve considerarsi innocente fino all’accertamento definitivo della sua colpevolezza e che deve essere giudicato per quanto ha commesso, e non per come è, in quanto si giudica il fatto, e non la persona.
Significa anche prendere le distanze dai verdetti popolari governati dall’emotività, in una degenerazione massmediatica del processo penale e in una spettacolarizzazione dei più eclatanti fatti di cronaca tesa ad individuare subito un colpevole e orientata a ritenere che soltanto se poi arriva una condanna giustizia è fatta.
In questa prospettiva va gestito il delicato rapporto con le vittime e con le parti civili: essere imparziale comporta assumere un atteggiamento di comprensione e di attenzione nei loro confronti, ma anche di pacato distacco, atteso che essi, devastati dalla sofferenza loro inflitta, si aspettano dal p.m. e dal tribunale verdetti di condanna rapidi e severi pur a fronte di indagini delicate e complesse ed in tale risultato processuale ripongono ogni speranza di sopravvivere al dolore. E quando la condanna non è pronunziata, perché mancano elementi a sostegno della responsabilità dell’imputato, o quando ritengono inadeguata la misura della pena inflitta rispetto all’incommensurabilità della loro afflizione, sono non di rado inclini ad accusare quel p.m. o quel tribunale di incapacità ad espletare la funzione o anche a sollecitare, con il supporto di una stampa compiacente, la proposizione di implausibili azioni disciplinari.
Ritengo inoltre, ricordando gli ammonimenti di Alessandro Pizzorno, che l’imparzialità si sostanzi nel rifiuto di ogni forma di protagonismo o di atteggiamenti da giudice star, e anche nel rifiuto di incarnare un potere buono contro i mali del mondo, erigendosi ad esclusivo custode e difensore della virtù e della moralità pubblica. Mi riferisco a quelle forme di protagonismo becero che si traducono in una esibizione narcisistica della propria persona, dando sfogo ad incontenibili pulsioni egotiche e ad altrettanto incontenibili ricerche di notorietà, talvolta garantite dalla partecipazione a talk show televisivi in cui si mettono in scena processi paralleli, in una inaccettabile rappresentazione scenica dei fatti.
Significa ancora – e qui mi rivolgo in particolare a chi svolgerà funzioni requirenti – evitare di esercitare la giurisdizione in termini di lotta al crimine o a generici fenomeni criminali, dell’uno contro tutti, di assumere un ruolo salvifico che impone di cercare il reato anche in mancanza di notitia criminis, di considerare il processo come un’arena da combattimento in cui si vince o si è abbattuti, piuttosto che come strumento per il ripristino della legalità violata da fatti specifici previsti come reati, nel rispetto delle garanzie difensive e del principio del contraddittorio.
Vuol dire inoltre restare lontani dall’ossessione della carriera – che non è configurabile nel nostro lavoro – e del successo personale, recuperando le acquisizioni e lo spirito del congresso di Gardone ed impegnandosi a non utilizzare l’attività svolta in ambito associativo per trarne indebiti vantaggi professionali.
Imparzialità vuol dire altresì rifiutare il modello di giudice burocrate sul quale si appuntavano le critiche, ancora così attuali, di Dante Troisi nel suo indimenticabile Diario di un giudice: giudice burocrate è quel giudice pigro, opaco e ripiegato su se stesso che cerca riparo in adeguati presidi difensivi, sepolcro imbiancato che facendosi schermo dell’indipendenza orienta la sua condotta verso un tranquillo quieto vivere e verso ogni forma di disimpegno, fino a scadere nel conformismo che non nuoce a nessuno e quindi non può danneggiare chi lo pratica; un giudice che tende esclusivamente alla conservazione dello status quo limitandosi a svolgere un’attività avalutativa e meccanica; un giudice che tiene molto al proprio stipendio e molto meno alla qualità del lavoro, che coltiva una asfittica prospettiva sindacale di tutela dei vantaggi, economici e non solo, della professione.
Vorrei allora proporvi un’altra dimensione dell’imparzialità, come capacità di operare in silenzio, lontano dai clamori dell’informazione e dalla tentazione del consenso popolare, che è effimero e a volte male informato e può servire forse a rassicurare gli insicuri, ma non può riempire le lacune probatorie o infirmare le prove acquisite. Il consenso popolare è la fonte della legittimazione democratica della politica, non della giurisdizione; gli applausi che scaturiscono da certe decisioni vanno stigmatizzati non solo perché sono la spia di un eccesso di aspettative, del tutto improprie, nell’intervento del giudice, ma anche perché esprimono la tensione verso il raggiungimento di determinati risultati totalmente estranei alla giurisdizione, che non è e non può essere – come ci ricorda Franco Ippolito – una istituzione di scopo, che sceglie i mezzi più idonei al conseguimento del fine prefissato.
Quanto all’indipendenza, sia quella esterna rispetto agli altri poteri dello Stato sia quella interna, va ricordato che essa non costituisce un privilegio di casta, ma è strumento di garanzia dell’eguaglianza di tutti i cittadini: ed è proprio in ragione dello stretto nesso esistente tra tutela dell’indipendenza e qualità del servizio reso alla collettività che essa non può essere mai subordinata alle direttive e neppure agli umori del potere politico o alle attese dell’opinione pubblica.
Essere indipendente significa non porsi pregiudizialmente dalla parte del potere, ma neppure sentirsi in via preconcetta contropotere.
Significa essere affrancati da condizionamenti o contiguità o collateralismi con qualsiasi tipo di potere, sia esso politico che economico che religioso o di affari.
Significa ancora tenere un atteggiamento di massima prudenza nell’accettare inviti o nell’instaurare nuovi rapporti amicali ed evitare di essere invischiati in situazioni che comportino debiti di riconoscenza o restituzione di favori.
Significa altresì non sollecitare appoggi correntizi per la progressione o per altre esigenze di carriera, perché ogni forma di aiuto, anche all’interno dell’ordine giudiziario, ha dei costi ed incide sul principio di indipendenza, oltre che sulla dignità di chi quell’aiuto richiede.
3. L’apparenza dell’imparzialità e dell’indipendenza
Gaetano Silvestri ha in più occasioni affermato, evocando il pensiero di Piero Calamandrei, che i magistrati non devono cercare il consenso, ma devono operare in modo da essere credibili; l’impegno in tale direzione esige il rispetto anche dell’apparenza, e non solo della sostanza dell’imparzialità. All’apparenza fanno riferimento gli artt. 8 e 9 del codice etico; inoltre tra i principi di condotta giudiziaria fissati nella Risoluzione di Bangalore approvata dai presidenti delle Corti Supreme dei Paesi di civil law nell’ambito della tavola rotonda svoltasi a L’Aja il 25-26 novembre 2002 è stato attribuito valore primario non solo al concetto di propriety, ma anche a quello di appearance of propriety, a tutela del bene dell’immagine, indispensabile per la fiducia nel sistema.
Credo che questo richiamo all’apparenza, che Mario Serio definisce formula fortunata[5] in ragione della sua generale e reiterata utilizzazione, un concetto recepito in Italia dal sistema anglosassone nel quale ha trovato da tempo cittadinanza, esiga qualche puntualizzazione. Se è vero infatti che il criterio dell’apparenza attiene essenzialmente a condotte estranee all’esercizio delle funzioni, ed in particolare ai comportamenti dei giudici lato sensu politici ed alla loro partecipazione alla vita sociale e culturale, allo scopo di evitare che a causa di detti comportamenti possa fondatamente dubitarsi della loro imparzialità e indipendenza, va tenuto conto che i magistrati godono degli stessi diritti di libertà garantiti a tutti i cittadini, ma che la funzione svolta impone un bilanciamento tra interessi diversi, facendo salvo da un lato l’esercizio di detti diritti di libertà ed assumendo dall’altro il criterio dell’apparenza non come valore in sé, ma come sintomo della sussistenza o insussistenza dell’imparzialità e dell’indipendenza nell’esercizio delle funzioni.
Si tratta allora di coniugare etica della convinzione ed etica della responsabilità, secondo l’insegnamento di Max Weber. In forza del dovere non solo di essere, ma anche di apparire imparziale e indipendente ogni magistrato deve farsi custode della sua immagine in ogni contesto di vita professionale e sociale.
Sembrano ancora attuali le affermazioni contenute nella remota sentenza della Corte costituzionale n. 100 del 1981, lì dove affermava che l’equilibrato bilanciamento degli interessi tutelati non comprime il diritto alla libertà di manifestare le proprie opinioni, ma ne vieta soltanto l’esercizio anomalo e cioè l’abuso, che viene ad esistenza ove risultino lesi gli altri valori.
Più di recente la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 224 del 2009 ha ricordato che i magistrati devono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino e che quindi possono non solo condividere un’idea politica, ma anche manifestare espressamente le proprie opzioni al riguardo, ma che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita … non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale: ciò comporta appunto l’esigenza di bilanciare dette libertà con quella di assicurare la terzietà e anche l’immagine di terzietà dei magistrati.
4. Il codice etico dei magistrati
Lo strumento con il quale i principi costituzionali si traducono in specifiche regole di condotta è costituito dal codice etico dei magistrati.
Nel 1994 i magistrati italiani si sono dotati di un proprio codice etico, il primo della magistratura in ambito europeo: un testo elaborato in un momento di profonda crisi morale dei partiti e della pubblica amministrazione scaturita, come è noto, dalle indagini del pool di pubblici ministeri milanesi.
La stesura del testo ha costituito puntuale adempimento di una prescrizione contenuta nella legge n. 421 del 23 ottobre 1992, che delegava il Governo ad emettere un decreto legislativo che attribuisse alla Presidenza del Consiglio il compito di adottare un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni; in attuazione della delega l’art. 26 del d.lg. 23 dicembre 1993 n. 546 ha inserito nel d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 sul pubblico impiego l’art. 58 bis, secondo il quale anche le associazioni di categoria delle varie magistrature[GL1] [G2] e dell’Avvocatura dello Stato erano tenute ad adottare un codice etico, da sottoporre all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata.
Successivamente la legge 6 novembre 2012, n. 190 (cd. anticorruzione), nel riscrivere con il suo art.1, comma 44, l'art. 54 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (testo unico dei dipendenti pubblici), ha recepito la precedente disposizione, analogamente prevedendo che per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata.
Tale percorso si allinea pienamente al disposto della Magna Carta dei giudici adottata dal Consiglio Consultivo dei giudici europei il 17 novembre 2010 , la quale all’art. 18 ha affermato che l’azione dei giudici deve essere guidata da principi di deontologia, distinti dalle norme disciplinari. Tali principi devono emanare, quanto a redazione, dagli stessi giudici e debbono costituire oggetto della loro formazione.
Il potere di autoregolamentazione attribuito per la magistratura ordinaria all’ANM si basa quindi su una specifica disposizione normativa. L’avere il legislatore affidato l’adozione del codice etico alla stessa associazione rappresentativa dei magistrati, come depositaria degli interessi e dei valori dell’intera categoria, a prescindere dal vincolo formale di iscrizione, non solo comportava il riconoscimento del ruolo storico dell’associazionismo italiano e della sua funzione istituzionale, ma stava anche a dimostrare che lo stesso legislatore considerava l’autodisciplina come lo strumento più idoneo a garantire l’indipendenza del corpo dei magistrati e ad assicurare la maggiore efficacia delle norme autonomamente adottate, promuovendo la maturazione di un’autocoscienza professionale.
È appena il caso di puntualizzare che l’essere stato il codice etico, per espressa previsione normativa, elaborato dall’ANM – designata dal legislatore, come già osservato, quale soggetto strutturalmente depositario ed interprete dell’etica professionale del magistrato – ed approvato dai suoi organi rappresentativi non esclude la sua generale applicabilità a tutti i magistrati, a prescindere dalla loro iscrizione al sodalizio. L’articolato non può pertanto definirsi, come talvolta avviene, il codice etico dell’ANM, ma come il codice etico della magistratura italiana.
A distanza di 16 anni, il 13 novembre 2010, l’ANM ha approvato un nuovo codice etico, dichiaratamente volto – come si legge nella sua premessa – ad aggiornare la figura del magistrato, inserito in una società ormai in continua evoluzione [6]: il nuovo testo riscrive il precedente con alcune modifiche, che tengono conto delle criticità emerse nell’applicazione di quello del 1994 e recepiscono nuove istanze e sensibilità al tema, con particolare riferimento ai settori dell’informazione, della comunicazione e dell’organizzazione, e pongono ulteriori precetti, puntualizzando anche i doveri dei dirigenti.
Il codice etico, da alcuni definito come una sorta di patto con i cittadini, fornisce alla collettività la conoscenza delle regole cui i magistrati sono tenuti, così offrendo elementi di chiarezza sulla condotta che essi devono assumere in ogni contesto esperienziale e consentendo ai consociati di pretendere il rispetto degli impegni in esso indicati; al tempo stesso indica a tutti i magistrati la cifra della loro condotta quotidiana, la possibilità di costruirsi un abito mentale e di formarsi una comune coscienza etica, indirizzando i loro comportamenti verso un modello ideale di operatore della giustizia. Per questa via ciascun appartenente all’ordine giudiziario si colloca all’interno di una casa comune e si rende parte attiva di un sistema che lo unisce a tutti i suoi colleghi intorno ad un nucleo di valori condivisi.
Va precisato che le norme etiche si collocano su un piano distinto, per diversità di natura e di funzione, rispetto alle regole disciplinari: esse esprimono il dover essere di chi esercita la giurisdizione, sono norme di autocontrollo e non sono provviste di sanzione, onde la loro efficacia strutturante è sostanzialmente rimessa alla sensibilità e all’impegno di ogni magistrato, mentre le regole disciplinari, che individuano il c.d. minimo etico, incidono più direttamente sull’interesse della generalità dei consociati e sono per questo riservate alla competenza del legislatore (il d.lgs.2006 n. 109), sono caratterizzate dal principio di tassatività e presidiate da sanzioni; la circostanza che della materia disciplinare si occupano ben due articoli della Costituzione (artt. 105 e 107) vale ad evidenziarne la rilevanza nel quadro costituzionale[7]. Le condotte disciplinarmente sanzionabili sono dunque soltanto quelle previste nel d.lgs. 2006 n. 109.
Peraltro l’inclusione delle norme etiche nel comparto della soft law non esclude l’esistenza di zone di contiguità e di parziali sovrapposizioni tra le due sfere, tanto che in alcuni casi la violazione di esse può integrare anche un illecito disciplinare o addirittura un illecito penale.
Il codice etico – un testo breve, di soli 14 articoli – compendia una summa di regole che hanno riguardo ad uno spettro assai ampio di comportamenti dei giudici e dei pubblici ministeri, inclusi i capi degli uffici. I valori e principi in esso dettati devono improntare la condotta del magistrato nell’esercizio delle funzioni, nei rapporti con le istituzioni, con i cittadini e con gli utenti della giustizia, con gli altri operatori del settore, con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione, nonché nella vita sociale. Le varie previsioni costituiscono un catalogo che sostanzialmente riproduce le regole di condotta che ho prima richiamato nel parlare di imparzialità e indipendenza.
I valori dell’indipendenza e dell’imparzialità sono infatti assunti nell’articolato come fondamentali criteri ispiratori della condotta dei magistrati; è inoltre ricorrente nel testo il riferimento al concetto di disinteresse personale, quale prerequisito di ogni corretto comportamento nella vita professionale e sociale.
Dalla sua impostazione complessiva si rileva la tendenza non solo o non tanto a tutelare valori generali ed astratti, quali il prestigio, il decoro e la dignità dell’ordine giudiziario, come evocati in passato nell’art. 18 della legge sulle guarentigie, ma piuttosto a garantire attraverso il rispetto di tali valori il buon funzionamento, l’efficienza, la tempestività e la correttezza del servizio reso alla collettività. Ne risulta così valorizzata la concezione dell’attività giudiziaria come servizio e la tensione alla effettività della tutela dei diritti.[8]
Un elemento di modernità del codice etico sta nella previsione di cui all’art. 9, primo comma, concernente il dovere di restare immuni da ogni tipo di pregiudizio, e in primo luogo dai pregiudizi di sesso.
Emerge dalla trama dei precetti la figura ideale di un giudice diligente ed operoso, equidistante, che osserva gli orari delle udienze e delle altre attività di ufficio, che assicura alle parti la possibilità di svolgere pienamente le loro difese, che è rispettoso delle opinioni di tutti, che è disponibile a rivedere i propri convincimenti, che esamina attentamente gli atti e le prove acquisite, che coltiva il valore del dubbio senza esserne sopraffatto, che garantisce la segretezza delle camere di consiglio, che utilizza correttamente le risorse dell’amministrazione, che coltiva costantemente lo studio e l’aggiornamento professionale e partecipa alle iniziative di formazione e all’attività organizzativa dell’ufficio.
Restano per contro nella sfera dell’irrilevanza dal punto di vista etico i comportamenti strettamente attinenti alla vita privata e familiare, in passato considerati potenzialmente lesivi della dignità dell’ordine giudiziario ed oggetto in non pochi casi di sanzioni disciplinari, nello spirito di una tutela ossessiva e pruriginosa di certi valori tradizionali.
Mi preme segnalare che l’art. 14 del codice etico, concernente i doveri del dirigente, pone nell’ultima parte del terzo comma (di nuova formulazione rispetto alla stesura del 1994) il dovere di curare l’inserimento dei giovani magistrati, cui va assicurato un carico di lavoro equo. L’obiettivo di detta disposizione è chiaramente quello di assicurare una adeguata formazione dei colleghi più giovani, che tenga conto della loro inesperienza e delle difficoltà insite negli inizi di un percorso così impegnativo, facilitando il loro inserimento nell’ambiente di lavoro e nella giurisdizione attiva.
Il codice etico dovrebbe essere a mio avviso aggiornato sul tema dell’utilizzazione dei social media da parte dei magistrati. Non ho il tempo di soffermarmi su tale delicata problematica, che è stata oggetto recentemente di un interessante convegno organizzato dal CSM[9]; mi limito in questa sede a suggerire la massima prudenza nell’uso di tali mezzi di comunicazione, molto spesso ricettacolo di volgarità e di pesanti aggressioni verbali, sovente stimolate da un’ansia di velocità della risposta e corroborate da sterminati anomali plebisciti. In quella sede convegnistica Massimo Luciani ha parlato di strumenti di comunicazione primitivi e nell’invitare alla cautela nel loro uso ha rilevato che le opinioni espresse nei social sono destinate a restare in eterno, con grande rischio di decontestualizzazione.
Osservo al riguardo che la genericità delle previsioni contenute nell’art. 6 del codice etico, concernente i rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, rende dette previsioni del tutto inadeguate a disciplinare la materia ed integra un vuoto nel sistema dei doveri deontologici del magistrato che dovrebbe essere tempestivamente colmato con specifiche disposizioni relative all’utilizzo dei social. È interessante sul punto ricordare che il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa ha adottato in data 25 marzo 2021 una delibera contenente linee guida sull’utilizzo dei social media.
È importante infine segnalare che l’art. 9 dello Statuto dell’ANM, nel testo modificato il 14 settembre 2019, ha disposto che costituisce illecito disciplinare la violazione del codice etico dei magistrati, nonché la commissione di illeciti penali dolosi. Tale previsione conferisce una nuova valenza alle prescrizioni del codice etico, in quanto ora presidiate – ovviamente nei soli riguardi degli appartenenti all’ANM, essendo la nuova disposizione contenuta nello statuto dell’associazione – dalle sanzioni previste dall’art. 10 dello stesso statuto (censura, interdizione temporanea dai diritti sociali, espulsione dal sodalizio).
Come è evidente, attraverso la suindicata riformulazione dell’art. 9 si è rinvigorita l’effettività del codice etico, non più configurabile per gli iscritti come summa di regole morali incoercibili. Ai singoli precetti di detto codice è stata ora agganciata una sanzione che non è automatica, ma è rimessa prima all’apprezzamento del Collegio dei Probiviri ed in seconda battuta alla delibera del Comitato Direttivo Centrale dell’ANM.
5. L’etica nella motivazione delle sentenze
Ritengo opportuno svolgere qualche breve riflessione sull’importanza della motivazione, che l’art. 111, co.6, della Costituzione prevede come obbligatoria per tutti i provvedimenti giurisdizionali e la cui stesura costituisce un momento delicatissimo del lavoro del giudice ed assorbe molto tempo e molte energie della sua attività.
La motivazione è il più importante banco di prova del rigore logico e del livello professionale del giudice, oltre che della sua imparzialità. Se è vero infatti che la più rilevante fonte della legittimazione del magistrato consiste nella autorevolezza e persuasività delle decisioni adottate, è evidente la necessità che egli presti la massima cura nella redazione degli atti.
Scriveva Michele Taruffo che la motivazione svolge innanzi tutto una funzione endoprocessuale, in quanto costituisce strumento di controllo della decisione nelle fasi di impugnazione, ma anche una funzione extraprocessuale, perché offre la possibilità di una valutazione esterna dell’operato del giudice da parte della collettività, cosi fornendo una garanzia di trasparenza della giustizia di fronte all’opinione pubblica, in adesione ad una concezione democratica dell’esercizio della giurisdizione. Va altresì ricordato che la sentenza non va intesa come opera del suo estensore, ma quale emanazione dell’ufficio cui egli appartiene, come la stessa intestazione del documento lascia chiaramente intendere: ciò vuol dire che quando si scrive una sentenza si dà voce non già alla propria personale opinione, ma all’organo giudiziario di appartenenza. Appare pertanto non corretta quella tendenza, ispirata certamente ad esigenze di semplificazione, ad individuare le sentenze, specie quelle della Corte di Cassazione, con il nome del loro estensore.
Resta il dovere primario per ogni giudice di adottare motivazioni chiare, comprensibili non solo ai soggetti che ne sono destinatari e che generalmente non sono giuristi, ma a tutti i cittadini; che si esprimano in uno stile sobrio; che riflettano fedelmente, nel caso di decisioni collegiali, il dibattito della camera di consiglio e le conclusioni ivi raggiunte; che siano concise, secondo il chiaro disposto degli artt. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. e 118, secondo comma, disp. att. c.p.c., e quindi non contengano obiter e ripetizioni di concetti, né si dilunghino in dotte disquisizioni teoriche utili per una tesi di laurea o per una nota in una rivista giuridica, in quanto concisione espositiva non vuol dire incompletezza, ma padronanza della tematica e adeguato utilizzo degli argomenti pertinenti.
Mi preme anche ricordare che le parole vanno usate con accortezza e misura, avendo sempre presente che un termine o un’espressione aspri e non giustificati nell’economia della decisione possono causare ferite indelebili e ingiuste ai soggetti che ne sono destinatari.
Va inoltre rispettato il ruolo del presidente nel delicato compito di correttore di una pronuncia che reca anche la sua firma. La comune tensione verso il risultato di una sentenza corretta, puntuale e logicamente argomentata, che oltre che giuridicamente controllabile deve essere anche persuasiva, vale certamente il prezzo di qualche ferita alla vanità dell’estensore.
6. La questione del linguaggio
Ancora un breve cenno alla questione del linguaggio, che ha anch’essa a che fare con l’indipendenza del magistrato, in quanto le parole ci indicano, quando le scegliamo, la prospettiva che le ispira e le sostiene. È necessario essere consapevoli del ruolo potente giocato dal linguaggio nella rappresentazione della realtà e dei rapporti tra le persone e della sua capacità di riprodurre pregiudizi e stereotipi, o al contrario di diventare strumento di emancipazione e di parità. In forza di questa consapevolezza spetta ai magistrati nella scrittura delle sentenze, ma non solo, liberarsi di consolidate abitudini linguistiche di stampo androcentrico e usare un lessico che non renda invisibili le donne.
Ciò significa fare un uso corretto della lingua come veicolo di trasmissione di significati e di visioni e rifiutare l’assunto, da alcuni sostenuto anche sulla base di un’erronea lettura del testo della Costituzione, che il termine al maschile sia corretto in quanto identificativo dell’istituzione, e non del soggetto che la rappresenta, e che in ogni caso la coniugazione di un termine al maschile o al femminile sia del tutto priva di rilevanza. È per contro vero che, come affermava Luce Irigaray[GL3] , il parlare non è mai neutro e che ciò che non è rappresentato nel linguaggio non esiste.
Ricordo da ultimo, a conferma di tanta resistenza al cambiamento, che si è reso necessario un parere dell’Accademia della Crusca, sollecitato da una richiesta del Comitato pari opportunità presso la Corte di Cassazione, per consentire ad una collega di firmare le sentenze da lei redatte qualificandosi al femminile.
7. Conclusioni
Concludo. In una situazione così delicata e complessa io credo che vengano soprattutto in gioco la professionalità e l’impegno di ogni magistrato. Alla base delle vostre scelte comportamentali deve essere il convincimento che il rispetto degli utenti e della collettività si ottiene con il sapere, il costante aggiornamento professionale, la capacità di ascolto, oltre che con l’esempio di una condotta irreprensibile anche fuori delle aule giudiziarie e che la fiducia delle parti e dei cittadini nei loro giudici è il parametro fondamentale della legittimità della giurisdizione. Occorre allora tener sempre presente che dalla conduzione dell’udienza, con le sue forme e i suoi tempi, dall’interlocuzione attenta e rispettosa con le parti e con il foro, dal rispetto delle garanzie processuali, dalla redazione di motivazioni chiare e comprensibili, dalla sobrietà nella vita privata passa il difficile percorso per il recupero della fiducia dei cittadini. Come ricorda Alfonso Amatucci, il rispetto non è un diritto esigibile in ragione della qualifica rivestita, ma è un valore che può scaturire soltanto dal riconoscimento da parte dei cittadini della professionalità e dell’esemplarità della condotta del magistrato.
Vorrei infine osservare che, superato da tempo l’assioma di stampo illuminista del giudice bocca della legge, meccanico applicatore di un enunciato normativo astorico e atemporale, il magistrato dei nostri tempi deve essere anche giudice europeo, confrontandosi con un diritto positivo sempre più complesso, segnato dalla sovrapposizione di norme nazionali, comunitarie e sovranazionali, e sensibile ai grandi mutamenti della coscienza sociale, ed è spesso chiamato a dare riconoscimento e tutela a nuovi diritti, che il legislatore non è stato capace o non ha voluto disciplinare, lasciando sola la giurisdizione nel compito di rendere risposte di giustizia adeguate, salvo più tardi contestarle di aver svolto un ruolo di supplenza non richiesto e non gradito.
È peraltro chiaro che il potenziamento del ruolo dei giudici nella costruzione del diritto vivente a tutela dei diritti fondamentali implica un aumento di responsabilità,
che a sua volta richiede un forte lavoro di affinamento della professionalità ed una particolare attenzione al rispetto dei valori di autonomia e indipendenza.
Testo rielaborato della relazione svolta il 12 dicembre 2024 presso la SSM nel corso di formazione per i m.o.t. dell’11-13 dicembre 2024 sui temi dell’etica, della deontologia e della responsabilità disciplinare dei magistrati.
[1] V. in tal senso AMATUCCI, L’etica del magistrato. Esiste ancora?, in Giustizia Insieme, 5 luglio 2020.
[2] V. sul punto RORDORF, L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista, in Questione Giustizia, Trimestrale, n. 1.2/2024.
[3] V. sul tema DELL’UTRI, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, in Giustizia Insieme, 1 giugno 2021.
[4] Cfr. Dieci regole di deontologia giudiziaria, conseguenti alla natura cognitiva della giurisdizione, in L’etica giudiziaria, Quaderno n. 17 della SSM, p. 25 e ss.
[5] In L’apparenza dell’imparzialità del giudice: i pericoli di una formula fortunata, in Questione Giustizia, 23 ottobre 2024. V. altresì sul tema, di recente, GIOSTRA, Essere e apparire imparziali: garanzia di valori diversi, in Questione Giustizia, 5 dicembre 2024.
[6] Sull’esigenza di una rivisitazione del codice etico del 1994, al fine di adeguarlo alle nuove problematiche dell’esercizio della giurisdizione, e sulla effettività di esso v. NATOLI e BIFULCO, Il codice etico dei magistrati tra effettività, prassi e tempo, in Giustizia Insieme, 2010, n. 1, p. 27 e ss.
[7] V. sul punto SALVATO, Due interrogativi sulla relazione tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, in Giustizia Insieme, 19 gennaio 2021.
[8] V. in tal senso BINI, Le regole deontologiche dei magistrati: dalla Costituzione ai codici etici, relazione al seminario svoltosi nel gennaio 2007 presso l’Università degli Studi di Genova, www.costituzionale.unige.it/dottorato/BINI.html.
[9] La magistratura e i social network, 17 maggio 2024.
Immagine: particolare da Piero del Pollaiolo, La Giustizia, 1470, Galleria degli Uffizi, Firenze.
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