ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Relazione introduttiva al V Congresso nazionale di Area DG, 10 ottobre 2025, Genova
Benvenuti a tutti.
Grazie alla Sindaca Salis per il calore e l’energia con la quale ha portato i saluti di questa bella città.
Grazie agli amici di AreaDG genovese che hanno organizzato questo congresso e soprattutto i tantissimi eventi che hanno riempito la citta nei giorni scorsi. Dal carcere, dallo scandalo del sovraffollamento carcerario alla tutela dei minori nel processo, dal lavoro povero, dal lavoro pericoloso alla giustizia riparativa, dalla riforma Nordio al diritto, la guerra e la pace.
La pace, l’art. 11 Cost.: l’Italia ripudia la guerra. Da giurista, mi vergogno per come abbiamo consentito che la forza delle armi abbia annichilito il diritto degli esseri umani. Ed anche per questo, il titolo di questo congresso è “la forza ed il diritto”.
Quando ad inizio settembre abbiamo visto la folla che si accalcava per portare i viveri da imbarcare sulla flottiglia diretta a Gaza abbiamo capito di avere fatto bene a venire a Genova.
Genova medaglia d’oro della Resistenza in quest’anno che festeggiamo gli 80 anni della Liberazione dell’Italia dei nazi fascisti.
Genova porto di partenza dei nostri avi per emigrare in America, memoria che abbiamo perduto visto che ci ostiniamo a rendere tanto difficile salvare chi si mette in mare verso il nostro paese.
Genova i cui magistrati sono stati vittima di una campagna mediatica per avere indagato e processato “potenti” locali ed ai quali nessuno ha chiesto scusa.
Genova la cui Accademia, il cui Foro, la cui Magistratura tanto ha dato all’evoluzione del diritto italiano, agli studi sulle fonti del diritto, sulla interpretazione giurisprudenziale. Alpa, Rodotà, Roppo, Bessone, Tarello, Guastini fino all’amico Benedetti, ma l’elenco è lungo.
Non per nulla, qui, cinquanta anni fa, è nato il danno biologico. Ricordarlo è importante soprattutto oggi quando in molti tendono a mortificare gli spazi di interpretazione lasciati al giudice. Ricordare la fecondità dello scambio fra l’Università, l’avvocatura, i giudici è importante soprattutto oggi in cui in tanti vogliono separare invece di unire.
I
Questo congresso inizia con quello che ci eravamo detti due anni fa a Palermo.
Allora ci eravamo interrogati sul destino della giurisdizione nell’epoca del maggioritarismo.
Sul pericolo che le legittime maggioranze vedessero come un ostacolo le decisioni e le funzioni degli organi di garanzia e fra tutti quelle della Giurisdizione.
Ci eravamo impegnati a mantenere una luce accesa su tali pericoli. A difendere il diritto dei magistrati ad associarsi, ad intervenire nel dibattito pubblico sui temi dei diritti e della giustizia, ad esercitare – con la dovuta continenza - un pensiero critico.
Proprio mentre parlavo a Palermo si scatenava la polemica su un giudice catanese che aveva “disapplicato” il decreto Cutro. Non aveva preso una decisione sovversiva. Aveva semplicemente ritenuto la primazia del diritto dell’Unione Europea. Ancora non si sapeva il suo nome. Io dissi “c’è un giudice a Berlino”.
Quella giudice era Iolanda Apostolico.
La sua persona è stata sottoposta ad un’intensa campagna mediatica. La sua vita è stata setacciata, coinvolgendo anche i suoi affetti più cari.
Però la sua decisione non venne mai impugnata o meglio il ricorso non venne mai coltivato.
I suoi argomenti sono stati avallati da altre decisioni di giudici italiani ed infine dalla sentenza della Corte di Giustizia.
Quella giudice si è infine dimessa, senza che ad oggi ancora le abbiano chiesto scusa.
Quella stessa sorte l’hanno passata o la stanno passando tanti giudici, da Bologna a Roma, a Milano che si ostinano a prendere decisioni sgradite alle maggioranze di turno. Noi non li lasciamo soli!
A Palermo eravamo stati facili profeti. Quelli che allora sembravano fenomeni preoccupanti ma ancora marginali sono diventati la regola.
La politica rinuncia ad elaborare ed offrire un’idea di futuro migliore.
Così facendo inevitabilmente si sottrae al dovere di offrire soluzioni, limitandosi ad ingigantire i problemi ed a diffondere la paura.
Nel frattempo, avvocati e magistrati, nei limiti del singolo caso a loro sottoposto, devono invece offrire soluzioni, non possono sottrarsi a rispondere alle singole domande di giustizia.
Ed è questo il conflitto fra politica e giurisdizione: la politica annaspa nel dare risposte di sistema alle sfide del presente, i magistrati sono costretti a prendere una decisione sulla base delle fonti del diritto interno ed internazionale.
Altro che straripamento del potere giudiziario!
Se la politica rinuncia a pensare un mondo migliore e si limita ad incarnare il sentimento popolare contingente, se il consenso passa dalla immedesimazione sentimentale fra eletti ed elettori, le prime vittime sono gli organi di controllo e garanzia che fisiologicamente devono tutelare il nocciolo duro ed insopprimibile della democrazia, qualunque sia il volere delle maggioranze contingente.
Ed allora è gioco facile accusare i giudici, che devono tutelare i diritti e le garanzie di tutti, anche dei pochi e dei pochissimi, di essere contro il popolo, contro gli interessi nazionali, contro le decisioni delle maggioranze.
Emblematico quel che accade negli Stati Uniti.
La decisione dell’amministrazione Trump sui dazi è stata dichiarata illegale dalla Corte per il Commercio Internazionale il 28 maggio, decisione confermata il 30 agosto dalla Corte d’Appello federale. Vedremo cosa dirà a breve la Corte Suprema.
L’invio della Guardia Nazionale a Los Angeles per fronteggiare le proteste contro la politica governativa sull’immigrazione è stata sospesa, dapprima dal giudice distrettuale, poi dalla Corte di appello di San Francisco.
Il licenziamento di Lisa Cook, componente del Consiglio dei governatori della Fed che si opponeva al taglio dei tassi di interesse richiesto da Trump, è stato sospeso dalla Corte federale di Washington.
Tutte le volte, i giudici che hanno deciso sono stati accusati di boicottare l’azione governativa e di non fare l’interesse degli americani. Quando è stato possibile, i giudici che hanno preso decisioni sgradite sono stati rimossi o sospesi.
Ma l’apparente contrasto fra sovranità elettorale e giurisdizione passa soprattutto dalla debolezza della politica. Una politica che fonda il suo consenso sui valori e sui progetti non traballa a fronte di una decisione giudiziaria che è - per forza di cose - contingente e relativa.
Ed invece anche qui la cronaca ci racconta una realtà diversa.
Yoon Suk-Yeol, Presidente della Corea del Sud, fra l’altro ex magistrato e procuratore generale, è stato all’inizio del 2025 arrestato e, poi, con decisione della Corte Costituzionale dell’aprile di quest’anno rimosso.
Le elezioni del Presidente della Repubblica di Romania sono state annullate dalla Corte Costituzionale.
Marine Le Pen, leader della destra francese e grande favorite per la prossima competizione elettorale, è stata condannata il 31 marzo dalla giudice Benedicte de Perthuis, magistrata del tribunale di Parigi, alla pena di 4 anni di carcere e soprattutto a cinque anni di ineleggibilità con effetto immediato, ritenendola colpevole di una frode da 2,9 milioni di euro al Parlamento europeo.
Per inciso, pochi giorni fa è stato condannato anche l’ex Presidente Sarkozy. Non si è contestato il merito della decisione ma il fatto che la giudice era un’attivista del sindacato dei magistrati che aveva protestato contro una riforma proposta da Sarkozy. La stessa tecnica di delegittimazione che, nelle stesse ore, era adottata, in Italia, contro una decisione della Corte dei Conti sul ponte di Messina.
Insomma, ogni volta, i giudici sono accusati di essere “politicizzati”.
Noi magistrati italiani ci siamo sentiti rivolgerci tante volte questa accusa. L’ultima addirittura innanzi alla Assemblea delle Nazioni Unite.
C’è la terza guerra mondiale a pezzetti, chi sa se anche quella è colpa dei giudici…
L’accusa nemmeno ci scandalizza più.
Continuano però a scandalizzare le parole di un sotto segretario che ci definisce come cancro da estirpare o quelle di un ministro che ci paragona ai killer che ammazzano. Qualche parola di scusa servirebbe. Le aspettiamo con pazienza.
Sia chiaro, noi non cerchiamo la supplenza giudiziaria, noi non vogliamo essere la guida politica e tanto meno etica del paese.
Ci preoccupa, invece, la debolezza della politica, che cerca nemici fra le altre istituzioni, che cerca alibi, che decide di non decidere ed inevitabilmente lascia ogni singolo magistrato nelle condizioni di dovere decidere in assenza di leggi, di dovere affrontare contenziosi che nascono dal fallimento del welfare, di dovere applicare norme senza le risorse necessarie. Ma questo è il tema della tavola rotonda che comincerà fra qualche minuto…
II
Nel frattempo, la politica e la giurisdizione cedono il passo innanzi alla tecnologia, alla concentrazione dei big data e delle competenze tecnologiche nelle oligarchie di pochi, che sfuggono alla regolamentazione degli Stati, che addirittura ambiscono a sostituirsi a chi viene eletto, che sono indifferenti alle decisioni delle Corti.
L’ intelligenza artificiale è fra noi, da tempo.
È un’innovazione che sta cambiando le professioni intellettuali e tocca da vicino i temi della giurisdizione. Per quanto la si voglia studiare, regolamentare, limitare, è già fra noi. È nelle scuole e nell’università, negli studi professionali, nelle aule di giustizia.
Certamente, la decisione sarà sempre riservata al giudice e spetta a lui valutare le risposte offerte dalla I.A.
Ma la possibilità di calcolare e predire il possibile esito di un giudizio influenzerà chi vuole intraprenderlo.
La I.A. influenzerà la giurisdizione e la tutela dei diritti non perché condizionerà le decisioni (od almeno speriamo che non accada) ma perché eviterà addirittura che certe questioni arrivino davanti ad un giudice.
Una I.A. predittiva funziona sulla elaborazione di migliaia di precedenti decisioni in casi simili ma se non c’è qualcuno che rischia di andare “contro” il precedente, di fare causa “nonostante” il precedente, la giurisprudenza ed il diritto non si evolvono.
Se la I.A. inibisce dal rischiare un giudizio per cercare di affermare un principio nuovo, corriamo tutti il rischio di fermarci allo status quo.
Con un sistema del genere, non ci sarebbe stato il danno biologico, che, lo ripeto, è nato qui, a metà anni 70, e saremmo ancora alla giurisprudenza Gennarino per la quale il figlio di un ciabattino subisce un danno minore.
Con un sistema del genere, non ci sarebbe stato il Pretore di Cingoli che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sull’art. 5 cp ed ha ricostruito il sistema penalistico italiano sulla base del principio di colpevolezza.
Se l’ I.A. è addestrata con dati parziali, restituisce un precedente giurisprudenziale conveniente per chi l’ha addestrata e nasconde i precedenti giurisprudenziali scomodi.
Quindi la questione è ben più seria e ben più ampia del vigilare e sanzionare.
Riguarda l’oligopolio in mano a soggetti privati, riguarda la gestione dei big data, riguarda la popolazione dei motori di ricerca e l’addestramento leale delle macchine per l’I.A.
Un Ministero che non ha idee e progetti per l’ammodernamento della giustizia, che offre ai suoi operatori strumenti che nascono vecchi, che esternalizza funzioni strategiche come quelle dell’informatica e della tecnologia è consapevole delle opportunità e dei rischi dell’I.A. o si limita ad introdurre qualche reato nuovo?
III
Il ruolo del magistrato, le colpe dei magistrati.
Se vogliamo essere magistrati al passo con i tempi, se vogliamo tenere accesa la luce affinché il diritto freni la forza e la giurisdizione presidi i diritti, non dobbiamo rintanarci nella comodità delle nostre funzioni.
Mi ha colpito quello che ha detto la ex Prima Presidente circa la deriva impiegatizia della magistratura.
I magistrati sono lavoratori, sono usurati da carichi insostenibili, mortificati dalla cronica mancanza di risorse, denigrati come categoria.
È comprensibile che lottino anche per tutelare le loro condizioni di lavoro e di vita. Del resto, solo un magistrato sereno può rendere un buon servizio.
Quando però si parla di impiegatizzazione della magistratura, io vedo un rischio diverso e maggiore.
Quello di adagiarsi sulla comodità del precedente, di non cercare la soluzione migliore per il caso concreto, di conformarsi a quel che dicono gli altri, di non rivendicare che i magistrati si differenziano solo per funzioni ma - per il resto - sono tutti uguali, hanno pari dignità professionale e costituzionale, dal Primo Presidente al più giovane dei mot presente oggi in platea.
Una magistratura così chiusa in se stessa non è degna erede della magistratura che ha contribuito alla crescita culturale e giuridica del paese, degna erede del Tribunale di Genova che ha depatrimonializzato il danno alla persona, del Pretore che ha dubitato che l’ignoranza della legge non scusa.
Una magistratura che non ha consapevolezza culturale di sé, del suo ruolo nel sistema multilivello di tutela dei diritti, è una magistratura più povera e che rende più povera la società italiana.
Le quotidiane delegittimazioni, le campagne stampa, gli insulti mirano proprio a questo. Ad indurre tutti noi a chiuderci in difesa. Ad indurre tutti noi a cercare di limitare il danno. A ridurci a ceto impiegatizio, ben remunerato, ben tutelato ma che evita decisioni che possano intralciare i piani dei governanti di turno.
Le prime vittime, ovviamente, sarebbero i cittadini. Soprattutto quelli che non hanno tutela e difesa se non da una giustizia imparziale, efficiente e libera.
Le altre sono gli avvocati, che già vivono un momento di crisi professionale profondissima e che sono tutti consapevoli che la delegittimazione della giurisdizione colpisce i magistrati e gli avvocati, allo stesso modo. Lo svilimento del magistrato svilisce anche l’avvocato. Perché dietro ogni decisione che un magistrato prende, c’è un avvocato che chiede giustizia. E spiace che lo sappiano e lo dicano gli avvocati che incontriamo nei corridoi, ma che siano molto più timide le loro rappresentanze istituzionali. Forse colpa della nostra autoreferenzialità, ma amici avvocati il percorso è lungo e stiamo tutti dalla stessa parte della barricata!
Anche il CSM deve vigilare sul rischio di burocratizzazione della funzione giudiziaria.
Non lo deve avallare con valutazioni solo quantitative del lavoro negli uffici, non lo deve promuovere auto rappresentandosi come datore di lavoro dei magistrati.
Il CSM deve essere uno degli attori della scena della giustizia, con prestigio ed importanza pari e forse superiore al Ministro della Giustizia.
Non per nulla, era buona e feconda prassi – temo disattesa di recente - che ogni nuovo Ministro, fra i primi adempimenti, andasse in Consiglio a presentare il suo programma.
Ha fatto bene, al di là del merito delle proposte, il Consiglio, quando questa estate ha evidenziato il rischio del mancato parziale raggiungimento degli obiettivi PNRR ed ha offerto al decisore politico alcune soluzioni facilmente praticabili, evidenziando i settori, dalla materia della cittadinanza a quella della protezione internazionale al tributario, che affossano le corti italiane per improvvide scelte amministrative e normative.
È stata deludente, invece, la risposta governativa, che – nel paniere delle tante soluzioni offerte – ne ha scelte solo alcune.
Ha rinunciato ad intervenire sui motivi del sorgere del contenzioso civile, così come rinuncia ad intervenire sul contenzioso penale ed anzi è uno dei promotori del panpenalismo che solo nei convegni e negli articoli sui giornali dice di avversare.
Ha rinunciato ad un esame di alto profilo, come invece gli aveva suggerito il Consiglio ed ha promosso invece solo misure di piccolo cabotaggio, misure contingenti, che guardano all’oggi ma non al domani.
Misure che - con il cottimo - avallano la concezione impiegatizia della magistratura, che - con l’uso dei mot - rischiano di sacrificare la formazione dei giovani colleghi che è il fondamento primo della loro legittimazione professionale.
Sono certo che, verificato il funzionamento di tali interventi, il CSM saprà riguadagnare il suo ruolo politico ed istituzionale insistendo nelle misure di riforma infrastrutturale e legislativa che, a prescindere dagli obiettivi PNRR, potranno garantire una giustizia giusta e celere, come meritano i cittadini italiani.
IV
La debolezza della politica, le frizioni fra giurisdizione e populismo, l’impatto della tecnologia e dell’I.A., la deriva impiegatizia della funzione giudiziaria sono tanti i temi che ci interrogano e che ci hanno interrogato.
Non so se anche il Ministro Nordio si interroghi su questi temi.
Quello che so è che ha impegnato la legislatura sulla riforma che porta il suo nome.
Una riforma che non risolve nessuno dei problemi della giustizia.
Non rende i processi più veloci, non li rende più giusti.
Una riforma che non guarda alla Magistratura come servizio ma solo come potere e cerca di mortificarla nel rapporto con gli altri poteri dello Stato.
Una riforma che ci riporta - nel dibattito - indietro di decenni. Che finge che nel frattempo non ci sono state leggi che rendono di fatto impossibile il transito dai ranghi dei PM a quello dei giudici e l’inverso.
Una riforma che sottrae il diritto di voto ai magistrati, creando un precedente assai pericoloso.
Una riforma che sposta il giusto processo dalla sede processuale, dove si devono rafforzare le garanzie sostanziali, prima fra tutte quella della celerità, a quella ordinamentale.
Una riforma che sposta la terzietà ed imparzialità del giudice dal momento del giudicare al momento della carriera.
Una riforma che spacca il paese, che spacca gli operatori del diritto, che spinge tutti a schierarsi per il sì o il no, in un tempo in cui le sfide della modernità e dei diritti vanno combattute tutti insieme.
Una riforma che con uno slogan poco fortunato viene giustificata con l’esigenza che il giudice, nella pausa del processo, non vada al bar insieme al PM.
Al di là che nelle pause di udienza, al bar vanno tutti insieme giudici, PM ed avvocati.
Io vi chiedo: in un tempo in cui i diritti sono negati, in cui la forza schiaccia la ragione, ha senso dividere? Questo è invece il tempo di unire tutti sotto la stessa bandiera, quella del diritto.
Sommario: 1. Il testo di legge e i profili critici - 2. Il quadro costituzionale di riferimento - 3. Il consenso dei genitori come dispositivo di controllo - 4. Gli standard internazionali e la responsabilità dello Stato - 5. Violenza di genere e il falso “paradosso nordico”.
1. Il testo di legge e i profili critici
Il disegno di legge C. 2423, in discussione presso la VII Commissione Cultura della Camera, introduce l’obbligo del consenso informato dei genitori per ogni attività scolastica che riguardi educazione all’affettività, sessualità, identità e relazioni.
Il cuore della proposta è semplice: percorsi educativi essenziali non potrebbero svolgersi senza l’autorizzazione preventiva delle famiglie.
Questo approccio trova eco nelle PDL Sasso (C. 2271), che restringe la possibilità delle carriere alias e vieta attività e progetti su identità e orientamenti sessuali, e Amorese (C. 2278), che impone divieti discriminatori sull’uso degli spazi scolastici secondo il genere di elezione e obbliga a inserire nel PTOF una sezione dedicata alle cosiddette “attività sensibili riguardanti la sfera personale”.
La questione sollevata dalle proposte di legge C. 2423, C. 2271 e C. 2278 tocca uno dei nodi più delicati del nostro ordinamento: il rapporto tra autonomia scolastica, libertà di insegnamento e diritti genitoriali. Dietro la retorica della “tutela del diritto dei genitori a educare i figli” si cela un impianto che, in realtà, mette in discussione il carattere pubblico, democratico e pluralista della scuola italiana, trasferendo poteri decisionali dalla sfera dell’autonomia professionale dei docenti a quella della discrezionalità familiare.
La tesi secondo la quale l’autonomia scolastica è intesa come minaccia e il consenso informato come baluardo contro l’“indottrinamento”[1], propone un’impostazione che rovescia il quadro costituzionale e internazionale.
Per misurare la portata di questa inversione occorre tornare al quadro costituzionale che governa scuola, libertà di insegnamento e responsabilità genitoriale
2. Il quadro costituzionale di riferimento
Il sistema costituzionale italiano si fonda su un equilibrio sottile tra tre principi fondamentali: la libertà di insegnamento, il diritto universale all’istruzione e la responsabilità educativa dei genitori. L’articolo 33 della Costituzione stabilisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, riconoscendo la libertà di insegnamento come diritto fondamentale dei docenti e, al tempo stesso, come garanzia della pluralità del sapere e della libertà di pensiero nella formazione delle nuove generazioni. L’articolo 34, a sua volta, afferma che “la scuola è aperta a tutti” e che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”, configurando l’istruzione come diritto universale e strumento di eguaglianza sostanziale. Infine, l’articolo 30 riconosce che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, sancendo una responsabilità familiare che tuttavia non può tradursi in un potere esclusivo o assoluto.
Proprio su questo terreno si colloca la frattura con l’interpretazione che il disegno di legge e la sua recente lettura tentano di introdurre[2].
L’idea che il consenso informato costituisca un meccanismo di bilanciamento tra diritti costituzionali — il diritto dei genitori all’educazione e la libertà di insegnamento — è giuridicamente fallace, poiché altera la struttura sistemica dei rapporti costituzionali: la libertà di insegnamento non è una posizione soggettiva in conflitto con la potestà genitoriale, ma una funzione pubblica che assicura la realizzazione del diritto all’istruzione in quanto diritto fondamentale di cittadinanza. È dunque strumentale e complementare al diritto all’istruzione, non alternativa o opponibile ad esso.
La giurisprudenza costituzionale ha chiarito che questi principi non operano in isolamento, ma richiedono un bilanciamento che garantisca il rispetto dell’autonomia di ciascuna sfera.
Con la sentenza n. 36 del 1958, la Corte costituzionale ha riconosciuto che la libertà di insegnamento, pur costituendo un diritto soggettivo costituzionalmente garantito, può essere sottoposta a regolamentazioni legislative, purché queste non ne snaturino il contenuto essenziale e trovino giustificazione in interessi generali compatibili con la Costituzione.
Ciò significa che la libertà di insegnamento può essere limitata solo per ragioni oggettive di interesse pubblico — mai per ragioni ideologiche o morali derivanti da convinzioni private.
La logica del consenso preventivo proposta dal DDL, invece, sovverte tale impostazione, poiché introduce un limite non legato a interessi generali, ma a preferenze soggettive e differenziate di ciascuna famiglia. In tal modo, la scuola verrebbe privata del suo ruolo di garante di un sapere universale e pubblico, trasformandosi in un mosaico di micro-etiche domestiche.
Nel quadro normativo di attuazione, l’articolo 1 del Testo Unico sull’istruzione garantisce ai docenti la libertà di insegnamento “intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”, precisando che tale libertà è diretta “a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”. Anche qui si manifesta un errore concettuale: confondere la libertà di insegnamento con l’arbitrio del docente. L’autonomia didattica non significa discrezionalità senza limiti, ma capacità professionale di elaborare percorsi educativi coerenti con la finalità costituzionale della scuola, cioè la formazione libera e critica della persona.
Il consenso informato genitoriale, lungi dal garantire un equilibrio, introduce invece una gerarchia incompatibile con il dettato costituzionale: la conoscenza e l’apprendimento verrebbero subordinati all’autorizzazione familiare, in un rovesciamento della logica pubblica dell’istruzione.
La giurisprudenza di legittimità ha ribadito che questa libertà non ha carattere autoreferenziale, ma è sempre funzionale alla tutela del diritto all’istruzione. Il Tribunale del Lavoro di Parma, con sentenza n. 687 del 2024, ha affermato che la libertà di insegnamento non può essere intesa come un diritto assoluto, ma deve essere esercitata in modo funzionale al diritto degli studenti a ricevere il miglior insegnamento possibile, idoneo a garantire la loro crescita intellettuale, morale e civile.
Tale pronuncia conferma che la scuola non è una somma di diritti soggettivi (dei docenti, dei genitori o degli studenti), ma un luogo in cui il diritto all’istruzione si realizza come diritto collettivo e relazionale, attraverso l’autonomia professionale e didattica di chi ne è responsabile.
In questa prospettiva, la tesi secondo cui il consenso informato rafforzerebbe la partecipazione delle famiglie si rivela infondata.
La partecipazione genitoriale, infatti, è già pienamente garantita dai decreti delegati del 1974, che istituirono gli organi collegiali come spazio democratico di confronto e co-responsabilità tra scuola e famiglie. Introdurre un potere di veto esterno significa non ampliare la partecipazione, ma sostituirla con un controllo ideologico. La scuola pubblica non è un’estensione della famiglia, ma un’istituzione della Repubblica, fondata sul principio di eguaglianza e sul pluralismo delle idee. In essa, la libertà di insegnamento costituisce lo strumento per garantire a ogni persona, indipendentemente dalle convinzioni familiari, la possibilità di formarsi come cittadino libero, critico e consapevole.
Il consenso informato, al contrario, non promuove la corresponsabilità, ma istituzionalizza la diffidenza. È la formalizzazione di una logica di sospetto che priva il corpo docente della propria autonomia professionale e impedisce alla scuola di adempiere alla sua funzione costituzionale di emancipazione.
Né può convincere l’argomento, avanzato in difesa del DDL, secondo cui il consenso servirebbe a proteggere i minori da contenuti “sensibili”. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 508 del 2000, ha ricordato che la scuola è il luogo deputato alla costruzione critica del pensiero, e che le sensibilità individuali non possono legittimare forme di censura preventiva.
La “protezione” che il disegno di legge invoca si traduce in realtà in una restrizione cognitiva, che colpisce in modo particolare le bambine, i bambini e le persone LGBTQI+, già spesso esclusi da narrazioni inclusive. Lungi dal tutelare la libertà educativa, il consenso informato diventa così un dispositivo di disuguaglianza epistemica, un filtro che decide chi può sapere e chi no.
In sintesi, il DDL in questione rovescia il paradigma costituzionale: laddove la Costituzione pone l’autonomia della scuola a presidio del diritto all’istruzione, il DDL propone di subordinare quella autonomia al controllo genitoriale; laddove la Costituzione concepisce l’educazione come processo collettivo e pubblico, il DDL la privatizza, riportandola entro la sfera domestica; laddove la giurisprudenza ha affermato che i limiti alla libertà di insegnamento devono essere determinati dalla legge per finalità oggettive e generali, il DDL li riconduce alle preferenze morali di ciascun gruppo familiare. È un rovesciamento che svuota la scuola della sua missione costituzionale e la espone anche al rischio di divenire terreno di esclusione e disuguaglianza, in violazione non solo del principio di libertà, ma anche di quello di eguaglianza sostanziale.
Su questo sfondo, il consenso informato non bilancia ma sovverte: da qui i profili di illegittimità che si colgono ancor meglio sul terreno della prassi e della giurisprudenza.
3. Il consenso dei genitori come dispositivo di controllo
L’argomento a favore dell’introduzione del consenso informato in ambito scolastico prende a prestito la sua legittimazione dalla bioetica medica, dove esso è nato come strumento di tutela dell’autonomia individuale e di protezione del corpo del paziente contro l’invasività del potere medico.
Ma la trasposizione di questo concetto nel campo dell’educazione è metodologicamente scorretta e giuridicamente inappropriata.
Nel contesto sanitario, il consenso informato è la soglia che delimita il diritto all’integrità personale: un atto volto a garantire la libertà della persona rispetto a interventi potenzialmente lesivi.
In ambito educativo, invece, non si tratta di difendere il corpo da un intervento, ma di aprire la mente all’apprendimento e al confronto. Il consenso, che in medicina segna il limite dell’azione, non può essere trasformato in una barriera che ostacola la trasmissione del sapere. La scuola, a differenza dell’ospedale, non è luogo di somministrazione, ma di dialogo; non opera su corpi passivi, ma su soggetti che imparano a esercitare la propria libertà di pensiero.
E, soprattutto, il soggetto di diritti nell’istituzione scolastica non è il genitore, ma lo studente.
È questa la differenza fondamentale che sfugge a chi propone il consenso come meccanismo di tutela: il diritto all’istruzione appartiene alle bambine, ai bambini e alle persone giovani, non ai loro genitori.
La libertà di insegnamento, sancita dall’articolo 33 della Costituzione, esiste proprio per proteggere la scuola dal rischio che i contenuti siano ostaggio di interessi particolari, ideologici o confessionali. Come osserva Martha Nussbaum (2010), il compito dell’educazione pubblica non è quello di rassicurare le sensibilità familiari, ma di formare la capacità critica e la cittadinanza democratica.
Sottrarre la scuola alla sua funzione emancipativa, subordinandola al consenso dei genitori, significa rinunciare a contrastare stereotipi e diseguaglianze e, in ultima analisi, ridurre l’educazione a un trattamento da autorizzare. In questa logica, la scuola non sarebbe più un luogo di libertà e di confronto, ma uno spazio di controllo, dove il sapere circola solo dopo essere stato filtrato, purificato e neutralizzato.
Le norme che subordinano i contenuti educativi al consenso familiare non sono neutre: riproducono logiche patriarcali e adultocentriche, rafforzando l’idea che i bambini e le bambine non siano soggetti di diritti ma oggetti di custodia. In questo senso, il consenso diventa un dispositivo di potere che sottrae voce e agency ai più giovani, impedendo loro di sviluppare la consapevolezza critica e affettiva necessaria a vivere in una società plurale.
Contro questa logica del controllo, Carol Gilligan, Joan Tronto ed Eva Feder Kittay hanno mostrato che la responsabilità educativa non può fondarsi sull’imposizione o sul timore, ma sulla relazione, sull’ascolto e sull’interdipendenza.
Una scuola imbavagliata dal consenso non educa alla cura, ma alla paura. Non costruisce fiducia, ma diffidenza. E sostituisce al principio della responsabilità condivisa quello della sorveglianza reciproca.
Allo stesso tempo, il veto genitoriale produce ciò che Miranda Fricker (2007) ha definito ingiustizia epistemica: la negazione del diritto di partecipare alla costruzione del sapere. Escludere dai percorsi educativi i temi dell’affettività, delle differenze e del consenso significa tacitare le esperienze e le identità di ragazze, ragazzi e persone LGBTQI+, rendendo invisibili i loro vissuti e i loro linguaggi. La scuola, che dovrebbe essere lo spazio in cui ogni soggettività può prendere parola, diventa così il luogo della sua esclusione.
Infine, la prospettiva dell’autonomia relazionale, elaborata da Catriona Mackenzie e Natalie Stoljar (2000), consente di ribaltare l’idea individualista di libertà sottesa al modello del consenso. L’autonomia, lungi dall’essere un attributo isolato del soggetto, è una capacità che si costruisce nelle relazioni e attraverso i contesti sociali. È proprio la scuola, e non la famiglia in quanto autorità, a rendere possibile questa crescita: attraverso la pluralità dei punti di vista, il confronto con la differenza e l’apprendimento dell’empatia.
In questa prospettiva, il consenso informato in ambito scolastico non promuove l’autonomia, ma la svuota, perché priva i soggetti giovani delle esperienze necessarie a formarla.
La scuola pubblica è presidio di uguaglianza sostanziale e pluralismo, non mera proiezione dei convincimenti privati: di conseguenza nella sua ispirazione costituzionale, non ha lo scopo di conformare, ma di emancipare; non di proteggere i bambini dal mondo, ma di prepararli a trasformarlo. Introdurre un filtro genitoriale sui contenuti educativi significa distorcere questo compito, trasformando la libertà di insegnamento in libertà condizionata e il diritto all’istruzione in un privilegio selettivo.
In definitiva, il consenso informato non è una forma di tutela, ma un dispositivo di controllo che, sotto l’apparenza della neutralità, reintroduce le gerarchie di potere che la scuola democratica dovrebbe, invece, contribuire a disfare. È un rovesciamento che svuota la scuola della sua missione costituzionale e incrina l’eguaglianza sostanziale, consegnando i diritti educativi alla variabilità delle convinzioni familiari.
4. Gli standard internazionali e la responsabilità dello Stato
Gli standard internazionali in materia di educazione sessuale non costituiscono mere raccomandazioni, ma si inseriscono in un quadro normativo vincolante che trova fondamento nei trattati europei e nelle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 2011, ha stabilito che le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nel significato loro attribuito dalla Corte di Strasburgo, integrano – quali “norme interposte” – il parametro costituzionale espresso dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione.
Ne deriva che gli obblighi internazionali in materia di diritti umani, inclusi quelli relativi al diritto all’educazione e alla non discriminazione, vincolano direttamente il legislatore e le istituzioni italiane, imponendo un’interpretazione conforme della normativa interna. Ne discende l’obbligo per il legislatore di non introdurre barriere all’accesso a contenuti riconosciuti come parte della tutela della salute e della parità.
Nel contesto europeo, il Testo Unico in materia di istruzione (art. 4) stabilisce che “l’ordinamento scolastico italiano […] favorisce la cooperazione tra gli Stati membri per lo sviluppo di un’istruzione di qualità e della sua dimensione europea”. Ciò significa che la scuola italiana è chiamata non solo a rispettare, ma a promuovere attivamente gli standard europei e internazionali che orientano le politiche educative verso la qualità, l’inclusione e la parità di genere.
Le linee guida di OMS, UNESCO e Parlamento europeo si collocano dunque in un sistema di obblighi giuridici già pienamente operativo: la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia, all’articolo 28 riconosce il diritto all’educazione, e all’articolo 29 ne definisce le finalità, tra cui “lo sviluppo della personalità, dei talenti e delle capacità mentali e fisiche del bambino nella misura più ampia possibile”. La Convenzione di Istanbul, art. 14, impone agli Stati di includere nei curricula scolastici materiali didattici su parità tra i sessi, ruoli di genere non stereotipati, reciproco rispetto e non-violenza.
La recente sentenza n. 68 del 2025 della Corte costituzionale ha richiamato espressamente tali obblighi, ribadendo che l’Italia è tenuta “a rispettare e garantire ad ogni fanciullo i diritti enunciati dalla Convenzione senza distinzione di sorta” e ad adottare “tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia tutelato contro ogni forma di discriminazione”. La Corte ha aggiunto che l’interesse superiore del minore deve prevalere su qualsiasi preferenza o convinzione familiare che possa limitarne l’accesso ai diritti fondamentali.
In questa prospettiva, l’educazione affettiva e sessuale, riconosciuta dagli organismi internazionali come strumento di prevenzione della violenza e di promozione dell’uguaglianza di genere, rientra tra i diritti fondamentali che lo Stato è tenuto a garantire.
La giurisprudenza amministrativa conferma questa impostazione: il Consiglio di Stato, con sentenza n. 5358 del 2023, ha affermato che le scelte educative devono rispettare i principi di non discriminazione e di tutela dei diritti fondamentali, e che l’amministrazione deve svolgere una valutazione sostanziale delle competenze educative in conformità con gli standard europei, non potendosi limitare a valutazioni formali.
In questo contesto, l’introduzione di un obbligo generalizzato di consenso informato per l’educazione affettiva e sessuale rischia di porre l’Italia in contrasto con i propri obblighi internazionali sotto diversi profili.
In primo luogo, essa comprometterebbe l’universalità dell’accesso all’educazione, creando disparità fondate sulle convinzioni familiari, in violazione del principio di non discriminazione sancito dalla Convenzione ONU, dalla CEDU e dalla Convenzione di Istanbul.
In secondo luogo, subordinare contenuti educativi riconosciuti come essenziali a un’autorizzazione privata svuoterebbe di significato gli impegni assunti dall’Italia in sede internazionale. Se, come affermano l’OMS e l’UNESCO, l’educazione sessuale è strumento di salute pubblica, di cittadinanza attiva e di prevenzione della violenza, limitarla significa compromettere la stessa capacità dello Stato di adempiere ai propri doveri di protezione.
La giurisprudenza in materia di istruzione parentale offre una conferma ulteriore.
Le recenti decisioni del Consiglio di Stato (sentenze nn. 1370, 1367, 1369, 1389 e 1388 del 2025) hanno chiarito che, anche quando la responsabilità educativa dei genitori è massima, essa deve esercitarsi “in concorso con le istituzioni scolastiche e non come diritto di esclusiva”.
Allo stesso modo, la Cassazione civile, con ordinanza n. 19101 del 2024, ha ricordato che la libertà educativa dei genitori deve sempre essere esercitata “nel rispetto della legge e nell’interesse superiore del minore”.
Laddove la mancata collaborazione con le istituzioni o il rifiuto di garantire al minore contenuti educativi essenziali producano un danno alla sua crescita e formazione, la giurisprudenza non esclude l’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale.
Questa impostazione è coerente con il principio di responsabilità internazionale dello Stato: gli obblighi assunti in sede ONU, Consiglio d’Europa e Unione europea vincolano l’Italia nel suo complesso e non possono essere elusi rinviando alle scelte individuali delle famiglie.
La Corte europea dei diritti umani ha più volte ribadito che l’educazione deve essere pluralista, aperta e rispettosa dei diritti fondamentali, e che le limitazioni basate su orientamento sessuale, identità di genere o convinzioni religiose costituiscono forme di discriminazione indiretta vietate dall’articolo 14 della Convenzione.
Anche l’Unione europea, attraverso la Strategia per l’uguaglianza di genere 2020–2025, riconosce nell’educazione uno strumento decisivo per il contrasto agli stereotipi e per la promozione dell’uguaglianza sostanziale.
Infine, l’articolo 117 della Costituzione attribuisce allo Stato la competenza esclusiva nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale. L’educazione affettiva e sessuale, in quanto diritto riconosciuto a livello internazionale come componente essenziale della salute e della cittadinanza, deve essere considerata parte di tali livelli essenziali.
Consentire che singole famiglie possano impedirne l’attuazione significherebbe violare la garanzia di uniformità dei diritti e introdurre un’arbitraria diseguaglianza territoriale e sociale.
5. Violenza di genere e il falso “paradosso nordico”
Tra gli argomenti più ricorrenti nel dibattito pubblico contrario all’educazione affettiva e sessuale vi è il richiamo al cosiddetto “paradosso nordico”, secondo il quale i Paesi che hanno introdotto da decenni percorsi strutturati di educazione sessuale e di uguaglianza di genere presenterebbero alti tassi di violenza contro le donne. È un argomento suggestivo ma profondamente fuorviante, che confonde la realtà statistica con la realtà sociale e ignora la dimensione sistemica della violenza maschile.
Come hanno dimostrato numerosi studi comparativi – tra cui quelli del World Economic Forum, dell’European Institute for Gender Equality (EIGE) e del Council of Europe (2022) – i Paesi scandinavi non registrano più violenza, ma più denunce, più consapevolezza e più trasparenza istituzionale. L’apparente “aumento” dei casi riflette la capacità di rilevare, non di produrre, la violenza. Dove la cultura del consenso e dell’uguaglianza è più radicata, le donne riconoscono prima e meglio le situazioni di abuso, i sistemi giudiziari offrono maggiori garanzie di ascolto e le istituzioni pubbliche investono in strumenti di protezione e prevenzione.
Il “paradosso nordico”, dunque, non rivela un eccesso di libertà femminile, ma la differenza tra Paesi che misurano la violenza e Paesi che la occultano.
La violenza maschile contro le donne è un fenomeno strutturale, radicato nelle asimmetrie di potere e nei modelli culturali che naturalizzano il dominio maschile e la subordinazione femminile. Non dipende dall’educazione sessuale, ma dalla sua assenza.
Il I Rapporto sulla violenza maschile contro le donne pubblicato da Differenza Donna (2024) evidenzia che la mancanza di educazione al consenso, il persistere di stereotipi sessisti e la rappresentazione diseguale delle relazioni tra i generi sono i principali fattori di rischio per la violenza domestica, sessuale e relazionale. L’analisi delle risposte mostra che la difficoltà delle giovani generazioni nel riconoscere comportamenti di controllo, manipolazione o coercizione affettiva è direttamente proporzionale alla carenza di strumenti educativi che insegnino a nominare, riconoscere e decostruire la violenza.
Privare la scuola di questi strumenti significa dunque lasciare intatte le radici culturali della violenza. L’educazione sessuale e affettiva non è una pratica moralizzante, ma una pratica di libertà: insegna il consenso, il rispetto dei limiti, la reciprocità e la responsabilità nelle relazioni.
Come mostrano le linee guida dell’OMS e dell’UNESCO, essa contribuisce a ridurre i tassi di abuso sessuale e di molestie, aumenta la consapevolezza del proprio corpo e delle proprie emozioni, e sviluppa competenze di empatia e comunicazione.
In questa prospettiva, la critica al modello educativo nordico rovescia i termini del problema. Non è l’educazione al consenso a generare violenza, ma l’assenza di educazione a produrre silenzio, paura e ignoranza.
Dove la scuola insegna la libertà e la parità, la violenza emerge e viene denunciata; dove la scuola tace, la violenza resta sommersa e continua a riprodursi.
Il tentativo di usare la violenza di genere come argomento contro l’educazione sessuale e sentimentale è una forma di distorsione culturale che confonde la visibilità con la causalità, e che, di fatto, legittima il mantenimento di modelli relazionali oppressivi.
Il vero paradosso, dunque, non è quello nordico, ma quello italiano: un Paese che si proclama civile e democratico, ma che continua a esitare nel riconoscere la scuola come luogo primario di prevenzione e di libertà, scegliendo la censura alla conoscenza e il controllo alla responsabilità condivisa
Come ha scritto bell hooks (2020) la scuola è un “luogo radicale di possibilità”, dove si può imparare a nominare il mondo e a costruire relazioni libere dalla paura.
L’introduzione del consenso informato genitoriale ribalta questa funzione: la scuola diventa un luogo sorvegliato, privato della sua missione pubblica, incapace di garantire uguaglianza e pluralismo.
L’educazione non è proprietà privata della famiglia, ma diritto di ciascun bambino e bambina e responsabilità collettiva della società.
Per questo, la scuola deve essere sostenuta nella sua autonomia e nei suoi compiti educativi, non ridotta a spazio sotto sorveglianza.
Note:
[1] A.R. Vitale, Il consenso informato in ambito scolastico: prospettive de iure condendo, 16 settembre 2025, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3596-il-consenso-informato-in-ambito-scolastico-aldo-rocco-vitale
[2] Ibidem.
Bibliografia:
· Differenza Donna. (2024). I° Rapporto sulla violenza maschile contro le donne. Roma: Differenza Donna.
· European Institute for Gender Equality (EIGE). (2023). Gender Equality Index 2023: Country profiles and EU trends. Vilnius: EIGE.
· hooks, b. (1994). Teaching to Transgress: Education as the Practice of Freedom. New York, NY: Routledge.
· Kittay, E. F. (1999). Love’s Labor: Essays on Women, Equality, and Dependency. New York, NY: Routledge.
· Mackenzie, C., & Stoljar, N. (Eds.). (2000). Relational Autonomy: Feminist Perspectives on Autonomy, Agency, and the Social Self. New York, NY: Oxford University Press.
· Nussbaum, M. C. (2010). Not for Profit: Why Democracy Needs the Humanities. Princeton, NJ: Princeton University Press.
· Tronto, J. C. (1993). Moral Boundaries: A Political Argument for an Ethic of Care. New York, NY: Routledge.
· Gilligan, C. (1982). In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development. Cambridge, MA: Harvard University Press.
· Fricker, M. (2007). Epistemic Injustice: Power and the Ethics of Knowing. Oxford: Oxford University Press.
Immagine: Jan Steen, La scuola del villaggio, olio su tela, 1670, Scottish National Gallery.
Oggi 9 ottobre 2025, presso l’Universitas Mercatorum di Roma, sarà conferito il “Premio Giulia Cavallone” edizione 2025, premio nato da un’iniziativa della Fondazione Piero Calamandrei e della Famiglia Cavallone per ricordare e onorare la memoria di Giulia Cavallone, una giovane donna, magistrato, scomparsa a soli trentasei anni dopo una lunga lotta contro il cancro. Una malattia che peraltro non le impedì di amministrare giustizia fino all’ultimo in quell’aula del Tribunale Penale di Roma che, per tale motivo, da allora porta il suo nome.
Com’è stato già più volte ricordato in occasione delle precedenti edizioni del premio, Giulia Cavallone è stata una donna e una giurista di respiro internazionale.
Dopo essersi laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università Roma Tre, con una tesi dal titolo “Il reato transnazionale in materia di terrorismo”, conseguì successivamente il dottorato di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, in co-tutela con l’Université Paris II – Panthéon Assas, con una tesi dal titolo “Obblighi europei di tutela penale e principio di legalità in Italia e in Francia”.
Grazie a numerose borse di studio vinte, svolse periodi di ricerca anche presso l’Università di Losanna e presso l’Istituto di diritto penale straniero e internazionale “Max Planck” di Friburgo, in Germania.
Svolse altresì uno stage presso la Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles, ove ebbe modo di approfondire la sua conoscenza del diritto e delle istituzioni europee.
Fu giudice penale presso il Tribunale di Velletri, sino all’ottobre 2018, e in seguito ricoprì le medesime funzioni presso il Tribunale di Roma sino alla data della sua morte, prematura e ingiusta, avvenuta in una tiepida mattina del 17 aprile 2020.
In considerazione dell’apprezzamento unanime della sua figura professionale e umana, del prestigio acquisito in Italia e all’estero nonostante la giovane età, del suo instancabile esercizio della funzione giurisdizionale, che la portò a presiedere sino all’ultimo le udienze di un delicato processo d’interesse nazionale, nonché del suo impegno sociale nel promuovere in prima persona l’emancipazione e la difesa dei diritti delle donne lavoratrici in Senegal, la Giunta Capitolina di Roma ha deliberato il 30 ottobre 2020 di riservarle un’area presso il Cimitero Monumentale del Verano, quale persona che ha onorato con la sua vita la città di Roma in Italia e nel mondo.
Anche il Tribunale di Velletri, sua prima sede di servizio ha deliberato, come già avvenuto a Roma, di intitolarle l’aula dove lei aveva tenuto le sue udienze.
In linea con la sua storia personale, il Premio “Giulia Cavallone” ha pertanto lo scopo di finanziare soggiorni di studio presso Università e altri centri esteri di riconosciuto prestigio per consentire a giovani dottorandi nel campo del diritto e della procedura penale di ampliare le loro conoscenze, così da formare giuristi sensibili alle diversità culturali, con una mente aperta, critica e disposta al confronto, la cui azione sia improntata ai valori della solidarietà e della tutela della persona, così com’era Giulia Cavallone.
Come hanno già scritto di lei, Giulia Cavallone “era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali in cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici. E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli …. La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano. (Sibilla Ottoni, Giustizia Insieme, 17 Aprile 2021)”
L’eredità che ci lascia Giulia Cavallone è quella di un esercizio della funzione giurisdizionale come servizio da rendere, mai come un privilegio, sempre con competenza, compostezza, garbo e umanità, aspetti della sua personalità particolarmente ammirabili in un momento storico in cui sembrano prevalere su tutto l’incompetenza, la superficialità, l’incontinenza verbale ed emotiva, il desiderio di fama e di potere come massima realizzazione dell’essere umano.
In questo spirito, il Premio si propone quindi come obiettivo di contribuire a formare non soltanto migliori operatori del diritto ma, anche, migliori cittadini del mondo.
Nell’edizione 2025 il Premio, che, come detto, sarà formalmente consegnato il 9 ottobre 2025, è stato attribuito a Luigi Parodi, dottorando di ricerca in Security and Law presso l’Università di Genova.
Il tema del progetto di ricerca sarà “L’uso dei dati personali nel procedimento penale. Strumenti e tecniche di tutela dei diritti fondamentali”.
Il dott. Luigi Parodi, grazie anche al Premio “Giulia Cavallone”, propone di perfezionare presso l’Università del Lussemburgo la sua ricerca, che avrà a oggetto, anche attraverso un’analisi comparatistica delle soluzioni adottate dagli ordinamenti di altri Stati membri dell’UE, l’impiego di strumenti investigativi tecnologici per finalità di garanzia della sicurezza pubblica e, in particolare, di accertamento dei reati. È noto che tali strumenti, di particolare utilità ai fini del contrasto della criminalità, sono peraltro particolarmente invasivi nella sfera privata dei singoli e possono rappresentare un rischio per i diritti e le libertà fondamentali dei medesimi. È pertanto essenziale individuare gli strumenti giuridici, in chiave interpretativa e nella prospettiva de iure condendo, che garantiscano la tutela degli individui nella dimensione tecnologica.
Il focus della ricerca sarà sulla materia della “data retention”, alla luce anche dei numerosi e importanti interventi della Corte di giustizia dell’Unione europea, che hanno contribuito a costruire uno “statuto garantista”. I principi elaborati dalla Corte costituiscono una delle frontiere più avanzate della tutela dei diritti fondamentali nell’era digitale e travalicano i confini della materia.
La ricerca si propone, in primo luogo, di tentare di elaborare soluzioni interpretative già praticabili in un’ottica de iure condito, allo scopo di limitare gli effetti potenzialmente lesivi dei diritti individuali che derivano dall’evidente scostamento della disciplina interna dai principi sanciti dal diritto eurounitario, come interpretato dalla Corte di giustizia. In secondo luogo si propone di individuare una possibile proposta di riforma organica della disciplina della prova tecnologica in Italia.
È auspicio della Fondazione Calamandrei e della Famiglia Cavallone che tale progetto di ricerca raggiunga i risultati auspicati e che, anche per il futuro, l’esempio di Giulia possa contribuire a cambiamenti verso una società più giusta, in armonia con quello che può essere ricordato come il suo messaggio di vita: “Siate giusti, siate gentili”.
Sommario: 1. Follow the money: il filo di Arianna nel libro di Andrea Apollonio - 2. Il grimaldello dei capitali illeciti: la leva mafiosa sull’economia legale- 3. Un mosaico normativo frammentato: la critica ad un sistema senza regia unitaria - 4. Tre questioni nodali per capire il riciclaggio secondo Apollonio - 4.1. Il “metodo mafioso” come chiave di lettura del riciclaggio - 4.2. Il fine di agevolazione mafiosa come volto soggettivo del riciclaggio - 4.3. Riciclatore o mafioso? - 5. Riciclaggio, cyberlaundering e cripto-denaro: l’Europa alza l’asticella - 6. Diritto e politica criminale nel contrasto al riciclaggio dei capitali mafiosi.
1. Follow the money: il filo di Arianna nel libro di Andrea Apollonio
Il fenomeno del riciclaggio mafioso mi ha sempre colpito per la sua ambiguità sistemica: è insieme proiezione di potere – non solo finanziario, ma anche sociale e politico – e sofisticato strumento di invisibilità, capace di sfumare i confini dell’illegalità. Leggendo la monografia di Andrea Apollonio su “Il riciclaggio dei capitali mafiosi", ho trovato non soltanto una critica puntuale alle carenze strutturali della risposta repressiva, ma anche un insieme coerente di soluzioni esegetiche e proposte di politica criminale. Queste ultime contribuiscono a delineare un moderno filo di Arianna, capace di guidare l’interprete nel labirinto del paper trail degli investimenti mafiosi e di rafforzare gli strumenti di contrasto all’infiltrazione criminale nell’economia legale.
Ebbene, i capitali di provenienza mafiosa, la loro accumulazione, ripulitura e reinvestimento – fin dalle note intuizioni investigative del giudice Falcone del “follow the money” – svelano una fenomenologia cangiante e innovativa, che non sempre trova corrispondenti innovazioni normative capaci di intercettare le nuove dinamiche criminali, con l’ulteriore aggravante che le corti si sono spesso polarizzate su contrasti ermeneutici, indebolendo la coerenza della risposta penalistica e l’efficacia degli strumenti repressivi.
L’opera si addentra nelle zone d’ombra del riciclaggio, restituendone un’immagine nuova e complessa: non è solo dissimulazione dei reati, ma una strategia funzionale all’esistenza stessa delle consorterie mafiose. Dopo numerosi contributi su varie problematiche penalistiche, in questo nuovo e approfondito studio, l’Autore intreccia diritto e contesto, teoria e prassi, enucleando – anche in chiave de iure condendo – i contorni di un possibile “statuto penale del riciclaggio dei capitali mafiosi”. Ne emerge un affresco inedito, in cui le trame giuridiche si intersecano con le dimensioni economiche, sociali e culturali del fenomeno, offrendo al lettore non solo strumenti analitici, ma anche chiavi di lettura per anticipare le metamorfosi della criminalità mafiosa.
L’ampiezza di visuale con cui viene affrontata la materia si evince già dalla struttura bipartita impressa allo studio.
La prima sezione è dedicata ad un’analisi sistematica della dimensione criminologica dell’accumulazione e della circolazione dei capitali di provenienza illecita, e segnatamente di stampo mafioso. Tale indagine è condotta tenendo conto del contesto sociale, individuato quale humus favorevole alla proliferazione delle economie criminali, soprattutto in epoche segnate da crisi economico-finanziarie sistemiche. Dopo un’analisi sull’evoluzione del quadro normativo internazionale ed europeo, si offre un’analisi, anche comparatistica, degli elementi strutturali delle fattispecie incriminatrici italiane in materia di riciclaggio (art. 648-bis, art. 648-ter, art. 648-ter.1, art. 512-bis). Il proposto approccio di diritto comparato si rivela decisivo nella comprensione dei profili problematici della normativa nazionale, peraltro nella logica di un fenomeno tendenzialmente transnazionale, in cui è necessario un ‘dialogo’ tra le giurisdizioni domestiche dei vari Paesi.
La seconda parte dell’opera rappresenta – nella logica dello sviluppo argomentativo offerto – una naturale prosecuzione della precedente. Infatti, una volta definito il campo d’indagine, l’indagine si articola attorno all’osmosi concettuale e normativa tra due ambiti distinti ma interconnessi: da un lato, il reato di riciclaggio, declinato nelle varie fattispecie di reimpiego, intestazione fittizia e la più recente figura delittuosa dell’autoriciclaggio e, dall’altro, il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, caratterizzato dal “fine” e dal “metodo” nonché per la peculiare attenzione alla pericolosità dell’autore più che alla sola tipicità del fatto di reato.
Attraverso una riflessione metodologica – costantemente accompagnata da attente soluzioni esegetiche – sui criteri di imputazione soggettiva, sulla finalità del riciclaggio e sulla riconducibilità all’agire mafioso in termini di struttura e di rapporti di specialità – passando dai recenti approdi giurisprudenziali – si giunge all’elaborazione di uno statuto penalistico specifico del riciclaggio mafioso che tenga conto delle peculiarità del contesto criminale organizzato.
2. Il grimaldello dei capitali illeciti: la leva mafiosa sull’economia legale
Le organizzazioni mafiose condividono molti aspetti in comune con i prestatori “professionali” di servizi di riciclaggio: si attraggono a vicenda e creano degli spazi in cui il modus operandi e gli obiettivi di profit-making tendono a coincidere. Sotto tale prospettiva deve essere intesa l’intera opera: intersezioni fenomenologiche, difficoltà ermeneutiche e, in definitiva, deficit di contrasto.
Il riciclaggio dei capitali illeciti si caratterizza per una struttura metagiuridica e transnazionale, dotata di una duttilità operativa che consente di mimetizzare i capitali di provenienza illecita all’interno del sistema economico legale, rendendoli difficilmente tracciabili e assoggettabili a sanzione penale. La riflessione di Apollonio approda a una constatazione di carattere politico-istituzionale: lo Stato italiano ha progressivamente perduto la sua centralità nella regolazione dell’economia legale in determinati territori, lasciando campo aperto alle organizzazioni mafiose, le quali — tramite l’immissione di capitali illeciti — assumono un ruolo “sostitutivo” nel sostegno alle imprese e nella gestione di flussi finanziari. Tale meccanismo, che – come evidenziato – si è intensificato durante la crisi pandemica, produce un fenomeno gravemente distorsivo: l’economia legale finisce per divenire una piattaforma di “lavaggio” per le rendite mafiose, e le imprese oneste, non beneficiando degli stessi canali di credito né degli stessi margini di rischio, vengono estromesse o marginalizzate. Non è forse un paradosso che interroga la legittimità dello Stato? Eclatante, a mio giudizio, appare il cortocircuito tra legalità formale e legalità sostanziale: laddove le mafie riescono ad acquisire consenso sociale tramite l’uso (anche “solidaristico”) dei capitali illeciti, lo Stato perde legittimità agli occhi di intere fasce sociali, con implicazioni dirompenti sulla tenuta democratica del Paese.
Per un verso, le dinamiche dell’infiltrazione mafiosa nell’economia presentano caratteristiche evolutive e difficilmente riconducibili a schemi rigidi. La ricaduta in concreto è che, in sede di accertamento giudiziario, le diverse gradazioni dell’infiltrazione vengono confuse o sovrapposte: in questi slittamenti concettuali si insinuano le ambiguità normative e il rischio di un’applicazione normativa disomogenea. In questa situazione, si potrebbe ipotizzare una tipizzazione delle principali relazioni intercorrenti fra le organizzazioni criminali e l’economia legale, secondo un possibile schema tripartito: a) a volte, la criminalità organizzata impone con la violenza o il potere intimidatorio (la c.d. “riserva di violenza”, su cui infra par. 4.1) il proprio volere nei confronti dell’imprenditore legale, imponendogli un costo o un peso; b) altre volte, invece, il professionista-riciclatore persegue obiettivi di arricchimento, approfittando del vantaggio competitivo di collaborare con la criminalità organizzata, rimanendone però estraneo; c) infine, la criminalità organizzata penetra il sistema economico legale, minacciando la stabilità del mercato e la concorrenza tra i competitor legali: in quest’ultimo profilo, si avvererebbe la tesi dell’Autore secondo cui il riciclatore di proventi mafiosi, ora intraneo all’associazione, sarebbe da considerarsi autoriciclatore, anche laddove i beni oggetto delle attività di ripulitura provengano da delitti-fine ai quali egli non abbia partecipato, dacché questi sono pur sempre una esplicazione operativa della mafia stessa. Secondo l’Autore, con riguardo a questo particolare profilo che lega il delitto-scopo all’associazione (recte: le ricchezze prodotte dagli associati alla cosca), sussisterebbe una sorta di rapporto di accessorietà per cui il provento illecito sarebbe da considerarsi in re ipsa (seppur con alcuni temperamenti su cui infra) proveniente dall’associazione.
Questa impostazione, a mio avviso, consente di sciogliere quel nodo giurisprudenziale che da anni affatica l’interprete: l’erronea contrapposizione tra condotta ‘interna’ all’associazione e condotta ‘ulteriore’. In effetti, laddove il patrimonio generato dall’associazione sia impiegato da suoi partecipi, non si tratta più di distinguere il prima e il dopo, ma di cogliere l’unitarietà funzionale dell’agire mafioso, nella sua estrinsecazione economico-finanziaria.
Per altro verso, il reato di riciclaggio emerge come un reato comune a soggettività ristretta, che può essere commesso da chiunque, purché però non abbia partecipato alla commissione del Vortat. Secondo tale impostazione, il riciclaggio sarebbe un post factum non punibile del reato presupposto, se commesso dallo stesso soggetto: la repressione del fatto che lo presuppone elimina il disvalore complessivo e il bisogno di repressione. L’attività di riciclaggio sarebbe un naturale sviluppo della condotta precedente, mediante il quale il soggetto si assicura il vantaggio economico conseguito dal reato presupposto. Tuttavia, l’impossibilità di incriminare il riciclatore, in quanto autore o concorrente nel reato base, potrebbe comportare una vanificazione dello strumento penale, oltre a determinare vuoti di tutela, allorquando la stessa clausola si relazioni con i reati di stampo associativo, come sancito dalla sentenza “Iavarazzo” delle Sezioni Unite. L’importanza della sentenza – evidenziata dall’autore “con riferimento alla dimensione economica dell’associazione mafiosa” (p. 202) – sta nel fatto di avere riconosciuto l’operatività della clausola di non esclusione della punibilità nei confronti degli associati e dei concorrenti esterni che commettano condotte di riciclaggio o reimpiego in quanti l’associazione stessa è essa stessa in grado di generare utilità illecite. Tale ricostruzione, sottolinea Apollonio, non vale però per la condotta di autoriciclaggio, introdotto solo dopo le Sezioni Unite e sprovvista della clausola di riserva: d’altronde, ai fini di un concorso apparente di norme sarebbe necessaria un’identica realtà fattuale e tale sovrapposizione non vi sarebbe per l’autoriciclaggio per cui non risulterebbe violato il divieto di bis in idem.
L’autoriciclaggio (art. 648-ter.1), infatti, sanziona e tipizza il diverso comportamento consistente nella re-immissione nel circuito dell’economia legale di beni, attraverso modalità in concreto idonee ad ostacolare la identificazione della loro provenienza, secondo una qualche funzionalizzazione decettiva. Pertanto, da un lato, il nucleo di disvalore è in esso contenuto ed esaurito e, dall’altro, l’agente non è affatto ‘obbligato’ a tenere la condotta tipica, ben potendo astenersi da condotte di re-immissione. Questo è il vero core del reato di autoriciclaggio, che lo distingue, definendone le peculiarità, dal corrispondente reato di money laundering. Se si riflette approfonditamente sulla rilevanza della modalità della condotta, a mio avviso, è agile avvedersi che questa consente, in ultima istanza, di evitare sovrapposizioni con il reato presupposto.
Nei termini che precedono può predicarsi un concorso tra reati associativi e reato di autoriciclaggio, come suggerito anche dall’Autore.
3. Un mosaico normativo frammentato: la critica ad un sistema senza regia unitaria
La tesi che emerge dall’opera di Apollonio – capace di coniugare rigore teorico, consapevolezza empirica e senso critico – è chiara: l’Italia ha conosciuto il fenomeno del riciclaggio dei capitali mafiosi nella sua dimensioni più insidiosa e subdola, quella dell’infiltrazione finanziaria nei circuiti dell’economia legale, e al contempo necessita di una riforma strutturale del quadro repressivo, che sia in grado di raccordare le esigenze della prevenzione economica, le direttiva euro-unitarie e le sfide poste dall’evoluzione delle mafie imprenditrici (i.e. cyberlaundering). Una delle critiche più serrate, ma al tempo stesso metodicamente argomentate, è rivolta al carattere frammentario e privo di coerenza sistemica in materia di riciclaggio e autoriciclaggio, in particolare quando si interseca con il delitto associativo mafioso. Il mosaico normativo – artt. 416-bis, 648-bis, 648-ter, 648-ter.1 e 512-bis – si presenta come un reticolo eterogeneo di norme prive di una regia unitaria, spesso affastellate in momenti riformatori scoordinati, rispondenti a esigenze contingenti più che a un disegno strategico. In tale contesto, si è determinata una deriva preoccupante: il diritto vivente si è trovato a supplire a un vuoto normativo, esercitando una funzione sostanzialmente para-legislativa, con inevitabili riflessi sul piano della certezza del diritto e dell’effettività delle tutele. Condivisibile, dunque, la critica dell’Autore sulla “scarsa resa sistematica” (p. 456) del principio di specialità: l’assenza di una razionalizzazione tra le fattispecie generali e tra queste e le figure aggravate o satellite produce una sovrapposizione normativa che indebolisce l’efficacia delle incriminazioni, aprendo margini interpretativi ambigui e spazi di impunità potenziale.
4. Tre questioni nodali per capire il riciclaggio secondo Apollonio
Nella ricchezza di spunti che offre l’opera di Apollonio, vorrei soffermarmi sulle questioni che maggiormente stimolano l’interesse dell’interprete e su cui interessanti sono le soluzioni esegetiche dell’Autore: il c.d. “metodo mafioso” ex 416-bis, comma 3; il fine dell’agevolazione mafiosa ex art. 416-bis.1; e, infine, la rilevanza dell’intraneità (o estraneità) alla societas sceleris della condotta del riciclatore. Tematiche analizzate con dovizia di dettagli e spunti critici nella seconda parte dell’opera che segna il preludio alle conclusioni e alle proposte riformatrici dell’Autore nel capitolo finale.
4.1. Il “metodo mafioso” come chiave di lettura del riciclaggio
Una premessa ineludibile al ragionamento sviluppato è quella secondo cui “il riciclaggio dei capitali mafiosi si confronta, anzitutto, col metodo mafioso: con il tipo di mafia che opera a monte, con i requisiti di partecipazione ad essa e con le forme di manifestazione all’esterno” (p. 283-284). Il “metodo” mafioso, che connoterebbe la condotta riciclatoria sottesa all’indagine in esame, si manifesta sia sul crinale giurisprudenziale, laddove emergerebbero recenti arresti in cui il metodo sarebbe riconducibile anche alle attività criminali di associazioni non tradizionali, nonché su quello criminologico, che – una volta prestato lo strumentario terminologico per la descrizione normativa della fattispecie incriminatrice, secondo i tre parametri di intimidazione, assoggettamento e omertà – consente di qualificare anche quelle che vengono definite dall’Autore come mafie giuridiche. E tale distinzione, a ben vedere, tra mafie tradizionali e mafie giuridiche “assume un grande peso empirico-criminologico, essendo il riciclaggio un predicato connaturato solo alle prime, per ragioni che risalgono alla loro stessa conformazione politica” (p. 244), ossia alla intrinseca capacità di infiltrare il potere politico-istituzionale locale, ed è questa “vocazione politica a rendere imprescindibili i meccanismi di riciclaggio nell’ambito delle mafie tradizionali”. In questa riflessione si annida, a mio avviso, uno dei nodi più delicati dell'intera opera: comprendere la funzione del riciclaggio come indice di mafiosità sistemica e non solo come strumento accessorio. La tesi dell’Autore induce a riflettere su quanto il riciclaggio – più della violenza esplicita – sia oggi la vera cifra della pervasività mafiosa: silenziosa, adattiva, formalmente legale.
Il successivo momento riciclatorio sarebbe, ad avviso dell’Autore, soltanto eventuale per le mafie giuridiche o non tradizionali, mentre al contrario sarebbe “una delle più efficaci cartine tornasole della reale essenza (criminologica, in prima battuta, con ripercussioni sul piano normativo) dell’associazione mafiosa” (p. 249). In tal senso, appare opportuno l’approfondimento offerto sulla vicenda giudiziaria di “Mafia Capitale”, che – al netto delle note difficoltà qualificatorie per l’imputazione del reato di cui all’art. 416-bis – dimostra come nel momento in cui si riqualifica il fatto presupposto – allontanandosi dall’associazione mafiosa – anche il delitto di riciclaggio dovrà assumere una diversa conformazione. E così, sulla scorta delle pronunce giurisprudenziali richiamate nell’opera, si enucleano quelle estrinsecazioni normativamente caratterizzanti la mafia, sia nella sua accezione tradizionale che in quella giuridica, tra cui la c.d. “riserva di violenza”, che sottende sia una forma statica – che non si serve di violenza o minaccia espresse, tipica della mafia tradizionale – che una forma dinamica: di quest’ultima si avvalgono sia le mafie politico-amministrative che quelle autoctone, entrambe incapaci di esprimere un controllo totalitario, ma soltanto selettivo sul sistema di riferimento, da un punto di vista economico (per quelle politico-amministrative) e territoriale (per quelle autoctone).
E allora le vicende giudiziarie suggeriscono una qualificazione rafforzata dell’associazione mafiosa (ne è, ancora una volta, esempio lampante il filone di Mafia Capitale), che deve in qualche modo manifestarsi, sia nel suo aspetto interno che esterno. Ed è qui che il momento riciclatorio subisce – a cascata – una diversa impostazione applicativa, a seconda che si tratti di associazione semplice o di associazione mafiosa: diverso sarebbe il titolo di reato se il riciclatore sia partecipe all’associazione – partecipazione da accertare secondo rigidi schemi probatori ossequiosi del principio di materialità e offensività – ovvero sia estraneo; e ci si chiede, infine, se il delitto di riciclaggio, qualora commesso da affiliati e in relazione a ricchezze generate dall’associazione mafiosa stessa, sia esso stesso caratterizzato dal metodo mafioso e, in tal senso, secondo Apollonio, “appuntare sulla condotta riciclatoria il metodo mafioso può costituire un ottimo viatico per la piena prova della derivazione del bene dall’associazione”, con la conseguenza di un necessario quid pluris di onere probatorio per la riconducibilità della condotta di riciclaggio alla mafia, che garantisce, però, in ultima istanza, un “più saldo legame tra l’una e l’altra” (p. 281).
4.2. Il fine di agevolazione mafiosa come volto soggettivo del riciclaggio
Se, tuttavia, il metodo rimane un predicato soltanto eventuale alla condotta di riciclaggio, il fine dell’agevolazione si delinea come predicato necessario, secondo le indicazioni offerte dalla sentenza delle Sezioni Unite “Chioccini” in ordine alla circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1. A tal proposito, vi sarebbe “una coincidenza quasi perfetta tra alcuni elementi di struttura della circostanza aggravante e delle fattispecie riciclatorie, ed in particolare con il requisito dell’oggettiva idoneità della condotta e della partecipazione psicologica al reato”, se è vero, come è vero, che il delitto di riciclaggio gemma da quella condotta di favoreggiamento (una sorta di Anschlussdelikt, come nel sistema tedesco) che il legislatore storico aveva inteso reprimere con la formulazione dell’art. 648-bis.
Ulteriori analogie sono evidenziate dall’Autore, il quale – nel richiamare la sentenza “Chioccini” che stabilisce che la circostanza di cui all’art. 416-bis.1 richiede un dolo intenzionale, pur potendosi comunicare ai correi, se “consapevoli” del fine agevolativo perseguito dal concorrente – ritiene che il dolo del riciclaggio sia, a tal fine, “speculare” in quanto “importa la rappresentazione e volontà di compiere operazioni idonee al concreto occultamento dell’origine delittuosa del bene, accompagnata alla consapevolezza dell’origine delittuosa; la condotta del riciclatore non può che essere tesa a favorire l’occultamento e l’impunità per il reato-presupposto. Rassegnando alcune conclusioni ancora interlocutorie, l’Autore precisa che “il riciclaggio di capitali, quando entra in contatto con beni d’origine mafiosa, e per essere marchiato con la circostanza del fine […] vede arricchirsi il proprio gradiente soggettivo: dall’abbracciare genericamente la provenienza delittuosa (senza che debba esservi la piena cognizione dello specifico reato-presupposto) si passa – più selettivamente – alla necessaria consapevolezza dell’origine mafiosa del bene, sia per l’agente principale sia per il correo, che si deve – anch’esso – rappresentare gli esiti dell’azione riciclatoria”.
4.3. Riciclatore o mafioso?
L’apice del ragionamento avviene allorché l’Autore pone l’attenzione sulla posizione giuridica del riciclatore – passando dal piano criminologico a quello normativo – rispetto al delitto associativo mafioso. D’altronde, evidenti sono le ricadute in termini di trattamento sanzionatorio che, a ben vedere, varia notevolmente a seconda che il riciclatore sia intraneo o estraneo alla mafia, e che si versi nel campo del riciclaggio o dell’autoriciclaggio, oppure di altre norme, solo apparentemente più marginali. Ed è questo il quesito che stimola l’indagine, che – lungi da avere mere finalità speculative – intende chiarire, a valle, quale sia l’accertamento da condurre in sede giudiziaria.
A fronte di una polarizzazione esegetica – che contrappone una tesi autonomistica, secondo cui la condotta di riciclaggio non implica alcuna forma di compartecipazione alla consorteria mafiosa e una diversa tesi che sottenda una funzionalità sistemica del riciclaggio rispetto alla perpetuazione dell’attività mafiosa – l’Autore invita ad una lettura prudente, fondata su una chiara distinzione tra le diverse figure soggettive che possono interagire con l’associazione mafiosa: il partecipe, il concorrente esterno e il semplice contiguo. Egli segnala i rischi insiti in una espansione incontrollata dell’ambito applicativo dell’art. 416-bis, che rischierebbe di produrre effetti ipertrofici e lesivi dei principi costituzionali di legalità, tipicità e offensività. Solo una prova effettiva, puntuale e rigorosa di una partecipazione consapevole, stabile e funzionale al sodalizio mafioso può giustificare il superamento della linea di demarcazione tra riciclaggio e associazione mafiosa. In assenza di tale prova, l’inquadramento del riciclatore come partecipe o concorrente sarebbe frutto di una forzatura interpretativa inammissibile in un ordinamento di diritto penale liberale, fondato sul principio del divieto di analogia in malam partem.
Sul crinale delle tesi antitetiche circa l’intraneità del riciclatore si innesta, dunque, la tesi secondo cui bisognerebbe muovere dalla constatazione che i proventi dei delitti-scopo sarebbero elementi integranti del patrimonio associativo, attesa “l’impossibilità di distinguere, tra tutte le ricchezze dell’associazione riciclate o reimpiegate, quelle riconducibili ad essa direttamente o per il tramite dei delitti-fine” (p. 331). Ne conseguirebbe una imputazione per autoriciclaggio per colui il quale è partecipe al sodalizio e pone in essere quelle attività decettive di investimento finanziario (i.e. infiltrazione criminale nell’economia). Ciò in quanto l’art. 648-ter.1 non contempla alcuna clausola di riserva ed è “destinato principalmente proprio al contenimento dei processi riciclatori posti in essere dalle mafie”, anche se, per quanto affascinante, tale ricostruzione stride con la ratio legis della riforma del 2014, che sottendeva la necessità contingente di recuperare i capitali illeciti detenuti all’estero.
5. Riciclaggio, cyberlaundering e cripto-denaro: l’Europa alza l’asticella
La dimensione transnazionale del fenomeno non può, tuttavia, essere trascurata e ne è testimonianza l’attenzione dell’Autore, il quale – con il desiderio di imprimere massima concretezza alla sua opera – tratta l’argomento nel capitolo finale, facendo opportuni riferimenti all’evoluzione legislativa euro-unitaria.
La tematica del contrasto al fenomeno riciclatorio è ormai stabilmente tra le priorità nell’agenda del legislatore europeo e la ricognizione normativa del libro andrebbe ulteriormente ampliata, laddove ci si avvede che l’intera disciplina è stata ulteriormente riformata e aggiornata con il c.d. AML Package, che contiene la Sesta Direttiva Antiriciclaggio (AMLD6), nonché un Regolamento (AMLR), che ha l’ambizioso progetto di creare una regia unitaria nel contrasto al riciclaggio con il compito di coordinare e governare tutti i compiti e i poteri delle FIU nazionali (ossia delle Unità di informazione finanziaria nazionali; autorità, che, in Italia, opera presso la Banca d’Italia) e ciò attraverso l’istituzione di una nuova Autorità europea antiriciclaggio (AMLA), con sede a Francoforte, che sta per diventare operativa proprio in queste settimane.
Tra le maggiori preoccupazioni che hanno spinto il legislatore europeo ad innovare la disciplina vi è l’espansione dei mercati virtuali, delle cripto-attività e del connesso cyberlaundering – su cui, su uno speculare versante, è stato da ultimo introdotto il Regolamento MiCA (Market in Crypto Asset Regulation) – alla luce del fatto che “i fornitori di servizi di cripto-attività e le piattaforme di crowdfunding sono esposti all’uso improprio di nuovi canali per la circolazione di denaro illecito e si trovano nella posizione ideale per individuare tali movimenti e mitigare i rischi. L’ambito di applicazione della legislazione dell’Unione dovrebbe pertanto essere esteso a tali soggetti, in linea con le norme del GAFI in materia di obblighi di segnalazione” (considerando 13, AMLR). All’intero quadro regolatorio di matrice sovranazionale bisogna, in definitiva, ‘appoggiarsi’ per sviluppare l’indagine penalistica, che non può più prescindere dalle misure amministrative rivolte a istituti bancari e finanziari, ormai ampiamente sviluppate e adesso rafforzate con la creazione di nuove autorità europee.
6. Diritto e politica criminale nel contrasto al riciclaggio dei capitali mafiosi
Adeguamenti domestici e risposte emergenziali a fenomeni mafiosi e cross-border hanno consegnato un quadro repressivo sui generis rispetto alle proprie tradizioni dogmatiche nel segno di una costante erosione del principio di legalità. Il quadro normativo di contrasto ai capitali mafiosi si è orientato verso un c.d. case law in cui il legislatore interviene attraverso nuove tecniche legislative in maniera espansiva e nei sistemi di civil law affida al giudice l’individuazione dell’ambito realmente appropriato di applicazione della legge. È difficile accettare, sul piano dei principi, che il giudice diventi co-creatore della norma, ma è altrettanto difficile ignorare che l’elasticità interpretativa sia oggi spesso l’unica via per contrastare condotte sofisticate e sistemiche, come quelle mafiose. È un equilibrio instabile tra legalità ed effettività, ma è un equilibrio che occorre presidiare.
La rivisitazione della materia appare necessitata, attesa l’assenza di una logica di coordinamento tra le norme. In tal senso, l’introduzione dell’autoriciclaggio – sulla cui inadeguatezza a fronteggiare i meccanismi più penetranti del riciclaggio mafioso, Apollonio si sofferma ampiamente – sarebbe stata un’occasione sprecata per costruire un sistema organico, capace di prevenire e punire in modo proattivo i fenomeni di riciclaggio interno. La lamentata inadeguatezza consiste, da un lato, nella difficoltà di collegare la condotta di autoriciclaggio alla sistematicità e serialità che caratterizza le condotte associative mafiose, dall’altro, nella difficoltà di includere organicamente questa figura nel novero dei delitti fine delle associazioni criminali. Nella prospettiva de iure condendo, si propone una figura criminosa speciale integrativa, tramite l’introduzione dell’art. 416-bis.2 dalla rubrica “Il riciclaggio dei capitali mafiosi” complementare rispetto a quella generale dell’autoriciclaggio, capace di colpire le attività di reimpiego e reinvestimento delle ricchezze mafiose e funzionali al suo rafforzamento economico. Tale proposta si fonda, tra le altre cose, sulla necessità di colmare le difficoltà esegetiche ereditate dalla giurisprudenza in merito alla qualificazione dei comportamenti di soggetti apparentemente neutrali (i cc.dd. white collars) che agevolano sistematicamente la criminalità mafiosa attraverso l’impiego di capitali illeciti in circuiti economici leciti (“in esecuzione del programma criminoso”, come reciterebbe il proposto art. 416-bis.2).
La prospettiva avanzata richiama una figura che, pur formulata alla stregua di reati contro il patrimonio o l’economia pubblica, mantenga una dimensione funzionale all’organizzazione mafiosa e, pertanto, giustifichi una risposta penale autonoma. L’Autore esamina altresì l’ipotesi di configurare una circostanza aggravante specifica per i reati di riciclaggio e autoriciclaggio, fondata sull’appartenenza dell’agente a un contesto associativo mafioso o sul legame funzionale della condotta rispetto alle finalità associative. Tale aggravante risponderebbe all’esigenza di graduare l’intervento punitivo sulla base della pericolosità effettiva della condotta, riconoscendo la maggiore offensività delle condotte sistematiche e strutturate poste in essere nel quadro di un programma criminale mafioso.
In conclusione, si staglia nitidamente una considerazione: non è più sufficiente aggiornare singole norme per contrastare un fenomeno che si è fatto sistema. Occorre un ripensamento complessivo, capace di ricostruire un’architettura penalistica coerente, che non sia solo reattiva ma anche anticipatoria, come suggerito dal nuovo quadro regolatorio del c.d. AML Package. In tal senso, le proposte dell’Autore offrono una nuova chiave di lettura. Credo però che il vero salto di qualità si compirà quando il diritto, anche quello di matrice giurisprudenziale, non sarà il baluardo solitario contro le mafie, ma saprà integrarsi con una politica criminale lungimirante, capace non solo di reagire, ma di anticipare e prevenire la loro capacità di metamorfosi. Forse, è proprio questa la sfida che ci attende. Una sfida che Andrea Apollonio sembra già pronto a raccogliere.
Andrea Apollonio, Il riciclaggio dei capitali mafiosi, Giuffrè, 2024.
Sommario: 1. Opportunità e rischi dell’intelligenza artificiale - 2. Differente approccio nella governance delle innovazioni tra Europa e Stati Uniti - 3. Quali spazi di governance dopo l’emanazione dell’A.I. Act tra normazione tradizionale, soft law e self regulation - 4. Il ruolo di AGID tra piani triennali e strategie - 5. Critiche sul percorso intrapreso e rischi concreti di una sostanziale assenza di governance per la pubblica amministrazione.
1. Opportunità e rischi dell’intelligenza artificiale
L’intelligenza artificiale, come noto, involge, al di là dei molteplici vantaggi e possibilità, tutta una serie di criticità e possibili (sebbene, al momento, ancora indefiniti) pericoli.
Allo stato, però, il pericolo e il rischio collegati all’uso e allo sviluppo dell’I.A. è divenuto storytelling e, in linea tendenziale, gli aspetti positivi di questa straordinaria tecnologia vengono costantemente negletti a favore di una narrazione cupa che, a tratti, rasenta il luddismo, e che comporta e, verosimilmente, determinerà una serie di prevedibili conseguenze negative sulle realtà che decideranno di chiudersi a questa nuova tecnologia[1].
Ciò che sorprende sta nel fatto che la modalità di intercettare e limitare questi rischi non può essere risolta (sarebbe meglio dire esorcizzata) attraverso, sterili, richiami al necessario contributo umano, al divieto di discriminazione o alla necessità del rispetto della trasparenza. Men che meno alla pretesa che l’approccio sia antropocentrico e affidabile[2]. L’aspirazione di contenere l’I.A. per decretum appare, oltre che puerile, illusoria.
C’è, in verità, sull’intelligenza artificiale – non solo in Italia ma in ambito continentale – una tensione di carattere deduttivo che viene sviluppata sulla pretesa di un rischio che incombe, ça va sans dire, a prescindere. La tendenza è, pertanto, quella di limitare o, meglio, di cercare di imbrigliare un monstrum che, ancora, neppure si conosce attraverso palizzate, steccati e predefinizione del potere umano chiamato, salvificamente, a controllare, decidere e, quindi, anche, smentire l’esito del procedimento automatizzato[3]. Come correttamente fatto rilevare, però, l’intelligenza artificiale non concerne la possibilità di riprodurre l’intelligenza umana ma, in realtà, la capacità di farne a meno, dal momento che si sviluppa attraverso il c.d. machine learning che, partendo da una serie di dati finiti, si sviluppa in una serie indefinita (e, sovente, imprevedibile) di soluzioni[4]. In questi sensi impostare il “contributo umano” come limite all’intelligenza artificiale rischia di apparire tanto paradossale quanto dissonante[5]. L’A.I. Act, su questo tema, sembra intraprendere una linea meno invasiva in merito alla “sorveglianza umana”, limitandola ai soli settori giudicati “ad alto rischio”, ergo qualora vi siano potenziali pregiudizi per salute, sicurezza e diritti fondamentali e con conseguente e opportuna modulazione della stessa in rapporto ai rischi attesi [6].
Non si intende affermare, va chiarito immediatamente, che l’intelligenza artificiale debba essere libera e svincolata da verifiche e binari, ma è indubbio che un eccesso di controlli e limitazioni[7], tanto dal lato definitorio che effettuale, ne snaturerebbe potenzialità e future positive applicazioni. Il fatto che l’I.A. sia, indubbiamente, un motore di innovazione non può, né dovrebbe, portare i regolatori a sviluppare normative e discipline eccessivamente rigide od ostruzionistiche le quali determinerebbero una concreta ed effettiva minaccia per l’incedere dell’innovazione[8].
2. Differente approccio nella governance delle innovazioni tra Europa e Stati Uniti
In questi sensi vige una marcatissima differenza di approcci tra quanto accade oltre Atlantico e le tendenze interpretative e regolatrici eurounitarie.
La letteratura statunitense in merito all’incapacità europea (elevata a livello paradigmatico) di intercettare i benefici delle innovazioni tecnologiche, non a caso, parla di Europe lag[9]. Viene, a tal proposito, fatto rilevare come l’approccio europeo sia radicato nel principio di precauzione[10], laddove si invita, al contrario, il regolatore statunitense - qualora intenda replicare i successi di innovazione che hanno accompagnato gli ultimi 20 dalla nascita di Internet in poi - ad adottare il medesimo approccio scarsamente invasivo (“light-touch approach”) per la governance dei sistemi e delle tecnologie riferite all’intelligenza artificiale, al fine di consentire degli spazi liberi di sperimentazione onde ottenere tutti i benefici delle innovazioni, evitando così di incamminarsi nel percorso che segue l’Europa e, quindi, infilandosi in una strada tesa a “soffocare un'industria prima che abbia la possibilità di svilupparsi”[11].
In effetti l’Europa non si è fatta attendere nelle sue pulsioni (iper) regolatrici e ha emanato il 13 giugno 2024 (dopo un cammino, effettivamente, iniziato nel 2021) l’A.I. Act, teso a istituire “un quadro giuridico uniforme in particolare per quanto riguarda lo sviluppo, l'immissione sul mercato, la messa in servizio e l'uso di sistemi di intelligenza artificiale (sistemi di IA) nell'Unione, in conformità dei valori dell'Unione, promuovere la diffusione di un'intelligenza artificiale (IA) antropocentrica e affidabile, garantendo nel contempo un livello elevato di protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (“Carta”), compresi la democrazia, lo Stato di diritto e la protezione dell'ambiente, proteggere contro gli effetti nocivi dei sistemi di IA nell'Unione, nonché promuovere l'innovazione”.
A ben guardare il richiamato regolamento, piuttosto che promuovere lo sviluppo e la diffusione dell’intelligenza artificiale, è per la gran parte teso alla protezione e alla prescrittività[12].
Questi limiti e criticità, tipiche della dinamica normativa europea, sono stati messi in evidenza, di recente, da Mario Draghi nel suo rapporto “Il futuro della competitività europea” ove, con lucidità cristallina, ha evidenziato quanto segue: “In secondo luogo, l’atteggiamento normativo dell’UE nei confronti delle aziende tecnologiche ostacola l’innovazione: l’UE ha attualmente circa 100 leggi incentrate sul settore tecnologico e oltre 270 autorità di regolamentazione attive nelle reti digitali in tutti gli Stati membri. Molte leggi dell’UE adottano un approccio precauzionale, dettando pratiche commerciali specifiche ex ante per scongiurare potenziali rischi ex post. Ad esempio, l’AI Act impone ulteriori requisiti normativi ai modelli di IA per scopi generici che superano una soglia predefinita di potenza computazionale (una soglia che alcuni modelli all’avanguardia già superano). In terzo luogo, le aziende digitali sono scoraggiate dall’operare in tutta l’UE tramite filiali, in quanto si trovano di fronte a requisiti eterogenei, a una proliferazione di agenzie di regolamentazione e al cosiddetto “gold plating” della legislazione UE da parte delle autorità nazionali”.
3. Quali spazi di governance dopo l’emanazione dell’A.I. Act tra normazione tradizionale, soft law e self regulation
Dopo l’emanazione dell’A.I. Act, risulta necessario domandarsi se vi siano ancora spazi per una normazione nazionale e quali possano essere gli spazi di regolazione eventualmente da riempire. Se, quindi, residuino possibilità di intervento da parte dei legislatori nazionali e si possa (ancora) avviare una fase normativa e amministrativa nei singoli Stati che sviluppi l’innovatività e, almeno in parte, consenta degli spazi di autonomia rispetto all’A.I. Act.
Quando si fa riferimento alla possibilità di una “regolamentazione nazionale”, si intende, sia ben inteso, anche la facoltà che determinati spazi vengano deliberatamente esclusi dall’influenza di un regolatore esterno. Il fatto, consapevole, di non procedere con una specifica normazione, liberando determinate energie e dinamiche innovative per l’I.A. attraverso una forma di deregolamentazione – deve essere chiaro – è anch’essa una forma di governance.
Più o meno inconsapevolmente, però, di tutto si ragiona, con riferimento all’intelligenza artificiale, ma la governance sta, costantemente, ai margini del dibattito tecnico e dottrinale. Proprio per questa ragione, sebbene sia evidentemente uno degli elementi di maggior rilievo (quello relativo all’an e al quomodo di regolazione dell’I.A.), si fa sovente riferimento a una sorta di governance gap[13].
Gli spazi di intervento per gli Stati membri dell’UE, nella regolazione dell’intelligenza artificiale, nonostante l’emanazione dell’A.I. Act, sembrano, però, non mancare. Tutto ciò alla luce di alcune considerazioni che appaiono difficilmente superabili.
La governance, poi – è bene chiarirlo a scanso di equivoci – come tale, come entità liquida onnicomprensiva, non esiste. Esistono, infatti, le governances.
L’intelligenza artificiale ha diversi livelli di possibile intervento che sono distinti e radicalmente differenti l’uno dall’altro (tecnologico e dati, informazione e comunicazione, economico, sociale, etico, legale e normativo) e, come tale, ognuno di questi ambiti, necessita di specifici e autonomi livelli e modalità di governance[14].
Lo sviluppo della governance (come sopra accennato) attiene, in concreto, a due piani metodologici differenti: l’an (se procedere o meno attraverso un intervento normativo o regolatorio) e, soprattutto, il quomodo (con quale modalità intervenire, se rigida o, diversamente, attraverso quelli che vengono definiti sistemi di soft law).
C’è chi, a tal proposito ha richiamato la possibilità di applicazione estensiva della normativa vigente[15] e chi, invece – prospettiva che sta riscuotendo in questa fase maggiore successo – reputa che la migliore modalità di procedere, attraverso una effettiva quanto dinamica modalità di governance, sia quella offerta da sistemi di soft law[16].
In tali ambiti, caratterizzati da un livello elevatissimo di innovazione, si ritiene – non a torto – che il legislatore sia impreparato a regolamentare in maniera puntuale e dinamica un settore tanto mutevole quanto tecnologicamente avanzato[17].
Richiamata la diversa e molteplice serie di ambiti correlativi all’intelligenza artificiale (le “sei dimensioni di rischio dell’I.A.”[18]), ci si domanda se tutti questi ambiti siano stati, o meno, coperti dalla regolamentazione dell’I.A. Act. Dalla risposta positiva, o meno, a detto quesito si riuscirà a definire quali possibilità residuino in capo ai regolatori nazionali.
La preoccupazione del legislatore europeo è stata quella – certamente rilevante – di regolamentare, in maniera vigorosa, principalmente, i dati[19] e, nelle ipotesi di sistemi di I.A. “ad alto rischio” (relativamente, quindi, ai rischi sui diritti fondamentali e ai settori meglio richiamati nell’Allegato III all’A.I. Act), di imporre una previa valutazione di impatto[20]. Imponendo, inoltre, al deployer (art. 3.4 A.I. Act: “persona fisica o giuridica, un’autorità pubblica, un’agenzia o un altro organismo che utilizza un sistema di IA sotto la propria autorità, tranne nel caso in cui il sistema di IA sia utilizzato nel corso di un'attività personale non professionale”), sempre nei casi di “alto rischio”, ulteriori adempimenti e modalità di governance per quanto, in verità, attualmente, piuttosto generiche e indeterminate[21]. Si è, quindi, stabilito di delegare la (futura e concreta) governance, in senso orizzontale e generale, ad apposito Ente (l’Ufficio per l’I.A.[22]) che sarà supportato da un gruppo di esperti[23].
Per le attività valutate quali “non ad alto rischio”, si è ritenuto, invece, di limitare la governance attraverso sistemi di soft law quali codici di condotta e/o dinamiche di self regulation, quindi anche su base volontaria[24].
Con riferimento alle dinamiche di soft law, è significativo quanto stabilisce l’art. 95 dell’A.I. Act nel valorizzare i c.d. codici di condotta e buone pratiche (self regulation)[25].
Viene, inoltre, valorizzata, per i sistemi ad alto rischio o per i modelli di I.A. per finalità generali, una governance multipartecipativa[26] che la dottrina definisce, più correttamente, collaborativa[27].
Alla luce di queste essenziali considerazioni – in disparte alcune disposizioni esplicite – per gli ambiti riferibili all’intelligenza artificiale (con particolare riferimento a quelli tecnologico, economico, legale e normativo) residua un discreto spazio libero di regolazione da colmare mediante normazione tradizionale, declinazioni specifiche di soft law o di deliberata non regolazione o, ancora (strumento di estremo dinamismo e utilità previsto ad hoc dall’A.I. Act ma ancora, sostanzialmente, negletto), attraverso la sperimentazione normativa[28].
Si può sostenere, in estrema sintesi, come, a livello eurounitario, siano state gettate le basi per governare l’intelligenza artificiale, principalmente, in senso strutturale, attraverso la consegna della “cassetta degli attrezzi”. Manca ancora, però – al di là di alcuni principi assai rigorosi - tutta la fase attuativa e applicativa, mediante la quale verranno in concreto declinate le regole e le disposizioni a tutela dei diritti e, si spera, anche a vantaggio e sviluppo dell’innovazione.
4. Il ruolo di AGID tra piani triennali e strategie
Alla luce di queste evidenze risulta necessario comprendere come si stia ponendo e sviluppando la questione della governance in ambito nazionale, a distanza di oramai due anni dall’entrata in vigore dell’art. 30 del D.L.vo 36/2023 (nuovo Codice dei contratti pubblici) che prefigurava l’inizio di una nuova era nei rapporti tra tecnologia e pubblica amministrazione.
Si era parlato, evidentemente non a torto, di un eccesso di ottimismo[29] da parte del legislatore che consegnava “prometeicamente”, all’interno della necessaria digitalizzazione dei contratti pubblici, una serie di strumenti quali “soluzioni tecnologiche”, “intelligenza artificiale” e “decisioni algoritmiche” nella convinzione che le amministrazioni “in un futuro prossimo”[30] ne avrebbero fatto buon uso.
Ad oggi, nonostante il decorso di un periodo sufficientemente lungo, si rileva l’assenza della necessaria tensione della P.A. verso i descritti strumenti ma, soprattutto, si fa apprezzare la latenza del legislatore che non ha dato i necessari impulso e vigore a un’opzione normativa che, da sola e senza strumenti di attuazione e regolazione, non avrebbe potuto avere alcun effettivo sviluppo.
L’orizzonte, nonostante altisonanti richiami a strategie nazionali[31], si presenta oggettivamente povero[32] quanto, almeno al momento, lo sforzo profuso risulta, di fatto, inconcludente. La “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026” – relativamente ai dichiarati obbiettivi per la pubblica amministrazione e per l’e-procurement – si appalesa, infatti, tautologica ed evanescente[33].
La scelta di regolamentare un ambito così nuovo e rilevante, in mancanza di interventi normativi, attraverso linee guida dell’Agenzia per l’Italia digitale (AGID), quindi, mediante provvedimenti di carattere generale privi di valenza normativa, appare una modalità tanto poco meditata quanto inusuale.
A “delegare” l’AGID, a produrre linee guida, in ambito di intelligenza artificiale, con riferimento ai procedimenti amministrativi e, specificamente, all’ambito degli appalti pubblici[34] non è stato, infatti, alcun dato normativo né primario e neppure di carattere regolamentare. La “fonte” relativa alla regolazione dell’“Intelligenza artificiale per la Pubblica Amministrazione” la si è ravvisata nel Piano Triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione del dicembre 2023 (sulla base di una singolare interpretazione dell’art. 14 co. 2 del D.L.vo n. 82/2005) che, in verità, sembrerebbe aver trasceso dai propri argini. Il Piano è, infatti, uno strumento di carattere generale che ha, a ben guardare, altri obbiettivi e finalità che non risultano essere quelli aderenti alla regolamentazione dei provvedimenti algoritmici o relativi all’utilizzo e dell’intelligenza artificiale all’interno della P.A.. In quanto, più propriamente, riferibili alla programmazione e al coordinamento delle attività delle amministrazioni per l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione[35] che, come si farà immediatamente rilevare, sono “altro” rispetto alla gestione e regolazione dell’I.A..
Il ruolo di AGID è, infatti, di carattere eminentemente tecnico e di supporto.
Nella misura in cui venisse delegata a intervenire – senza adeguate competenze, qualità e attribuzioni sui procedimenti amministrativi e sugli appalti pubblici – in ambiti che non rappresentano il proprio core business, si potrebbe avere, concretamente, il rischio tanto di un intervento non adeguatamente centrato, sia di un’alterazione e invasione di competenze che necessiterebbe di essere successivamente riequilibrata.
La fonte di riferimento, il D.L.vo n. 82 del 7.03.2005 (c.d. Codice dell’amministrazione digitale), ha evidentemente altre finalità[36] e, neppure con il più audace sforzo analogico, può essere inteso come afferente alla regolamentazione e gestione di un fenomeno tanto recente e specifico, quanto deflagrante, come l’intelligenza artificiale e la sua conseguente applicazione a procedimenti amministrativi e appalti pubblici.
Lo stesso Regolamento UE 2019/881 (relativo alla creazione dell’“Agenzia dell’Unione europea per la cibersicurezza, e alla certificazione della cibersicurezza per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”) si riferisce, anch’esso, specificamente al funzionamento dei sistemi, più propriamente, informatici e alle reti[37], senza mai citare l’intelligenza artificiale o provvedimenti algoritmici come riferimenti e dinamiche oggetto di normazione. Ad avvalorare questa lettura restrittiva è anche la recentissima legge sull’intelligenza artificiale, n. 132 del 23.09.2025. Non a caso, infatti, non viene mai richiamato, in alcun passo, il Codice dell’amministrazione digitale, né vengono stabiliti ex novo quei presupposti che devono essere propri e finalizzati all’applicazione della disciplina attinente all’intelligenza artificiale ai vari ambiti sociale, economico e amministrativo[38]. Senza prevedere o autorizzare AGID a emanare alcuna linea guida o provvedimento di carattere generale, con finalità di indirizzo alle pubbliche amministrazioni.
Il ruolo della predetta Agenzia è, infatti, ivi circoscritto e limitato, art. 20: “l'AgID è responsabile di promuovere l'innovazione e lo sviluppo dell'intelligenza artificiale, fatto salvo quanto previsto dalla lettera b). L'AgID provvede altresì a definire le procedure e a esercitare le funzioni e i compiti in materia di notifica, valutazione, accreditamento e monitoraggio dei soggetti incaricati di verificare la conformità dei sistemi di intelligenza artificiale, secondo quanto previsto dalla normativa nazionale e dell'Unione europea”. Un ruolo, quindi (si ribadisce), strettamente tecnico e di monitoraggio e supporto, mai di indirizzo e di regolazione sostanziale sugli atti e i provvedimenti.
Sembra, pertanto, almeno a chi scrive, che sussisterebbe un vulnus nelle competenze e attribuzioni affidate ad AGID qualora il Piano triennale avesse inteso consegnarle dei compiti tanto pregnanti in ambito di I.A. senza una diretta, quanto espressa, delega normativa.
Questa lettura, che individua in AGID un ente di supporto meramente strutturale e tecnico, la si ravvisa anche attraverso un’attenta lettura dell’art. 14 bis del D.L.vo n. 82 del 7.03.2005 che attribuisce all’“AgID … le funzioni di: a) emanazione di Linee guida contenenti regole, standard e guide tecniche, nonché di indirizzo, vigilanza e controllo sull'attuazione e sul rispetto delle norme di cui al presente Codice, anche attraverso l'adozione di atti amministrativi generali, in materia di agenda digitale, digitalizzazione della pubblica amministrazione, sicurezza informatica, interoperabilità e cooperazione applicativa tra sistemi informatici pubblici e quelli dell'Unione europea”. Non risulta esservi, insomma, alcuna disposizione che consenta alla citata Agenzia di avere titolarità e di vedersi delegata con poteri per l’organizzazione e l’indirizzo dell’intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione e, men che meno, in ambito di organizzazione e regolazione degli appalti pubblici. Anche in considerazione del fatto che AGID non possiede istituzionalmente competenze specifiche in relazione al settore dei contratti pubblici e, in termini generali, riferibili al governo e alla definizione di percorsi procedimentali della pubblica amministrazione. La sua competenza è, infatti, limitata a “regole, standard e guide tecniche” e, ancora (cfr. lett. b dell’art. 20 della legge istitutiva dell’Agenzia n. 134 del 7.08.2012), risulta circoscritta a dettare “indirizzi, regole tecniche e linee guida in materia di sicurezza informatica e di omogeneità dei linguaggi, delle procedure e degli standard, anche di tipo aperto, in modo da assicurare anche la piena interoperabilità e cooperazione applicativa tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione e tra questi e i sistemi dell'Unione europea”.
Non esiste, vieppiù, alcuna disposizione del D.L.vo n. 36/2023 che consegni ad AGID (anche in sede di successivo e futuro superamento degli Allegati al Codice dei contratti pubblici) alcun potere o delega che non attenga, strettamente, alle piattaforme di approvvigionamento digitale, alle banche dati e alla loro interoperabilità (ved. artt. 23, 24 e 26 del D.L.vo 36/2023).
5. Critiche sul percorso intrapreso e rischi concreti di una sostanziale assenza di governance per la pubblica amministrazione
Appare evidente – tanto de jure condito che negli emanandi atti normativi – come non sussista alcuna possibile equiparazione tra “digitalizzazione della pubblica amministrazione, sicurezza informatica, interoperabilità e cooperazione applicativa tra sistemi informatici pubblici e quelli dell'Unione europea” (art. 14 bis D.L.vo n. 82/2005) e attività connessa allo sviluppo di provvedimenti amministrativi algoritmici o di governance dell’intelligenza artificiale, tantomeno in relazione agli appalti pubblici.
Il senso e la ratio dell’art. 14 della richiamata legge italiana sull’intelligenza artificiale[39], evidenziano e colorano di peculiarità la relazione tra P.A. e l’intelligenza artificiale. Ci si trova ben lungi rispetto alla digitalizzazione o alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. L’intelligenza artificiale, si ribadisce, non è logicamente o tecnicamente sussumibile all’interno della predetta categoria.
Non è chiaro, pertanto, donde siano stati ravvisati i poteri e i presupposti normativi del predetto Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione nel delegare AGID all’emanazione di “Linee guida per promuovere l’adozione dell’IA nella Pubblica Amministrazione … Linee guida che definiscono i passi metodologici e organizzativi che le pubbliche amministrazioni devono seguire per definire attività progettuali di innovazione mediante l’utilizzo di IA” e, ancora e soprattutto, “Linee guida che hanno l’obiettivo di orientare le pubbliche amministrazioni nella scelta delle procedure di approvvigionamento e nella definizione delle specifiche funzionali e non funzionali delle forniture al fine di garantire: la soddisfazione delle esigenze dell’amministrazione, adeguati livelli di servizio e la conformità con il quadro normativo vigente … Le Linee guida forniranno indicazione sulla gestione dei servizi di IA da parte della PA”[40].
Impostazione che si appalesa, a parere di chi scrive, erronea e sulla quale tralaticiamente si è adagiato anche il recente atto di indirizzo di carattere generale qualificato come “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026” (cfr. pagg. 21 e segg.).
Il potere di AGID - con specifico riferimento al settore dei contratti pubblici – nonostante venga richiamato e fatto proprio dal Piano Triennale per l’Intelligenza Artificiale[41] e, quindi, dalla richiamata “Strategia”, non risulta rinvenibile in alcun dato normativo.
L’unica disposizione che permette l’emanazione (delle linee guida) è la lett. a, comma 2, dell’art. 14 bis del D.L.vo n. 82/2005 che le consente laddove, e nella misura in cui, contengano “regole, standard e guide tecniche, nonché di indirizzo, vigilanza e controllo sull’attuazione e sul rispetto delle norme di cui al presente Codice, anche attraverso l’adozione di atti amministrativi generali, in materia di agenda digitale, digitalizzazione della pubblica amministrazione, sicurezza informatica, interoperabilità e cooperazione applicativa tra sistemi informatici pubblici e quelli dell’Unione europea”, unitamente all’art. 20 lett. b della legge 134/2012 istitutiva di AGID con limiti, come visto sopra, sostanzialmente analoghi. Nulla che sia e possa essere ricollegabile alla regolazione e agli indirizzi da dare alle amministrazioni in tema di provvedimenti algoritmici o che abbiano come presupposto l’I.A..
Lo stesso art. 14 bis co. 2, ma alla lett. f, in ambito di contratti pubblici, non cita neppure la possibilità di emanare linee guida, attribuendo ad AGID esclusivamente la titolarità di rendere meri “pareri tecnici, obbligatori e non vincolanti”[42]. Peraltro le linee guida, sebbene stabilite e previste dal predetto articolo, per lo stretto ambito della digitalizzazione, non sono espressamente previste per l’uso e l’implementazione dell’intelligenza artificiale all’interno della PA. In questi sensi si ritiene che le future linee guida di AGID – senza copertura di specifico atto normativo a supporto – qualora venissero emanate, con aspirazione, per così dire, espansiva, nascerebbero inesorabilmente affette da illegittimità.
La citata “Strategia per l’intelligenza artificiale 2024 – 2026” si propone di “Supportare i processi amministrativi attraverso le tecnologie dell’IA, aumentando l’efficienza e ottimizzando la gestione delle risorse pubbliche; finanziare alcuni progetti pilota su scala nazionale; sostenere le iniziative delle singole amministrazioni, inquadrate come soggetto collettivo, capace cioè di realizzare soluzioni e applicazioni di IA, e definite in ossequio a precise linee guida di interoperabilità e che garantiscano adeguati standard funzionali”.
In disparte l’erroneo (quanto, peraltro, significativo) riferimento ai “processi” amministrativi, non può non rilevarsi come l’Italia – nonostante i proclami e le pretese di portarsi all’avanguardia nel settore dell’intelligenza artificiale – quantomeno con riferimento alla pubblica amministrazione e al settore degli appalti pubblici (l’unico sostanzialmente che sia stato destinatario di apposita disposizione normativa), si trovi ancora all’anno zero, senza alcun serio progetto di sperimentazione normativa[43] e in assenza di una reale governance. La cattiva notizia sta nel fatto che di tutto ciò sembra non accorgersi alcuno, tanto in ambito politico che amministrativo.
[1] “Ma perché polarizzarsi sull’IA è pericoloso? Che cosa può succedere? Rimanere esclusi dalla rivoluzione industriale, pensando a quella del passato, non fece accadere nulla di drammatico nell’immediato. Ma nei secoli la differenza nella qualità della vita tra la società occidentale, col suo abbondante uso di energia, e il resto del mondo si è resa sempre più marcata e manifesta. Oggi il rischio è simile con l’unica sostanziale differenza che i tempi di questa rivoluzione sono accelerati all’incirca cento volte e l’unità di misura delle trasformazioni è l’anno, non più il secolo e neppure il decennio. Il pericolo che corre un Paese che si chiude all’IA va dal piombare in breve tempo nel terzo mondo o, alla meglio, diventare colonia di quelli che la sviluppano, producono e vendono. Naturalmente non è pensabile lasciare la nuova tecnologia in libertà anarchica o nelle mani di pochi criptici attori. Le conseguenze potrebbero essere peggiori di quelle ecologiche prodotte dell’uso non sostenibile dell’energia”, Pierluigi Contucci in “Quella dell’intelligenza artificiale non è una missione impossibile” in www.rivistailmulino.it 2023.
[2] Considerando n. 1 dell’A.I. ACT dell’U.E. del 13.06.2024 e art. 1 Legge italiana sull’intelligenza artificiale n. 132/2025.
[3] “L’utilizzo dell’intelligenza artificiale avviene in funzione strumentale e di supporto all’attività provvedimentale, nel rispetto dell’autonomia e del potere decisionale della persona che resta l’unica responsabile dei provvedimenti e dei procedimenti in cui sia stata utilizzata l’intelligenza artificiale”, art. 13 delle” Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”.
“Tra gli obiettivi specifici, vi è quello di è di porre al centro di ogni attività che riguardi lo sviluppo e l’utilizzo dei sistemi e dei modelli di intelligenza artificiale l’autodeterminazione umana. Porre al centro dello sviluppo e della concreta applicazione dei sistemi e dei modelli di IA il rispetto della autonomia e del potere decisionale dell’uomo consente di adottare scelte consapevoli su come delegare le decisioni ai sistemi di IA. In tutto il ciclo di vita dei sistemi e dei modelli di IA occorre che sia l’essere umano a stabilire quali decisioni prendere e come realizzare un risultato vantaggioso per la società. Consapevolezza, responsabilità e affidabilità quali espressione del diritto fondamentale della persona di autodeterminarsi, con coscienza e pensiero critico, in ogni ambito in cui è coinvolta dalle tecnologie digitali” – Comunicato alla Presidenza del Consiglio dei ministri del 20.05.2024, “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”.
[4] Luciano Floridi – “Etica dell’intelligenza artificiale” 2022, Raffaello Cortina editore.
[5] Mauro Barberio “L’utilizzo degli algoritmi e l’intelligenza artificiale tra futuro prossimo e incertezza applicativa” in www.giustizia-amministrativa.it, giugno 2023.
[6] A.I. Act UE art. 14 “La sorveglianza umana mira a prevenire o ridurre al minimo i rischi per la salute, la sicurezza o i diritti fondamentali che possono emergere quando un sistema di IA ad alto rischio è utilizzato conformemente alla sua finalità prevista o in condizioni di uso improprio ragionevolmente prevedibile, in particolare qualora tali rischi persistano nonostante l'applicazione di altri requisiti di cui alla presente sezione. Le misure di sorveglianza sono commisurate ai rischi, al livello di autonomia e al contesto di utilizzo del sistema di IA ad alto rischio”.
[7] C. Reed “How should we regulate artificial intelligence?” Published in Philosophical Transactions 6 August 2018, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “Alcuni commentatori sono così allarmati dalla prospettiva di rischi sconosciuti che hanno proposto l’istituzione di un ente di controllo generale per l’IA. Ma in questo momento ci sono forti argomenti contro l’introduzione di nuovi obblighi legali e regolamentari di applicazione generale”, pag. 2.
[8] Ibidem C. Reed, “Fino a quando i rischi dell’IA non saranno conosciuti, almeno in una certa misura, questo non sarà realizzabile. La regolamentazione non può controllare i rischi sconosciuti, e la definizione di un mandato normativo sulla base di rischi teorici sembra improbabile che produca risultati positivi. In secondo luogo, i legislatori generalmente non hanno successo quando si occupano di regolamentazione nei settori tecnologici. La storia della legislazione per le tecnologie digitali è tendenzialmente una storia di sostanziali fallimenti. Infine, e cosa più importante, un regime normativo volto a disciplinare tutti gli usi della tecnologia dell’intelligenza artificiale avrebbe una portata incredibilmente ampia. La gamma di potenziali applicazioni è troppo diversificata … Un progetto normativo di questo tipo rischierebbe di diventare un progetto di regolamentazione di tutti gli aspetti della vita umana”, pag. 2; ved anche Urs Gasser, Virgilio A.F. Almeida, 2017, “A Layered Model for AI Governance.” IEEE Internet Computing 21 (6) (November): 58–62.
[9] A. Thierer, A. Castillo O’Sullivan and R. Russell, “Artificial Intelligence and Public Policy” in Mercatus Research, 2017.
[10] Ibidem A. Thierer, A. Castillo O’Sullivan and R. Russell, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “Il ragionamento basato sul principio di precauzione si riferisce alla convinzione che le innovazioni debbano essere limitate o vietate finché i loro sviluppatori non possano dimostrare che non causeranno danni a individui, gruppi, entità specifiche, norme culturali o varie leggi o tradizioni esistenti”, pag. 45.
[11] Ibidem A. Thierer, A. Castillo O’Sullivan and R. Russell. Questa assenza di regolamentazione, definita non a caso “hands off”, ultimamente, sta iniziando ad avere alcuni ripensamenti che stanno conducendo il legislatore a intervenire, concretamente e operativamente, sull’intelligenza artificiale. Si vedano l’Executive order 14110 dell’Amministrazione Biden che, pur non essendo particolarmente penetrante, declina alcuni principi vincolanti e, ancora, alcune incisive proposte di legge quali quella pendente nello Stato della California denominata “Safe and secure innovation for frontier artificial intelligence models act”, Florence G’sell “Regulating under uncertainty: governance options for generative AI”, Stanford cyber policy center 2024.
[12] Considerando 5, 6 e 7 “(5) L'IA può nel contempo, a seconda delle circostanze relative alla sua applicazione, al suo utilizzo e al suo livello di sviluppo tecnologico specifici, comportare rischi e pregiudicare gli interessi pubblici e i diritti fondamentali tutelati dal diritto dell'Unione. Tale pregiudizio può essere sia materiale sia immateriale, compreso il pregiudizio fisico, psicologico, sociale o economico. (6) In considerazione dell'impatto significativo che l'IA può avere sulla società e della necessità di creare maggiore fiducia, è essenziale che l'IA e il suo quadro normativo siano sviluppati conformemente ai valori dell'Unione sanciti dall'articolo 2 del trattato sull'Unione europea (TUE), ai diritti e alle libertà fondamentali sanciti dai trattati e, conformemente all'articolo 6 TUE, alla Carta. Come prerequisito, l'IA dovrebbe essere una tecnologia antropocentrica. Dovrebbe fungere da strumento per le persone, con il fine ultimo di migliorare il benessere degli esseri umani. (7) Al fine di garantire un livello costante ed elevato di tutela degli interessi pubblici in materia di salute, sicurezza e diritti fondamentali, è opportuno stabilire regole comuni per i sistemi di IA ad alto rischio. Tali regole dovrebbero essere coerenti con la Carta, non discriminatorie e in linea con gli impegni commerciali internazionali dell'Unione. Dovrebbero inoltre tenere conto della dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali per il decennio digitale e degli orientamenti etici per un'IA affidabile del gruppo di esperti ad alto livello sull'intelligenza artificiale (AI HLEG)”
[13] Jakob Mökander, Jonas Schuett, Hannah Rose Kirk & Luciano Floridi, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “In sintesi, se da un lato i LLM hanno reso prestazioni impressionanti in un’ampia gamma di compiti, dall’altro comportano anche notevoli rischi etici e sociali. Pertanto, la questione di come gli LLM dovrebbero essere governati ha attirato molta attenzione, con proposte che vanno da strutturati protocolli di accesso per prevenirne l'uso dannoso fino a una regolamentazione rigida che vieta l'impiego di LLM per scopi specifici. Tuttavia, l’efficacia e la fattibilità di questi meccanismi di governance devono ancora essere suffragati da ricerche empiriche. Inoltre, data la molteplicità e la complessità dei rischi etici e sociali associati agli LLM, prevediamo che le risposte politiche saranno molteplici e incorporeranno diversi meccanismi di governance complementari. I fornitori di tecnologia e i politici hanno appena iniziato a sperimentare differenti meccanismi di governance e il modo tramite il quale dovrebbero essere governati gli LLM resta una domanda aperta” in “Auditing large language models: a three-layered approach” in AI and Ethics, 2023.
[14] Bernd W. Wirtz, Jan C. Weyerer, Ines Kehl “Governance of artificial intelligence: A risk and guideline-based integrative framework” in Journal: Government Information Quarterly, 2022, n. 4 - Elsevier BV.
[15] Adam Thierer, Andrea Castillo O’Sullivan and Raymond Russell “Artificial Intelligence and Public Policy”, Mercatus Research Paper, 56 Pages Posted: 22 Aug 2017, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “in effetti, la natura dell’intelligenza artificiale e le tecnologie possono frustrare del tutto i tentativi di regolamentazione quando effettuati ex ante. I politici dovrebbero tenere presente la ricca e distinta varietà di opportunità offerte dalle tecnologie di intelligenza artificiale, per evitare ulteriori regolamentazioni che possono risultare appropriate per un tipo di applicazione ed ostacolare inavvertitamente lo sviluppo di altre, portando a conseguenze indesiderate”, pag. 39,
[16] G. Marchant, “Soft Law” Governance of Artificial Intelligence”, UCLA AI Pulse Papers, 2019, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese: “Il ritmo di sviluppo dell’IA supera di gran lunga la capacità di qualsiasi sistema normativo tradizionale di tenere il passo, una sfida nota come “problema del ritmo” che colpisce molte tecnologie emergenti. I rischi, i benefici e le traiettorie dell’IA sono tutti altamente incerti, rendendo ancora una volta difficile il processo decisionale normativo. Infine, i governi nazionali sono riluttanti a impedire l’innovazione in una tecnologia emergente mediante una regolamentazione preventiva in un periodo di intensa concorrenza internazionale. Per questi motivi, si può affermare con certezza che per qualche tempo non ci sarà una regolamentazione tradizionale completa dell’IA, tranne forse nel caso in cui si verificasse qualche disastro che potrebbe determinare una risposta normativa drastica per quanto, senza dubbio, inadeguata … sarà necessario per colmare il divario nella governance dell’intelligenza artificiale intervenire tramite la categoria della “soft law””, pag. 4; G. Marchant e C.I. Gutierrez “Soft law 2.0: an agile and effective governance approach for artificial intelligence” Minnesota Journal of law, science & technology, 2023, 4.
[17] Ibidem G. Marchant, C.I. Gutierrez, libera traduzione dal testo originale in lingua inglese “I tradizionali quadri normativi governativi non sono adatti per gestire le tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale a causa del rapido ritmo del cambiamento … Mentre la tradizionale normazione del governo dovrebbe e svolgerà sicuramente un ruolo importante e crescente nella supervisione dell’intelligenza artificiale … I programmi di soft law prevedono misure che creano aspettative sostanziali che non sono direttamente applicabili da parte dei governi. Possono avere diverse forme e formati, quali codici di condotta, dichiarazioni etiche, linee guida professionali, dichiarazioni di principi, programmi di certificazione, standard privati, partenariati pubblico-privati o programmi volontari”; Elettra Stradella “Le fonti nel diritto comparato: analisi di scenari extraeuropei (Stati Uniti e Cina)” in Diritto e intelligenza artificiale, sezione monografica a cura di Carlo Casonato, Marta Fasan e Simone Penasa, DPCE Online 1/2022: “la consapevolezza circa il fatto che le tecnologie (qui intese in senso molto generale quali applicazioni che attraverso la potenza del calcolo producono trasformazioni nell’ambiente circostante, nell’esistenza di chi le utilizza, nella materia che con esse si interfaccia) non sono mai neutrali, non giustificherebbe di per sé la regolazione ad hoc dell’AI come soluzione necessitata. Il fatto è che l’alternativa, cioè quella di un’assimilazione di questo particolare tipo di tecnologia (o, meglio, di questo paradigma tecnologico che caratterizza in realtà una pluralità di tecnologie) ad altri settori tecnologici già oggetto di disciplina, ovvero l’applicazione di norme generali ratione materiae all’AI (come ad esempio quelle sulla responsabilità civile), appare comunque insoddisfacente, principalmente a causa della rapidità dell’innovazione che attraversa il campo dell’AI, più di ogni altro”.
[18] “1) tecnologico, dati e analitico, 2) informativo e comunicativo, 3) economico, 4) sociale, 5) etico nonché 6) legale e normativo”, Bernd W. Wirtz, Jan C. Weyerer, Ines Kehl “Governance of artificial intelligence: A risk and guideline-based integrative framework” in Journal: Government Information Quarterly, 2022, n. 4 - Elsevier BV.
[19] Considerando nn. 67, 69 e art. 10 dell’A.I. Act.
[20] Mauro Barberio “L’uso dell’intelligenza artificiale nell’art. 30 del d.lgs. 36/2023 alla prova dell’AI Act dell’Unione europea” in Rivista italiana di informatica e diritto, 2023.
[21] Art. 26 A.I. Act (Obblighi dei deployer dei sistemi di IA ad alto rischio) “I deployer di sistemi di IA ad alto rischio adottano idonee misure tecniche e organizzative per garantire di utilizzare tali sistemi conformemente alle istruzioni per l'uso che accompagnano i sistemi, a norma dei paragrafi 3 e 6”.
[22] L’Ufficio per l’I.A. è stato istituito, precedentemente alla pubblicazione dell’A.I. Act, dalla Commissione UE con decisione del 24.01.2024; Considerando n. 116 dell’A.I. Act: “L'ufficio per l'IA dovrebbe incoraggiare e agevolare l'elaborazione, il riesame e l'adeguamento dei codici di buone pratiche, tenendo conto degli approcci internazionali. Tutti i fornitori di modelli di IA per finalità generali potrebbero essere invitati a partecipare. Per garantire che i codici di buone pratiche riflettano lo stato dell'arte e tengano debitamente conto di una serie diversificata di prospettive, l'ufficio per l'IA dovrebbe collaborare con le pertinenti autorità nazionali competenti e potrebbe, se del caso, consultare le organizzazioni della società civile e altri portatori di interessi ed esperti pertinenti, compreso il gruppo di esperti scientifici, ai fini dell'elaborazione di tali codici. I codici di buone pratiche dovrebbero disciplinare gli obblighi per i fornitori di modelli di IA per finalità generali e per i fornitori di modelli di IA per finalità generali che presentano rischi sistemici. Inoltre, quanto ai rischi sistemici, i codici di buone pratiche dovrebbero contribuire a stabilire una tassonomia del tipo e della natura dei rischi sistemici a livello dell'Unione, comprese le loro fonti. I codici di buone pratiche dovrebbero inoltre concentrarsi su misure specifiche di valutazione e attenuazione dei rischi”; Considerando n. 148 “… L'attuazione e l'esecuzione efficaci del presente regolamento richiedono un quadro di governance che consenta di coordinare e sviluppare competenze centrali a livello dell'Unione. L'ufficio per l'IA è stato istituito con decisione della Commissione e ha la missione di sviluppare competenze e capacità dell'Unione nel settore dell'IA e di contribuire all'attuazione del diritto dell'Unione in materia di IA.”
[23] Considerando nn. 148, 151, 163 e art. 64 dell’A.I. Act.
[24] Considerando n. 165 dell’A.I. Act “I fornitori di sistemi di IA non ad alto rischio dovrebbero essere incoraggiati a creare codici di condotta, che includano meccanismi di governance connessi, volti a promuovere l'applicazione volontaria di alcuni o tutti i requisiti obbligatori applicabili ai sistemi di IA ad alto rischio, adattati in funzione della finalità prevista dei sistemi e del minor rischio connesso e tenendo conto delle soluzioni tecniche disponibili e delle migliori pratiche del settore, come modelli e schede dati. I fornitori e, se del caso, i deployer di tutti i sistemi di IA, ad alto rischio o meno, e modelli di IA dovrebbero inoltre essere incoraggiati ad applicare su base volontaria requisiti supplementari relativi, ad esempio, agli elementi degli orientamenti etici dell'Unione per un'IA affidabile, alla sostenibilità ambientale, alle misure di alfabetizzazione in materia di IA, alla progettazione e allo sviluppo inclusivi e diversificati dei sistemi di IA, anche prestando attenzione alle persone vulnerabili e all'accessibilità per le persone con disabilità, la partecipazione dei portatori di interessi, con il coinvolgimento, se del caso, dei portatori di interessi pertinenti quali le organizzazioni imprenditoriali e della società civile, il mondo accademico, le organizzazioni di ricerca, i sindacati e le organizzazioni per la tutela dei consumatori nella progettazione e nello sviluppo dei sistemi di IA, e alla diversità dei gruppi di sviluppo, compreso l'equilibrio di genere. Per essere efficaci, i codici di condotta volontari dovrebbero basarsi su obiettivi chiari e indicatori chiave di prestazione che consentano di misurare il conseguimento di tali obiettivi”. Pregevole la distinzione che viene effettuata tra soft law e self regulation da Elettra Stradella “Le fonti nel diritto comparato: analisi di scenari extraeuropei (Stati Uniti e Cina)” in Diritto e intelligenza artificiale, sezione monografica a cura di Carlo Casonato, Marta Fasan e Simone Penasa, DPCE Online 1/2022: “Il collegamento tra soft law e self regulation è certamente stretto, ma lo sono anche le differenze che intercorrono tra l’uno e l’altro strumento, distinguibili per la relazione che li lega alla legge “hard”. Se la self regulation si caratterizza dal punto di vista metodologico in quanto i processi partecipativi attraverso i quali si realizza, e che rispondono, in termini di legittimazione e conseguente accettabilità, all’anomalia soggettiva dell’identità tra attori regolanti e attori regolati, conducono all’adozione di norme autoprodotte, il soft law definisce invece categorie (varie) di atti caratterizzati da un certo effetto giuridico: non hanno efficacia vincolante, non sono direttamente applicabili dalle corti, e possono realizzare solo alcuni tipi di effetti. Ad oggi, gli intrecci tra fonti tradizionali strutturate secondo lo schema command-and-control, il soft law e l’autoregolazione sono segnati da processi di cooperazione che emergono soprattutto in alcuni settori sensibili, come la tutela dell’ambiente, la sicurezza, la disciplina della Rete, e, in parte, le public utilities, nei quali si manifestano criticità almeno in parte comuni a quelle che vengono individuate per l’ambito dell’AI”.
[25] “L'ufficio per l'IA e gli Stati membri incoraggiano e agevolano l'elaborazione di codici di condotta, compresi i relativi meccanismi di governance, intesi a promuovere l'applicazione volontaria ai sistemi di IA, diversi dai sistemi di IA ad alto rischio, di alcuni o di tutti i requisiti di cui al capo III, sezione 2, tenendo conto delle soluzioni tecniche disponibili e delle migliori pratiche del settore che consentono l'applicazione di tali requisiti. 2. L'ufficio per l'IA e gli Stati membri agevolano l'elaborazione di codici di condotta relativi all'applicazione volontaria, anche da parte dei deployer, di requisiti specifici a tutti i sistemi di IA, sulla base di obiettivi chiari e indicatori chiave di prestazione volti a misurare il conseguimento di tali obiettivi, compresi elementi quali, a titolo puramente esemplificativo: a) gli elementi applicabili previsti negli orientamenti etici dell'Unione per un'IA affidabile; b) la valutazione e la riduzione al minimo dell'impatto dei sistemi di IA sulla sostenibilità ambientale, anche per quanto riguarda la programmazione efficiente sotto il profilo energetico e le tecniche per la progettazione, l'addestramento e l'uso efficienti dell'IA; c) la promozione dell'alfabetizzazione in materia di IA, in particolare quella delle persone che si occupano dello sviluppo, del funzionamento e dell'uso dell'IA; d) la facilitazione di una progettazione inclusiva e diversificata dei sistemi di IA, anche attraverso la creazione di gruppi di sviluppo inclusivi e diversificati e la promozione della partecipazione dei portatori di interessi a tale processo; e) la valutazione e la prevenzione dell'impatto negativo dei sistemi di IA sulle persone vulnerabili o sui gruppi di persone vulnerabili, anche per quanto riguarda l'accessibilità per le persone con disabilità, nonché sulla parità di genere. 3. I codici di condotta possono essere elaborati da singoli fornitori o deployer di sistemi di IA o da organizzazioni che li rappresentano o da entrambi, anche con la partecipazione di qualsiasi portatore di interessi e delle sue organizzazioni rappresentative, comprese le organizzazioni della società civile e il mondo accademico. I codici di condotta possono riguardare uno o più sistemi di IA tenendo conto della similarità della finalità prevista dei sistemi pertinenti. 4. Nell'incoraggiare e agevolare l'elaborazione dei codici di condotta, l'ufficio per l'IA e gli Stati membri tengono conto degli interessi e delle esigenze specifici delle PMI, comprese le start-up”.
[26] Art. 40.3 dell’A.I. Act, nel quale viene garantita “una rappresentanza equilibrata degli interessi e la partecipazione di tutti i portatori di interessi pertinenti”.
[27] R. Clarke “Regulatory alternatives for AI” in Computer Law & Security Review, August 2019; Bernd W. Wirtz, Jan C. Weyerer, Ines Kehl “Governance of artificial intelligence: A risk and guideline-based integrative framework”, Journal: Government Information Quarterly, 2022, n. 4 - Elsevier BV.
[28] Considerando 138, 139 e 140 dell’A.I. Act “Al fine di garantire un quadro giuridico che promuova l'innovazione, sia adeguato alle esigenze future e resiliente alle perturbazioni, gli Stati membri dovrebbero garantire che le rispettive autorità nazionali competenti istituiscano almeno uno spazio di sperimentazione normativa in materia di IA a livello nazionale per agevolare lo sviluppo e le prove di sistemi di IA innovativi, sotto una rigorosa sorveglianza regolamentare, prima che tali sistemi siano immessi sul mercato o altrimenti messi in servizio. Gli Stati membri potrebbero inoltre adempiere tale obbligo partecipando a spazi di sperimentazione normativa già esistenti o istituendo congiuntamente uno spazio di sperimentazione con le autorità competenti di uno o più Stati membri, nella misura in cui tale partecipazione fornisca un livello equivalente di copertura nazionale per gli Stati membri partecipanti. Gli spazi di sperimentazione normativa per l’IA potrebbero essere istituiti in forma fisica, digitale o ibrida e potrebbero accogliere prodotti sia fisici che digitali. Le autorità costituenti dovrebbero altresì garantire che gli spazi di sperimentazione normativa per l’IA dispongano delle risorse adeguate per il loro funzionamento, comprese risorse finanziarie e umane” e art. 57 (Spazi di sperimentazione normativa per l'IA) “Gli Stati membri provvedono affinché le loro autorità competenti istituiscano almeno uno spazio di sperimentazione normativa per l'IA a livello nazionale, che sia operativo entro il 2 agosto 2026. Tale spazio di sperimentazione può essere inoltre istituito congiuntamente con le autorità competenti di altri Stati membri. La Commissione può fornire assistenza tecnica, consulenza e strumenti per l'istituzione e il funzionamento degli spazi di sperimentazione normativa per l'IA. L'obbligo di cui al primo comma può essere soddisfatto anche partecipando a uno spazio di sperimentazione esistente nella misura in cui tale partecipazione fornisca un livello equivalente di copertura nazionale per gli Stati membri partecipanti. 2. Possono essere altresì istituiti ulteriori spazi di sperimentazione normativa per l'IA a livello regionale o locale, o congiuntamente con le autorità competenti di altri Stati membri. 3. Il Garante europeo della protezione dei dati può inoltre istituire uno spazio di sperimentazione normativa per l'IA per le istituzioni, gli organi e gli organismi dell'Unione e può esercitare i ruoli e i compiti delle autorità nazionali competenti conformemente al presente capo”.
Appare incomprensibile la ragione per la quale la Legge italiana sull’intelligenza artificiale abbia, di fatto, trascurato questo rilevantissimo strumento di innovazione e governance.
[29] Mauro Barberio “L’utilizzo degli algoritmi e l’intelligenza artificiale tra futuro prossimo e incertezza applicativa” in www.giustizia-amministrativa.it, giugno 2023.
[30] Relazione agli articoli e agli allegati del Codice, art. 30;
[31] “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026”;
[32] Giovanni Gallone “L’improcrastinabile esigenza di tracciare una via “italiana” per l’intelligenza artificiale nel procedimento amministrativo. Opportunità e legittimità di un intervento regolatorio nazionale a corredo dell’AI Act”, in www.giustiziainsieme.it, giugno 2025.
[33] Pagg. 21 e segg. “per sfruttare appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie basate sull’Intelligenza Artificiale e con l’obiettivo di creare un circolo virtuoso tra: (i) la qualità, la privacy, la sicurezza e la corretta gestione dei dati funzionali all’utilizzo di tecniche di IA; (ii) lo sviluppo di tecnologie e strumenti software basati su IA per l’interoperabilità, la tracciabilità delle fonti, la loro credibilità, accuratezza, e pertinenza, al fine di creare fiducia negli strumenti decisionali che mettono a fattore comune ciò che è presente sulle piattaforme digitali; (iii) la formazione di competenze specifiche per il personale della PA sulle tecnologie e sugli strumenti di IA nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e delle migliori pratiche ed esperienze; (iv) il monitoraggio e il miglioramento sistematico, con misure statistiche di qualità, delle prestazioni dei servizi in sviluppo e in esercizio; (v) il supporto per i processi decisionali strategici e la valutazione regolare delle prestazioni degli strumenti dell’IA; (vi) l’impegno contro pregiudizi e violazioni della proprietà intellettuale; (vii) lo sviluppo di strumenti a supporto dei cittadini, valutandone attentamente capacità abilitanti, vantaggi, e rischi”.
[34] “Strategia italiana per l’intelligenza artificiale 2024-2026”: “Tali linee guida dovranno, in particolare, saper orientare le Pubbliche Amministrazioni verso attività di procurement di soluzioni – nell’ambito di gare d’appalto o di specifici accordi quadro – che sappiano non solo ben rispondere a specifiche esigenze funzionali, ma garantire adeguati livelli di sicurezza oltre ad essere pienamente aderenti alle previsioni regolamentari in materia e alle generali linee guida sull’adozione dell’Intelligenza Artificiale nella Pubblica Amministrazione”, pag. 22.
[35] Art. 14 bis co. 2 D.L.vo 82/2005: “AgID svolge le funzioni di:… b) programmazione e coordinamento delle attività delle amministrazioni per l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, mediante la redazione e la successiva verifica dell’attuazione del Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione contenente la fissazione degli obiettivi e l’individuazione dei principali interventi di sviluppo e gestione dei sistemi informativi delle amministrazioni pubbliche. Il predetto Piano è elaborato dall’AgID, anche sulla base dei dati e delle informazioni acquisiti dai soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, ed è approvato dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Ministro delegato entro il 30 settembre di ogni anno”.
[36] Cfr. Art. 2 “Lo Stato, le Regioni e le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell’informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.
[37] Considerando n. 1 “Le reti e i sistemi informativi e le reti e i servizi di comunicazione elettronica svolgono un ruolo essenziale nella società e sono diventati i pilastri della crescita economica. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) sono alla base dei sistemi complessi su cui poggiano le attività quotidiane della società, fanno funzionare le nostre economie in settori essenziali quali la sanità, l’energia, la finanza e i trasporti e, in particolare, contribuiscono al funzionamento del mercato interno”. Con riferimento a cosa si intenda per rete e sistema informativo il Regolamento 2019/881 richiama, dichiarandosi applicativo della medesima (cfr. Considerando n. 24), la Direttiva UE 1148/2016 che, all’art. 4, dà la definizione di rete e sistema informativo: “a) una rete di comunicazione elettronica ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della direttiva 2002/21/CE; b) qualsiasi dispositivo o gruppo di dispositivi interconnessi o collegati, uno o più dei quali eseguono, in base ad un programma, un trattamento automatico di dati digitali; o c) i dati digitali conservati, trattati, estratti o trasmessi per mezzo di reti o dispositivi di cui alle lettere a) e b), per il loro funzionamento, uso, protezione e manutenzione”.
[38] L’art. 1 della Legge italiana sull’intelligenza artificiale n. 132/2025 recita, infatti, “La presente legge reca principi in materia di ricerca, sperimentazione, sviluppo, adozione e applicazione di sistemi e modelli di intelligenza artificiale. Promuove un utilizzo corretto, trasparente e responsabile, in una dimensione antropocentrica, dell’intelligenza artificiale, volto a coglierne le opportunità. Garantisce la vigilanza sui rischi economici e sociali e sull’impatto sui diritti fondamentali dell’intelligenza artificiale”.
[39] Art. 14 Legge 132/2025: “1. Le pubbliche amministrazioni utilizzano l’intelligenza artificiale allo scopo di incrementare l’efficienza della propria attività, di ridurre i tempi di definizione dei procedimenti e di aumentare la qualità e la quantità dei servizi erogati ai cittadini e alle imprese, assicurando agli interessati la conoscibilità del suo funzionamento e la tracciabilità del suo utilizzo. 2. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale avviene in funzione strumentale e di supporto all’attività provvedimentale, nel rispetto dell’autonomia e del potere decisionale della persona che resta l’unica responsabile dei provvedimenti e dei procedimenti in cui sia stata utilizzata l’intelligenza artificiale. 3. Le pubbliche amministrazioni adottano misure tecniche, organizzative e formative finalizzate a garantire un utilizzo dell’intelligenza artificiale responsabile e a sviluppare le capacità trasversali degli utilizzatori”.
[40] Piano Triennale per l’Informatica nella PA 2024-2026, redatto da AgID e pubblicato il 12 febbraio 2024, pagg. 89 e segg.
[41] Piano Triennale per l’Informatica nella PA 2024-2026, redatto da AgID e pubblicato il 12 febbraio 2024, pagg. 89 e segg: “RA5.4.2 – Linee guida per il procurement di IA nella Pubblica Amministrazione. Linee guida che hanno l’obiettivo di orientare le pubbliche amministrazioni nella scelta delle procedure di approvvigionamento e nella definizione delle specifiche funzionali e non funzionali delle forniture al fine di garantire: la soddisfazione delle esigenze dell’amministrazione, adeguati livelli di servizio e la conformità con il quadro normativo vigente. Le Linee guida forniranno indicazione sulla gestione dei servizi di IA da parte della PA”.
[42] “…sugli schemi di contratti e accordi quadro da parte delle pubbliche amministrazioni centrali concernenti l'acquisizione di beni e servizi relativi a sistemi informativi automatizzati per quanto riguarda la congruità tecnico-economica, qualora il valore lordo di detti contratti sia superiore a euro 1.000.000,00 nel caso di procedura negoziata e a euro 2.000.000,00 nel caso di procedura ristretta o di procedura aperta. Il parere è reso tenendo conto dei principi di efficacia, economicità, ottimizzazione della spesa delle pubbliche amministrazioni e favorendo l'adozione di infrastrutture condivise e standard che riducano i costi sostenuti dalle singole amministrazioni e il miglioramento dei servizi erogati, nonché in coerenza con i principi, i criteri e le indicazioni contenuti nei piani triennali approvati. Il parere è reso entro il termine di quarantacinque giorni dal ricevimento della relativa richiesta. Si applicano gli articoli 16 e 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni. Copia dei pareri tecnici attinenti a questioni di competenza dell'Autorità nazionale anticorruzione è trasmessa dall'AgID a detta Autorità”.
[43] Art. 57 A.I. Act “Spazi di sperimentazione normativa per l'IA” “1. Gli Stati membri provvedono affinché le loro autorità competenti istituiscano almeno uno spazio di sperimentazione normativa per l'IA a livello nazionale, che sia operativo entro il 2 agosto 2026. Tale spazio di sperimentazione può essere inoltre istituito congiuntamente con le autorità competenti di altri Stati membri. La Commissione può fornire assistenza tecnica, consulenza e strumenti per l'istituzione e il funzionamento degli spazi di sperimentazione normativa per l'IA. L'obbligo di cui al primo comma può essere soddisfatto anche partecipando a uno spazio di sperimentazione esistente nella misura in cui tale partecipazione fornisca un livello equivalente di copertura nazionale per gli Stati membri partecipanti. 2. Possono essere altresì istituiti ulteriori spazi di sperimentazione normativa per l'IA a livello regionale o locale, o congiuntamente con le autorità competenti di altri Stati membri”.
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