ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La chiamano “separazione delle carriere” ma il disegno di legge costituzionale di riforma della magistratura non prevede una semplice separazione delle carriere.
È uno strappo. È un taglio nella Carta costituzionale voluta e ideata per garantire i diritti della persona, di qualunque persona, dagli eccessi del potere, di qualsiasi potere.
È in questa direzione che la Costituzione affida la tutela dei diritti ai magistrati, giudici e pubblici ministeri, indipendenti e autonomi ed organizzati in un ordine, unico, indipendente e autonomo.
La riforma disgrega la magistratura pensata dal costituente antifascista e rende più fragile ciascuno di noi.
Scinde e svuota l’autogoverno, il C.S.M., chiamato proprio a garantirne quell’autonomia e quell’indipendenza e, al contempo, fonda il “quarto potere” dell’accusa costituito da una manciata di potenti pubblici ministeri guidati, se andrà male, da pochi di loro e, se andrà peggio, dai partiti che di volta in volta guideranno l’esecutivo.
Il progetto di riforma - rafforzando e rendendo manovrabile il pubblico ministero, indebolendo e isolando il giudice - divide e sbilancia l’equilibrio delle garanzie, indebolisce il cittadino, fiacca la giustizia.
Ogni discesa, anche la più profonda, inizia sempre con un primo passo verso il basso.
“La situazione è grave, ma non è seria”. Avrebbe detto, del resto, un grande interprete dell’umore italiano.
È stato detto, invece, che i magistrati-cittadini non hanno il diritto di parlare della riforma, di protestare contro la riforma, che non hanno il diritto di scioperare. Ed hanno ragione: hanno il dovere di farlo (“Ho sempre considerato come massima aggravante il fatto che uno non abbia potuto farci niente”, ha scritto una mente caustica).
Sommario. 1. La disgregazione della magistratura: 1.1 Il primo strappo alla Costituzione; 1.2 Le parole illudono, confondono; 1.3 La disgregazione del potere giudiziario; 1.4 Quattro domande e quattro risposte. 2. Lo svilimento dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato per svuotamento del suo autogoverno: 2.1 La divisione dell’autogoverno; 2.2 L’estrazione a sorte dell’autogoverno (ma non per i componenti di origine parlamentare); 2.3 La perdita del diritto al voto (solo per i magistrati) e la regola “l’uno vale l’altro”; 2.4 Il senso della elezione del C.S.M. prevista dalla Costituzione; 2.5 La perdita del senso 2.6 Un sistema sanzionatorio speciale solo per i magistrati.; 2.7. Il p.m. diventa il giudice disciplinare dei giudici. 3. La pubblica accusa diventa il quarto potere: 3.1 La gerarchia nella pubblica accusa; 3.2 L’accusa come quarto potere; 3.3 Il comando del quarto potere; 3.4 Costruire muri attorno al giudice.
1. La disgregazione della magistratura
È la disgregazione della magistratura.
Chiamiamo con il suo nome il disegno di legge costituzionale - di iniziativa governativa - recante “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” destinato alla riforma delle norme della Costituzione relative alla magistratura.
1.1 Il primo strappo alla Costituzione
È la disgregazione della magistratura prevista dalla Costituzione della Repubblica Italiana. Costituzione sorta dai resti dell’Italia distrutta, nel corpo e nello spirito, dalla dittatura fascista e dalla guerra, immaginata e scritta da illustri costituenti, uomini e donne di cultura e libertà, costruttori di un sistema di diritti contro l’oppressione dei poteri di ogni forma, dimensione e colore.
È la disgregazione della magistratura figlia di quell’equilibrio costituzionale e istituzionale maturato in ottanta anni di lotta di liberazione dal fascismo prima e dalla cultura fascista poi, di lotta di liberazione dalle mafie, di lotta di liberazione dai terrorismi di ogni colore, di lotta di liberazione dalla corruzione.
I tratti di una storia - gravata dal sacrificio di uomini e donne dello Stato - non comparabile con quella di altri paesi, una storia tutta italiana.
Lo smembramento della magistratura ordinaria è una breccia, la prima breccia, nella Costituzione repubblicana.
No. Non è una separazione di carriere.
1.2 Le parole illudono, confondono
La chiamano, invece, “separazione delle carriere”.
È questa l’illusione ottico-giuridica utilizzata dai proponenti della riforma per far passare l’idea-slogan per cui la riforma - un giudice, reso in realtà più solo e debole, e un pubblico ministero, reso in realtà più potente e manovrabile - sarebbe funzionale alla parità delle parti nel processo penale.
Ed è solo un espediente letterale quello per cui l’attuale art. 104 della Costituzione - “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” - viene riformato ribadendo sì che la magistratura costituisce un solo ordine ma specificando che “è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. L’unico elemento effettivo di comunione tra requirenti e giudicanti sarà infatti il sistema sanzionatorio incentrato sull’Alta corte disciplinare.
Ed è solo un gioco di suggestioni quello secondo cui la riforma sarebbe necessaria perché il giudice, tutti i giudici, sono oggi influenzabili dai pubblici ministeri e tanto perché questi ultimi “dominano” l’autogoverno comune.
Una volta a regime la riforma, ha detto il Ministro, il giudice godrà di maggiore libertà rispetto ad oggi, quando “il pubblico ministero nei consigli giudiziari e anche al Csm dà i voti al giudice davanti al quale va a perorare una causa”, cosa “irrazionale in qualsiasi Paese del mondo”.
Sia chiaro: il C.S.M. è composto da 33 membri e sono solo 5 i pubblici ministeri. Tra i 10 componenti eletti dal Parlamento gli avvocati sono più di 5. E a questo punto coerentemente anche gli avvocati andrebbero esclusi da quel C.S.M. e dai Consigli giudiziari perché, al pari dei p.m., danno “i voti al giudice davanti al quale [vanno] a perorare una causa”.
Sia chiaro: il giudice non ha interesse alcuno, personale, economico o di carriera, a favorire il p.m. Quale sarebbe?
Sia chiaro: le carriere di giudici e p.m. sono già separate nella legge, che prevede un solo passaggio di funzioni nella vita professionale del magistrato, e nei fatti: nell’arco di cinque anni è dello 0,83% la percentuale dei pubblici ministeri passati a fare il giudice; e dello 0,21% la percentuale dei giudici divenuti p.m.
Sia chiaro: è la riforma che assoggetta il giudice al p.m. Con l’Alta Corte disciplinare progettata dalla riforma i giudici saranno gli unici cittadini ad avere, come giudice, proprio i pubblici ministeri.
E si può aggiungere solo una battuta e una notazione: i colleghi, in generale, difficilmente sono amici tra loro e si contano, tra gli amici dei magistrati, più avvocati che magistrati.
No. Non è una separazione di carriere.
1.3 La disgregazione del potere giudiziario
La riforma è lo svilimento dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato - del diritto del cittadino ad avere dinanzi a sé un tale magistrato - per mezzo della scissione e dello svuotamento della forza e del prestigio dell’organo di autogoverno della magistratura, il C.S.M., pensato dai costituenti proprio a garanzia di quella autonomia e di quella indipendenza. Il progetto di riforma frantuma l’unico C.S.M., l’autogoverno pensato dai costituenti, in tre distinti organi; sottrae all’autogoverno stesso, e soltanto ai magistrati, la funzione disciplinare; delegittima, atomizza e indebolisce i magistrati che siedono nell’autogoverno, in favore dei membri di origine parlamentare, sottraendo solo ai magistrati il diritto di voto.
La riforma è la creazione di un nuovo e forte potere autonomo. Si scorpora dalla magistratura la pubblica accusa e si realizza un quarto potere costituito da una manciata di potenti pubblici ministeri guidati, se andrà male, da pochi di loro e, se andrà peggio, dal potere dei partiti che di volta in volta guideranno l’esecutivo.
Frammentazione e svuotamento dell’autogoverno, creazione del “potere dell’accusa”, sono solo i due lati della stessa medaglia: la disunione del potere giudiziario a fronte dell’unione sempre più salda, per mezzo della maggioranza partitica di turno, tra il potere esecutivo e legislativo.
No. Non è una separazione di carriere.
1.4 Quattro domande e quattro risposte
Perché è necessario un unico e solido autogoverno per i giudici e i p.m.?
Perché l’indipendenza del magistrato, il diritto del cittadino ad avere un magistrato non influenzabile dai poteri partitici o economici di qualsiasi colore o forma, è possibile solo se il potere di turno non può minacciare, lusingare o incidere il suo lavoro.
Perché i costituenti hanno fatto tesoro della favola di La Fontaine in cui il vecchio padre insegna ai figli che un fascio di frecce non può essere spezzato a differenza della singola freccia che sola non riesce a opporre resistenza a chi la vuol piegare.
Perché il p.m. non deve essere assoggettato solo a sé stesso?
Perché sarebbe troppo potente e senza controllo, troppo autoreferenziale. “Il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea” ha scritto un illustre giurista.
I sostenitori della riforma spesso ricorrono al Portogallo come esempio virtuoso di indipendenza della pubblica accusa “separata” dal giudice (e dalla cultura garantista del giudice).
Ebbene il Portogallo è l’unico paese europeo in cui, negli ultimi anni (era il novembre 2023), il primo ministro Costa si è dimesso a seguito di una inchiesta dei pubblici ministeri. Costa era stato coinvolto nell’inchiesta stessa per un clamoroso “errore” di trascrizione in una intercettazione emerso appena qualche giorno dopo le dimissioni. Dimissioni che hanno portato a nuove elezioni con la vittoria di una nuova maggioranza.
Perché il p.m. non deve esser assoggettato all’esecutivo?
Perché il p.m. deve garantire che lo stato di diritto non degradi in stato di polizia.
Perché il p.m. non può essere il braccio armato dei partiti della maggioranza, di qualsiasi maggioranza.
In “Io sono ancora qui”, recente film sulla scomparsa di Rubens Paiva, desaparecido durante la dittatura militare brasiliana, la protagonista, moglie di Paiva, si domanda come sia possibile che, in uno stato di diritto, si commettano migliaia di arresti illegali, si torturi, senza che nessuno indaghi sulle sparizioni.
La risposta è che nessuno poteva indagare e cercare la verità, nessun pubblico ministero e nessuna polizia, perché il potere stava tutto dalla stessa parte.
Quel che accadde con il processo Matteotti è memoria, almeno dovrebbe esserlo. Quel che è accaduto con il volo di Stato per Al Masri è un monito, almeno si spera.
Perché la divisione dell’autogoverno e il sorteggio dei suoi componenti del C.S.M. non eliminerà le correnti in magistratura e le loro degenerazioni?
Perché le correnti sono fisiologicamente dei gruppi di pensiero e per eliminarle bisognerebbe vietare il pensiero o vietare l’associazionismo nonché cancellare oltre 120 anni di storia di associazionismo unitario interrotti solo dal regime fascista. Le correnti continueranno ad esistere finché continuerà ad esistere la libertà di pensiero e di associazione.
Perché i sorteggiati nel C.S.M. non saranno magistrati privi di pensiero o di idee, solo che questi non saranno né note né trasparenti.
Perché i sorteggiati potranno esser pescati anche, ma a caso, tra gli iscritti e simpatizzanti alle correnti (e nel paradosso anche, se il caso lo vorrà, solo tra questi e finanche solo tra i membri di una singola corrente).
Perché per evitare le degenerazioni delle correnti e nuovi “casi Palamara” sarebbe sufficiente tornare a scegliere i direttivi degli uffici giudiziari sulla base dell’anzianità.
Non è una semplice separazione di carriere.
2. Lo svilimento dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato per svuotamento del suo autogoverno.
La Costituzione ha assicurato l’autonomia e l’indipendenza dei giudici e p.m. per mezzo di un unico organo di governo autonomo e indipendente dall’indirizzo politico di maggioranza: il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, i cui componenti eletti sono magistrati e non magistrati (c.d. laici). Al C.S.M. spettano tutte le decisioni più significative sulla carriera e sullo status professionale dei magistrati - compreso il disciplinare - e ha il compito di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
2.1 La divisione dell’autogoverno
Il disegno di legge costituzionale spezzetta l’autogoverno.
Se ad oggi il C.S.M. è unico e composto da 33 membri - 20 membri appartenenti alla magistratura (di cui 5 pubblici ministeri) e 10 membri eletti dal Parlamento scelti tra professori ordinari in materie giuridiche o avvocati con almeno 15 anni di esercizio della professione - la riforma prevede una scissione con due distinti organi di autogoverno, uno per i giudici e uno per i p.m.
Ed a questi due nuovi C.S.M. si aggiungerà un terzo organo, frutto di una ulteriore scissione: all’autogoverno viene sottratta la funzione disciplinare e viene istituita una Alta Corte destinata a giudicare (in sede disciplinare) esclusivamente i magistrati ordinari.
2.2 L’estrazione a sorte dell’autogoverno (ma non per i componenti di origine parlamentare)
Secondo la riforma i componenti magistrati dell’autogoverno non saranno più eletti dai magistrati stessi, come accade ora, ma saranno estratti a sorte tra circa 7.000 giudici (per il C.S.M. giudicante) e circa 2.000 pubblici ministeri (per il C.S.M. requirente).
I componenti di origine parlamentare, i c.d. laici, saranno anch’essi sorteggiati dal Parlamento ma non tra le migliaia di soggetti legittimati secondo la Costituzione - ossia tra tutti i professori ordinari di università in materie giuridiche e tra tutti gli avvocati con almeno quindici anni di esercizio - ma da una lista ad hoc, una short list dalla estensione oscura, stilata per l’occasione dalla maggioranza dei partiti di turno.
2.3 La perdita del diritto al voto (solo per i magistrati) e la regola “l’uno vale l’altro”
I magistrati ordinari risulteranno così la prima e unica categoria a perdere il diritto di voto.
Sarà vietata la possibilità di scelta tra i soggetti e i gruppi di pensiero ritenuti idonei a comporre l’autogoverno pensato dai costituenti.
L’autogoverno delle altre magistrature (di quella amministrativa, contabile, tributaria, militare) preserva il voto e l’elezione.
L’autogoverno dell’avvocatura preserva il voto e l’elezione: i consigli degli ordini degli avvocati continuano ad essere eletti e così il Consiglio Nazionale Forense.
L’autogoverno dell’università anche e così come ogni altra aggregazione di persone, fino al condominio.
La regola dell’uno vale l’altro varrà solo per i magistrati e solo per i magistrati dell’autogoverno.
Per ora.
2.4 Il senso della elezione del C.S.M. prevista dalla Costituzione
La Costituzione ha indicato, come metodo di selezione dei componenti magistrati del C.S.M., l’elezione da parte dei magistrati stessi. Una elezione considerata di particolare rilievo come suggerisce il paragone con l’elezione dei membri laici: per questi il Parlamento si riunisce in seduta comune come accade per l’elezione dei giudici costituzionali o la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica.
Il C.S.M., come mostrano la sua composizione e le sue attribuzioni, non è un ufficio tecnico-amministrativo ma il governo dell’autonomia e della indipendenza della magistratura e come tale è chiamato a scelte valoriali che esprimono un modo specifico di preservare l’autonomia e l’indipendenza di giudici e p.m.
Il ragionamento costituzionale è tanto semplice che, come spesso accade con le cose piccole, sembra scivolato dalle tasche.
Se il C.S.M. è un organo autorevole presieduto dal Presidente della Repubblica - chiamato a prendere decisioni generali e puntuali sulla autonomia e indipendenza dei magistrati - allora è necessario che i suoi membri vengano scelti tra personalità, o gruppi di personalità, fornite di un proprio e individuabile bagaglio culturale, che si auspicano di esperienza, autorevoli e capaci di relazionarsi e mediare per operare in un organo collegiale che decide a maggioranza sulle questioni riguardanti l’autonomia e l’indipendenza dei giudici.
Essere dei giudici e dei p.m., avvocati o professori, dei tecnici del diritto penale o civile, non significa esser dei buoni amministratori o dei buoni governanti: esser il migliore dei chirurghi non significa esser un bravo direttore sanitario o un bravo ministro della salute così come esser un bravo magistrato non significa esser un buon componente del C.S.M. o un buon ministro della giustizia.
Se il C.S.M. è un organo di autogoverno democratico della magistratura allora deve avere una legittimazione democratica che proviene dai suoi governati magistrati.
2.5 La perdita del senso
La volontà della riforma è quella di eliminare i corpi intermedi, gli ambiti associativi di discussione e riflessione, di dividere i magistrati tra loro e i magistrati governati dai magistrati governanti, per destrutturare il governo autonomo e indipendente partendo proprio dal pensiero.
Il primo, inevitabile, esito della riforma è così l’indebolimento della componente della magistratura di fronte alla sempre solida componente partitico-parlamentare. Ed una componente togata, atomizzata o incapace, finisce inevitabilmente per squilibrare il peso istituzionale del C.S.M. in favore della componente di origine parlamentare, politicamente più abile, attrezzata e sempre e comunque connotata da vicinanza partitica.
Il secondo, inevitabile, esito del progetto è la strutturazione di maggioranze decisionali fondate non sulla convergenza delle idee dei gruppi ma sulla convergenza degli interessi dei singoli componenti. Convergenza che, se andrà male, sarà episodica e che, se andrà peggio, sarà strutturata in modo oscuro e non trasparente in modo postumo al sorteggio.
L’autogoverno è ridotto a pratica tecnico-amministrativa e sottoposto ad una oscura maggioranza, non quindi vero autogoverno.
Se l’autogoverno assume decisioni automatiche, in modo oscuro, per cui è sufficiente un tecnico delle norme, allora tanto vale farlo guidare da innominati funzionari del Ministero oppure, perché no, da un sistema di intelligenza artificiale.
A questo punto tanto vale farlo guidare da uno solo.
Oppure da nessuno.
A questo punto tanto vale eliminarlo.
2.6 Un sistema sanzionatorio speciale solo per i magistrati
La riforma sottrae all’autogoverno quella giurisdizione disciplinare che i costituenti avevano indicato come uno dei suoi pilastri: “un regime – che si vuol costruire – di assoluta indipendenza del potere giudiziario non è compatibile con la sorveglianza di un organo del potere esecutivo (…) tutta la materia disciplinare deve restare nell’ambito del potere giudiziario, conservando al Ministro la facoltà di richiedere la promozione dell’azione disciplinare” (così un illustre padre costituente).
L’esito del progresso costituzionale è stato così la creazione di una Sezione disciplinare, interna al C.S.M., composta da 4 magistrati (di cui uno solo è p.m.) e 2 laici. L’azione disciplinare è attribuita al Procuratore generale presso la Corte di cassazione e al Ministro della Giustizia.
Le decisioni disciplinari emesse dall’autogoverno possono essere impugnate dinanzi alle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte (composta da soli giudici) e tanto per la sola ragione che è l’organo supremo di tutta la giurisdizione italiana.
Sia chiaro un punto: in qualsiasi amministrazione pubblica, così come in ogni altro ente, compresi i consigli dell’ordine degli avvocati, le sanzioni disciplinari sono erogate da soggetti od organi interni all’amministrazione stessa.
Lo smembramento della magistratura previsto dal disegno di legge è completato dalla creazione di un sanzionatore speciale disciplinare dedicato solo ai p.m. e ai giudici: l’Alta Corte composta da 15 giudici (di cui 6 giudici, 3 p.m. e 6 laici).
Anche per l’Alta Corte varrà l’applicazione della estrazione a sorte. E di nuovo, a guardar bene, solo per i magistrati essendo la parte parlamentare estratta sempre da una preconfezionata short list.
I magistrati saranno gli unici a subire sanzioni disciplinari, e la minaccia di sanzioni disciplinari, da un organo esterno.
E se un magistrato sanzionato volesse impugnare la decisione disciplinare emessa dall’Alta Corte? Dovrebbe impugnarla dinanzi alla stessa Alta Corte.
E chi sarà il titolare dell’azione disciplinare? I proponenti governativi, per l’Alta Corte, non hanno avuto cura di indicarlo e, a rigor di logica, spetterà all’esecutivo.
2.7. Il p.m. diventa il giudice disciplinare dei giudici
I giudici saranno gli unici cittadini ad avere, come giudici, i pubblici ministeri e ad esser giudicati da una maggioranza composta da p.m. e laici (9 componenti su 15).
E la riforma, di nuovo, inganna perché cambia totalmente le proporzione nell’organo disciplinare diminuendo le garanzie dei giudici: tra la componente togata e quella laica in favore di quest’ultima (sono 2 i laici su 6 componenti oggi della sezione disciplinare; saranno 6 laici su 15 nell’Alta Corte di domani); tra la componente dei p.m. rispetto a quella dei giudici, in favore della prima (c’è 1 p.m. su 6 componenti oggi nella sezione disciplinare; saranno 3 p.m. su 15 domani nell’Alta corte); con totale eliminazione dei giudici nell’impugnazione delle sanzioni che vengono sottratte alle Sezioni unite.
E le parole, di nuovo, illudono. L’Alta Corte, nonostante sia definita tale, non è destinata ad occuparsi di tutte le magistrature (di quella amministrativa, militare, contabile) ma solo dei giudici ordinari e dei p.m.
3. La pubblica accusa diventa il quarto potere
La disgregazione della magistratura prevista dal disegno di legge costituzionale prevede, dopo lo svilimento dell’autogoverno, lo scorporo dei pubblici ministeri dai giudici con la creazione di un quarto potere esclusivamente dedito all’accusa e, specularmente all’avvocato della difesa, alla vittoria dell’accusa.
3.1 La gerarchia nella pubblica accusa
Lo scorporo dei pubblici ministeri dalla magistratura deve esser letto necessariamente alla luce dell’assetto
organizzativo gerarchico che, ormai dal 2006, caratterizza l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero.
Il giudice è autonomo dal Presidente del Tribunale e questi non ha possibilità alcuna di incidere sulle sentenze che scrive. Ma i pubblici ministeri non hanno piena autonomia. Il Procuratore della Repubblica è infatti il titolare dell’ufficio della pubblica accusa e vanta un potere sovraordinato rispetto al sostituto procuratore (ossia al singolo pubblico ministero). La potestà direttiva del Procuratore si esprime però per linee di azione generali secondo le direttive delineate dall’autogoverno rappresentato dal C.S.M. (del cui svilimento si è poco sopra scritto).
3.2 L’accusa come quarto potere
I pubblici ministeri, questi pubblici ministeri, escono dalla magistratura ordinaria per andare a costituire un corpo separato da quello dei giudici: la struttura gerarchizzata della pubblica accusa si separa e va a formare un potere a sé stante.
Un sistema verticistico composto da 1 Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, da 25 Procuratori Generali presso le Corti di Appello, da 118 Procuratori della Repubblica e da circa 2.000 sostituti pubblici ministeri.
Un sistema che ha a disposizione la polizia giudiziaria e potenti strumenti di indagine.
Un sistema autogovernato da un Consiglio superiore requirente ad hoc, presieduto dal Presidente della Repubblica, e composto per 2/3 da pubblici ministeri oltre che dal Procuratore Generale presso la Corte di cassazione (e per 1/3 da componenti, avvocati e professori, estratti da un elenco stilato appositamente dal Parlamento).
Spetteranno a tale Consiglio, secondo le regole stabilite dalle leggi ordinarie (che dovranno essere formulate ex novo) tutte le più importanti decisioni sulla carriera e sullo status dei pubblici ministeri.
Saranno solo i pubblici ministeri a nominare il ristretto numero dei vertici delle Procure - i vertici del sistema dell’accusa - e a decidere le forme di esercizio del potere degli stessi vertici.
3.3 Il comando del quarto potere
Se la riforma perseguirà il suo dichiarato obbiettivo, la piena indipendenza della pubblica accusa dagli altri poteri, quel pubblico ministero che “è un super-poliziotto” e che “ha un potere immenso senza controllo” (così il Ministro della Giustizia) sarà sempre più super e avrà sempre meno controllo.
Troppo palese la contraddizione, e troppo rischioso l’esito, per non comprendere che l’obiettivo razionale della riforma è inevitabilmente un altro: un super-potere sì ma destinato ad esser guidato dal potere dei partiti chiamati a turno a guidare l’esecutivo.
3.4 Costruire muri attorno al giudice
A questo primo smembramento - fuori i pubblici ministeri - ne seguiranno altri come la storia, lo studio della storia, ci insegna, con particolare riguardo alla Cassazione e alla divisione tra una magistratura “alta” e una “bassa”.
Se scorporare i pubblici ministeri dalla magistratura serve a garantire “un giudice terzo”, così dicono i proponenti, il prossimo muro verrà eretto tra il primo e il secondo grado di giudizio e tra questi e la Cassazione. Tra i giudici civili e quelli penali. Tra GIP, GUP e giudici del dibattimento.
Se i giudici sono tutti colleghi, e se i giudici devono esser valutati in base a quante sentenze vengono riformate, come fanno a far parte dello stesso ordine?
E poi verrà il turno di erigere il muro tra avvocati (che ad oggi valutano i giudici nei Consigli giudiziari) e giudici, tra avvocati e p.m.: niente porte aperte negli uffici, niente più caffè e convegni, si parlerà solo nel processo.
Si vieterà per legge l’amicizia tra giudici e avvocati.
E così finalmente il giudice, solo, resterà intrappolato tra queste mura erette per assicurarne il candore decisionale.
“Non chiedetevi dove andremo a finire, perché ci siamo già”. Avrebbe detto sempre quel grande interprete dell’umore italiano.
A complete Unknown [1]
Da convinto dylaniano, appena ho letto sui giornali che stava per essere proiettato anche in Italia “A complete unknown”, il film di James Mangold (regista americano nato il 16 dicembre, come me, ma nel 1963), mi sono informato sul primo giorno di proiezione previsto a Milano: il 23 gennaio, peraltro in un cinema molto vicino alla mia abitazione. Ma, ahimè, proprio quel giorno era previsto un mio intervento a Bologna in un convegno sulla “controriforma” della separazione delle carriere: impossibile mancare. Il 22 ho dunque acquistato via web il biglietto per il primo spettacolo del 24 gennaio, alle ore 14,30. Mi sono recato al cinema mezz’ora prima per evitare la prevedibile lunga fila. Ma – mostrato il biglietto alla persona addetta ai controlli – è esploso il dramma: non potevo entrare perché, causa un mio errore, il biglietto era per il giorno 25…inutile implorare comprensione!
Ed eccoci allora al pomeriggio successivo, primo spettacolo, posto centrale in terza fila, finalmente ci sono. L’ho visto poi una seconda volta, tre giorni dopo, ma in quarta fila e lo vedrò ancora una terza volta. Perché? Perché questo film è un capolavoro ed è comunque particolarissimo rispetto ai tanti che riguardano Dylan o che lo vedono protagonista principale o secondario. Penso subito a Pat Garrett e Billy the Kid”, di Sam Peckinpah (1973), interpretato da Kris Kristofferson, James Coburn, Rita Coolidge e Bob Dylan, nella parte del giornalista Alias (una figura inventata): la sua colonna sonora, ed in particolare il famoso brano Knockin’ on heaven’s door (di cui posseggo oltre 300 versioni di cantanti e gruppi di ogni Paese del mondo) ebbero un successo maggiore del film, il che non fu gradito a S. Packinpah. In Masked and Anonymous (2003), il menestrello di Duluth interpreta la rockstar Jack Fate, liberato di prigione apposta per tenere un concerto di beneficenza nel bel mezzo di un Nordamerica molto autoritario. Ma non si può dimenticare un capolavoro come Io non sono qui del 2007 (I’m not there) di Todd Haynes con sei diversi attori (Christian Bale, Cate Blanchett, Ben Whishaw, Marcus Carl Franklin, Richard Gere ed Heath Ledger), ognuno dei quali interpreta le parti in cui il regista divide la vita da artista e l’anima cangiante di Dylan, grazie a sotto-trame diverse che il film presenta con grande maestria.
Tra i docufilm su Bob Dylan, mi limito qui a citare i due di Martin Scorsese: No Direction Home: Bob Dylan (2005) e Rolling Thunder Revue (2019) che si concentrano sugli aspetti multiformi della vita e dell’arte del cantautore, mescolando realtà e fantasia. Martin Scorsese e Bob Dylan sono riusciti a regalare al pubblico una satira affascinante di tutti quei miti che le rockstar finiscono per trovarsi addosso.
Ritorniamo ora a “A complete unknown”. Bob Dylan è nato a Duluth (Minnesota) il 24 maggio 1941 ma il film, che nulla ci dice sulla sua famiglia e su come è nato il suo amore per la musica, si apre con il suo arrivo a New York nel 1961 (con il nome vero di Robert Zimmerman) e finisce dopo il Newport Folk Festival del 1965, ove il 27 luglio il menestrello impugna per la prima volta in un importante concerto la chitarra elettrica confondendo molti suoi fans ma sorprendendone altri positivamente.
Ma sia l’inizio che la fine del film hanno un altro protagonista: Woody Guthrie (interpretato da Scoot McNairy), gravemente malato per un morbo neurogenerativo, eroe di Dylan che lo va a trovare in un ospedale del New Jersey: nella stanza dov’è ricoverato canta per lui e conosce Pete Seeger che assiste il malato. Entrambi (Woody e Pete) riconoscono subito il suo talento – come avverrà poco dopo per Joan Baez - e Seeger lo aiuterà a diventare un fenomeno nei club del Greenwich Village e del centro di New York, quando Dylan “pratica” ancora la musica folk, pur interessandosi ad ogni diverso genere e studiando i diversi modi di suonare e cantare che man mano conosce.
“A complete unknown” non è dunque un film sulla vita intera di Dylan, perché ne narra poco meno di cinque anni, anni importanti per lui e per noi-
Tra le protagoniste, due bellissime attrici: Elle Fanning (che interpreta Sylvie Russo, il cui vero nome – Suze Rotolo – Dylan non ha voluto che si usasse nel film) e Monica Barbaro (che interpreta Joan Baez). È di gran classe il modo in cui il regista descrive il doppio amore di Bob per le due ragazze, la gelosia della prima e la fermezza della seconda, fino alla fine di quegli amori: il film evita qualsiasi scivolata voyeuristica, non c’è una scena di sesso ed i baci sono pochi ed immacolati. Anzi emergono evidenti i tratti duri di Dylan con le sue donne: a Joan Baez, che gli chiede un giudizio su un suo pezzo, risponde, lasciandola senza parole, che “le sue canzoni assomigliano ai quadri nello studio di un dentista”!
Ma anche la narrazione di soli 4/5 anni di vita può essere sufficiente – come in questo caso - a farci comprendere chi era e chi è Bob Dylan... questo film è infatti un inno alla sua libertà ed indipendenza, alla sua indifferenza rispetto agli interessi ed alle aspettative della società che lo circonda.
I film in cui si rievocano biografie di persone realmente esistite vengono chiamati anche biopic. Può essere tale un film che racconta solo cinque anni della vita del protagonista, peraltro famoso anche per la “scorbutica riservatezza” [2]?
Molti grandi artisti ne hanno scritto recensioni entusiaste, come Neil Young, il cui storico brano “Harvest”, costituiva la sigla della trasmissione sulla West Coast Music che ho condotto a Radio Taranto per alcuni anni. Neil Young – che ha un lungo passato di stima reciproca e di collaborazioni con Dylan con cui ha partecipato al celebre film - concerto "The Last Waltz" di Martin Scorsese nel 1978, eseguendo con lui il brano "I Shall Be Released"- ha detto: “Amo da sempre Bob Dylan e la sua musica. Questo film è un tributo meraviglioso alla sua vita e alla sua musica”.
Anche Bob Dylan ha espresso un giudizio positivo sul film, con particolare riferimento a Timothée Chalamet, il protagonista (che ha anche coprodotto il film). “Timmy è un attore brillante, quindi sono sicuro che sarà completamente credibile nei panni di me. O di un me più giovane. O di un altro me”. E secondo un importante critico del New Yorker” è stato capace di “indovinare in modo incredibile la voce e il modo di cantare di Dylan”.
Timothée Chalamet, che ha ringraziato il cantautore americano per le parole di apprezzamento nei suoi confronti, non solo si è calato nei panni del musicista, ma ha anche affrontato il ruolo dal vivo: le sue performance nel film includono decine di brani cantati e suonati in presa diretta, un’impresa che si preannunciava tanto ambiziosa quanto rischiosa.
Del resto, non c’è una sola canzone nel film che sia interpretata da Dylan o Joan Baez o da Pete Seeger in playback: tutto è cantato in modo perfetto dagli attori che, a partire da Chalamet, ne interpretano il ruolo.
A fare da contraltare alla giovane star, un cast di attori cantanti di alto livello: Edward Norton (proposto al golden globe quale migliore attore non protagonista) nei panni di Pete Seeger, figura chiave del movimento folk e testimone dell’impegno e delle tensioni sociali dell’epoca; Monica Barbaro nei panni di Joan Baez ed inoltre Scoot McNairy e Body Holbrook rispettivamente nei panni di Woody Guthrie e Johnny Cash.
Ottima la scelta di far scorrere i testi in italiano di tutti i brani che gli attori cantano. Tra l’altro, leggendo i testi dei brani di Bob Dylan, anche di quelli meno famosi, si può ben comprendere quanto meritata sia stata l’attribuzione a lui del Premio Nobel per la letteratura nel 2016.
Prima o (forse meglio) dopo aver visto il film, è da leggere il libro “Dylan Goes Electric !”, di Elijah Wald del 2015 da cui il film prende ispirazione. Il libro ricostruisce gli anni cruciali in cui il menestrello abbracciò l’elettricità, dividendo pubblico e critica e segnando uno dei punti di svolta più controversi nella storia della musica popolare.
“A Complete Unknown” si inserisce nella lunga tradizione di opere che rileggono la figura di Dylan, ma lo fa con un taglio particolare: unendo fedeltà storica e qualche licenza narrativa, ma il film mira a catturare l’essenza mutevole di un artista che ha fatto della reinvenzione di se stesso il suo manifesto[3].
Questo biopic è molto più di un semplice omaggio all’artista: un viaggio tra i miti del passato e le complessità del presente, con la musica come protagonista assoluta che rende il cinema capace di raccontare storie che risuonano oltre lo schermo.
Mangold ha dichiarato [4] che Dylan ha voluto incontrarlo dopo che la sceneggiatura era ormai conclusa. Dopo averla letta gli ha detto “mi piace”, dandogli anche qualche suggerimento. Mangold è riuscito a far emergere – come lui stesso dice – “l’atemporalità delle sue opere, ancora oggi parte integrante del tessuto americano”. Timothée Chalamet, invece, pur sperando che ciò avvenga, non lo ha mai incontrato: aveva quattro mesi per studiare e prepararsi ad interpretarlo, ma a causa della pandemia, quel periodo si è allargato fino a cinque anni così da permettergli di studiare l’uso della chitarra ed il canto. “Sapevo chi era Bob Dylan, ovvio, avevo sentito le canzoni più famose, ma conoscendolo di più mi sono innamorato profondamente della sua musica, poetica, emotiva fino a diventare devoto discepolo della Chiesa di Bob”.
È verissimo, tanto che, dopo avere visto il film ed al di là di quanto già sapevo, ho condiviso un altro giudizio di Chalamet quando ha affermato che ciò che lo affascina del giovane Dylan è “il fatto che abbia sempre creato arte senza compromessi, facendo quello che voleva..Pur essendo così giovane sapeva esattamente quello che voleva ottenere…si è fidato dell’istinto”. Chalamet ha cioè riproposto sullo schermo un artista già leggendario e ancora mitico perché la forza delle sue liriche hanno oggi la stessa attualità di 50/60 anni fa.
Chalamet ha saputo mostrare anche certi aspetti apparentemente negativi della personalità di Dylan (arroganza, troppo eccentrico, poco conciliante)?
Alla domanda Chalamet risponde che a lui invece “è parso soprattutto stimolante, provocatorio, liberatorio. Un eroe che dà vigore”[5].
Ecco perché ho già definito questo film un inno a quella libertà che ha caratterizzato la vita da artista (e immagino non solo quella) di Bob Dylan: rinunciando agli enormi guadagni che i produttori discografici gli proponevano, Dylan sceglieva da sé cosa e come suonare, i componenti dei gruppi che lo avrebbero accompagnato in concerti e registrazioni, sceglieva quando staccare la spina. E la vicenda del Newport Folk Festival di Newport del luglio del 1965 è emblematica: i produttori e musicisti storici (Pete Seeger incluso) che da anni organizzavano l’evento, lo supplicano – alla fine anche con rabbia - di suonare il folk cui il festival è da sempre dedicato, rinviando l’avventura lungo la strada del rock elettrico. Ma lui non molla di un metro: aveva già selezionato i componenti del gruppo che sarebbe salito sul palco lui e predisposto gli impianti che avrebbero amplificato il volume. Solo Johnny Cash lo sostiene e lo incoraggia.
Partono i suoi pezzi “rock-elettrici”: il pubblico, che lo ha accolto con entusiasmo ed applausi quando è salito sul palco, si divide sorpreso e ad uno spettatore che gli grida “traditore”, Dylan risponde “Non ti credo”.
Seeger tenta anche di tagliare i fili dell’amplificatore ma ad un certo punto i critici come lui iniziano a manifestare curiosità per quella storica svolta.
Dylan interrompe per poco ma ritorna sul palco ed “offre” a tutti “Like a rolling stone”, la canzone più importante nella storia del rock. Alla fine gli applausi superano fischi e proteste e Joan Baez, che ha assistito defilata alle sue performances, si avvicina a Bob Dylan, con cui da tempo ha rotto ogni rapporto sentimentale, lo guarda e gli dice, prima di girarsi ed andarsene via, che ha dimostrato di essere un uomo libero.
Ho visto due volte il film e per due volte mi sono emozionato sentendo T. Chalamet cantare “Like a rolling stone”.
Ho già comprato le versione in vinile rosso della colonna sonora del film (16 brani).
Ed ho già ordinato il relativo CD (23 brani): ci sono i pezzi che dimostrano l’amore di Dylan per il folk, per il blues, per il rock, per la musica popolare degli stati del Sud ed altro, ma anche quelli che rimandano al suo impegno sociale di quegli anni (anni in cui J. Kennedy era morto, Nixon avanzava e la guerra nel Vietnam si espandeva).
Nella colonna sonora c’è anche MASTERS OF WAR, con le cui parole Dylan auspica esplicitamente la morte dei fabbricanti d’armi.
E spero che moriate,
e la morte vi colga ben presto.
Seguirò la vostra bara
in un pallido meriggio,
resterò a vedervi calare
nel vostro letto di morte,
e rimarrò sul bordo della fossa
finché sarò sicuro che sarete proprio morti.
Pare che Joan Baez non abbia mai avuto il coraggio di eseguire l’ultima strofa di Masters of War, non se l’è mai sentita di cantare: “E spero che moriate”.
Comunque, occorre provare e riprovare a sentire quella musica e quelle parole cantate con la voce di Timothée… diventa per tutti una sfida specie guardando il volto di quel giovane che, come un moto perpetuo, canta nel Village cercando di capire gli altri e se stesso.
Ma il film sta ormai per finire: il giovane Dylan va ancora a trovare Woody Guthrie in ospedale ed ancora canta per lui, nonostante il divieto dell’infermiere. Woody se ne andrà il 3 ottobre del 1967.
Ultima scena del film: Dylan, in motocicletta, lascia l’ospedale ed esce dal campo visivo. Dove starà andando? Già verso il futuro che lo porterà fino al Nobel?
Non si può dire! Anni dopo, Joan Baez racconta che provò a parlare con lui della interpretazione che lei dava delle sue canzoni, ma Dylan le disse: “Sai, quando creperò, la gente darà sicuramente un’interpretazione di merda delle mie canzoni. Interpreteranno ogni fottuta virgola. Ma loro non sanno cosa vogliono dire le mie canzoni. Merda, non lo so neanche io”.
Difficile uscire dalla sala cinematografica mentre scorrono i titoli di coda accompagnati da tre pezzi storici.
Quali? Non ve lo dico.
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Postfazione:
Non ho mai nascosto di essere un appassionato amante di tutto ciò che Bob Dylan canta, suona, scrive e forse pensa. Spesso ho scritto su di lui, anche presentando suoi concerti o con recensioni successive. La mia passione per Dylan si è però arricchita nel tempo grazie ai racconti della sua amica Fernanda Pivano, nonché partecipando a vari eventi dedicati al “menestrello di Duluth”: ad es., nel cortile del carcere di Lodi (2009), quando parlai a detenuti e cittadini del mitico Billy the Kid e di “Knockin’ on heaven’s doors”; nell’università Cattolica di Milano (2011), nella storico Liceo O. Flacco di Bari (2011), nel festival della letteratura a Bologna (2019), e nell’aula magna del Palazzo di Giustizia di Torino (nel corso di un convegno di formazione organizzato dal locale Consiglio dell’Ordine degli Avvocati su “L’ingiustizia nella parole di Bob Dylan”). Sempre a Torino, nel marzo del 2017, ho presentato il film “I’m not there” di Todd Haynes. Ho visto moltissimi concerti di Bob Dylan in tante parti del mondo (in Italia non credo di averne perso alcuno) e ammirato raccolte di sue opere visive (disegni, dipinti sculture), studiando decine di libri che riguardano lui e la sua musica. Soprattutto, ho più volte trattato il tema della giustizia e quello della ingiustizia nelle canzoni di Bob Dylan, anche con un contributo al volume “Giustizia e letteratura I”, a cura di Gabrio Forti, Claudia Mazzuccato, Arianna Visconti, con il Gruppo di Ricerca del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale (Vita&Pensiero, 2012). Proprio il prof. Gabrio Forti spiegò le ragioni del convegno nella Cattolica di Milano del 14 gennaio 2011: “Sono i testi che devono essere studiati e che devono parlare. Essi fanno venire alla luce i fermenti elettivi”. “E quindi – aggiungeva – non chiudiamoci nei recinti del tecnicismo giudiziario”. Ecco perché raccomando a coloro che si avvicinano a Dylan di riuscire ad essere visionari come lui e di usare soprattutto anima e cuore per “tentare di capire” le sue parole e la sua musica. La mente serve meno e lo stesso Dylan non direbbe a nessuno qual era il senso vero dei suoi brani, anzi negherebbe che ve ne sia alcuno. Come Magritte ha fatto con le sue immagini. Il modo di pensare di Dylan, comunque, alla fine influenza i suoi fedeli: nel New Mexico, più di trent’anni fa, avevo cercato la tomba di Billy The Kid nella zona indicata nelle guide, ma pare fosse stata nel frattempo spazzata via dal fiume. In fondo meglio così: nei miei ricordi lo avrei collocato in un posto preciso, mentre lui è dovunque, in ogni parte del mondo e la gente conosce il suo nome, meno quello dello sceriffo suo assassino.
Ciò che di Bob Dylan mi ha sempre affascinato sono stati la sua spasmodica attenzione per l’umanità negletta, il suo inno alla solidarietà tra e verso i deboli; l’esaltazione delle regole che, come le sue parole ci ricordano, sembrano rispettate più dai disperati che da coloro che normalmente definiamo “onesti”. Si tratta, in fondo, di un modo originale di parlare di giustizia. Se Dylan urla che “non c’è un solo uomo giusto” (Ain’t no man righteous, no not one, 1979) è perché ci sogna tutti giusti; se denuncia la giustizia forte coi deboli e debole con i potenti (The lonesome death of Hattie Carroll, 1963) è perché la vorrebbe eguale per tutti. E così ogni sua parola, alla fine, rimanda alla giustizia. La giustizia sociale che invoca chi è respinto dalla metropoli in cui si era trasferito carico di sogni e speranze (Talking New York, 1961) o la giustizia dei Tribunali che spetta a coloro che sono uccisi e torturati per il colore della pelle (The death of Emmett Till,1962) o perché semplici immigrati clandestini. Ma Bob Dylan non si limitò a cantare la giustizia: la praticò con impegno. Fu parte del movimento che, sull’onda della sua Hurricane (1975), ottenne la revisione della condanna per triplice omicidio del pugile nero Rubin Carter e la sua scarcerazione dopo 22 anni di ingiusta detenzione. Dylan lo andò a trovare in carcere, volle conoscere e capire con ostinazione e poi battersi per lui. Non dovrebbero farlo oggi, a difesa della giustizia, tutti gli italiani di buona volontà? Se avessero dubbi, consiglio loro di meditare su queste parole: “E un uomo quante volte può voltarsi e far finta di non avere visto?” (Blowin’ in the wind, 1962). Ed a quanti preferiscono il comodo quietismo per sé anzichè l’impegno per tutti domando, sempre con Dylan, “Cosa mai ci vuole per trovare dignità”? (Dignity, 1994)
E, per finire con questa postfazione, oltre che per giustificare il mio interesse da magistrato per Bob Dylan, mi piace ricordare che Robert Siegel (giornalista e regista newyorkese), in una intervista chiese a Dylan, partendo dalle numerose citazioni di sue parole che figurano in sentenze della Corte Suprema americana, “quante volte può un giudice citare una canzone di Dylan per illustrare qualche punto oscuro di diritto? E quante volte può farlo un avvocato nell’interesse del suo cliente? ” La risposta di Dylan fu “186 volte !”.
[1] Al termine di questo articolo sono leggibili alcune notizie che servono a spiegare la mia “insana ed acritica passione” (come l’ho sempre definita) per Bob Dylan.
[2] Parole di Paolo Mereghetti (Il Corriere della Sera, 18.1.25).
[3] Parole di Claudio Fabretti (Onda Rock, 13.1.2025).
[4] “Il Venerdì” di Repubblica del 10.1.2025.
[5] Intervista ad Alesasandria Venezia su “Io donna”.
Pubblichiamo un contributo dagli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza. Dedicato a Giacomo Matteotti promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024. Il fascicolo è a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell'Utri e Angelo Costanzo e si può leggere e scaricare a questo link.
La proposta di judicial overhaul in Israele come paradigma di odierno attacco all’indipendenza della magistratura
di Leonardo Pierdominici
Sommario: 1. La rilevanza del caso israeliano – 2. La proposta di riforma governativa. – 3. Perché un paradigma?
1. La rilevanza del caso israeliano.
La scelta di analizzare il caso di Israele[1] quando si discute di problematiche costituzionalistiche può sempre sembrare, prima facie, latamente esotica: e dunque non pienamente attinente con le sfide che i maturi ordinamenti dell’area euro-atlantica si trovano a fronteggiare.
In realtà così non è, in particolare per quel che attiene al nostro tema di discussione, e dunque all’organizzazione della magistratura e alla sua indipendenza.
Israele, laboratorio di costituzionalismo liberal-democratico in terra aliena (pur con connaturate debolezze strutturali), costituisce nell’attuale temperie un esempio paradigmatico di ordinamento che fronteggia un virulento attacco politico all’indipendenza della magistratura.
Certe dinamiche storiche rendono esacerbate le dinamiche dei conflitti tra poteri, che oggi prorompono; gli influssi populisti recenti, sul modello anche di alcuni ordinamenti europei, completano il preoccupante quadro, che il conflitto a Gaza ha solo reso meno impellente.
2. La proposta di riforma governativa.
Cosa è in particolare accaduto?
Il governo Netanyahu VI, insediatosi a fine dicembre 2022, ha incardinato a stretto giro presso la allora neo-costituita Knesset, locale assemblea elettiva nazionale, una complessa proposta di riforma della giustizia, dopo averla posta al centro dell’accordo di programma della nuova coalizione di destra vincitrice delle elezioni.
Essa si compone di una serie di elementi, che vanno partitamente analizzati, al fine di giungere a una visione d’insieme delle sue finalità.
La proposta intende intervenire su cinque fondamentali aspetti del sistema costituzionale israeliano.
La prima dimensione del proposto intervento attiene alle modalità di selezione dei giudici nell’ordinamento.
L’attuale sistema, fondato sulle disposizioni della Basic Law: the Judiciary (la legge costituzionale in materia di ordinamento giudiziario), prevede che i giudici siano nominati da un Judicial Selection Committee composto da nove membri: il Justice Minister e il Chairman Cabinet Minister in rappresentanza del governo, due membri della Knesset usualmente designati in rappresentanza di maggioranza e opposizione parlamentare, due membri della locale Bar Association, ossia designati dall’avvocatura, tre membri in rappresentanza dei giudici della Corte suprema, tra cui il Chief Justice. Sempre attualmente, la nomina dei giudici ordinari avviene a maggioranza semplice tra i membri del Judicial Selection Committee; quella dei giudici della Corte suprema, in esito ad una riforma del 2008[2], avviene a maggioranza di sette membri su nove, così da garantire un sostanziale e speculare potere di veto tanto in capo alla componente magistratuale che a quella politica (composta dai due membri del governo e dal deputato di maggioranza), e così da garantire nomine necessariamente congiunte.
L’attuale proposta governativa mira alla modifica di tale assetto, al fine di dotare la maggioranza politica all’interno dell’eventualmente riformato Judicial Selection Committee di una capacità di decisione sostanzialmente autonoma. L’idea è di modificare la composizione del Committee portandola a undici membri: il Justice Minister, che fungerebbe anche da presidente, due altri ministri designati dal governo, i presidenti del Constitution, Law and Justice Committee, dello State Control Committee, dello Knesset Committee costituiti all’interno dell’assemblea parlamentare (anch’essi, quali presidenti di commissione parlamentare, solitamente riconducibili alla maggioranza), il Chief Justice e altri due giudici della Corte suprema scelti in autonomia dall’organo, due altri rappresentanti scelti dal Justice Minister, di cui uno avvocato. La necessaria maggioranza di sette membri per la nomina di ogni giudice, anche della Corte suprema, sarebbe così facilmente raggiungibile coi soli voti dei componenti in un modo o nell’altro riconducibili al governo in carica: così da potenzialmente dotare quest’ultimo di un pieno controllo su nomine e revoche degli appartenenti all’ordine giudiziario.
La seconda dimensione del proposto intervento attiene alle modalità del controllo di costituzionalità delle leggi in essere nell’ordinamento.
Nel sistema costituzionale israeliano a partire dagli anni ‘90 s’è sviluppata per via pretoria una forma di controllo di costituzionalità delle leggi, nonostante l’inesistenza di una costituzione unidocumentale e rigida, e l’esistenza di un solo reticolo, incompleto, di cd. Basic Laws emanate nel corso dei decenni, adottate senza la previsione di alcun procedimento aggravato, e sino agli anni ’90 vertenti solo su aspetti organizzativi dei poteri dello Stato. Sulla scorta della adozione nel 1992, da parte della Knesset, delle prime Basic Laws in materia di diritti fondamentali, la Corte suprema d’Israele ha dichiarato, col noto caso United Mizrahi Bank del 1995[3] (non a caso da più parti paragonato alla storica sentenza Marbury v. Madison della Corte suprema degli Stati Uniti che nel 1803 “inventò” il judicial review of legislation[4]), l’esistenza di una «rivoluzione costituzionale» nell’ordinamento, ossia di un preteso cambiamento paradigmatico nella struttura costituzionale del paese e nei rapporti tra potere politico e potere giudiziario, prima modellati sull’ancoraggio alla common law britannica e ad un costituzionalismo “evoluzionista”[5], ma ormai da ritenersi fondati, invece, sulla judicial supremacy[6], e dunque sulla piena possibilità di un controllo giudiziale della conformità delle leggi ordinarie con i disposti delle Basic Laws.
Tale «rivoluzione costituzionale», a far data dal 1995, ha costituito il paradigma ampiamente maggioritario nella lettura della struttura costituzionale d’Israele: ma tale paradigma interpretativo, seppur largamente adottato, non è mai stato l’unico, ha condotto ad un uso cauto e spesso contestato degli effetti poteri di controllo di costituzionalità delle leggi, e ha sempre conosciuto tentativi «contro-rivoluzionari» da parte del potere politico tesi alla riaffermazione della propria primazia[7].
Ecco dunque che l’attuale proposta governativa in discussione mira alla modifica di tale assetto, e dunque a porre un freno al potere di controllo di costituzionalità delle leggi che la Corte suprema d’Israele s’è arrogata: da un lato, finalmente, sancendone l’esistenza nell’ambito della normazione primaria, mediante l’adozione di una Basic Law: the Legislation sino ad oggi ripetutamente prefigurata ma mai emanata; dall’altro, espressamente limitandolo in due fondamentali sensi, ossia anzitutto vietando il judicial review avente ad oggetto Basic Laws, e dunque sancendo l’impossibilità di controllo giudiziale di «unconstitutional constitutional amendments»[8] (si noti: nell’ambito di un sistema che non differenzia l’adozione di Basic Laws mediante procedimenti legislativi aggravati, e dunque rimanendo solo nominalistica la differenza tra leggi ordinarie e tali “leggi fondamentali”), e poi richiedendo, per la dichiarazione d’incostituzionalità di leggi ordinarie, una pronunzia della Corte suprema in necessaria seduta plenaria di quindici membri, e con un quorum deliberativo dell’80% dei membri stessi.
Fin troppo evidente, in tal ottica, l’intento governativo: una severa actio finium regundorum degli spazi tra potere giudiziario di controllo di costituzionalità delle leggi e potere politico, che, pur istituzionalizzando il primo, ne sancisca significativi limiti procedurali, e soprattutto esoneri dal controllo la normazione attuata nelle forme di Basic Law - senza però che tali forme prevedano, ad oggi, procedure aggravate particolari, e dunque essendo esse alla mercé di maggioranze politiche semplici.
Tale intento di ridefinizione dei ruoli tra politico e giudiziario risulta vieppiù chiaro se poi si guarda alla terza dimensione del proposto intervento, che attiene alla possibilità di cd. override parlamentare delle decisioni della Corte suprema in punto di incostituzionalità della legislazione.
L’idea che si propone è quella di dotare la Knesset in via generalizzata del potere di sovvertire, mediante votazione a maggioranza assoluta (61 deputati su 120), una decisione della Corte suprema che abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge: così ri-affermando, mediante deliberazione assembleare ulteriore, la vigenza della normazione censurata.
Si gioca, con tale proposta, con la generalizzazione di un meccanismo di pretesa soluzione della cd. counter-majoritarian difficulty teorizzata, da noti costituzionalisti americani[9], come insita in ogni esercizio di controllo di costituzionalità delle leggi: con il controllo di costituzionalità si sancisce sì la preminenza di regole e principi di rango costituzionale su deliberazioni legislative di rango ordinario; ma, sul piano istituzionale, si afferma la possibilità che giudici, o organi in ogni caso non eletti o comunque dotati di legittimazione diretta, annullino le volontà dei rappresentanti del corpo elettorale, e dunque agiscano in contrasto con la volontà maggioritaria, e ciò costituirebbe la “difficoltà” di base che alimenta il secolare dibattito sulla legittimità e sulle forme di legittimazione necessarie a tal fine[10].
Il potere di cd. override parlamentare è uno degli svariati sistemi teorizzati e poi applicati, in ambito comparatistico[11], per la pretesa soluzione di tale intrinseco dilemma istituzionale: sancendo una deroga al principio di judicial supremacy, che darebbe all’organo di controllo di costituzionalità l’“ultima parola” sulla questione controversa, si prevede che l’organo politico si possa riappropriare di tale ultima parola, con deliberazione susseguente presa semmai con speciali maggioranze. Ma qui è ovviamente il punto: tale soluzione è invero prevista, in ambito comparatistico, da alcuni sparuti ordinamenti, e tra questi v’è già Israele rispetto a puntiformi disposizioni delle Basic Laws del 1992 sui diritti fondamentali (è insomma previsto che ove queste specifiche disposizioni fungano da parametro in un giudizio di costituzionalità, un override parlamentare è possibile); è di solito accompagnata da limiti di vigenza temporale e relativi ai possibili parametri costituzionali interessati[12]; la proposta in discussione è invece anzitutto relativa alla generalizzazione di tale istituto (relativamente ad ogni possibile parametro di costituzionalità, anche fondamentale), può condurre a ri-affermazioni di vigenza permanenti della legge censurata, e soprattutto si calerebbe in un contesto ordinamentale in cui, s’è detto, non esistono procedimenti legislativi aggravati per l’adozione di Basic Laws (donde il rischio che la disciplina costituzionale parametro sia sostanzialmente messa in dubbio, nella sua effettività, dalla successiva deliberazione che deroghi alla sua applicazione giudiziale), e la maggioranza assoluta di 61 deputati su 120 è usualmente appannaggio della coalizione governativa (donde il rischio che una mera maggioranza politica possa sovvertire in ogni caso decisioni giudiziali di incostituzionalità).
Ancora sostanzialmente collegata è la quarta dimensione del proposto intervento, che attiene alla volontà governativa di vietare ex lege ogni modalità di censura giudiziale dell’azione amministrativa sub forma di controllo di ragionevolezza.
Il vaglio giudiziale della ragionevolezza dell’azione amministrativa è istituto antico che appartiene ab origine all’ordinamento giuridico israeliano: come noto, tale ordinamento s’è modellato sin da principio con aderenza alla tradizione di common law britannica, che era unificante law of the land ai tempi del Mandato britannico in Palestina precedenti al 1948[13]. È importante rimarcare che all’aderenza a tale tradizione Israele deve anche la cd. original jurisdiction della Corte suprema quale Alta Corte di giustizia (High Court of Justice), supremo tribunale amministrativo destinato, in via diretta, al vaglio degli atti governativi e delle pubbliche autorità[14], che si affianca alla sua appellate jurisdiction quale organo di vertice dell’ordinamento per le questioni civili e penali.
Ciò si rimarca al fine di comprendere come la proposta in discussione sia, nuovamente, indirizzata contro il perenne idolo polemico dell’attuale maggioranza politica conservatrice d’Israele: la Corte suprema, rea in questo caso di avere sviluppato appunto quale Alta Corte di giustizia, a partire dalla fine degli anni ‘70, una invero assai largheggiante giurisprudenza tesa alla sostanziale eliminazione, per via interpretativa, delle principali restrizioni procedimentali al potere di scrutinio degli atti amministrativi e dell’esecutivo, ed in particolare dei requisiti di justiciability (idoneità di una controversia a essere decisa da un giudice) e di standing (legittimazione/interesse ad agire), e che avevano in precedenza impedito di pronunciarsi su molte delle questioni portate, anche informalmente od irritualmente, dinanzi ad essa[15]. La trasposizione di questa innovativa giurisprudenza (in larga parte imputabile all’ispirazione teorica del presidente della Corte Aharon Barak[16], che poi sarà nel decennio successivo il fautore della proclamata «rivoluzione costituzionale» cui s’è accennato) ai procedimenti conosciuti in veste di Alta Corte di giustizia ha finito per conformare un modello di giustizia amministrativa fortemente aperto alle istanze provenienti dalla società, pronto ad affrontare ogni tipo di questione sensibile anche di natura militare, facendo giustizia del motto «everything is justiciable» con cui era stato apertamente teorizzato[17]. La Corte ha in tal senso da decenni strategicamente aperto le proprie porte a pressoché ogni tipologia di attore sociale e di sue doglianze; si è così costruita un ruolo centrale nel vaglio di legittimità dei poteri amministrativi e poi anche legislativi e financo di normazione costituzionale, esercitato sino a censurare, di recente, proprio anche sub forma di vaglio di ragionevolezza, l’abuso del procedimento legislativo[18], l’abuso delle forme delle Basic Laws[19], oltre che la violazione dei principi costituzionali.
Evidente allora che la contestazione governativa oggi in discussione non attiene di per sé al vaglio giudiziale di ragionevolezza, ma all’impiego, invero pervasivo, che la Corte ne ha fatto da decenni, sulla scorta di una giurisprudenza largheggiante ma mai sinora messa in discussione.
Da ultimo, la disamina va completata con la quinta dimensione del proposto intervento, che mira alla relativizzazione dell’importante, e “costituzionalizzato”[20], ruolo dell’Attorney General.
Tale organo, monocratico, si ispira anch’esso a forme di common law, ma assume nell’ordinamento israeliano un’originale postura. Anziché essere parte della compagine di governo, come omologhi organi in similari sistemi, ne è una sorta di consigliere giuridico, che però s’atteggia a mo’ di autorità indipendente: lo rappresenta in giudizio, sovraintende alla pubblica accusa, formula pareri, spesso obbligatori[21]. Ma, proprio alla luce dell’indipendenza che gli è conferita, l’azione e i pareri dell’Attorney General sono prese di posizione che spesso impegnano, malvolentieri, il governo.
La proposta è di rimodulare la configurazione dell’Attorney General, trasformandolo da organo indipendente a mero consulente posto nei ranghi del Ministero della giustizia, a rendere i pareri del medesimo espressamente non vincolanti per il governo, a consentire ai ministri di svincolarsi dalla necessaria rappresentanza giudiziale dell’Attorney mediante la possibilità di rappresentanza su base volontaria da parte del libero foro, in caso di differenza di vedute con costui.
Ovviamente, ha attratto critiche la posizione di un governo non solo esplicito nella sua volontà di diminuire la possibilità di vaglio da parte dei giudici sul proprio operato, ma anche riluttante ad accettare in tal ottica le prese di posizione dell’Attorney General[22].
3. Perché un paradigma?
Il tentativo di judicial overhaul israeliano, così sommariamente descrvibile, è in più sensi paradigmatico.
È anzitutto indicativo di una recrudescenza nelle dinamiche di conflitto tra poteri che sono tipiche, da decenni, in Israele.
L’idea di una «rivoluzione costituzionale» consumatasi negli anni Novanta, e conducente a pieni poteri di controllo di costituzionalità delle leggi da parte della Corte suprema, in un paese che non ha una costituzione unidocumentale e rigida, è da decenni il paradigma interpretativo maggiormente accettato, ma non è mai stata avallata in senso univoco da ogni strato della complessa, plurale popolazione israeliana. Ciò vale, in generale, per parte significativa del fronte conservatore, ed in particolare vale per i plurimi fronti conservatori religiosi, che temono da sempre un sovvertimento dei delicati equilibri politici di un paese che, sin nella propria Dichiarazione d’indipendenza del 1948, s’è proclamato «Jewish and democratic»: ossia, temono il potenziale impatto laicizzante che l’applicazione iussu iudicis di principi costituzionali liberal-democratici potrebbe avere, ad esempio in settori simbolici ma altamente sensibili quali la gestione pluralistica su base religiosa dei regimi di diritto di famiglia[23] o le storiche esenzioni, pure su base religiosa, dal servizio militare[24].
Da tale constatazione deriva un primo elemento di contingenza da sottolineare: già si erano registrati, da almeno quindici anni, tentativi «contro-rivoluzionari» da parte del potere politico di riaffermazione della propria primazia rispetto alla proclamazione pretoria del potere di controllo di costituzionalità delle leggi, anche nelle gravi forme oggi proposte (o, rectius, riproposte)[25]; la proposta di riforma in discussione però li riunisce, ed è avanzata in un frangente in cui la dinamica politica può concretamente condurre ad una sua adozione.
Occorre infatti considerare che almeno sin dal 2007, e dunque subito successivamente al ritiro di Aharon Barak dalla sua presidenza (e quale carismatica guida), gli attacchi politici alla Corte iniziarono a concretarsi. Chi si fece primo promotore di quella che sarebbe divenuta una serie ripetuta di tentativi di contenimento del potere giudiziario fu l’allora ministro della giustizia Daniel Friedmann, un illustre accademico già voce critica rispetto al tralaticio sistema di nomine giudiziali nel paese[26], e che avrebbe poi anche nella propria produzione scientifica evidenziato aspre critiche sulla «rivoluzione» giudiziale[27]. Fu nell’ambito del suo mandato che si iniziò a prefigurare l’impiego di quel tipico arsenale di metodi che gli studi comparatistici tradizionali e le riflessioni svolte ci fanno facilmente prefigurare, e che s’attualizzano oggi.
In linea con le ragioni critiche del passato, egli propose anzitutto una riforma del sistema di selezione dei giudici, ed in particolare di quelli della Corte suprema, nella prospettiva di un «court packing»[28] in chiave conservatrice, ossia di una ridefinizione degli equilibri di forza al suo interno[29]: ciò in particolare ragionando della possibile riforma della Basic Law: the Judiciary così da emendare la composizione di quel Judicial Selection Committee tradizionalmente incaricato delle nomine, e tradizionalmente dominato dagli stessi giudici della Corte suprema, capaci dunque di porre in atto, sino a quel momento, una sostanziale politica di cooptazione rispetto a professionalità e sensibilità affini.
Altra proposta fu quella di ridefinizione, addirittura mediante legge ordinaria, dell’ambito delle Basic Laws capaci di fungere da parametro in un giudizio di costituzionalità: giacché, da parte critica, si considerava che tra le varie questioni lasciate aperte dal caso United Mizrahi Bank del 1995 vi fosse quella di quali leggi fondamentali potessero fondare i nuovi poteri giudiziali, se solo quelle nuove sui diritti umani del 1992 od anche, opportunamente interpretate, anche quelle passate ed eventuali future[30]. A ciò, viste le polemiche sorte dalla sentenza che per prima aveva interessato la materia[31], si accompagnava l’idea di emendare la Basic Law: Human Dignity and Liberty, cui pur confermare il potenziale valore parametrico, così da esentare le leggi relative alla cittadinanza, visto il loro potenziale simbolico, dal vaglio di costituzionalità[32].
Ancora, si propose di emendare sin da quell’epoca, in altri sensi, la Basic Law: the Judiciary: in particolare prevedendo ex lege la possibilità di judicial review of legislation solo da parte della Corte suprema (mirando a risolvere le pur registratesi incertezze sulla natura diffusa o accentrata dei relativi poteri[33]), e solo mediante deliberazioni di collegi di almeno nove giudici, con almeno due terzi dei voti dei giudicanti in favore (mirando a sradicare i pur registratisi episodi di deliberazioni di invalidità a composizione ristretta).
Non solo. Sostanziando appieno l’idea di una «contro-rivoluzione» chiamata a sradicare i frutti della «rivoluzione» di Barak, e dunque in primis l’idea della judicial supremacy fondata sul potere di controllo di costituzionalità delle leggi, si propose la positivizzazione di un generale potere di ovverride da parte della Knesset rispetto ai dicta giudiziali: così che, nella configurazione dei disegni dell’epoca (comunque più garantistica rispetto a quella oggi propalata), una super-maggioranza di 70 membri su 120 della camera rappresentativa potesse rendere inefficace una dichiarazione di incostituzionalità, riasserendo validità ed efficacia della disciplina di legge censurata[34].
Nessuna delle proposte suddette si fece effettivamente strada, in quell’iniziale frangente come poi successivamente. Ciò nonostante ognuna di esse sia stata destinata a riemergere a più riprese nel dibattito pubblico, ad esempio nel 2012[35] e poi ancora recentemente con il mandato al ministero della giustizia della combattiva conservatrice Ayelet Shaked, la quale propose già in quel frangente l’idea, oggi tornata à la page, di un generale override power legislativo a sola maggioranza assoluta[36].
Solo, nel 2008, s’è emendata la disciplina del Judicial Selection Committee (la cui composizione pur rimase intatta) al fine di richiedere la cennata speciale maggioranza di sette membri su nove per nominare i giudici della Corte suprema: ciò motivando sulla base della delicatezza del ruolo, ma sostanzialmente nella speranza, già in effetti oggi in essere, di ribaltare le usuali dinamiche interne all’organo, che vedevano il sostanziale controllo delle nomine da parte dei giudici stessi, presenti nel Committee nel numero di tre, d’intesa coi membri dell’avvocatura, presenti nel numero di due, e così da privilegiare il peso dei componenti politici (due membri governativi e due membri parlamentari)[37]. Riforma parziale che però non ebbe effetti dirompenti, anzi avendone in fondo di condivisibili: richiamando ad un necessario vasto consenso nelle procedure di nomina, senza possibilità di preponderanze tra frange diverse di componenti.
Va dunque ben inteso in che senso si sottolinei tale primo elemento di contingenza: analoghi tentativi di «contro-rivoluzione» rispetto a quelli odierni si registrano, appunto, da quindici anni almeno; essi però non hanno mai incontrato, nel sistema parlamentaristico israeliano fondato sulla formula proporzionale e dunque indefettibilmente su governi di coalizione[38], l’ampio supporto necessario tra le forze politiche delle varie maggioranze succedutesi, pur se spesso conservatrici e dunque generalmente ostili rispetto all’attivismo considerato liberal della Corte[39].
Terminato tuttavia l’esperimento del governo di larga coalizione Bennett-Lapid in carica tra il 2021 e il 2022 (fondatosi sulla conventio ad excludendum «rak lo Bibi», ossia “tutti dentro fuorché Bibi Netanyahu”), il governo Netanyahu VI oggi in carica si presenta come un potenziale sovvertimento delle dinamiche politiche degli scorsi anni. Esso gode nella Knesset di una maggioranza di supporto solida, che ammonta a 64 deputati su 120; e si fonda su una coalizione che può dirsi quella più a destra della storia di Israele, che federa gli storici alleati ultraortodossi Shas e United Torah Judaism e per la prima volta formazioni di destra radicale quali Otzmà Yehudit, Tkumà e Noam, rispetto alle quali il Likud è, insolitamente, “ala moderata”; e che è resa vieppiù omogenea dalla precedente, risentita esperienza all’opposizione.
Quel che insomma non s’era concretato negli scorsi due decenni, ossia una convergenza di forze conservatrici, sia religiose che più laiche, programmaticamente ostili, nel conflitto tra poteri, rispetto alla Corte e al suo operato, e pronte per ciò a sovvertire il sistema costituzionale, oggi viene in essere: tanto che, in punto di contingenza politica, va registrato che non solo (s’è accennato) la proposta riforma era parte del programma elettorale espressamente propalato dall’attuale maggioranza, e siglato dalle sue forze componenti, ma che, addirittura, in simultanea rispetto alla sua presentazione, che è tesa alla ridefinizione dei poteri costituzionali della Corte, il governo è pure al lavoro sul sensibile tema dell’ampliamento simmetrico dei poteri delle Corti rabbiniche, nell’idea di facoltizzarle ad agire da arbitri in materia civile sulla base del diritto religioso in presenza di accordo delle parti in conflitto – ma dunque ulteriormente tendendo alla delegittimazione del sistema giudiziario civile, e attentando all’uniformità ordinamentale e di trattamento dei cittadini[40].
Il fatto che anche il Likud, quale “ala moderata” di coalizione e soprattutto quale partito tradizionale, sia ormai decisamente spinto ad esacerbare il conflitto tra poteri - almeno ad oggi, e nonostante qualche primo timido recentissimo ripensamento[41] - deriva poi da un secondo elemento di contingenza, che pure va sottolineato.
Benjamin Netanyahu, leader del Likud, è dal 2020 imputato per frode e corruzione dinanzi alla District Court di Gerusalemme. Ciò non solo comporta ragioni nuove di tensione tra coalizione di governo e ordine giudiziario, che aggravano quelle già esistenti e di cui s’è detto; ma ha comportato ripetuti interventi dell’Attorney General che hanno stigmatizzato il conflitto d’interessi del primo ministro rispetto alla proposta riforma giudiziaria, e lo hanno invitato a non assumere, nell’iter legis, un ruolo attivo, in ottemperanza al patto da lui stesso siglato nel 2020[42], su invito proprio dell’Attorney General, per continuare a rivestire legittimamente cariche pubbliche di governo nonostante la delicata posizione assunta[43]. Si è recentemente arrivati addirittura all’approvazione di una specifica disciplina di legge che garantisce l’impossibilità di rimozione del primo ministro dall’incarico per ordine giudiziario, evidentemente fondata sul timore che l’Attorney General potesse richiedere alla Corte suprema misure del genere contro Netanyahu: e subito successivamente all’approvazione di tale discutibile disciplina novella, il primo ministro ha ripreso senza requie il proprio battage polemico sul tema[44].
Ciò spiega facilmente, già di per sé, perché la proposta di riforma sia largamente indirizzata contro la figura indipendente dell’Attorney General, oltre che contro l’ordine giudiziario organizzato.
Va poi ulteriormente rimarcato come, nel sistema israeliano, il circuito Attorney General - High Court of Justice si sia reso depositario di prerogative invero ampie, e di scarsa diffusione, per come delineatesi, a livello comparatistico.
Tra queste vi è quella del vaglio di ammissibilità dei candidati a ruoli parlamentari e di governo: talvolta sulla base di discipline di legge specifiche, tra cui quella di cui all’articolo 7a comma 2 della Basic Law: the Knesset che impedisce la candidatura nell’assemblea a chi inciti al razzismo; talaltra sulla base, più discutibile, di un vaglio di ragionevolezza della candidatura rispetto a elementi ostativi pregressi. Su tali fondamenti si sono registrate esclusioni quali quelle, recenti, dell’estate 2019 relativa alla rimozione dal seggio dei deputati della destra radicale ebraica Gopstein e Marzel[45] - membri del partito Otzma Yehudit dell’attuale Ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir - e del leader del partito Shas Aryeh Deri nel gennaio 2023 quale Ministro dell’interno dell’attuale compagine di governo, giacché reo di evasione fiscale e pregressi episodi corruttivi[46].
Anche in tal ottica, risultano evidenti gli elementi di tensione diretta tra maggioranza governativa attuale e ordine giudiziario.
V’è poi una contingenza che potremmo definire comparatistica, ossia che accomuna Israele ad altri ordinamenti nell’attuale temperie.
A più riprese, nell’inusuale lunga serie di governi guidati da Benjamin Netanyahu tra il 2009 e il 2021 (che è coincisa, non a caso, con la gran parte delle iniziative «contro-rivoluzionarie» che abbiamo descritto) i commentatori hanno ragionato di tendenze populiste della politica israeliana, quando non proprio di arretramento delle sue credenziali democratiche. Si sono stigmatizzati i ripetuti attacchi al potere giudiziario e all’indipendenza della figura dell’Attorney General[47], su cui ci siamo soffermati; ma anche l’adozione di nuove discipline penalizzanti nei confronti delle ONG, ampiamente attive nel paese nell’ambito della tutela dei diritti umani[48]; la centralizzazione del ruolo del Committee of Ministers on Legislation così da controllare, da parte governativa, il calendario dei lavori parlamentari[49]; l’avocazione in capo al primo ministro di plurime deleghe diffusamente esercitate[50].
S’è dunque molto ragionato in tema di preteso coinvolgimento del paese nelle odierne globali tendenze di «constitutional retrogression», o «constitutional capture» o «democratic decay»[51] che dir si voglia: le quali, secondo gli studiosi che più da vicino le hanno studiate, «drawing on comparative law and politics analysis», si invererebbero attorno a cinque tipiche dinamiche istituzionali, ossia la revisione costituzionale, l’eliminazione degli istituti di garanzia, la centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, la contrazione o distorsione della sfera pubblica, l’eliminazione della competizione politica[52].
In particolare, specie in punto di eliminazione degli istituti di garanzia e di centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, l’attacco all’indipendenza e alla funzionalità della magistratura è tipico di tali tendenze, e ben conosciuto anche in ordinamenti a noi prossimi, persino appartenenti all’Unione europea: si pensi agli ormai noti «usual suspects» Polonia e Ungheria, già oggetto di plurime censure da parte della Commissione europea e della Corte di giustizia in proposito[53], ma anche a casi meno noti come la Romania, ove recenti riforme giudiziarie hanno attirato critiche da parte dei commentatori e delle stesse istituzioni sovranazionali[54].
Proprio dall’accostamento tra analoghe tendenze alla tensione tra potere politico e ordine giudiziario, e a riforme limitanti la capacità della magistratura di svolgere in via indipendente il proprio ruolo, vari analisti hanno potuto osservare, soffermandosi anche su Israele, che «le somiglianze nelle misure adottate in diversi sistemi giuridici e politici, in contesti storici radicalmente diversi, suggeriscono non solo un certo grado di comunanza di idee e obiettivi, ma anche una certa condivisione di esperienze e pratiche da parte di forze illiberali»[55].
Il fenomeno dello scivolamento verso tendenze autocratiche è indubitabile, e certo simile a quello di altri ordinamenti - sebbene nei contesti dell’Est Europa vengano in rilievo mancate compiute transizioni costituzionali di origine relativamente recente, posteriore al collasso dei sistemi socialisti[56], mentre in Israele, vedremo specificamente, il fenomeno è più radicato e, se vogliamo, strutturale, ossia relativo ad un programma di costituzionalizzazione frustrato sin da principio.
L’osservazione di tali tendenze è comunque rilevante, e deve condurci ad una connessa, necessaria, e forse più approfondita riflessione, che pure riecheggia teorizzazioni già svolte proprio relativamente alle esperienze di democratic backsliding dei paesi dell’Est Europa e che ben si attagliano alla nostra analisi degli sviluppi israeliani.
Kim Lane Scheppele, nota studiosa di Princeton, ha icasticamente descritto le riforme costituzionali ungheresi degli scorsi anni come una sorta di sindrome di Frankenstein, proprio nel senso del romanzesco personaggio mostruoso di Mary Shelley, capaci di condurre a un «Frankenstate»[57]: ciò al fine di sottolinearne il potenzialmente mostruoso effetto cumulativo, nonostante la possibile opinabilità di alcune di esse, e al fine di dissuadere gli osservatori, in tempo di tendenze globali al democratic backsliding, dal commentare riforme costituzionali simultanee una ad una, partitamente, nei loro aspetti magari innocui o similari ad altre esperienze comparatistiche, senza considerare il disegno complessivo capace di creare per accumulo, appunto, mostruosità costituzionali.
Tale insegnamento è di particolare utilità per l’analisi della proposta riforma in Israele.
Singolarmente prese, e a un occhio profano, le riforme attualmente suggerite possono sembrare relativamente innocenti, o essere vagamente giustificate proprio anche in ottica comparatistica - e ciò è stato puntualmente fatto nel corso del dibattito degli scorsi mesi[58]: in fondo assegnare le nomine giudiziarie apicali al controllo del governo in carica non è soluzione sconosciuta a ordinamenti liberal-democratici, persino prototipici come quello degli Stati Uniti d’America; richiedere una maggioranza speciale in un collegio giudiziale per la censura costituzionale delle leggi parlamentari può essere una soluzione inedita, ma prima facie forse nemmeno irragionevole, al problema storico, già cennato e onnipresente nelle teorizzazioni in materia, della cd. counter-majoritarian difficulty, specialmente sentito ove non si incarichi per disciplina costituzionale positivizzata un organo ad hoc di tale compito, come invece nella tradizione europea[59]; la stessa idea di consentire all’assemblea parlamentare di sovvertire ex post gli effetti delle decisioni giudiziali di illegittimità costituzionale non è esperienza sconosciuta, anzi è ispirata a modelli noti, Canada e Finlandia su tutti, già persino trasposti in via puntiforme in Israele[60]; e le specificità dei ruoli dell’Attorney General nel sistema israeliano, e la potenziale pervasività della sua figura, risultano certo inedite ad uno sguardo d’altrove, e dunque può non sembrare assurdo concepire una riforma di tali aspetti.
È evidente però che la simultanea proposta di tali riforme non sia un caso, e il suo significato vada apprezzato organicamente, nell’interezza: connotandosi dunque, a prescindere dalla opinabilità di alcuni aspetti, come un sicuro affronto all’equilibro nella separazione tra i poteri, e fondato sull’esercizio di un fenomeno pure ormai noto agli studiosi di diritto costituzionale comparato, quello del cd. abusive constitutional borrowing, ossia sull’«appropriazione di modelli, concetti e dottrine costituzionali liberal-democratici, al fine di far avanzare progetti autoritari»[61]. Difatti, il successo del diritto costituzionale comparato, conclamatosi negli scorsi decenni, e che ha condotto alla rapida diffusione globale di istituti di marca liberal-democratica, porta con sé possibili dinamiche perverse: tra le quali quella che pare in atto proprio in Israele, come anche in altri ordinamenti, ossia la manipolazione e decontestualizzazione di modelli ed esperienze stranieri, asserviti strumentalmente alla giustificazione di soluzioni che tendono a limitare o corrompere, comunque a strumentalizzare, nozioni e istituti che negli ordinamenti di riferimento hanno avuto e hanno ben altro significato[62].
[1] Per una compiuta disamina sul tema si rinvia a «La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale», in Giustizia Insieme, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 507.
[2] Che già ha interrotto il denunziato precedente sostanziale dominio da parte dei giudici della Corte suprema nel consesso, considerati sino a quella data capaci di porre in atto una sostanziale politica di cooptazione rispetto a professionalità e sensibilità affini (deliberando a maggioranza semplice con il voto, tradizionalmente concorrente, dei rappresentanti dell’avvocatura e/o almeno di alcuni dei rappresentanti politici).
[3] United Mizrahi Bank PLC v. Migdal Cooperative Village (1995) 49 (iv) PD 221.
[4] Ex pluribus T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione della giustizia costituzionale in una democrazia conflittuale, in Giurisprudenza costituzionale, 2000, p. 3543, 3554; Z. Segal, The Israeli Constitutional Revolution: the Canadian Impact in the Midst of a Formative Period, in Forum Constitutionnel, 1997, p. 53, 54; M. Halberstam, Judicial Review, A Comparative Perspective: Israel, Canada, and the United States, in Cardozo Law Review, 2010, p. 2393, 2424; ed estesamente sul raffronto Y. Rabin, A. Gutfeld, Marbury v. Madison and its Impact on the Israeli Constitutional Law, in University of Miami International & Comparative Law Review, 2000, p. 303; criticamente infine M. Troper, Marshall, Kelsen, Barak and the Constitutionalist Fallacy, in International Journal of Constitutional Law, 2005, p. 24.
[5] M. Luciani, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, p. 1643, 1652: «È noto che si possono contrapporre due modelli di sviluppo costituzionale: quello britannico dell’evoluzione delle regole fondamentali della convivenza sociale attraverso il graduale sviluppo delle leggi, delle consuetudini, della giurisprudenza, e quello continentale dell’evoluzione attraverso passaggi ordinamentali, rotture della continuità, momenti - cioè - costituenti. L’idea della radicalità di tale contrapposizione, molto diffusa tra Ottocento e Novecento, è in realtà risalente: la ritroviamo, in particolare, nella tesi ciceroniana della superiorità della forma di governo romana (“quam patres nostri nobis acceptam iam inde a maioribus relinquerunt”) proprio in ragione della gradualità dei suoi sviluppi».
[6] Per approfondimenti sulla ricostruzione teorica sottostante v. da ultimo S. Gardbaum, What is Judicial Supremacy?, in G.J. Jacobshon, M. Schor (a cura di), Comparative Constitutional Theory, Cheltenham,, 2018, p. 21.
[7] Secondo la nota locuzione di D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, in Constellations, 2009, p. 429
[8] Cfr. Y. Roznai, Unconstitutional Constitutional Amendments: The Limits of Amendment Powers, Oxford, 2017, e, per riferimenti tradizionali, O. Bachof, Verfassungswidrige Verfassungsnormen?, Tubinga, 1951.
[9] In primis A.M. Bickel, The Least Dangerous Branch: The Supreme Court at the Bar of Politics, New Haven, 1986, specie pp. 34 e ss.; sulla «ossessione» di certa dottrina costituzionalistica, specie nordamericana, per la questione v. B. Friedman, The Birth of an Academic Obsession: The History of the Countermajoritarian Difficulty, Part Five, in Yale Law Journal, 2002, p. 153.
[10] Per una utile summa in italiano del dibattito in materia può vedersi L. Mezzetti, Teoria della giustizia costituzionale e legittimazione degli organi di giustizia costituzionale, in Estudios Constitucionales, 2010, p. 307.
[11] Si v. ad es. rispetto al paradigma costituito dalla nota Section 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms, nella dottrina italiana, G. Gerbasi, Problematiche costituzionali sulla clausola nonobstant di cui all'art. 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms, in C. Amirante, S. Gambino (a cura di), Il Canada. Un laboratorio costituzionale, Padova, 2000, p. 241.
[12] V. appunto Sez. 33 della Canadian Charter of Rights and Freedoms: «33. (1) Parliament or the legislature of a province may expressly declare in an Act of Parliament or of the legislature, as the case may be, that the Act or a provision thereof shall operate notwithstanding a provision included in section 2 or sections 7 to 15 of this Charter. (2) An Act or a provision of an Act in respect of which a declaration made under this section is in effect shall have such operation as it would have but for the provision of this Charter referred to in the declaration. (3) A declaration made under section (1) shall cease to have effect five years after it comes into force or on such earlier date as may be specified in the declaration. (4) Parliament or the legislature of a province may re-enact a declaration made under section (1). (5) Section (3) applies in respect of a re-enactment made under section (4)».
[13] Lo sottolinea opportunamente oggi, discutendo della riforma, R. Ziegler, The British Are Not Coming: Why You Can't Compare Israel's Proposed Legal Overhaul to the UK System, in Haaretz, 7.2.2023, disponibile al sito https://www.haaretz.com/opinion/2023-02-07/ty-article-opinion/.premium/the-british-are-not-coming-why-you-cant-compare-israels-legal-overhaul-to-the-uk/00000186-2cdb-d2f6-afe6-3dffe4880000.
[14] Sulla storia dell’istituzione v. da ultimo Y. Sagy, The Missing Link: Legal Historical Institutionalism and the Israeli High Court of Justice, in Arizona Journal of International and Comparative Law, 2014, p. 703.
[15] D. Barak-Erez, Broadening the Scope of Judicial Review in Israel: Between Activism and Restraint, in Indian Journal of Constitutional Law, 2009, p. 118, 119 ss.
[16] Facciamo soprattutto riferimento, a livello di pubblicistica internazionale, ad A. Barak, Judicial Discretion, New Haven, 1989; Id., Forward: A Judge on Judging: The Role of a Supreme Court in a Democracy, in Harvard Law Review, 2002, p. 119; Id., Purposive Interpretation in Law, Princeton, 2005; Id., The Judge in a Democracy, Princeton, 2006, su cui si v. anche H. Neuer, Aharon Barak’s Revolution, in Azure, 1998, p. 5758.
[17] Un modello che è stato definito di «iperattivismo giudiziario», e paragonato per apertura alle istanze sociali al sistema di giustizia costituzionale canadese, da T. Groppi, La Corte suprema di Israele: la legittimazione, cit., p. 3557, sulla scorta della definizione di Y. Dotam, Judicial Accountability in Israel: The High Court of Justice and the Phenomena of Judicial Hyperactivism, in Israeli Affairs, 2002, p. 87 ss.
[18] V. HCJ 10042/16 Quantiski v. the Israeli Knesset (Aug. 6, 2017), e il commento di Y. Bar-Siman-Tov, In Wake of Controversial Enactment Process of Trump’s Tax Bill, Israeli SC Offers a Novel Approach to Regulating Omnibus Legislation, in International Journal of Constitutional Law Blog, 13.12.2017, disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/12/in-wake-of-controversial-enactment-process-of-trumps-tax-bill-israeli-sc-offers-a-novel-approach-to-regulating-omnibus-legislation/.
[19] V. HCJ 8260/16 The Academic Center for Law & Business v. Israeli Knesset (Sept. 6,2017), e le riflessioni di S. Navot, Y. Roznai, From Supra-Constitutional Principles to the Misuse of Constituent Power in Israel, in European Journal of Law Reform, 2019, p. 403.
[20] Giacché il suo ruolo è positivizzato tanto nella Basic Law: the Judiciary (1984) che nella Basic Law: the Government (2001).
[21] Sulla figura in extenso E. Ottolenghi, La forma di governo, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, Torino, 2006, p. 111.
[22] J.H.H. Weiler, Israel: Cry, the Beloved Country, in Verfassungsblog, 1.2.2023, disponibile al sito https://verfassungsblog.de/cry-beloved-country/.
[23] Cfr. in merito E. Ottolenghi, Profili storici e A.M. Rabello, Costituzione e fonti del diritto, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, cit., 11 ss.; G. Tedeschi, Le Centenaire de la Mejelle, in Revue internationale. de droit comparé, 1969, p. 125.
[24] Sul punto cfr. la ricostruzione recente di D. Ellenson, The Supreme Court, Yeshiva Students, and Military Conscription: Judicial Review, the Grunis Dissent, and its Implications for Israeli Democracy and Law, in Israel Studies, 2018, p. 197.
[25] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit.
[26] Ivi, 440.
[27] D. Friedmann, The Purse and the Sword: The Trials of Israel's Legal Revolution, Oxford, Oxford University Press, 2016: su cui, criticamente e in chiave comparatistica, F.I. Michelman, Israel’s “Constitutional Revolution”: A Thought from Political Liberalism, in Theoretical Inquiries in Law, 2018, p. 745.
[28] Il riferimento è ovviamente all’antecedente del Judicial Procedures Reform Bill of 1937 nordamericano, con cui il Presidente Franklin D. Roosevelt si propose di emendare le procedure di selezione dei giudici della Corte suprema U.S.A. al fine di ottenere giudizi più favorevoli rispetto alla legislazione sul New Deal; per una recente ricostruzione storica in materia, si v. J. Braver, Court-Packing: An American Tradition?, in Boston College Law Review, 2020, p. 2747.
[29] D. Izenberg, Friedmann Urges Revamping Judges Selection Committee, in Jerusalem Post, 27.3.2007, disponibile al sito www.jpost.com/israel/friedmann-urges-revamping-judges-selection-committee.
[30] C. Price, Israel Cabinet Backs Bill Restricting Supreme Court Review Power, in Jurist.org - Legal News and Commentary, 7.9.2008, disponibile al sito www.jurist.org/news/2008/09/israel-cabinet-backs-bill-restricting/.
[31] HCJ 7052/03 Adalah v. Minister of the Interior (2006) 2 TakEl 1754.
[32] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit., 440.
[33] Su cui v. O Aronson, The Democratic Case for Diffuse Judicial Review in Israel, cit., e, volendo, L. Pierdominici, Diffusione e concentrazione del giudizio di costituzionalità delle leggi in Israele. L’ottica del conflitto tra poteri, in D. Butturini, M. Nicolini (a cura di), Giurisdizione costituzionale e potere democraticamente legittimato, vol. II, Bologna, Bononia University Press, 2017, p. 183.
[34] D. Navot, Y. Peled, Towards a Constitutional Counter-Revolution in Israel?, cit., 440.
[35] A. Bottorf, Israel Bill Would Allow Parliament to Overturn Supreme Court Decisions Cabinet Backs Bill Restricting Supreme Court Review Power, in Jurist.org - Legal News and Commentary, 9.4.2012, disponibile al sito www.jurist.org/news/2012/04/israel-bill-would-allow-parliament-to-overturn-supreme-court-decisions.
[36] Si v. criticamente A. Harel, The Israeli Override Clause and the Future of Israeli Democracy, in Verfassungsblog – On Matters Constitutional, 15.5.2018, disponibile al sito verfassungsblog.de/the-israeli-override-clause-and-the-future-of-israeli-democracy.
[37] Y. Levy Ariel, Judicial Diversity in Israel: An Empirical Study of Judges, Lawyers and Law Students, tesi dottorale depositata alla Faculty of Laws, University College London, disponibile al sito www.ucl.ac.uk/judicial-institute/sites/judicial-institute/files/judicial_diversity_in_israel.yla__1.pdf, p. 50 ss.
[38] E. Ottolenghi, La forma di governo, in T. Groppi, E. Ottolenghi, A.M. Rabello (a cura di), Il sistema costituzionale dello stato di Israele, cit., 79 ss.
[39] M. Mautner, Law and the Culture of Israel, Oxford, 2011, p. 159 ss.
[40] J. Ari Gross, Bills to ban hametz, expand powers of rabbinic courts breeze through committee, in Times of Israel, 19.2.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/bills-to-ban-hametz-expand-powers-of-rabbinic-courts-breeze-through-committee/.
[41] A. Obel, M. Bachner, Two Likud MKs back Gallant’s call to pause overhaul; others urge PM to fire him, in Times of Israel, 26.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/several-likud-mks-back-gallants-call-to-pause-overhaul-others-urge-pm-to-fire-him/.
[42] J. Federman, Israel’s Netanyahu pressed to sign conflict-of-interest deal, in Associated Press News, 10.9.2020, disponibile al sito https://apnews.com/article/trials-israel-virus-outbreak-benjamin-netanyahu-910eaed8d1ad6e8d985858c55931450e.
[43] I. Debre, Israeli AG warns Netanyahu broke law on conflict of interest, in Associated Press News, 24.3.2023, disponibile al sito https://apnews.com/article/israel-netanyahu-politics-judicial-overhaul-protests-crisis-courts-aefbf9607a6e3a0e1bb5e3355e733043.
[44] T. Stann, L. Kerrer-Lynn, Knesset passes law shielding Netanyahu from court-ordered recusal 61-47, in Times of Israel, 23.3.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/knesset-passes-law-shielding-netanyahu-from-recusal-in-61-47-final-vote/.
[45] J. Magid, Supreme Court bans extreme-right Gopstein and Marzel from elections, in Times of Israel, 26.8.2019, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/supreme-court-bans-extreme-right-gopstein-and-marzel-from-election-race/.
[46] J. Sharon, AG: Deri’s appointment as minister ‘unreasonable in the extreme’, in Times of Israel, 4.1.2023, disponibile al sito https://www.timesofisrael.com/ag-deris-appointment-as-minister-unreasonable-in-the-extreme/.
[47] Si v. organicamente il report di D. Scheindlin, The Assault on Israel’s Judiciary, in The Century Foundation, 7.7.2021, disponibile al sito tcf.org/content/report/assault-israels-judiciary.
[48] C. Levinson, Netanyahu Seeks to Clamp Down on Human-rights Groups and Bar Funding from Foreign States, in Haaretz, 11.6.2017, disponibile al sito www.haaretz.com/israel-news/1.795078.
[49] Mediante un inedito accordo di coalizione che vincolava ogni parlamentare dei partiti di maggioranza al voto conforme agli indirizzi presi dal Committee ministeriale: lo rileva G. Stopler, Special Symposium–Part 2 of 7: Constitutional Capture in Israel, in International Journal of Constitutional Law Blog, 21.8.2017, disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/08/constitutional-capture-israel.
[50] N. Mordechay, Y. Roznai, A Jewish and (Declining) Democratic State? Constitutional Retrogression in Israel, in Maryland Law Review, 2017, p. 244, 257: «Governmental powers and government departments are concentrated in the hands of Prime Minister Netanyahu, reducing the weight of his coalition partners. At a certain point, Prime Minister Netanyahu has simultaneously been Israel’s Prime Minister, Foreign Minister, Communications Minister, Economy Minister, and Regional Cooperation Minister». La stessa Corte suprema fu investita, quale Alta Corte di giustizia, della questione, giudicata legittima nella sua transitorietà sebbene, espressamente, non opportuna: v. HCJ 3132/15 Yesh Atid v. Prime Minister of Israel (Apr. 13, 2016) (Isr.).
[51] Si v. almeno l’interessante dibattito online Symposium: Constitutional Capture in Israel? ospitato sulle pagine dell’International Journal of Constitutional Law Blog tra il 20.8.2017 e il 26.8.2017, la cui introduzione è disponibile al sito www.iconnectblog.com/2017/08/introduction-to-i-connecticon-s-il-symposium-constitutional-capture-in-israel/, nonché in italiano, volendo, L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, Padova, 2022.
[52] A. Huq, T. Ginsburg, How to Lose a Constitutional Democracy, in UCLA Law Review, 2018, p. 78, 118: «Drawing on comparative law and politics analysis of these cases, we then extract five specific mechanisms by which constitutional retrogression unfolds. These are: (i) constitutional amendment; (ii) the elimination of institutional checks; (iii) the centralization and politicization of executive power; (iv) the contraction or distortion of a shared public sphere; and (v) the elimination of political competition».
[53] Cfr. almeno L. Pech, K.L. Scheppele, Illiberalism Within: Rule of Law Backsliding in the EU, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies, 2017, p. 3, e, in italiano, G. Delledonne, Ungheria e Polonia: punte avanzate del dibattito sulle democrazie illiberali all’interno dell’Unione Europea, in DPCE online, 2020, p. 3999.
[54] E.S. Tănăsescu, The independence of justice as proxy for the rule of law in the EU - Case study – Romania, in Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, 1/2021, p. 103.
[55] M. Kremintzer, Y. Shany, Illiberal Measures in Backsliding Democracies: Differences and Similarities between Recent Developments in Israel, Hungary, and Poland, cit., 152: «it can be noted that the similarities in the measures taken across different legal and political systems, in radically different historical contexts, suggests not only some degree of commonality in ideas and goals, but also some sharing of experiences and practices by illiberal forces».
[56] Cfr. per un inquadramento, tra i vari, L. Mezzetti, Corrosione e declino della democrazia, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2019, p. 441.
[57] K.L. Scheppele, The Rule of Law and the Frankenstate: Why Governance Checklists Do Not Work, in Governance. An International Journal of Policy Administration and Institutions, 2013, p. 559.
[58] Lo sottolinea opportunamente anche J.H.H. Weiler, Israel: Cry, the Beloved Country, cit.
[59] A livello comparato, la previsione dei relativi poteri «expressis verbis in costituzione» è, o dovrebbe essere, la caratteristica fondamentale dei cd. sistemi accentrati di giustizia costituzionale: v. A.R. Brewer-Carias, Judicial Review in Comparative Law, Cambridge, 1989, p. 188; seppure proprio il caso di Israele sia una possibile eccezione, cfr. volendo L. Pierdominici, Diffusione e concentrazione del giudizio di costituzionalità delle leggi in Israele. L’ottica del conflitto tra poteri, cit.
[60] La Basic Law: Freedom of Occupation, emanata nel 1992, fu emendata già nel 1994, su pressione dei partiti religiosi, proprio in esito ad un primo suo sensibile impiego giudiziale, quando, nel caso Mitral Ltd. v. The Prime Minister, 47(5) P.D. 485 (1993) la Corte suprema stabilì la violazione della legge fondamentale in parola da parte della legislazione ordinaria che poneva limiti all’importazione in Israele di carne non kosher, ossia non macellata secondo le regole ebraiche tradizionali. In esito a quella riforma, subito successiva alla pronunzia giudiziale, anche quella Basic Law fu dotata di una notwithstanding clause, che disponeva: «(A) provision of a law that violates freedom of occupation shall be of effect, even though not in accordance with section 4, if it has been included in a law passed by a majority of the members of the Knesset, which expressly states that it shall be of effect, notwithstanding the provisions of this Basic Law; such law shall expire four years from its commencement unless a shorter duration has been stated therein». Si dotò dunque il parlamento dell’ultima parola in tema di costituzionalità di una normativa in materia, purché mediante votazione a maggioranza assoluta e con una disciplina necessariamente a termine quanto ai suoi effetti.
[61] R. Dixon, D. Landau, Abusive Constitutional Borrowing: Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford, 2021, p. 1 ss.: «Legal globalization has a dark side: norms intended to protect and promote liberal democratic constitutionalism can often readily be used to undermine it. Abusive constitutional borrowing involves the appropriation of liberal democratic constitutional designs, concepts, and doctrines to advance authoritarian projects. Some of the most important hallmarks of liberal democratic constitutionalism—including constitutional rights, judicial review, and constituent power—can be turned into powerful instruments to demolish rather than defend democracy».
[62] Cfr. in tal ottica T. Groppi, Il diritto comparato nel prisma delle regressioni democratiche. Recensione al volume di Rosalind Dixon e David Landau, Abusive Constitutional Borrowing. Legal Globalization and the Subversion of Liberal Democracy, Oxford University Press, 2021, in Diritticomparati.it, 28.9.2022, disponibile al sito https://www.diritticomparati.it/il-diritto-comparato-nel-prisma-delle-regressioni-democratiche-recensione-al-volume-di-rosalind-dixon-e-david-landau-abusive-constitutional-borrowing-legal-globalization-and-the-subversion-of-liber/.
Pubblichiamo un contributo dagli Atti del Convegno La magistratura e l’indipendenza. Dedicato a Giacomo Matteotti promosso da Questa Rivista che si è tenuto a Roma il 12 aprile 2024. Il fascicolo è a cura di Sibilla Ottoni, Michela Petrini, Marco Dell'Utri e Angelo Costanzo e si può leggere e scaricare a questo link.
Fenomeni di regressione costituzionale in Europa, il caso ungherese
di Simone Benvenuti
Sommario: 1. Le dimensioni istituzionale, sociale e culturale della regressione costituzionale – 2. L’integrità del giudice come anticorpo? – 3. La rilevanza della dimensione sovranazionale
1. Le dimensioni istituzionale, sociale e culturale della regressione costituzionale
Ringrazio molto gli organizzatori per l’invito. Mi pare anzitutto opportuno sottolineare a mo’ di premessa due punti essenziali[1]. Quando si tratta di dinamiche relative alla vitalità dell’indipendenza giudiziaria in seno a un ordinamento, i fattori sottostanti sono molteplici. C’è una multidimensionalità che occorre considerare, nel senso che non bisogna pensare ci sia una ragione unica a spiegare certi fenomeni. Per identificare gli antidoti, non si può perciò prescindere dalla delineazione di un quadro articolato.
In secondo luogo, con riguardo al fenomeno di regressione relativo a Paesi di “più recente” adesione, come l’Ungheria, la Polonia, la Romania, non deve dimenticarsi che da parte dell’Unione europea il processo di valutazione fu realizzato in tali ordinamenti attraverso il ricorso ai criteri di Copenaghen e il metodo di lavoro della Commissione è stato sempre caratterizzato da un approccio formalista all’indipendenza giudiziaria, così come ad altri profili costituzionali e ordinamentali.
Ritengo che occorra anzitutto partire da queste due premesse: multidimensionalità ed esigenza di guardare in un’ottica non formalista, attenta non solo alle norme scritte e alle istituzioni sulla carta. A emergere accanto alla dimensione istituzionale sono quelle sociale e culturale: prendere in considerazione anche queste solo permette in definitiva di far luce su situazioni problematiche che per altri versi possono riguardare anche Paesi dell’Europa occidentale, ma che assumono negli ordinamenti menzionati aspetti patologici.
Fatte queste premesse, mi preme sottolineare tre punti.
Il primo punto riguarda l’importanza del fattore storico-sociale. Non bisogna dimenticare che si tratta di ordinamenti che appartengono a una determinata area dell’Europea, con una sua storia, appunto l’area centro-orientale, peraltro caratterizzata da forte eterogeneità delle esperienze del costituzionalismo nella prima metà del Novecento ma i cui ordinamenti sono accomunati da un debole radicamento sociale della magistratura e del valore dell’indipendenza del giudice. C’è dunque anzitutto un problema di debole radicamento sociale.
E questo è importante perché il radicamento sociale è il primo bastione dell’indipendenza della magistratura. La cultura dell’indipendenza non è un fatto che riguarda solo i magistrati – si parla spesso del problema della diffusione della cultura dell’indipendenza presso i magistrati – bensì è un fatto culturale che riguarda un’intera società. Vorrei ricordare a questo riguardo un’osservazione che fa Paolo Ridola in un contributo all’interno di un volume curato da Beniamino Caravita e che ci interessa molto da vicino. Ridola ci ricorda che il tema del radicamento sociale, o meglio il problema dell’assenza di radicamento sociale della magistratura, è presente alla nostra Assemblea costituente nel momento in cui si è venuto delineando quel modello di consiglio superiore della magistratura elettivo e a composizione mista. Dunque, la presa d’atto dell’assenza di radicamento sociale ha determinato alcune decisive scelte istituzionali nell’Italia post-albertina.
Il secondo punto attiene ai fattori istituzionali. Se si guarda ai modelli istituzionali di governo della magistratura ad esempio in Ungheria e in Polonia, che sono i Paesi che evidenziano al massimo grado il processo di regressione, rispettivamente dopo il 2010 e del 2015, si tratta di modelli formalmente garantisti dell’autonomia della magistratura. Eppure, questo modello non appare essere stato in grado di garantire tale autonomia sul lungo periodo. Per comprendere le ragioni di ciò, non si può isolare il sistema giudiziario come fosse una monade disgiunta dal contesto, perché le riforme del 2011/2012 e poi quelle che incrementalmente sono intervenute nel corso del decennio sono in realtà intimamente legate alla situazione pre-2010.
Tali riforme esprimono anche una reazione a una debole “accountability” del giudice, democratica e non, del modello istituzionale pre-2010. Tale debole “accountability” (utilizzo il termine inglese perché abbraccia un concetto più ampio rispetto a quello nostro di responsabilità) è stata resa ancor più problematica dall’assunzione da parte degli organi giudiziari (che certo hanno loro canali di legittimazione democratica ma che rimangono prevalentemente organi a legittimazione tecnica) l’assunzione di una centralità nei processi decisionali politici, di “allocazione autoritativa dei valori”. Tutto ciò riguarda non solo la giustizia ordinaria, ma anche, ovviamente, la giustizia costituzionale. Il sistema politico ungherese della transizione è caratterizzato da una debolezza dell’organo rappresentativo in termini di capacità decisionale e dalla sostituzione, o supplenza, del giudiziario (si pensi alla nota decisione della Corte costituzionale ungherese sulla pena di morte) – e alcune tendenze possono essere lette come reazione a questa realtà di fatto: lo sbilanciamento nel rapporto tra i poteri. Si tratta, come vedete, di temi che sono a noi familiari.
Infine, guardando ai fattori che hanno determinato il processo di regressione del sistema giudiziario non bisogna perdere di vista la prospettiva sistemica. Se si prende a esempio l’Ungheria, ciò che noi chiamiamo regressione del sistema costituzionale ha inizio da un evento – le elezioni dell’aprile del 2010, che ha dato a una forza politica divenuta egemonica il potere di realizzare riforme costituzionali e non ad ampio spettro e tra queste una riforma del sistema giudiziario. Alla radice di quella regressione del sistema istituzionale è in altre parole una “window of opportunity” consentita dalla debolezza del disegno istituzionale – sistema elettorale estremamente deformante, procedura di revisione della costituzione “semplice” etc. Non si può quindi prescindere dal fatto che certi passi che sono stati fatti non sarebbero stati possibili se quel disegno istituzionale fosse stato efficiente.
2. L’integrità del giudice come anticorpo?
Ciò detto, emerge centrale il tema della presenza di controspinte alle dinamiche descritte e di anticorpi in grado di frenarle. Se si parla di controspinte, nel caso ungherese è difficile vederne, e qui c’è forse un elemento di divergenza rispetto al caso polacco. Per quanto riguarda gli anticorpi, Simone Pitto ha giustamente osservato che le modifiche ordinamentali che hanno contrassegnato i casi ungherese e polacco, dando luogo a fenomeni di cattura delle istituzioni giudiziarie, hanno portato con sé prassi di vera e propria epurazione della magistratura, anche molto ampie – qualcosa che possiamo ritrovare a tali livelli anche nella storia francese, ma del XIX secolo. Questo cosa ci dice? Ci dice che l’elemento umano, per così dire, è centrale, ed è centrale con esso il tema della integrità professionale. Molto discusso anche a livello internazionale, il tema dell’integrità professionale, o “judicial integrity” riguarda una nozione ben più ampia e per molti aspetti non sovrapponibile a quella di indipendenza giudiziaria. Il tema riconduce a quanto ci ricordava Paola Filippi – non il dover essere ma il modo di porsi di fronte alla decisione giudiziaria, al lavoro giudiziario – e ancor prima all’esempio di Mauro Del Giudice, giudice nel procedimento Matteotti, richiamato dal Direttore dell’Archivio di Stato di Roma Michele di Sivo. E dunque, se guardiamo all’ordinamento ungherese di cui ho una conoscenza più approfondita, pur di fronte a una situazione estremamente degradata quel che vediamo è l’esistenza di isole di “resistenza” per così dire – seppure il termine resistenza non sia il più appropriato con riguardo alla magistratura perché ritengo che non sia quello di resistere il ruolo della magistratura, non foss’altro perché finisce comunque per essere perdente di fronte ai poteri politici rappresentativi.
Mi limito a riportare due esempi, cercando di rimanere nei tempi. Anzitutto, a distanza di quindici anni dallo smantellamento incrementale del sistema giudiziario possiamo testimoniare ancora l’esistenza, pur frammentaria, di una giurisprudenza di tribunali e corti che non è certo filo-governativa. Si pensi al noto caso Gyöngyöspata… Gyöngyöspata è un piccolo villaggio di nemmeno tremila abitanti dell’Ungheria centrale dove sono state messe in atto politiche di segregazione scolastica in una scuola elementare nei confronti dell’etnia Rom. Si tratta di un caso molto rilevante sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista sociale che è arrivato fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo. A seguito della condanna dell’Ungheria da parte della CEDU, la questione riguardava essenzialmente la forma del risarcimento, laddove il Governo si rifiutava di risarcire le famiglie a titolo individuale, intendendo utilizzare le risorse per programmi rivolti all’intera comunità scolastica di Gyöngyöspata. Ebbene, dopo diversi gradi di giudizio, il giudice ungherese, e più esattamente la Corte suprema, nel 2020 ha reso una decisione contraria al Governo. Certo si può dire si tratti di casi residuali ma i quali evidenziano la capacità di alcuni giudici ungheresi di continuare a tenere il punto. Si può poi richiamare l’esempio del consiglio giudiziario nazionale, organo ormai sì svuotato di poteri effettivi ma che ha avuto la capacità in diverse occasioni di esprimere pareri pubblici ufficiali, che dunque hanno fatto prassi, molto duri sia nei confronti del Governo sia, mi preme sottolinearlo, nei confronti di alcuni rappresentanti della magistratura accondiscendenti nei confronti del Governo, non ultimo lo stesso attuale presidente della Corte suprema.
Va detto che quello che manca forse in Ungheria è il supporto a questa capacità di far fronte alle pressioni, anche tacite, del Governo: perché come dicevo in principio con riguardo al contesto allargato, vi è comunque un debole radicamento sociale della magistratura e perché, altro aspetto da sottolineare, è assente in Ungheria un panorama associazionistico come quello italiano che funga anche da collegamento tra magistratura e società (de resto si tratta di magistrature molto differenti e il caso italiano è forse più un’eccezione da questo punto di vista, nel panorama comparato), così come forse il ruolo dell’avvocatura, molto importante, è carente da questo punto di vista.
Ma, certamente, credo sia importante volgere lo sguardo al tema della integrità professionale e con esso a quello collegato del reclutamento e della formazione dei giudici, spostare l’attenzione dai modelli formali alle precondizioni sociali e culturali che permettano la tenuta del sistema anche in tempi di crisi quale elemento di resilienza per ricorrere un termine che oggi va tanto di moda.
3. La rilevanza della dimensione sovranazionale
Rimane da esplorare quale possa essere la funzione dell’integrazione sovranazionale in questo contesto. Al riguardo, c’è anzitutto da dire che i fenomeni di integrazione sovranazionale – Unione europea ma anche sistema convenzionale – sono decisamente controversi in seno alla società ungherese, e questo per motivi storici che hanno a che fare con il processo di costruzione della statualità ungherese la cui analisi ci porterebbe lontano dal tema che stiamo discutendo. Insomma non bisogna nascondersi che, sebbene Fidesz non goda della maggioranza dei consensi in termini assoluti nella società ungherese, quello dell’integrazione sovranazionale rimane un tema controverso a livello trasversale.
Se poi riflettiamo sugli anticorpi esterni, possiamo ben dire che questi nel caso ungherese non siano stati molto efficaci. Mi permetto di ricordare come solo poche settimane fa, il 13 dicembre 2023, il Parlamento ungherese abbia approvato un pacchetto di riforma della giustizia per dare soddisfazione ad alcune richieste degli organi europei e che mira a rafforzare l’’indipendenza della Corte suprema e del consiglio giudiziario nazionale. In cambio anche di questa riforma, l’Ungheria ha ottenuto il provvisorio sblocco di dieci miliardi di euro di fondi europei. Che cosa si può dire? Anzitutto, che le riforme come quelle del dicembre scorso sono, per richiamare l’espressione usata da Leonardo, riforme Frankenstein, vale a dire pezzi che non possono che evocare un giudizio positivo se considerati isolatamente ma che in definitiva non sono decisivi in un contesto degradato che è l’esito di un patchwork normativo dove ciò che conta sono alcuni dettagli, anche minimi. Si tratta di riforme inoltre spesso inattuate, o che possono rimanere inattuate, o che possono prendere molto tempo per la loro attuazione, e che in definitiva operano come pedine di una partita a scacchi con gli organi dell’Unione europea. Questo ci dice che la condizionalità politica e è scarsamente efficace e la condizionalità finanziaria può esserlo solo se presa sul serio.
E veniamo qui al vero tema, che dietro a queste riforme, interventi normativi a carattere formale, vi sono strumenti assai raffinati a disposizione del Governo e dei sostenitori, in seno al sistema giudiziario, del cosiddetto “Sistema di cooperazione nazionale” per raggiungere i propri obiettivi. Così, proprio mentre venivano discusse e poi approvate queste ultime riforme, il presidente della Corte suprema ungherese, che dispone di poteri significativi anche in materia di allocazione dei giudici tra le diverse sezioni, al pari dei presidenti delle corti negli ordinamenti centro-orientali, assumeva iniziative che volte a indebolire notevolmente l’indipendenza de facto della seconda sezione della corte suprema: proprio quella che aveva dimostrato di saper esprimere una giurisprudenza meno favorevole alle posizioni del Governo.
[1] Per una compiuta disamina sul tema affrontato si rinvia a «Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria», in Giustizia Insieme, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 499.
Approdi e prospettive del rapporto tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario volontario (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 marzo 2024, n. 2515)
di Rocco Parisi
Sommario: 1. La vicenda contenziosa; 2. Brevi cenni sul quadro normativo in materia di prevenzione antimafia; 3. Il controverso rapporto tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, a partire dall’incerta perimetrazione dei presupposti applicativi previsti dalla legge; 4. Il problematico coordinamento tra gli istituti in esame nelle successive fasi esecutive; 5. Conclusioni: problematiche ancora aperte nel coordinamento tra le misure di prevenzione antimafia. La recente rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 (TAR Reggio Calabria, Ordinanza n. 646/2024).
1. La vicenda contenziosa.
La pronuncia in commento prende le mosse da una vicenda piuttosto complessa, protrattasi per quattro anni e caratterizzata da ben quattro pronunce dei giudici amministrativi di primo e di secondo grado.
In origine, una società cooperativa agricola proponeva ricorso dinanzi al TAR del Lazio avverso il provvedimento di interdittiva antimafia adottato dalla Prefettura, impugnando con successivi motivi aggiunti taluni ulteriori provvedimenti adottati da altri Enti (A.N.A.C., G.S.E., A.G.E.A., Regione Lazio) in esecuzione della medesima interdittiva.
Il giudizio di primo grado si concludeva con l’accoglimento del ricorso e dei motivi aggiunti.
Il Ministero appellava la sentenza, chiedendone contestualmente la sospensione cautelare degli effetti.
Il Consiglio di Stato accoglieva l’istanza cautelare.
Nelle more del giudizio d’appello la società cooperativa otteneva l’ammissione al controllo giudiziario volontario ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. n. 159/2011 per una durata di due anni, da cui derivava la sospensione degli effetti dell’interdittiva ai sensi del comma 7 del medesimo art. 34-bis.
Tuttavia, in virtù della sospensiva cautelare della sentenza di primo grado, A.G.E.A. riteneva di dover portare ad esecuzione l’informazione interdittiva (ancora sub iudice), negando le erogazioni previste dai programmi operativi di sussidio rurale e preannunciando le azioni recuperatorie delle somme già erogate.
All’esito del giudizio di secondo grado, il Consiglio di Stato accoglieva l’appello, confermando di conseguenza l’interdittiva ed i provvedimenti impugnati in primo grado.
A seguito della sentenza amministrativa di secondo grado, pur essendo ancora in itinere il controllo giudiziario volontario, venivano adottati una serie di atti esecutivi dell’interdittiva antimafia, divenuta ormai definitiva; cosicché, in particolare:
- il Mediocredito Centrale- Banca del Mezzogiorno S.p.A. comunicava alla società cooperativa la «revoca del provvedimento agevolativo concesso in favore dell’impresa beneficiaria finale e contestuale invito di pagamento di una somma rapportata all’equivalente sovvenzione lordo - E.S.L.»;
- l’A.N.A.C. comunicava l’avvenuta segnalazione e l’inserimento nel Casellario della relativa annotazione integrativa;
- con nota prot. n. 92628/2022 la Prefettura riteneva superata l’ammissione della misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. n. 159/2011 sulla scorta dell’intervenuta reiezione del gravame proposto avverso l’informazione interdittiva a monte;
- il G.S.E. comunicava di voler mantenere sospesa in via cautelativa l’erogazione degli importi di cui alla Convenzione per il riconoscimento delle tariffe incentivanti, «in attesa delle determinazioni che le Autorità […] intenderanno assumere a valle dei propri approfondimenti»;
- la Regione Lazio disponeva la revoca del riconoscimento di organizzazione di produttori alla società cooperativa, revocando di conseguenza l’approvazione del programma operativo 2013-2017 e 2018-2022 e disponendo di non approvare il programma operativo 2023-2025.
Con ricorso integrato da motivi aggiunti, la società cooperativa impugnava dinanzi al TAR del Lazio tutti i predetti provvedimenti adottati in esecuzione dell’interdittiva antimafia, deducendo che gli stessi fossero stati adottati nel periodo in cui il controllo giudiziario volontario non risultava ancora concluso.
Con sentenza n. 9672/2023, il T.A.R. rigettava il ricorso, ritenendo che il controllo giudiziario volontario non potesse produrre alcun effetto sospensivo sui rapporti pregressi, cui gli atti impugnati si riferivano, incisi dall’interdittiva prima del decreto adottato dal giudice penale ex art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011.
La società cooperativa appellava la predetta sentenza, deducendo l’erronea applicazione da parte del primo giudice della disciplina normativa di cui all’art. 34-bis del Codice antimafia.
Costituendosi in giudizio, l’A.N.A.C., il Ministero dell’Interno ed il Ministero dell’agricoltura proponevano appello incidentale, asserendo la violazione dei termini a difesa di cui agli artt. 46 e 71, comma 3, c.p.a., la nullità della sentenza ex art. 132 n. 4) c.p.c. per difetto di motivazione ed altri profili di inammissibilità dei motivi aggiunti proposti in primo grado.
Con la sentenza in commento, il Collegio, nel dichiarare inammissibile ed infondato l’appello incidentale, ha accolto l’appello principale, rilevando l’illegittimità dei provvedimenti gravati in prime cure per violazione della disciplina di cui all’art. 34-bis, commi 6 e 7, del d.lgs. n. 159/2011.
Fornendo un’apprezzabile ricostruzione dei (controversi) rapporti tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario volontario, i giudici amministrativi evidenziano che «tutti i provvedimenti gravati in prime cure sono stati adottati in data successiva al 27 aprile 2022 (id est all’ammissione al controllo giudiziario). Tanto basta a ritenere operante, nella vicenda de qua, il disposto del comma 7 dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, restando del tutto irrilevante, per quanto qui più interessa, che il giudizio amministrativo avente ad oggetto l’informazione interdittiva antimafia si sia, nelle more, concluso con sentenza definitiva di questo Consiglio che ha respinto il ricorso proposto avverso di essa»[1].
Rimandando ad altra sede la disamina dei profili processuali emergenti dalla pronuncia in commento, inerenti alle motivazioni sottese al rigetto dell’appello incidentale, si svolgeranno alcune considerazioni sulle questioni sostanziali affrontate dai giudici di Palazzo Spada nella soluzione della res controversa.
Invero, la statuizione de qua, pur inserendosi lungo il solco tracciato dalla giurisprudenza amministrativa prevalente, consente di mettere in luce taluni profili problematici ancora irrisolti nel rapporto tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario volontario, sui quali i giudici sono a tutt’oggi chiamati ad intervenire per colmare le lacune del quadro normativo vigente.
2. Brevi cenni sul quadro normativo in materia di prevenzione antimafia.
Il sistema della prevenzione antimafia rappresenta da sempre un ambito complesso e controverso, connotato da una forte tensione tra diritti ed interessi fondamentali, di egual rango costituzionale.
L’obiettivo primario di contrastare il rischio dell’infiltrazione criminale e mafiosa nel circuito economico legale è stato perseguito dal legislatore attraverso strumenti (fisiologicamente) afflittivi per le imprese, idonei a comprimere valori altrettanto importanti per l’ordinamento, in primis la libertà d’impresa di cui all’art. 41 Cost.
Tale tensione diviene ancor più pressante ove si consideri che il sistema della prevenzione antimafia trova concreta applicazione anche (e soprattutto) nel settore dei contratti pubblici, con precipuo riferimento alle imprese affidatarie ritenute a rischio di permeabilità mafiosa, rischiando così di paralizzare l’esecuzione delle commesse pubbliche e di annichilire buona parte del tessuto imprenditoriale del Paese[2].
Com’è noto, tale problematica è stata particolarmente avvertita nell’ultimo periodo, specie a seguito della crisi derivante dalla pandemia di Covid-32, frapponendosi alla tempestiva attuazione delle riforme e degli interventi previsti dal PNRR, strumentali a consentire il rilancio del sistema economico del Paese.
Ciò spiega, almeno in parte, la ragione per cui la normativa della prevenzione antimafia, contenuta nel d.lgs. n. 159/2011 (c.d. “Codice antimafia”), sia stata oggetto nel corso degli anni di importanti riforme, il cui filo conduttore è stato di mitigare progressivamente l’afflittività delle misure ivi previste, quantomeno nella risposta primaria dello Stato ai fenomeni di infiltrazione più “blandi”, attraverso una graduazione dell’intensità delle misure di prevenzione in maniera proporzionale al livello di contaminazione criminale dell’impresa.
Per molto tempo, il sistema della prevenzione antimafia è stato incentrato, sul versante amministrativo, sull’istituto dell’interdittiva antimafia[3], la cui finalità è quella di estromettere dal circuito economico le imprese indiziate – sulla scorta di una valutazione prettamente discrezionale, indiziaria e probabilistica del Prefetto – di essere assoggettate a condizionamenti mafiosi[4].
Pur se concepita originariamente come misura di prevenzione settoriale, destinata ad incidere sulla sola capacità contrattuale dell’impresa nei confronti della pubblica amministrazione, l’interdittiva antimafia ha assunto progressivamente una portata ben più ampia, estendendo i propri effetti anche alla revoca delle autorizzazioni e delle concessioni strumentali all’esercizio dell’attività economica[5], determinando così una sorta di “prigionia legale” dell’impresa, di fatto impossibilitata ad esercitare la propria attività anche nei rapporti interprivati.
Sicché, pur se astrattamente circoscritta ad un arco temporale massimo di 12 mesi[6], l’interdittiva è destinata sovente a produrre effetti devastanti ed «esiziali»[7] per la compagine societaria, determinandone nel breve periodo la scomparsa, con tutte le gravi conseguenze che ne derivano sul piano economico ed occupazionale[8].
Con il passare del tempo, il sistema antimafia è andato strutturandosi in una prospettiva non solo “multidisciplinare” – secondo un “doppio binario” di misure amministrative (di competenza del Prefetto) e giudiziarie (di competenza del giudice penale) – ma anche “progressiva”, arricchendosi di misure ad intensità variabile e proporzionalmente calibrate alla gravità dell’inferenza mafiosa sulla compagine societaria.
Ad un primo livello si pongono le misure applicabili alle fattispecie integrate da tentativi di infiltrazione mafiosa riconducibili a fenomeni di «agevolazione occasionale», tra cui rientra il controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011[9], di competenza del Tribunale di prevenzione, e la prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis del Codice antimafia, di competenza del Prefetto.
Ai sensi del citato art. 34-bis, il controllo giudiziario ha una durata compresa tra uno e tre anni e può essere disposto dal giudice penale sia d’ufficio (ex comma 1), che su richiesta dell’impresa già destinataria di interdittiva[10] che abbia preventivamente impugnato tale provvedimento dinanzi al giudice amministrativo (ex comma 6). In tal caso, ai sensi del comma 7 dell’art. 34-bis, dall’ammissione al controllo giudiziario deriva la sospensione degli effetti dell’interdittiva di cui all’art. 94 del d.lgs. n. 159/2011.
Contrariamente all’interdittiva antimafia, il controllo giudiziario volontario di cui al comma 6 consente all’impresa di continuare a svolgere la propria attività sotto l’egida di un amministratore giudiziario nominato dal Tribunale, con funzioni di “tutoraggio” e controllo[11].
Il controllo giudiziario è stato perciò inteso come misura “dinamica” e temporalmente circoscritta, attraverso cui l’impresa viene immessa in un percorso di recupero, volto alla definitiva bonifica dalle contaminazioni criminali occasionali ed al suo pieno recupero nel mercato legale.
In particolare, «l’essenza del controllo giudiziario è stata rintracciata nel perseguimento di una finalità dinamica tendente al risanamento dell’impresa nella peculiare ipotesi in cui l’agevolazione sia occasionale e vi siano, pro futuro, concrete possibilità che essa compia un fruttuoso cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi di controlli e sollecitazioni»[12].
La misura in esame si pone al guado tra prevenzione penale ed amministrativa[13], rappresentando una fattispecie normativa complessa caratterizzata dall’intervento di una pluralità di Autorità (amministrative e giurisdizionali). Ciò, come si vedrà, pone notevoli problematiche applicative e di coordinamento tra i diversi ambiti della prevenzione antimafia, in mancanza di un’apposita disciplina normativa.
Restando sempre al primo livello delle misure antimafia, il coacervo degli istituti preventivi si è arricchito, sul versante amministrativo, con la prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis del d.lgs. n. 159/2011, introdotta con la riforma del 2021[14] al precipuo fine di mitigare la risposta amministrativa di prevenzione antimafia nelle ipotesi meno gravi di inferenza criminale, limitando così il ricorso alla misura interdittiva.
La prevenzione collaborativa può essere disposta dal Prefetto ove i tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione “solo” occasionale e consiste nell’imposizione di oneri comunicativi e organizzativi in capo all’impresa, alla quale viene consentita la continuità della propria attività[15].
Emerge, dunque, prima facie che controllo giudiziario e prevenzione collaborativa, pur avendo una diversa natura (rispettivamente, giudiziaria ed amministrativa), siano connotati da uguali presupposti e finalità, essendo dinamicamente preordinati alla bonifica dell’impresa esposta ad un’agevolazione mafiosa occasionale, consentendo a quest’ultima di esercitare la propria attività nell’ambito di un percorso di pieno recupero alla legalità.
Orbene, la previsione di un sistema fondato sul doppio binario, amministrativo e giudiziario, ha posto numerosi problemi applicativi nel rapporto tra i diversi istituti, difettando un’apposita normativa di coordinamento.
Tralasciando per il momento di considerare le questioni poste dall’introduzione della prevenzione collaborativa, che come si vedrà è andata ad alterare gli equilibri (già instabili) delineati in sede giurisprudenziale, la sentenza in commento impone di soffermarsi sulle annose problematiche inerenti al rapporto tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario volontario.
Infatti, si sono posti in sede applicativa notevoli problemi di coordinamento logico-giuridico-temporale tra gli istituti in esame, da qui sono sovente scaturite torsioni applicative, se non veri e propri paradossi, contrastanti con la ratio e con le finalità sottese al sistema di prevenzione delineato dal legislatore.
Tali questioni hanno imposto una massiccia attività suppletiva da parte della giurisprudenza, sia penale che amministrativa, chiamata a riportare a coerenza l’applicazione delle misure antimafia, colmando le lacune lasciate dal legislatore.
3. Il controverso rapporto tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, a partire dall’incerta perimetrazione dei presupposti applicativi previsti dalla legge.
Nel delineare i rapporti tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, una prima questione problematica si pone, già a monte, in merito alla perimetrazione dei presupposti applicativi previsti dalla legge, la cui valutazione è demandata ad Autorità diverse, appartenenti ai diversi plessi amministrativi e penali, con conseguente rischio che sulla medesima vicenda si giunga a valutazioni diverse e contrastanti da parte dei soggetti istituzionalmente preposti.
Come si è visto, infatti, ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. n. 159/2011, l’accesso al controllo giudiziario volontario può essere disposto dal Tribunale di prevenzione, su richiesta dell’impresa già attinta da interdittiva che abbia già impugnato tale provvedimento dinanzi al Giudice amministrativo, «ove ne ricorrano i presupposti», individuati dal comma 1 nella sussistenza di un’agevolazione mafiosa occasionale.
Ci si è interrogati, dunque, sull’effettiva portata dei poteri di cognizione del giudice penale rispetto all’accertamento del presupposto della occasionalità dell’agevolazione mafiosa, vieppiù in presenza di una valutazione sui medesimi fatti già effettuata dal Prefetto che ha disposto l’interdittiva antimafia.
Sul punto, la disciplina normativa risulta alquanto generica, limitandosi a prevedere che il Tribunale, prima di pronunciarsi sull’istanza di ammissione al controllo giudiziario volontario, debba sentire anche il Prefetto che ha adottato l’informazione antimafia interdittiva, senza precisare alcunché in merito alla concreta incidenza delle valutazioni prefettizie sulla decisione che il giudice penale è chiamato ad assumere.
Tale questione, in realtà, era stata affrontata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2019[16], le quali avevano messo in luce che la valutazione del giudice penale adito sul controllo giudiziario volontario deve muovere dall’accertamento dell’occasionalità dell’agevolazione mafiosa, per poi soffermarsi prevalentemente su una valutazione prognostica circa l’effettiva idoneità della misura richiesta a consentire il risanamento dell’ente dalle contaminazioni criminali.
La pronuncia delle Sezioni Unite, tuttavia, è stata diversamente interpretata dalla giurisprudenza, sia penale che amministrativa, in riferimento alla portata da riconoscere alla verifica “iniziale” del giudice penale sulla sussistenza dell’agevolazione mafiosa occasionale.
Un primo (e prevalente) orientamento ha ridimensionato fortemente l’alveo di accertamento del giudice penale sulla sussistenza della permeabilità mafiosa, ritenendo tale requisito già acclarato dall’autorità prefettizia, demandando al Tribunale la sola valutazione prognostica sull’effettiva “bonificabilità” dell’impresa[17].
Al riguardo, è stato rilevato che «stante l’autonomia tra le due procedure - il Giudice della prevenzione non deve “sindacare” il contenuto della misura prefettizia, ma deve limitarsi a verificare, proceduralmente, che la stessa sia stata impugnata in sede amministrativa, e a verificare con un giudizio prognostico, se il libero svolgimento dell’attività economica possa determinare in favore dei soggetti interessati una agevolazione di consistenza inidonea a legittimare l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, e se sussista la concreta possibilità che l’impresa, in forza delle specifiche misure e prescrizioni applicate dal provvedimento di controllo giudiziario, possa riallinearsi con il contesto economico sano, affrancandosi dal condizionamento delle infiltrazioni mafiose»[18].
Dunque, la valutazione del giudice penale deve necessariamente muovere dal presupposto dell’agevolazione mafiosa, già cristallizzata nella valutazione prefettizia, dovendo all’uopo verificare se, in una prospettiva dinamica e rivolta al futuro, l’impresa possa essere effettivamente bonificata e restituita al libero mercato all’esito del percorso di risanamento previsto dall’art. 34-bis[19].
Tale tesi, pur evidentemente restrittiva dei poteri di cognizione del giudice penale, è animata dall’esigenza di scongiurare il rischio di valutazioni divergenti da parte del Tribunale e del Prefetto rispetto al dato della permeabilità mafiosa dell’impresa, evitando soprattutto il corto circuito istituzionale, già emerso nella prassi, per cui il Tribunale penale possa giungere a rigettare la richiesta di ammissione al controllo giudiziario per insussistenza in capo all’impresa (già attinta da interdittiva) di qualsivoglia contaminazione mafiosa, anche solo occasionale.
Un diverso orientamento, recentemente sostenuto dalla Corte di Cassazione, è incline a riconoscere al giudice di prevenzione poteri di cognizione pieni, estesi anche all’accertamento della sussistenza dell’agevolazione mafiosa occasionale, escludendo per l’effetto che il Tribunale debba all’uopo «considerare intangibili le valutazioni espresse dall’organo di prevenzione amministrativa»[20].
Tale tesi, sia pur astrattamente idonea a condurre nella prassi a valutazioni divergenti da parte delle diverse Autorità, risulta anzitutto maggiormente conforme al dettato normativo dell’art. 34-bis, che invero impone al giudice della prevenzione di ammettere l’impresa al controllo giudiziario in presenza dei presupposti previsti dal comma 1, senza in alcun modo limitare l’accertamento rispetto ai fatti già valutati dalla Prefettura.
L’orientamento in esame risulta, inoltre, maggiormente in linea con il principio espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella misura in cui i giudici di legittimità non avevano affatto espunto dalla valutazione del Tribunale la verifica sulla sussistenza dell’agevolazione mafiosa, affiancando ad essa il momento (ritenuto centrale) della valutazione prognostica di effettiva bonificabilità dell’impresa[21].
Senza considerare che, a seguito dell’introduzione della prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis, continuare a sostenere l’intangibilità in sede penale della valutazione compiuta dal Prefetto condurrebbe ad un effetto sostanzialmente abrogativo del controllo giudiziario volontario, atteso che il Tribunale dovrebbe limitarsi a prendere atto della valutazione con cui il Prefetto, adottando l’informativa antimafia, ha ritenuto insussistente un’agevolazione solo occasionale in capo all’impresa, in presenza della quale invero avrebbe dovuto adottare la più mite misura della prevenzione collaborativa[22].
Sicché, risulterebbe escluso già a monte il requisito dell’agevolazione occasionale, con la conseguenza che il Tribunale non potrebbe fare altro che rigettare sistematicamente le richieste di ammissione al controllo giudiziario formulate ex art. 34-bis, comma 6, del Codice antimafia.
Si tratta, a ben vedere, di una questione di assoluta rilevanza e tutt’altro che risolta, che lascia aperti risvolti applicativi idonei a mettere in crisi il sistema del doppio binario di prevenzione, per come ad oggi delineato dalla legge.
Invero, ammettere la possibile sovrapposizione (da parte del Tribunale e del Prefetto) nella valutazione del requisito della agevolazione mafiosa (occasionale o meno) conduce a cascata a possibili interferenze anche sul piano giudiziario, in vista del sindacato di legittimità che il giudice amministrativo è chiamato a compiere sull’interdittiva antimafia (la cui impugnazione costituisce un presupposto legale di ammissione al controllo giudiziario volontario)[23].
È chiaro, infatti, che l’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario volontario, basato sull’accertamento di un’agevolazione mafiosa solo occasionale, mette in discussione la correttezza della valutazione del Prefetto che, al contrario, abbia negato la sussistenza di tale presupposto provvedendo all’adozione della più grave misura interdittiva. Circostanza di cui il giudice amministrativo non potrà non tener conto[24].
Sul punto, risulta quantomeno non più attuale il principio giurisprudenziale per cui l’ammissione dell’impresa ricorrente al controllo giudiziario volontario non costituisce circostanza rilevante ai fini del sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell’interdittiva prefettizia, riferendosi a profili d’indagine del tutto distinti[25]. Infatti, tale netta divisione delle valutazioni assunte dal Tribunale di prevenzione e dal giudice amministrativo risulta difficilmente predicabile, sia in concreto che in astratto.
Sotto un primo profilo, è arduo sostenere che le motivazioni addotte dal Tribunale di prevenzione nel disporre l’ammissione dell’impresa al controllo giudiziario volontario non influenzino in alcun modo il giudice amministrativo chiamato a valutare la legittimità dell’interdittiva prefettizia. Tale aspetto è emerso in una recente pronuncia del C.G.A.R.S. che, nel ribadire la piena autonomia tra il giudizio amministrativo (di legittimità sull’interdittiva) e quello penale (di ammissione al controllo giudiziario volontario), ha espressamente considerato «significativi taluni argomenti della parte motiva della pronuncia evocata [del giudice penale, ndr], pur sviluppati ai soli fini del vaglio dei distinti presupposti della misura giurisdizionale di salvataggio. Ciò non deve sorprendere, poiché, per quanto si cerchi, con una certa difficoltà, di distinguere tra i presupposti del controllo giudiziario e i presupposti dell’interdittiva prefettizia, è in qualche misura inevitabile, trattandosi della valutazione degli stessi fatti, che possano esservi di riflesso delle inferenze, sempre che ovviamente il loro apprezzamento sia frutto dell’autonomo giudizio del giudice amministrativo»[26].
Inoltre, la separazione stagna tra le valutazioni assunte dal Tribunale di prevenzione e dal giudice amministrativo non appare più percorribile, nemmeno in astratto, a seguito dell’introduzione della prevenzione collaborativa e del criterio di proporzionalità e progressività che informa il sistema della prevenzione antimafia, per cui il giudice amministrativo può essere chiamato a conoscere dell’illegittimità dell’interdittiva impugnata anche per violazione dell’art. 94-bis del d.lgs. n. 159/2011 e per eccesso di potere, ove sia contestata la mancata adozione, in presenza di una agevolazione solo occasionale, della prevenzione collaborativa in luogo dell’interdittiva impugnata.
Di talché, il punto di equilibrio delineato dalla giurisprudenza, sia pur già difficilmente realizzabile nella realtà, è destinato a sgretolarsi definitivamente a seguito della riforma legislativa del 2021, rendendo così ormai improcrastinabile un intervento legislativo volto a coordinare, già dal momento della definizione e valutazione dei presupposti applicativi, le misure afferenti al complesso e multiforme sistema della prevenzione antimafia.
4. Il problematico coordinamento tra gli istituti in esame nelle successive fasi esecutive.
Le difficoltà di coordinamento tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia non si arrestano al momento della definizione e della valutazione dei relativi presupposti applicativi, proiettandosi alle successive fasi esecutive[27].
Una questione fondamentale, affrontata anche dalla sentenza in commento, ha riguardato le possibili conseguenze derivanti dal rigetto del ricorso proposto avverso l’interdittiva sul controllo giudiziario ancora in itinere e sugli effetti sospensivi previsti dall’art. 34-bis comma 7 del Codice antimafia.
Al riguardo, un punto di partenza fondamentale è costituito dai principi espressi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le sentenze nn. 6, 7 e 8 del 2023, laddove i giudici amministrativi, sia pur nella prospettiva processuale di escludere la sussistenza di un rapporto di pregiudizialità necessaria tra controllo giudiziario volontario e giudizio di impugnazione avverso l’interdittiva antimafia, hanno rimarcato l’assoluta autonomia ed indipendenza che connota i due istituti, di tal guisa da escludere che il rigetto dell’impugnativa proposta avverso l’interdittiva antimafia possa interferire sul controllo giudiziario volontario ancora in itinere, facendo venir meno gli effetti sospensivi previsti dall’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011[28].
A tale impostazione la sentenza in commento ha mostrato piena adesione, valorizzando le ragioni testuali e sistematiche sostenute dalla Plenaria.
È stato all’uopo rimarcato che, sul piano testuale, l’art. 34-bis del Codice antimafia pone l’interdittiva e il controllo giudiziario in un rapporto di sola presupposizione genetica, lasciando aperta la possibilità che i due istituti, riferendosi a momenti[29] e dinamiche[30] diverse di contrasto alla criminalità organizzata, pervengano ad esiti anche divergenti. La disposizione in esame, dunque, non osta a che, pur a fronte di un’interdittiva definitiva e confermata, in punto di legittimità, dal giudice amministrativo, il controllo giudiziario volontario prosegua nel percorso di bonifica dell’impresa, mantenendo i propri effetti sospensivi sull’interdittiva.
Inoltre, sul piano sistematico, è stato osservato che l’art. 34-bis, comma 7, del Codice antimafia non subordina affatto gli effetti sospensivi dell’interdittiva alla perdurante pendenza del giudizio di impugnazione, né tantomeno ne prevede la cessazione immediata in caso di rigetto del ricorso da parte del giudice amministrativo.
Peraltro, ove si ritenesse che dal rigetto del ricorso derivi automaticamente la cessazione degli effetti sospensivi del controllo giudiziario volontario, si rischierebbe di svuotare di contenuto l’istituto previsto dall’art. 34-bis, atteso che l’impresa beneficiaria verrebbe nuovamente ed improvvisamente esposta ai gravi effetti dell’interdittiva proprio durante il percorso di risanamento già intrapreso, magari proprio nella sua fase finale, vanificando i risultati sino a quel momento raggiunti.
Pertanto, la prospettiva di un possibile rigetto del ricorso da parte del giudice amministrativo renderebbe inutile finanche l’avvio del controllo giudiziario volontario, il quale infatti verrebbe a costituire una parentesi (con mera utilità di sospensione cautelare degli effetti) del giudizio amministrativo di impugnazione dell’interdittiva antimafia, sovrapponendosi (inutilmente e, addirittura, pericolosamente) agli strumenti cautelari azionabili in giudizio.
Sulla scorta delle predette argomentazioni, con la pronuncia in commento il Consiglio di Stato ha rilevato l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, i quali erano stati adottati in un momento in cui il controllo giudiziario volontario era ancora in itinere, sull’erroneo convincimento che, essendo nelle more intervenuto il rigetto del ricorso proposto avverso l’interdittiva, quest’ultima fosse divenuta nuovamente efficace.
La circostanza per cui i provvedimenti impugnati fossero stati adottati successivamente all’ammissione al controllo giudiziario è stata considerata dal Collegio dirimente per considerare operante l’effetto sospensivo di cui all’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, «restando del tutto irrilevante, per quanto qui più interessa, che il giudizio amministrativo avente ad oggetto l’informazione interdittiva antimafia si sia [fosse, ndr], nelle more, concluso con sentenza definitiva di questo Consiglio che ha respinto il ricorso proposto avverso di essa»[31].
Pertanto, essendo ancora pendente la procedura di bonifica, le amministrazioni resistenti non avrebbero potuto adottare alcun atto esecutivo di un provvedimento (l’interdittiva) in quel momento non efficace, anche in ragione del fatto che ai sensi dell’art. 21-quater, comma 1, della l. n. 241/1990 «l’efficacia è presupposto per l’esecutività del provvedimento (id est l’attitudine dello stesso ad essere portato ad esecuzione)»[32].
Ciò posto, la pronuncia in commento fornisce talune importanti precisazioni in merito ad un ulteriore profilo controverso, relativo alla portata - retroattiva o pro-futuro - degli effetti sospensivi di cui all’art. 34-bis comma 7 del d.lgs. n. 159/2011.
In passato, la questione è stata a lungo dibattuta in giurisprudenza, soprattutto in riferimento agli effetti prodotti dall’ammissione al controllo giudiziario sulla partecipazione alla gara pubblica dell’impresa già attinta da interdittiva antimafia, trattandosi di verificare se l’ammissione al controllo giudiziario potesse di per se impedire l’esclusione dalla gara dell’impresa ai sensi dell’art. 80, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 (all’epoca vigente)[33].
In mancanza di una previsione normativa al riguardo, sono emersi in giurisprudenza due diversi orientamenti.
Alla stregua di un primo indirizzo, gli effetti sospensivi di cui all’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 si rivolgono soltanto al futuro, non potendo interferire sugli effetti dell’interdittiva già prodottisi in praeterito (ovvero tra l’adozione della misura interdittiva e l’ammissione al controllo giudiziario)[34].
È stato all’uopo rilevato che «il controllo giudiziario […] seppur idoneo a sospendere temporaneamente gli effetti della misura interdittiva, non elimina gli effetti, medio tempore prodotti dall’interdittiva stessa, nei rapporti in corso. Di conseguenza, “l’ammissione (o anche la sola richiesta di ammissione) al controllo giudiziario delle attività economiche e dell’azienda di cui allìart. 34-bis d.lgs. n. 159 del 2011 non ha conseguenze sui provvedimenti di esclusione (anche adottati ai sensi dell’art. 80, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016), i cui effetti contestualmente si producono e si esauriscono in maniera definitiva nell’ambito della procedura di gara interamente considerata, di modo che non vi è possibilità di un ritorno indietro per via della predetta ammissione»[35].
Con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato ha ritenuto che gli effetti sospensivi dell’ammissione al controllo giudiziario agiscono anche retroattivamente, involgendo gli effetti dell’interdittiva prodottisi in praeterito.
A fondamento di tale tesi è stato anzitutto rilevato che, da un punto di vista letterale, l’art. 34-bis, comma 7, del Codice antimafia si limita a prevedere che l’ammissione al controllo giudiziario volontario sospende gli effetti dell’interdittiva antimafia, «senza distinguere tra effetti giuridici prodottisi in praeterito ed effetti giuridici pro futuro (cioè, rispettivamente, prima e dopo la sua adozione)»[36].
Inoltre, sul piano sistematico, è stato evidenziato che «una sospensione ex lege - come quella prevista dal comma 7 dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 - che guardasse, in ipotesi, al solo futuro si discosterebbe in maniera del tutto irragionevole dal suo modello normativo più prossimo rappresentato dalla sospensione cautelare dell’efficacia ex art. 55 e ss. c.p.a. disposta dal giudice amministrativo, la quale, per sua consolidata fisionomia, investe anche (e soprattutto) gli effetti giuridici già prodotti dal provvedimento»[37].
Peraltro, deve rilevarsi che, con precipuo riferimento alle procedure ad evidenza pubblica, l’art. 94, comma 2, del nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023) dispone espressamente che la causa di esclusione integrata dall’adozione dell’interdittiva antimafia «non opera se, entro la data dell’aggiudicazione, l’impresa sia stata ammessa al controllo giudiziario ai sensi dell’articolo 34-bis del medesimo codice»[38].
Ciò costituisce un’ulteriore conferma che, anche in riferimento alla partecipazione alle procedure di gara, l’ammissione al controllo giudiziario volontario realizza una «sterilizzazione temporanea degli effetti della misura interdittiva anche prodotti in praeterito (e, segnatamente, tra la data di emissione dell’informazione interdittiva antimafia e l’ammissione al controllo giudiziario)»[39].
5. Conclusioni: problematiche ancora aperte nel coordinamento tra le misure di prevenzione antimafia. La recente rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 (TAR Reggio Calabria, Ordinanza n. 646/2024).
La pronuncia in commento assume una rilevanza del tutto significativa nel dibattito dei rapporti tra misure di prevenzione amministrative e penali, riportando taluni principi importanti per la corretta applicazione di istituti solo genericamente disciplinati dal legislatore.
Ciò nonostante, permangono a tutt’oggi alcune questioni aperte che, afferendo soprattutto alla fase finale di esecuzione degli istituti in esame, rischiano di compromettere la stessa efficacia ed utilità delle misure di prevenzione, pregiudicando in nuce la tenuta del sistema antimafia.
Una volta sostenuta la piena autonomia tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, resta da capire come gli istituti de quibus si coordino nella fase ultima e conclusiva, allorquando cioè – da un lato – l’interdittiva antimafia risulti definitivamente confermata all’esito del giudizio amministrativo di impugnazione e – dall’altro lato – il controllo giudiziario volontario sia concluso (ovvero sia in fase di conclusione), con esiti positivi per l’impresa.
Al riguardo, la pronuncia in commento, muovendo anche dalla natura temporanea e (astrattamente) provvisoria dell’interdittiva antimafia, rimarca la funzione fondamentale e di raccordo dei poteri/doveri di aggiornamento attribuiti al Prefetto ex art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159/2011, per cui l’autorità amministrativa è tenuta[40] a verificare, anche su documentata richiesta dell'interessato, la perdurante sussistenza delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa, sulla cui scorta era stata adottata l’interdittiva[41].
Invero, la valutazione prefettizia di aggiornamento deve necessariamente tener conto dei risultati del controllo giudiziario, i cui esiti favorevoli, pur non potendo autonomamente rilevare come causa sopravvenuta di illegittimità dell’interdittiva in precedenza adottata[42], rappresentano un elemento fondamentale che il Prefetto è tenuto a considerare nell’accertamento dei presupposti che avevano condotto all’adozione dell’interdittiva[43].
Tuttavia, tali indicazioni, seppur condivisibili in astratto, presentano in concreto una scarsa pregnanza significativa, a fronte della ritrosia sovente mostrata dalle Prefetture nell’esitare tempestivamente le istanze di aggiornamento presentate dalle imprese già attinte da interdittiva e, successivamente, nel concludere le procedure di aggiornamento in senso positivo e liberatorio per l’impresa.
Ne deriva, evidentemente, oltre che una grave aporia del sistema antimafia, un grave vulnus di tutela nei confronti dell’impresa attinta da interdittiva antimafia che, nonostante la positiva conclusione del percorso di bonifica espletato ai sensi dell’art. 34-bis del Codice antimafia, si ritrova assoggettata alla grave misura interdittiva, venendo così nuovamente (e probabilmente, definitivamente) estromessa dal mercato.
Tali profili di criticità risultano vieppiù gravi ed evidenti ove si consideri che il legislatore ha trascurato di disciplinare puntualmente i rapporti tra interdittiva e controllo giudiziario volontario nel periodo compreso tra la cessazione (con esito positivo) del controllo giudiziario volontario e la definizione da parte della Prefettura del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia (ove eventualmente attivato).
Sicché, a fronte dell’automatica reviviscenza degli effetti dell’interdittiva antimafia, l’impresa viene di fatto a trovarsi in uno stato di impasse difficilmente superabile, se non di vera e propria «incondizionata soggezione al potere pubblico»[44], non avendo a disposizione alcuno strumento di tutela idoneo a contrastare i gravi effetti dell’interdittiva ancora valida e (nuovamente) efficace, pur risultando nelle more sanata dagli elementi di contiguità mafiosa in precedenza addotti dal Prefetto.
Invero, alla luce del quadro normativo vigente, all’impresa è precluso sia impugnare dinanzi al giudice amministrativo l’originaria interdittiva, già coperta da giudicato, sia presentare al Tribunale della prevenzione una nuova istanza di ammissione al controllo giudiziario, non essendo stato possibile, per l’appunto, impugnare (nuovamente) l’interdittiva dinanzi al giudice amministrativo.
Sicché, i gravi pregiudizi derivanti dalla reviviscenza dell’interdittiva potrebbero compromettere irrimediabilmente la prosecuzione dell’impresa, vanificando persino l’eventuale rivalutazione favorevole operata dalla Prefettura in sede di aggiornamento proprio sulla scorta degli esiti positivi emergenti dal controllo giudiziario.
Di recente, tali profili sono stati condivisibilmente valorizzati dal T.A.R. Reggio Calabria nell’Ordinanza n. 646/2024, con cui i giudici amministrativi hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 proprio nella parte in cui la citata disposizione «non prevede che la sospensione degli effetti dell’interdittiva conseguente all’ammissione al controllo giudiziario perduri anche con riferimento al tempo, successivo alla sua cessazione, occorrente per la definizione del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia», inferendone perciò la violazione degli artt. 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 8 e 13 della CEDU e 1 del primo protocollo ad essa addizionale.
È interessante notare come il giudice a quo, pur auspicando – de iure condendo – un intervento legislativo idoneo a riportare a coerenza il sistema, ritenga che l’aporia costituzionale segnalata possa essere sanata – de iure condito – attraverso una sentenza additiva della Corte Costituzionale, volta a protrarre temporalmente gli effetti sospensivi dell’efficacia dell’interdittiva fino alla definizione del procedimento di aggiornamento prefettizio previsto dall’art. 91, comma 5, del Codice antimafia.
In attesa della pronuncia del giudice delle leggi, non pare vi siano dubbi sull’esigenza che le problematiche inerenti ai rapporti tra misure di prevenzione amministrative e penali, cui la giurisprudenza ha meritoriamente tentato di sopperire in sede applicativa, siano definitivamente risolte dal legislatore, attraverso un intervento di riforma organico sull’intero sistema di prevenzione antimafia.
Anche perché, come si è sopra anticipato, molte delle soluzioni approntate dalla giurisprudenza risultano oggi inidonee a garantire la certezza del diritto nell’applicazione di misure particolarmente restrittive per le imprese destinatarie, soprattutto a seguito dell’introduzione della prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis, che infatti rende ancor più inestricabile e difficoltoso il quadro normativo vigente.
Come si è visto, uno dei principali profili problematici è costituito dal fatto che la nuova misura collaborativa rappresenta una duplicazione sul piano amministrativo del già vigente controllo giudiziario volontario, fondandosi su medesimi presupposti, effetti e finalità.
Invero, la prevenzione collaborativa viene considerata come «una sorta di controllo giudiziario senza giudice né amministratore»[45], rappresentando una «misura amministrativa, non più statica, com’era per l’informativa, ma dinamica, speculare rispetto a quella penale»[46].
Ne deriva che, in virtù del canone di gradualità e proporzionalità che permea il sistema della prevenzione antimafia, l’interdittiva deve essere definitivamente collocata, anche nell’ambito della prevenzione amministrativa, come misura di extrema ratio, adottabile solo ove la permeabilità mafiosa della compagine societaria travalichi la mera «agevolazione occasionale», assumendo connotati più pervasivi e strutturali[47].
Si impone, dunque, in capo all’autorità amministrativa un puntuale accertamento dei presupposti fondanti l’emissione dell’interdittiva antimafia, da svolgere nel pieno contraddittorio con l’impresa interessata, che devono necessariamente essere esplicitati in motivazione.
Contrariamente a quanto sostenuto in passato in riferimento all’interdittiva antimafia, la valutazione che il Prefetto è chiamato a svolgere non assume di certo una portata esclusivamente diagnostica e statica, dovendo di converso proiettarsi in avanti al fine di valutare l’effettiva idoneità della misura a bonificare l’impresa dagli accertati condizionamenti mafiosi occasionali.
Di qui il rischio, tutt’altro che astratto ed eventuale, che le valutazioni assunte dal Prefetto, culminate nell’adozione dell’interdittiva antimafia sulla scorta dell’asserita sussistenza di una contaminazione mafiosa non solo occasionale, siano smentite dalla decisione del Tribunale di prevenzione che, ripercorrendo il medesimo iter logico-giuridico già seguito dall’autorità prefettizia, ritenga invece di ammettere l’impresa già attinta da interdittiva al controllo giudiziario volontario.
Emerge, inoltre, il possibile contrasto tra pronunce rese da organi giurisdizionali (id est: Tribunale di Prevenzione e giudice amministrativo), ove si consideri che con l’introduzione della prevenzione collaborativa, il giudice amministrativo chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto avverso l’interdittiva vede definitivamente estendersi lo spettro del proprio sindacato di legittimità anche all’eccesso di potere, sub specie di difetto di motivazione e/o violazione del principio di proporzionalità, oltre che alla violazione dell’art. 94-bis del Codice antimafia, ove sia contestata in giudizio la mancata verifica e/o dimostrazione da parte del Prefetto della sussistenza di elementi tali da escludere che l’agevolazione mafiosa fosse solo occasionale[48].
Sicché, in sintesi, ammettendo l’impresa al controllo giudiziario volontario, il Tribunale della prevenzione accerta la sussistenza di un’agevolazione occasionale, smentendo – ipso facto – le valutazioni già svolte dal Prefetto (che ha adottato l’interdittiva) e contrastando – potenzialmente – l’apprezzamento del giudice amministrativo, ove quest’ultimo, accertando la sussistenza di un’agevolazione mafiosa non solo occasionale, ritenga legittima l’interdittiva prefettizia.
La questione, dunque, risulta notevolmente complessa ed inestricabile, in cui il rischio di contrasto tra pronunce rese dai diversi soggetti istituzionali coinvolti nella fattispecie (id est: Prefetto, Tribunale di prevenzione e giudice amministrativo) risulta connaturato alla pura e semplice applicazione degli istituti di prevenzione, per come attualmente disciplinati dal Codice antimafia.
La problematica di fondo appare costituita dal fatto che il legislatore ha sovrapposto due misure di prevenzione (prevenzione collaborativa e controllo giudiziario volontario) sostanzialmente analoghe, quanto a presupposti, ratio e finalità, ma con natura diversa, cui si interseca ulteriormente la più grave misura interdittiva, rispetto alla quale manca un’adeguata disciplina di coordinamento, formando così un groviglio davvero inestricabile.
Si auspica, pertanto, un prossimo intervento di riforma normativa, che – da un lato – risolva la duplicazione esistente tra controllo giudiziario volontario e prevenzione collaborativa, diversificandone i presupposti, coordinandone i relativi effetti, o in extrema ratio abrogando una delle due misure, e – dall’altro lato – disciplini puntualmente i rapporti tra controllo giudiziario volontario ed interdittiva antimafia, nelle diverse fasi comprese tra l’accertamento dei presupposti e la definizione degli effetti, valorizzando e recependo l’importante contributo fornito dalla giurisprudenza (sia penale che amministrativa).
Sempre che, come appare probabile, sulla vicenda non intervenga nelle more la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011, sopperendo, ancora una volta, alle lacune ed alle incertezze di una disciplina normativa ancora lontana dal trovare un’adeguata coerenza.
[1] Cfr. Cons. St., Sez. VI, 15 marzo 2024, n. 2515, punto 7 in diritto.
[2] Con precipuo riferimento alle imprese affidatarie di contratti pubblici attinte da interdittiva antimafia, l’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90/2014 (conv. in l. 114/2014) prevede misure straordinarie di commissariamento dell’impresa, con efficacia circoscritta all’esecuzione della commessa pubblica già affidata, che il Prefetto può adottare ove «sussista l'urgente necessità di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto ovvero dell’accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali». Al riguardo, si veda T. Guerini – F. Sgubbi, L’art. 32 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90. Un primo commento, in Dir. pen. cont., 2014.
[3] Per un esame più approfondito dell’istituto dell’interdittiva antimafia, si veda, senza pretesa di esaustività: T. Passarelli, Interdittive antimafia e prevenzione collaborativa: azioni di contrasto al crimine organizzato tra incertezze legislative e discrezionalità applicativa, in Federalismi.it, 10/2024, 150 ss.; M. Cocconi, Il perimetro del diritto al contraddittorio nelle informazioni interdittive antimafia, in Federalismi.it, 2022; F. Figorilli - W. Giulietti, Contributo allo studio della documentazione antimafia: aspetti sostanziali, procedurali e di tutela giurisdizionale, inFederalismi.it, 14/2021; G. Amarelli - S. Sticchi Damiani, Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Torino, 2019; C. Miccichè, L’azione di contrasto preventivo alla criminalità mafiosa e le informazioni antimafia interdittive: tra legalità ed efficacia, in Jus, 2019, 36; F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in Giustamm.it, 6/2018; N. Durante, L’interdittiva antimafia, tra tutela anticipatoria ed eterogenesi dei fini, in www.giustizia-amministrativa.it, 2018; M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in Giustamm.it, 3/2016; 56 ss.; G. D’Angelo, La documentazione antimafia nel D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159: profili critici, in Urb. e app., 3/2013, 256 ss.
[4] Di recente è stato ribadito il principio invalso in giurisprudenza, per cui «la verifica della legittimità dell'informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire una ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (quale è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343)» (cfr. T.A.R. Palermo, Sez. I, 22 dicembre 2023, n. 3828; T.A.R. Reggio Calabria, 16 marzo 2023, n. 242).
[5] Al riguardo, Cass. Pen., Sez. I, 8 maggio 2023, n. 19154, ha rilevato che l’interdittiva antimafia determina «una particolare forma di incapacità giuridica ex lege, limitata ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione specificamente indicati dalla legge e prevista a tutela del valore, costituzionalmente garantito, della libertà di impresa e del principio di legalità sostanziale».
[6] Con la sentenza n. 57/2020, la Corte Costituzionale ha sostenuto la conformità costituzionale dell’interdittiva antimafia, in ragione, non solo della centralità che il contrasto del fenomeno mafioso assume nell’ordinamento, ma anche della natura necessariamente provvisoria della misura, circoscritta a 12 mesi, che ne costituisce un correttivo indefettibile, cui discende in capo al Prefetto l’obbligo di aggiornamento ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159/2011.
[7] In tali termini, M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in www.giustiziainsieme.it, 2022.
[8] Vieppiù ove si consideri che la giurisprudenza amministrativa ritiene diffusamente che dal decorso del termine annuale di cui all’art. 86 non derivi ipso facto la decadenza dell’interdittiva, bensì l’obbligo del Prefetto di procedere ai sensi dell’art. 91 del Codice antimafia ad una nuova verifica sulla persistenza delle circostanze ritenute rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa (cfr. ex plurimis T.A.R. Palermo, Sez. I, 16 luglio 2024, n. 2247). Peraltro, come rilevato da M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, op. cit., il quadro è reso ancor più complicato dal fatto che, nella realtà, all’esito delle procedure di riesame avviate ex art. 91, comma 5, le interdittive antimafia vengono tendenzialmente confermate dalle Prefetture.
[9] Disposizione introdotta dall’articolo 11, comma 1, della legge 17 ottobre 2017, n. 161.
[10] Il controllo giudiziario volontario si realizza attraverso la modalità più incisiva, prevista dal comma 2 lett. b) dell’art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011, con la nomina di un amministratore giudiziario con compiti di monitoraggio dell’attività d’impresa e di rendicontazione degli esiti del controllo al giudice delegato ed al pubblico ministero.
[11] Cfr. art. 34-bis, commi 2 lett. b) e 3, del d.lgs. n. 159/2011.
[12] Cfr. T.A.R. Reggio Calabria, 28 ottobre 2024, Ordinanza n. 646.
[13] G. Amarelli, La Cassazione riduce i presupposti applicativi del controllo giudiziario volontario ed i poteri cognitivi del giudice ordinario (a margine della sent. Cass, Pen., II, n. 9122 del 2021), in Sistema penale, 2021, definisce il controllo giudiziario come «un delicatissimo istituto cerniera, in cui trovano risoluzione equilibrata le possibili frizioni tra la giurisdizione amministrativa e la giurisdizione ordinaria».
[14] Si fa riferimento, in particolare, all’articolo 49, comma 1, del d.l. 6 novembre 2021, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 2021, n. 233.
[15] Cfr. T.A.R. Reggio Calabria, 3 maggio 2023, n. 392.
[16] Cfr. Cass. Pen., S.U., 11 novembre 2019, n. 46898.
[17] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 16 luglio 2021, n. 27704, nella parte in cui è stato rilevato che nel decidere sull’istanza di ammissione al controllo giudiziario volontario, il Tribunale penale «deve tener conto dell’accertamento di quello stesso prerequisito effettuato dall’organo amministrativo con l’informazione antimafia interdittiva, che rappresenta, pertanto, il substrato della decisione del giudice ordinario».
[18] Cfr. T.A.R. Napoli, Sez. I, 23 maggio 2023, n. 3125; T.A.R. Palermo, Sez. I, 22 dicembre 2023, n. 3828. In termini analoghi, si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità, tra cui in particolare: Cass. Pen., Sez. II, 28 gennaio 2021, n. 9122; Cass. Pen., Sez. VI, 2 agosto 2021, n. 30168; Id., 16 luglio 2021, n. 27704.
[19] In tali termini si è espressa anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 6/2023, nella parte in cui è stato rilevato che il controllo giudiziario «muove dal presupposto accertato dal Prefetto in sede di informazione antimafia, ma si basa su un’autonoma valutazione prognostica del tribunale della prevenzione penale che si propone di pervenire al suo superamento, quando il grado di condizionamento mafioso non sia considerato a ciò impeditivo».
[20] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, 11 aprile 2023, n. 15156. Negli stessi termini, anche Cass. Pen., Sez. V, 9 aprile 2021, n. 13388.
[21] Così, anche E. Birritteri, Accertamento dell’infiltrazione criminale nell’ente e controllo giudiziario volontario, in Giur. it., 2023, 1647 ss.
[22] Cfr. E. Birritteri, Accertamento dell’infiltrazione criminale nell’ente e controllo giudiziario volontario, op. cit., 1654.
[23] Sul tema dei possibili (e reciproci) condizionamenti tra le valutazioni assunte dal Tribunale della prevenzione e dal giudice amministrativo, si veda C. Cappabianca, Gli effetti sul giudizio amministrativo del controllo giudiziario delle aziende ex art. 34-bis, comma 6, d.lg. n. 159/2011: dopo l’Adunanza Plenaria n. 7/2023, in Dir. proc. amm., 4, 2023, 743 ss.; A. Giacalone, Informazione interdittiva antimafia e controllo giudiziario: analisi del rapporto esistente fra i due istituti e demarcazione dei relativi presupposti, in www.giustiziainsieme.it, 2024.
[24] Al riguardo, nella sentenza n. 7/2023, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha sostenuto che «nel sistema amministrativo di prevenzione penale, ora informato al principio di gradualità, l’occasionalità dell’agevolazione mafiosa originaria può in ipotesi costituire ragione di illegittimità dell’informativa a carattere interdittivo, in ragione dell’alternativa costituita dalle misure meno invasive introdotte con il medesimo art. 94-bis».
[25] Cfr. Cons. St., Sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1049.
[26] Cfr. C.G.A.R.S., Sez. giur., 4 gennaio 2023, n. 13.
[27] Sul tema, si veda M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in L’Amministrativista, 2022.
[28] È all’uopo significativo il passaggio della sentenza n. 6/2023 in cui la Plenaria evidenzia che «Nessuno degli effetti previsti dall’art. 34-bis, comma 7, presuppone tuttavia che il giudizio sull’interdittiva rimanga pendente. Come in precedenza accennato, tali effetti sono del tutto compatibili con la conseguita inoppugnabilità di quest’ultima, all’esito del rigetto della relativa impugnazione. Una volta accertata l’esistenza di infiltrazioni mafiose, quand’anche in via definitiva, si permette nondimeno all’impresa di risanarsi, sotto il controllo dell’autorità giudiziaria penale».
[29] L’una (interdittiva) rivolta al passato; l’altra (controlllo giudiziario) rivolta al futuro.
[30] L’una (interdittiva) volta ad escludere dal mercato l’impresa assoggettata ad inferenze mafiose; l’altra (controllo giudiziario) volta a realizzare la bonifica della compagine aziendale, consentendo la continuazione dell’attività d’impresa.
[31] Cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 2515/2024, punto 7 in diritto.
[32] Cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 2515/2024, punto 7.1 in diritto.
[33] In particolare, l’art. 80, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 prevedeva che «Costituisce altresì motivo di esclusione la sussistenza, con riferimento ai soggetti indicati al comma 3, di cause di decadenza, di sospensione o di divieto previste dall’articolo 67 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’articolo 84, comma 4, del medesimo decreto. Resta fermo quanto previsto dagli articoli 88, comma 4-bis, e 92, commi 2 e 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, con riferimento rispettivamente alle comunicazioni antimafia e alle informazioni antimafia. Resta fermo altresì quanto previsto dall’articolo 34-bis, commi 6 e 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159».
[34] Si tratta del formante invalso in giurisprudenza, soprattutto sotto la vigenza del vecchio codice dei contratti pubblici, cui aveva aderito anche la sentenza di primo grado riformata dalla pronuncia in commento, nella parte in cui era stato sostenuto che «Diversamente opinando, infatti, verrebbe meno la finalità della interdittiva antimafia, che è quella di tutelare il rapporto con l’amministrazione da eventuali e probabili forme di infiltrazioni mafiose che inquinano l’economia legale, alterano il funzionamento della concorrenza e costituiscono una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica» (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. V, 7 giugno 2023, n. 9672).
[35] Cfr. T.A.R. Napoli, Sez. IV, 14 marzo 2023, n. 1669; Cons. St., Sez. V, 22 settembre 2023, n. 8481. Con precipuo riferimento al settore dei contratti pubblici, ne deriva che la sospensione degli effetti dell’interdittiva conseguente all'ammissione al controllo giudiziario «costituisce un rimedio volto a consentire all’impresa che ne beneficia di partecipare alle procedure di appalto successivamente indette, ma non anche a sanare la partecipazione dell’operatore economico non degno di entrare in contatto con la Stazione appaltante per il possibile condizionamento criminale a cui potrebbe essere condizionata la sua offerta contrattuale, atteso che, in caso contrario, si darebbe paradossalmente ingresso, nel mercato degli appalti pubblici, all’apprezzamento di una proposta contrattuale predisposta precedentemente all’insediamento dell'amministratore giudiziario, cioè prima dell'avvio di quel controllo a cui l’art. 34 bis, d.lgs. n. 159/2011 subordina la sospensione degli effetti interdittivi» (T.A.R. Napoli, n. 1669/2023, cit.).
[36] Cfr. Cons. St., Sez. V, n. 2515/2024, punto 7.1 in diritto.
[37] Cfr. Cons. St., Sez. V, n. 2515/2024, punto 7.1 in diritto.
[38] Sul tema, si veda anche R. Rolli, L’interdittiva antimafia: misure di prevenzione connesse e controllo giudiziario, in Dir. dell’econ., n. 2/2024, 31 ss.
[39] Cfr. Cons. St., Sez. V, n. 2515/2024, punto 7.3 in diritto.
[40] Sull’obbligo del Prefetto di esitare l’istanza di aggiornamento proposta dall’impresa ex art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159/2011, si veda T.A.R. Reggio Calabria, 25 gennaio 2024, n. 68, con nota di R. Rolli – M. Maggiolini, Atomo scisso e silenzio prefettizio: tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario (nota a TAR Reggio Calabria, 25 gennaio 2024, n. 68), in www.giustiziainsieme.it, 2024.
[41] Si veda, al riguardo, T.A.R. Reggio Calabria, 5 luglio 2023, n. 598, laddove i giudici amministrativi, nel delineare puntualmente i momenti valutativi che connotano il potere prefettizio di aggiornamento dell’interdittiva, hanno rilevato che «il venire meno delle circostanze rilevanti di cui all’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011, non dipende dal mero trascorrere del tempo in sé ma dal sopraggiungere di obiettivi elementi diversi o contrari che ne facciano venire meno la portata sintomatica, in quanto ne controbilanciano, smentiscono o superano la forza indiziante (v. Cons. Stato, sez. III, 21 maggio 2021, n. 3915; TAR Napoli, sez. I, 11 maggio 2021 n. 3113)».
[42] Si veda, tra le tante, T.A.R. Palermo, Sez. I, 22 dicembre 2023, n. 3828, laddove è stato ribadito il principio di diritto per cui «la conclusione favorevole del controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 non è di per sé ostativa a che il Prefetto, in sede di aggiornamento dell’informativa, possa confermare l’informativa antimafia disposta antecedentemente alla sottoposizione al controllo, poiché non può sostenersi che la pronuncia del giudice della prevenzione penale produca un accertamento vincolante o condizionante sul rischio di infiltrazione dell'impresa da parte della criminalità organizzata (Cons. Stato Sez. III, 4 febbraio 2021, n. 1049, 11 gennaio 2021, n. 319 e 16 giugno 2022, n. 4912)..." (Consiglio di Stato, Sez. III, 8 maggio 2023, n. 4587, punto 7.3.2)». Negli stessi termini, anche il TAR Lazio, Sez. III-ter, 24 ottobre 2023, n. 15775, ha rilevato che anche a seguito della positiva conclusione del controllo giudiziario, il giudizio sulla persistenza dei pericoli di infiltrazione mafiosa continua ad essere rimesso al Prefetto, «il quale, una volta intervenuta la misura del controllo, potrebbe valutare l’esito positivo dello stesso, quale sopravvenienza rilevante ai fini dell’aggiornamento e della rivalutazione dell’interdittiva prefettizia, pur restando libero di confermare il provvedimento interdittivo originario».
[43] Al riguardo, nella pronuncia in commento, i giudici evidenziano che la valutazione svolta dal Prefetto ex art. 91, comma 5, del Codice antimafia «andrà condotta in contraddittorio secondo il canone della collaborazione e buona fede ex art. 1, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990 e dovrà concludersi con una determinazione sorretta da congrua ed adeguata motivazione che prenda in considerazione il novum rappresentato dall’esito della procedura di controllo giudiziario».
[44] In tali termini si è espresso il T.A.R. Reggio Calabria nell’ordinanza 28/10/2024 n. 646, con cui è stata sollevata questione di legittimità Costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011 per violazione degli artt. 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 8 e 13 della CEDU e 1 del primo protocollo ad essa addizionale.
[45] Cfr. G. Veltri, La prevenzione antimafia collaborativa: un primo commento, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022.
[46] Cfr. G. Veltri, La prevenzione antimafia collaborativa: un primo commento, op. cit.
[47] Come sostenuto dal T.A.R. Reggio Calabria nella sentenza 3 maggio 2023 n. 392, con l’introduzione della prevenzione collaborativa di cui all’art. 94-bis del d.lgs. n. 159/2011 viene a delinearsi «un nuovo modello collaborativo con il mondo produttivo che modula l’afflittività della misura preventiva antimafia in relazione all’effettivo grado di compromissione dell’impresa rispetto al contesto criminale».
[48] Al riguardo, si segnala la sentenza del T.A.R. Reggio Calabria, 5/7/2023, n. 598, laddove i giudici amministrativi hanno dichiarato l’illegittimità dell’interdittiva adottata dal Prefetto all’esito dell’aggiornamento di cui all’art. 91, comma 5, ritenendo che in quel caso l’autorità amministrativa non avesse adeguatamente «chiarito se gli elementi valorizzati in sede di riesame dal ricorrente possano valere in subordine a ricondurre, dequotandoli, i tentativi di infiltrazione mafiosa a situazioni di agevolazione non più cronica ma occasionale, favorendo l’avvio di un percorso di “decontaminazione” della società onde restituirla al libero mercato attraverso gli strumenti di controllo, diretti o indiretti, previsti dalla norma recentemente introdotta nell’ordinamento».
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