ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Buongiorno a Tutti,
vorrei, innanzitutto, ringraziare l’Associazione Nazionale Magistrati per avermi invitato a questo evento, che è un’importante occasione di confronto sul tema della separazione delle carriere.
Confronto che, invece, è il grande assente dell’iniziativa del Governo, che ha avviato una procedura di riforma costituzionale con grandi proclami, ma senza aprire un dialogo costruttivo tra tutte le parti in causa, siano essi Magistrati, Avvocati o cittadini comuni, i primi ad essere interessati alle questioni legate alla Giustizia.
Il confronto è stato sostituito da un monologo, in cui il tema della separazione delle carriere ha acquisito una centralità tale da far svanire, dal dibattito sulla Giustizia, altri e ben più pressanti problemi che affliggono i nostri Tribunali.
Il Paese soffre di un cronico sovraccarico dei Tribunali e di una severa carenza di Magistrati.
Eppure, di questo non si parla più. Adesso, sembra che la priorità degli italiani sia il divorzio tra Giudici e Pubblici Ministeri.
L’esigenza, che viene reclamata a gran voce, sarebbe quella di garantire l’indipendenza della Magistratura giudicante da quella requirente; preoccupazione questa davvero peculiare, soprattutto in un Paese che non è certamente caratterizzato da qualche sorta di servilismo della Magistratura giudicante rispetto a quella requirente.
Già la mia semplice esperienza nel Foro di Milano ne è prova evidente.
Sono molte le inchieste di rilievo, avviate dalla Procura milanese, che, negli ultimi anni, non hanno superato il vaglio dibattimentale.
Se penso ai casi che ho trattato personalmente, mi viene subito in mente la vicenda MPS, che ha visto contrapposta la Procura di Milano già con l’ufficio GIP, su vari tronconi della vicenda, e poi con l’Autorità Giudicante, che sino ad oggi ha sempre assolto gli imputati, a dispetto delle richieste della Procura della Repubblica.
Il caso Eni Nigeria, balzato alle cronache nazionali per aver visto la Procura sconfessata, e il caso dei camici durante il Covid, che il Giudice dell’Udienza Preliminare non ha neppure consentito finisse a giudizio.
Per non parlare dei casi che hanno avuto un rilievo, oltre che mediatico, anche politico; casi che, negli ultimi tempi, sono sempre stati caratterizzati da decisioni della Magistratura giudicante contrapposte a quelle della Magistratura requirente. Come è avvenuto, ad esempio, nel processo Fondazione Open, con il proscioglimento dell’ex premier Renzi dalle accuse sollevate dalla Procura di Firenze.
È, quindi, evidente che non esista alcun problema di patologica commistione tra Giudici e Pubblici Ministeri. Eppure, non passa giorno senza che questa accusa venga elevata, accompagnata da continui attacchi nei confronti della Magistratura.
Attacchi sordi, qualunque sia la decisione assunta dai Giudici: condanne o proscioglimenti, non fa differenza, la Magistratura è comunque responsabile di abusi.
Ma attenzione, perché questo continuo riferimento ad asseriti abusi confonde i cittadini: i non addetti ai lavori potrebbero pensare che la separazione delle carriere sia la panacea di tutti i mali della Giustizia italiana. Ma così non è perché, come ho detto, in questo Paese non esiste un problema di indebita commistione tra Magistratura giudicante e requirente.
Senza contare che questo clima di contrasto tra il ceto politico e la Magistratura crea un terreno fertile per interventi esterni come quello di Elon Musk, che si è trovato nella condizione di poter esprimere dichiarazioni invadenti e irrispettose nei confronti della Magistratura italiana, nel silenzio più assoluto tanto della maggioranza quanto dell’opposizione.
Dichiarazioni intollerabili di fronte alle quali ho sentito il bisogno di scrivere una lettera indirizzata ai Direttori dei principali quotidiani nazionali per ricordare che difendere la Magistratura significa difendere la nostra democrazia, perché ogni attacco alla dignità delle nostre istituzioni e di chi le rappresenta ferisce il nostro senso di comunità.
Da qual momento in avanti, se possibile, la mia preoccupazione è aumentata.
Continuo a percepire un notevole disagio quando assisto al contraddittorio comportamento di chi, prima, celebra i Giudici garantisti, perché assolvono il Ministro Salvini, nel processo Open Arms, salvo poi affermare che la vicenda in questione sarebbe la prova dell’esigenza di procedere quanto prima alla separazione delle carriere, laddove la logica, mi pare, direbbe esattamente il contrario, dato che l’assoluzione è avvenuta a dispetto delle richieste della Procura.
Poi, dopo poco, si denigrano i Magistrati, perché sarebbero politicizzati, avendo condannato il Sottosegretario Delmastro, ma non si dice ai cittadini che, prima di esprimere un giudizio sulle sentenze e sul loro preteso carattere politico, bisogna prima leggere le motivazioni di quelle decisioni. È mai possibile che basti un dispositivo per dire che i Giudici sono politicizzati?
E soprattutto non si dice che, in quel processo, un autorevole Pubblico Ministero aveva chiesto l’assoluzione del Sottosegretario Delmastro.
Per carità, è giusto che ognuno sia libero di rivendicare la propria innocenza e tutti sappiamo che le sentenze possono essere ribaltate nei successivi gradi di giudizio. Ma non si possono accompagnare le legittime rivendicazioni della propria innocenza con offese gratuite nei confronti della Magistratura, perché questo clima di contrapposizione tra i poteri dello Stato è nocivo.
In questo modo, l’unico effetto che si ottiene è quello di screditare la Magistratura agli occhi dei cittadini, che ovviamente perdono fiducia nei confronti della Magistratura stessa. Soprattutto quando leggono dichiarazioni come quella della Sottosegretaria Siracusano, che - all’indomani della sentenza sul caso Cospito - ha affermato, testualmente, «noi andremo avanti sulla separazione e per dare argini al PM, fatevene una ragione»[1].
Come volete che siano interpretate dichiarazioni come questa? Esattamente nel senso che ho indicato prima, e cioè che di fronte ai presunti abusi della Magistratura occorra limitare i poteri dei Pubblici Ministeri.
Ma se vi è un intendimento di limitare i poteri dei Pubblici Ministeri significa che vi è una certa insofferenza verso la funzione giurisdizionale della Magistratura requirente.
Una funzione giurisdizionale che, come noi avvocati sappiamo bene, è proprio quella che ci ha consentito, in tutti questi anni, di rappresentare ai Pubblici Ministeri le nostre ragioni, portando ad altrettante richieste di archiviazione. E ciò è potuto accadere, perché i Pubblici Ministeri rispondono solo alla legge.
Non dobbiamo rinunciare alla funzione giurisdizionale dei Pubblici Ministeri, perché è quella che consente loro di respingere pretese di invasioni di altri poteri, come i poteri economici e i poteri politici.
Non posso, quindi, che esprimere una seria inquietudine, sia come cittadino che come avvocato, quando si veicola l’idea che la riforma costituzionale sia volta a limitare lo strapotere dei Pubblici Ministeri, come se fosse il punto di partenza di un futuro condizionamento da parte del potere politico.
La riforma sulla separazione delle carriere non deve comportare la compressione della funzione giurisdizionale della Procura della Repubblica, perché è la più alta forma di garanzia per ogni cittadino.
*
Concludo ricordando, e lo dico veramente senza retorica, che bisogna portare rispetto alla Magistratura, non foss’altro per la storia della Magistratura: se viviamo in un Paese più libero, se oggi leggiamo sui giornali che la mafia è molto più debole, lo dobbiamo all’impegno, al coraggio e al sacrificio dei Magistrati. Fosse solo per questo, chi oggi ha lo scettro del potere non deve mancare di rispetto alla Magistratura.
Mi auguro quindi che, d’ora in avanti, cessino gli attacchi rivolti a Giudici e Pubblici Ministeri e si interrompa questa disinformazione sull’attività svolta dalla Magistratura.
Anche perché gli strumenti di divulgazione pubblica, che sono a disposizione del ceto politico, hanno una portata ben più ampia ed incisiva rispetto a quelli della Magistratura. E questa asimmetria nella diffusione delle informazioni pesa, perché sono certo che, ad oggi, l’opinione pubblica non abbia chiari i termini e gli effetti di questo disegno di legge.
Se il Governo vuole avviare un confronto serio su una riforma costituzionale di tale portata deve iniziare ad invertire la rotta: il rispetto nei confronti della Magistratura è il punto di partenza necessario per avviare qualsiasi dialogo sulla separazione delle carriere. Indipendentemente da quale sia la propria idea al riguardo.
È essenziale che un processo di riforma costituzionale avvenga in un clima di serenità, lontano da ogni forma di strumentalizzazione ideologica, che possa compromettere la qualità del confronto democratico. Il mio invito è questo: apriamo un dialogo, parliamo tutti, perché tacere oggi è l’assunzione di gravi responsabilità per il nostro domani.
[1] Fonte la Repubblica del 22 febbraio 2025 nel testo dell’articolo «Anm contro il governo “attacchi sconcertanti” Delmastro: “Ayatollah”».
Testo del discorso pronunciato da Giuseppe Iannaccone al Cinema Adriano di Roma in occasione dello sciopero dei magistrati in difesa della Costituzione indetto dall'ANM il 27 febbraio 2025.
La proposta di revisione che modifica l’assetto costituzionale della magistratura italiana
Sommario: 1. Premesse in tema di interventi sulla Costituzione - 2. La proposta di revisione costituzionale approvata dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025 smantella l’assetto costituzionale della Magistratura - 2.1. Perché deve essere riformato l’assetto costituzionale di uno dei tre poteri dello Stato? - 3. La revisione del principio secondo il quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” - 4. L’ossimoro dell’unico ordine composto di due ordini. La separazione della magistratura requirente dalla magistratura giudicante - 5. La funzione disciplinare.
1. Premesse in tema di interventi di revisione costituzionale
La proposta di legge di revisione in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare (p.d.l. n. C. 1917, di iniziativa della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio) costituisce il primo tentativo di incrinare l’assetto del sistema democratico del nostro paese come consacrato nella Costituzione della Repubblica Italiana, approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre del 1947.
Le leggi di revisione costituzionale, sino ad oggi quindici (legge di revisione Cost. n. 2/1963, n.1/1967, n. 1/1989, n. 1/1991, n.1/1992, n. 3/1993, m. 2/1999 n. 1/2007, n. 1/2000, n. 3/2001, n. 1/2003, n. 1/2012, n. 1/2020, n. 1/2022, n.1/2023), sono state tutte coerenti ai 139 articoli della Costituzione italiana.
In coerenza con il nucleo fondamentale della Costituzione gli interventi di revisioni hanno infatti rafforzato i diritti fondamentali, la parità di tutti i cittadini davanti alla legge, hanno ampliato la sfera dei beni collettivi da tutelare, hanno migliorato la tenuta del sistema democratico e infine regolato l’autonomia regionale.
Quanto ai diritti fondamentali è stato introdotto il divieto di estradizione dello straniero per reati politici (art. 10 e art. 26 l. cost. n.1/1967) ed è stata eliminata la pena di morte anche in caso di leggi militari di guerra (art. 27 l. cost. n. 1/2007).
In coerenza con il principio secondo il quale tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge è stato modificato l’art. 96 che, nella versione originaria, prevedeva che “Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri sono posti in stato d'accusa dal Parlamento in seduta comune per reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni”.
La legge di revisione costituzionale n. 1/1989 ha sostituito l’articolo con la previsione secondo la quale: “il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati”, sono stati conseguente modificati i compiti della Corte costituzionale con riferimento ai processi di accusa contro i ministri (gli 134 e 135 legge n. 1/89).
In linea con la tutela dei diritti è stato introdotto il principio del giusto processo (art. 111 Cost. l. n. 2/1999).
Quanto alla parità è stata inserita la promozione delle pari opportunità in tema di accesso agli uffici pubblici (art. 51 legge cost. n. 1/2003), il riconoscimento del diritto di voto agli italiani all’estero (art. 48 l. cost. n. 1/2000).
Interventi hanno riguardato la tutela dell'ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni (art. 9 Cost. l. n. 1/2022). È stato inserito quale limite all’iniziativa economica il non recare danno alla salute e all’ambiente (art. 41 l. cost. n.1/2022). È stato dato rilievo costituzionale al valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell'attività sportiva in tutte le sue forme (art. 33 l. Cost n. 1/2023).
Per la migliore tenuta del sistema democratico è stato introdotto il principio dell’improrogabilità di ciascuna camera se non per legge e soltanto in caso di guerra (art. 60 l. Cost. n. 2/1963). È stata specificata l’immunità dei membri del parlamento (art. 68 l. cost. n. 3/1993). In materia di amnistia e indulto la delegazione del Presidente della Repubblica è stata sostituita da legge deliberata dai 2/3 dei componenti di ciascuna camera (art. 79 l. n. 1/1992). In materia di scioglimento delle camere è stato introdotto il limite temporale dei sei mesi prima della scadenza (88 l. cost. n. 1/1991). Con l’ingresso nell’Unione europea è stato poi dato rilievo costituzionale al pareggio di bilancio dello Stato (art 81, 97 l. cost. n. 1/2012).
Gli interventi di revisione hanno riguardato la composizione del Parlamento, senza influire sulla sua funzionalità. Sono stati introdotti correttivi con riferimento al numero dei parlamentari – numero fissato nel 1948 in proporzione alla popolazione – (gli articoli 56, 57 sono stati modificati prima dalla l. cost. n. 1/63 e poi dalla l. cost n.1/2020). È stata portata a diciotto anni l’età dell’elettorato attivo per il Senato (art. 58 l. n.1/2021). È stata introdotta interpretazione autentica della disposizione concernente la nomina da parte del Presidente della Repubblica dei senatori a vita (art. 59 l. cost. n. 1/2020).
Con la legge di revisione n. 3 del 2001 sono state introdotte modifiche al Titolo V della Costituzione (dall’art. 114 all’art. 132) che hanno diversamente perimetrato l’autonomia di regioni, province e comuni.
Questa breve rassegna delle leggi di revisione costituzionale conferma che la proposta di revisione costituzionale approvata il 16 gennaio 2025 è assolutamente distonica rispetto ai precedenti interventi, anche quanto ai tempi di prima approvazione alla Camera di un testo nella sostanza blindato.
Una pericolosa breccia alla Costituzione antifascista del 1948, in grado di ledere gravemente la tenuta del sistema democratico del nostro paese.
Sino ad oggi nessun intervento di revisione costituzionale ha riguardato l’assetto di uno dei tre poteri dello Stato.
La legge di revisione costituzionale in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare (p.d.l. n. C. 1917, di iniziativa della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, approvato il 16 gennaio 2025 dalla Camera dei deputati), costituisce il primo step verso la modifica dell’assetto costituzionale della magistratura così incidendo sul principio della tripartizione dei poteri dello Stato.
Il disegno di legge di revisione è ora all'esame del Senato (d.d.l. n. S. 1353) per il secondo passaggio dei quattro richiesti dall’art. 138 Cost. Se la legge non sarà approvata in seconda votazione da ciascuna delle due camere a maggioranza dei due terzi sarà possibile il ricorso alla consultazione referendaria e l’approvazione dipenderà dal voto popolare.
Per il referendum costituzionale non è previsto quorum, con il voto “sì” si approva la riforma con il voto “no” si rifiuta la revisione e la nostra Costituzione rimane integra.
È la prima volta, infine, che con legge di revisione costituzionale si incide in maniera significativa sulla spesa pubblica; il Consiglio Superiore della Magistratura costa 43 milioni l’anno, lo stanziamento annuo del Mef è di 38 milioni. In sostanza il CSM vive con i resti di spesa, senza avanzi di spesa non sarebbero possibili le ordinarie reingegnerizzazioni degli uffici.
Tanto per fare un esempio i consiglieri laici tra compensi (euro 255.000) e rimborsi spese (euro 50.000 circa) costano circa 305.000 euro l’anno (i consiglieri togati costano meno perché l’indennità è parametrata alla differenza stipendiale).
La spesa annua aumenterà dunque di 80 milioni l’anno, ad essere ottimisti e senza considerare le spese di start up.
Soldi che ben potrebbero essere spesi, ad esempio, per attenuare le carenza strutturali gravi della giustizia oppure nell’istruzione, nella sanità o per i carcerati.
2. La proposta di revisione costituzionale approvata dalla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025 smantella l’assetto costituzionale della Magistratura
La proposta di revisione costituzionale scompone e smembra la magistratura con effetti negativi sulla tenuta dei principi cardine dello stato di diritto e un vulnus al principio secondo il quale: “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” (art. 3 Cost.), come è scritto in tutte le aule dei Tribunali italiani.
La parità di tutti i cittadini davanti alla legge presuppone infatti l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, principio fondamentale dello Stato di diritto e della democrazia liberale.
Secondo l’insegnamento di Montesquieu: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che ciascun potere ponga limiti all’altro potere”.
Corollario della separazione dei poteri dello Stato è il principio che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
La Costituzione italiana, al Titolo IV, assicura il principio della separazione del potere giurisdizionale dal potere esecutivo attraverso un articolato sistema di garanzie e tutele, il cui principio cardine è incentrato nell’attribuzione, in via esclusiva, al Consiglio Superiore della Magistratura del compito di “governare” i magistrati. Si tratta di un governo c.d. autonomo, non autogoverno, in ragione dell’opzione dei Costituenti per una composizione mista, con prevalenza dei componenti togati, e ciò al fine di favorire uno stabile e significativo collegamento della magistratura con gli atri poteri dello Stato (M. Volpi, Gli organi di autogoverno, p. 56 in Ordinamento giudiziario, ed. Utet 2009).
Quando la Costituzione fu scritta – è bene non dimenticarlo – l’Italia usciva dal ventennio fascista, dagli orrori delle persecuzioni, dalla soppressione dei diritti fondamentali, dagli abusi dei Tribunali speciali, dalle ingiustizie dei procuratori del Re dipendenti dal Fascio e dall’accondiscendenza dei giudici al fascismo [1].
L’Assemblea costituente che aveva cocente la memoria del danno e piena la consapevolezza dei danni prodotti da uno “Stato che [aveva fatto] cose sporchissime” [2], di un esecutivo che aveva abusato senza limiti del suo potere vestì il potere giurisdizionale secondo l’attuale assetto costituzionale. I costituenti avevano sperimentato sulla loro pelle che i sistemi democratici non nascono una volta e per sempre, ma vanno costruiti e ricostruiti ogni giorno ( Fierro in Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo). Erano, dunque, determinati a consegnare, come lascito inestimabile alle future generazioni, una Carta costituzionale capace di ergersi a solido baluardo a difesa di possibili tentativi di abusi.
2.1. Perché deve essere riformato l’assetto costituzionale di uno dei tre poteri dello Stato?
La ragione dell’intervento sulla carta costituzionale è stata svelata dalla maggioranza di governo in occasione di decisioni assunte da giudici (magistrati giudicanti) o determinazioni assunte dai pubblici ministeri (magistrati requirenti) ritenute sgradite [3].
All’aperta manifestazione di non gradimento segue infatti, con crescente insistenza, il richiamo all’urgenza e improcrastinabilità della riforma della giustizia, riforma che però non riguarda la giustizia bensì la magistratura, il potere dello Stato che amministra la giustizia in nome del Popolo italiano in applicazione della legge.
Urgenza della “riforma” – che, come abbiamo detto, non è “della giustizia” –intonata come un mantra, contro i giudici civili dei tribunali chiamati a convalidare [4] [5], contro i giudici civili della Corte di appello a seguito del mutamento della competenza, contro il Procuratore di Roma per trasmissione, ex art. 6 legge costituzionale n. 1/89 al Tribunale dei Ministri della denuncia di Li Gotti. Il richiamo all’urgenza della “riforma della giustizia”, in concomitanza con decisioni considerate ostili al governo, ma attuazione del principio secondo il quale il giudice è soggetto solo alla legge sono state ripetute successivamente a dei decreti del Tribunale di Roma.
È dei giorni scorsi la sentenza di condanna di Delmastro, e la reiterazione dei richiami alla riforma [6]. La condanna seguita dalla richiesta di assoluzione del PM ha scompigliato la vulgata dell’appiattimento dei giudici ai pubblici ministeri, come già aveva fatto il Gip di Roma.
Alle manifestazioni di sgradimento dei provvedimenti giurisdizionali segue inoltre, ormai senza alcuna remora, la pubblicazione di dossieraggi, preconfezionati, relativi a fatti personali dei magistrati autori dei provvedimenti sgraditi.
Tanto ad evidenziare lo spasmodico tentativo di umiliare e al tempo stesso intimidire i titolari di quel potere diffuso che è il potere giurisdizionale, servitori dello Stato che esercitano le loro funzioni, con quotidiana abnegazione, tra carenze strutturali e di personale che il Ministero della Giustizia preferisce ignorare, con carichi di lavoro che sono i più gravosi in Europa. Attraverso il metodo del dossieraggio così come quello di iniziative disciplinari su iniziativa del ministro – anticipando la riforma costituzionale – si condizionano i magistrati chiamati ad assumere decisione sensibili per il governo.
3. La revisione del principio secondo il quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”
Il primo articolo attinto dalla riforma è l’art. 104, collocato al titolo IV della Costituzione rubricato “La magistratura”.
L’art. 104 della Costituzione, al primo comma, consacra il principio secondo il quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” e poiché la magistratura è, come si dice, un potere diffuso (ovvero in capo a ciascuno non soggetto a gerarchie) l’art. 107 della Costituzione, al terzo comma, consacra il principio che “i magistrati si distinguono solo per le funzioni”.
Il Consiglio Superiore della magistratura è un organo di rilevanza costituzionale (secondo la definizione di cui sentenza della Corte Cost. n. 148 del 1983), autonomo dal potere politico al quale spettano le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (art. 105 Cost.).
Il CSM, come stabilito all’art. 104 della Costituzione (commi dal 2 al 7) è presieduto dal Presidente della Repubblica, sono componenti di diritto il Primo Presidente e il Procuratore generale della Corte di cassazione. È poi composto, per due terzi, da rappresentanti eletti dai magistrati ordinari (c.d. componente togata), e per un terzo da professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio, i quali sono designati dal Parlamento in seduta comune (c.d. componente laica).
Il vicepresidente è eletto in plenaria fra i componenti designati dal Parlamento. Tanto per ricordare l’autorevolezza dell’Organo, e l’importanza del ruolo del Vicepresidente, ricordiamo il prof. Vittorio Bachelet che fu ucciso dalle BR nel 1980, l’ultimo anno del quadriennio consiliare, proprio in ragione del ruolo rivestito. La sede del CSM dal 1962 è a piazza Indipendenza; il palazzo sede del Consiglio il 12 febbraio 2024 è stato intitolato a Vittorio Bachelet.
La proposta di riforma costituzionale, con la revisione del secondo comma dell’art. 104, smantella il CSM, quale unico organo costituzionale, deputato a garantire l’indipendenza della magistratura tutta, e lo divide in tre, due Consigli – uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente – [7] e un’Alta Corte di giustizia.
Ma non basta, con la revisione del quarto comma, svilisce tutti e tre gli organi, sostituendo all’elezione, da parte dei magistrati della componente togata, il sorteggio. La natura di Organo di Alta amministrazione e di rilevanza costituzionale stride con l’immagine del dado. Non esistono nel mondo consigli giudiziari centrali o giudici disciplinari composti mediante estrazione a sorte.
La rappresentatività della componente togata e la legittimazione elettorale della stessa garantisce l’autorevolezza delle delibere, delle risoluzioni e infine dei pareri che il CSM è chiamato ad emettere ai sensi dell’art. 10 della legge n. 195/1958 sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie. La competenza, la legittimazione democratica e la responsabilità verso gli elettori si riverberano infatti in competenza, legittimazione e responsabilità dell’Organo di Autogoverno verso i governati. I dibattiti assembleari che preludono le elezioni aumentano la trasparenza delle idee e delle intenzioni dei candidati. I magistrati con la candidatura manifestano il loro interesse e la loro passione per il ruolo, circostanza che garantisce maggiore impegno rispetto a chi potrebbe essere sorteggiato casualmente senza reale motivazione. Viceversa, il sorteggio può selezionare magistrati privi delle competenze necessarie. Non tutti i sorteggiati potrebbero essere motivati o interessati al ruolo, con l’effetto della perdita di efficacia dell’azione dell’organo.
Un organo di rilevanza costituzionale come il CSM, per l’importanza dei compiti rimessigli di governo di soggetti che esercitano in maniera diffusa un potere dello Stato, non può essere composto da magistrati che non abbiano le competenze specifiche.
La predisposizione a svolgere funzioni di alta amministrazione e di politica giudiziaria non è necessariamente correlata alla funzione giurisdizionale e non tutti i magistrati sono naturalmente disponibili a svolgere funzioni diverse da quelle giurisdizionali.
Insomma, è senz’altro errato l’assioma sul quale si fonda il sorteggio ovvero che qualunque magistrato può svolgere le funzioni di Consigliere del CSM. A questo proposito si ritiene utile riportare l’incisivo ragionamento di Giovanni Tamburino in CSM, Sistema elettorale Sezione disciplinare pubblicato questa Rivista nel 2011 fascicolo 1/2 “[...] l’argomento secondo cui dunque qualunque magistrato, essendo legittimato a giudicare e condannare anche in grado di rivestire degnamente il ruolo di consigliere superiore. L'ottimo chirurgo non è per ciò stesso in grado di amministrare un ospedale, né l'eccellente professore di dirigere l'università o il bravo giornalista di dirigere la testata dove scrive.
Il sorteggio realizza, secondo regola statistica, la scelta di consiglieri conformi alla capacità media dei magistrati. Capacità media nella quale sicuramente non è compresa l'idoneità ad amministrare un organo come il Csm.
Inoltre, nessun sorteggio può escludere la scelta dei magistrati al di sotto della media, con le conseguenze che l'organo di rilievo costituzionale potrebbe essere affidato a personaggi inadeguati senza potere in nessun modo rimediare.”
I sorteggiati non sarebbero legittimi rappresentanti della magistratura perché il tiro del dado non offre alcuna legittimazione. Il sorteggio priverebbe di consistenza e autorevolezza la componente togata del Csm e di riflesso l’Organo di autogoverno che va a comporre.
“Qui sta la ragione del rifiuto da opporre a un sorteggio che avesse rilievo sulla scelta dei componenti: ne uscirebbe un organo debole, privo di rappresentatività, senza legittimazione democratica, politicamente di dissanguato. È proprio ciò che va evitato.
Se finalità del CSM è la tutela dell'indipendenza della magistratura il Csm deve essere forte sul piano della legittimazione.
Dalla politica provengono i rischi maggiori per l'indipendenza.
Per questo il Costituente ha voluto il Csm sorretto dalla magistratura, tutta la magistratura con le sue idee e i suoi uomini migliori.
L'indipendenza della magistratura non è fatta per i giudici, ma per la società dei cittadini.
Nel momento della scelta della rappresentanza consiliare, essenziale al fine della concreta realizzazione di tale tutela, la volontà dei magistrati- elettori non solo deve essere libera di esprimersi, ma anzi deve esprimersi con il massimo della forza.
Il Csm intanto può realizzare la funzione di tutela in quanto incorpori la volontà della magistratura, traendo da ciò la sua legittimazione. E, dunque, nemmeno se il metodo del sorteggio desse la certezza di eliminare il correntismo potremmo ritenerlo accettabile”.
Se il C.S.M. è un organo di rilevanza costituzionale, tanto che è presieduto dal Presidente della Repubblica, allora è necessario che i suoi componenti siano tecnicamente preparati, si siano assunti con la candidatura la responsabilità delle loro scelte, siano autorevoli, capaci di relazionarsi e di mediare per operare in un organo collegiale che emette atti di alta amministrazione, destinati a incidere sull’organizzazione della giustizia. Come ha scritto Francesca Biondi, l’effetto del sorteggio sarebbe quello di un “Consiglio del tutto svilito, ridotto a mero organismo burocratico, in netto contrasto con l’esigenza di valorizzazione del pluralismo interno”. Come ha detto Azzariti nell’Audizione alla Camera del 23 giugno 2024, “Il metodo del sorteggio, determinando una composizione casuale dell’organo, non può che tradursi in una riduzione dell’autorevolezza del/dei CSM. Una riduzione di autorevolezza che rischia di compromettere tanto la capacità funzionale quanto la capacità rappresentativa dell’organo […] anche i meno commendevoli – che però saranno definiti in modo del tutto personale, meglio dire del tutto “casuale”. Si potrebbe icasticamente commentare: “cadendo così dalla padella nella brace”.
Oltre alla capacità funzionale è poi la capacità rappresentativa dell’organo che rischia di venire compromessa dal sistema della estrazione a sorte dei suoi membri.” E con riferimento alle correnti ha aggiunto “Mi chiedo: è possibile che si debba lasciare alla sorte la selezione per funzioni tanto delicate? La lotta al correntismo deve veramente utilizzare quest’arma distruttiva del merito e delle competenze?”
Ma non basta, mentre per i componenti togati il sorteggio è puro (tra circa 6500 giudici e 2000 pubblici ministeri), per i componenti laici il sorteggio è temperato. La revisione costituzionale prevede infatti la previa formazione di una lista di professori universitari e avvocati predisposta dal parlamento in seduta Comune; non è precisato nel testo della legge di revisione costituzionale quanti nomi dovrebbe contenere la lista, questione rimessa alla legge ordinaria, potrebbe trattarsi dunque anche di una lista con un solo nome in più rispetto ai componenti da nominare.
La scelta della componente laica da parte della politica è destinata a compromettere l’equilibrio dell’autogoverno dove ad una scelta a sorte dei componenti togati faccia da contro altare una scelta tecnica dei componenti laici di estrazione politica.
Lo sbilanciamento determina il rischio del predominio della componente laica di estrazione politica su un’inesperta componente togata e ciò in danno del carattere autonomo del governo del CSM.
4. L’ossimoro dell’unico ordine composto di due ordini. La separazione della magistratura requirente dalla magistratura giudicante.
La revisione costituzionale trasforma il primo comma dell’art. 104 in un ossimoro “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” ma, al tempo stesso, è a sua volta composto da due ordini: i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti. L’utilizzo improprio del termine “carriera” – che evoca la possibilità di accumulare titoli e di salire quindi nella scala gerarchica della professione – non elide infatti che il riferimento sia a due ordini. La previsione di cui al terzo comma dell’art. 107 – non attinta dalla revisione – stabilisce come si è già accennato, che “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per la diversità delle funzioni” e dunque consacra l’assenza di carriera dei magistrati [sia giudicanti che requirenti], ciò a garanzia dell’indipendenza interna e in ragione del carattere di potere diffuso del potere giurisdizionale. L’utilizzo del termine carriere è improprio, trattasi infatti di ordini.
A parte la contraddittorietà insita nel prevedere un ordine autonomo e indipendente – dove “un” non è articolo indeterminativo ma aggettivo qualificativo – composto da due ordini, la previsione di un ordine della magistratura requirente, separato dalla magistratura è deleteria per il corretto esercizio della giurisdizione.
Separare la magistratura requirente dalla magistratura giudicante significa infatti accentuare l’autoreferenzialità dell’accusatore, allontanarlo dall’anelito verso l’accertamento della verità per spingerlo verso l’obiettivo del risultato ovvero quello della condanna dell’imputato.
Come ha scritto Giovanni Canzio in Questa Rivista “l’organo di giustizia sarebbe naturalmente sollecitato ad assumere il ruolo di incontrastato vertice della polizia giudiziaria, con la disponibilità di rilevanti risorse di personale e tecnologiche e con la funzione di dirigere indagini finalizzate al raggiungimento di obiettivi concreti e immediati, che potrebbero pure apparire sconnessi dalla lontana nel tempo e imprevedibile opera del giudice – terzo e imparziale - di ricostruzione probatoria dei fatti e della verità nel contraddittorio fra le parti.
Sembra evidente il rischio che, per una paradossale eterogenesi dei fini, prevalgano vieppiù logiche di chiusura corporativa, opposte alla linea, tracciata dalla Costituzione, dell’attrazione ordinamentale del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione.
In poche parole, con il distacco del pubblico ministero dal perimetro della cultura della giurisdizione si viene prospettando la costituzione di un secondo e autonomo potere giudiziario, indipendente da ogni altro potere dello Stato e dallo stesso potere pertinente alla giurisdizione in senso stretto, sulla base di un eccentrico e inedito modello nel panorama della giustizia internazionale, nel quale non è dato rinvenire il riconoscimento di un così largo statuto di autonomia e indipendenza a favore di un pubblico ministero “separato” dal giudice e dalla giurisdizione. Con l’effetto collaterale, certamente non auspicato dai promotori dell’iniziativa riformatrice, di legittimare, con l’ulteriore frammentazione dei poteri dello Stato, l’obiettivo rafforzamento, oltre ogni ragionevole limite, della sfera di influenza nel sistema di giustizia dell’organo di accusa, al quale, munito di ampie risorse investigative e di forti garanzie di autonomia e indipendenza, resta attribuito il ruolo di titolare esclusivo dell’inchiesta e dell’azione penale”(Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle “distinte carriere” dei magistrati. Eterogenesi dei fini, aporie e questioni aperte)
Insomma, la separazione degli ordini determinerebbe un effetto ben lontano dall’obiettivo della parità delle armi – nella breve fase del dibattimento penale. Nella sostanza ogni parità è negata dall’essere il PM un organo pubblico, il quale con la riforma diverrebbe un nuovo potere dello Stato, un potere di accusa avulso dal potere giurisdizionale, con buona pace degli avvocati che puntano il dito sull’unicità dell’accesso senza considerare che la parità è ontologicamente esclusa dalla natura pubblica dell’interesse che governa l’esercizio della funzione.
L’effetto della separazione è la creazione di un potere ben più forte e autoreferenziale comunque non paritario all’accusa, assai differente dall’attuale PM, che agisce nell’interesse della legge e non per accusare. Come è stato scritto nel parere reso ex art. 10 d.lgs. n. 195/1958 dal Csm la proposta di revisione costituzionale dell’art. 104 Cost. il potere dei procuratori diverrebbe: “il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell'epoca contemporanea, per cui sarà ineluttabile che di esso assuma il controllo il potere esecutivo”.
Un potere il cui unico limite sarebbe il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’articolo 112 della Costituzione che consacra il principio secondo il quale il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, anch’esso però a rischio in quanto atti da d.d.l. C. 23 cost. Costa, C. 434 cost. Giachetti, C. 824 cost. Morrone, contenente proposta di modifica nel senso che «il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge» e ciò con buona pace del principio della parità di tutti i cittadini davanti alla legge.
Se i magistrati sono legati da colleganza perché provengono tutti dallo stesso concorso perché, se si sospetta che il giudice delle indagini preliminari possa essere influenzato dai PM – salvo i casi delle imputazioni coatte – non si sospetta che anche i giudici di Tribunale possono essere influenzati dai Gip e così i giudici delle Corti di appello rispetto ai giudici di Tribunale e infine i giudici della Cassazione. E il PM degli affari civili, che pure svolge un ruolo essenziale in taluni processi civili, per quale delle parti della controversia civile potrebbe far pendere il giudice?
Ragionamento logico infatti porterebbe a ritenere che il peccato di origine dell’appartenenza a un unico ordine e dell’accesso con unico concorso riguardi tutti i laureati in giurisprudenza vincitori del concorso e dunque indiscriminatamente nessun magistrato sia terzo rispetto all’altro ma tutti condizionati o condizionabili.
I sostenitori della separazione delle carriere dovrebbero rendersi conto che quello che fa la differenza tra avvocato difensore e pubblico ministero è l’interesse sotteso alla funzione a ciascuno rimessa.
“Il pubblico ministero è organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi” [Corte cost., sent. n. 26 del 6 febbraio 2007], il difensore persegue (doverosamente) un interesse privato.
“Questa Magistratura requirente, protetta e garantita dal suo CSM, finirà per acquisire un ruolo e un peso che, prima o poi, sarà necessario intervenire di nuovo. Per ricondurre la corporazione dei PM al circuito democratico, verosimilmente sottoponendola all’esecutivo. In questo senso pare agevole pronosticare che, quella prospettata dal d.d.l. 1917, sarebbe solo una tappa intermedia rispetto a una traiettoria indefettibile. Con un esito – la dipendenza del PM dall’esecutivo – che non pare positivo, né auspicabile” ( Così Mitja Gialuz in audizione del 24 settembre 2024 davanti alla commissione i affari costituzionali che ha citato P. Ferua, Il modello costituzionale del pubblico ministero, cit., p. 33. 11.)
Come ha scritto Gaetano Silvestri: “spero vivamente di non dover ricordare tra qualche anno agli entusiasti sostenitori della separazione delle carriere, che hanno volutamente rinunciato ad una parte delle loro garanzie, favorendo la formazione di una categoria di accusatori di professione sempre più avulsi dalla giurisdizione in senso stretto e sempre più animati dall'ansia di risultato”. (22-23 ottobre 2004 XIX Convegno Annuale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Università degli Studi di Padova)
5. La funzione disciplinare
La legge di revisione sottrae al Consiglio superiore la funzione disciplinare, funzione con implicazioni enormi quanto all’indipendenza. L’iniziativa disciplinare rimessa al Ministero della Giustizia, oltre che al Procuratore generale potrebbe costituire uno strumento di intimidazione e di condizionamento della decisione idoneo a minare l’indipendenza dei magistrati.
La modifica dell’art. 105 Cost. toglie il compito disciplinare al CSM e lo attribuisce all’istituenda Alta corte di giustizia, composta da quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità. L’Alta Corte elegge il presidente tra i giudici nominati dal Presidente della Repubblica o quelli estratti a sorte dall’elenco compilato dal Parlamento in seduta comune.
All’Alta Corte è rimessa la funzione giurisdizionale dei magistrati ordinari, i magistrati amministrativi e contabili continueranno avere la loro giurisdizione domestica. In ordine all’assenza di autorevolezza della componente togata e la sua destinazione all’emarginazione vale quanto si è detto con rifermento al sorteggio delle componenti togate dei due CSM.
Ulteriore anomalia riguarda l’impugnazione delle decisioni dell’Alta corte impugnabili solo davanti la corte stessa secondo il testo della proposta “Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata”.
La diversa composizione tra giudice di prima istanza e giudice di seconda istanza non garantisce affatto l’indipendenza che deve necessariamente intercorrere tra il giudice che decide sull’incolpazione disciplinare e il giudice che decide sulla sentenza disciplinare.
L’espressa previsione “soltanto” ulteriori impugnazioni, ai magistrati ordinari giudicanti e requirenti condannati disciplinarmente sarebbe dunque precluso il ricorso per cassazione previsto dall’art. 111, comma settimo, della Costituzione che prevede “contro le sentenza e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge”.
Sarebbe la prima volta che una legge di revisione costituzionale introduce una disposizione in contrasto con una norma costituzionale preesistente, con l’unica chance dunque di fare ricorso al principio secondo il quale il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti, ai sensi dell’articolo 2 e dell’articolo 24 della Costituzione – che in questo caso sarebbe leso –, è stato riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale quale principio fondamentale (cfr., tra le altre, Corte Cost. n. 238/2014), appare possibile domandarsi se la ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti decisori, per violazione di legge, assurga anch’essa, in tale contesto, a principio fondamentale.
Nel senso chiarito dalla Corte Cost. con la sentenza n. 1146/1988 nella quale si afferma che “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell’ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare fornita dall’art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all’accertamento della loro conformità ai (v. Sent. nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al sindacato di questa Corte (v. Sent. nn. 183 del 1973, 170 del 1984). Non si può, pertanto, negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore”.
Si rinvia alla lettura di Migliorare il Csm nella cornice costituzionale di Paola Filippi del quale in questo scritto sono stati ripresi alcuni passaggi.
Sul tema in questa rivista si legga Riforma del Csm. Le proposte della Commissione Luciani di Edmondo Bruti Liberati; le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione di Francesca Biondi, Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio di Francesco Dal Canto, La rappresentanza di genere nel CSM di Donatella Ferranti, Quale riforma per il CSM? Riflessioni sull’elezione del Vicepresidente e sul rinnovo parziale di Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura di Giacomo D'Amico Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici di Salvo Spagano; Quale sistema elettorale per quale csm di Edmondo Bruti Liberati; Dubbi di legittimità costituzionale sul sistema elettorale dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura secondo il "ddl Bonafede" di Antonio Mondini.
[1] La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3088-la-magistratura-al-tempo-di-giacomo-matteotti-di-giuliano-scarselli, Indipendenza dei giudici e riforme della giustizia ai tempi dell’omicidio Matteotti. Uno sguardo alle pagine di cento anni fa della Rivista “La Magistratura” https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3264-indipendenza-dei-giudici-e-riforme-della-giustizia-ai-tempi-dellomicidio-matteotti-uno-sguardo-alle-pagine-di-cento-anni-fa-della-rivista-la-magistratura-simone-pitto, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente di Andrea Apollonio, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio.
[2] La citazione è alla frase di Bruno Vespa al termine della puntata del 30 gennaio di “Cinque Minuti” (Rai1). «Sinceramente crediamo che non tutti gli Stati facciano cose sporchissime, che solo gli Stati che non rispettano i diritti umani che fanno cose sporchissime, che senz’altro il governo fascista fece cose sporchissime e comunque, come i nostri padri costituenti vogliamo insegnare ai nostri figli che le cose sporchissime non si fanno.»
[3] In tal senso Marcello Pera “La separazione delle carriere da sola non basta”, articolo pubblicato sul quotidiano il Foglio, 3 febbraio 2025.
[4] Decreti di non convalida dei trattenimenti dei migranti – Gli attacchi di esponenti della maggioranza di governo e attività di dossieraggio in danno della giudice Iolanda Apostolico hanno determinato le sue dimissioni v. Una giudice a Catania. Il caso Apostolico e le conseguenze degli attacchi politici alla magistratura
[5] Lettera del giudice Marco Gattuso al presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia letta in occasione dell’assemblea pubblica dell’ANM a Bologna il 4 novembre 2024, L’imparzialità del magistrato e l’uomo di vetro di Federica Resta, Giudici che dispiacciono. Come liberarsene di Vladimiro Zagrebelsky.
[6] «Una sentenza politica! Le sentenze non si commentano - ha scritto in un post su Facebook -, ma quelle politiche si commentano da sole! E questa sentenza si commenta da sola! Dopo che l’accusa ha chiesto per tre volte l’assoluzione, arriva una sentenza di condanna fondata sul nulla! Vogliono dire che le riforme si devono fermare? Hanno sbagliato indirizzo! Vogliono dire che il Pd non si tocca? Hanno sbagliato indirizzo. Io non ho tradito i miei ideali: ho difeso il carcere duro verso terroristi e mafiosi. Io non ho tradito! E gli italiani lo sanno! Attendo trepidante le motivazioni per fare appello e cercare un giudice a Berlino. E da domani avanti con le riforme per consegnare ai nostri figli una giustizia diversa». https://www.ilsole24ore.com/art/caso-cospito-delmastro-condannato-8-anni-rivelazione-segreto-d-ufficio-AGrVVl1C#U53342545206zph.
[7] Renato Balduzzi ha scritto che “l’esistenza di un Csm unitario rappresenta il più esplicito indicatore e, al contempo, il primo vincolo costituzionale nel senso della unitarietà dell’ordine della magistratura titolare del potere di esercitare la giurisdizione. La creazione di due organi separati altera quel modello perché punta alla formazione di due magistrature non solo funzionalmente, ma pure istituzionalmente e culturalmente distinte” (in “Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia”, Rivista “Gruppo di Pisa” - fascicolo n. 1/2024).
Perché è importante aderire allo sciopero
Per una scelta valoriale: quella di far sentire la nostra voce critica su questa riforma, perché percepiamo la gravità del momento, non si può aspettare, tergiversare, tentennare, dubitare.
Per una scelta di metodo: perché partecipiamo e aderiamo all'Associazione Nazionale Magistrati, con tutto ciò che questo comporta, anche quando le sue proposte non sono quelle che avremmo preferito. La dimensione collettiva è un valore aggiunto rispetto a quella individuale, che, se le circostanze lo richiedono, può essere messa da parte. Del resto non esisterebbe alcuna dimensione collettiva se dovessero sempre prevalere le scelte individuali, in questo caso "collettivo" significherebbe mera aggregazione di occasionali convergenze anziché progettualità, costruzione, sintesi.
Scioperare può voler dire, nell'immaginario di qualcuno, arroccarsi per la difesa di un interesse personale, usare il disagio creato alla controparte come arma, e allora ecco che è incompatibile col modo in cui alcuni concepiscono il proprio essere magistrati, e in cui da fuori alcuni concepiscono la magistratura tutta.
Ma per altri, e noi siamo tra questi, scioperare vuol dire anche esporsi per una causa, metterci la faccia - noi, oggi - come altri, in altri momenti, ci hanno messo il salario; vogliamo pagarlo questo sciopero non solo con il denaro, ma anche perché sappiamo che ogni singolo rinvio ci costerà uno sforzo di recupero, sappiamo tutti che il lavoro di quel giorno non sparisce, si somma soltanto al lavoro di un altro giorno a venire.
Quindi ritenere lo sciopero incompatibile con la funzione giurisdizionale si riduce ad una questione di apparenza: non voler intaccare l'immagine di magistrato lavoratore, ma anche di magistrato che non è come gli altri lavoratori perché la Funzione viene prima del rapporto d'impiego, di magistrato che non è come gli altri cittadini perché ha un dovere di continenza, di apparenza imparziale, che non contesta le scelte legislative, anche quando le ritiene profondamente sbagliate. E poi sicuramente a qualcuno lo sciopero non piace perché non è chic, a qualcun altro non piace perché non gli piace contestare il governo, qualcuno non ha voglia di ricalendarizzare 40 fascicoli.
Quale che sia la ragione, sfugge a costoro un elemento, e cioè che noi, a differenza di qualsiasi altro lavoratore, non stiamo scioperando per noi stessi ma per la nostra funzione, che preferiamo chiamare servizio in favore dei cittadini, e per tutto il resto dei principi in cui, da cittadini, crediamo, primi fra tutti i principi costituzionali dello stato di diritto che oggi sono minacciati.
E quindi chi teme, scioperando, di non apparire dedito alla funzione, dovrebbe forse prima preoccuparsi di esserlo.
È difficile da spiegare al di fuori, e questo lo sapevamo, ma evidentemente è difficile anche spiegarlo a noi stessi.
Allora diciamo: ognuno in coscienza scelga il proprio modello di magistrato, scelga se lo sciopero gli piace o no come simbolo e come strumento.
Ma tutti chiediamoci se ci piace questa riforma, o se invece è doveroso, per il futuro dell'Italia, manifestare in modo incisivo il dissenso per mettere in primo piano gli effetti della riforma sull'indipendenza del potere giurisdizionale, e se riteniamo giusto farlo in forma collettiva, non in nome proprio ma nel nome del servizio giustizia che collettivamente esercitiamo, aderendo alla chiamata della nostra unica Associazione, già tanto delegittimata da attacchi esterni.
La redazione di Giustizia Insieme ha una specifica visione del magistrato: un magistrato umanista, pensante, attivo, che non cela ma difende il proprio posizionamento valoriale, che in quanto tale domani sciopererà e, come appartenente all'Associazione nazionale magistrati, sosterrà le ragioni, la bellezza, la giustezza di questa idea. Il che passa inevitabilmente per prendere una distanza dall'idea opposta.
Se questo può servire a pungolare qualcuno, ben venga, senza alcun intento derisorio o offensivo, non possiamo rinunciare a dire forte come la pensiamo solo per non rischiare di disturbare chi la pensa diversamente.
La tradizionale apertura della rivista a qualsiasi voce, anche dissenziente, oggi non c'entra nulla.
Questa è la nostra voce, ed oggi intendiamo usarla.
La Redazione
Attestato di libera circolazione di un bene culturale e potere di autotutela. Dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 21 nonies, c. 1, l. 241/1990 (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 16 ottobre 2024, n. 8296)
di Federica Campolo
Sommario: 1. Il caso di specie. 2. I termini per l’esercizio dei poteri di autotutela. 3. Attestato di libera circolazione di un bene culturale ed esercizio dei poteri di autotutela: un’analisi giurisprudenziale. 4. La non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale. 5. Brevi osservazioni conclusive.
1. Il caso di specie.
Nel 2015 l’Ufficio Esportazione di Verona rilasciava, ai sensi dell’art. 68 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’attestato di libera circolazione[1] relativo a un olio su tela raffigurante una figura femminile, attribuito alla scuola italiana del XVI secolo, dal valore stimato di € 65.000,00. L’opera veniva, in seguito, venduta ed esportata all’estero.
Nel 2019, all’esito di un restauro, emergeva un elemento distintivo dell’opera, in precedenza almeno parzialmente celato a causa del suo cattivo stato di conservazione, che permetteva a uno studioso – grazie alla lettura del carteggio Vasari - di attribuire proprio al Vasari la sua esecuzione.
Nel 2021, la Direzione generale archeologia belle arti e paesaggio del Ministero della Cultura, venuta a conoscenza di tale circostanza, annullava in autotutela, ai sensi dell’art. 21 nonies, della l. n. 241 del 1990, l’attestato di libera circolazione, reputando che esso fosse viziato da travisamento dei fatti.
In risposta alle osservazioni prodotte dal privato destinatario del provvedimento, l’Amministrazione confermava la propria decisione, giustificando l’esercizio dei poteri in autotutela con l’atteggiamento poco collaborativo e, anzi, omissivo tenuto dalla parte al momento della presentazione dell’istanza, in violazione del dovere di correttezza nei rapporti tra privati e pubblica Amministrazione. Infine, veniva emesso un provvedimento espresso di diniego dell’attestato di libera circolazione, avviando altresì il procedimento per la dichiarazione dell’interesse artistico e storico particolarmente importante, ai sensi dell’art. 68, comma 6, del d.lgs. n. 42 del 2004.
Avverso i citati provvedimenti venivano proposti due distinti ricorsi innanzi al T.A.R. Roma dal privato destinatario dei provvedimenti e dall’attuale proprietario della tela, sorretti da un articolato elenco di motivi. Entrambi i ricorsi venivano respinti[2].
I ricorrenti in primo grado presentavano due autonomi ricorsi in appello, che venivano riuniti dal Consiglio di Stato adito, in quanto aventi a oggetto la medesima vicenda sostanziale.
Per quanto di interesse, le sentenze di primo grado venivano censurate nella parte in cui avevano respinto i motivi di ricorso con cui era stata denunciata l’illegittimità dei provvedimenti in ragione del decorso del termine di dodici mesi previsto dall’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990[3], per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela.
In particolare, il Giudice di prime cure, pur ritenendo applicabile al caso di specie il termine di dodici mesi stabilito per gli atti autorizzativi, non aveva reputato fondato il motivo di ricorso, affermando che, nel caso di specie, tale termine avrebbe potuto subire una deroga, in ragione del comportamento omissivo tenuto dal privato, che avrebbe impedito la corretta attribuzione della tela da parte dell’Amministrazione. Secondo l’interpretazione del T.A.R. Roma, avrebbe trovato applicazione la previsione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990[4].
Il Consiglio di Stato ha ritenuto condivisibili le censure svolte dagli appellanti con specifico riferimento all’inconfigurabilità, nel caso in esame, di una condotta di “falsa rappresentazione dei fatti”, non potendo esserne raggiunta la piena prova.
A questo punto, il Giudice dell’appello non è addivenuto alla riforma delle sentenze di primo grado, in favore dei privati, ma ha sollevato d’ufficio innanzi alla Corte costituzionale questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990, per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 9, comma 1 e comma 2, 97, comma 2 e 117, comma 1.
Più precisamente, ad avviso del Collegio, tale previsione, quando riferita ai provvedimenti di autorizzazione incidenti su un interesse sensibile e di rango costituzionale come la tutela del patrimonio storico e artistico sarebbe in contrasto con:
“- il parametro costituzionale di ragionevolezza ex art. 3, comma 1, Cost., quale limite alla discrezionalità del legislatore nella costruzione della disciplina di legge;
- la stessa protezione del primario bene costituzionale della integrità ex art. 9, comma 1 e comma 2, del patrimonio storico e artistico della Nazione;
- la responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’eredità culturale sancita dall’art. 1 lett. b) e d) della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società firmata a Faro il 27 ottobre 2005;
- l'obbligo dello Stato italiano a ‘riconoscere l’interesse pubblico associato agli elementi dell’eredità culturale, in conformità con la loro importanza per la società’ e ‘promuovere la protezione dell’eredità culturale’ ex art. 5 lett. A) e b) della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società firmata a Faro il 27 ottobre 2005;
- il valore, pure di rango costituzionale, ex art. 97, comma 2, Cost. Del buon andamento dell’amministrazione”.
Gli argomenti adottati dal Consiglio di Stato per sostenere la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale forniscono l’occasione per svolgere alcune riflessioni in merito all'esercizio del potere di annullamento in autotutela, nel caso in cui i provvedimenti autorizzatori riguardino interessi sensibili, quali la tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
2. I termini per l’esercizio dei poteri di autotutela.
Come noto, l’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 detta la disciplina dell’annullamento d’ufficio, che, insieme alla revoca di cui all’art. 21 quinquies, costituisce una delle forme di esercizio del potere di autotutela della pubblica Amministrazione, previste dal nostro ordinamento[5].
L’art. 21 nonies definisce attentamente le condizioni che possono determinare l’Amministrazione a emanare un provvedimento di secondo grado, capace di travolgere un precedente provvedimento, privandolo ex tunc della sua capacità di produrre effetti giuridici. In particolare, l’Amministrazione può annullare un provvedimento d’ufficio solamente al ricorrere – congiuntamente – dei seguenti presupposti: quando questo sia illegittimo, poiché affetto da uno dei vizi elencati dall’art. 21 octies, quando l’annullamento risponda a un interesse pubblico e, infine, laddove tale potere intervenga entro un determinato lasso temporale. L'annullamento in autotutela, in ogni caso, deve tenere in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
In relazione al requisito temporale, la norma in esame detta alcune precisazioni. In via generale, non è stabilito un termine fisso entro il quale può essere emesso un provvedimento di secondo grado, dal momento che il legislatore fa riferimento a un generico “termine ragionevole”. È lasciato, dunque, un certo margine di discrezionalità in capo all’Amministrazione.[6] Tuttavia, quando l'atto di primo grado rientra nella categoria dei “provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”, viene individuato espressamente dalla norma il termine massimo di dodici mesi dalla sua adozione per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio. In questo modo, come meglio si dirà nel prosieguo, il legislatore ha voluto prestare una particolare tutela al legittimo affidamento risposto dal privato nella validità del provvedimento, in un’ottica di certezza dei rapporti giuridici[7].
Oltre alle ipotesi “ordinarie” sopra richiamate, l’art. 21 nonies ha introdotto al suo comma 2 bis un’eccezione alla regola, ammettendo l’esercizio dell’annullamento d’ufficio anche oltre i termini di cui al comma 1, al ricorre di determinate circostanze.
Più precisamente, i provvedimenti amministrativi possono essere annullati anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi qualora siano stati “conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
In accordo con l’interpretazione offerta dalla più recente giurisprudenza amministrativa[8], il comma 2 bis individua due differenti casistiche, in cui l’applicazione del “termine ragionevole” trova giustificazione nel venir meno dell’esigenza di tutela dell’affidamento del privato, ove questo abbia ottenuto i titoli oggetto dell’autotutela in modo fraudolento.
La differenza sostanziale tra le due ipotesi sta nel fatto che nella prima - cioè in caso di false rappresentazioni dei fatti - è possibile superare il limite di dodici mesi a prescindere da qualsivoglia accertamento penale di natura processuale, tutte le volte che l’istante abbia rappresentato dolosamente uno stato preesistente diverso da quello reale. Sarà l’Amministrazione a dover accertare con i propri mezzi, caso per caso e in modo inequivocabile, la falsa rappresentazione. In caso di dichiarazioni sostitutive di certificazioni false o mendaci, se frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante, invece, sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale[9].
Per i casi descritti dall’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990 – e in particolare per le ipotesi di accertamento penale delle dichiarazioni false o mendaci - dottrina e giurisprudenza hanno adottato l’insidiosa nozione di “autotutela doverosa”. In questa categoria sono state fatte rientrare ulteriori ipotesi sia di elaborazione giurisprudenziale sia normativa[10].
L’autotutela doverosa, la cui esatta portata è a tutt’oggi discussa, contempla ipotesi in cui – al ricorrere di determinate circostanze e anche in deroga ai termini di cui all’art. 21 nonies, comma 1 – l’Amministrazione è tenuta ad annullare ex officio un provvedimento precedentemente emesso.
Secondo parte della dottrina, l’art. 21 nonies, comma 2 bis detterebbe una c.d. autotutela doverosa “parziale”, caso in cui cioè si assiste a una semplice dequotazione del termine per procedere all’annullamento d’ufficio[11].
Simili casistiche sembrano dimostrative di un’insofferenza da parte degli interpreti a una rigida applicazione dei limiti generali per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio, dettati a tutela dell’affidamento dei privati, ove la tutela dell’interesse pubblico assume portata prioritaria rispetto all’affidamento dei privati.
3. Attestato di libera circolazione di un bene culturale ed esercizio dei poteri di autotutela: un’analisi giurisprudenziale.
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio detta un’attenta disciplina della circolazione dei beni culturali in ambito internazionale, che trova collazione agli artt. 64 bis e ss[12]. Si tratta di un istituto essenziale per la tutela dei beni culturali, dal momento che la fuoriuscita di un determinato bene dai confini nazionali potrebbe compromettere l’integrità stessa del patrimonio culturale. Come stabilito dall’art. 64 bis, comma 3, i beni costituenti il patrimonio culturale, infatti, non sono assimilabili a merci[13].
Per quei beni per i quali il d.lgs. n. 42 del 2004 non stabilisce un divieto di uscita definitiva dal territorio italiano, ai sensi del suo art. 65, questa è possibile previo ottenimento di un attestato di libera circolazione. Il successivo art. 68 del d.lgs. n. 42 del 2004 definisce modalità e tempi per la presentazione dell’istanza volta al rilascio di detto attestato, spettante all’Ufficio esportazione della competente Soprintendenza.
A seguito dello svolgimento del procedimento di cui all’art. 68 citato, l’Ufficio esportazione può proporre al Ministero l’acquisto coattivo della cosa per la quale è richiesto l’attestato di libera circolazione, per il valore indicato nella denuncia, ai sensi dell’art. 69 del d.lgs. n. 42 del 2004, ove sia riconosciuto al bene un interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, ai termini dell’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
L’attestato di libera circolazione rientra pacificamente – come riconosciuto nella pronuncia in esame – nella nozione di autorizzazione[14]. Pertanto, ai fini dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, è assoggettato al limite temporale di dodici mesi dall’adozione del provvedimento.
Le criticità date dalla rigida applicazione di detto termine ai beni culturali si manifestano con tutta evidenza nelle ipotesi, come quella oggetto della pronuncia in esame, in cui solo successivamente al rilascio dell’attestato di libera circolazione – anche a distanza di diversi anni – un bene ritenuto idoneo alla circolazione internazionale, poiché non rientrante nelle ipotesi di “divieto di uscita” ai sensi dell’art. 65 del d.lgs. n. 42 del 2004, si scopre, invece, meritevole di appartenere a questa categoria.
L’ipotesi più insidiosa è proprio quella dell’attribuzione di un dato bene a un determinato autore di fama internazionale, solo a seguito di nuovi studi condotti sull’opera stessa. Così, ad esempio, un quadro per anni attribuito alla scuola/bottega di un certo artista, a seguito di un’attenta attività di restauro viene riconosciuto come di esecuzione diretta del Maestro.
La nuova attribuzione, in questi casi, può incrementare in maniera esponenziale l’importanza, il valore e, di conseguenza, le esigenze di tutela e valorizzazione dello specifico bene culturale.
Negli ultimi anni, sono giunti innanzi al Giudice amministrativo alcuni casi di impugnazioni di provvedimenti di annullamento in autotutela di attestati di libera circolazione, ritenuti illegittimi in ragione del superamento del termine di dodici mesi di cui all’art. 21 nonies, comma 1, che hanno ottenuto una certa risonanza mediatica[15].
Tra questi, appare di rilievo una recente pronuncia del T.A.R. Veneto[16], riguardante l’impugnazione del provvedimento con cui l’Ufficio esportazione di Verona, nel 2023, aveva annullato in autotutela un attestato di libera circolazione rilasciato nel 2019, avente a oggetto un dipinto raffigurante San Francesco in estasi e l’angelo musicante, attribuito al tempo alla bottega del Guercino. L’annullamento trovava giustificazione nella nuova attribuzione dell’opera, avvenuta a seguito di un successivo restauro, al Guercino stesso. Anche in questo caso, l’Amministrazione motivava il superamento del termine di dodici mesi previsto dall’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990 con l’asserita configurabilità dell’eccezione di cui al successivo comma 2 bis, in ragione della condotta omissiva-colposa del privato.
Il T.A.R. Veneto accoglieva il ricorso, affermando che, nel caso di specie, non fosse possibile sostenere la tesi della Soprintendenza, secondo cui il rilascio dell’attestato sarebbe stato indotto da false rappresentazioni e dichiarazioni del denunciante. Sul punto il Giudice ha significativamente evidenziato come “non ogni incompletezza, omissione, errore, imprecisione nella redazione delle istanze può essere valorizzata ai fini del legittimo esercizio dell’autotutela oltre il termine previsto dall’art. 21 nonies, comma 1, legge 241/1990. Occorre, invece, che sussista una “falsa rappresentazione” dei fatti idonea a indurre in errore l’amministrazione, ossia una rappresentazione di fatti divergente dalla realtà (quindi falsa, o anche solo parziale) di cui l’amministrazione non possa avvedersi nel corso di un’ordinaria istruttoria e che disveli, pertanto, un intento fraudolento o malizioso del richiedente, come tale non meritevole di tutela”.
Nei medesimi termini si era in precedenza espresso Cons. Stato, Sez. VI, 21 novembre 2023, n. 9962[17], che aveva ritenuto illegittimo l’annullamento d’ufficio di un attestato di libera circolazione di un dipinto del XVI secolo, attribuito al Bassano, emesso oltre dodici mesi dopo il suo rilascio. L’Amministrazione, anche in questo caso, aveva tentato – senza successo - di sostenere l’applicabilità dell’art. 21 nonies, comma 2 bis.
A pochi mesi fa risale la pronuncia Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 8010[18], con cui, invece, è stata confermata la sentenza del T.A.R. Roma, che, in un ulteriore caso di nuova attribuzione di una tela, successivamente al rilascio dell’attestato di libera circolazione, aveva ritenuto legittimo il conseguente provvedimento di annullamento in autotutela dell’Amministrazione, ritenendo configurabile l’ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis. Ciò perché, nel caso concreto, la condotta tenuta dal privato è stata valutata come comportante una “lacunosa e ambigua rappresentazione dei fatti, la quale ha impedito all’Amministrazione di formare in maniera pienamente consapevole il proprio giudizio in ordine al valore artistico dell’opera”. Diversi elementi indiziari, infatti, avevano portato il Giudice amministrativo a ritenere che, già al momento della domanda, i proprietari avessero potuto nutrire una qualche aspettativa in ordine all’attribuibilità della tela al Caravaggio, che era stata celata attraverso una condotta tale da impedire all’Amministrazione di disporre di “una piattaforma conoscitiva completa e attendibile su cui fondare la propria determinazione”[19].
Dalle pronunce segnalate – emesse nell’arco di soli due anni – emerge, in primo luogo, che la casistica della nuova attribuzione di un’opera, implicante un incremento del suo valore e della sua importanza per il patrimonio culturale nazionale, a seguito del rilascio di un attestato di libera circolazione, non è un fenomeno statisticamente irrilevante.
In secondo luogo, si comprende come l’orientamento a oggi seguito dalla giurisprudenza sia quello di negare la possibilità per le Amministrazioni di annullare in autotutela, oltre il termine di dodici mesi, gli attestati di libera circolazione previamente emessi. L’unica possibilità per un annullamento tardivo si ha al ricorrere dei presupposti di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis e, in particolare, dando dimostrazione di un quadro indiziario dal quale emerge un comportamento malizioso o fraudolento del richiedente.
È di interesse segnalare che la giurisprudenza sopra richiamata ha messo in allarme il Ministero della Cultura che, con la recente circolare n. 21 del 2024 della Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio, preso atto dell’orientamento del g.a., ha invitato gli Uffici competenti “per evitare l’irrimediabile uscita dal territorio nazionale di opere d’arte che, onde opportunamente presente agli uffici esportazione, non avrebbero ricevuto l’attestato di libera circolazione” a voler dichiarare l’improcedibilità dell’istanza nei casi in cui “la mancanza o insufficienza di informazioni unitamente alla scarsa leggibilità dell’opera non consentano la adeguata valutazione dell’interesse culturale”[20].
La breve ricostruzione della recente giurisprudenza sul tema di cui si discute chiarisce quale sia lo sfondo su cui la sentenza in commento ha sviluppato le proprie riflessioni, sfondo caratterizzato dall’urgenza di trovare risposta a un sentito problema concreto che investe il mercato dell’arte e le Amministrazioni preposte alla tutela del patrimonio culturale.
Tale situazione critica è stata emblematicamente descritta dal Consiglio di Stato nella pronuncia in analisi, ove ha rilevato che “vi è un ampio ventaglio di casi, tra cui rientra quello concreto in esame, in cui non è configurabile (ovvero non è raggiunta piena prova della configurabilità) una ‘falsa rappresentazione dei fatti’ o non sono intervenute ‘dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato’ e cionondimeno non può ragionevolmente sostenersi l’incondizionata prevalenza dell’interesse privato alla conservazione della situazione di vantaggio solo in ragione del suo consolidamento per decorso del tempo essendosi verificato un vero e proprio ‘aliud pro alio’ suscettibile di recare un nocumento irreversibile al patrimonio culturale della Nazione in un contesto ove l’accertamento della paternità dell’opera si presentava incerto”.
4. La non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Appare di particolare interesse l’esame delle ragioni evidenziate dal Consiglio di Stato nella pronuncia in commento per motivare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata.
Innanzitutto, la manifesta irragionevolezza della scelta del legislatore, secondo il Collegio, si riscontra nella circostanza che il termine di dodici mesi per l’annullamento d’ufficio si applica indistintamente ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici e alle autorizzazioni incidenti su interessi sensibili e primari, quali la tutela del patrimonio culturale, che costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento.
Tale previsione, eliminando la discrezionalità dell’amministrazione con riferimento al “quando”, impedisce, secondo il Consiglio di Stato, di soppesare adeguatamente gli interessi contrapposti, attribuendo un’automatica prevalenza a quello del privato alla conservazione del provvedimento. In questo modo, risulta compromesso quel modello delineato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale di continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti [21].
Un’ulteriore ragione viene individuata ponendo l’attenzione sulla natura dei poteri di autotutela, i quali, in particolare, presentano una causa mista, a metà strada tra la dimensione giustiziale e quella di amministrazione attiva, grazie alla quale è garantita la cura dell’interesse pubblico sotteso al provvedimento annullato. Una limitazione all’esercizio di tali poteri, in presenza di interessi pubblici tanto rilevanti come quello alla tutela del patrimonio culturale, si traduce nella preclusione alla spendita di altri profili di capacità speciale autoritativa dell’amministrazione.
Un rilevante argomento a sostegno della manifesta irragionevolezza della normativa di cui si discute è individuato effettuando un confronto con ulteriori disposizioni contenute nella l. n. 241 del 1990, che prevedono eccezioni all’applicazione della regola generale, quando entrano in gioco interessi sensibili quali la tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
Viene fatto riferimento, più precisamente, alle seguenti disposizioni: l’art. 19, comma 1, che detta l’inapplicabilità della disciplina della SCIA nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali; l’art. 20, comma 4, che esclude l’operatività del meccanismo del silenzio assenso per i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e, infine, gli art. 14 bis, 14 ter e 14 quinquies che, in materia di conferenza di servizi, prevedono regole speciali relative ai termini del procedimento e al superamento dei dissensi espressi, qualora si tratti di amministrazioni preposte alla tutela ambiente, paesaggistico-territoriale o dei beni culturali[22].
Tutte le ipotesi citate sono accomunate dalla previsione di una dilatazione dei tempi di valutazione riservati all’Amministrazione e si prestano, pertanto, ad essere paragonate all’art. 21 nonies, comma 1, in esame.
Il Consiglio di Stato, dopo aver elencato tale casistica, previene facili rilievi critici, specificando che l’art. 17 bis della l. n. 241 del 1990, disciplinante il silenzio assenso tra le Amministrazioni, applicabile espressamente anche quando oggetto del procedimento sono interessi sensibili quali quelli ambientali e culturali, non è idoneo a svalutare l’argomento sopra richiamato. Ciò perché tale istituto vede il confronto orizzontale tra diversi interessi parimenti pubblici[23].
Ancora, non vale a escludere la manifesta irragionevolezza del limite temporale di cui si discute, ove rapportato a interessi sensibili, l’ampliamento dei termini per l’annullamento d’ufficio previsto dal più volte richiamato comma 2 bis dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990. Questo, infatti, come evidenziato dal Consiglio di Stato, ha un ambito di applicazione molto ristretto e manca, in radice, un legittimo affidamento del privato da bilanciare con un dato interesse sensibile.
Come ultimo profilo, viene esaminato quello della discrezionalità, indagato sotto una duplice prospettiva.
Da un lato, il Collegio parla dell’erosione della discrezionalità del legislatore con riferimento alla materia dei beni culturali, in ragione degli impegni assunti dallo Stato a livello internazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. In particolare, si fa riferimento agli art. 1, lett. b) e d) e 5, lett. a) e b) della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, firmata a Faro il 27 ottobre 2005, i quali sanciscono una responsabilità non solo individuale, ma anche collettiva alla tutela del patrimonio culturale. In questa prospettiva, la promozione della protezione dell’eredità culturale deve essere raggiunta anche “predisponendo soluzioni normative che non siano d’ostacolo alla realizzazione di tale scopo”.
Secondo un’altra prospettiva, viene messo in luce come il procedimento volto al rilascio dell’attestato di libera circolazione sia caratterizzato dall’esercizio di discrezionalità tecnica[24], ove è necessario fare ricorso a conoscenze di settore mobili e in evoluzione, prive di quella certezza propria delle c.d. scienze dure. Anche per questa ragione “manifestamente irragionevole nonché lesivo del valore del buon andamento e dell’obiettivo di tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione si rivela, dunque, la previsione di un termine per l’esercizio del potere di autoannullamento rigido e, come tale, assolutamente insensibile all’irriducibilità, importanza e peculiarità del caso concreto”.
Sviscerate le criticità insite nella previsione di cui all’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990, con riferimento al limite rigido di dodici mesi dettato per l’esercizio dell’annullamento in autotutela anche per provvedimenti inerenti ai beni culturali, il Collegio ha concluso il proprio iter argomentativo affermando che sarebbe necessario ripristinare anche in questi casi l’applicabilità del “termine ragionevole”, così da permettere una reale ponderazione degli interessi coinvolti[25].
5. Brevi osservazioni conclusive.
La pronuncia in commento ha il pregio di aver posto in evidenza una fragilità del nostro ordinamento, capace di mettere a rischio l’effettività del principio della tutela del patrimonio culturale, sancito, in primo luogo, dall’art. 9 della Costituzione.
Come sopra evidenziato, le Amministrazioni competenti alla tutela del patrimonio culturale, al verificarsi di ipotesi di veri e propri aliud pro alio, si trovano prive di strumenti idonei a fronteggiare il mutamento della situazione originaria e, quindi, obbligate a tentare non lineari interpretazioni della normativa – come il ricorso all’eccezione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990 – al fine di assicurare l’effettività della tutela.
L’introduzione di precisi limiti all’emanazione di provvedimenti di secondo grado risponde con tutta evidenza all’esigenza avvertita nel nostro ordinamento di dare certezza all’affidamento dei privati[26]. La recente restrizione, da diciotto a dodici mesi, del tempo massimo previsto per l’autoannullamento dà ulteriore dimostrazione di come il legislatore voglia evitare che la spada di Damocle dell’annullamento d’ufficio possa fungere da limite per la certezza dei rapporti giuridici. Viene, così, implicitamente dichiarato che tra l’esigenza di ripristino della legalità violata e la tutela dell’affidamento del privato – anche vista in un’ottica di semplificazione giuridica – la seconda, nell'attuale contesto economico-sociale, è considerata prioritaria[27].
L’avversione per una generale applicazione del “termine ragionevole” all’annullamento d’ufficio risiede certamente anche in una tradizionale diffidenza per l’esercizio della discrezionalità da parte delle pubbliche Amministrazioni[28].
Sul punto, sembra di interesse evidenziare che i recenti approdi del nostro legislatore in materia di contrattualistica pubblica - in cui si è assistito a un recupero e a una valorizzazione della discrezionalità amministrativa, considerata quale indispensabile strumento per una buona amministrazione[29] – ma più in generale il consolidarsi delle critiche avanzate dalla dottrina in relazione ai meccanismi di semplificazione introdotti nel procedimento amministrativo – fanno ipotizzare che la riscoperta della discrezionalità possa divenire una nuova tendenza generale per l’intera attività amministrativa.
Il ritorno alla discrezionalità – e quindi anche alla fiducia nell’attività della pubblica Amministrazione – appare indispensabile laddove in gioco vi siano interessi sensibili, che non possono essere sacrificati in via automatica in favore di un legittimo affidamento del privato.
In attesa di conoscere la decisione della Corte costituzionale sulla questione di legittimità sollevata, la pronuncia in esame fornisce, in ogni caso, al legislatore una chiara indicazione sui pericoli determinati dall’eliminazione di ogni possibilità per l’Amministrazione di svolgere un concreto bilanciamento di interessi, quando un determinato procedimento intercetti principi fondamentali, che trovano specifica collocazione e tutela nella Costituzione.
Si noti che l’interesse dei destinatari del provvedimento rimarrebbe, in ogni caso, in forza del testo dell’art. 21 nonies, comma 1, uno dei parametri sui quali l’Amministrazione deve fondare la propria decisione.
Nonostante la generale condivisibilità dei rilievi offerti dalla pronuncia in esame, non va sottaciuto che l’eventuale reintroduzione del “termine ragionevole” non appare priva di profili problematici. Questo, in ragione della sua indeterminatezza e dell’inevitabile soggettività che ne caratterizza l’esercizio, potrebbe generare situazioni di grande criticità nel mercato dell’arte. Il principio di proporzionalità, oltre che gli insegnamenti già elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza con riferimento alla portata del “termine ragionevole” dovranno fungere inevitabilmente da guida nell’esercizio dei poteri di autoannullamento[30].
[1] In termini generali, sulla circolazione internazionale dei beni culturali in dottrina si vedano, ex multis, A. Lanciotti, La Circolazione dei beni culturali nel diritto internazionale privato e comunitario, Napoli, 1996; M. Frigo, La circolazione internazionale dei beni culturali. Diritto internazionale, diritto comunitario e diritto interno, Milano, 2007; F. Lafrange, La circolazione internazionale dei beni culturali dopo le modifiche al Codice, in Aedon, 2009; P. Venditti, La circolazione dei beni culturali in ambito internazionale e la tutela del proprietario in caso di trasferimento illecito o illegale, in Arte e Diritto, 2024, 1, 85 ss. Con specifico riferimento all’attestato di libera circolazione si veda, tra i molti commentari al Codice dei beni culturali e del paesaggio, C. Ferrazzi, Commento all’art. 68, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2019, 675 ss.
[2] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-quater, 19 luglio 2022, n. 10294, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Di seguito il testo dell’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
[4] Si riporta il testo dell’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990: “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.
[5] Sull’annullamento d’ufficio si vedano, tra i più recenti contributi dottrinali, M. Sinisi, Autotutela e governo del territorio, in Riv. giur. ed., 2024, 2, 157 ss.; Id., Il potere di autotutela caducatoria (art. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di), principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2023, 543 ss.; M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2018; M.A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’amministrazione pubblica nel prisma del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2017; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017; 1173 ss. e F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, 8, 2017; A. Carbone, Il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio, in A. Rallo, A. Scognamiglio, I rimedi contro la cattiva amministrazione, Napoli, 2016, 85 ss.
[6] Sulla corretta individuazione del “termine ragionevole” di cui all’art. 21 nonies, comma 1, in giurisprudenza si vedano, ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 21 agosto 2024, n. 7188, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 18 aprile 2024, n. 7672, in Red. Giuffrè, 2024; T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, 3 febbraio 2023, n. 184, ivi, 2022 e soprattutto, con riferimento al permesso di costruire, Cons. Stato, Ad. plen. 17 ottobre 2017, n. 8, in Riv. giur. ed., 2017, 5, I, 1089, con nota di N. Posteraro.
[7] Uno specifico termine – in origine di diciotto mesi – per l’annullamento d’ufficio dei provvedimenti di autorizzazione e attribuzione di vantaggi economici, come noto, è stato introdotto per la prima volta dalla legge n. 124 del 2015. Questo è stato portato agli attuali dodici mesi dall’ art. 63 del d.l. 77 del 2021, convertito in l. n. 108 del 2021.
[8] In giurisprudenza in questi termini si segnalano, tra le più recenti pronunce, T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. III, 10 luglio 2024, n. 2192, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. VI, 27 febbraio 2024, n. 1926, in Riv. giur. ed., 2024, 2, I, 307; Id, Sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2392, ivi, 2021, 3, I, 921 e Id, Sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940, ivi, 2018, 3, I, 680.
[9] La distinzione è rilevante – ed espressamente menzionata – anche nella pronuncia in commento, riguardante un’ipotesi di potenziale falsa rappresentazione dei fatti, per la quale, tuttavia, come accennato nel primo paragrafo, l’Amministrazione non ha ritenuto sussistente un quadro indiziario univoco tale da provare simile condotta. In questo caso, pertanto, non è stata ritenuta applicabile l’eccezione alla regola generale del limite dei dodici mesi per procedere all’annullamento d’ufficio.
[10] Sull’autotutela doverosa, in dottrina, tra i più recenti contributi, si vedano, ex multis, N. Posteraro, Il dovere di provvedere a fronte di una richiesta di annullamento in autotutela, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit., 359-361; M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effetto utile, in CERIDAP, 4, 2020; F.V. Virzì, La doverosità del potere d’annullamento d’ufficio, in Federalismi.it, 14, 2018; S. Tuccillo, Autotutela: potere doveroso?, ivi, 16, 2016; N. Posteraro, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), ivi, 20, 2017; G. Manfredi, Annullamento doveroso?, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 1190 ss.
[11] Cfr. N. Durante, L’autotutela doverosa, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022. Un’attenta ricostruzione dell’autotutela doverosa è stata recentemente svolta da Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, in questa Rivista, 2024, con nota di F. Campolo. Nella citata sentenza il Consiglio di Stato ha chiarito come l’ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis costituisca un caso di autotutela doverosa parziale, da intendersi non come individuante un obbligo di emanare senz’altro un provvedimento di secondo grado, ma solo nel senso di imporre la valutazione dell’istanza di autotutela presentata dal privato interessato, oltre i termini di legge, verificando la sussistenza dei presupposti di cui al suo primo comma.
[12] Per i riferimenti dottrinali in materia di circolazione internazionale dei beni culturali e attestato di libera circolazione si rimanda a quanto indicato sub nota 1.
[13] L’art. 64 bis, comma 3 del d.lgs. n. 42 del 2004, più precisamente, stabilisce che “Con riferimento al regime della circolazione internazionale, i beni costituenti il patrimonio culturale non sono assimilabili a merci”.
[14] Si legge nella sentenza in commento che “La nozione tradizionale di ‘autorizzazione’, inteso come provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato beneficiario consistente nella rimozione di un ostacolo all’esercizio di una facoltà spettante allo stesso, è talmente ampia, nell’interpretazione costante della giurisprudenza amministrativa [...] da farvi rientrare anche atti che vanno a influire sulla tutela di interessi di rango super-primario e tendenzialmente poziore rispetto all’affidamento del privato alla stabilità del titolo ottenuto”.
[15] A dimostrazione di come il problema legato alla nuova attribuzione di un’opera solo a seguito dell’avvenuto rilascio dell’attestato di libera circolazione sia molto sentito nel settore del mercato dell’arte si veda M. Lampertico, L. Castelli, I problemi giuridici di maggiore attualità nel mercato dell'arte: dialogo tra un giurista e un gallerista, in Arte e Diritto,1, 2024, 163 ss.
[16] Cfr. T.A.R. Veneto, 31 gennaio 2024, n. 182, in www.giustizia-amministrativa.it. La pronuncia ha avuto un certo risalto mediatico ed è stata commentata, ad esempio, da M. Pirelli, Guercino: il Tar del Veneto sblocca l’uscita. Il MiC non può annullare il via libera all’export perché cambia l’attribuzione, in www.sole24ore.com, 13 febbraio 2024.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 21 novembre 2023, n. 9962, in Red. Giuffrè, 2024.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 8010, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Nel caso oggetto della pronuncia Cons. Stato n. 8010/2024, cit., è di interesse segnalare le valutazioni svolte dal Collegio, a dimostrazione del comportamento fraudolento della parte: “Basti in proposito osservare che:
- rilevante ai fini della possibile attribuzione al Caravaggio è stata ritenuta, come pure si legge nel catalogo della mostra tenutasi nel settembre 2012 e curata dal Prof. -OMISSIS-, la circostanza, taciuta in sede di istanza, della provenienza del dipinto da una collezione storica polacca nella quale si tramandava il ricordo della provenienza della tela da collezioni della famiglia romana -OMISSIS-;
- parimenti rilevanti ai fini della possibile attribuibilità dell'opera al Caravaggio sono state considerate le dimensioni del dipinto (in quanto analoghe all'opera caravaggesca "La buona ventura"), dati sui quali sono state forniti dall'istante indicazioni ondivaghe ed errate;
- le sopraricordate indagini scientifiche e l'intervento di restauro hanno avuto, con ogni probabilità, costi non trascurabili difficilmente giustificabili dal punto di vista economico con riguardo ad un'opera considerata una copia priva di valore;
- l'organizzazione della prima mostra-convegno in cui è stata pubblicamente affermata l'attribuibilità al Caravaggio dell'opera di che trattasi ha avuto luogo, per stessa ammissione di parte, in Santa Maria Tiberina (PG) dal 29 settembre 2012, a distanza brevissima di tempo (circa tre mesi) dalla presentazione della domanda di rilascio di attestato di libera circolazione (avvenuta in data 14 giugno 2012) il che lascia ritenere, secondo l'id quod plerumque accidit, che la stessa proprietà potesse nutrire, al momento della domanda, una qualche aspettativa in ordine alla attribuibilità al Caravaggio;
- se la proprietà avesse allegato all'istanza del 18 novembre 2014 l'originario attestato di libera circolazione n. 5180 del 2012, l'Ufficio esportazione sarebbe stato messo in condizione di apprezzare il sopravvenuto cambio di attribuzione, prezzo e proprietà dell'opera e, quindi, di prendere in considerazione tale fondamentale aspetto nell'adozione delle determinazioni di competenza”.
[20] La citata circolare n. 21 del 24 maggio 2024, avente ad oggetto “Uscita definitiva dal territorio della Repubblica – Denuncia priva di indicazioni attendibili e presentazione di opere in stato conservativo precario – Improcedibilità” è consultabile in www.dgabap.gov.it.
[21] Viene, in proposito, citata la notissima pronuncia Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, inerente al c.d. “Caso Ilva”, in Giur. cost., 2013, 3, 1424.
Ciò appare, secondo il Giudice, ancora più irragionevole se si considera che "in forza di esso, un interesse pubblico così pregnante e che si lega alla cura di un bene di primario rilievo costituzionale come quello alla tutela del patrimonio storico e artistico si rivela sempre meccanicamente recessivo, per effetto del mero decorso del tempo, rispetto alla tutela di una situazione giuridica a matrice individuale. Tale è, infatti, l’affidamento la cui tutela rafforzata costituisce la ratio del termine annuale ex art. 21 nonies della l n. 241 del 1990. Esso resta, infatti, pur sempre una ’posizione giuridica soggettiva’ che può alternativamente riferirsi ed inerire ad un diritto soggettivo o ad un interesse legittimo e che, nelle sue origini civilistiche, ’risponde all’esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale’”.
[22] Con specifico riferimento alle peculiarità del procedimento amministrativo in presenza di interessi sensibili, si vedano, ex multis, R. Leonardi, La tutela dell'interesse ambientale, tra procedimenti, dissensi e silenzi, Torino, 2020; G. Mari, ‘Primarietà’ degli interessi sensibili e relativa garanzia nel silenzio assenso tra pp.aa. e nella conferenza di servizi, in Riv. giur. ed., 2017, 5, 305 ss. e A. Moliterni, Semplificazione amministrativa e tutela degli interessi sensibili: alla ricerca di un equilibrio, in Dir. amm., 2017, 4, 699 ss.
[23] Osserva in proposito il Collegio che il silenzio assenso opera in questo caso, a differenza di quello verticale, non a favore di un privato, ma a favore di una pubblica amministrazione, che dovrà poi comunque farsi carico del bilanciamento degli interessi rilevanti e, in ogni caso, stabilendo un termine più lungo per la formazione del silenzio assenso, e facendo salivi i diversi termini previsti dalle norme speciali.
[24] Sulla discrezionalità tecnica caratterizzate il procedimento di rilascio dell’attestato di libera circolazione, cfr., in giurisprudenza, tra le pronunce più recenti, Cons. Stato, Sez. VI, 19 novembre 2024, n. 9285, in www.giustizia-amministrativa.it; Id., 13 ottobre 2023, n. 8983, ivi; T.A.R. Firenze, Sez. I, 22 marzo 2024, n. 335, ivi; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 1° marzo 2021, n. 2501, in Foro amm. – T.A.R., 2021, 3, 550.
[25] Con specifico riferimento alla controversia oggetto della pronuncia, il Collegio ha sottolineato che “la riespansione – in caso di accoglimento della questione sollevata – del termine flessibile ancorato al parametro generale della ragionevolezza consentirebbe, invece, di valorizzare, ai fini della spendita del potere di ritiro (pur con il limite della durata ragionevole a tutela degli affidamenti privati), ogni aspetto in fatto della singola vicenda indipendentemente da una logica di chiara imputabilità alla parte privata di una falsa rappresentazione dei fatti (spesso difficile da ritenersi come nella specie è evidente, pur in presenza di un oggettivo aliud pro alio e del rischio che possa porsi in essere l’esportazione di un capolavoro ove non sia stato apprezzato compiutamente il valore culturale che sempre inibirebbe l’uscita dal territorio)”.
[26] Sull’affidamento dei privati nei confronti della pubblica Amministrazione, tra i più recenti contributi, si vedano G. Tulumello, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione tra ideologia e dogmatica, in Giustamm.it, 5, 2022 e R. Fusco, I limiti dell'autotutela decisoria in materia edilizia: il difficile equilibrio tra il contrasto all'abusivismo e la tutela dell'affidamento dei privati, in Riv. giur. ed., 2020, 1, 15 ss.
[27] A. Carbone, Il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio, cit., 94, evidenzia che la l. n. 124 del 2015 ha introdotto “una decadenza in senso proprio dell’esercizio del potere di annullamento da parte dell’Amministrazione, che trova la propria giustificazione nell’esigenza di garantire per quelle particolari tipologie di atti, l’affidamento del singolo, in maniera più pregnante rispetto al mero contemperamento con gli altri interessi che vengono in rilievo nella specifica fattispecie: detto affidamento, infatti, nel momento in cui è correlato con una preclusione all’annullamento d’ufficio, gode di una tutela in sé considerata”.
[28] S. Toschei, Il recupero del primato della discrezionalità nel nuovo codice dei contratti pubblici del 2023, in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione, Napoli, 2023, 387 ss., ha in proposito emblematicamente evidenziato che la discrezionalità “viene posta sul banco degli imputati come se costituisse uno strumento di debolezza dell’esercizio del potere e, al tempo, un meccanismo diabolico di proliferazione del malaffare, atteso che nelle pieghe della discrezionalità non si nasconde soltanto il rischio di comportamenti viziati da accesso di potere ma soprattutto di interventi deviati da obiettivi oppositivi rispetto alla cura dell’interesse pubblico, con lo scopo di conseguire soddisfazioni personali e illegali”.
[29] Tra i molti contributi recentemente elaborati in merito al recupero della discrezionalità nel nuovo Codice dei contratti pubblici si veda S. Toschei, Il recupero del primato della discrezionalità nel nuovo codice dei contratti pubblici del 2023, cit., 387 ss.
[30]Sul punto si rimanda a M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, cit. e alla dottrina e giurisprudenza ivi menzionata.
Una prima soluzione interpretativa potrebbe essere offerta valorizzando i rilievi della citata Adunanza plenaria n. 8 del 2017, espressasi con riferimento all’onere motivazionale cui è tenuta l’Amministrazione nell’autoannullare un provvedimento, dopo che sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua adozione. “Nella vigenza dell'art. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241 — introdotto dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 — l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole. In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi: a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro; b) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi); c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte” .
Sommario: 1. La questione controversa - 2. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori statali - 3. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori territoriali - 4. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e prescrizione per la notifica degli atti da parte dell’Agente della riscossione - 5. Auspicio conclusivo.
1. La questione controversa
La disciplina emergenziale Covid sui termini di decadenza e di prescrizione a carico degli enti impositori e dell’agente della riscossione, con il rincorrersi di scomposti interventi normativi e continue proroghe, ha indubbiamente creato più problemi che risolverne, lasciando malsani strascichi che si trascinano a tutt’oggi.
A fronte delle divergenti interpretazioni del dettato normativo sulla portata della “sospensione” dei termini, ovvero se valevole solo per quelli in scadenza nell’arco temporale individuato dalle norme, o “a cascata”, con spostamento in avanti anche dei termini di mero transito, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Gorizia, con ordinanze del 13 e del 18 novembre 2024, e quella di Lecce, con ordinanza del 19 novembre 2024, avevano proposto rinvii pregiudiziali ex art. 363-bis c.p.c. con particolare riferimento alla disciplina prevista dall’art. 67, d.l. n. 18/2020.
Con provvedimento del 23 gennaio 2025, la Prima Presidente della Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i rinvii pregiudiziali in quanto la questione dell’interpretazione dell’art. 67 d.l. n. 18/2020 è stata nelle more “affrontata e risolta” dalla Suprema Corte, Sez. I civile, con l’ordinanza 15 gennaio 2025, n. 960. La Corte di Cassazione, nell’ordinanza, ha affrontato il tema in riferimento alla prescrizione di crediti non tributari azionati dall’agente della riscossione tramite l’insinuazione al passivo nel fallimento (liquidazione giudiziale) eccepita rispetto ad avvisi di addebito o intimazioni di pagamento in precedenza notificati. Avendo l’agente della riscossione opposto la sospensione Covid (peraltro ex art. 68, e non 67, d.l. n. 18/2020), la Corte ha ritenuto che, comportando “le disposizioni in materia di sospensione dei termini di versamento dei tributi”, o contributi, a favore dei soggetti interessati da eventi eccezionali, “per un corrispondente periodo di tempo, relativamente alle stesse entrate, la sospensione dei termini previsti per gli adempimenti anche processuali, nonché la sospensione dei termini di prescrizione e decadenza in materia di liquidazione, controllo, accertamento, contenzioso e riscossione a favore degli enti impositori, degli enti previdenziali e assistenziali e degli agenti della riscossione”, come disposto dall’art. 12, comma 1, d.lgs. n. 159/2015 richiamato dal comma 4 dall’art. 67, e dall’art. 68, d.l. n. 18/2020, deve ritenersi applicabile la sospensione dei termini di prescrizione e decadenza, non soltanto in relazione alle attività da compiersi nell’arco temporale normativamente previsto, ma anche alle attività non in scadenza. In sostanza, con uno spostamento in avanti del decorso dei termini per la stessa durata della sospensione.
Se è vero che la questione è stata “affrontata” e “decisa” dalla Prima Sezione della Cassazione, per cui è venuto meno il presupposto del rinvio pregiudiziale, tuttavia non può affatto dirsi che essa sia stata “risolta” con l’ordinanza n. 960/2025.
La questione, infatti, a parere di chi scrive, necessita di migliore approfondimento, in particolare in ambito tributario, rispetto al mero esame letterale, effettuato dalla Suprema Corte, del solo primo periodo del comma 1 dell’art. 12, d.lgs. n. 159/2015, richiamato dall’art. 67, comma 4, d.l. n. 18/2020. Occorre, infatti, sforzandosi di superare la naturale resistenza ad affrontare il ginepraio davanti al quale ci si trova, procedere, con umiltà e pazienza, nell’esame integrale del dato normativo. E, così facendo, comprendere che non si va da nessuna parte se non ci si avvede che la disciplina di riferimento non è affatto una sola, ma ce ne sono almeno tre (la terza, come si vedrà, declinata in una serie di plurime differenziate proroghe).
La prima disciplina riguarda i termini di decadenza[1] e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori statali; la seconda concerne i termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori territoriali; la terza, infine, attiene ai termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti da parte dell’agente della riscossione. Tutte e tre sono connotate da regole proprie, non confondibili tra loro. L’unico dato parzialmente comune è costituito dal rinvio all’art. 12, d.lgs. n. 159/2015, sebbene ad esso, significativamente, le norme emergenziali Covid facciano rimando in modo assai diverso.
2. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori statali
Dopo un primissimo intervento sulle misure di gestione del fenomeno pandemico delimitate alla c.d. zona rossa, con l’art. 67 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, intitolato “Sospensione dei termini relativi all’attività degli uffici degli enti impositori”, il legislatore ha stabilito, al comma 1, che “sono sospesi dall'8 marzo al 31 maggio 2020 i termini relativi alle attività di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di contenzioso, da parte degli uffici degli enti impositori”. Sempre al comma 1, il legislatore ha previsto, per lo stesso periodo, la sospensione di ulteriori termini[2], dettando, poi, al comma 2, altre disposizioni relative agli interpelli e, al comma 3, altre ancora relative alla sospensione, sempre dall’8 marzo al 31 maggio 2020, delle attività non aventi carattere di indifferibilità ed urgenza ivi elencate.
Con il comma 4, il legislatore ha, infine, disposto che, “con riferimento ai termini di prescrizione e decadenza relativi all'attività degli uffici degli enti impositori si applica, anche in deroga alle disposizioni dell'articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’art. 12, commi 1 e 3, del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 159”. Giova subito evidenziare che nell’originaria formulazione il riferimento era tout court all’art. 12, d.lgs. n. 159/2015, e l’espressa indicazione dei soli commi 1 e 3, con esclusione, quindi, del comma 2 del citato art. 12, è stata inserita dalla legge di conversione 24 aprile 2020, n. 27.
Poco dopo, il legislatore è, però, nuovamente intervenuto, prescrivendo, con l’art. 157 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, per quanto qui interessa, al comma 1, che, “in deroga a quanto previsto dall'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n, 212, gli atti di accertamento, di contestazione, di irrogazione delle sanzioni, di recupero dei crediti d'imposta, di liquidazione e di rettifica e liquidazione, per i quali i termini di decadenza, calcolati senza tener conto del periodo di sospensione di cui all'articolo 67, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, scadono tra l'8 marzo 2020 e il 31 dicembre 2020, sono emessi entro il 31 dicembre 2020 e sono notificati nel periodo compreso tra il 1° marzo 2021 e il 28 febbraio 2022, salvi casi di indifferibilità e urgenza, o al fine del perfezionamento degli adempimenti fiscali che richiedono il contestuale versamento di tributi”.
Al comma 7-bis, aggiunto all’art. 157 in sede di conversione, il legislatore ha precisato che “le disposizioni contenute nel presente articolo non si applicano alle entrate degli enti territoriali”.
Si è, quindi, realizzata una diversificata disciplina dei termini degli enti impositori, per le entrate erariali, da un lato, e per le entrate degli enti locali, dall’altro.
Con riguardo alle prime, l’art. 157, comma 1, d.l. n. 34/2020, ha inequivocabilmente portato al superamento del periodo di “sospensione” (dall’8 marzo al 31 maggio 2020, che, inclusa la data iniziale, è pari a 85 giorni) di cui all'articolo 67, comma 1, d.l. n. 18/2020, del quale, infatti, è espressamente indicato nello stesso art. 157 di non doversi tenere conto per il calcolo del termine di decadenza.
Deve, dunque, ritenersi che, in forza di quanto disposto dal subentrato art. 157, per gli atti di accertamento, di contestazione, di irrogazione delle sanzioni, di recupero dei crediti d'imposta, di liquidazione e di rettifica e liquidazione relativi a tributi erariali, per i quali i termini di decadenza andavano a scadere tra l'8 marzo e il 31 dicembre 2020, la regola sia che, esclusa la rilevanza del periodo di sospensione indicato nell’art. 67, essi andavano “emessi”[3] entro il naturale termine di decadenza del 31 dicembre 2020, e, poi, dovevano essere “notificati, successivamente, nel periodo compreso”, all’esito di proroghe, “tra il 1° marzo 2021 e il 28 febbraio 2022”.
Siffatta conclusione, che circoscrive la disciplina emergenziale per il termine decadenziale di notifica degli accertamenti tributari dell’ente impositore erariale a quanto prescritto dall’art. 157 comma 1, d.l. n. 34/2020, discende, sia dalla compiuta disciplina ivi contenuta, con la chiara ed espressa esclusione, per il calcolo del termine, del periodo di sospensione di 85 giorni previsto dall’art. 67, d.l. n. 18/2020, sia dall’ovvia considerazione di inverosimiglianza dell’ipotesi che il legislatore emergenziale abbia, nel contempo, imposto il rispetto del termine decadenziale ordinario per gli atti di accertamento in scadenza il 31 dicembre 2020, anno di pandemia, con mera proroga del termine di notifica, ai sensi del citato art. 157 del d.l. n. 34/2020, e lo abbia, invece, tout court differito di 85 giorni per gli accertamenti degli anni a venire, i cui termini di decadenza andavano, o andranno, a scadere quando l’emergenza è ormai largamente superata[4].
Tant’è vero che la stessa Agenzia delle entrate pare aver provveduto con nota interna della Direzione centrale di Roma[5] a invitare gli uffici a non considerare più la proroga degli 85 giorni, ma a fare riferimento alla scadenza ordinaria del termine di decadenza, e che, comunque, il contenzioso con l’Agenzia delle entrate non risulta neppure significativo, avendo, evidentemente, i funzionari preposti assunto un atteggiamento prudenziale notificando gli atti nei termini decadenziali ordinari, o superato la questione in ragione del differimento dovuto alla realizzazione del contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio, per il quale, nell’imminenza della scadenza, è prevista la proroga di 120 giorni.
3. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e di prescrizione per la notifica degli atti degli enti impositori territoriali
Come detto, la disposizione sopra esaminata non si applica agli atti degli enti territoriali. Per essi vale, dunque, quanto disposto dall’art. 67, d.l. n. 18/2020.
Come sopra riportato, il comma 1 dell’art. 67 si limita a individuare nel periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020 il termine di “sospensione” delle attività di liquidazione, di controllo, di accertamento, di riscossione e di contenzioso. Ai fini che ne occupa rileva il comma 4, che, “con riferimento ai termini di prescrizione e decadenza relativi all’attività degli uffici degli enti impositori” (territoriali), rimanda, in deroga all’art. 3, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuente, e, quindi, al divieto ivi contenuto di proroghe dei termini, a quanto disposto dai soli commi 1 e 3 dell’art. 12, d.lgs. n. 159/2015.
Pare utile, prima di procedere all’analisi dei citati commi 1 e 3 dell’art. 12, d. lgs. n. 159/2015, rimarcare che la norma è stata introdotta con la finalità, come si legge nella Relazione di accompagnamento, di dettare una disciplina generale e uniforme per eventi eccezionali, in precedenza diversamente articolata dagli interventi normativi via via occasionati dalle varie situazioni di emergenza[6].
Alla luce di questa finalità è quindi possibile leggere il comma 1 dell’art. 12 del d.l. n. 159/2015 quale regola generale che impone la stessa durata del periodo emergenziale di fermo attività (da individuare, poi, nella sua specificità temporale, tramite le singole disposizioni emergenziali), sia a favore dei soggetti tenuti a versare tributi o contributi, sia a favore degli enti impositori per le attività ad essi spettanti, sia in relazione ai termini processuali in favore di entrambi. La norma, infatti, incentra il suo contenuto precettivo nella correlazione del periodo rilevante per tutti gli adempimenti, stante la disposta uniformità temporale tra le disposizioni in materia di sospensione dei termini per il versamento con la sospensione, “per un corrispondente periodo di tempo, per le stesse entrate”, dei termini previsti per gli adempimenti processuali e per i termini di prescrizione e decadenza a carico degli enti impositori. Come, dunque, si evince dal testo e com’è stato, infatti, rilevato, la ratio posta a fondamento di tale disciplina è quella di realizzare “una sorta di simmetria dei regimi di sospensione o di proroga dei termini connessi a fatti straordinari”[7], sia per le incombenze a carico del contribuente, sia per quelle a carico degli enti, oltre che per i termini processuali.
Tale parallelismo è stato evidenziato nell’ordinanza n. 960/2025, facendone derivare che, come sono sospesi i termini di versamento, così sono sospesi i termini di prescrizione e di decadenza, per arrivare a concludere che la sospensione di questi ultimi si applica anche agli anni intermedi di decorrenza del termine.
Il combinato disposto dell’art. 67, commi 1 e 4, del d.l. n. 18/2020 e dell’art. 12, commi 1 e 3, del d.lgs. n. 159/2015, però, non dice questo.
Innanzi tutto, il comma 1 dell’art. 67 d.l. n. 18/2020 non si occupa dei versamenti. Se mai, se ne occupa l’art. 62 del d.l. n. 18/2020, che, al comma 1, indica il medesimo periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020.
In ogni caso, quanto ai versamenti, lo stesso art. 12, d. lgs. n. 159/2015, dopo aver disposto il parallelismo evidenziato dall’ordinanza n. 960/2025, sempre al comma 1, aggiunge che, “salvo diverse disposizioni, i versamenti sospesi sono effettuati entro il mese successivo al termine del periodo di sospensione”. Corrispondentemente, l’art. 62, d.l. n. 18/2020 nel dettare la specifica disciplina emergenziale Covid per i versamenti, prevede, al comma 6, che gli adempimenti del contribuente “sospesi” ai sensi del comma 1 “sono effettuati entro il 30 giugno 2020 senza applicazione di sanzioni”. Quindi, entro il mese successivo alla fine della “sospensione”, come prescritto dalla normativa generale dell’art. 12.
Derivandone, in base alla lettera della legge, la conclusione esattamente opposta a quella affermata dalla Suprema Corte. E cioè che, come non opera per le annualità successive a quella incisa dalla finestra temporale intercorrente dall’8 marzo al 31 maggio 2020 la ripresa degli adempimenti tributari e dei pagamenti, da effettuare entro il 30 giugno 2020, ovvero 30 giorni dopo la fine della sospensione, del pari, non può essere consentito agli uffici di estendere la sospensione della loro attività per 85 giorni in più, al di là dell’anno di riferimento del 2020[8].
Dovendosi aggiungere, quanto ai termini processuali, che la normativa emergenziale Covid, con l’art. 83 del d.l. n. 18/2020 e, poi, con l’art. 36, comma 1, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, ha, pur essa, contenuto la sospensione nel perimetro dell’anno pandemico, dall’8 marzo 2020 fino all’ultima proroga dell’11 maggio 2020.
Che il legislatore abbia voluto circoscrivere entro l’anno pandemico (2020), oltre agli adempimenti di spettanza del contribuente e ai i termini processuali, anche la dilazione dei termini di decadenza e di prescrizione a carico degli uffici impositori, risulta, vieppiù, dimostrato dal fatto che, in sede di conversione del d.l. n. 18/2020, è stato eliminato dall’art. 67 il riferimento al comma 2 dell’art. 12, d.lgs. n. 159/2015. Se tale eliminazione non fosse avvenuta, sarebbe stata, infatti, operante, per i termini di decadenza e di prescrizione scadenti entro il 31 dicembre dell'anno o degli anni durante i quali si verifica la sospensione (nel caso solo il 2020), la “proroga” ivi prevista fino al 31 dicembre del secondo anno successivo alla fine del periodo di sospensione.
Pertanto, nella disciplina emergenziale Covid in esame, proprio lo stretto parallelismo tra i termini per i versamenti, i termini processuali e i termini di prescrizione e di decadenza di cui trattasi, a differenza di quanto affermato dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 960/2025, comporta che, scadendo il termine dei versamenti il 30 giugno 2020, riprendendo i termini processuali l’11 maggio 2020, si debba escludere, anche per i termini di prescrizione e decadenza a carico degli uffici qualsivoglia “spostamento in avanti del decorso dei termini”, al di là delle attività da compiersi nel periodo temporale dall’8 marzo al 31 maggio 2020, con estensione per gli anni da accertare il cui termine era, in quel periodo, di mero passaggio.
Il fatto è, com’è stato segnalato in dottrina[9] e da una parte della giurisprudenza di merito[10], che quanto disposto dall’art. 67 del d.l. n. 18/2020, per l’emergenza pandemica, non è una vera e propria “sospensione” in senso tecnico, ma una “proroga” del termine. Così come non si riferisce ad una “sospensione” in senso tecnico quanto disposto dall’art. 12 d.lgs. n. 159/2015, a cui l’art. 67 rimanda.
Il termine, infatti, non viene “congelato”, come accade con le sospensioni dei termini, ma solo “spostato”, tant’è vero che “i versamenti oggetto di sospensione devono poi essere effettuati, in unica soluzione, entro il mese successivo”, cioè 30, e non 85, giorni dopo. Mentre, ripetesi, se di vera e propria “sospensione” si trattasse, il parallelismo agevolativo disposto tanto per gli adempimenti del contribuente, quanto per le attività degli uffici (come per i termini processuali) comporterebbe che l’identico meccanismo, ritenuto valevole per gli uffici dall’ordinanza dalla Suprema Corte in commento e da parte della giurisprudenza di merito[11], dovrebbe, evidentemente, valere anche per gli adempimenti dei contribuenti e per i termini processuali. Circostanza, invece, expressis verbis esclusa dal dettato normativo. Sicché manca del tutto proprio il parametro della “sospensione”, intesa in senso tecnico, del termine per i versamenti, sul quale la Suprema Corte ha fondato l’affermata sussistenza di una (pari) sospensione per i termini di decadenza e di prescrizione.
Deve, allora, ritenersi che il legislatore, quando ha utilizzato la parola “sospensione”, lo ha fatto in senso atecnico, con il mero significato di fermo delle attività, da valere, per lo stesso identico periodo di tempo, sia per quelle a carico dei contribuenti, sia per quelle di competenza degli uffici, con ripresa, poi, variamente declinata.
Siffatta conclusione risulta, altresì, confermata dal richiamo, contenuto nell’art. 67 d.l. n. 18/2020 al comma 3 dell’art. 12, d.lgs. n. 159/2015. In tale comma, ribadendosi il più volte evidenziato parallelismo del periodo di fermo attività, sia in favore dei contribuenti, sia in favore degli uffici, viene specificato che anche “l'Agente della riscossione non procede alla notifica delle cartelle di pagamento durante il periodo di sospensione di cui al comma 1”.
La previsione, se, a un primo sguardo, pare nulla aggiungere al tema che ne occupa, riferendosi alla notifica delle cartelle di pagamento, contiene, invece, un dato assai significativo, sempre al fine di una corretta interpretazione delle norme, costituito dall’indicazione del comportamento che l’ente, nel caso l’agente della riscossione, deve tenere “durante il periodo di sospensione di cui al comma 1”, ovvero quello di non procedere. A riprova che la parola “sospensione” utilizzata dal legislatore va intesa nel senso di fermo attività e nulla più.
Di conseguenza, per i tributi locali, non interessati dal disposto dell’art. 157, d.l. n. 34/2020, la lettura dell’art. 67, d.l. n. 18/2020, in relazione ai richiamati commi 1 e 3 dell’art. 12 d.lgs. n. 159/2020 porta a concludere che l’ente locale ha semplicemente avuto un periodo di ulteriori 85 giorni rispetto alla scadenza del 31 dicembre 2020 per notificare gli atti impositivi che sarebbero scaduti a quella data.
4. La disciplina emergenziale dei termini di decadenza e prescrizione per la notifica degli atti da parte dell’Agente della riscossione
Passando, infine, all’art. 68, d.l. n. 18/2020, che specificamente attiene alla fattispecie trattata dall’ordinanza n. 960/2025, relativa all’eccepita prescrizione di crediti (non tributari) azionati dall’ente riscossore in sede di insinuazione al passivo nel fallimento (ora liquidazione giudiziale), va subito detto che la sua formulazione è assai diversa dal precedente art. 67, relativo alle attività degli uffici degli enti impositori, del cui esame si è, invece, inconferentemente interessata la Corte.
L’art. 68, al comma 1, si occupa, infatti, della sospensione dei termini dei versamenti “in scadenza” nel periodo dall’8 marzo 2020 al 31 agosto 2021 (spostato in avanti a più riprese), derivanti da cartelle di pagamento o avvisi di addebito, ribadendo che “i versamenti devono essere effettuati in unica soluzione entro il mese successivo al termine del periodo di sospensione”, e aggiungendo che “si applicano le disposizioni di cui all’art. 12 del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 159”. Quindi, anche il comma 2, che, per l’appunto, correlativamente, si occupa dei termini di prescrizione e decadenza a carico dell’agente della riscossione “che scadono” entro il 31 dicembre dell’anno o degli anni durante i quali si verifica la sospensione. Prescrivendo che i detti termini sono “prorogati”, in deroga all’art. 3, comma 3, della legge 212/200, “fino al 31 dicembre del secondo anno successivo alla fine del periodo di sospensione”.
Se già si è detto, quanto al significato da attribuire alla parola “sospensione”, che la disciplina positiva stessa esclude potersi considerare quale sospensione “in senso tecnico”, siffatta constatazione risulta vieppiù rafforzata dalla lettura della disposizione in esame. Atteso che le nozioni di sospensione in senso tecnico e di proroga sono, come noto, diverse e incompatibili tra loro. Per cui vale, o la sospensione del termine (con ripresa, alla fine della sospensione, da conteggiare per lo stesso numero di giorni della durata della sospensione), o la proroga (con ripresa, una volta decorsi i giorni della proroga), mentre non ha alcun senso prorogare un termine già sospeso.
Ai sensi del combinato disposto dell’art. 68, comma 1, d.l. n. 18/2020 e dell’art. 12, commi 1, 2 e 3, d.lgs. n. 519/2015, si deve, dunque, concludere che, per gli atti della riscossione indicati nell’art. 68 i cui termini di decadenza o di prescrizione “scadevano” entro il 31 dicembre 2020 e il 31 dicembre 2021, è stabilita una proroga fino al 31 dicembre del secondo anno successivo[12].
Poiché l’ordinanza n. 960/2025 neppure menziona il comma 2 dell’art. 12 d.lgs. n. 159/2015, richiamato dall’art. 68 d.l. n. 18/2020, e siccome non risultano chiare le date di notifica degli atti presi a parametro per calcolare la prescrizione rispetto alla domanda di insinuazione al passivo avvenuta il 22 luglio 2022, non è dato comprendere se, nella specie, la scadenza della prescrizione cadesse nell’anno 2020 o 2021, come, peraltro, sembrerebbe di capire. Se così fosse, in applicazione del citato comma 2 dell’art. 12, richiamato dall’art. 68, d.l. n. 18/2020, andava, in effetti, applicata la proroga.
Ma non certo una generalizzata “sospensione” del termine per la durata di 542 giorni (corrispondente al periodo dall’8 marzo 2020 al 31 agosto 2021), né, tanto meno, per tutti gli anni di passaggio del termine di decadenza o, ancor peggio, vista la durata ordinariamente decennale, di prescrizione.
Va, poi, aggiunto che la disciplina degli atti di riscossione non si è fermata all’esaminato art. 68.
Successivamente, il legislatore, verosimilmente non reputando che i termini di decadenza per la notifica della cartella di pagamento per i controlli sulla dichiarazione di cui alle lett. a) e b) dell’art. 25, comma 1, d.p.r. n. 602/1973, rientrassero completamente nella proroga sopra vista, ha stabilito, con l’art. 157, comma 3, d.l. n. 34/2020, che i suddetti termini di decadenza sono “prorogati di quattordici mesi relativamente: a) alle dichiarazioni presentate nell'anno 2018, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di liquidazione prevista dagli articoli 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633; b) alle dichiarazioni dei sostituti d'imposta presentate nell'anno 2017, per le somme che risultano dovute ai sensi degli articoli 19 e 20 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917; c) alle dichiarazioni presentate negli anni 2017 e 2018, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di controllo formale prevista dall'articolo 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600”. Con scadenza, dunque, per i controlli ex art. 36-bis, d.p.r. n. 600/1973 e 54-bis, d.p.r. n. 633/1972 relativi alla dichiarazione presentata nel 2018, al 28 febbraio 2023 rispetto al termine naturale del 31 dicembre 2021, e con scadenza, per i controlli formali ex art. 36-ter, d.p.r. n. 600/1973 sulle dichiarazioni presentate negli anni 2017 e 2018, rispettivamente, al 28 febbraio 2023, invece che 31 dicembre 2021, e 29 febbraio 2024, invece che 31 dicembre 2022.
Non pago, il legislatore emergenziale Covid, con il d.l. 22 marzo 2021, n. 41[13] ha, poi, introdotto nell’art. 68, d.l. n. 18/2020 il comma 4-bis. In cui, “con riferimento ai carichi, relativi alle entrate tributarie e non tributarie, affidati all'agente della riscossione durante il periodo di sospensione” (dall’8 marzo 2020 al 31 agosto 2021), “e, successivamente, fino alla data del 31 dicembre 2021, nonché, anche se affidati dopo lo stesso 31 dicembre 2021, a quelli relativi alle dichiarazioni di cui all'articolo 157, comma 3, lettere a), b), e c), del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77”, è stata disposta, alla lett. b), la proroga dei termini di decadenza e prescrizione “di ventiquattro mesi, anche in deroga alle disposizioni dell'articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212, e a ogni altra disposizione di legge vigente”. Al riguardo, vi è chi ha ritenuto che quest’ultima disposizione, in quanto espressamente derogatoria di “ogni altra disposizione di legge vigente”, dovrebbe aver superato le sopra menzionate prescrizioni dell’art. 157, comma 3, lett. a), b) e c), del d.l. n. 34/2020[14].
Di certo vi è che non risulta affatto semplice il coordinamento delle intervenute varie proroghe. E, altresì, che, trattandosi di proroghe (per di più assai differenziate nella loro durata), non è prospettabile alcuna ipotesi di c.d. “sospensione a cascata”. Sicché pare ovvio concludere che, se il termine di decadenza o di prescrizione non rientra in nessuna delle prefigurate proroghe sopra esaminate, la scadenza resta ferma e non si applica alcuna dilazione del termine, tanto meno di 542 giorni.
5. Auspicio conclusivo
Concludendo, dunque, dall’ordinanza n. 960/2025 della Suprema Corte non si evince alcun dato risolutivo di generale portata ai fini di un chiarimento sulla normativa in oggetto. E sarebbe oltremodo auspicabile che la Sezione tributaria della Suprema Corte approfondisse la questione, per offrire, da par suo, un contributo articolato e appagante su questa problematica, tanto aggrovigliata e complessa quanto delicata, afferendo a termini la cui alterazione va sottoposta al vaglio di attenta ponderazione.
[1] I termini per la notifica degli atti di accertamento o di liquidazione tributari sono di decadenza, sia per gli enti impositori statali, sia per gli enti impositori locali.
[2] Relativi alle istanze di interpello e ai termini di cui all'art. 7, comma 2, d.lgs. n. 128/2015, ai termini di cui all’art. 1-bis d.l. n. 50/2017 e 31-ter e 31-quater del d.p.r. n. 600/1973, nonché ai termini relativi alle procedure di cui all'art. 1, commi da 37 a 43, della legge n. 190/2014.
[3] Fornendo il comma 5 dell’art. 157, d.l. n. 34/2020 le indicazioni ai fini della prova a carico dell’Agenzia delle entrate dell'avvenuta elaborazione e emissione degli atti o delle comunicazioni entro il 31 dicembre 2020.
[4] Considerando i termini di cui art. 43 d.p.r. n. 600/1973 e la modifica che ha portato, a decorrere dall’anno 2016, il termine di decadenza al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione e, per i casi di omessa presentazione o presentazione nulla, al 31 dicembre del settimo anno successivo, a voler aderire alla tesi della c.d. “sospensione a cascata”, la conseguenza sarebbe che, per l’anno 2016, la scadenza si verificherebbe il 26 marzo 2023 per i contribuenti che hanno presentato la dichiarazione e il 26 marzo 2025 per i contribuenti che non l’hanno presentata; per l’anno 2017, rispettivamente, il 25 marzo 2024 e il 26 marzo 2026, e, per l’anno 2018, rispettivamente, il 26 marzo 2025 e il 26 marzo 2027. L’anno 2019 non dovrebbe valere perché la dichiarazione nel periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020 non era ancora stata presentata.
[5] Di cui si è data notizia sulle Riviste specializzate, in particolare in Il Sole 24 ore del 12 marzo 2024.
[6] Come sottolineato da A. Benigni, in A Benigni-R. Maglio, Decadenza e prescrizione nel diritto e nel processo tributario, Torino, 2022,189, citando ivi, 186-187, i pregressi frammentati interventi normativi collegati al sisma del 23 novembre 1980, che aveva interessato la Basilicata e la Campania, e al sisma che aveva colpito nel 1997 i territori dell’Umbria e delle Marche.
[7] A. Benigni, Decadenza e prescrizione nel diritto e nel processo tributario, cit., 190.
[8] Come ritenuto, tra le molte, da CGT I grado Milano, n. 1186/2023, confermata dalla CGT II grado Lombardia, n. 2329/2024; CGT I grado Latina, n. 474/2024, in Fisco, 2024, 3103-3104, con commento di F. G. Carucci, Atti di accertamento in scadenza post 2020: non opera la sospensione di 85 giorni.
[9] A. Carinci, L’azione dell’agente della riscossione ai tempi dell’epidemia di Covid-19, in Pandemia da “Covid-19” e sistema tributario (a cura di A. Contrino – F. Farri), Pisa, 2021, 122. Che si tratti di “proroga” e non di “sospensione” del termine, l’A. lo rileva con riferimento all’azione dell’agente della riscossione, ma tale constatazione vale anche con riguardo all’art. 67 e all’art. 12, d.lgs. n. 159/2015, richiamato, sia dall’art. 67, sia dall’art. 68 del d.l. n. 18/2020. D’altro canto, proprio dal tenore dell’art. 67, ove si parla confusamente di “sospensione”, sia con riguardo a termini (commi 1 e 2), sia ad attività (comma 3), quali quelle “non aventi carattere di indifferibilità ed urgenza”, si evince l’utilizzo atecnico del sostantivo di cui trattasi.
[10] CGT I grado di Prato, 24 settembre 2024, n. 143; CGT I grado di Udine, 23 ottobre 2024, n. 206.
[11] Ad es., CGT I grado Messina, n. 6618/2024; CGT II grado Lazio, n. 6470/2024, che, peraltro, rimanda, in tema di accertamento TASI, al comma 2 dell’art. 12, invece escluso dall’art. 67, d.l. n. 18/2020.
[12] Sebbene non sia chiaro se si tratti sempre del 31 dicembre 2023, sia per i termini di decadenza naturalmente scadenti al 31 dicembre 2020, sia per i termini di decadenza naturalmente scadenti al 31 dicembre 2021, in quanto, se si intende che il termine è sempre prorogato al 31 dicembre 2023, per il 2020 la proroga sarebbe di tre anni.
[13] C.d. “Decreto Sostegni”, convertito dalla l. 22 maggio 2021, n. 69.
[14] In tal senso si esprime A. Benigni, Decadenza e prescrizione nel diritto e nel processo tributario, cit., 205, sostenendo che, in conseguenza dell’introduzione del comma 4-bis nell’art. 68, d.l. n. 18/2020, il legislatore ha introdotto “una proroga di 24 mesi per due distinte tipologie di carichi affidati all’agente della riscossione: a) carichi affidati nel periodo intercorrente tra l’otto marzo 2020 ed il 31 dicembre 2021, a prescindere dalla natura del carico; b) carichi derivanti dalle liquidazioni (ex art. 36-bis, d.p.r. n. 600/1973 e 54-bis, d.p.r. n. 633/1972) relative alle dichiarazioni dei redditi e IVA presentate nel 2018, e carichi per i controlli formali (ex art. 36-ter, d.p.r. n. 600/1973) relativo alle dichiarazioni presentate nel 2017 e 2018, a prescindere dalla data di affidamento all’agente della riscossione”.
Immagine: fotogramma del film Preferisco l'ascensore! di Fred Newmeyer (1923).
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