ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Guerra. Una brutta parola. Designa la cosa peggiore che gli esseri umani possono infliggere agli altri esseri umani. Ed a sé stessi. La morte non naturale, la fame, le malattie sono endemiche nella vita degli uomini, ma con la guerra tutto questo è moltiplicato, amplificato.
Liberazione. Una bella parola. È l’oppressione del male che se ne va, il sollievo dell’anima, la gioia della libertà ritrovata.
Dunque la guerra è il male, la liberazione il bene: com’è possibile che possano associarsi?
Eppure nella storia dell’umanità ciò è accaduto molte volte. Quando ai popoli oppressi, da un altro popolo o da una parte dello stesso popolo, non è data un’altra possibilità, allora la guerra di liberazione diviene inevitabile.
È ciò che accadde in Italia negli anni Quaranta del secolo scorso. Prima vent’anni di oppressione fascista, poi la guerra di aggressione di altri popoli, infine un repentino cambiamento delle alleanze, finalmente dalla “parte giusta” della Storia, ma con il nemico, straniero e italiano, in casa. Un nemico feroce, che non se ne voleva andare, che contrastava le armate alleate metro per metro.
Uno Stato dissolto, un esercito sbandato: cosa potevano fare gli italiani?
Tutti hanno subito gli eventi, alcuni hanno continuato a stare con gli oppressori, altri hanno scelto di combatterli, a Sud e a Nord della linea mobile del fronte. Come partigiani, come soldati dell’Esercito cobelligerante, come internati militari. Con le armi e senza.
L’ 8 settembre 1943 è stato il momento della scelta. E da quel momento è iniziata la guerra di liberazione, il riscatto della nazione. È durata quasi 21 mesi. È stata durissima, cattiva anche più di una guerra convenzionale. La guerra è guerra. In guerra non ci sono “buoni” e “cattivi”, ma soltanto chi è dalla parte giusta e chi da quella sbagliata.
I resistenti hanno combattuto per liberare il popolo italiano dallo straniero occupante e dalla dittatura fascista. Non è dubbio che la loro era la parte giusta.
I morti di quella guerra, come tutti i morti, meritano rispetto. Quelli, italiani e stranieri, che per la libertà hanno combattuto e combattendo sono morti meritano onore e affetto. È a loro che dobbiamo la nostra libertà; è anche per loro che abbiamo il dovere di preservarla, così come è splendidamente espressa nella Costituzione repubblicana.
Ottanta anni dopo, in un tempo incerto e pieno di ombre, la memoria dei liberatori è quanto mai – ma ancor più – viva nelle nostre menti e nei nostri cuori.
Immagine: Valentino Petrelli, Milano, 26 aprile 1945 via Wikimedia Commons.
Si veda anche Il 25 aprile e la nostra Costituzione di Paola Filippi, Il 25 Aprile: un valore assoluto di Licia Fierro,Il Significato del 25 aprile di Antonella Dell'orfano.
Di sicuro non era il 25 aprile 1945, doveva essere uno dei giorni immediatamente successivi, quando via via tutto il Nord venne liberato dalla presenza dei tedeschi. Ma ricordo bene che mia madre venne a prendermi a scuola – così come fecero molti altri genitori – per portarmi nella piazza principale di Canelli in Piemonte, dove allora vivevamo. E dove avrebbe parlato il Comandante Rocca, il capo dei nostri partigiani. Nel mio ricordo, fiabesco, è rimasta l’immagine del Comandante Rocca come se fosse non su un palchetto, ma sull’albero principale della piazza e di lì si rivolgesse a tutti noi. Ci disse che la guerra era finita, che avremmo costruito insieme una nuova Italia e pronunciò le parole che negli anni successivi sarebbero diventate la leva più potente verso l’unità europea, “mai più guerre fra noi”.
Fu un discorso breve, ma in ciò che ci disse erano racchiusi i due legati, i due grandi legati, che la Resistenza ci avrebbe lasciato. Il primo è quello di averci evitato il destino che ebbe allora la Germania, fornendoci una classe dirigente per la nuova Italia che gli alleati avrebbero riconosciuto, riconoscendole il diritto di guidare la transizione sino ad organizzare una Assemblea Costituente, che ci avrebbe dato, in piena e sovrana autonomia, la nostra Costituzione (tante volte mi è capitato di farlo notare a chi dice di riconoscersi nella Costituzione, ma di non condividere la Resistenza). Non so se il nostro Rocca ne era consapevole, ma di una tale consapevolezza si trovano comunque le tracce. Basta leggere, ad esempio, la Relazione sulla propria attività della Giunta provvisoria di governo della Repubblica dell’Ossola (la si trova nel libro a cura di Aldo Aniasi, “Ne valeva la pena. Dalla Repubblica dell’Ossola alla Costituzione repubblicana”, Biblion Ed., 2024). In essa si legge che «a opera degli autorevoli testimoni si diffuse in Svizzera e negli altri paesi europei l’opinione che gli italiani, pur lasciati a sé soli, e in condizioni difficilissime, hanno tuttavia la capacità di vivere liberamente, ordinatamente provvedendo all’amministrazione del loro paese. Fu, insomma, una efficacissima propaganda di italianità…che ha contribuito a risollevare il nostro popolo nella considerazione straniera!». Sappiamo che non tutti gli alleati erano d’accordo su ciò che si venne decidendo. È nota la preferenza del Regno Unito, di Winston Churchill, per la continuità monarchica. Ma nessuno volle opporsi alle decisioni sovrane del popolo italiano, guidato allora dai partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, i partiti della Resistenza.
Il secondo legato, che arrivò a farsi sentire in tutta Europa, vissuto e animato da tutti coloro che di quella terribile guerra avevano subito le conseguenze, fu l’impegno a mettere i nostri Stati insieme, non più l’uno contro l’altro. I progetti di unità europea non furono un’invenzione del Secondo dopoguerra. Lo stesso Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941, deve molto alle analisi e alle proposte che Luigi Einaudi aveva già formulato nel 1919. Ma la Prima guerra mondiale, che pure aveva sollecitato Einaudi e altri a progettare l’Europa unita, non riuscì a creare la forza necessaria a rimuovere gli ostacoli che il nazionalismo opponeva alla radice stessa dei progetti europeisti. Tant’è che dopo di essa furono proprio i nazionalismi a prevalere, sino a portare alla Seconda guerra mondiale. Furono le tragedie immani che essa produsse a generare la forza che era mancata in passato. Era ancora il giugno del 1945 quando a S. Francisco si riunirono i “popoli delle Nazioni Unite decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra” e quindi ad “unire le nostre forze per mantenere la pace”. E nacque, appunto, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, con l’ambizione di sottrarre agli Stati membri le decisioni sui conflitti armati, affidandole al suo Consiglio di Sicurezza.
Quella promessa le Nazioni del mondo non l’hanno mantenuta. Ma l’integrazione europea, nata in modo meno immediato e più laborioso di quanto fosse accaduto per l’Onu, la sua promessa l’ha invece mantenuta. Il suo vero atto fondativo è la dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, con la quale la Francia propose di mettere insieme la produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio, facendo sì che “una qualsiasi guerra tra Francia e Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. Nacque su questa base la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, seguita poi dalla Comunità Economica Europea, sino all’attuale Unione. Una costruzione piena di limiti e difetti. Ma radicata e cresciuta quanto basta da avere cancellato la guerra reciproca fra quegli stessi Stati che, in passato, con le loro guerre avevano insanguinato il mondo intero.
C’è chi osserva che non è solo così nobilmente endogena la spinta che ha generato la costruzione europea. La prima assemblea degli europeisti, quella dell’Aja del 1948 non generò nessuna assemblea costituente europea. E per avviare l’integrazione europea ci volle la necessità degli Stati Uniti di schierare l’Europa, Germania compresa, come argine al comunismo nella ormai avviata guerra fredda. È vero, questa è una verità innegabile che ha avuto il suo peso. Certo lo ha avuto nello smuovere la Francia. Che piegò le sue propensioni sovraniste alle ragioni della integrazione solo quando percepì che la Germania era destinata a ritornare sovrana; e a quel punto era meglio che tutte le sovranità europee, compresa quella francese, fossero imbrigliate in una rete europea, per evitare quanto accaduto in passato.
La Dichiarazione Schuman è frutto anche di questo. Ma sarebbe ottusamente cinico non vedere che c’è di più, c’è la forza degli interessi, ma c’è anche la forza dei valori comuni, che via via emergeranno, sino a diventare in primo luogo diritti degli europei, all’inizio affermati dalla Corte di Giustizia europea e poi proclamati in una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; in secondo luogo l’insieme dei principi oggi racchiusi negli artt.2 e 3 del Trattato di Lisbona, che tutti gli Stati membri sono tenuti a rispettare e che sono imposti a qualunque altro stato, che intenda entrare nell’Unione.
Sarebbe ottusamente cinico ignorare tutto questo, non solo perché ha dimostrato di esserci e di avere una sua innegabile forza coesiva. Ma perché si tratta di un patrimonio comune europeo, presente a chi scrisse il Manifesto di Ventotene, a chi, a Camaldoli, scrisse un “codice” che sarebbe diventato la base della nostra Costituzione repubblicana, a chi, in Francia come, a suo modo, anche in Germania, progettò il futuro costituzionale dei due paesi. Era il patrimonio che nutriva i tanti giovani i quali, pur potendo rimanere immersi nelle loro attività, decisero di lasciarle e di imbracciare le armi. Come Giaime Pintor, che mirabilmente lo scrive nella sua famosa ultima lettera al fratello: «Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Vent’anni fa la confusione dominante poteva far prendere sul serio l’impresa di Fiume. Oggi sono riaperte agli italiani le stesse possibilità del Risorgimento. Quanto a me… non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e la accolgo”.
Questa, dunque, fu la Resistenza e questa la Liberazione che ci dette. Tenerne vivo il legato, nelle condizioni difficili di oggi, è una missione che rimane.
Foto scattata da Livio Bobbio il 23 aprile 1945 a Canelli, sul terrazzo che si affaccia sul cortile delle ex scuole G.B. Giuliani (Archivio Giamelli-Bobbio). L'immagine di copertina che ritrae Giuliano Amato nel 2022 è di Wikimedia Commons.
Si veda anche Il 25 aprile e la nostra Costituzione di Paola Filippi, Il 25 Aprile: un valore assoluto di Licia Fierro,Il Significato del 25 aprile di Antonella Dell'orfano.
Papa Francesco ci ha lasciato un patrimonio inestimabile di sollecitazioni da porre come obiettivi di condotta.
In questa fase storica in cui tutto sembra rotolare come su un piano sempre più inclinato verso la negazione dell’inclusione, la sopraffazione del forte sul debole, la costruzione di muri e la distruzione dei ponti, ove la verità è improvvisamente scalzata dalla menzogna, in una terra rassegnata all’autodistruzione per il disinteresse verso il climate change, gli insegnamenti di Papa Francesco son da porsi come una rete di contenimento preziosa, un’ancora capace di invertire il piano inclinato, se solo riuscissimo a percepirne tutti, credenti e non credenti, l’enorme portata laica di cura per questa nostra umanità in declino.
Il primo richiamo a non rassegnarsi è quello che il Papa ha rivolto ai giovani, ma vale per tutti, quale incitazione a non arrendersi a un mondo che risuona del mantra dell’esclusione, del disprezzo della diversità, dei sovranismi, di guerre e sopraffazioni che trasudano di ingiustizia: “Per favore, non perdere la capacità di sognare: quando un giovane perde questa capacità, non dico che diventa vecchio, no, perché i vecchi sognano. Diventa un ‘pensionato della vita’. È molto brutto. Per favore, giovani, non siate ‘pensionati della vita’, e non lasciatevi rubare la speranza! Mai! La speranza non delude mai!”¹
La via da seguire, ci ha insegnato il Papa, è quella della partecipazione attiva alle istituzioni.
La “partecipazione attiva”, ha scritto va perseguita nel dialogo con le istituzioni, “facendo rete" - "ma anche facendo chiasso. È molto importante" - tra le diverse realtà ispirate alla “solidarietà” e “all’inclusione”. “In questo compito vi invito ad essere voce di tutti, specialmente di chi non ha voce. E oggi c’è tanta gente che non ha voce, tanti esclusi, non solo socialmente, per i problemi di povertà, mancanza di educazione, dittatura della droga… ma anche di coloro che non sanno sognare. Fate “rete” per sognare, e non perdere questa capacità. Sognare.”²
Il tema della partecipazione è strettamente collegato a quello della responsabilità: nessuno è solo su questa terra, nessuno è responsabile solo per sé; tutti siamo responsabili della mancata contribuzione a impedire le ingiustizie, le sopraffazioni e le esclusioni, ognuno nel proprio ruolo e ambito. Francesco ha detto: “Ciascuno di noi deve sentirsi in qualche modo responsabile della devastazione a cui è sottoposta la nostra casa comune, a partire da quelle azioni che, anche solo indirettamente, alimentano i conflitti che stanno flagellando l’umanità. Si fomentano e si intrecciano, così, sfide sistemiche, distinte ma interconnesse, che affliggono il nostro pianeta. Mi riferisco, in particolare, alle disparità di ogni sorta, al trattamento disumano riservato alle persone migranti, al degrado ambientale, alla confusione colpevolmente generata dalla disinformazione, al rigetto di ogni tipo di dialogo, ai cospicui finanziamenti dell’industria militare. Sono tutti fattori di una concreta minaccia per l’esistenza dell’intera umanità.”³
Solo la partecipazione di tutti, con il richiamato senso di responsabilità, può condurre a quella che Papa Francesco ha definito la sana politica, la politica che restituisce speranza per l’avvenire. “La società mondiale ha gravi carenze strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi. In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale e popolare che tenda al bene comune può “aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo”.⁴
La politica sana non esercita il potere come dominio. L’esempio che ha fatto il Papa quanto al potere come dominio, tratto dalla Bibbia, è quello di re Acab: “Il sovrano vuole allargare il suo giardino appropriandosi della vigna di Nabot che non vuole vendere la sua proprietà; Nabot verrà allora ucciso e Acab otterrà ciò che voleva.”⁵
La politica sana amministra per la cura dell’interesse del popolo, l’esempio della Bibbia citato dal Papa è quello di Giuseppe, figlio di Giacobbe, che “venduto come schiavo dai fratelli” viene portato poi in Egitto e, dopo varie vicende, entra al servizio del faraone che gli affida incarichi amministrativi. Francesco fa notare che “Giuseppe, che ha sofferto l’ingiustizia personalmente, non cerca il proprio interesse ma quello del popolo” e “si fa artigiano di pace”, tessendo “rapporti capaci di innovare la società”.⁶
Partecipazione, nella definizione di Papa Francesco, “significa guardare all’avvenire e investire sulle generazioni future; avviare processi piuttosto che occupare spazi”. “La vostra preoccupazione non sia il consenso elettorale né il successo personale, ma coinvolgere le persone, generare imprenditorialità - imprenditorialità, generare quello -, far fiorire sogni, far sentire la bellezza di appartenere a una comunità. La partecipazione è il balsamo sulle ferite della democrazia. Vi invito a dare il vostro contributo, a partecipare e a invitare i vostri coetanei a farlo, farlo sempre con il fine e lo stile del servizio. Il politico è un servitore”.
In quest’epoca di esclusione, di caccia agli immigranti e di torturatori impuniti, Papa Francesco ha ricordato l’importanza dell’inclusione descrivendola in maniera plastica e significativa nel gesto dello spalancare le braccia per accogliere.
"L’inclusione si manifesta nello spalancare le braccia per accogliere senza escludere; senza classificare in base alle condizioni sociali, alla lingua, alla razza, alla cultura, alla religione. Davanti a noi c'è solo una persona da amare come la ama Dio». (Messaggio del Papa per la 110° giornata del migrante e del rifugiato). Con riferimento agli immigranti il papa ci ha ricordato con semplicità e verità che la terra non è nostra e ciò impedisce in radice di escludere chi attraversa il mare per una vita migliore se non addirittura per sopravvivere. La preghiera è rivolta a Dio “Non permettere che diventiamo padroni di quella porzione del mondo che ci hai donato come dimora temporanea.”⁷
Con riferimento allo spostamento della popolazione che caratterizza i nostri anni utilizza un immagine significativa che ci unisci credenti e non credenti la frase è “ tutti noi siamo migranti in cammino su questa terra” ⁸ . Il richiamo insito in tale frase è che le ragioni che inducono le donne e gli uomini a lasciare le loro case vanno indagate, che i viaggi che intraprendono sono di disperazione e speranza che solo per la nostra casuale nascita in un luogo piuttosto che in un altro sono loro e non noi i viaggiatori disperati respinti in frontiera. L’imperativo categorico dell’inclusione presuppone chiarezza sul concetto di uguaglianza e richiede una responsabile e consapevole presa di coscienza sul fatto che viviamo in un mondo in cui ci sono nuovi schiavi che aumentano giorno dopo giorno. A questo proposito papa Francesco ci ha ricordato come “Per la società antica era vitale la distinzione tra schiavi e cittadini liberi. Questi godevano per legge di tutti i diritti, mentre agli schiavi non era riconosciuta nemmeno la dignità umana. Questo, anche succede oggi: tanta gente nel mondo, tanta, milioni, che non hanno diritto a mangiare, non hanno diritto all’educazione, non hanno diritto al lavoro: sono i nuovi schiavi, sono coloro che sono alle periferie, che sono sfruttati da tutti. Anche oggi c’è la schiavitù: pensiamo un poco a questo. Noi neghiamo a questa gente la dignità umana".⁹ L’inclusività richiede dunque il riconoscimento dell’altro come soggetto avente in nostri medesimi diritti con pretesa del medesimo rispetto, fonda come ci ha ricordato il Papa sulla sorellanza e sulla fratellanza Il rispetto e la cura dell’altro come ci ha ricordato il Papa stabilisce “una nuova cittadinanza, una nuova antropologia, quella dal cuore aperto al mondo intero. Non è più l’appartenenza a uno Stato, a una Nazione, a un’etnia o a una religione a costituire elemento di merito a pro di una cittadinanza, ma soltanto la sollecitudine di una cura, in nome del diritto di ciascuno alla dignità, del diritto a essere riconosciuto fratello. La fraternità e la sorellanza che preserva libertà e uguaglianza da individualismo e populismo trova, dunque, attuazione in un popolo, che sia modello di una nuova economia, solidale e fraterna, e, di conseguenza, modello di una nuova politica, schierata a favore della dignità di ogni persona, cioè favorevole a una governance aperta a tutti e orientata dal principio dell’opzione per i poveri. “La riuscita di una cultura dell’incontro che privilegi il dialogo come metodo, la ricerca condivisa di consensi, di accordi, di ciò che unisce invece di ciò che divide e contrappone, è un cammino che dobbiamo percorrere. Per questo dobbiamo privilegiare il tempo rispetto allo spazio, il tutto, rispetto alla parte, la realtà rispetto all’idea astratta e l’unità rispetto al conflitto" (Noi come cittadini noi come popolo, 2013).
La fraternità e la sorellanza che preservano libertà e uguaglianza da individualismo e populismo trovano attuazione in un popolo solidale: “La riuscita di una cultura dell’incontro [...] è un cammino che dobbiamo percorrere.”¹⁰
Partecipazione, inclusione e fratellanza che devono necessariamente articolarsi nel rispetto della giustizia intesa come regolazione dei rapporti “Senza giustizia non c’è pace. Infatti, se la giustizia non viene rispettata, si generano conflitti. Senza giustizia, si sancisce la legge della prevaricazione del forte sui deboli”, nonché giustizia intesa “come virtù che non riguarda solo le aule dei tribunali, ma anche l’etica che contraddistingue la nostra vita quotidiana. Stabilisce con gli altri rapporti sinceri: realizza il precetto del Vangelo, secondo cui il parlare cristiano dev’essere: «“Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5,37). Le mezze verità, i discorsi sottili che vogliono raggirare il prossimo, le reticenze che occultano i reali propositi, non sono atteggiamenti consoni alla giustizia. L’uomo giusto è retto, semplice e schietto, non indossa maschere, si presenta per quello che è, ha un parlare vero. Sulle sue labbra si trova spesso la parola “grazie”: sa che, per quanto ci sforziamo di essere generosi, restiamo sempre debitori nei confronti del prossimo. Se amiamo, è anche perché siamo stati prima amati”.
“L’uomo giusto vigila sul proprio comportamento, perché non sia lesivo nei riguardi degli altri: se sbaglia, si scusa. L’uomo giusto si scusa sempre. In qualche situazione arriva a sacrificare un bene personale per metterlo a disposizione della comunità. Desidera una società ordinata, dove siano le persone a dare lustro alle cariche, e non le cariche a dare lustro alle persone. Aborrisce le raccomandazioni e non commercia favori. Ama la responsabilità ed è esemplare nel vivere e promuovere la legalità. Essa, infatti, è la via della giustizia, l’antidoto alla corruzione: quanto è importante educare le persone, in particolare i giovani, alla cultura della legalità! È la via per prevenire il cancro della corruzione e per debellare la criminalità, togliendole il terreno sotto i piedi".
Ancora, il giusto rifugge comportamenti nocivi come la calunnia, la falsa testimonianza, la frode, l’usura, il dileggio, la disonestà. Il giusto mantiene la parola data, restituisce quanto ha preso in prestito, riconosce il corretto salario a tutti gli operai – un uomo che non riconosce il giusto salario agli operai, non è giusto, è ingiusto – si guarda bene dal pronunciare giudizi temerari nei confronti del prossimo, difende la fama e il buon nome altrui” (Udienza generale Mercoledì, 3 aprile 2024).
Papa Francesco non si è sottratto dall'affrontare la questione epocale del climate change con riferimento alla quale si assiste al disinteressamento e negazionismo, tanto più grave quest’ultimo in quanto operato da chi molto potrebbe fare.
A riguardo il Papa ha scritto “Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti”. Il Papa l’ha chiamata “una malattia silenziosa” che trova le sue radici in un modello di sviluppo insostenibile. Di fronte alla crisi climatica “non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. L’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti” ¹¹ (“Laudate Deum” diffusa il 4 ottobre 2023)
L’esempio dei suoi giorni di vita la sua presenza tra i fedeli, nonostante la malattia la sua strenua volontà di offrire sé stesso fino all’ultimo respiro per invocare la pace per la martoriata Ucraina e per la strage dei palestinesi “cessate il fuoco, si liberino gli ostaggi e si presti aiuto alla gente, che ha fame e che aspira ad un futuro di pace!» è stata la sua ultima invocazione, insieme a quella in favore dei migranti con la quale ha stigmatizzato il disprezzo del quale la nostra società li fa oggetto.
Rimarrà impresso nella nostra memoria l'aggettivo ignobile utilizzato nella benedizione Ubi et Orbi per qualificare la drammatica situazione umanitaria di Gaza, una pulizia etnica senza precedenti della quale l’occidente è incapace di farsi carico.
¹ Francesco. (2023, 16 novembre). Discorso ai membri del Consiglio Nazionale dei Giovani d’Italia. Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana.
² Francesco. (2021, 11 novembre). Discorso alla Rete Nazionale del Servizio Civile.
³ Francesco. (2023, 8 dicembre). Messaggio per la 57ª Giornata Mondiale della Pace 2024.
⁴ Francesco. (2015). Laudato Si’, n. 191.
⁵ Francesco. (2019, 16 settembre). Omelia, riflessione su 1 Re 21.
⁶ Francesco. (2019, 1 gennaio). Messaggio per la 52ª Giornata Mondiale della Pace.
⁷ Francesco. (2024). Messaggio per la 110ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato.
⁸ Francesco. (2022, 29 settembre). Discorso alla Pastorale per i Migranti.
⁹ Francesco. (2020, 16 dicembre). Udienza generale: Catechesi sul Magnificat.
¹⁰ Francesco. (2020). Fratelli Tutti, n. 217.
¹¹ Francesco. (2023, 4 ottobre). Laudate Deum.
La Rivista Giustizia Insieme dedicherà alcuni contributi e approfondimenti tematici in prospettiva dei cinque referendum abrogativi indetti con separati Decreti del Presidente della Repubblica in data 31 marzo 2025, con la convocazione dei comizi elettorali per i giorni di domenica 8 giugno e lunedì 9 giugno 2025 (G.U. n. 75 del 31 marzo 2025), destinati anche al voto di ballottaggio delle elezioni amministrative.
I quesiti referendari hanno ad oggetto, in estrema sintesi, l’abrogazione: a) di alcune norme sulla cittadinanza; b) del decreto delegato attuativo del Jobs Act in materia di licenziamenti illegittimi (d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015); c) della disposizione normativa sulla misura massima dell’indennità da licenziamento illegittimo nelle piccole imprese; d) di alcune norme che hanno liberalizzato i contratti a termine; e) della disposizione normativa che esonera l’impresa committente dalla responsabilità in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali.
Per completezza di documentazione pubblichiamo l’annuncio dei quesiti referendari; le cinque ordinanze depositate in data 12 dicembre 2024 dall’Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte Suprema di Cassazione, che hanno dichiarato conformi a legge le richieste referendarie; le sentenze della Corte Costituzionale del 7 febbraio 2025 (rispettivamente nn. 11,12,13,14 e 15), con le quali sono state dichiarate ammissibili le richieste di referendum popolare.
DPR indizione referendum e quesiti: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2025/03/31/75/sg/html
Le cinque ordinanze depositate in data 12 dicembre 2024 dall’Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte Suprema di Cassazione: https://www.cortedicassazione.it/page/it/ordinanze_ufficio_centrale_it_1?contentId=REF35105
Le sentenze della Corte Costituzionale del 7 febbraio 2025, con le quali sono state dichiarate ammissibili le richieste di referendum popolare.
La nuova liberazione anticipata. Dubbi e criticità.
Brevi note sulle ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale emessa dal magistrato di Sorveglianza di Napoli (ord. in data 7.3.2025) e dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto (ord. in data 25.3.2025).
Sommario: 1. Le modifiche introdotte dal legislatore in materia di accesso al beneficio – 2. I dubbi di costituzionalità. Profili di irragionevolezza e ostacoli al finalismo rieducativo della pena - 3. Il raggiungimento degli obiettivi e l’impatto sugli Uffici. Qualche considerazione.
1. Le modifiche introdotte dal legislatore in materia di accesso al beneficio
A meno di un anno dal decreto “Carcere sicuro” (DL n.92 del 5.7.2024 conv. in L. 8.8.2024 n. 112) che ha profondamente trasformato l’istituto della liberazione anticipata disciplinato dall’ordinamento penitenziario, la magistratura di sorveglianza si è rivolta alla Corte Costituzionale dubitando della conformità della nuova disciplina ai principi di finalità rieducativa della pena e di ragionevolezza sanciti dagli artt. 3 e 27 comma II della Costituzione.
Lo scopo perseguito dal legislatore, esplicitato nella Relazione di accompagnamento al decreto-legge, è quello di garantire una applicazione più efficace della liberazione anticipata, sia in favore del detenuto, sia in favore della magistratura di sorveglianza, attraverso una semplificazione della procedura che sgravi il lavoro degli uffici di sorveglianza e, al contempo dia maggiore certezza ai detenuti circa il maturare, nel corso dell’esecuzione della pena del beneficio, sia infine per evitare i rischio che il riconoscimento avvenga a troppa distanza dall’insorgere dei suoi presupposti con effetti negativi sull’accesso ad altri benefici penitenziari e sulla individuazione del termine finale della pena e, in tale ottica, si è proceduto alla modifica dell’art. 69 bis OP, che disciplina il procedimento attraverso cui si addiviene alla valutazione in ordine al riconoscimento del beneficio e all’aggiunta del comma 10 bis all’art. 656 c.p.p. che disciplina l’esecuzione delle pene detentive.
La regola generale dell’accesso alla liberazione anticipata su istanza di parte è stata sostituita dalla previsione di un intervento officioso del magistrato di sorveglianza in due momenti distinti dell’esecuzione penale. Il primo costituito dalla presentazione di istanze di misure alternative o di altri benefici, rispetto ai quali, nel computo della pena espiata o da espiare necessaria per l’accesso agli stessi, sia rilevante la liberazione anticipata. Il secondo costituito dall’approssimarsi del fine pena. In relazione a questa seconda ipotesi il comma 10 bis dell’art. 656 c.p.p. prevede che nell’ordine di esecuzione venga indicato, accanto alla cadenza pena effettiva, il fine pena “virtuale” ovvero quello risultante dal preventivo computo delle detrazioni che la persona condannata potrà ottenere durante l’esecuzione a titolo di liberazione anticipata. Il magistrato dovrà intervenire nel termine di 90 giorni antecedente al fine pena virtuale per evitare che il riconoscimento del beneficio avvenga successivamente alla scadenza della pena. La norma prevede inoltre che l’ordine di esecuzione contenga l’avviso al condannato che le detrazioni di pena indicate non saranno riconosciute se lo stesso non avrà dato prova di effettiva partecipazione all’opera di rieducazione.
Il maccanismo doppia indicazione della pena\avviso al condannato costituisce, nell’intenzione del legislatore, un accorgimento idoneo a stabilizzare i semestri di interesse e a promuovere l’adesione all’opera rieducativa.
È stato, dunque, ribaltato l’originario meccanismo secondo cui il Pubblico Ministero aggiornava l’entità della pena da espiare in corrispondenza all’emissione di provvedimenti di liberazione anticipata, in favore di un sistema che, partendo dall’indicazione della massima riduzione di pena possibile in astratto può variare nel tempo solo in termini negativi per il condannato.
Carattere meramente residuale assume, invece, l’avvio del procedimento su istanza di parte al di fuori dei momenti sopraindicati. L’istanza di parte deve essere sostenuta da uno interesse specifico, diverso da quello generico a conoscere l’andamento semestrale del proprio percorso rieducativo. Infatti, nell’ottica che anima la riforma, tale interesse deve essere sempre correlato ad ottenere un vantaggio in termini di accesso a benefici o di anticipazione della scadenza pena. Di fatto, l’unico interesse diverso da quello sotteso alle valutazioni officiose concretamente ipotizzabile, è, come indicato nella Relazione di accompagnamento al decreto legge, quello ad ottenere il c.d. scioglimento del cumulo (ovvero lo scorporo della quota pena relativa a reati che rendono più complesso l’acceso a benefici o che addirittura lo precludono).
2. I dubbi di costituzionalità. Profili di irragionevolezza e ostacoli al finalismo rieducativo della pena
La nuova normativa è oggi al vaglio della Corte Costituzionale.
Le ordinanze di rimessione dei magistrati Sorveglianza di Napoli e di Spoleto focalizzano i loro rilevi sulla parte della norma che limita l’accesso al beneficio su istanza di parte. È questa, infatti, la disposizione che maggiormente impatta sull’impianto dell’istituto, modificandone profondamente i connotati, in quanto priva le persone condannate, soprattutto quelle detenute in carcere, di uno strumento di verifica del proprio percorso e di un incentivo alla prosecuzione all’opera rieducativa
La liberazione anticipata è stata fino il beneficio cui tutte le persone in esecuzione di pena (non soltanto i detenuti in carcere) hanno avuto liberamente accesso, senza distinzione tra reati oggetto della condanna o tra differenti regimi penitenziari ed è stato anche, spesso, il primo beneficio sperimentabile dopo un periodo di esecuzione relativamente breve.
L’esperienza ci dice che la richiesta di ottenere “i giorni” - espressione di frequente utilizzata dalle persone condannate per riferirsi alla liberazione anticipata - è la prima che viene rivolta al magistrato di sorveglianza nel corso dei colloqui e che l’aspettativa della riduzione della pena che ne segue, è, per il condannato un momento importante di riconoscimento del proprio impegno anche nelle prime fasi della carcerazione ed un tassello su cui costruire la speranza di potere, in futuro, accedere ad altri più ampi benefici. L’istanza è, inoltre, il primo passo che il condannato compie verso un confronto con le istituzioni, in un’ottica di accettazione della condanna e di volontà di intraprendere un percorso rieducativo. Non è un caso, infatti, che alcuni condannati per reati correlati alla partecipazione ad associazioni criminali di stampo mafioso, manifestino la mancata accettazione delle regole dello Stato di diritto ed il rifiuto di confronto con la magistratura proprio attraverso la scelta, a volte rivendicata, di non presentare mai istanze di liberazione anticipata.
La periodicità delle istanze, correlate alla maturazione di uno o più semestri di pena, costituisce, quindi, un fattore che caratterizza il percorso rieducativo ed accompagna la persona condannata nel corso della espiazione della pena.
È significativo che la liberazione anticipata sia stata, fin dalla sua introduzione, correlata ad una valutazione frazionata dei semestri di espiazione della pena. Come ricordano entrambi i giudici rimettenti tale impostazione aveva ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale che, con la sentenza 276\1990 aveva evidenziato come la valutazione semestralizzata nella concessione della liberazione anticipata non fosse mero parametro di calcolo per effettuare le riduzioni della pena bensì “il punto di forza dello strumento rieducativo che si ricollega alle esperienze ed agli insegnamenti della terapia criminologica ... una sollecitazione che impegna le energie volitive del condannato alla prospettiva di un premio da cogliere in un breve lasso di tempo, purché in quel tempo egli riesca dare adesione all’azione rieducativa”. Osservava la Corte che “ se si dovesse riservare ad un giudizio lontano finale globale l'effettiva valutazione della partecipazione semestrale del condannato all'azione rieducativa da una parte ogni incentivo psicologico resterebbe frustrato a causa dell'incertezza che il futuro riserverebbe agli sforzi adesivi degli interessati e dall'altra resterebbero maggiormente penalizzati coloro fin dall'inizio avevano messo a disposizione tutta la loro buona volontà e ciò causa della possibilità che una cattiva prova finale per qualsiasi motivo verificatasi abbia vanificare anni di sforzi compiuti semestre per semestre e viceversa una furbesca condotta di adesioni nell'ultima fase abbia giustamente appropriare per l'intera durata della pena colui che per anni si era mostrato refrattario ogni partecipazione”.
In linea con tale impostazione le argomentazioni delle ordinanze in esame partono dal presupposto che la liberazione anticipata svolge funzioni trattamentali e di reinserimento sociale, entrambe fortemente compromesse da una obbligatoria posticipazione della valutazione della partecipazione all’opera rieducativa e degli effetti positivi che ne derivano, in prossimità della scadenza della pena.
Il magistrato di sorveglianza di Napoli osserva, infatti, che lo scrutinio periodico che accompagna il percorso del condannato consente una verifica cadenzata dell’andamento dello stesso, funzionale ad ottenere riscontri positivi e, dunque, incentivi psicologici alla partecipazione all’opera rieducativa; in caso di riscontri negativi induce a prendere atto di criticità, offrendogli la possibilità di attivarsi verso un cambiamento positivo che lo stesso possa verificare nel semestre successivo.
La riforma, in contrasto con tali principi, crea uno scarto tra condotta adesiva all’opera rieducativa e beneficio da riconoscere, incidendo così sulla progressione trattamentale e trasforma la funzione della liberazione in quella di mero computo algebrico della durata della pena e di passaggio servente rispetto all’accesso alle misure alternative e ai benefici.
Sulla stessa linea il magistrato di sorveglianza di Spoleto sottolinea che, per effetto della riforma, la persona condannata resta, anche a lungo, senza certezza che il fine pena “virtuale” sia effettivamente quello reale, non potendo accedere a verifiche periodiche, rimanendo sospeso in una situazione di incertezza che crea frustrazione e “perdendo quella relazione dialogica che gli consentiva l’interlocuzione periodica con il magistrato di sorveglianza in grado di fargli percepire immediatamente il premio di una condotta partecipativa rispetto alle regole del trattamento, sia l’eventuale gravità, al contrario, di comportamenti involutivi, intervenuti, mediante il rigetto dell’istanza”.
Da ciò deriva una vanificazione degli effetti psicologici che rafforzano i propositi rieducativi correlati alla periodicità delle valutazioni che, fino ad ora, hanno costituito “veri e propri mattoni fondativi di un più ampio edificio rieducativo” e, di conseguenza un rischio di maggiore difficoltà nell’accesso ai benefici.
Aggiunge il magistrato rimettente che siffatte criticità sono amplificate nell’attuale contesto, caratterizzato da gravi carenze di mezzi e di risorse che producono un surplus di afflittività correlato al sovraffollamento che incide negativamente sia sulle condizioni di vita dei detenuti sia sulla loro possibilità di accesso a percorsi risocializzanti.
Sotto altro profilo rileva che il disallineamento tra i momenti di intervento del magistrato e l’ambito temporale di valutazione - che, anche dopo la modifica, resta semestrale - è foriero di un’intrinseca irragionevolezza della norma. È infatti irrazionale che, a fronte di un metro di giudizio semestrale, non permanga un diritto della persona condannata a conoscere se tale porzione di pena sia stata eseguita nel rispetto di canoni di partecipazione all’opera rieducativa. Per chi, in particolare, ha fruito fino all’entrata in vigore della riforma, di valutazioni semestrali la modifica si traduce in un’ingiustificata regressione trattamentale. La persona vedrebbe infatti disconosciuto il percorso rieducativo compiuto, con violazione del principio di uguaglianza e di finalismo rieducativo, restando confinato in una situazione di attesa nell’incertezza dell’effettiva concessione che può durare anche per anni.
Osserva ancora che l’attuale impianto normativo priva il magistrato di sorveglianza di importanti elementi di conoscenza in occasione di istanze di benefici avanzate in un momento in cui sono già maturate le condizioni di ammissibilità in relazione al quantum di pena espiata o da espiare.
Entrambi i giudici rimettenti evidenziano, poi, sia pure con diverse sfumature, che il meccanismo individuato dal legislatore non risulta funzionale alla finalità di semplificazione sottesa all’intervento normativo. L’istruttoria necessaria ai fini della decisione risulterà certamente più complessa di quella attuale ed è concreto il rischio che vi siano difficoltà ad acquisire, a distanza di tempo, elementi concreti che possano consentire una valutazione per ogni singolo semestre con evidente pregiudizio per la celerità della risposta giudiziaria.
3. Il raggiungimento degli obiettivi e l’impatto sugli Uffici. Qualche considerazione
I profili di incostituzionalità rilevati nelle ordinanze sopra analizzate esprimono la preoccupazione ed il generale disorientamento che ha suscitato la riforma tra i magistrati di sorveglianza.
La sensazione è, ancora una volta, quella di una forte lontananza tra l’intervento del Legislatore e i reali problemi dell’esecuzione penale, settore i cui meccanismi di funzionamento sono conosciuti da un gruppo ristretto di addetti ai lavori e che resta un mondo a parte rispetto al resto della giurisdizione.
Non si comprende come l’irrigidimento del meccanismo di accesso al beneficio possa portare vantaggi in termini di adesione al trattamento rieducativo e di semplificazione del lavoro dei magistrati.
Si dubita, in primo luogo che l’aspirazione ad un premio in termini di riduzione pena previamente quantificata nell’ordine di esecuzione possa costituire un effettivo incentivo concreto alla partecipazione all’opera rieducativa. L’avviso contenuto nell’ordine di carcerazione introdotto dal comma 10 bis dell’art. 656 c.p.p. nulla aggiunge al patrimonio conoscitivo dei condannati, che sono perfettamente consapevoli del loro diritto alla riduzione di pena semestrale in caso di condotta adesiva al trattamento, ma per come formulato, risulta, piuttosto, un severo monito finalizzato ad evitare un allungamento del fine pena che potrebbe invece sortire un effetto negativo sul piano psicologico inducendo i condannati ad un’adesione soltanto formale trattamento rieducativo, privandolo della sua funzione di superamento delle criticità che hanno condotto alla commissione del reato.
Si osserva inoltre che, anche prima dell’intervento normativo, era frequente l’attivazione officiosa del magistrato ai fini del riconoscimento della liberazione anticipata in momenti procedimentali sensibili quali le istanze di accesso a misure alternative. In questi casi, a prescindere da istanze di liberazione anticipata, il magistrato verificava l’esistenza di semestri da valutare non soltanto nei casi in cui l’istanza appariva inammissibile sotto il profilo del quantum di pena espiato o da espiare ma anche, ove le condizioni di ammissibilità non fossero in discussione, al diverso fine di effettuare una valutazione che tenesse conto del fine pena effettivo. E ciò in quanto, come correttamente osserva il magistrato di sorveglianza di Spoleto, la misura della pena residua effettiva e non soltanto virtuale, costituisce un profilo che incide in maniera significativa sul giudizio di merito, in particolare è parametro di valutazione dell’idoneità risocializzante di un programma di misura alternativo e dei tempi di osservazione intramuraria aggiuntiva programmabili prima di un eventuale accesso a benefici. Secondo l’attuale cornice normativa, invece, ove ai fini dell’accesso a benefici l’istante non necessiti di riduzioni di pena, il magistrato, pur essendo tenuto a valutare la condotta e la positiva partecipazione all’opera rieducativa per la decisione, non potrà in caso positivo, anche riconoscere al condannato una riduzione effettiva di pena a titolo di liberazione anticipata, decisione questa che viene immotivatamente rimandata ad uno step successivo con conseguente duplicazione di giudizio.
Sotto altro aspetto la concentrazione in pochi momenti delle valutazioni della condotta, senza possibilità di interventi di parte porta con sé, pur in assenza di uno specifico intervento del legislatore in tal senso, il rischio concreto di un progressivo scivolamento verso un canone valutativo diverso da quello frazionato per semestre che governa l’istituto, ovvero verso quella valutazione globale già stigmatizzata dalla Corte Costituzionale del 1990. È assai probabile, infatti, che ove la valutazione cumulativa, a valle, di tutto o parte del periodo di esecuzione diventi la regola, sarà sempre maggiore la tendenza ad una valutazione globale delle criticità che può incontrare un condannato nel suo percorso con un’incidenza negativa di tale valutazione anche in relazione a semestri immuni da rilievi. Senza contare la perdita di quel costante strumento regolativo della condotta costituito dalle valutazioni periodiche che aiuta i condannati ad acquisire consapevolezza e responsabilità.
Molti dubbi sorgono poi sull’effettiva idoneità della nuova normativa a risolvere le criticità organizzative degli uffici di Sorveglianza.
La costruzione di un intervento officioso sostitutivo da parte del magistrato di sorveglianza, tenuto ad attivarsi entro 90 giorni dalla scadenza del fine pena virtuale sembra non considerare il dato obiettivo che gli uffici di sorveglianza non sono dotati di mezzi e sistemi per conoscere in tempo reale quale sia questo termine.
L’ufficio del Pubblico Ministero, in funzione di organo dell’esecuzione, ha finora governato il tempo di esecuzione delle pene, emettendo ordini di scarcerazione sempre aggiornati a seguito di provvedimenti di liberazione anticipata o di altre vicende esecutive. La riforma, di fatto, trasferisce tale onere di controllo alla magistratura di sorveglianza, gravandola di un compito che, da un lato, non le compete sotto il profilo sistematico dall’altro non è comunque in grado di assolvere con i mezzi a diposizione.
Il Legislatore sembra aver dimenticato che la competenza della magistratura di sorveglianza si radica in relazione a singoli procedimenti e che i condannati che nel corso dell’esecuzione della pena non hanno mai presentato istanze di alcun tipo sono sconosciuti al sistema informatico SIUS degli Uffici, con conseguente impossibilità di effettuare un monitoraggio complessivo di tutte le esecuzioni in atto.
Ma anche per i soggetti inseriti nel SIUS, sistema obsoleto ed inadeguato, non è praticabile un monitoraggio adeguato in assenza di alert che consentano di segnalare il momento a partire dal quale il magistrato deve attivarsi in via officiosa.
Per colmare tali lacune alcuni Uffici, soprattutto di piccole dimensioni, hanno individuato soluzioni “artigianali”, quali accordi con i direttori degli istituti penitenziari per l’invio di elenchi di detenuti con pene prossime alla scadenza, ma resta comunque totalmente irrisolto il problema dei condannati sottoposti a misure alternative o agli arresti domiciliari esecutivi per i quali non è chiaro con quali modalità verrà comunicato agli Uffici competenti l’approssimarsi del fine pena virtuale.
A ciò si aggiunge che il meccanismo disegnato dalla riforma volto a garantire, attraverso l’indicazione del fine pena virtuale, la stabilizzazione, fin dall’inizio, dei semestri di interesse ai fini dell’applicazione della riduzione di pena, sottende un’immodificabilità nel tempo del titolo esecutivo del tutto teorica, quando è, invece, naturale un’evoluzione dello stesso, in caso, ad esempio di sopravvenienza di nuovi titoli che contengono periodi di presofferto, con conseguente emissione di provvedimenti di cumulo che ridisegnano completamente la composizione dei semestri.
Di tutti questi aspetti la normativa sembra non tenere conto e, per un’eterogenesi dei fini, anziché semplificare complica il lavoro degli Uffici di Sorveglianza, ponendo a carico dei magistrati nuove responsabilità. Mentre con il vecchio regime, grazie alle istanze di parte, era più agevole, anche in assenza di mezzi, avere un certo controllo della scadenza delle pene e offrire risposte tempestive nella valutazione dei procedimenti di liberazione anticipata cd “liberatori”.
In definitiva un’analisi complessiva dell’incidenza della riforma sulla realtà esistente induce a constatare che gli apprezzabili intenti del legislatore - semplificazione, certezza del fine pena, contenimento del rischio di ritardi nella scarcerazione o negli accessi alle misure alternative - si sono tradotti in una normativa che ha profondamente inciso sulla natura di un beneficio cardine del sistema penitenziario, depotenziando la sua efficacia risocializzante, senza alcun reale beneficio per i diritti dei condannati e per il funzionamento degli Uffici di sorveglianza.
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