ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa - 2. Le ragioni del procedimento ex art. 445 bis c.p.c. - 3. La riforma dell’art. 445 bis - 4. La decorrenza del termine per la formulazione del dissenso - 5. La sospensione del procedimento - 6. Ambito applicativo dell’art. 445 bis c.p.c. riformato - 7. Riflessioni conclusive.
1. Premessa
Il D.L. n. 117/2025, intitolato “Misure urgenti in materia di giustizia”, pubblicato in G.U. l’8/8/2025 ed entrato in vigore il giorno successivo, approvato – come è espressamente dichiarato nel decreto stesso - in ragione della “straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni che incidono sull'organizzazione giudiziaria e sul processo civile per agevolare il raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza entro il termine del 30 giugno 2026”, è intervenuto attraverso l’art. 7 sull’art. 445 bis c.p.c., al fine accelerare il processo civile, eliminando “incombenti non utili rispetto alla definizione dei procedimenti per accertamento tecnico preventivo in materia previdenziale e assistenziale”.
Ebbene, appare opportuno analizzare l’art. 445 bis c.p.c. per comprendere quanto la riforma possa essere utile o meno alla finalità dichiarata.
2. Le ragioni del procedimento ex art. 445 bis c.p.c.
L’art. 445 bis è stato inserito nel codice di procedura civile dall’art. 38, comma 1, lett. b) n. 1) del D.L. 6 luglio 2011, convertito con modificazioni nella L. 15 luglio 2011, n. 111.
La norma così prevede(va):
Nelle controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984, n. 222, chi intende proporre in giudizio domanda per il riconoscimento dei propri diritti presenta con ricorso al giudice competente ai sensi dell'articolo 442 codice di procedura civile, presso il Tribunale nel cui circondario risiede l'attore, istanza di accertamento tecnico per la verifica preventiva delle condizioni sanitarie legittimanti la pretesa fatta valere. Il giudice procede a norma dell'articolo 696 - bis codice di procedura civile, in quanto compatibile nonché secondo le previsioni inerenti all'accertamento peritale di cui all'articolo 10, comma 6-bis, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, e all'articolo 195.
L'espletamento dell'accertamento tecnico preventivo costituisce condizione di procedibilità della domanda di cui al primo comma.
L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto a pena di decadenza o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che l'accertamento tecnico preventivo
non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dell' istanza di accertamento tecnico ovvero di completamento dello stesso.
La richiesta di espletamento dell'accertamento tecnico interrompe la prescrizione.
Il giudice, terminate le operazioni di consulenza, con decreto comunicato alle parti, fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni, entro il quale le medesime devono dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio.
In assenza di contestazione, il giudice, se non procede ai sensi dell'articolo 196, con decreto pronunciato fuori udienza entro trenta giorni dalla scadenza del termine previsto dal comma precedente omologa l'accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze probatorie indicate nella relazione del consulente tecnico dell'ufficio provvedendo sulle spese. Il decreto, non impugnabile né modificabile, è notificato agli enti competenti, che provvedono, subordinatamente alla verifica di tutti gli ulteriori requisiti previsti dalla normativa vigente, al pagamento delle relative prestazioni, entro 120 giorni.
Nei casi di mancato accordo la parte che abbia dichiarato di contestare le conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio deve depositare, presso il giudice di cui al comma primo, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla formulazione della dichiarazione di dissenso, il ricorso introduttivo del giudizio, specificando, a pena di inammissibilità, i motivi della contestazione.
L’art. 27, comma 1, lett. f) della L. n. 183/2011 ha aggiunto l’ultimo comma “La sentenza che definisce il giudizio previsto dal comma precedente è inappellabile”.
Tale procedimento è entrato in vigore l’1/1/2012 per i giudizi introdotti da tale data in poi.
Il procedimento ex art. 445 bis c.p.c. nasceva dalla consapevolezza che il punctum dolens delle controversie in materia previdenziale ed assistenziale, dove era necessario accertare la sussistenza di un determinato requisito sanitario per fruire di una prestazione, per lo più erogata dall’INPS, riguardava proprio l’accertamento di tale requisito sanitario, sicché, accertato quello, il Giudice, procedeva con l’accertamento degli altri requisiti per fruire di una data prestazione e, in caso di accertamento positivo, condannava l’ente erogatore al pagamento della prestazione.
La domanda era dunque una domanda del ricorrente avente ad oggetto la condanna dell’INPS o di altro ente erogatore al pagamento della prestazione richiesta, previo accertamento della sussistenza di tutti i requisiti per la fruizione della prestazione stessa.
Il procedimento ordinario, prima dell’entrata in vigore dell’art. 445 bis c.p.c., aveva tempi più o meno lunghi a seconda della quantità di contenzioso previdenziale ed assistenziale in ciascun Tribunale; ciò significava che, in non pochi Tribunali soprattutto del Sud, in cui il contenzioso previdenziale contava e conta ancora diverse migliaia di nuovi procedimenti all’anno, per ottenere una sentenza di condanna all’erogazione di una prestazione correlata all’accertamento di uno stato invalidante, un ricorrente poteva dover attendere anche diversi anni.
Sicché il procedimento ex art. 445 bis c.p.c., concentrandosi su una fase di accertamento del solo requisito sanitario e prevedendo, in caso di esito positivo per il ricorrente, una seconda fase di carattere amministrativo in cui l’ente erogatore verifica la sussistenza degli altri requisiti e provvede al pagamento entro 120 giorni, ha senz’altro ridotto i tempi complessivi per l’erogazione della prestazione richiesta.
Al fine di analizzare le modifiche che introdotte dall’art. 7 del D.L. n. 117/2025 appare utile analizzare la struttura del procedimento ex art. 445 bis c.p.c.
Il cuore pulsante del procedimento in parola è la CTU medico-legale disposta per verificare la sussistenza del requisito sanitario per fruire di una prestazione assistenziale o previdenziale, secondo la scansione temporale prevista dall’art. 195 c.p.c., richiamato espressamente dall’art. 445 bis c.p.c.
Il CTU incaricato deve dunque fissare l’inizio delle operazioni peritali, dandone comunicazione alle parti e comunque inviando, entro 15 giorni antecedenti l'inizio delle operazioni peritali, anche in via telematica, apposita comunicazione al direttore della sede provinciale dell'INPS competente o a suo delegato. La comunicazione in parola è prevista a pena di nullità della consulenza ai sensi dell’art. 10, comma 6 bis, del D.L. n. 2023/2005 convertito con modificazioni dalla L. n. 248/2005.
Successivamente il CTU deve trasmettere la relazione (cd. bozza) alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice, le parti hanno la possibilità di trasmettere al CTU eventuali osservazioni, sempre in un termine giudizialmente stabilito, quindi il CTU provvede al deposito dell’elaborato peritale, rispondendo alle eventuali osservazioni. Va detto che il CTU deposita telematicamente in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse, senza obbligo di trasmissione alle parti della risposta alle osservazioni.
Le scansioni temporali della CTU sono indicate espressamente dal Giudice nel provvedimento di conferimento dell’incarico peritale.
Ebbene, secondo l’impostazione originaria dell’art. 445 bis c.p.c., terminate le operazioni di consulenza mediante deposito in cancelleria dell’elaborato peritale, il Giudice con decreto comunicato alle parti, fissava un termine perentorio non superiore a trenta giorni, entro il quale le medesime dovevano dichiarare, con atto scritto depositato in cancelleria, se intendevano contestare le conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio.
In caso di contestazione, la parte dissenziente aveva ed ha ancora l’obbligo di introdurre il giudizio di merito di cui al sesto comma dell’art. 445 bis c.p.c. entro il termine perentorio di trenta giorni, decorrente dal deposito del dissenso; viceversa, in assenza di esplicito dissenso, il Giudice procedeva ad emettere il decreto di omologa ovvero ad omologare l’accertamento del requisito sanitario secondo le risultanze della CTU, salva l’applicazione dell’art. 196 c.p.c.
In alcuni Tribunali, applicando alla lettera l’art. 445 bis, comma 4, c.p.c., solo successivamente al deposito della CTU in Cancelleria, il Giudice emetteva un decreto, comunicato alle parti dalla Cancelleria, contenente l’assegnazione del termine perentorio per contestare le conclusioni del CTU.
In tal caso, vi era un lasso temporale tra il deposito della CTU e l’emissione del decreto di cui all’art. 445 bi comma 4 c.p.c., imponderabile nella sua durata.
Già durante la vigenza della suddetta normativa, in diversi Tribunali d’Italia era invalsa la prassi di assegnare, contestualmente al conferimento dell’incarico al CTU (comunicato a mezzo pec dalla cancelleria alle parti e al CTU) il termine per la formulazione del cd. dissenso (termine di massimo trenta giorni), termine che inevitabilmente decorreva dal momento in cui la Cancelleria comunicava alle parti il deposito della CTU.
Su tale modalità di assegnazione del termine per la formulazione del dissenso l’unica pronuncia della Corte di Cassazione che si registra è l’ordinanza n. 9356 del 5/4/2023, che, cassando un decreto di omologa emesso dal Tribunale di Trani, ha così ritenuto: “Il decreto di omologa dell'accertamento tecnico preventivo di cui all'art. 445-bis c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., se pronunziato dal giudice senza la previa fissazione - con decreto comunicato alle parti e all'esito delle operazioni di consulenza - di un termine non superiore a trenta giorni per contestare le conclusioni del c.t.u., perché proprio dallo spirare del predetto termine (posto a salvaguardia del diritto di difesa) deriva, in difetto di contestazioni, l'intangibilità dell'accertamento”.
La pronuncia in parola aveva creato allarme fra i giudici di merito, poiché ci si chiedeva se fosse messa in discussione la prassi invalsa, soprattutto in Tribunali con migliaia di nuove iscrizioni all’anno di procedimenti ex art. 445 bis c.p.c., di assegnare - contestualmente al conferimento dell’incarico peritale al CTU – il termine perentorio per il dissenso, salva la decorrenza del termine dalla comunicazione del deposito della CTU.
E ciò in quanto, se ciò che deve essere salvaguardato è il diritto di difesa, si argomentava che tale diritto poteva ritenersi salvaguardato anche quando la decorrenza del termine perentorio sia conosciuta dalle parti in un momento precedente al deposito della CTU e più specificatamente con il conferimento dell’incarico peritale.
Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione non è chiaro se, a fronte della doglianza del ricorrente circa l’omessa concessione del termine da parte del Giudice, la controparte - e cioè l’INPS - abbia dedotto che quel termine era stato assegnato nell’ordinanza di conferimento dell’incarico peritale con decorrenza dal momento di cui si è detto innanzi (prassi seguita dal Tribunale di Trani) ovvero se tale prassi non sia mai stata sottoposta all’attenzione dei Giudici di legittimità.
3. La riforma dell’art. 445 bis
Con l’art. 7 del D.L. 8 agosto 2025, n. 117, sono state apportate modifiche all’art. 445 bis c.p.c.
Il primo comma dell’art. 7 così dispone:
All'articolo 445-bis del codice di procedura civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole «codice di procedura civile», ovunque ricorrono, sono soppresse;
b) il quarto comma è sostituito dal seguente: «Il conferimento dell'incarico al consulente o, se successivo, il giuramento di quest'ultimo, determina la sospensione del procedimento fino alla scadenza del termine previsto dal quarto periodo. La sospensione non impedisce l'espletamento della consulenza. Il deposito della consulenza tecnica di ufficio è comunicato dalla cancelleria alle parti. Queste ultime, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione, se intendono contestare le conclusioni del consulente tecnico dell'ufficio, devono depositare la relativa dichiarazione.».
Il secondo comma, riguardante i procedimenti a cui si applica la novella, stabilisce che “Le modifiche di cui al comma 1, lettera b), si applicano anche ai procedimenti pendenti nei quali, alla data di entrata in vigore della presente disposizione, non è stato ancora conferito l'incarico al consulente tecnico di ufficio”.
L’art. 7, comma 1, lettera a) del D.L. 8/8/2025 n. 117, correggendo un refuso presente nell’art. 445 bis, comma 1, c.p.c., stabilisce la soppressione delle parole “codice di procedura civile” ovunque ricorrano.
La parte rilevante della riforma riguarda la riformulazione dell’art. 445 bis, comma 4, c.p.c., in relazione a tre aspetti: la decorrenza del termine per la formulazione del dissenso; la sospensione del procedimento; l’applicazione della riforma non solo ai procedimenti instaurati successivamente alla sua entrata in vigore (9 agosto 2025) ma anche ai procedimenti pendenti, purché non sia stato ancora conferito l’incarico peritale.
4. La decorrenza del termine per la formulazione del dissenso
Per quanto riguarda il primo aspetto, il legislatore del 2025 ha dunque previsto espressamente che, successivamente al deposito della CTU e alla comunicazione della stessa alle parti ad opera della Cancelleria, inizi a decorrere automaticamente il termine di trenta giorni perché le parti depositino un atto di dissenso rispetto alle conclusioni del CTU.
Di fatto la novella sposa la prassi dei Tribunali di merito di cui si è detto prima, eliminando dunque la necessità, successivamente alla comunicazione del deposito della CTU, di un apposito decreto del Giudice, nella sostanza automatico e dalle tempistiche processuali non definite. In tal modo i tempi di durata e di definizione di un procedimento ex art. 445 bis c.p.c. saranno senz’altro ridotti, essendo azzerato completamente il lasso temporale intercorrente tra la comunicazione di deposito della CTU e la decorrenza del termine per il dissenso.
Resta invece invariato, prima e dopo la riforma, il potere del giudice di emettere i provvedimenti di cui all’art. 196 c.p.c. in ordine alla rinnovazione delle indagini e alla sostituzione del CTU, prima di procedere, nel caso in cui alcuna delle parti abbia proposto il dissenso, con l’emissione del decreto di omologa.
5. La sospensione del procedimento
Il secondo aspetto su cui ha inciso la riforma, più significativo e allo stesso tempo più problematico, riguarda la sospensione del procedimento ex art. 445 bis c.p.c.
Il nuovo quarto comma della norma introduce nell’ordinamento una nuova ipotesi di sospensione, prevedendo che il procedimento ex art. 445 bis c.p.c. resti sospeso dal momento del conferimento dell’incarico peritale o del giuramento (se successivo al conferimento dell’incarico) fino alla decorrenza del termine di trenta giorni per la formulazione del dissenso.
In relazione alla decorrenza della sospensione, va detto che non sempre vi è coincidenza temporale tra giuramento del CTU (rectius accettazione dell’incarico del CTU) e conferimento dell’incarico peritale da parte del Giudice.
Infatti, mentre prima dell’era COVID e dell’introduzione del procedimento a trattazione scritta, generalmente in pubblica udienza il Giudice, nel contraddittorio delle parti raccoglieva il giuramento del CTU (precedentemente nominato) e contestualmente conferiva l’incarico peritale al CTU, con la legislazione d’emergenza prima e con l’entrata in vigore dell’art. 127 ter c.p.c. poi i due momenti sono stati sostanzialmente scissi: il Giudice, che dispone la sostituzione dell’udienza di conferimento dell’incarico con il deposito di note di trattazione scritta, può nominare nel decreto di fissazione dell’udienza il CTU, assegnandogli un termine per l’accettazione dell’incarico, e contestualmente fissare il termine alle parti per il deposito di note di trattazione scritta. In tal caso, la sospensione del procedimento inizia a decorrere dal momento in cui il Giudice, in presenza di contraddittorio e di accettazione dell’incarico del CTU ed in assenza di motivi ostativi all’accertamento peritale, emetta il provvedimento di conferimento dell’incarico peritale.
La scissione dei due momenti può verificarsi anche se il Giudice ha fissato l’udienza di conferimento dell’incarico in presenza, avendo già richiesto ed ottenuto in forma scritta (ovvero con atto depositato telematicamente) l’accettazione del CTU. Anche in tal caso dall’udienza del conferimento dell’incarico peritale il procedimento deve considerarsi sospeso.
Può accadere tuttavia che il Giudice, all’esito del contraddittorio delle parti, conferisca l’incarico peritale al CTU, il quale non ha ancora accettato l’incarico, ovvero non ha prestato giuramento: ebbene in tal caso il comma 4 dell’art. 445 bis c.p.c. prevede che la sospensione decorra dal giuramento successivo al conferimento dell’incarico.
La ratio della norma è evidentemente quella di far decorrere la sospensione dal momento in cui tutti i soggetti processuali sono a conoscenza che non vi sono ostacoli all’avvio delle operazioni peritali.
Il termine finale della sospensione è espressamente indicato dalla norma, che rimanda al quarto periodo del comma 4 e dunque alla scadenza del termine perentorio di trenta giorni per la formulazione del dissenso.
Dal tenore letterale della norma sembra che la sospensione del procedimento non necessiti di un provvedimento esplicito del Giudice, così come – successivamente alla scadenza del termine per la proposizione del dissenso – non occorre un provvedimento giudiziale che in qualche modo dichiari o certifichi che il procedimento non è più sospeso.
L’aspetto più rilevante della norma - e certamente quello più attenzionato - riguarda la previsione espressa per cui “La sospensione non impedisce l'espletamento della consulenza”.
Si tratta in sostanza dell’introduzione di una nuova forma di sospensione prevista dal legislatore, perché, mentre in linea generale se un processo è sospeso non può essere svolta alcuna attività processuale nel giudizio, se non il deposito di un atto di riassunzione, nel caso in esame è esattamente l’opposto: l’introdotta sospensione non modifica di una virgola le modalità di espletamento delle operazioni peritali, che si dovranno svolgere esattamente come prima della riforma, secondo le scansioni temporali previste dall’art. 195 c.p.c., a cui va aggiunta l’automatica decorrenza del termine di trenta giorni per la formulazione del dissenso introdotta dalla novella.
Le ragioni che hanno spinto il legislatore dell’emergenza ad una siffatta previsione sono dichiarate nel preambolo del D.L. n. 117/2025: “la straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni che incidono sull'organizzazione giudiziaria e sul processo civile per agevolare il raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza entro il termine del 30 giugno 2026”.
Le misure previste nel decreto-legge sono dunque tutte dichiaratamente volte al raggiungimento degli obiettivi previsti dal PNRR; per quanto riguarda nello specifico in relazione al procedimento ex art. 445 bis c.p.c., le misure previste hanno il dichiarato fine di intervenire a fini acceleratori sul processo civile per eliminare incombenti non utili rispetto alla definizione dei procedimenti per accertamento tecnico preventivo in materia previdenziale e assistenziale.
Mentre la modifica sulla decorrenza del termine per la formulazione del dissenso è una misura che in concreto ridurrà le tempistiche di un accertamento tecnico preventivo ex art. 445 bis c.p.c., la sospensione del procedimento prevista dalla novella – a ben riflettere – non ridurrà in concreto alcuna durata del procedimento, se per durata del procedimento si intende il tempo necessario per l’accertamento del requisito sanitario utile a fruire di una prestazione assistenziale.
E allora l’unica ipotizzabile ragione della prevista sospensione non può che risiedere nel predetto fine di raggiungimento degli obiettivi del PNRR, nel caso specifico nel raggiungimento dell’obiettivo del Disposition Time (DT). Tale dato misura la durata media dei processi e che è calcolato come rapporto tra i procedimenti pendenti e quelli definiti in un anno, moltiplicato per 365 giorni.
Considerato che l’Italia ha concordato la riduzione del 40% del Disposition Time entro il 30 giugno 2026 e che ad oggi è ancora ben lontana dal raggiungimento di tale obiettivo, la sospensione del procedimento ex art. 445 bis c.p.c. durante il tempo di espletamento della CTU costituisce di fatto un escamotage statistico per espungere dalla durata del procedimento tutto il tempo occorrente per l’espletamento della CTU e per la formulazione del dissenso. Il risultato sarà inevitabilmente la significativa riduzione del DT nelle decine se non centinaia di migliaia di procedimenti ex art. 445 bis c.p.c. pendenti in tutti i Tribunali d’Italia.
Non essendo necessario un provvedimento giudiziale che sospenda il procedimento, la riuscita della riforma dipenderà essenzialmente dalla rapidità e dalla correttezza con cui gli operatori di cancelleria registreranno sui sistemi informatici l’evento della sospensione.
Va detto che, in attesa dell’aggiornamento dei sistemi informatici – in particolare dell’applicativo SICID - il Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli affari di Giustizia congiuntamente al Dipartimento per l’Innovazione tecnologica, in data 18/8/2025 ed in data 1/9/2025 ha diramato istruzioni operative, al fine di fornire indicazioni omogenee al personale di cancelleria per annotare tempestivamente e correttamente l’evento della sospensione, con la versione dell’applicativo in uso e in via provvisoria, fino all’adeguamento dell’applicativo alla disposizione in parola.
Tali istruzioni riguardano sia le modalità di annotazione della sospensione, con l’inserimento di un’annotazione obbligatoria uguale per tutti, sia le modalità di registrazione di eventi che in via ordinaria si verificheranno, ad esempio il deposito della CTU.
L’aggiornamento del sistema informatico in relazione alla modalità di registrazione del giuramento con contestuale sospensione del procedimento è stato effettuato in data 26/9/2025. Tuttavia non ogni problematica è stata risolta.
Alla registrazione del giuramento del CTU e del deposito dell’elaborato peritale potrà doversi aggiungere la registrazione di altre operazioni (quali il deposito di documentazione sopravvenuta con conseguente autorizzazione giudiziale ex art. 149 disp. att. c.p.c., la rinuncia all’incarico peritale con sostituzione del CTU), dalla cui correttezza dipenderà la durata stessa del procedimento in termini statistici.
Senza tralasciare l’eventualità che il Giudice abbia la necessità di dover sollecitare il CTU al deposito dell’elaborato peritale perché sono decorsi i termini stabiliti nel provvedimento di conferimento dell’incarico peritale ovvero di dover adottare i conseguenti provvedimenti, a seguito dell’eventuale inerzia del CTU nonostante il sollecito. Durante il compimento di tutta questa attività, sembrerebbe che il procedimento debba considerarsi comunque sospeso, ai sensi dell’art. 445 bis c.p.c., senza che sia necessario alcun provvedimento giudiziale sulle sorti della sospensione. Anche se, quanto meno nelle ipotesi in cui l’incarico peritale cessi per varie ragioni (se il CTU rinunci all’incarico dopo il regolare conferimento dello stesso o il ricorrente non si sia presentato a visita peritale ed il CTU abbia rimesso gli atti al Giudice) il procedimento dovrebbe non ritenersi più sospeso, almeno fino ad un nuovo conferimento di incarico.
6. Ambito applicativo dell’art. 445 bis c.p.c. riformato
L’art. 2, comma 7, del D.L. 8/8/2025 n. 117 delinea l’ambito di applicazione delle modifiche apportate all’art. 445, comma 4, c.p.c., prevedendo che la novella si applichi non solo ai procedimenti instaurati successivamente all’entrata in vigore del Decreto-Legge, bensì anche ai procedimenti pendenti. In relazione a questi è tuttavia necessario che non sia stato conferito ancora l’incarico peritale al consulente tecnico d’ufficio ovvero, se conferito, il CTU non abbia ancora prestato giuramento.
Rientrano dunque nell’ambito applicativo della riforma i procedimenti, instaurati anteriormente al 9/8/2025, se: 1) il Giudice non ha ancora nominato il consulente tecnico d’ufficio; 2) il Giudice, pur avendo nominato il consulente tecnico d’ufficio, non ha ancora conferito l’incarico peritale a quest’ultimo; 3) il Giudice ha conferito l’incarico peritale al consulente tecnico d’ufficio, ma quest’ultimo non ha ancora prestato giuramento.
Non rientrano invece nella riforma quei procedimenti nei quali alla data del 9/8/2025: 1) il Giudice ha conferito l’incarico peritale al consulente tecnico d’ufficio e questi abbia già prestato giuramento; 2) la Consulenza Tecnica d’Ufficio è stata già depositata ed il fascicolo è in attesa della concessione del termine per il dissenso; 3) il termine per il deposito del dissenso è in corso; 4) il termine per il dissenso è decorso ed il fascicolo è in attesa di emissione del decreto di omologa da parte del Giudice.
Potrebbe dubitarsi dell’applicazione della novella nell’ipotesi in cui, prima del 9/8/2025, sia stato conferito l’incarico peritale al consulente tecnico d’ufficio, ma gli atti sono stati rimessi al Giudice perché il consulente ha rinunciato all’incarico o perché il ricorrente non si è presentato alle operazioni peritali: in tal caso, qualora successivamente al 9/8/2025 sia nuovamente conferito l’incarico peritale al medesimo Consulente o sia conferito l’incarico peritale ad altro consulente il comma 4 riformato dovrebbe trovare applicazione, dovendosi fare riferimento – per l’applicazione della novella - al conferimento di ogni singolo incarico peritale.
7. Riflessioni conclusive
La riforma dell’art. 445 bis c.p.c., in particolare del comma 4, rientra tra le varie misure che il legislatore d’urgenza ha emanato attraverso il D.L. n. 117/2025 per raggiungere gli obiettivi del PNRR in relazione allo smaltimento dell’arretrato civile.
Se la decorrenza cd. “automatica” del termine per la formulazione del dissenso è una misura che consentirà una effettiva accelerazione processuale, per le ragioni innanzi illustrate, forti dubbi residuano sulla necessità di sospendere i procedimenti ex art. 445 bis c.p.c. durante la fase delle operazioni peritali e fino alla scadenza del termine per la formulazione del dissenso.
Tale sospensione – come si è detto – produrrà certamente effetti sul piano statistico, in quanto i giorni di sospensione non saranno rilevanti e rilevati ai fini della durata del procedimento e dunque vi sarà inevitabilmente una riduzione del Disposition Time, la cui riduzione rientra fra gli obiettivi del PNRR; tuttavia si ritiene che, tale misura, non incidendo sulla durata effettiva del procedimento, non ridurrà i tempi di attesa di giustizia del cittadino, perché la consulenza tecnica d’ufficio dovrà comunque seguire il suo corso.
Peraltro, non si comprende la scelta di applicare la sospensione ai soli procedimenti ex art. 445 bis c.p.c. e non anche a tutti i procedimenti civili che richiedono l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio.
Ciò che invece resta fondamentale è che a qualsiasi riforma legislativa siano affiancate adeguate modifiche degli applicativi ministeriali, al fine di consentire una corretta ed uniforme applicazione delle norme in tutti i Tribunali d’Italia da parte dei Magistrati e del personale di Cancelleria.
Gli accordi di coesione: profili di sistema e tutela a fronte dell’inerzia (nota a Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2024, n. 4321)
di Simone Franca
Sommario: 1. Lo svolgimento del processo. 2. Accordi di coesione e riflessi sulla competenza del giudice. 3. La natura giuridica dell’accordo di coesione. 4. L’esperibilità dell’azione avverso il silenzio. L’obbligo di provvedere. 4.1. L’obbligo di provvedere e le peculiarità della tutela a fronte di obblighi inadempiuti in materia di accordi. 4.2. L’obbligo di provvedere nel prisma del principio di buona fede. 4.3. Il decorso del termine e l’enucleazione della disciplina procedimentale. 5. Conclusioni.
1. Lo svolgimento del processo.
La pronuncia in commento affronta il tema della coercibilità dell’obbligo di concludere un accordo di coesione ex art. 1, comma 178, legge 30 dicembre 2020 n. 178, con particolare riguardo alla possibilità di attivare i rimedi avverso l’inerzia da parte dell’amministrazione statale rimasta inadempiente. Nella specie, la sottoscrizione dell’accordo rappresentava un presupposto fondamentale per il sostegno a un programma unitario di interventi nell’ambito della Regione Campania.
La controversia è sorta dopo alcune interlocuzioni tra l’amministrazione statale (in particolare, il Ministro senza portafoglio per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR) e il Presidente della Regione Campania, in relazione ai contenuti e alla stipula dell’Accordo di coesione di cui all’art. 1, commi 177 e178, l. 30 dicembre 2020, n. 178. Nella specie, in risposta all’urgenza palesata dal Presidente campano in ordine alla conclusione dell’accordo, il Ministro evidenziava una serie di criticità sul piano dei contenuti (ad esempio, la non congruità dei tempi rispetto all’espletamento delle procedure di aggiudicazione o le perplessità rispetto a specifiche linee di azione, come quella in materia ambientale), richiedenti ulteriori approfondimenti istruttori.
Gli scambi tra Ministero e Regione si protraevano vanamente dal settembre 2023 al dicembre 2024. Nel gennaio 2024, la Regione proponeva ricorso per l’accertamento del silenzio inadempimento a fronte dell’inerzia del Ministero rispetto alla conclusione dell’accordo.
Il T.a.r. Campania accoglieva il ricorso, dichiarando l’obbligo del Dipartimento per le politiche di coesione e il sud di ultimare l’istruttoria e predisporre lo schema di accordo, entro il termine di 45 giorni decorrenti dalla comunicazione della pronuncia.
Successivamente, la Presidenza del Consiglio dei Ministri (presso cui è istituito il Dipartimento per le Politiche di Coesione) e il Ministro senza portafoglio per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR hanno proposto congiuntamente appello, affidandolo a due motivi: l’uno con cui si contesta l’erroneità della sentenza gravata nella parte in cui ha respinto il difetto di incompetenza territoriale del T.a.r. Campania; l’altro, con cui si censura il rigetto dell’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo, giusta l’impossibilità di configurare un silenzio inadempimento rispetto ad un procedimento che si conclude con un accordo.
Il Consiglio di Stato ha respinto il primo motivo rilevando che l’efficacia dell’accordo di coesione è limitata al territorio campano; conseguentemente, la censura di difetto di competenza del T.a.r. Campania in favore del T.a.r. Lazio si è rivelata infondata.
Quanto al secondo motivo, il collegio ha svolto una articolata disamina dedicata, in primo luogo, alla natura degli accordi di coesione e, in secondo luogo, alla sussistenza dell’obbligo di provvedere a fronte del procedimento preliminare alla stipula dell’accordo.
Nella pronuncia in esame, dunque, il Consiglio di Stato ha l’occasione di affrontare tre snodi relativi agli accordi di coesione tanto rispetto alla natura sostanziale di essi, quanto alle implicazioni processuali sul fronte della competenza e della tutela in caso di inerzia.
L’esito del giudizio appare in linea di massima condivisibile, ma, come si tenterà di dimostrare, talune delle argomentazioni spese paiono in grado di far sorgere profili di criticità in particolare rispetto al ruolo del giudice amministrativo.
2. Accordi di coesione e riflessi sulla competenza del giudice.
Come chiarito in esordio, il primo motivo di appello attiene all’asserito difetto di competenza territoriale, respinto dalla sentenza del T.a.r. Campania. Più precisamente, gli appellanti annettono alla procedura oggetto del giudizio (e anche all’accordo che dovrebbe concluderla) un’efficacia ultraregionale, in considerazione del coinvolgimento di amministrazioni statali, della necessità di coordinamento con iniziative in territori limitrofi e dell’impiego di fondi strutturali europei.
Il Consiglio di Stato ricorda l’orientamento consolidato secondo cui il criterio della sede dell’organo si integra con quello dell’efficacia dell’atto «secondo una logica di complementarietà e di reciproca integrazione»[i]; orientamento che finisce con il concretare una sostanziale preminenza del secondo sul primo[ii].
Ad ogni modo, nella vicenda in esame la questione che appare controversa, e su cui si appunta l’argomentazione della Quarta Sezione, è la dimensione spaziale degli effetti dell’atto di cui tenere conto in base all’art. 13, co. 3 c.p.a., ovvero, nella specie, l’efficacia regionale o ultra regionale dell’accordo di coesione. Dal momento che l’accordo di coesione stabilisce come impiegare le risorse stanziate, in coerenza con la programmazione nazionale sul territorio campano, secondo il collegio non vi sarebbe motivo di ritenere che sia in grado di proiettare i propri effetti a livello ultra regionale. Né sarebbero rilevanti – al fine di spostare la competenza – gli interessi nazionali ed europei coinvolti nella stipula dell’accordo (ad esempio, gli interessi legati alla coerenza con i documenti di programmazione europea e nazionale) giacché essi si tradurrebbero in «implicazioni di carattere politico o comunque di verifiche istruttorie presupposte […] che non incidono sull’ambito territoriale di efficacia dell’accordo»[iii].
Ciò premesso, riflettendo sul criterio dell’effetto diretto dell’atto previsto dall’art. 13 c.p.a. è d’uopo premettere come tale criterio si mostri particolarmente fluido, giusto l’incerto perimetro del concetto stesso di effetto diretto. Tale criterio è infatti suscettivo di essere piegato entro diverse soluzioni ermeneutiche, causando problemi di tipo applicativo[iv]: si pensi, ad esempio, alle difficoltà legate alla necessità di distinguere, per un verso, ambito di efficacia e ambito di operatività dell’accordo[v] e, per altro verso, effetti dell’accordo e risultato pratico del medesimo[vi]. A questa generale criticità del criterio se ne aggiungono due. In primo luogo, il criterio dell’effetto diretto appare difficilmente compatibile con l’ipotesi del silenzio, dal momento che, declinare la dimensione spaziale degli effetti (art. 13, co. 3 c.p.a.) diventa difficile, considerando la lettera della legge, che fa riferimento solo agli atti, non anche ai comportamenti[vii]. In secondo luogo, l’ulteriore difficoltà è data dal riguardare gli effetti di un atto non unilaterale, bensì consensuale tra due amministrazioni, il quale implica, dunque, l’esercizio combinato di poteri spettanti tanto all’autorità statale quanto a quella regionale e il sorgere di plurime obbligazioni pubbliche.
Tenendo conto di questi diversi profili di criticità si osserva quanto segue.
Nel caso in cui non si addivenga alla stipula di un accordo – dando per assunto, al momento, che tale stipula sia doverosa – ci si trova nella situazione in cui il criterio dell’efficacia diretta deve essere adattato al caso di un comportamento inerte, ossia il silenzio.
L’orientamento giurisprudenziale dominante tende a riconoscere la competenza al T.a.r. che si sarebbe pronunciato in caso di adozione o diniego dell’atto rispetto a cui l’amministrazione è rimasta inerte[viii].
Si tratta di un orientamento che non è imposto dall’art. 13 c.p.a., tanto che in dottrina si è evidenziato come si potrebbe tener conto del luogo in cui ha sede l’ufficio presso cui si è presentata la domanda, dato che l’istanza spesso è trasmessa ad un ufficio che non coincide sempre con l’organo deputato ad adottare il provvedimento[ix]. Si tratterebbe, comunque, di una opzione interpretativa particolarmente complessa nel caso in esame, tenuto conto della laconicità del quadro applicabile agli accordi di coesione[x].
Dovendo dunque seguire l’orientamento dominante ci si deve concentrare sull’efficacia diretta “territorialmente limitata” dell’accordo che sarebbe stato adottato[xi]. Naturalmente, come gran parte degli accordi interistituzionali è difficile localizzare l’efficacia spaziale dell’accordo. Qui soccorre un precedente, in materia di accordi amministrativi, con cui si è posta l’attenzione sugli effetti prevalenti dell’accordo ai fini della competenza, dove la valutazione sulla prevalenza è stata svolta tenendo conto anche del tenore della domanda della parte ricorrente[xii].
Se così è, tenuto conto, in primo luogo, che l’accordo di coesione, una volta stipulato, consente l’adozione della delibera del Cipess di assegnazione delle risorse che a sua volta autorizza all’adozione degli impegni di spesa relativi ai singoli interventi e, in secondo luogo, che la domanda di parte ha ad oggetto la stipula dell’accordo per consentire il trasferimento delle risorse, allora pare difficile superare l’argomento della prevalenza (pure non impiegato, almeno esplicitamente, dal Consiglio di Stato)[xiii], nel senso di affermare la competenza del T.a.r. Campania.
3. La natura giuridica dell’accordo di coesione.
La pronuncia in commento svolge una serie di considerazioni di interesse sulla natura giuridica degli accordi di coesione. La scelta di affrontare direttamente questa complessa tematica non è casuale e l’argomentazione spesa non ha una funzione esornativa, essendo invece, come si vedrà, il presupposto su cui si fonda la coercibilità dell’obbligo di concludere l’accordo di coesione.
Posta questa premessa, una prima operazione, necessaria sul piano metodologico, impone di collocare l’accordo tra amministrazioni la cui natura è oggetto di riflessione all’interno del mosaico di regole rappresentato dagli artt. 11 e 15 della legge n. 241/90, recante la «cornice generale degli accordi tra pubbliche amministrazioni»[xiv].
Il Consiglio di Stato, in linea con tale metodologia, avvia il proprio ragionamento confrontandosi con la disciplina degli accordi contenuta nella l. n. 241/1990, nella specie con gli artt. 11 e 15, rispettivamente dedicati agli accordi tra privati e amministrazioni e agli accordi tra amministrazioni.
Nell’ambito dell’attività di sussunzione della fattispecie concreta entro la composita fattispecie astratta, rappresentata dal combinato disposto tra le norme ricavabili dalle due disposizioni, emerge già un primo elemento critico.
È noto che in base al già menzionato art. 11 gli accordi procedimentali sono suddivisi tra accordi integrativi e accordi sostitutivi, in base a come essi si rapportano a un dato provvedimento integrandone il contenuto o sostituendolo[xv]. Su tale rilievo il Consiglio di Stato opera una distinzione tra “accordi eventuali”, ovvero accordi che possono (ma non devono) essere sottoscritti, in funzione integrativa o sostitutiva del provvedimento, e “accordi necessari” individuati come gli atti «che si connotano per il fatto che la regolazione del rapporto giuridico di diritto pubblico, per le reciproche obbligazioni delle parti, è possibile solo nella forma consensuale e non anche in quella unilaterale»[xvi]. Pur nella consapevolezza della distinzione operata tramite la distinzione tra accordi necessari ed eventuali, riconducibile ad autorevoli ricostruzioni dottrinali[xvii], si rileva che entrambe le tipologie di accordo sono sussumibili entro l’art. 11. L’indicazione non appare irrilevante, giacché, in tal modo, si conferma che gli accordi tra amministrazioni pubbliche trovano la loro disciplina nell’art. 15, ma pur sempre nella cornice dell’art. 11[xviii].
Quanto all’art. 15, il richiamo ad esso da parte del Consiglio di Stato mette in luce la peculiarità degli accordi di diritto pubblico.
Così, si ribadisce la discrezionalità del potere di negoziare ex art. 15 a «precise condizioni per evitare di violare le regole di ricorso al mercato»[xix], rilevando altresì che il legislatore può configurare, settorialmente, ipotesi di “accordi pubblici speciali”, nella cui disciplina sono dedotti poteri peculiari (ad esempio, poteri per superare lo stallo rappresentato da trattative infruttuose), giungendo infine a riconoscere che gli accordi di diritto pubblico implicano una situazione di potere amministrativo e non di autonomia negoziale.
In questo senso, il Consiglio di Stato di fatto conferma gli orientamenti consolidati nella dottrina e nella giurisprudenza su tali figure consensuali, in particolare la natura dell’art. 15 come “norma in bianco”, in quanto integrata da diverse discipline settoriali[xx], e la collocazione del fenomeno degli accordi pubblici entro una categoria differente da quella dei contratti pubblici, in quanto si declina come forma di espressione del potere amministrativo[xxi].
Se ciò può apparire per certi versi scontato, sono comunque rilevanti le conseguenze di ordine precettivo ben poste in luce dal Consiglio di Stato dove afferma che «l’accordo pubblico si inscrive nella funzione amministrativa ed esprime una modalità di svolgimento del potere, attraverso la forma necessaria del procedimento di cui assume i caratteri di doverosità e necessaria funzionalizzazione alla finalità di interesse pubblico indicata dalla norma attributiva del potere»[xxii].
Detto in altri termini, l’accordo di diritto pubblico la cui disciplina è data dalla sintesi tra art. 11 e art. 15, rappresenta un modo attraverso cui si esprime il potere dell’amministrazione, il quale, a sua volta, si manifesta necessariamente secondo una struttura procedimentale. Dunque, non solo gli accordi ex art. 11, ma tutti gli accordi di diritto pubblico si esprimono attraverso una logica procedimentale. Per di più, il fatto che l’accordo sia espressione di un potere amministrativo in forma procedimentalizzata determina altresì che anche l’azione amministrativa strumentale alla stipula dell’accordo si caratterizzi per la conformità ai principi di doverosità e funzionalità[xxiii].
Sulla base di questa ricostruzione della fattispecie astratta “accordo pubblico”, il ragionamento del Consiglio di Stato prosegue attraverso il riferimento alla fattispecie normativa degli accordi di coesione ricavabile dall’art. 1, co. 177 e 178, della l. 30 dicembre 2020 n.178.
Qui emerge che l’accordo di coesione è a pieno titolo speciale, in quanto connotato da una “doppia specialità” rispetto agli accordi ex art. 11 e agli accordi fra amministrazioni ex art. 15. Pur definendo infatti gli accordi di coesione come accordi di diritto speciale procedimentali (dunque integrativi), la specialità degli stessi è rinvenuta in base al fatto che essi sono previsti in base al diritto europeo[xxiv] e inseriti in un quadro di «raccordo istituzionale tra le competenze dello Stato e quelle regionali in materia di programmazione economica».
Rispetto agli accordi ex art. 15, che pure hanno in comune con quelli di coesione il fatto di essere stipulati solo tra soggetti pubblici, questi ultimi sono peculiari per il «particolare atteggiarsi delle scansioni procedimentali»[xxv] e per la «sussistenza di un obbligo di procedere a fronte […] di un potere discrezionale che caratterizza il modello generale degli accordi di cui all’art. 15». Tali rilievi si giustificano sulla scorta della ricostruzione del procedimento sulla base del già citato art. 1, co. 177 e 178, della l. 30 dicembre 2020 n.178, in cui si inserisce la stipula dell’accordo. Il procedimento si articola nelle seguenti fasi: una fase di iniziativa in cui il Cipess avvia il procedimento d’ufficio con una delibera che programma le risorse da assegnare; una fase istruttoria in cui si valutano i cicli precedenti, tenendo conto delle obbligazioni assunte e dell’identificazione di nuovi obiettivi coerenti con la programmazione nazionale da parte di Regioni e Province autonome; infine una fase decisoria che conduce, se c’è accordo tra le parti coinvolte, alla stipula dell’Accordo per la coesione e, successivamente, alla delibera definitiva del CIPESS per l’assegnazione delle risorse.
È in questo snodo, dunque, che il Consiglio di Stato pone le basi per la sussistenza di un obbligo di provvedere, ricavandolo dalla natura giuridica dell’accordo di coesione come accordo di diritto pubblico procedimentale, in ragione anche della sua peculiare collocazione all’interno della scansione procedimentale volta all’erogazione delle risorse nell’ambito degli interventi per lo sviluppo.
4. L’esperibilità dell’azione avverso il silenzio. L’obbligo di provvedere.
In forza della ricostruzione della natura degli accordi di coesione e del loro peculiare regime giuridico occorre valutare l’accoglibilità del petitum condannatorio, sub specie di condanna a provvedere.
Come noto, nel quadro delle azioni di condanna con cui è possibile ottenere tutela a fronte dell’inerzia dell’amministrazione, l’azione avverso il silenzio ha uno spazio peculiare.
Con essa, infatti, il ricorrente ottiene l’accertamento dell’illegittimità dell’inerzia serbata dall’amministrazione, in presenza di un obbligo di provvedere, una volta scaduto il termine del procedimento[xxvi]. Sulla scorta di tale accertamento l’azione avverso il silenzio consente altresì di ottenere una condanna generica a provvedere. Tale condanna non presuppone che l’attività della p.a. sia vincolata, potendo essere discrezionale purché non nell’an[xxvii].
Il Consiglio di Stato deve dunque applicare queste regole a fronte della fattispecie peculiare dell’accordo di coesione, verificando se sia ammissibile e fondata la domanda di condanna alla stipula dell’accordo tra il Ministero e la Regione Campania.
Appurata la giurisdizione del giudice amministrativo[xxviii], il Consiglio di Stato deve concentrarsi, anzitutto, sulla configurabilità di un obbligo di provvedere.
In questi termini, ci sono almeno due profili da considerare rispetto al tenore del ragionamento del collegio, il primo relativo a precedenti orientamenti sull’obbligo di provvedere e alle conseguenze sul fronte della tutela rispetto a obblighi inadempiuti in materia di accordi; il secondo relativo al rilievo del principio di buona fede rispetto alla sussistenza dell’obbligo di provvedere.
4.1 L’obbligo di provvedere e le peculiarità della tutela a fronte di obblighi inadempiuti in materia di accordi
Il primo profilo da considerare attiene al rilievo dei diversi precedenti giurisprudenziali che hanno riconosciuto l’obbligo di provvedere. In questo modo non solo si tiene conto di ipotesi più peculiari rispetto all’attività provvedimentale unilaterale dell’amministrazione – ad esempio, quella degli atti amministrativi generali[xxix] –, ma anche di valorizzare alcuni precedenti relativi ad accordi in cui si era già posto il tema dell’obbligo di provvedere.
Benché i precedenti siano solo menzionati occorre evidenziare che in quelle fattispecie l’integrazione dell’accordo in una logica procedimentale rappresentava un passaggio dirimente per fondare l’obbligo di provvedere.
Nella prima fattispecie considerata[xxx], infatti, riguardante una procedura transattiva per danni da emotrasfusioni (dunque vertente su accordo transattivo tra privati e amministrazione) si valorizzava la «forte procedimentalizzazione del potere di cui è investita l’amministrazione» (sul modello delle procedure ad evidenza pubblica), affermando che non potesse che ritenersi configurabile un obbligo di pronunciarsi sulle istanze di transazione in una «fattispecie procedimentale in senso proprio».
Nella seconda controversia richiamata[xxxi], invece, si trattava di una questione differente da quella appena illustrata e da quella trattata nella pronuncia in commento. La vicenda riguardava infatti non la cogenza dell’obbligo a stipulare un accordo, quanto invece la cogenza di obblighi ricavabili da accordo già sottoscritto tra due amministrazioni[xxxii]. Anche in questo caso, comunque, si valorizzava il fatto che l’accordo si inserisse in una «vicenda procedimentale»[xxxiii].
I precedenti, dunque, appaiono rilevanti non solo per aver riconosciuto l’obbligo di provvedere a fronte di strumenti consensuali, ma anche per la valorizzazione della struttura procedimentale dell’attività che precede la stipula degli accordi.
La scelta argomentativa del collegio non è casuale, ma va compresa alla luce di ulteriori orientamenti, non menzionati nella pronuncia.
L’esperibilità dell’azione avverso il silenzio ha trovato infatti una limitazione in un orientamento più volte ribadito rispetto al mancato adempimento ad obbligazioni dedotte all’interno di accordi amministrativi. Dinanzi queste situazioni di inerzia la giurisprudenza amministrativa ha infatti negato l’ammissibilità dell’azione avverso l’inerzia, rilevando che con il rito speciale sul silenzio si è inteso tutelare il ricorrente solo rispetto al «mancato esercizio di potestà pubbliche discrezionali», ma non a fronte di «qualsiasi tipo di inerzia comportamentale della p.a.»[xxxiv]: tale circostanza impedirebbe di far valere il rimedio anche tenendo conto che esso non potrebbe essere attivato per la tutela di un diritto soggettivo, quale quello leso a causa di un obbligo convenzionale rimasto inadempiuto.
Alla luce di questo orientamento consolidato il precedente prima richiamato, contenuto nella pronuncia in commento, sembra apparentemente minoritario[xxxv]. In compenso, la giurisprudenza ha mostrato di apprestare una diversa forma di tutela a fronte dell’inadempimento di obblighi convenzionali, attraverso il rimedio dell’esecuzione in forma specifica di cui all’art. 2932 c.c.
Per esempio, nel caso di convenzioni di lottizzazione a fronte dell’inadempimento all’obbligo di cessione delle aree da parte dei lottizzanti, la giurisprudenza riconosce in capo al Comune la possibilità di agire ex art. 2932 c.c. per ottenere il trasferimento delle aree oggetto di cessione, tramite una sentenza costitutiva in luogo dell'atto pubblico di cessione gratuita delle aree[xxxvi]. Così, tenuto conto dell’applicabilità dei principi del codice civile in materia di obbligazioni[xxxvii] si riconosce che l’accordo, pur deducendo al suo interno l’esercizio del potere, è fonte di obbligazioni civilistiche[xxxviii] e dunque, anche tenuto conto dei principi di pienezza ed effettività della tutela[xxxix], è esperibile l’azione ex art. 2932 c.c.
Ricapitolando, e tentando di leggere la pronuncia in commento sugli accordi di coesione alla luce di questa giurisprudenza, è possibile affermare quanto segue.
Non pare che i diversi orientamenti possano essere portati a sistema recuperando la teoria del doppio grado[xl], ritenendo che l’azione avverso il silenzio sia esperibile prima della stipula dell’accordo, mentre l’azione ex art. 2932 c.c. solo dopo tale stipula.
Sembra invece che il confine tra i due rimedi riposi sul tenore dell’obbligazione rimasta inadempiuta. In questo modo, peraltro, si spiega il caso della pronuncia isolata menzionata nella sentenza in commento, in cui l’obbligazione rimasta inadempiuta riguardava l’emanazione di un provvedimento.
In omaggio, dunque, alla distinzione contenuta all’art. 1, co. 1-bis della l. n. 241/1990, tenendo conto della distinzione tra atti non autoritativi e atti autoritativi si avranno due ipotesi. Se occorrerà eseguire un’obbligazione in cui prevale l’assetto civilistico[xli] o in cui l’attività sia riconducibile a rapporti di natura paritetica[xlii] il rimedio sarà quello dell’azione ex art. 2932 c.c. Se invece occorrerà fare riferimento ad un obbligo (tendenzialmente un dovere) comportante l’esercizio di un potere (es. obbligo di provvedere), allora si ricorrerà all’azione avverso il silenzio[xliii]. In quest’ultima casistica occorre anche precisare che, sussistendone i presupposti, non pare si possa escludere a priori l’ammissibilità anche di un’azione relativa alla fondatezza della pretesa[xliv].
In questi termini, la pronuncia in commento consente di offrire maggiore chiarezza sul complesso quadro di tutela in materia di accordi.
4.2. L’obbligo di provvedere nel prisma del principio di buona fede
Il secondo profilo dell’argomentazione dei giudici di Palazzo Spada su cui conviene soffermarsi attiene alla lettura del tema dell’obbligo di provvedere alla luce del principio di buona fede.
Il collegio, infatti, a livello di obiter dictum – dal momento che il punto non era peraltro dirimente per la risoluzione della controversia[xlv] – afferma che l’obbligo di provvedere può sussistere anche in assenza di una espressa disposizione di legge che tipizzi il potere di presentare un’istanza; dunque, anche nelle fattispecie in cui si imponga l’adozione di un provvedimento per «ragioni di giustizia e di equità». Tale lettura si fonda sul rilievo del dovere di correttezza della p.a. in uno a quello di buona amministrazione, con l’ulteriore riferimento all’introduzione dell’espresso riferimento al principio di buona fede all’interno della l. n. 241 del 1990, ad opera della l. 11 settembre 2020, n. 120.
Questa riflessione si ricollega ad un orientamento risalente nella giurisprudenza amministrativa[xlvi], ma forse ora maggiormente enfatizzato anche grazie al riferimento espresso al principio di buona fede.
Si tratta di una riflessione molto importante dal punto di vista della tutela del cittadino perché consente a questi di avvantaggiarsi di una più ampia sfera di doverosità dell’azione amministrativa, anche grazie al principio di buona fede. È chiaro che però si genera una tensione piuttosto critica con il principio di legalità e il Consiglio di Stato pare esserne consapevole nella misura in cui afferma che «ciò non significa che non operi il principio di legalità ma che l’obbligo di provvedere, alla luce della buona fede, si desume dal contesto normativo di disciplina del potere pubblico»[xlvii].
Appare apprezzabile l’attenzione alla tutela che emerge da questo snodo, ma non bisogna trascurare i margini di incertezza che potrebbero eventualmente derivare da opzioni ermeneutiche poco sorvegliate tese a non dare dovuto spazio – come pure il Consiglio di Stato ammonisce – al dato positivo[xlviii].
4.3. Il decorso del termine e l’enucleazione della disciplina procedimentale
Infine, il giudice si sofferma sul decorso del termine del procedimento. Benché l’accordo di coesione sia ricondotto, come visto, entro una logica procedimentale, non si ha un termine ricavabile dal diritto positivo. In mancanza di un termine normativamente previsto, il Consiglio di Stato ritiene che si applichi il termine previsto dall’art. 2, co. 2 l. n. 241/1990. Tale termine, in effetti, è previsto, a beneficio della certezza del diritto, proprio nelle situazioni in cui il legislatore abbia riconosciuto (almeno implicitamente) la sussistenza di un obbligo di provvedere, ma non sia stato identificato un termine. L’operazione del Consiglio di Stato non si limita all’individuazione di tale termine, estendendosi altresì all’individuazione di almeno due regole che devono conformare l’azione del Ministero.
In primo luogo, il Consiglio di Stato declina la forma attraverso cui deve esprimersi l’eventuale diniego di stipulare l’accordo. In questo senso, il Consiglio di Stato ritiene che l’eventuale diniego dovrà assumere la forma della determinazione ex art. 11, co. 4-bis l. n. 241/1990, ossia la determinazione che deve precedere la stipula dell’accordo laddove l’amministrazione decida di concludere un accordo e che assumerà il tenore di un atto di «arresto procedimentale».
In secondo luogo, pur ravvisando il decorso del termine di 30 giorni e ritenendo altresì che, in ogni caso, sia trascorso un termine ben più lungo, superiore ai 180 giorni, «reputa equo e ragionevole» disporre la nuova decorrenza del termine in modo da permettere alle parti un’ulteriore fase di confronto «nello spirito di leale collaborazione cui i reciproci rapporti istituzionali devono essere improntati».
Si tratta però di operazioni ermeneutiche che hanno una diversa portata. Nel primo caso, stante la qualificabilità dell’accordo di coesione come accordo amministrativo cui si applica anche l’art. 11, co. 4-bis è chiaro che al dovere di emanare la determina in caso di stipula dell’accordo si accompagna un dovere di adottare una (motivata) determina a contenuto negativo, dato che l’accordo in questione è qualificabile come necessario. In altri termini, il fatto che non vi sia un’alternativa unilaterale alla stipula dell’accordo per lo stanziamento dei fondi e che l’accordo debba sussistere per arrivare alla conclusione della procedura rende necessario individuare un atto con cui l’amministrazione motivi la propria decisione, atto che sarà eventualmente impugnabile qualora ne sussistano le condizioni.
Diverso è il secondo caso in cui il giudice svolge una valutazione dichiaratamente equitativa tramite cui dando rilievo a pur commendevoli esigenze di leale collaborazione fa decorrere nuovamente il termine del procedimento. Si tratta del medesimo approccio che emergeva dall’ordinanza resa all’esito della fase cautelare, con cui il Consiglio di Stato ha sospeso l’esecutività della sentenza oggetto di impugnazione, ove si affermava che «sospesa la sentenza, resta fermo comunque l’obbligo di tutte le parti di proseguire il dialogo – ricorrendo a leali, reali, proficue e reiterate interlocuzioni – per addivenire alla celere definizione dell’accordo nel rispetto del principio di leale collaborazione»[xlix].
È però evidente che si tratta di una tecnica di tutela che sottende margini di discrezionalità, che sarebbero fisiologici nella fase cautelare, in ordine alla valutazione dei presupposti[l]. Tuttavia, tale tecnica solleva maggiori criticità rispetto al ruolo del giudice amministrativo, anche tenendo conto dell’attività integrativa che pure è chiamato ad esercitare[li].
5. Conclusioni
La pronuncia in commento si rivela fondamentale per varie ragioni.
Sul piano dei contenuti essa affronta una serie di snodi fondamentali al fine di identificare la disciplina relativa agli accordi di coesione, giungendo ad una definizione di alcuni tratti rilevanti sul piano sostanziale, con rilevanti implicazioni anche sul fronte processuale.
Tramite una lettura congiunta degli art. 11 e 15 il Consiglio di Stato riesce a sussumere la disciplina degli accordi di coesione entro la figura degli accordi amministrativi (e, in particolare, degli accordi tra amministrazioni), operando un inquadramento di ordine sistematico. L’istituto così ricostruito viene ricostruito in base alla propria disciplina settoriale, ricavando una struttura procedimentale in cui si incastona l’accordo e, per l’effetto, si inserisce nel regime di doverosità proprio del procedimento di erogazione dei fondi di coesione.
Al netto delle implicazioni in termini di competenza del giudice amministrativo la ricostruzione operata consente di giustificare la sussistenza non già di un obbligo a contrarre, bensì di un obbligo ad esaminare la proposta della Regione Campania e, conseguentemente, permette di ritenere fondata l’azione avverso il silenzio promossa dalla Regione.
La pronuncia consente così di favorire un significativo progresso (anche solo sul fronte della certezza) sul piano della sistematica degli accordi e dell’esperibilità dell’azione avverso l’inerzia. In particolare, come si è visto, la pronuncia, se letta alla luce di altri filoni giurisprudenziali, consente di portare a sistema le diverse forme di tutela a fronte di obblighi relativi alla stipula di accordi o obbligazioni convenzionali rimasti inadempiuti. In questo contesto campeggiano, tuttavia, alcuni profili di criticità.
La sentenza del Consiglio di Stato, infatti, mostra una condivisibile valorizzazione dei principi dell’azione amministrativa che però paiono portare il giudice a travalicare, in parte, il proprio ruolo. Se la considerazione del principio di buona fede rispetto all’individuazione dell’obbligo di provvedere causa una tensione solo eventuale con il principio di legalità, maggiori perplessità può suscitare il ricorso a principi che – pur se non impiegati per sostituirsi all’amministrazione, ma, in certo qual modo, per procedimentalizzare l’esercizio del potere susseguente al giudicato – paiono testimoniare un almeno parziale scostamento dalla funzione che è propria del giudice[lii].
[i] P.to 3.1 della pronuncia in commento, ove si menziona Cons. Stato, Ad. plen., 31 luglio 2014, n. 17 (in termini cfr. già Cons. Stato, Ad. plen., 4 febbraio 2013, n. 3, nonché, più recentemente, Cons. Stato, sez. V, 1° dicembre 2022, n. 10561; T.a.r. Lazio - Roma, sez. I-bis, 8 marzo 2025, n. 4957; T.a.r. Lombardia – Milano, sez. IV, 31 marzo 2025, n. 1126).
[ii] Va comunque ricordato quanto affermato da M.M. Fracanzani, La competenza per territorio, materia e grado del giudice amministrativo. Il regolamento di competenza, in Diritto processuale amministrativo diretto da G.P. Cirillo, Milano, Wolters Kluwer, 2017, p. 221, il quale opportunamente osserva che gli effetti diretti sono «effetti comunque concepiti per svilupparsi all’interno della sfera di competenza dell’ente», sicché la normale coincidenza tra sede dell’ente e ambito territoriale di efficacia dei suoi atti porta a considerare che, molto spesso, criterio della sede dell’organo e criterio dell’effetto diretto coincidano.
[iii] P.to 3.2 della pronuncia in commento.
[iv] Sui problemi di ordine applicativo rispetto al criterio dell’efficacia dell’atto già nella disciplina anteriore al codice del processo amministrativo cfr. P. Carpentieri, Le questioni di competenza, in Dir. proc. amm. 4, 2010, pp. 1232-1233; P. Stella Richter, La competenza territoriale nel giudizio amministrativo, Milano, Giuffrè, 1975, p. 19; più recentemente, rispetto alla situazione post-codice, si v. C. Guacci, La competenza nel processo amministrativo Torino, Giappichelli, 2018, pp. 11 ss.; V. Buratti, La difficile delimitazione degli effetti diretti del provvedimento nell’individuazione del giudice competente, in Dir. proc. amm., 1, 2024, pp. 113 ss. Sulle difficoltà derivanti dalla circoscritta attenzione al tema dell’efficacia spaziale degli atti amministrativi si v. A. Andreani, La competenza per territorio dei tribunali amministrativi regionali, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 119 ss.
[v] Sul punto cfr. G. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo. 1. L’attività, Milano, Wolters Kluwer, 2024, pp. 153-154, il quale peraltro evidenzia che gli effetti dell’atto possono prodursi in luoghi precisi, senza che ciò incida sull’ambito di efficacia dell’atto, potendo essere questo più ampio.
[vi] In tema si v. G. Falcon, voce Esecutorietà ed esecuzione dell’atto amministrativo, in Enc. giur., 1991, ora in Id., Scritti scelti, Milano, Wolters Kluwer, 2015, pp. 241 ss.
[vii] In questo senso si v. anche i puntuali rilievi di S.S. Scoca, Riflessioni critiche sui criteri di individuazione del giudice competente nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 4, 2013, pp. 1137 ss.
[viii] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 23 febbraio 2018, n. 1153; T.a.r. Lazio, sez. III-ter, 27 marzo 2019, n. 4041; Cons. Stato, sez. III, 21 dicembre 2012, n. 6655. Già in passato si sono avute incertezze rispetto ad altre tipologie di atti consensuali, come le transazioni. Cfr. in part. Cons. Stato, sez. III, 22 dicembre 2017, n. 6063 dove si privilegia l’effetto giuridico e non economico dell’atto di transazione (in questa prospettiva si v. anche L. Piscitelli, sub art. 13, in G. Falcon, F. Cortese, B. Marchetti (a cura di), Commentario breve al codice del processo amministrativo, Milano, Wolters Kluwer, 2021, pp. 161-162.
[ix] S.S. Scoca, op. cit. pp. 1137-1138.
[x] Benché, come si vedrà, il Consiglio di Stato ritiene che vi sia un obbligo di “esaminare la proposta di accordo” della Regione Campania, dalla disciplina dell’accordo di coesione non pare ricavabile una regola che assegni a quest’ultima il potere di proposta, individuando il Ministero come sede dell’ufficio presso cui presentare l’istanza. D’altronde far discendere la competenza dal solo tenore del comportamento della parte darebbe luogo a una significativa incertezza.
[xi] In ordine agli orientamenti della giurisprudenza sugli atti ad efficacia territorialmente limitata si v. in part. M. D’Orsogna, sub Artt. 13-14, in G. Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, Giuffrè, 2015, pp. 294 ss.; L. Piscitelli, op. cit., pp. 159 ss
[xii] La fattispecie riguardava una convenzione tra più regioni. Ai fini della competenza il Consiglio di Stato ha ritenuto che non essendo localizzabili gli effetti dell’intera convenzione ha fatto riferimento agli effetti prevalenti tenendo conto anche delle pretese dedotte nel ricorso (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 1994, n. 8, in Cons. Stato, I, 1994, spec. p. 29). Rispetto alla valorizzazione della domanda della parte, analogo ragionamento si rinviene quando un provvedimento impugnato opera in più Regioni, la giurisprudenza tende a evocare il principio di scindibilità degli effetti, in base a cui si considerano «i soli effetti interessati dall’azione giudiziale e, quindi, la portata effettuale dell’ipotetica pronuncia di annullamento» (Cons. Stato, sez. III, 15 febbraio 2021, n. 1407; in termini, Cons. Stato., sez. III, 23 giugno 2014, n. 3156).
[xiii] Peraltro, seguire questo percorso argomentativo avrebbe consentito di evitare di discutere della natura politica o meno delle implicazioni derivanti dalla coerenza con i documenti di programmazione o del carattere presupposto delle verifiche istruttorie, argomenti che potrebbero apparire non del tutto condivisibili.
[xiv] Così, F. Giglioni, A. Nervi, Gli accordi delle pubbliche amministrazioni, Napoli, Esi, 2020, p. 100. Come rilevato da G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto Torino, Giappichelli, 2003, pp. 177 ss., la norma-base è rappresentata dall’art. 11, contenendo esso una disciplina generale degli accordi amministrativi. Sulla portata generale dell’art. 11 si v. anche N. Aicardi, La disciplina generale e i principi degli accordi amministrativi: fondamento e caratteri, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, pp. 12 ss.; più recentemente anche F. Tigano, Il contenuto degli accordi al vaglio del giudice amministrativo: alla ricerca dell’interesse pubblico, in P. Urbani (a cura di), Riprendiamoci la città. Manuale d'uso per la gestione della rigenerazione urbana, iFEL Fondazione. Anci, 2023, p. 230 che evidenzia anche la centralità dell’art. 11 anche per gli accordi tra amministrazioni. Nondimeno, l’inquadramento degli accordi tra amministrazioni entro il modello dell’art. 11, benché letto in combinato disposto con l’art. 15, non è così agevole, dato che, ad esempio, il rinvio – contenuto nell’art. 15, co. 2 – alle disposizioni previste dall’art. 11, co. 2 e 3 è limitato dall’inciso «in quanto applicabili».
[xv] Peraltro, parte della dottrina ha rilevato che gli accordi ex art. 11 non sono riducibili ai soli accordi integrativi e sostitutivi, facendo riferimento agli «atti convenzionali di esercizio del potere amministrativo del quale l’ordinamento non consente l’esercizio unilaterale ed autoritativo» (così, M. Immordino, Legge sul procedimento amministrativo. Accordi e contratti di diritto pubblico, in Dir. amm., 1, 1997, p. 144).
[xvi] Cfr. p.to 4.1 della pronuncia in commento.
[xvii] In effetti, una contrapposizione tra accordi necessari e facoltativi (invece di eventuali) è presente in P.L. Portaluri, Potere amministrativo e procedimenti consensuali. Studi sui rapporti a collaborazione necessaria, Milano, Giuffrè, 1998 spec. pp. 221 ss. Qui però si tratta di una classificazione impiegata nell’ambito degli accordi ex art. 11, per distinguere le situazioni di disponibilità della fattispecie da parte della p.a., in cui la mancata stipula dell’accordo non lede l’interesse pubblico (accordi facoltativi) e le fattispecie in cui si ha una relazione di strumentalità necessaria fra interesse privato e pubblico, di talché la soluzione consensuale in termini regolativi si impone (accordi necessari). Di accordi “facoltativi” si discute anche in G. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino, Giappichelli, 2003, p. 82, sempre rispetto all’art. 11, per alludere al fatto che «l’Amministrazione detiene e conserva pur sempre la possibilità dell’agire unilaterale»; in chiave adesiva, v. anche M.C. Romano, Accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, in
A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2016, p. 605.
[xviii] Cfr. quanto rilevato supra sub nota 14. Sul rapporto tra gli artt. 11 e 15 nella disciplina dell’accordo tra amministrazioni si v. in part. R. Ferrara, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, pp 787 ss., mentre, sull’unitarietà della nozione di accordo amministrativo, pur nella consapevolezza delle distinzioni tra accordi procedimentali e accordi organizzativi si v. E. Sticchi Damiani, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, Giuffrè, 1992, pp. 120-123.
[xix] P.to 4.1 della pronuncia in commento. Ivi, peraltro, il collegio richiama l’art. 7 del codice dei contratti pubblici (d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36). Il riferimento è da intendersi all’esclusione degli accordi tra amministrazioni dalla disciplina del codice al sussistere delle quattro condizioni stabilite dall’art. 7, co. 4. In tema cfr., M. Delsignore, sub art. 7, in R. Villata, M. Ramajoli (a cura di), Commentario al codice dei contratti pubblici. D.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, Pisa, Pacini Giuridica, 2024, pp. 38-39; H. Bonura, La cooperazione pubblico-pubblico (art. 7, comma 4), in M. Clarich (a cura di), Commentario al codice dei contratti pubblici, Torino, Giappichelli, 2024, pp. 279 ss.; G. Scarafiocca, Il principio di auto-organizzazione amministrativa (Art. 7), in G.F. Cartei, D. Iaria (a cura di), Commentario al Codice dei Contratti pubblici. Dopo il correttivo, I, Napoli, Editoriale scientifica, 2025, pp. 104 ss.
[xx] In questo senso si v. Cons. Stato, sez. IV, Sent., 22 dicembre 2022, n. 11208, anche se la configurazione dell’art. 15 come norma in bianco è già presente in R. Ferrara, Gli accordi fra le amministrazioni pubbliche, cit., p. 782. Come osserva E. Bruti Liberati, Consenso e funzione nei contratti di diritto pubblico. Tra amministrazioni e privati, Milano, Giuffrè, 1996, p. 112, l’esistenza di una disciplina specifica non esclude l’applicabilità della disciplina generale degli accordi che con la prima è in rapporto di coordinazione e integrazione.
[xxi] In particolare, gli accordi tra amministrazioni rappresentano uno strumento per il coordinamento di poteri dato dall’assetto policentrico dell’ordinamento italiano e dalla progressiva maggiore considerazione delle autonomie, nonché della leale collaborazione come principio che ispira i rapporti tra Stato e autonomie. In tema cfr. in part. G. Pericu, L’attività consensuale della pubblica amministrazione, in L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F.A. Roversi Monaco, F.G. Scoca, Diritto amministrativo, II, Bologna, Monduzzi, 1993, pp. 773 ss., che evidenzia l’importanza degli accordi tra p.a. nell’ambito del coordinamento tra competenze amministrative frammentate e per la collaborazione nella migliore gestione dei servizi; E. Bruti Liberati, voce Accordi pubblici, in Enc. dir., Agg. V, 2001, p. 29; A. Contieri, La programmazione negoziata. La consensualità per lo sviluppo. I principi, Napoli, Editoriale scientifica, 2000, pp. 121 ss.; F. Cortese, Il coordinamento amministrativo. Dinamiche e interpretazioni, Milano, Franco Angeli, 2012, pp. 50 ss. P. Forte, Aggregazioni pubbliche locali. Forme associative nel governo e nell’amministrazione tra autonomia, politica, territorialità e governance, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 141 ss.; F. Rota, p. 213. Una prospettiva differente è quella offerta da G.D. Comporti, Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, Milano, Giuffrè, 1996, che, in linea con F. Merusi, Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo la riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, in Aa. Vv., Gerarchia e coordinamento degli interessi pubblici e privati dopo la riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 49 ss., rileva l’importanza di moduli di coordinamento come gli accordi amministrativi per il raggiungimento di risultato utile in termini materiali (p. 359), pur in una configurazione degli accordi tra p.a. come strumenti di paritaria interazione tra portatori di pubblici interessi (pp. 321 ss.). Cfr. anche G. Greco, op cit., pp. 175 ss., secondo cui non è una trascurabile evenienza l’interpretazione di accordi in senso prevalentemente o necessariamente privatistico, ma è chiaro che «il campo per così dire naturale di tali accordi è quello pubblicistico, implicante l’esercizio di potestà amministrative» (p. 185). Non va trascurato il contributo dato al tema degli accordi tra amministrazioni prima della l. 241/1990, rispetto alla configurazione di accordi organizzativi (S. Amorosino, Gli accordi organizzativi tra amministrazioni, Parte I: profili storico-dogmatici, Padova, Cedam, 1984; G. Pastori, Accordi e organizzazione amministrativa, in A. Masucci (a cura di), L’accordo nell’azione amministrativa, ora in G. Pastori (a cura di), Scritti scelti. I. 1962-1991, Napoli, Jovene, 2010, pp. 379 ss.), ma anche di convenzioni pubblicistiche, rispetto a cui sono state approfondite anche le dinamiche collaborative tra diversi livelli istituzionali e tra Regioni, con particolare riguardo alla vincolatività sul piano giuridico (G. Falcon, Le convenzioni pubblicistiche. Ammissibilità e caratteri, Milano, Giuffrè, 1984, pp. 172 ss., pp. 317 ss.; Id., voce Convenzioni e accordi amministrativi. 1) Profili generali, in Enc. giur., ora in Id., Scritti scelti, cit., pp. 205 ss.; rispetto agli accordi tra Regioni si v. pure G. D’Orazio, voce Accordi interregionali, in Enc. giur., I, 1988).
[xxii] P.to 4.1. della pronuncia in commento.
[xxiii] Rispetto alla doverosità legata alla deduzione del potere all’interno dell’accordo cfr. E. Bruti Liberati, op. cit., pp. 85. Più recentemente, rileva A. Moliterni, Amministrazione consensuale e diritto privato, Napoli, Jovene, 2016, p. 344 che «la lontananza della posizione dell’amministrazione da una vera e propria condizione di autonomia e di libertà sarebbe ancor più netta con riguardo ai rapporti negoziali incidenti su funzioni ed oggetti pubblici, rispetto ai quali risulterebbe prevalente la dimensione della doverosità tipica della funzione amministrativa». Rispetto alla doverosità dell’azione consensuale come indotta dall’elemento finalistico cfr. F. Cangelli, Potere discrezionale e fattispecie consensuali, Milano, Giuffrè, 2004, spec. pp. 335 ss. Sul rilievo del principio di funzionalità anche nella lettura contrattualprivatistica degli accordi cfr. G. Manfredi, Accordi e azione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2001, pp. 120 ss.; S. Civitarese Matteucci, Regime giuridico dell'attività amministrativa e diritto privato, in Dir. pubbl., 2, 2003, pp. 463 ss. rispetto agli accordi ex art. 11 (ma tenendo conto che una lettura contrattuale degli accordi è stata avanzata dallo stesso A. per gli accordi di programma: cfr. S. Civitarese Matteucci, voce Accordo di programma (dir. amm.), in Enc. dir., Agg. III, 1999, spec pp. 23-24).
[xxiv] P.to 4.1. della pronuncia in commento ove é richiamato espressamente il Regolamento delegato (Ue) n. 240/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014 recante un codice europeo di condotta sul partenariato nell’ambito dei fondi strutturali e d'investimento europei. D’altronde il diritto eurounitario si rivela fondamentale anche nello stimolare l’adozione di accordi di tipo orizzontale e verticale anche fra diverse amministrazioni nazionali. Per un inquadramento in tema è ancora di rilievo N. Bassi, Gli accordi fra soggetti pubblici nel diritto europeo, Milano, Giuffrè, 2004,spec. pp. 148 ss. Sulla portata del contributo di Nicola Bassi in merito agli accordi nel diritto europeo, anche alla luce dello studio delle figure tradizionali di accordo, si v. F. Fracchia, Gli accordi amministrativi nella produzione scientifica di Nicola Bassi, in Riv. reg. merc., 2, 2017, pp. 248 ss.
[xxv] P.to 4.1. della pronuncia in commento
[xxvi] Sul fondamento dell’obbligo di provvedere cfr., in part., A. Cioffi, Dovere di provvedere e pubblica amministrazione, Milano, 2005, pp. 89 ss.; F. Figorilli, A. Giusti, Art. 2 conclusione del procedimento, in N. Paolantonio, A. Police, A. Zito (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 136 ss.; A. Police, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2017, pp. 275 ss.; N. Posteraro, Domande manifestamente inaccoglibili e dovere di provvedere, Napoli, Editoriale scientifica, 2018, pp. 25 ss.; M. Renna, F. Figorilli, voce Silenzio della pubblica amministrazione. I) Diritto amministrativo, in Enc. giur, XXVIII, 2009, pp. 1 ss.; più recentemente cfr. A. Calegari, sub art. 31, in G. Falcon. F. Cortese, B. Marchetti (a cura di), op. cit., pp. 343 ss.; F. Follieri, Il silenzio nei procedimenti ad iniziativa officiosa, Napoli, Editoriale scientifica, 2023; S. Villamena, Inerzia amministrativa e nuove forme di tutela. Profili organizzativi e sostanziali, Torino, Giappichelli, 2020, pp. 101 ss.
[xxvii] La discrezionalità, infatti, costituisce un limite a fronte dell’esperimento dell’azione di adempimento, presupponendo essa che l’attività sia vincolata (o sia esaurita la discrezionalità) e che non residuino ulteriori adempimenti istruttori. Nondimeno, a queste condizioni, sarebbe profilabile un’azione di adempimento, benché, in situazioni di silenzio, la giurisprudenza non si spinga a pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa (su queste problematiche cfr. M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., 2014, pp. 727 ss.; C. Silvano, Il Consiglio di Stato alla prova del giudizio contro il silenzio: verso una tutela maggiormente effettiva? (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 2024, n. 3945), in questa Rivista).
[xxviii] Non vi è dubbio in base all’art. 133, lett. a), n. 2. Anche nel caso di accordi tra p.a., in ogni caso, occorre verificare che la controversia abbia come “oggetto immediato” l'accordo medesimo e non vicende a carattere meramente patrimoniale (in tema, Cass., sez. un., 19 settembre 2023, n. 26853; Cass., sez. un., 6 aprile 2022, n. 11252; Cass., sez. un., 5 ottobre 2021, n. 26921
[xxix] Va comunque osservato che la giurisprudenza non è univoca, rinvenendosi un orientamento piuttosto consistente che nega l’esperibilità dell’azione avverso il silenzio a fronte di atti amministrativi generali o atti regolamentari sull’assunto che il rimedio sarebbe «circoscritto alla sola attività amministrativa di natura provvedimentale» (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 3 gennaio 2023, n. 76; Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2021, n. 5539; Cons. Stato, sez. IV, 2 settembre 2019, n. 6048).
[xxx] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 24 novembre 2011, n. 6244. Sulla natura non civilistica di questi strumenti consensuali, ma sulla non riconducibilità ad accordi procedimentali transattivi cfr. A. Cassatella, Note in tema di transazione e atti a funzione transattiva nel diritto amministrativo, in G. Falcon, B. Marchetti (a cura di), Verso nuovi rimedi amministrativi? Modelli giustiziali a confronto, Napoli, Editoriale scientifica, 2015, p. 247; Id., La transazione amministrativa, Napoli, Editoriale scientifica, 2020, p. 67.
[xxxi] Cons. Stato, sez. III, 28 agosto 2013, n. 4309.
[xxxii] Va comunque notato che, in passato, la giurisprudenza ha in più occasioni negato l’ammissibilità dell’azione avverso il silenzio in caso di obblighi di fonte convenzionale (nell’ambito di accordi e contratti), ritenendo che essa potesse essere esercitata solo a fronte di attività provvedimentale e per la tutela di interessi legittimi. Sul punto si tornerà infra.
[xxxiii] Per quanto riguarda infine l’ultima pronuncia menzionata nella sentenza in commento (ossia Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2022, n. 2636), non rintracciabile nelle banche dati, molto probabilmente il riferimento è a Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2002, n. 2636.
[xxxiv] Così, in part. Cons. Stato, sez. IV, 10 marzo 2014, n. 1087. Cfr. altresì Cons. Stato, sez. VII, 30 maggio 2024, n. 4860; Cfr. Cons. Stato, sez. III, 13 settembre 2021, n. 6265; Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2015, n. 4902; Cons. Stato, sez. IV, 10 marzo 2014, n. 1087. Cfr. anche A. Calegari, op. cit., p. 342.
[xxxv] V. però la lettura sistematica proposta infra.
[xxxvi] Cfr. recentemente T.a.r. Sicilia Catania, sez. IV, Sent., 5 settembre 2023, n. 2625. In senso affermativo rispetto al ricorso all’art. 2932 c.c. cfr. pure Cons. Stato, ad. plen., 20 luglio 2012, n. 28; Cons. Stato Sez. IV, 7 settembre 2020, n. 5376; Cons. Stato, Sez. IV, 21 aprile 2017, n. 1875; T.a.r. Sicilia - Catania, sez. IV, 5 settembre 2023, n. 2625; In dottrina, affermativamente, si v. M. Renna, Il regime delle obbligazioni nascenti dall'accordo amministrativo, in Dir. amm., 1, 2010, pp. 76-77, ritenendo consumato il potere discrezionale della p.a. una volta stipulato; F. Tigano, Accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di), op. cit., p. 665, che enfatizza in tal senso il rilievo del rinvio ai principi in materia di obbligazioni del codice civile. più recentemente si v. anche S. Florian, L’azione di adempimento tra rifiuto di provvedimento e silenzio dell’amministrazione, Torino, Giappichelli, 2022, pp. 144-145.
[xxxvii] Il punto è evidenziato in Cass. civ., sez. un., 5 dicembre 2023, n. 33944.
[xxxviii] In questo senso, cfr. in part. T.a.r. Toscana - Firenze, sez. III, 27 novembre 2018, n. 1552.
[xxxix] Cass. civ., sez. un., 9 marzo 2015, n. 4683.
[xl] D’altronde la negoziabilità stessa del potere nell’ambito degli accordi amministrativi postula il superamento di questa impostazione (in questo senso E. Bruti Liberati, voce Accordi pubblici, cit., pp. 5 ss.; E. Bruti Liberati, Consenso e funzione, cit., pp. 47 ss.; A. Moliterni, op. cit., p. 104), senza contare che pure la giurisdizione esclusiva in materia di accordi, rispetto alle diverse vicende di formazione e di esecuzione dell’accordo, fa perdere la valenza sistematica della teoria del doppio grado (E. Bruti Liberati, voce Accordi pubblici, cit., pp. 5-6; sul rilievo della giurisdizione esclusiva in rapporto alla diversa disciplina dei contratti pubblici cfr. anche M. Ramajoli, Gli accordi tra amministrazione e privati ovvero della costruzione di una disciplina tipizzata, in Dir. amm., 4, 2019, pp. 686-687). Sulla teoria del doppio grado, pure con rilievi critici, si v. G. Falcon, Le convenzioni pubblicistiche, cit., pp. 287 ss.; F. Ledda, Il problema del contratto nel diritto amministrativo, ora in Id., Scritti giuridici, Padova, Cedam, 2002, pp. 121 ss.; A. Masucci, Trasformazione dell’amministrazione e moduli convenzionali. Il contratto di diritto pubblico, Napoli, Jovene, 1988, pp. 51 ss.
[xli] Appare difficile rilevare l’esistenza di obbligazioni tout court civilistiche. D’altronde, già in Cons. Stato, ad. plen., 20 luglio 2012, n. 28 si era rilevato come l’atto d’obbligo di un consorzio relativo alla cessione di aree e all’assunzione a proprio carico di oneri di urbanizzazione non fosse qualificabile come una obbligazione meramente privatistica, essendo invece atto privato accessivo all’assegnazione nel piano di zona.
[xlii] Rispetto a questi rapporti, infatti, Cons. Stato, sez. VII, 30 maggio 2024, n. 4860 esclude l’applicabilità dell’azione avverso il silenzio e, dunque, dovrebbe prospettarsi l’esperibilità dell’azione ex art. 2932 c.c. Di tutta evidenza, bisognerà tener conto delle peculiarità ulteriori della disciplina generale (ed eventualmente settoriale) dell’accordo se stipulato tra amministrazioni.
[xliii] Peraltro, a tutela del ricorrente, si ritiene che sia possibile la conversione dell’azione in queste ipotesi, come già osservato in altra sede (sia consentito il rinvio a S. Franca, La conversione dell'azione tra potere ufficioso e principio della domanda: dal criterio della continenza alla centralità della vicenda sostanziale, in Dir. proc. amm., 1, 2024, p. 174.
[xliv] Non esclude, a fronte di inerzia provvedimentale nella materia degli accordi, l’esperibilità dell’azione di adempimento ex art. 31, co. 3 e 34, co. 1, lett. c) c.p.a., oltre al ricorso alla tutela ex art. 2932 c.c. anche S. Florian, op. cit., spec. p. 145. In questa ricostruzione, tuttavia, il problema che si può porre attiene alla tutela a fronte di gruppi di obbligazioni di tipo diverso. Non appare comunque da escludere una soluzione che si basi sul cumulo tra azione di adempimento e azione ex art. 2932 c.c.
[xlv] Cfr. p.to 4.2.1.della pronuncia in commento ove si afferma che «L’obbligo di provvedere, in coerenza con il principio di legalità, è previsto da una specifica disposizione di legge (art. 1, comma 178, lett. d, legge n. 178 del 2020, cit.) che disciplina un apposito procedimento di assegnazione delle risorse ed in cui la Regione, dopo il provvedimento Cipess del 3 agosto 2023 n. 25, è sicuramente titolare di una posizione differenziata che la legittima ad agire contro l’inerzia della Presidenza del Consiglio. Rispetto alla formulazione dell’art. 15 della legge n. 241 del 1999, la suddetta norma, sul piano letterale, è chiara nel prevedere che le parti «definiscono d’intesa un accordo» e, dunque, contempla un obbligo procedimentale di provvedere».
[xlvi] L’orientamento era già stato individuato in A. Cioffi, op. cit., pp. 97 ss., ma, rispetto al più recente impiego della clausola delle «ragioni di giustizia ed equità» si v. S. Villamena, Inerzia amministrativa e nuove forme di tutela. Profili organizzativi e sostanziali, Torino, Giappichelli, 2020, pp. 126 ss. In senso contrario all’orientamento che fondava semplicemente su ragioni di giustizia ed equità l’obbligo di provvedere, prima ancora della l. n. 241/1990, per ragioni di indeterminatezza si v. A. Angiuli, Studi sulla discrezionalità amministrativa nel quando, Bari, Cacucci, 1988, p. 101.
[xlvii] P.to 4.2. della pronuncia in commento.
[xlviii] Sui problemi dati dagli orientamenti tesi a superare la rigidità della norma come fondamento dell’obbligo di provvedere cfr. D. Marrello, Le prospettive dell'azione avverso il silenzio fra la salvaguardia dell'obbligo di provvedere e la valorizzazione dell'art. 2 della legge n. 241/1990, in Dir. proc. amm., 4, 2020, spec. pp. 1057 ss.; G. Tropea, Spunti sull’azione di condanna a fronte dell’inerzia della pubblica amministrazione nel rapporto fra amministrazione e giurisdizione, in P. Cerbo, G. D’Angelo, S. Spuntarelli (a cura di), Amministrare e giudicare. Trasformazioni ordinamentali, Napoli, Jovene, 2022, p. 110. Il vaglio relativo alla legittimazione può in questo ambito assumere particolare importanza (cfr. S. Franca, L’azione di condanna a fronte dell’inerzia nel rapporto fra amministrazione e giurisdizione, ivi, p. 83), giacché orienta la valutazione sull’obbligo di provvedere alla sussistenza di una pretesa normativamente tutelata che pare suscettiva di guidare il sindacato nel giudice, ove ve ne siano i presupposti, verso una pronuncia sulla fondatezza della pretesa. In questo senso, effettivamente, il richiamo al principio di buona fede potrebbe avere un rilievo maggiormente significativo, proprio nella prospettiva di un’azione di adempimento.
[xlix] Ord. Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2024, n. 1325.
[l] Il fatto che il giudice abbia discrezionalità nella valutazione dei presupposti è un dato pacifico e, anzi, sorgono criticità quando questa legittima discrezionalità venga compressa (F. Saitta, Interprete senza spartito? Saggio critico sulla discrezionalità del giudice amministrativo, Editoriale scientifica, 2023, pp. 249 ss.). Tuttavia, occorre osservare che solleva maggiori criticità la discrezionalità esercitata dal giudice cautelare quando la valutazione sulla sussistenza dei presupposti si traduce in un bilanciamento degli interessi delle parti. In tema cfr. già C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo di legittimità e tutele cautelari, Padova, Cedam, 2002, spec. pp. 163 ss.; più recentemente, anche alla luce dell’esperienza pandemica, cfr. M. Ricciardi Calderaro, La comparazione degli interessi nella valutazione cautelare del giudice amministrativo, Napoli, Jovene, 2023; C.E Gallo, La giurisdizione amministrativa, Torino, Giappichelli, 2024, pp. 293 ss.
[li] Sull’attività integrativa del giudice, come attività tramite cui i giudici sono chiamati a individuare la legalità sostanziale, senza ragionamenti di tipo analogico e senza che l’attività ermeneutica si traduca nella creazione di norme inedite. Per maggiori approfondimenti in tema, cfr. A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2, 2018, pp. 657 ss.; più recentemente sul ruolo della giurisdizione amministrativa nel quadro della separazione dei poteri (onde contenere il problema del creazionismo giudiziario) si v. Id., Separazione dei poteri, ruolo della scienza giuridica, significato del diritto amministrativo e del suo giudice: osservazioni a margine di "Ogni cosa al suo posto. Restaurare l'ordine costituzionale dei poteri" di Massimo Luciani, in Dir. proc. amm., 1, 2024, pp. 254 ss. Al problema dei limiti dell’attività integrativa può aggiungersi, in altre controversie, il problema del labile confine tra amministrazione e giurisdizione (su cui cfr. L. Saltari, I giudici amministratori, in Riv. trim. dir. pubbl., 1, 2023, pp. 327 ss.).
[lii] Più in generale, sulle criticità legate all’uso di parametri equitativi anche tenendo conto dell’attività integrativa del giudicante spec. G. Tropea, L’effettività “equitativa” della decisione del giudice amministrativo: il caso della modulazione nel tempo degli effetti della sentenza, in Dir. proc. amm., 4, 2023, pp. 711 ss.
V Congresso nazionale di Area DG, 10 ottobre 2025, Genova
Buonasera a tutte e a tutti.
Arriviamo oggi al Congresso dopo giorni intensi, carichi di sollecitazioni, di interrogativi e di pensieri; giorni che ci hanno ricordato e richiamato la serietà e la responsabilità del nostro impegno.
Non è un Congresso che si apre su un terreno neutro: giunge dopo un percorso che ci ha messi di fronte - mai come ora - alle fragilità e alle contraddizioni della nostra società, e che ha chiamato ciascuno di noi a confrontarci con la estrema complessità del contesto in cui ci muoviamo.
Abbiamo seguito con molto interesse la tavola rotonda sui Diritti negati. Un titolo scelto con grande consapevolezza, a distanza di poco più di due anni dal congresso di Palermo in cui avevamo discusso di Diritti sotto attacco, solo qualche giorno prima di quel 7 ottobre 2023 che ha segnato profondamente il corso degli eventi successivi.
Sono i temi appena discussi – i diritti negati- che introducono i nostri lavori.
Abbiamo riflettuto sul lavoro, e lo abbiamo fatto sapendo che esso è il primo fondamento della nostra Repubblica, la base su cui si costruisce la dignità di ogni persona. Ma abbiamo visto anche quanto, oggi, sia vulnerabile, spesso svuotato di garanzie, ridotto a fatica priva di riconoscimento, piegato alla logica del profitto immediato. E quando il lavoro non è più diritto ma precarietà, è il luogo da cui a volte non si ritorna, quando diventa trappola invece che strumento di emancipazione, allora si incrina il patto sociale, ed è necessario restituire equilibrio, difendere la dignità di chi lavora.
Abbiamo discusso di carcere, ricordando che la misura della civiltà di un Paese non si legge nei discorsi e nelle dichiarazioni di intenti, ma nelle condizioni dei luoghi di detenzione.
Il sovraffollamento, la mancanza di servizi, la violazione quotidiana della dignità umana, i suicidi sono ferite che gridano alla coscienza di tutti. Nessuna istanza di sicurezza può trasformare la pena in mera segregazione: la giustizia deve saper custodire la legalità anche dentro le mura del carcere, deve garantire che nessun essere umano venga ridotto a numero e che la speranza non venga cancellata. Senza dignità, la pena diventa vendetta. E la vendetta non appartiene alla giustizia, appartiene al disordine, alla regressione, alla barbarie.
Abbiamo guardato ai minori, ai più fragili, e abbiamo sentito quanto sia urgente custodirli. Ogni volta che un bambino resta senza tutela, ogni volta che un ragazzo cresce senza protezione, è la comunità intera che fallisce. La giustizia deve farsi tutela concreta e ascolto di chi ha meno voce, perché è la Carta costituzionale che ce lo chiede.
Abbiamo perlato delle donne in un racconto che non vorremmo più ascoltare. Vorremmo parlare di dome libere e sicure e non di violenze silenziose e di paure soffocate; di sorrisi e non di lividi nascosti. C’è ancora molto da fare.
Abbiamo parlato di guerra, e in particolare dei conflitti che oggi devastano terre e popoli. La guerra non è mai lontana da noi, porta con sé fratture che attraversano anche le nostre società, riaccende paure, legittima la violenza come strumento politico e di consenso. E allora la giustizia è chiamata a ricordare che nessuna ragione di Stato, nessuna strategia geopolitica, può giustificare la violazione dei diritti fondamentali. La giustizia è presidio non solo entro i confini nazionali, ma nel mondo globale in cui viviamo.
Ultimo, ma non certo ultimo, abbiamo toccato il tema delle povertà e delle disuguaglianze, che si allargano giorno dopo giorno. La forbice tra chi ha molto e chi ha quasi nulla cresce, e con essa cresce il rischio che il vivere civile e in condizioni di dignità diventi privilegio per pochi e chimera per molti. Noi sappiamo che tali disuguaglianze non possono può convivere con uno Stato di diritto. Ogni volta che la mancanza di mezzi esclude qualcuno dalla possibilità di difendere i propri diritti, è come se la luce della Costituzione si affievolisse. La giustizia deve essere la casa di tutti, e non il rifugio di chi può permettersela.
In tutti questi momenti, ciò che è emerso con chiarezza è che la giustizia è il terreno in cui si misura la tenuta della nostra democrazia, perché da come viene amministrata dipende la fiducia collettiva nello Stato di diritto. È il banco di prova della qualità della vita civile, perché non c’è libertà autentica se i diritti non trovano tutela effettiva davanti a un giudice indipendente. Ed è, infine, la cartina di tornasole della credibilità delle istituzioni: se la giurisdizione perde autorevolezza o indipendenza, si incrina l’intero edificio costituzionale, e con esso la possibilità stessa di una convivenza fondata su regole condivise e rispettate.
Il titolo del nostro Congresso – “La forza e il diritto. Il presidio della giurisdizione” – ci restituisce questa consapevolezza.
La forza, nelle sue molteplici forme, rischia di prevalere sul diritto.
La forza della politica, che a volte si piega alla ricerca ossessiva del consenso immediato, sacrificando principi e coerenza. La forza dell’economia, che riduce i diritti a costi, a variabili da comprimere. La forza dell’opinione pubblica, troppo spesso disinformata o manipolata, che invoca risposte rapide, semplificazioni pericolose, capri espiatori. La forza della comunicazione deformata attraverso l’utilizzo di linguaggi violenti, di notizie false, di verità omesse.
Di fronte a tutto questo, il diritto appare fragile. Eppure, è proprio nella sua apparente fragilità che risiede la sua forza più autentica: perché il diritto non è non è prevaricazione e violenza, ma risoluzione del conflitto e garanzia delle libertà.
La giurisdizione ha il compito di difendere questo spazio fragile ma allo stesso tempo potente, senza mai piegarsi alle convenienze o alle contingenze.
Il Congresso è, per sua natura, un momento di confronto prevalentemente interno, in cui il gruppo si interroga sulla propria azione e sui propri obiettivi. Ma sarebbe riduttivo pensare al Congresso come un semplice discutere di noi.
La posta in gioco è alta: c’è la capacità di Area dg di difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura perché solo così si può immaginare una giustizia che parli ai cittadini e alle cittadine, che sappia riconoscere le trasformazioni della società e rispondervi senza chiudersi in un linguaggio autoreferenziale.
Il dibattito che ora si apre non potrà prescindere da questa tensione: da un lato, la difesa dei principi che garantiscono l’autonomia della magistratura; dall’altro, la necessità di rinnovare il nostro modo di intendere e praticare la giustizia, perché non resti distante, ma viva e percepibile nella vita quotidiana.
Mi auguro che in questi giorni ognuno di noi porti il proprio contributo con franchezza, con spirito critico e con l’ambizione di restituire alla giurisdizione il suo ruolo autentico: non un’entità separata dal contesto sociale, ma un elemento fondante della democrazia.
ll percorso che ci ha condotti qui ci dice che difendere l’autonomia della magistratura è essenziale e non negoziabile. Occorre anche saperla declinare come servizio alla collettività, come strumento di tutela dei più deboli, come garanzia per tutti. L’autonomia è responsabilità. L’autonomia è presidio.
Mi auguro che ognuno di noi, in questo Congresso, porti il proprio contributo con coraggio e spirito critico, con l’ambizione alta che deve sempre accompagnare la nostra funzione.
Con questa convinzione, con questa speranza e con le parole di Michele Serra che ci ha ricordato che il mondo ha bisogno di ragione e, ove possibile, di gentilezza dichiaro aperti i lavori del Congresso nazionale di Area DG.
Egle Pilla
In occasione dell’intitolazione dell’aula multimediale di Villa Castel Pulci alla memoria del prof. Valerio Onida, primo Presidente della Scuola Superiore della Magistratura, riteniamo utile offrire alla lettura l’intervento di Ernesto Aghina alla cerimonia del 5 settembre 2025, apertasi con la lettura da parte della Presidente Silvana Sciarra di un messaggio del Presidente della Repubblica Mattarella.
Non posso nascondere la mia emozione per questa cerimonia, che sono certo accomuna tutti i colleghi qui presenti, componenti del primo direttivo della SSM.
Ho visto occhi luccicare oggi qui, e sono sicuri sintomi del forte ricordo per Valerio Onida di chi ha condiviso con lui i primi quattro anni di avvio della Scuola superiore della magistratura.
Abbiamo condiviso con Valerio Onida un’esperienza che ci ha arricchiti e che ci ha legati profondamente al nostro presidente.
Un legame affettivo che è l’origine della nostra richiesta di intitolare a Valerio Onida quest’aula; siamo lieti che la nostra iniziativa sia stata prontamente accolta dalla presidente Sciarra e dal direttivo (che ringraziamo); l’abbiamo fatta anche a nome di Giovanna Ichino, forse la più legata di tutti noi ad Onida, che purtroppo ci ha lasciati di recente.
Qui, in quest’aula che da oggi porterà il suo nome, Valerio Onida ha generosamente messo al servizio dei giovani neo magistrati la sua sapienza giuridica, spiegando con grande umiltà e chiarezza (rifuggendo da tecnicismi superflui) il significato dei principi fondativi della Costituzione.
Quella Costituzione di cui era profondamente innamorato e che per lui non è mai stato “il pezzo di carta che caduto non si muove”, facendo riferimento alla nota citazione di Calamandrei.
Il combustibile di Valerio Onida era l’autentica passione di insegnare ai m.o.t. le tecniche di redazione delle ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale.
Quando il C.S.M. scelse la squadra destinata a dirigere il complesso esordio della SSM, l’indicazione del prof. Onida (inevitabile presidente in pectore) ci mise in soggezione.
Il nome del prof. Onida era quello di un gigante del diritto, già presidente della Corte Costituzionale, dell’ Associazione Italiana dei Costituzionalisti, e autore di opere notissime, tra cui la voce “Costituzione” del Digesto (e scusate se è poco..).
Non lo conoscevamo personalmente ma da subito, dopo le prime riunioni del comitato direttivo, si determinò un’empatia trascinante, per cui il prof. Onida divenne subito per noi tutti: Valerio.
Un compagno sorridente di un’avventura, quella del decollo dell’inedita struttura di formazione della magistratura, che ci coinvolse determinando una coralità di azione ed un legame che si è perpetuato anche dopo la fine del mandato.
Ho parlato dell’esordio della Scuola come di un’avventura, e non credo di avere usato un termine enfatico.
Siamo partiti da zero, nel 2012 la SSM era solo una sigla, una scatola vuota (come letteralmente priva di tutto era la maestosa sede di Castel Pulci), e potete credermi se dico che abbiamo affrontato e superato non poche difficoltà.
Di ordine logistico, organizzativo, gestionale, specie sulle modalità di “inventare” un così lungo percorso di formazione iniziale per i m.o.t., non certo agevolati dalla collaborazione di un C.S.M. che si sentiva in qualche modo depauperato di una competenza formativa che gli era sempre stata attribuita fino a quel momento.
Forse è stata proprio la volontà di superare tutti questi ostacoli che ha determinato una non scontata coesione del direttivo, unito con il suo Presidente, che ci ha aiutato con il suo coinvolgimento in una causa che ha sentito subito “sua”, ed al cui servizio ha messo anche la una determinazione “testarda”, derivata dalle sue origine sarde, come più volte ci ricordava divertito.
Ci ha contagiato tutti, componenti del direttivo, segretari generali e personale amministrativo.
Lo ha fatto con l’entusiasmo, il rigore, la sobrietà e l’esempio (impose a tutti di seguire la sua decisione di viaggiare in treno, senza alcuna eccezione, in seconda classe..).
Per quattro anni abbiamo condiviso con Valerio Onida un percorso in qualche modo pioneristico, denso di accadimenti e di ricordi.
Non posso non ricordare la sua cura per la formazione inziale dei m.o.t., cui ha sempre dedicato una particolare attenzione, rispondendo alle loro domande in lunghi confronti anche nei percorsi su tram e pullman da e verso Scandicci.
Debbo altresì menzionare, nonostante non fosse di estrazione penalistica, la sua peculiare dedizione al tema della pena, del carcere, prevedendo per la prima volta in assoluto, nel periodo di tirocinio dei m.o.t., una loro permanenza all’interno delle case circondariali.
Una scelta innovativa e per certi aspetti dirompente, che determinò qualche incomprensione, ripetutasi quando - da precursore- volle affrontare alla Scuola il tema della giustizia riparativa.
Ho iniziato evocando l’emozione, vorrei concludere partecipandovi dell’autentica commozione che mi determina il collegare quest’aula, tradizionalmente destinata alla formazione dei m.o.t., alla persona di Valerio Onida.
Per farlo mi basta ricordare un episodio, indimenticabile, che data ad uno dei primi giorni, trepidamente attesi, dell’inizio dell’attività didattica della S.S.M. per i neo magistrati.
Nell’albergo di Firenze, dove alloggiavamo come comitato direttivo, venni svegliato quasi all’alba da una telefonata di Onida che, con percepibile imbarazzo, mi chiedeva di raggiungerlo nella sua stanza perché vittima di un banale incidente: era scivolato dopo essersi fatto la doccia.
Lo raggiunsi e lo trovai sanguinante, con una vistosa ferita al capo, per cui lo accompagnai al vicino ospedale, sentendolo per tutto il tragitto rammaricato per quanto accaduto e per il disguido determinato al programma dei lavori della mattina, che lo avrebbe visto come relatore.
Sostanzialmente, invece di preoccuparsi delle sue condizioni di salute (per cui nutrivo qualche apprensione) il suo pensiero continuava ad andare ai m.o.t. che lo aspettavano.
L’intervento dei sanitari non fu rapido, fu necessaria una sutura del taglio, per cui arrivammo a Castel Pulci con qualche ora di ritardo.
Ho ancora negli occhi, e conservo gelosamente (come tutti i componenti del direttivo), il ricordo del momento dell’arrivo di Onida con il capo fasciato da un turbante di bende, proprio qui, in questa aula che da oggi porterà il suo nome, in cui i m.o.t., resi edotti dell’accaduto, si alzarono tutti in piedi tributandogli un lunghissimo applauso.
Da allora, scherzando (ma forse non troppo…) gli abbiamo sempre detto che “aveva dato il sangue per la Scuola della magistratura”.
Ognuno di noi ha la ventura di incontrare molte persone nel corso della vita, ma solo alcune, poche, lasciano una traccia profonda e indimenticabile.
Per tutti noi che abbiamo operato qui sotto la sua guida, certamente uno di quei pochi è stato Valerio Onida.
La magistratura italiana, e la Scuola in particolare, hanno un debito di riconoscenza verso Valerio Onida, intitolargli quest’aula, che collega in perpetuo il suo nome alla formazione dei giovani magistrati, è un piccolo, ma significativo, saldo di quanto gli è dovuto…..
Intervento di Alberto Ambrogi (Usigrai) al V Congresso nazionale di Area DG, 10-12 ottobre 2025, Genova
Parto da due parole che ci accomunano e ci sono care. Indipendenza e autonomia. Le chiediamo anche noi come sindacato delle giornaliste e dei giornalisti della Rai per la nostra azienda. Le chiediamo da anni, con l’alternarsi di governi di ogni colore. Chiediamo che la politica stia fuori dalla Rai e non decida nomine e promozioni come avviene oggi. Ora siamo meno soli perché l’8 agosto scorso è entrato in vigore l’European Media Freedom Act che impone ai servizi pubblici degli stati membri, indipendenza dai Governi di turno e certezza di risorse. Lo abbiamo ricordato in un comunicato sindacale letto in tutti i tg Rai quel giorno, l’8 agosto. Sapete cosa hanno fatto i dirigenti della Rai nominati dal Governo? Si sono sentiti in dovere di rispondere al posto di Palazzo Chigi. E nella replica che hanno ascoltato tutti i telespettatori hanno avuto il coraggio di dire che Usigrai lede l’immagine e la reputazione della Rai e la dignità professionale dei colleghi.
Nella mentalità di queste persone ricordare che è entrato in vigore un regolamento europeo che non è applicato in Italia significa ledere immagine e reputazione.
Del resto è chiaro. Chi critica vuole male al Paese. Bisogna colpire sistematicamente e neutralizzare ogni voce critica
Lo abbiamo visto anche per la cosiddetta Riforma Nordio. Sono state minacciate pubblicamente dal Ministro della Giustizia sanzioni disciplinari nei confronti dei magistrati che sono intervenuti nel dibattito pubblico
Guardate qui non è questione idee politiche, ma di onestà intellettuale. Anche l’ultimo cronista come me capisce benissimo che questa legge non risolve nemmeno uno dei problemi atavici della Giustizia. Chiunque abbia seguito almeno una inaugurazione dell’anno giudiziario sa bene che i passaggi di funzione da requirente a giudicante si contano sulle dita di una mano, chiunque segua la cronaca giudiziaria sa che ogni giorno, più volte al giorno, un Giudice ribalta le tesi di un Pm.
Qui c’è solo la volontà di questo Governo di colpire la Magistratura, indebolirla e ridurla al silenzio. Addirittura, cancellare il diritto di eleggere i propri rappresentanti.
Viene il dubbio che faccia tutto parte di un disegno più ampio. Penso al Decreto Sicurezza, penso diritto di critica e al diritto di cronaca oggi sempre più indeboliti. Un intero partito, il partito della Presidente del Consiglio, che querela un programma di inchiesta come Report. La seconda carica dello stato che sulla Rai in prima serata definisce i giornalisti di Report “calunniatori serali” e li querela (ennesima richiesta archiviata).
Le querele bavaglio restano una piaga per i giornalisti: fai un servizio, un articolo che non mi piace? Ti querelo e ti chiedo un risarcimento milionario. Il Parlamento Europeo nel febbraio 2024 ha approvato la direttiva anti SLAPP per la protezione della libertà di espressione e della partecipazione pubblica di giornalisti, attivisti e whistleblower ma ancora quella direttiva non è stata trasposta nel nostro ordinamento. E così chi vuole intimorire e imbavagliare i giornalisti è libero di farlo.
Ma anche altri Governi, penso al cosiddetto "Governo dei migliori" ci hanno regalato riforme meno nefaste per la Magistratura, ma che colpiscono il diritto dei cittadini ad essere informati, che discende dall’articolo 21 della Costituzione.
Su tutte la riforma Cartabia con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza che dal nostro punto di vista ha creato danni incalcolabili. Peraltro, un recepimento che è andato in una direzione opposta rispetto a quella pensata dal legislatore, perché quella direttiva europea richiama più volte la necessità di salvaguardare la libertà di stampa e dei media in nome dell’interesse pubblico.
Abbiamo decine di casi di notizie censurate (il più eclatante un femminicidio a Padova nell’agosto del 2023, questa settimana una violenza sessuale ai danni di una studentessa universitaria a Pavia), ogni giorno riceviamo dalle Forze di Polizia comunicati relativi a fatti avvenuti giorni o addirittura mesi prima. A volte perché i comunicati erano in attesa di approvazione da parte del Procuratore capo. Le persone vengono arrestate, per fatti rilevanti e di interesse pubblico, e a volte non si viene a sapere. Ma questa è tutela della presunzione di innocenza o censura di Stato?
Riceviamo comunicati stampa surreali dove nemmeno vengono citati, non dico i nomi delle persone indagate, non dico quelli delle persone destinatarie di misure cautelari, ma nemmeno le località dove avvengono i reati o dove vengono eseguite le ordinanze.
“La riforma Cartabia ha introdotto il concetto di velina di regime”. Non lo dico io. Lo ha detto in un convegno organizzato da Usigrai sul tema, nel febbraio del 2022, l’allora Procuratore facente funzione di Milano Riccardo Targetti. Di certo non un pericoloso sovversivo.
Che sia un Procuratore capo a dover decidere cosa dia notizia o meno non è consono a un paese civile. E trovo pericoloso che questo potere sia concentrato nelle mani di una sola figura istituzionale.
Poi il combinato disposto con l’emendamento Costa e il divieto di pubblicare estratti delle ordinanze di custodia cautelare è veramente la ricetta perfetta per annichilire la libertà di informazione.
L’impressione è che si vogliano colpire tutti i poteri di controllo. Accade con il sistema giudiziario con l’obiettivo di portare i pubblici ministeri sotto il controllo del Governo. Accade con l’informazione, con il servizio pubblico radiotelevisivo di cui il Governo vuole continuare a controllare nomine e quindi notizie.
Ma non lo permetteremo. Quest’anno anche l’Usigrai, sindacato di base della Federazione nazionale della stampa, ha celebrato il proprio congresso. Abbiamo scelto tre parole: solidarietà, libertà, diritti. Con un sottotitolo “di sana e robusta Costituzione”, ovviamente con la C maiuscola. Dobbiamo continuare ogni giorno a lottare per difendere la nostra Costituzione antifascista, antirazzista, solidale e pacifista.
Grazie.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.
