ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La guerra, la giustizia, la pace. Cosa ci insegna Gaza
📅 Mercoledì 8 ottobre 2025, ore 17.00 📍 Sala Quadrivium, Genova
oppure da remoto al link Teams https://teams.microsoft.com/meet/3527650483434?p=PeIAqs0ppWji5gnwq6
Organizzato da Area Democratica per la Giustizia in collaborazione con il Comitato per lo Stato di Diritto e la Comunità di Sant’Egidio
Coordina Tommaso Fregatti, giornalista de Il Secolo XIX e presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Liguria.
Comprendere Gaza, comprendere noi
La guerra a Gaza ha riportato con forza al centro del dibattito il rapporto tra diritto e potere, tra giustizia e violenza, tra pace e responsabilità. L’incontro “La guerra, la giustizia, la pace. Cosa ci insegna Gaza” nasce dal bisogno di interrogarsi — come giuristi, giornalisti, operatori della società civile e cittadini — sull’effettività del diritto internazionale, sulla tutela dei diritti umani, sul ruolo dell’informazione e della partecipazione collettiva.
L’incontro intende offrire un momento di confronto pubblico per comprendere, attraverso la lente del diritto e della testimonianza, che cosa Gaza ci insegni oggi sulla fragilità delle istituzioni, ma anche sulla forza della giustizia e della speranza di pace.
Le voci del dialogo
Stefano Dominelli – Il diritto internazionale alla prova della guerra
Professore associato di Diritto Internazionale e di Diritto dell’Unione Europea all’Universita’ di Genova, ha pubblicato saggi sulla responsabilità degli Stati, sull’uso della forza e la giurisdizione universale. È consulente in progetti accademici e formativi sul diritto dei conflitti armati.
Nel corso del suo intervento analizzerà il ruolo della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale nel conflitto israelo-palestinese e la difficile effettività delle loro decisioni di fronte alla realtà politica e militare.
Benedetta Scuderi – La Flottilla e la solidarietà civile (da remoto)
Eletta al Parlamento Europeo nel 2024, si occupa di giustizia climatica, cooperazione e diritti globali. Attivista per la pace e la nonviolenza, ha partecipato a iniziative internazionali per la tutela dei civili nei conflitti. interverrà da remoto per raccontare la sua esperienza nella Flottilla per Gaza, testimoniando la forza della società civile e le sfide della solidarietà internazionale.
Mario Marazziti – Le vie del dialogo e della pace
Giornalista, saggista ed editorialista, co-fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha partecipato a trattative di pace in Africa e America Latina. Deputato nella XVII legislatura, è autore di libri su disarmo, pena di morte e diplomazia umanitaria. Porterà la sua esperienza nei processi di mediazione internazionale, raccontando come la pace nasca dal dialogo anche nei conflitti più difficili.
Barbara Spinelli – Il ruolo dell’Avvocatura: panoramica delle azioni necessarie e possibili a livello nazionale e internazionale (da remoto)
Avvocata del foro di Bologna, è tra le figure più attive nella difesa dei diritti fondamentali e del diritto d’asilo. È co-Presidente di ELDH, membro esterno della Commissione diritti umani del CNF e collabora con organismi internazionali per la tutela delle vittime di conflitti. Interverrà da remoto sul ruolo dell’Avvocatura di fronte ai crimini di guerra e alle violazioni del diritto internazionale, illustrando gli strumenti giuridici e le azioni possibili, in Italia e nel contesto globale.
Luca Borzani – Dall’impotenza alla mobilitazione delle coscienze
Filosofo e saggista, è stato direttore del Centro Ligure di Storia Sociale e presidente della Fondazione Cultura Palazzo Ducale di Genova. Scrive su temi sociali e politici, autore di saggi sul ruolo dei movimenti e sulla trasformazione dello spazio pubblico urbano. Rifletterà sul valore delle piazze e della partecipazione civile come strumenti di coscienza collettiva contro l’indifferenza e la rassegnazione.
Giusi Fasano – Dalla realtà di Gerusalemme (da remoto)
Giornalista del Corriere della Sera e inviata speciale, ha seguito guerre, crisi umanitarie e migrazioni in Medio Oriente e Africa. Autrice di reportage premiati, si occupa di diritti umani e condizione femminile nei contesti di conflitto. Sarà collegata da Gerusalemme per un racconto diretto della situazione attuale in Israele e nei territori, tra paura, resistenza e speranza di pace.
Tommaso Fregatti – Coordina il dibattito
Giornalista del Secolo XIX e presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Liguria, cronista giudiziario e d’inchiesta, si occupa di giustizia, criminalità e istituzioni. Da anni impegnato nella formazione professionale dei giornalisti, promuove l’etica dell’informazione e il giornalismo come servizio civile. Coordinerà il confronto tra i relatori e le domande del pubblico.
Un dialogo necessario
“La guerra, la giustizia, la pace” non è solo un titolo: è un percorso di consapevolezza. Parlare di Gaza significa parlare anche di noi, del senso della legge, della memoria e della dignità. In un tempo in cui la guerra sembra l’unica lingua possibile, la giustizia e la parola rimangono gli strumenti più radicali per difendere l’umano.
Il procedimento di recupero degli aiuti di Stato illegittimamente concessi: incertezze procedurali e conflitti tra principi (nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 27 febbraio 2025, n. 2738)
di Giacomo Biasutti
Sommario: 1. La vicenda processuale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea; 2. Le questioni di diritto affrontate dal Consiglio di Stato; 3. L’autotutela doverosa; 4. Segue. L’esaurimento -istantaneo- della discrezionalità; 5. Autonomia procedurale e revisione del provvedimento affetto da illegittimità secondo il diritto europeo; 6. Possibili conseguenze sulle aspettative di partecipazione al procedimento; 7. Riflessioni conclusive
1. La vicenda processuale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Oggetto sostanziale del contendere nella vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato è la revoca parziale di un contributo relativo alla realizzazione di un mini-impianto idroelettrico per la produzione di energia da fonte rinnovabile nell’ambito di una attività agricola. Invero la revoca parziale si è operata in ragione della sopraggiunta qualificazione del finanziamento in termini di aiuto di Stato “illegale” ai sensi del diritto UE. Il contributo, infatti, era stato originariamente erogato nella misura dell’80% dei costi ammissibili, eccedendo così il limite del 65% stabilito dal Regolamento UE n. 651/2014[1]. A livello di scansione temporale del procedimento, il provvedimento di concessione, datato 2018, era intervenuto però successivamente alla rimodulazione al ribasso del limite contributivo, operata nel 2014[2]. Di qui, pertanto, la revoca parziale operata dalla Provincia Autonoma di Bolzano per la quota eccedente il limite del 65% stabilito a livello unionale[3].
Il provvedimento di secondo grado formava quindi oggetto di impugnazione avanti al T.R.G.A. di Bolzano, il quale operava un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[4]. Il giudice sovranazionale veniva in particolare chiamato ad esprimersi in ordine alla compatibilità dell’aiuto concesso rispetto alla disciplina europea[5]. Ulteriormente, nel caso in cui l’originaria normativa fosse stata ritenuta inapplicabile visto il sopravvenire del regolamento n. 651/2014, il Tribunale bolzanino chiedeva se vi fosse obbligo di recupero a carico dello Stato membro di quanto versato in eccedenza.
La Corte europea chiariva[6] quindi che la decisione del 2012 cessava i propri effetti al 31 dicembre 2016, data anteriore all'espletamento del procedimento esitato con il riconoscimento del contributo di cui era causa; di qui l’inapplicabilità della previgente disciplina. Nel merito invece alla necessità di recupero di quanto versato in eccedenza al limite effettivamente imposto ratione temporis[7] -ammontare che, a quel punto, era considerato aiuto di Stato concesso contra legem[8]-, il Giudice di Lussemburgo affermava la sussistenza, alla luce della diretta applicabilità[9] dell’art. 108, comma 3, TFUE[10], di un obbligo i tribunali e le amministrazioni nazionali di adottare le misure più idonee a rimediare allo stato di illegittimità. Ossia, di fare in modo che il beneficiario non mantenga la disponibilità delle somme erogate in violazione delle previsioni unionali. Di qui la sussistenza di un vero e proprio onere di recupero delle somme[11] stricto iure posto in capo alle pubbliche autorità. Per consolidare tale conclusione, in un ulteriore passaggio della pronuncia, la Corte aveva pure modo di precisare come, alla luce della illegittimità dell’aiuto concesso, non si dovesse ritenere rilevante la sussistenza di una sua effettiva incidenza quanto all'assetto concorrenziale del mercato[12].
Sulla base di tale decisione pregiudiziale, il T.R.G.A. rigettava integralmente il ricorso. Preliminarmente affermata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[13], il Tribunale ha infatti ritenuto di qualificare come impresa ai sensi del diritto unionale il soggetto ricorrente (trattavasi di impresa agricola, come accennato supra)[14], deducendone quindi l’assoggettabilità tout court alla disciplina relativa agli aiuti di Stato. Successivamente il giudice di Bolzano ha ritenuto di escludere l'applicabilità del regime de minimis, essendosi superata nel caso di specie la soglia massima di contribuzione liberamente riconoscibile in favore di un'impresa agricola (pari a 15.000,00 euro nell’arco di un triennio). Con riguardo, invece, ai rapporti tra la pronuncia pregiudiziale e il sindacato domestico, il T.R.G.A. ha preso atto non solo dell’acclarato contrasto del contributo con il diritto unionale, bensì anche del fatto che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea aveva chiaramente sancito l’obbligo a carico delle autorità interne dello Stato membro di recuperare le somme indebitamente erogate, senza necessità di ulteriori provvedimenti da adottarsi da parte della Commissione. Infine, e qui veniamo all'aspetto forse più interessante della vicenda, il Tribunale non ha ritenuto applicabile nel caso di specie l’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, posto che, ai sensi dell’art. 17 del Regolamento UE n. 1589/2015, il recupero degli aiuti indebitamente erogati è obbligatorio e può avvenire entro il termine prescrizionale di dieci anni, con previsione prevalente e chiaramente atta ad escludere qualsivoglia ponderazione dell’interesse del destinatario dell’atto.
2. Le questioni di diritto affrontate dal Consiglio di Stato
In appello, la ricorrente censurava la pronuncia del T.R.G.A. affidandosi a quattro motivi principali: (i) insussistenza della qualifica di “impresa” e mancato raggiungimento della prova in relazione a tale requisito dell’attività agricola nell’ambito della quale era da realizzarsi l’investimento; (ii) erronea esclusione del regime de minimis, non essendo l'aiuto di cui trattasi diretto al sostentamento del settore agricolo; (iii) carenza di potere in capo alla Provincia nel disporre il recupero in assenza di una decisione della Commissione Europea ad hoc; (iv) erroneità nella postulata inapplicabilità dell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, laddove non sono stati rispettati il termine e le condizioni di autotutela previste nella disciplina interna[15].
Il Consiglio di Stato ha ritenuto infondati tutti i motivi.
In particolare, la pronuncia in commento ha affermato che la nozione di “impresa” ricorre anche per attività agricole o economicamente marginali, in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che afferma come sia sufficiente l'esercizio anche di una sola attività economica per qualificare in tali termini un soggetto giuridico, a prescindere dalle questioni nominali o di status[16] del diritto interno[17]. Di converso, l’applicabilità del regime de minimis andrebbe esclusa in quanto l’aiuto di cui trattasi comunque eccedeva i limiti di importo previsti per il settore agricolo, nel quale la ricorrente risultava operare sulla base delle evidenze emerse processualmente[18] ed alla luce della relativa qualifica come impresa. Ancora, il recupero di un aiuto di Stato “illegale”, a dire dei giudici di Palazzo Spada, ben potrebbe essere disposto dalle autorità nazionali anche in assenza di una formale decisione della Commissione. Anzitutto, tale conclusione si giustificherebbe dal momento che un tale onere è direttamente prescritto dalla sentenza della Corte di Giustizia intervenuta nel caso de quo – che peraltro ha acquisito efficacia di giudicato interno per le parti. Ben vero, infatti, che il Regolamento UE n. 1589/2015 prevede uno specifico procedimento per il recupero degli aiuti di Stato indebitamente versati; nondimeno, l’art. 108, comma 3, TFUE, laddove stabilisce il divieto di dare esecuzione agli aiuti di Stato illegalmente concessi, ha efficacia diretta e, secondo la giurisprudenza sovranazionale[19], impone in via autonoma agli Stati membri di attivarsi per evitare il perpetrarsi della violazione della disciplina europea. Alla luce di tale interpretazione, risulterebbe quindi sistematicamente coerente escludere la necessità di notificare alla Commissione Europea l'intenzione di voler recuperare l'aiuto illegittimamente concesso onde verificarne la compatibilità con il mercato interno. Una tale eventualità non è infatti prevista dai regolamenti, i quali prescrivono invece l'obbligo di notifica soltanto laddove una autorità nazionale voglia istituire un aiuto, al fine di valutarne la compatibilità con il mercato concorrenziale. Infine, il Consiglio di Stato non ha ritenuto applicabile al caso di specie la disciplina della legge fondamentale sul procedimento amministrativo in materia di autotutela e, nello specifico, l’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Tale norma infatti attiene a procedimenti discrezionali, mentre nel caso di recupero di un aiuto di Stato illegale il provvedimento sarebbe sostanzialmente vincolato. In questo caso si è quindi fatto riferimento al concetto di “autonomia procedurale funzionalizzata”[20] per affermare come la disciplina del procedimento amministrativo dello Stato membro è vincolata al raggiungimento del risultato utile stabilito dal diritto unionale. Pertanto, nella materia de qua ci si troverebbe innanzi a una peculiare forma di autotutela, non già disciplinata dalla legge fondamentale sul procedimento amministrativo, bensì plasmata sul diritto europeo e la relativa giurisprudenza.
3. L’autotutela doverosa
La questione giuridica di maggiore interesse intorno alla quale ruota la sentenza all'attenzione afferisce, in buona sostanza, alla possibilità di individuare all'interno dell'ordinamento (sovra)nazionale delle ipotesi di autotutela doverosa e vincolata[21].
Come noto, il potere di autotutela decisoria[22] costituisce tipica espressione della funzione amministrativa propria, ancorché la dottrina si sia variamente interrogata sul relativo fondamento teorico, a volte giungendo a ritenere che essa si basi sullo stesso potere originariamente esercitato[23], altre sostenendo costituisca autonomo potere di risoluzione di conflitti attuali o potenziali con il cittadino[24]. Uno dei tratti che si delinea tuttavia in maniera sostanzialmente condivisa, è stato il progressivo emergere della necessità di tutela della posizione giuridica soggettiva del cittadino inciso dal provvedimento di secondo grado, da realizzarsi attraverso la ricerca di un corretto punto di equilibrio tra interesse pubblico e interesse privato cui è chiamata la motivazione del provvedimento di autotutela[25]. Proprio per questo, si è autorevolmente sostenuto[26] che le modifiche intervenute alla l. n. 241/1990 avrebbero nel tempo sempre più configurato l’autotutela come una forma eccezionale di espressione del potere amministrativo, attivabile solo alle precise e puntuali condizioni previste dalle disposizioni che la regolano, anziché manifestazione di una generale potestà attribuita ai pubblici poteri[27]. Di ciò sarebbe appunto prova proprio la previsione di un termine massimo ad opera dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990[28].
Calando queste riflessioni al caso concreto, non può che apparire una singolarità l'individuazione pretoria di un'ipotesi di autotutela obbligatoria derivante da -e motivata sulla base di- un provvedimento unionale di accertamento dell'illegalità di un aiuto erogato a favore dell'impresa. In questo caso si ravvede infatti come la motivazione di prevalenza dell'interesse pubblico rispetto alla posizione di affidamento maturata dal cittadino si esaurisce con il mero accertamento dell'illegalità dell'aiuto stesso. L’impostazione assunta a livello sovranazionale non consente alcuna graduabilità degli effetti di recupero di quanto indebitamente versato, sulla scorta di una prevalenza in re ipsa della necessità di non alterare i mercati attraverso la circolazione di capitale che invece non doveva garantire un vantaggio al beneficiario[29]. E questo, a prescindere dalla posizione di affidamento incolpevole in ordine alla legittimità del provvedimento nella quale possa versare quest’ultimo[30]. Così, dunque, si emerge un movimento uguale e contrario[31] rispetto a quello che è andato consolidandosi nel diritto interno, volto invece a consentire il progressivo consolidamento[32] della posizione giuridica del cittadino susseguente all’esprimersi per atti formali del potere[33].
La giurisprudenza europea, in particolare, rescinde allora da principio la caratteristica tipica dell’autotutela, allorquando chiarisce che, in materia di recupero degli aiuti di Stato, le amministrazioni domestiche degli Stati membri non vedono garantita alcuna discrezionalità reale[34]. E, pur affermandosi l’esigenza di garantire la certezza del diritto, si finisce con il ritenere prevalente l’esigenza di tutelare il diritto unionale e, con esso, il principio di concorrenzialità nel mercato interno[35], rispetto al diritto degli Stati membri (ove, come nel caso italiano, il cittadino destinatario di un provvedimento favorevole è espressamente protetto dal decorrere del tempo). Così, la tutela del legittimo affidamento e l’intangibilità del giudicato cedono il passo innanzi alla -postulata- superiore esigenza di garantire la leale collaborazione[36] e il mercato concorrenziale[37].
Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è, allora, proprio quello della tutela dell’affidamento in caso di -imposta- ripetizione di aiuti pubblici illegittimamente erogati. Se, infatti, il legittimo affidamento affonda le radici proprio nella giurisprudenza europea[38], in materia di aiuti di Stato la Corte di Giustizia afferma invece che il privato non vede generalmente consolidarsi la propria aspettativa con il decorrere del tempo. Infatti, sulla base di un orientamento piuttosto costante[39], la giurisprudenza afferma che il principio del legittimo affidamento non trovi applicazione diretta nella materia poiché si ritiene che ogni operatore mediamente diligente sia, in buona sostanza, in grado di essere a conoscenza della illegittimità dell'aiuto in riferimento alla disciplina dell’Unione Europea[40]. Anche a livello interno tali decisioni hanno il proprio contrappunto, emergendo in sentenze nei fatti disapplicano norme, provvedimenti o contratti sulla base dei quali l’erogazione del contributo è stata disposta[41], financo adombrando la cedevolezza il giudicato rispetto alla necessità di recupero[42].
Questa impostazione ha una radice sistematica precisa: ove sussista un interesse pubblico inderogabile[43] al ripristino della legalità europea violata, il legittimo affidamento perde consistenza[44], venendo di fatto in considerazione solo in circostanze eccezionali e tassativamente determinate[45].
4. Segue. L’esaurimento -istantaneo- della discrezionalità
Se da un lato, quindi, la giurisprudenza eurounitaria appare piuttosto chiara nell’affermare l’obbligo di “ritornare sulla decisione”[46], di converso ed in linea altrettanto generale, viene pur sempre lasciata la possibilità di ponderazione discrezionale in capo all’amministrazione circa il provvedimento che concretamente deve essere adottato.
Eppure, non pare trattarsi della discrezionalità tipica dei procedimenti amministrativi di secondo grado, ma di un perimetro decisionale ben più limitato[47]. Si dovrebbe dire, infatti, che esso riguarda il mero riscontro dei presupposti indicati dai referenti sovranazionali per determinare l’“illegalità” dell’aiuto di Stato; si tratta di un apprezzamento eminentemente tecnico, del tutto vincolato nei propri parametri e, dunque, nei risultati, e che, di fatto, elide qualsiasi possibilità di ponderazione degli interessi sottesi e coinvolti[48]. E questo poiché una tale ponderazione è stata, come detto, operata a monte: l’aiuto che confligga con il diritto europeo si pone in contrasto con il principio dell’effetto utile e, pertanto, la tutela del privato e la certezza del suo diritto divengono sistematicamente interessi recessivi[49].
La conclusione cui si giunge, pertanto, in tema di aiuti di Stato illegalmente concessi è uguale e contraria a quella che dovrebbe maturare applicando i referenti generali del diritto unionale quanto ai provvedimenti di secondo grado. Come visto, infatti, il principio di legittimo affidamento quale limite alla possibilità degli Stati membri di rivedere i propri provvedimenti -ancorché illegittimi- in danno delle legittime aspettative maturate dal destinatario deriva proprio dalla giurisprudenza sovranazionale [50]. Si tratta, peraltro, di norma regolatrice dei procedimenti amministrativi nell’ordinamento italiano, laddove, come noto, l’art. 1, comma 1, l.n. 241/1990, afferma che il diritto amministrativo interno è conformato proprio ai principi dell’ordinamento comunitario[51]. Ma, allora, appare ineludibile la conclusione per cui i principi generali dell’ordinamento unionale così generali non sono, finendo invece con l’essere interpretati ed applicati a geometria variabile[52] con pregiudizio intrinseco alla certezza generale del diritto[53].
5. Autonomia procedurale e revisione del provvedimento affetto da illegittimità secondo il diritto europeo
Le pronunce che affermano l’obbligo di “rivedere” i provvedimenti affetti da illegittimità secondo il diritto europeo, oltre a fare salva -come visto in linea meramente apparente[54]- la discrezionalità dell’autorità procedente, riconoscono e garantiscono altresì l’autonomia procedurale dello Stato membro[55]. Ossia, affermano l’autonomia del procedimento interno (e delle relative regole) come strumento attraverso il quale attuare il diritto europeo, garantendone l’effetto utile in via sussidiaria[56].
Su tali basi, dunque, dovrebbe andare a ricercarsi quale sia il procedimento applicabile a livello interno al fine di realizzare il recupero delle somme indebitamente erogate. E, trattandosi dell’annullamento parziale di un provvedimento illegittimo[57], il riferimento sembrerebbe correre giocoforza all’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Eppure, come si è visto, la sentenza in commento afferma l’atto di recupero sarebbe in realtà un provvedimento di autotutela vincolata, che viepiù non va soggetto al rispetto del termine generalizzato di dodici mesi entro i quali la P.A. deve intervenire su atti che concedono vantaggi economici al cittadino[58]. Di qui, per conseguenza, la ritenuta inapplicabilità del predetto art. 21-nonies, che in realtà non regola, a dire del Consiglio di Stato, questa tipologia di provvedimenti.
La sentenza in commento, tuttavia, non specifica in esito al proprio argomentare quale dovrebbe essere la disposizione di diritto positivo che effettivamente realizza il procedimento di “recupero in autotutela” degli aiuti di Stato illegittimamente erogati da parte della pubblica amministrazione: da un lato -quanto agli esiti- esso interviene come fa tipicamente un procedimento di secondo grado, avendo ad oggetto un precedente provvedimento ed i relativi effetti materiali e giuridici; dall’altro però non si trova applicate le regole tipiche dell’autotutela decisoria. Il grimaldello attraverso il quale introdurre queste regole procedurali sui generis pare, allora, essere costituito proprio dall’art. 1, comma 1, della legge fondamentale sul procedimento amministrativo, laddove, come detto, afferma che il procedimento amministrativo è retto (e regolato) anche dai principi dell’ordinamento comunitario. È così che questi principi possono avere ingresso diretto e regolare l’azione della P.A. a livello domestico; se tale ermeneusi giustifica de iure le regole procedurali che si sono adombrate, resta però il fatto che il procedimento di “autotutela recuperatoria” permane di incerta disciplina e natura, non essendo espresso se non per il tramite della lettura delle pronunce della Corte di Giustizia (le quali, come visto, affermano però circolarmente l’autonomia procedurale dello Stato membro).
Ciò che sembra emergere dalla distorsione che la necessità di recupero dell’aiuto illegittimo genera sul procedimento di autotutela interno, in altre parole, è l’esistenza di un disallineamento, ove procedura (di recupero) e sostanza (degli interessi contrapposti che necessitano bilanciamento) operano su livelli qualitativamente diversi. Ad essere prevalente, infatti, è la procedura per come disegnata dalla giurisprudenza sovranazionale, anche a discapito della norma interna dello Stato membro[59] posta a tutela di interessi del cittadino, peraltro garantiti proprio in derivazione dei principi tratti dalla giurisprudenza unionale[60]. È pertanto in questi termini che opera la c.d. “autonomia procedurale funzionalizzata”, ove di autonomia reale non può parlarsi se non per aspetti meramente formali di procedimento.
6. Possibili conseguenze sulle aspettative di partecipazione al procedimento
Le conclusioni ora rappresentate sono suscettibili di riverberare inevitabilmente sullo statuto giuridico del cittadino che, inizialmente destinatario del contributo, si vede soggetto alla potestà riduttiva e di recupero della P.A.
Anzitutto, occorre annotare che, tendenzialmente, la giurisprudenza afferma la legittimità della compressione della partecipazione in caso di procedimenti vincolati. Copiosa casistica vede, infatti, affermata la natura non viziante della omissione di comunicazione ex art. 7, l. n. 241/1990 sulla giustificazione -forse più formale che sostanziale- della impossibilità per il destinatario di rendere un contributo utile alla definizione del procedimento stesso[61].
Nondimeno, come altresì notato dai giudici, la funzione partecipativa nell’emersione degli interessi[62] rilevanti non è sostituibile o suscettibile di elisione ex ante in via generalizzata. È questo, tuttavia, il risultato pratico che si raggiunge con l’applicazione dal combinato disposto della giurisprudenza eurounitaria e domestica. Se la discrezionalità amministrativa è assorbita -quanto a ponderazione degli interessi- nella mera qualificazione come “illegale” del contributo e, al contempo, la residua autonomia procedurale viene funzionalizzata, trattiamo di un procedimento che, nella sostanza, è vincolato. Dunque, nel suo alveo alcun apporto del destinatario può risultare in una variazione possibile degli esiti decisionali. Proprio in ragione di ciò, allora, forte è il rischio che, nel seguire la linea esegetica delineata, si arrivi a giustificare approdi fortemente limitativi della partecipazione, riducendo il contraddittorio a mero formalismo. O, quantomeno, ad un dialogo muto che non può essere del tutto recuperato in sede giudiziaria[63].
7. Riflessioni conclusive
Volendo trarre alcune considerazioni conclusive, certamente si può dire che il diritto e la giurisprudenza unionali in materia di recupero degli aiuti di Stato agiscono in maniera dirompente nella disciplina interna sull’autotutela decisoria. Gli assi cartesiani sui quali si muove l’esercizio dei poteri di secondo grado vengono rimodellati dalle proprie fondamenta, non consentendo discrezionalità nell’attivazione del procedimento e, in definitiva, nemmeno con riguardo al relativo contenuto: l’apparente rispetto della disciplina procedurale dello Stato membro, infatti, cede il passo di fronte all’accertamento puntuale della natura illecita del contributo concesso in favore dell’impresa che è operato a livello unionale.
L’impressione, allora, è che non solo non si possa parlare di un procedimento di autotutela in senso proprio, ma che probabilmente i poteri di secondo grado non dovrebbero essere richiamati tout court. La categoria concettuale, infatti, non risulta utile a inferire una disciplina particolare del procedimento amministrativo conseguente all’intervenuto accertamento da parte degli organi sovranazionali dell’obbligo di operare il recupero delle somme. La stessa pronuncia in commento, infatti, pur negando l’applicabilità dell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, non indica quale sia la norma specifica da invocarsi, prendendo a riferimento diretto la sentenza della Corte di Giustizia[64]. Forse, allora, sarebbe preferibile che fosse direttamente il legislatore a fare chiarezza, introducendo, come fatto ad esempio in diversa casistica nel diritto tributario[65], un procedimento di autotutela obbligatoria ad hoc[66]. In questo modo si avrebbe chiarezza sul rapporto tra decisione degli organi di Bruxelles o dei giudici di Lussemburgo e azione delle amministrazioni domestiche, garantendo l’effettivo dispiegarsi di tutele procedimentali minime che debbono comunque esistere a prescindere dalla natura sostanziale della pretesa azionata dai pubblici poteri. E questo poiché la necessità di tutelare l’equità del mercato concorrenziale non può dirsi in senso assoluto sempre prevalente rispetto all’interesse del cittadino[67] o della collettività dello Stato membro.
[1] Tale limite, per vero, era dovuto alla modifica, operata a valere dal 1° luglio 2014, al Regolamento UE 651/2014 del 17 giugno 2014 (c.d. “Regolamento generale di esenzione”). Tale regolamento, infatti, prevede i criteri limite di contribuzione alle piccole imprese. Il superamento di questi ultimi ad opera di uno Stato membro diviene, in linea teorica, automaticamente qualificabile come aiuto di Stato, salva autorizzazione della Commissione europea ai sensi degli art. 107 e 108 TFUE, cfr. la comunicazione della Commissione Europea 2014/C - 348/01, nonché, in dottrina, A. Cerri, Gli aiuti di Stato nel quadro degli interventi pubblici in economia, in G. Luchena – S. Prisco (a cura di), Aiuti di Stato fra diritto e mercato, Roma, 2006, L. Rubini, The Definition of Subsidy and State Aid: WTO and EC Law in Comparative Perspective, Oxford, 2009, J.J.P. Lopez, The Concept of State Aid Under EU Law: from internal market to competition and beyond, Oxford, 2015, M. Boccaccio, Dal controllo ex ante al controllo ex post: la rivoluzione della modernizzazione degli aiuti di Stato, in Public Finance Research Papers, XXII, 2016, A. Quattrocchi, Gli aiuti di Stato nel diritto tributario, Milano, 2020
[2] Che interviene su quelli che vengono definiti “aiuti di Stato orizzontali” dal regolamento (CE) n. 994/98 del Consiglio del 7 maggio 1998, sull'applicazione degli articoli 92 e 93 del trattato che istituisce la Comunità europea.
[3] Trattandosi, a quel punto, di un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107, paragrafo 1, TFUE, non consentito.
[4] Il rinvio è stato operato ai sensi dell’art. 267 TFUE. Sull’argomento, ex multis, cfr. G. Vitale, La logica del rinvio pregiudiziale tra obbligo di rinvio per i giudici di ultima istanza e responsabilità, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, I, 2013, pag. 59 e ss., G.L. Barreca, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea e l’obbligo di rinvio del giudice nazionale di ultima istanza, in giustizia-amministrativa.it, F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020, M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 30 novembre 2020, F. Ferraro – C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, F. Ferraro, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, in questa Rivista, 23 ottobre 2021, M. Lipari, L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla CGUE, dopo la sentenza 6 ottobre 2021, c-561/2019: i criteri cilfit e le preclusioni processuali, in Giustamm.it, XII, 2021, C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale nell’architettura giurisdizionale dell’Unione europea, in Diritto dell’Unione Europea, III, 2022, pag. 32 e ss., R. Conti, La proposta di modifica dello Statuto della Corte di giustizia UE in tema di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, in questa Rivista, 8 luglio 2023.
[5] E, in particolare, in relazione alla precedente decisione della Commissione del 25 luglio 2012 ove si prevedeva come accennato una intensità contributiva dell’80%.
[6] Giusta sentenza della IX sezione, 7 aprile 2022, nelle cause riunite C-102/21 e C-103/21.
[7] Ossia, il 65% delle spese ammissibili, ai sensi del già citato regolamento UE n. 651/2014.
[8] Ai sensi dell’art. 1, lett. f), del Regolamento UE 2015/1589.
[9] Come noto l’applicabilità diretta del diritto unionale è affermata dalla giurisprudenza a partire dalla sentenza 5 febbraio 1963, NV Algemene Transport en Expeditie Onderneming van Gend & Loos c. Amministrazione olandese delle imposte, causa C-26/62. Vedasi anche, senza pretesa di esaustività, J. Bengoetxea, Direct Applicability or Effect, in M. Hoskins – W. Robinson (a cura di), A True European. Essays for Judge David Edward, Oxford, 2004, pag. 353 e ss., A. Ruggeri, Per un adattamento automatico dell’ordinamento interno ai trattati “eurounitari”, in Rivista AIC, II, 2014, V. Onida, A cinquant’anni dalla sentenza Costa-Enel: riflettendo sui rapporti fra ordinamento interno e ordinamento comunitario alla luce della giurisprudenza, in B. Nascimbene (a cura di), Costa/Enel: Corte costituzionale e Corte di giustizia a confronto, cinquant’anni dopo, Milano, 2015, pag. 29 e ss., M. Distefano (a cura di), L’effetto diretto delle fonti dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, Napoli, 2017, D. Gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione Europea negli ordinamenti nazionali. Evoluzione di una dottrina ancora controversa, Milano, 2018.
[10] La disposizione, in estrema sintesi, prevede il divieto di messa in esecuzione di erogazioni che costituiscono aiuti di Stato senza la preventiva autorizzazione della Commissione europea.
[11] Sulla scorta della sentenza della stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 5 marzo 2019, Eesti Pagar, C‑349/17.
[12] In relazione a tale profilo, infatti, la Corte di Giustizia ricorda che il giudice nazionale non ha competenza a stabilire l’incidenza o meno dell’aiuto rispetto al mercato concorrenziale al fine di escluderne la rilevanza, posto che tale apprezzamento risulta riservato in via esclusiva alla cognizione della Commissione europea. Cfr. sentenza 26 ottobre 2016, DEI e Commissione c. Alouminion tis Ellados, C‑590/14.
[13] Ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. z-sexies c.p.a.
[14] Peraltro, essendo quest’ultima un soggetto preposto all’esercizio di un’attività economica, tale requisito risulta necessario e sufficiente, ai sensi del diritto unionale, per qualificarlo come impresa. Cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenze 11 dicembre 2007, causa C‑280/06, ETI e a., 11 luglio 2006, causa C‑205/03 P, FENIN c. Commissione, sino a risalire a 12 settembre 2000, cause riunite da C‑180/98 a C‑184/98, Pavlov e a. in specie punto 74, nonché 23 aprile 1991, causa C‑41/90, Höfner e Elser, specie punto 21. In ordine alla qualificazione in termini di economicità vige anzitutto il principio di scorporabilità delle singole attività di impresa, cfr. L. Idot, La notion d'entreprise, in Revue des Sociétés, II, 2001, pag. 191 e ss., nonché, del medesimo Autore, Retour sur la notion d’entreprise, in Europe, n. 68, febbraio 2007, pag. 25 e ss.
[15] In relazione a quest'ultimo profilo, in particolare, l'appellante sosteneva non sussistesse alcuna norma di diritto interno che potesse giustificare l'esercizio del potere di autotutela fuori termine prima che nella vicenda de qua intervenisse la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. In questi termini, si affermava l’intervento di una sorta di disapplicazione implicita della norma della legge fondamentale sul procedimento amministrativo. Cfr. M. D’Angelosante, La disapplicazione degli atti amministrativi tra potere e prassi, Napoli, 2022, oltre a La disapplicazione degli atti amministrativi come possibile esito della risoluzione dei conflitti fra precetti autoritativi, in PA Persona e amministrazione, I, 2023, pag. 291 e ss.
[16] Il riferimento alla nozione di impresa va operato anzitutto con riguardo ai chiarimenti resi con la Comunicazione della Commissione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all'articolo 107, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell'Unione europea (2016/C 262/01). In giurisprudenza, ex multis, si segnala poi la sentenza del Tribunale di primo grado dell’Unione Europea, sez. VIII, 24 marzo 2011, causa T386/06, ove si richiamano le sentenze della Corte 7 gennaio 2004, cause riunite C‑204/00 P, C‑205/00 P, C‑211/00 P, C‑213/00 P, C‑217/00 P e C‑219/00 P,Aalborg Portland e a. c. Commissione, il cui punto 59, chiarisce “che la nozione di impresa abbraccia qualsiasi soggetto che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico del soggetto stesso e dalle sue modalità di finanziamento (sentenze della Corte 28 giugno 2005, cause riunite C‑189/02 P, C‑202/02 P, da C‑205/02 P a C‑208/02 P e C‑213/02 P, Dansk Rørindustri e a./Commissione, Racc. pag. I‑5425, punto 112; 10 gennaio 2006, causa C‑222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., Racc. pag. I‑289, punto 107, nonché 11 luglio 2006, causa C‑205/03 P, FENIN/Commissione, Racc. pag. I‑6295, punto 25)” (pt. 47, cit.). Vedasi, G. Greco, Imprese pubbliche, organismi di diritto pubblico, affidamenti «in house»: ampliamento o limitazione della concorrenza?, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, I, 2005, pag. 61 e ss., nonché, eppur in altra materia, si rinvia ai riferimenti operati da D. Gallo, L'economicità alla luce della giurisprudenza UE e della prassi della Commissione sui servizi socio-sanitari, in Diritto dell’Unione Europea, II, 2019, pag. 287 e ss.
[17] A riprova di tale requisito, peraltro, il giudice allegava come il provvedimento impugnato in uno con le dichiarazioni rese in giudizio, fossero sufficienti a rendere non necessario l'effettivo deposito dell’autocertificazione acquisita ad hoc nel corso del procedimento. In sostanza, quindi, il Consiglio di Stato ha ritenuto sufficienti gli elementi indiziari ricavabili dalla documentazione prodotta in giudizio. Il procedimento presuntivo, nondimeno, deve essere caratterizzato da un particolare rigore istruttorio, come chiarito, seppur in diversa materia, da Consiglio di Stato, sez. VI, 15 febbraio 2023, n. 1597.
[18] Peraltro, in relazione a tale profilo, il Consiglio di Stato esclude anche la necessità di applicazione dell’art. 29 del Regolamento UE n. 1589/2015 che consente al giudice nazionale l'invio di una richiesta di informazioni alla Commissione Europea in relazione al perimetro applicativo delle relative norme in materia di aiuti di Stato. In questo caso, infatti, si è ritenuto che la vicenda fosse sufficientemente chiara da non rendere necessario alcun ulteriore incombente istruttorio.
[19] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 5 marzo 2019, causa C-349/17, Eesti Pagar, peraltro estesamente richiamata dalla stessa Corte nel decidere la questione pregiudiziale oggetto di remissione ad opera del T.R.G.A.
[20] A fronte della necessità di recuperare un aiuto di Stato illegalmente elargito, infatti, nemmeno il giudicato è un limite all'azione amministrativa di recupero, cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 20 marzo 1997, C-24/1995.
[21] Così intendendosi la circostanza per cui l’esercizio del potere di autotutela è obbligatorio, non sussistendo discrezionalità nell'an, ma anche vincolato nelle modalità di espletamento, non essendo nella disponibilità dell'amministrazione procedente nemmeno il quomodo o il quando. Questi, in sintesi, sono infatti gli elementi sui quali ricade l’appannaggio amministrativo in termini di discrezionalità, come già rilevato da M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939. Vedasi pure, senza pretesa di esaustività, F. Volpe, Norme di relazione e norme d’ azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Milano, 2004, B.G. Mattarella, Discrezionalità amministrativa, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, L.R. Perfetti, Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine giuridico della società, in Diritto amministrativo, III, 2013, pag. 309 e ss.
[22] L’espressione distingue il potere di intervento in secondo grado sui provvedimenti amministrativi dalla cosiddetta autotutela esecutiva, che riguarda invece, essenzialmente, il potere di tutelare in via diretta i beni dell’amministrazione (senza necessità di adire ad organi giudiziari per ottenere ad esempio provvedimenti d’ordine). Cfr. F. Benvenuti, voce Autotutela (diritto amministrativo), in Enciclopedia del diritto, IV, Milano, 1959, pag. 537 e ss., F. Saitta, Contributo allo studio dell’attività amministrativa di esecuzione. La struttura procedimentale, Napoli, 1995, ex multis.
[23] G. Corso, Autotutela (diritto amministrativo), in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, pag. 609 e ss.
[24] Cfr. M.A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2016, pag. 125 e ss., F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, VIII, 2017, oltre a, M. Allena, L’annullamento d'ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018 Ancora, F. Benvenuti, op. cit. sostiene in particolare che il potere amministrativo di risoluzione del conflitto si caratterizzerebbe come una potestà di ordine generale appannaggio della pubblica amministrazione.
[25] Ma che, più in generale, si converte nell'obbligo della pubblica amministrazione di garantire una partecipazione piena ed effettiva del destinatario del provvedimento di secondo grado all'interno del procedimento, così da rendergli possibile la piena rappresentazione della propria situazione giuridica dando la stessa consistenza con riferimento alla manifestazione di un interesse uguale a contrario a quello dell'amministrazione precedente. In tali termini, pertanto, l'interesse della legalità in senso stretto recede di fronte alla necessità di tutelare l'affidamento del destinatario del provvedimento. Così F. Francario, Riesercizio, op. cit. Vedasi pure B.G. Mattarella, Autotutela e principio di legalità, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, VI, 2007, pag. 1223 e ss. In giurisprudenza, ex multis, il riferimento corre a Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 17 ottobre 2017, n. 8.
[26] M.A. Sandulli, Autotutela, op. cit.
[27] Non è quindi paradossale affermare come vi sia un movimento uguale e contrario, che allontana l'autotutela dal mero rispetto della legalità formale, richiedendo all'amministrazione di motivare l'esistenza di un interesse pubblico prevalente rispetto alla necessità di tutela del privato, mentre dall'altro si riscontra un rafforzamento della legalità sostanziale che emerge proprio dal negare la natura di potere implicito dell'autotutela medesima.
[28] Sebbene la previsione di un termine generalizzato e valevole per tutti i tipi di provvedimenti amministrativi sia stato oggetto di critica in dottrina, cfr. M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, XVII, 2015.
[29] Sulla necessità, invece opposta, di sicurezza nella circolazione delle situazioni giuridiche soggettive vedasi M. Trimarchi, Stabilità del provvedimento e certezze dei mercati, in Diritto amministrativo, III, 2016, pag. 321 e ss.
[30] Laddove, invece, la giurisprudenza sovranazionale, da tempo, rileva la necessità di valorizzare l’incolpevole affidamento del cittadino al fine di escludere la possibilità di intervento in autoannullamento da parte della pubblica amministrazione (peraltro, concretamente apprezzando la conoscenza professionale di quest’ultimo per stabilire se la relativa ignoranza fosse davvero incolpevole, cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sez. VI, 20 giugno 1991, C-365/89, Cargill).
[31] Paradossalmente, per certi versi, si tratta di conclusioni pure marginalmente in contrasto con quella che è la tendenza interna allo stesso diritto dell’Unione Europea, che in genere mal tollera l’esercizio di poteri di secondo grado sui provvedimenti delle autorità unionali. Come sottolineato da B.G. Mattarella, op. cit., “in materia di autotutela il diritto europeo è più restrittivo di quello italiano: ammette il ritiro per ragioni di legittimità, ma non ‒di regola ‒per ragioni di opportunità”, 1254, cit. L’Autore, peraltro, conclude ravvisando la tendenziale non revocabilità dei provvedimenti legittimi all’interno del quadro normativo dell’Unione.
[32] R. Caponigro, Il potere amministrativo di autotutela, in Federalismi.it, XXIII, 2017, sottolinea infatti come le progressive modifiche intervenute sulla legge fondamentale sul procedimento amministrativo ambivano a garantire una maggiore stabilità del rapporto cittadino-amministrazione.
[33] Movimento normativo ben evidenziato da M.A. Sandulli, Autotutela, in Libro dell’Anno del diritto 2016, Roma, 2017, pag. 177 e ss.
[34] Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 20 marzo 1997, C-24/95, Alcan, la cui giurisprudenza si è progressivamente consolidata, in particolare, in Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 5 marzo 2019, causa C-349/17, Eesti Pagar, già più volte citata.
[35] Corte di Giustizia delle Comunità Europee ,13 gennaio 2004, C-453/00, ove, pur affermando l’assenza di una obbligatorietà generalizzata di azione in autotutela per gli Stati membri in caso di provvedimento contrario al diritto comunitario, il giudice conclude affermando che la necessità di garantire la parità di trattamento dei cittadini, in uno con l’obbligo di leale collaborazione tra Stati membri e organi europei al fine di garantire l’effetto diretto della disciplina sovranazionale, portano a ritenere di converso obbligatorio e vincolato il recupero degli aiuti di Stato illegittimi.
[36] Sulla quale F. Casolari, Leale cooperazione tra Stati membri e Unione europea, Napoli, 2020.
[37] In questi termini P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, XIV, 2020, pag. 235 e ss., in particolare pag. 254, cit., e giurisprudenza ivi citata, tra la quale, in particolare, l’Autore fa riferimento all’antitesi creata da sentenze della Corte di giustizia quali la 19 settembre 2006 in cause riunite C-392/04 e C-442/04, Arcor, ove si afferma che la certezza del diritto impone il divieto di mettere in discussione all’infinito i provvedimenti amministrativi, rispetto alle pronunce che, invece, elidono l’efficacia stabilizzante del giudicato. Cfr. anche sulla quale, cfr. N. Pignatelli, Illegittimità “comunitaria” dell’atto amministrativo, in Giurisprudenza costituzionale, IV, 2008, pag. 3635 e ss.
[38] A partire dalla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 3 maggio 1978, causa C-112/77, Töpfer c. Commissione. Vedansi anche, più recentemente, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 17 aprile 1997, C-90/95, oltre a 13 febbraio 2019, C-434/17, 3 giugno 2021, C-39/20 e 21 dicembre 2021, C-428/20. Cfr. O. Porchia, Il procedimento di controllo degli aiuti pubblici alle imprese fra ordinamento comunitario e ordinamento interno, Napoli, 2001, A. Damato, Revoca di decisione illegittima e legittimo affidamento nel diritto comunitario, in Il diritto dell’Unione Europea, I, 1999, 299 ss., G. Luchena, Diritti degli operatori economici e aiuti di Stato alle imprese, in Rivista giuridica del mezzogiorno, IV, 2004, pag. 1035 e ss., G. Vitale, Riflessioni tra il legittimo affidamento e gli altri principi generali dell’ordinamento dell’Unione Europea, in Studi sull' integrazione europea, III, 2013, 569 e ss., C.E. Baldi, La disciplina degli aiuti di Stato, Ravenna, 2017, E. Chiti, L’evoluzione del sistema amministrativo europeo, in Giornale di diritto amministrativo, VI, 2019, pag. 684 e ss., F. Fraioli, Il recupero degli aiuti di Stato, in Rivista della Corte dei conti, I, 2023, pag. 74 e ss.
[39] Vedasi ex multis, ancora, Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 20 marzo 1997, C-24/95. Il riferimento, inoltre, corre alla Comunicazione della Commissione sul recupero degli aiuti di Stato illegali e incompatibili (2019/C 247/01) ed ai riferimenti ivi operati. In dottrina si veda L. Hancher – T. Ottervanger – P.J. Slot (a cura di) EU State aids, Londra, 2012, K. Bacon, European Union Law of State Aid, Oxford, 2013.
[40] E, infatti, Corte di Cassazione, sez. I, 19 febbraio 2019, n. 4860, ha affermato che può postularsi un legittimo affidamento solo ove il procedimento di erogazione dell’aiuto sia stato regolare, essendo ogni operatore economico in grado di verificare il rispetto delle previsioni di diritto unionale. Per un inquadramento critico in tema di riparto di giurisdizione, invece, si veda A. Travi, Annullamento del provvedimento favorevole e responsabilità dell’amministrazione, nota a Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 23 aprile 2011, nn. 6954, 6955, 6956, in Foro italiano, I, 2011, pag. 2387 e ss.
[41] Sul punto vedasi ex multis, Corte di Cassazione civile, sez. lavoro, ord. 22 novembre 2021, n. 35984. Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è poi quello della “alterazione” dei modelli di recupero fiscale con conseguente non applicazione del principio di legittimo affidamento. Ad esempio, la giurisprudenza ritiene legittimo l’accertamento frazionato plurimo e parziale, in luogo di quello unico e globale, qualora vi sia una progressione nella evidenza della illegittimità dell’aiuto. La Corte di Cassazione, sez. tributaria, 29 maggio 2024, n. 15006, ha affermato che “Il giudice nazionale, in relazione all’esigenza di ottemperare agli obblighi comunitari di neutralizzazione degli aiuti di stato, non contrastata dalla necessità di tutela della certezza del diritto o di un legittimo affidamento o ancora di impossibilità di esecuzione, deve disapplicare la disposizione di cui all’articolo 41-bis, Dpr n. 600/1973, che stabilisce il principio di unitarietà dell’accertamento fiscale, e pertanto deve ritenere la legittimità di un recupero anche frazionato dell’aiuto, purché l’amministrazione giunga all’obiettivo del rispetto della normativa di cui all’articolo 289 Tfue”. Per una analisi specifica del legittimo affidamento in ambito tributario, per tutti, si rinvia a E. della Valle, La “valorizzazione” dell’affidamento del contribuente, in Rivista di diritto tributario – supplemento online, 16 aprile 2024, e riferimenti ivi operati. In giurisprudenza, vedasi anche T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, sez. III, 7 settembre 2017, n. 9624 e Consiglio di Stato, sez. V, 15 luglio 2019, n. 4962.
[42] Su tale profilo vedasi Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 18 luglio 2007, C-119/05 Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato c. Lucchini s.p.a. ove si è ritenuto ammissibile il recupero delle somme anche successivamente all’intervento del giudicato. Cfr. R. Caranta, Vintage 2018: gli aiuti di Stato protagonisti davanti al giudice amministrativo, in Rivista della regolazione dei mercati, I, 2019, pag. 72 e ss.
[43] J. Temple Lang, Legal certainty and legitimate expectations as general principles of law, in U. Bernitz –J. Nergelius (a cura di), General principles of EC law, l’Aia, 1999, in specie pag. 170 e ss.
[44] Seppure con alcune precisazioni e distinguo di rilievo. Ad esempio, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Trib., 22 aprile 2016, T-50/06, ha affermato che “Uno Stato membro le cui autorità abbiano concesso un aiuto in violazione delle norme procedurali … può invocare il legittimo affidamento dell’impresa beneficiaria per contestare dinanzi al giudice dell’Unione la validità di una decisione della Commissione con cui gli sia stato intimato di recuperare l’aiuto, ma non per sottrarsi all’obbligo di adottare i provvedimenti necessari ai fini della sua esecuzione. Tuttavia, … il ritardo della Commissione nel decidere che un aiuto è illegittimo e che deve essere eliminato e recuperato da uno Stato membro può giustificare, in determinate circostanze, nei beneficiari di detto aiuto un legittimo affidamento tale da impedire alla Commissione di intimare allo Stato membro di ordinare la restituzione di questo aiuto”.
[45] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Trib. 15 novembre 2018, Deutsche Telekom/Commissione, T-207/10. C.M. Colombo, State aid control in the modernisation era: Moving towards a differentiated administrative integration, in European law journal, XXV, 2019, pag. 292 e ss. Vedasi a livello di inquadramento generale C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della pubblica amministrazione, nota a Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 4 settembre 2015, in Diritto processuale amministrativo, II, 2016, pag. 564 e ss. e G.P. Cirillo, La giurisdizione sull’azione risarcitoria autonoma a tutela dell’affidamento sul provvedimento favorevole annullato e l’interesse alla stabilità dell’atto amministrativo, in Foro Amministrativo, VII-VIII, 2016, pag. 1990 e ss.
[46] Si usano ancora le parole della sentenza 13 gennaio 2004, C-453/00.
[47] G. Massari, L’atto amministrativo antieuropeo: verso una tutela possibile, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, III-IV, 2014, pag. 643 e ss., sostiene, infatti, che, presupposta la contrarietà al diritto europeo del provvedimento, in realtà la discrezionalità ne resterebbe del tutto azzerata. In termini F. Santomauro, Sulla disapplicazione del bando di gara antieuropeo, in AmbienteDiritto, II, 2024, la quale sostiene la necessità di una rivisitazione del sistema impugnatorio in maniera tale da garantire un regime specifico per i provvedimenti generali contrari al diritto UE. Cfr. anche G. Montedoro, Il regime processuale dell’atto nazionale antieuropeo. I poteri del giudice nel contenzioso implicante l’applicazione del diritto UE, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, VI, 2011, pag. 1393 e ss., così come pure, Il giudizio amministrativo fra annullamento e disapplicazione (ovvero dell'"insostenibile leggerezza" del processo impugnatorio), ibidem, II, 2008, pag. 519 e ss.
[48] Primo fra tutti, come detto, quello alla tutela del legittimo affidamento maturato dal beneficiario del contributo.
[49] Cfr. F. Gentili, Il principio comunitario di cooperazione nella giurisprudenza della Corte di giustizia C.E., in Il Consiglio di Stato, 2004, pag. 233 e ss. Vedasi anche C. Feliziani, Il provvedimento amministrativo nazionale in contrasto con il diritto europeo. Profili di natura sostanziale e processuale, Napoli 2023.
[50] Si tratta di un principio particolarmente risalente, tanto che già la sentenza Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 3 maggio 1978, C-112/77, Töpfer, ebbe ad affermare che “il principio della tutela dell’affidamento fa parte dell’ordinamento giuridico comunitario”. Cfr., ex multis, L. Lorello, La tutela del legittimo affidamento tra diritto interno e diritto comunitario, Torino, 1998, F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico, Milano, 2001, S. Antoniazzi, La tutela del legittimo affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione, Torino, 2005, D.U. Galetta, Autotutela decisoria e diritto comunitario, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, I, 2005, pag. 39 e ss., M. Renna – F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, S. Carlucci, La responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi pretensivi caratterizzati da un giustificato affidamento, in Responsabilità civile e previdenza, I, 2018, pag. 175 e ss., M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effetto utile, in Rivista interdisciplinare sul diritto delle amministrazioni pubbliche, I, 2020, pag. 154 e ss., N. Di Modugno, Annullamento d’ufficio, affidamento e termine di dodici mesi, in Diritto pubblico europeo – Rassegna online, I, 2024.
[51] E, inoltre, la Corte costituzionale ha nel tempo chiarito come quello di legittimo affidamento sia un principio oramai pienamente transitato nel diritto interno e che garantisce una tutela qualificata al cittadino nei confronti dell’esercizio del potere da parte della P.A. Cfr., in particolare, Corte costituzionale, 17 dicembre 1985, n. 349, 4 aprile 1990, n. 155, e 10 febbraio 1993, n. 39. In dottrina il riferimento corre a F.G. Scoca, Amministrazione pubblica e diritto amministrativo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Diritto amministrativo, I-II, 2012, pag. 21 e ss.
[52] In questi termini P. Otranto, op. cit.
[53] La dottrina, peraltro, ha avuto modo di contestare tale conclusione ritenendo che l’autotutela in caso di atti contrari al diritto unionale, per quanto obbligatoria, non si presenterebbe di contro come assolutamente vincolata: vedasi S. Valaguzza, La concretizzazione dell’interesse pubblico nella recente giurisprudenza amministrativa in tema di annullamento d’ufficio, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2004, pag. 1245 e ss., nonché D.U. Galetta, op. cit.
[54] Nei termini e con le conseguenze appena lumeggiate al paragrafo che precede.
[55] Così la già citata sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 18 luglio 2007, C-119/05, Lucchini.
[56] Autonomia, peraltro, ribadita anche dal giudice nazionale, ove il Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare con chiarezza che “anche l’applicazione del diritto europeo … deve sottostare alle regole del processo amministrativo”, peraltro ricordando che “la giurisprudenza nazionale ha ripetutamente affermato che l'applicazione del diritto comunitario debba comunque rispettare le norme processuali dello Stato membro poste a tutela del principio di certezza del diritto (cfr. Cons. Stato, sez. III, 4 febbraio 2015, n. 540; sez. V, 22 gennaio 2015, n. 272; sez. V, 23 ottobre 2013, n. 5131; sez. V, 7 novembre 2012, n. 5649; specificamente sul giudizio di revocazione: Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 2018, n. 2332; sez. V, 17 luglio 2014, n. 3806)” (così Consiglio di Stato, sez. IV, 9 luglio 2020, n. 4403). Si veda in punto C. Contessa, Primauté del diritto UE e autonomia processuale degli Stati membri, in Giurisprudenza italiana, VII-IX, 2020, pag. 1839 e ss., oltre a M. Mazzamuto, Le Sezioni Unite della Cassazione garanti del diritto UE?, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, V, 2020, pag. 675 e ss.
[57] Siccome l’aiuto, nel caso in esame, era stato erogato in eccedenza rispetto al limite fissato dai regolamenti. Evidentemente, in caso di illegittimità tout court della sovvenzione, l’annullamento dovrebbe operarsi in toto.
[58] Sul quale, per tutti, si rinvia a R. Caponigro, op. cit., oltre a S. Villamena, Legittimo affidamento e contratti pubblici. Osservazioni su serietà e pigrizia amministrativa, in Gazzetta Amministrativa, I, 2013, pag. 78 e ss., F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, XX, 2015.
[59] O, per meglio dire, della relativa -reale- autonomia procedurale.
[60] Si tratta, come detto, del legittimo affidamento: ancora P. Otranto, op. cit.
[61] Per tutte, si richiama Consiglio di Stato, sez. VI, 11 maggio 2022, n. 3707, che ricorda a sua volta “il consolidato orientamento della giurisprudenza secondo il quale l'attività di repressione degli abusi edilizi attraverso l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati (Consiglio di Stato, sez. VI, 13/01/2022, n.233; id., 19/08/2021, n. 5943; id., 30/11/2020, n. 7525), nella misura in cui la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare un esito differente”. In dottrina cfr. F. Saitta, Nuove riflessioni sul trattamento processuale dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento: gli artt. 8, ultimo comma, e 21-octies, 2° comma, della legge n. 241 del 1990 a confronto, in Foro amministrativo - TAR, VI, 2006, pag. 2295 e ss oltre a F. Volpe, La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi illegittimi, in Diritto processuale amministrativo, II, 2008, pag. 319 e ss.
[62] Ad esempio, T.A.R. per il Piemonte, sez. I, 30 giugno 2011, n. 718, richiamata e ribadita da T.A.R. per la Campania, sede di Salerno, sez. II, 11 marzo 2020, n. 361, ha affermato chiaramente che “La funzione della partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo mediante la prospettazione di osservazioni e controdeduzioni è quella di far emergere gli interessi, anche spiccatamente privati, che sottostanno all’azione amministrativa discrezionale, in modo da orientare correttamente ed esaustivamente la stessa scelta della Pubblica amministrazione mediante una ponderata valutazione di tutti gli interessi, pubblici e privati, in gioco per il raggiungimento della maggiore soddisfazione possibile dell’interesse pubblico; se ciò non comporta che l’Amministrazione sia tenuta ad accogliere le osservazioni del privato, un rilievo invalidante del provvedimento amministrativo deve invece riconoscersi quando sia provato che l’Amministrazione non abbia neppure esaminato le osservazioni e le controdeduzioni formulate dall’interessato a seguito della rituale comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento”. In dottrina vedasi M.C. Cavallaro, Attività vincolata dell’amministrazione e sindacato giurisdizionale, in Il processo, 2020.
[63] Ove si possono far valere vizi estrinseci come quelli che riguardano la possibile applicazione del regime de minimis, oppure quelli che afferiscono in sé la qualificazione del soggetto destinatario della contribuzione.
[64] Che, allora, in questi termini più che in altri diviene fonte in cui reperire enunciati prescrittivi vincolanti tanto per le amministrazioni degli Stati membri quanto per i relativi organi giurisdizionali; cfr. M. Dawson – B. De Witte – E. Muir, Judicial Activism at the European Court of Justice, Cheltenham, 2013, E. Cannizzaro, Rinvio pregiudiziale e Corti costituzionali nazionali, in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, Napoli, vol. II, 2014, pag. 819 e ss., A. Adinolfi, La Corte di giustizia dell’Unione europea dinanzi ai principi generali codificati, relazione al XXIII convegno annuale della SIDI, Ferrara, 6-8 giugno 2018, in A. Annoni – S. Forlati – F. Salerno (a cura di), La codificazione nell’ordinamento internazionale e dell’Unione europea, Napoli, 2019, pag. 553 e ss., P. De Pasquale, I formanti del processo di integrazione europea: il ruolo della Corte di giustizia, in DPCE online – numero speciale, 2021, S. Hindelang, Conceptualisation and application of the principle of autonomy of EU law: the CJEU’s judgment in Achmea put in perspective, in European Law Review, III, 2019, pag. 383 e ss., S. Barbieri, Il rinvio pregiudiziale tra giudici ordinari e Corte costituzionale. La ragione del conflitto, Napoli, 2023.
[65] Ci si riferisce all’art. 10-quater, l. n. 212/2000. La Corte costituzionale, peraltro, ha ritenuto nella materia de qua come fosse appannaggio del legislatore ordinario la decisione se prevedere o meno un obbligo giuridico a carico dell’amministrazione di agire in autotutela, cfr. 13 luglio 2017, n. 181.
[66] Vedasi in merito, senza pretesa di esaustività, G. Piva, L’autotutela tributaria dopo l’intervento della Corte costituzionale: fossile giuridico o strumento ancora attuale di tutela azionabile dal contribuente?, in Bollettino tributario, III, 2019, pag. 235 e ss. P. Barbarino, L’autotutela tributaria tra il rilevane interesse generale e la ricerca della “giusta imposizione”, in Rivista trimestrale di diritto tributario, I, 2020, pag. 196 e ss. e C. Sallustio, Limiti e peculiarità dell’autotutela obbligatoria in tema di sanzioni amministrative tributarie, in Diritto tributario – supplemento online, 4 febbraio 2025.
[67] Posto che, peraltro, tali medesime posizioni giuridiche trovano protezione nella Carte di Nizza, che garantisce i diritti fondamentali dei cittadini anche nei confronti delle amministrazioni europee. Cfr. D.U. Galetta, Le garanzie procedimentali dopo la legge 15/2005: considerazioni sulla compatibilità comunitaria dell’art. 21 octies L. 241/90, anche alla luce della previsione ex art. 41 della Carta dei diritti UE, in L.R. Perfetti(a cura di), Le riforme della legge 7 agosto 1990, n. 241, tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, 2008, pag. 319 e ss.
L’accesso alla magistratura ordinaria nei principi costituzionali e nelle recenti riforme approvate o in corso di approvazione
Dall’eliminazione del concorso di secondo livello alla preparazione al concorso organizzata dalla Scuola superiore della magistratura, fino ai test e al colloquio psicoattitudinali
Il lavoro ha ad oggetto la disciplina dell’accesso alla magistratura, con particolare riferimento alle recenti modifiche introdotte dalla l. 71/2022 e dal d.lgs. 44/2024.
Dopo un richiamo ai principi costituzionali in materia, lo scritto si sofferma in particolare sul corso di preparazione al concorso in magistratura affidato alla Ssm, mettendo in rilievo gli ampi margini di scelta ad essa riconosciuti, nonché sulla introduzione dei test psicoattitudinali dei quali vengono sottolineati l’uso strumentale alla delegittimazione dell’attività giurisdizionale e la pericolosità per l’indipendenza della magistratura.
Sommario: 1. I principi costituzionali: l’accesso per concorso e la sua stretta connessione alla garanzia di indipendenza della magistratura. Le eccezioni al principio: a) la magistratura onoraria; b) i giudici di legittimità per meriti insigni nella disciplina ordinaria e nella riforma costituzionale approvata in prima lettura. – 2. L’accesso alla magistratura nella legge Cartabia (71/2022): la eliminazione del concorso di secondo livello e l’ammissione al tirocinio formativo prima della laurea. – 3. L’organizzazione del corso di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura. L’attuazione, l’inattuazione e la violazione dei principi della delega da parte del d. lgs. 44/2024. Le rilevanti scelte spettanti alla Scuola e la sfida alle scuole private di preparazione al concorso come momento di realizzazione dello stato sociale. – 4. La disciplina della prova scritta e della prova orale, la “disobbedienza” del governo delegato al principio e criterio direttivo di riduzione delle materie. – 5. La previsione di un test psicoattitudinale di ammissione nel d. lgs. 44/2024. I dubbi di legittimità costituzionale per eccesso di delega e irragionevolezza e la violazione del principio di leale collaborazione istituzionale nei riguardi del Consiglio superiore della magistratura. – 6. Segue: i test della personalità tra test psicoattitudinali e test psicodiagnostici. La verifica della “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria” e la ricerca dei relativi parametri di riferimento. Gli aspetti procedurali. La collocazione del test nel procedimento concorsuale; la relazione tra test e successivo colloquio; lo svolgimento del colloquio insieme alla prova orale sulle materie giuridiche davanti alla commissione di concorso: rilievi critici; la (non) motivazione con la “sola” formula “non idoneo” ed i riflessi circa la possibile ripetizione delle prove di accesso: rilievi critici. – 7. Segue: i risultati a breve termine della introduzione di test psicoattitudinali per la delegittimazione della magistratura ed i rischi a più lungo termine per la indipendenza dei magistrati. Il giudizio fortemente critico degli psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana e la significativa esperienza francese: le ragioni della introduzione nel 2009 del test psicoattitudinale e le ragioni della sua eliminazione nel 2017, a seguito dei risultati ricavati dalla sua applicazione pratica.
1. I principi costituzionali: l’accesso per concorso e la sua stretta connessione alla garanzia di indipendenza della magistratura. Le eccezioni al principio: a) la magistratura onoraria; b) i giudici di legittimità per meriti insigni nella disciplina ordinaria e nella riforma costituzionale approvata in prima lettura
Queste brevi osservazioni, dedicate all’amico di ormai tanti anni Michele Ainis, hanno ad oggetto un tema che non ha ricevuto, a mio avviso, l’attenzione che merita tra gli aspetti relativi all’ordinamento giudiziario, specie considerando che tutto inizia da quel momento: l’accesso alla magistratura.
In questi ultimi anni e mesi sono stati in proposito approvati, o sono in corso di approvazione, provvedimenti normativi di grande rilievo, sia per l’impatto che essi avranno sulle garanzie di autonomia e indipendenza dei magistrati, sia per il loro significato anche simbolico, espressione dell’atteggiamento dell’attuale maggioranza politica in ordine al ruolo che deve essere riconosciuto al potere giudiziario nell’ambito del principio di separazione dei poteri.
Al proposito la Costituzione (art. 106) opera una scelta molto chiara, fissando la regola per cui “le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso” (1° comma) e stabilendo poi due eccezioni: la possibile nomina, anche elettiva, di magistrati onorari (2° comma) e la chiamata a giudice di cassazione per meriti insigni (3° comma).
La scelta a favore del pubblico concorso assume per la magistratura un significato particolare rispetto al principio generale dettato dall’art. 97, 4° comma, Cost. per l’accesso alla pubblica amministrazione, in quanto si pone in stretta connessione con le scelte a favore dell’autonomia e indipendenza da ogni altro potere, della soggezione del giudice solo alla legge e del divieto di giudici speciali e straordinari.
Come ha sottolineato anche di recente la Corte costituzionale la regola generale del pubblico concorso è stata individuata come quella più idonea a concorrere ad assicurare la separazione del potere giurisdizionale dagli altri poteri dello Stato e la sua stessa indipendenza, in quanto garantisce, da un lato, a tutti i cittadini la possibilità di accesso alla magistratura ordinaria, in aderenza al disposto dell’art. 3 Cost., evitando ogni discriminazione anche di genere e, dall’ altro, assicura la qualificazione tecnico-professionale dei magistrati, ritenuta condizione necessaria per l’esercizio delle funzioni giudiziarie. Mira infatti a verificare un iniziale standard uniforme di sapere giuridico, destinato ad affinarsi nel tempo, quale garanzia minima, ma essenziale, dell’esercizio della giurisdizione in modo neutrale (sent. n. 41 del 2021). La Corte ha altresì evidenziato in proposito come «la funzione della interpretazione ed applicazione della legge richiede il possesso della tecnica giuridica» da parte dei giudici togati (sent. n. 76 del 1961).
Potremmo dire che lo Stato ha l’obbligo di garantire, insieme alla autonomia, indipendenza ed imparzialità di chi giudica, anche la preparazione tecnica ossia la professionalità di tutti i magistrati, dal momento che, mentre il cittadino può scegliersi il medico, l’avvocato o l’idraulico di sua fiducia, non altrettanto può fare per il giudice, che per principio costituzionale è “precostituito per legge” (art. 25, 1° comma, Cost.).
Le due eccezioni alla regola del concorso sono all’evidenza di differente portata, assai maggiore e significativa la prima (magistrati onorari), più ridotta la seconda, limitata alla chiamata a giudice di cassazione per meriti insigni di professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati con quindici anni di esercizio ed iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.
Riguardo alla magistratura onoraria, questa è stata oggetto di una attuazione per larga misura diversa da quella pensata dal Costituente – e che in questa sede non possiamo all’evidenza neppure accennare – il quale, mentre aveva respinto l’ipotesi in generale di giudici elettivi, l’aveva invece prevista in maniera limitata e doppiamente eventuale. I magistrati onorari infatti non sono costituzionalmente necessari (il legislatore “può” ammettere la nomina di onorari) e, se ammessi, possono essere “anche” elettivi.
Questo giustificato dal fatto che la previsione era connessa alla ipotesi di un giudizio “secondo equità” e di un giudice “sociale” o “di prossimità” e comunque indicata come espressione di una giustizia minore, con una competenza limitata alle “funzioni attribuite a giudici singoli”.
Quest’ultima espressione ha poi dato luogo a diverse letture e la Corte costituzionale ha ricostruito una figura di “giudice singolo” professionale, al quale può essere sostituito il magistrato onorario: le materie sulle quali può decidere il giudice singolo possono essere attribuite ad un onorario.
Per superare questo limite la “riforma epocale” di Berlusconi del 2011 aveva previsto una revisione costituzionale che eliminava il riferimento alla competenza del giudice singolo nell’art. 106, 2° comma, Cost.
Più di recente si è posto il problema del possibile utilizzo di magistrati onorari per comporre gli organi collegiali e la Corte ha posto in proposito una linea di confine ben precisa, nel senso che deve trattarsi di una assegnazione precaria ed occasionale, riferita a singole udienze o a singoli processi.
Su queste basi ha dichiarato incostituzionale, in quanto del tutto fuori sistema ed in radicale contrasto con l’art. 106 Cost., la istituzione della figura di giudice ausiliario d’appello, attribuendogli lo status di componente dei collegi delle sezioni della Corte d’appello, anche se poi ha “salvato” la normativa dichiarata incostituzionale, consentendone l’applicazione fino al 31 ottobre 2025.
Per quanto concerne invece l’altra deroga al principio del pubblico concorso, l’art. 106, 3° comma, Cost., prevede che “su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”.
La riforma costituzionale (c.d. riforma Nordio), attualmente in attesa della seconda approvazione da parte delle camere, introduce due modifiche: a) la designazione deve avvenire da parte del Csm giudicante e b) possono ambire alla nomina, oltre agli avvocati ed ai professori universitari, anche i magistrati requirenti.
Nella relazione illustrativa la innovazione viene motivata sul presupposto che la separazione delle carriere giustifica la previsione, per i magistrati requirenti, “analogamente alle altre professioni indicate nella norma, della possibilità di essere ammessi, in via straordinaria, alla funzione giudicante di legittimità”.
Il conferimento di funzioni di legittimità può, al momento, avvenire attraverso due diverse procedure, una prima, che potremmo definire naturale, con riferimento alla vita professionale dei magistrati che ha ricevuto proprio di recente una nuova disciplina, con l’art. 2, 3° comma, della legge Cartabia, che prevede tra l’altro allo scopo il requisito di “effettivo esercizio delle funzioni giudicanti o requirenti di primo o di secondo grado per almeno dieci anni”, al quale ha dato attuazione l’art. 5 d. lgs. 28 marzo 2024 n. 44.
Attraverso la suddetta procedura vengono individuati quelli che potremmo chiamare, seppure impropriamente ma solo per capirci, i membri “togati” della Corte di cassazione.
In via chiaramente eccezionale vi è la possibilità di nomina di membri “laici”, quelli appunto chiamati alla carica di consigliere di cassazione “per meriti insigni” finora tratti dalle categorie degli avvocati e dei professori universitari. Questi ultimi debbono essere in numero non superiore ad un decimo dei posti previsti nell’organico complessivo della Corte di cassazione.
La previsione costituzionale, come noto, non ha ricevuto attuazione per mezzo secolo e l’ha avuta infatti con la legge 5 agosto 1998 n. 303.
La lettura di questa legge mostra all’evidenza come la stessa sia del tutto inapplicabile alla nuova figura di soggetti legittimati (magistrati requirenti), proprio perché fa chiaramente riferimento a soggetti estranei alla magistratura ed i magistrati requirenti, nonostante la prevista separazione delle carriere, rimangono, fino a prova contraria, facenti parte organica della magistratura.
Su questa base una prima conclusione è quella secondo cui per l’attuazione di questa parte nuova dell’art. 106, 3° comma, non può valere la legge n. 303, ma occorre una nuova e diversa legge, ovviamente con la speranza – per chi, a differenza dello scrivente, crede in questa innovazione - che il legislatore non impieghi un altro mezzo secolo ad approvarla.
La legge 303 prevede infatti un ruolo importante nella procedura del Consiglio universitario nazionale e del Consiglio nazionale forense ed anche i requisiti richiesti per la nomina e gli elementi di specifica rilevanza fanno chiaramente riferimento a persone esterne all’ordine giudiziario.
L’art. 2 della legge stabilisce che “la designazione deve cadere su persona che, per particolari meriti scientifici o per la ricchezza dell’esperienza professionale, possa apportare alla giurisdizione di legittimità un contributo di elevata qualificazione professionale. A tal fine costituiscono parametri di valutazione gli atti processuali, le pubblicazioni, le relazioni svolte in occasione della partecipazione a convegni”.
Quali elementi di specifica rilevanza vengono indicati: a) l’esercizio di attività forense da parte di professore d’università presso le giurisdizioni superiori; b) l’insegnamento universitario in materie giuridiche per un periodo non inferiore a dieci anni; c) il pregresso esercizio delle funzioni giudiziarie per un periodo non inferiore a dieci anni.
Tutto questo fa sorgere il sospetto, a mio giudizio fondato, che l’istituto della nomina di consiglieri di cassazione per meriti insigni, pensato per “laici”, sia inidoneo, proprio come struttura, finalità e modello, ad essere trasferito a magistrati.
Evidente che questa modifica è collegata al “cuore” della revisione costituzionale proposta, ossia alla separazione delle carriere e pare prefigurare una ulteriore modifica dell’attuale disciplina relativa alla surricordata procedura normale, nel senso di escludere dalla stessa i magistrati requirenti, tanto che la via straordinaria parrebbe una sorta di “risarcimento” per tale esclusione.
Il potere di designazione, ai sensi dell’art. 106, 3° comma, Cost., spetta, come detto, al Csm giudicante sul presupposto che “il magistrato nominato ai sensi della presente legge può essere destinato esclusivamente alle funzioni giudicanti nell’ambito della Corte di cassazione” (art. 4 l. 303/1998).
A parte i dubbi circa l’applicabilità di questa disposizione, per le ragioni sopra esposte, alla diversa ipotesi dei magistrati requirenti, avremmo l’effetto che, attraverso una revisione costituzionale motivata dal fine della separazione delle carriere giudicante e requirente, verrebbe riconosciuta la possibilità di un magistrato requirente di passare, per meriti insigni, alla magistratura giudicante.
Il significato attribuito al concorso per l’accesso alla magistratura dovrebbe, a mio avviso, sconsigliare, indipendentemente dalle finalità che le muovono, certe iniziative, quale quelle avanzate di recente, attraverso lo strumento della legge ordinaria o di quello della revisione costituzionale.
Mi riferisco, per la prima ipotesi, ad un ipotizzato concorso straordinario, in forme molto semplificate, riservato ai magistrati onorari e, per la seconda, alla assunzione di avvocati e professori universitari per ogni grado di giurisdizione inserita in alcuni dei vari progetti sulla separazione delle carriere presentati alle camere.
2. L’accesso alla magistratura nella legge Cartabia (71/2022): la eliminazione del concorso di secondo livello e l’ammissione al tirocinio formativo prima della laurea
La legge n. 71 del 2022 (c.d. legge Cartabia) ha fissato, in quanto legge delega, alcuni principi e criteri direttivi in materia di accesso alla magistratura, attraverso una disposizione (art. 4) la cui rubrica è (o avrebbe dovuto essere) di per sé significativa della volontà del legislatore (“riduzione dei tempi per l’accesso in magistratura”).
I punti sono specificamente cinque: a) accesso immediato per i laureati in giurisprudenza con eliminazione del carattere di concorso di secondo livello; b) ammissione al tirocinio formativo una volta ultimati gli esami di profitto, anche prima della discussione della tesi di laurea; c) assegnazione alla Scuola superiore della magistratura (Ssm) del compito di organizzare corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario; d) disciplina della prova scritta ed e) della prova orale.
L’introduzione del concorso di secondo livello era stata giustificata dalla finalità di ridurre l’alto numero di partecipanti al concorso e, con esso, i tempi troppo lunghi di svolgimento delle prove.
Il legislatore, nella sua attività di bilanciamento tra i differenti interessi in gioco, aveva ritenuto prevalente quello della deflazione delle domande e della maggiore rapidità delle procedure.
L’applicazione pratica della innovazione non aveva dato i risultati attesi, tanto che il Consiglio superiore con la risoluzione del 7 dicembre 2021 aveva sottolineato come “l’innalzamento dell’età dei neo-magistrati ha prodotto ricadute negative sulla condizione personale di questi ultimi e sulla organizzazione giudiziaria nel suo complesso”.
Sotto il primo aspetto per l’aggravio economico derivante dalla eventuale partecipazione a scuole private di preparazione e soprattutto per la necessità di un sostegno economico per il tempo necessario a maturare i requisiti di legittimazione alla partecipazione.
Per il secondo, per il fatto che l’inizio dell’attività lavorativa in età matura rende inevitabilmente più gravoso il trasferimento, in conseguenza dell’assegnazione della prima sede, in luoghi lontani dalle famiglie, frequentemente appena costituite.
La risoluzione concludeva di conseguenza nel senso di ritenere “auspicabile ed urgente il ripristino del concorso di primo grado”.
La legge Cartabia quindi con la previsione sub a) ha risolto il predetto bilanciamento in senso opposto, eliminando il carattere di concorso di secondo livello, una volta constatato l’insuccesso dello stesso e gli effetti negativi derivati dal medesimo.
Con riguardo al momento di inizio del tirocinio formativo, la novità consiste nell’ammettere gli studenti prima che gli stessi si siano laureati, purché abbiano superato tutti gli esami del corso di laurea ed abbiano meno di trenta anni.
Non potendosi in tal modo far riferimento al voto di laurea (fissato in 105/110) viene richiesta la media del 27 per i seguenti esami: diritto privato, diritto costituzionale, diritto processuale civile, diritto commerciale, diritto penale, procedura penale, diritto del lavoro e diritto amministrativo.
Una condizione, per chi conosce l’ordinamento dei dipartimenti di giurisprudenza, certamente più gravosa rispetto alla votazione finale di 105 su 110.
Gli aspetti che comunque hanno posto maggiori problemi riguardano la organizzazione dei corsi di preparazione al concorso da parte della Ssm e la disciplina delle prove di esame. Problemi che, al momento in cui scrivo, sono tutt’altro che risolti e sui quali pertanto mi soffermerò maggiormente.
3. L’organizzazione del corso di preparazione al concorso da parte della Scuola superiore della magistratura. L’attuazione, l’inattuazione e la violazione dei principi della delega da parte del d. lgs. 44/2024. Le rilevanti scelte spettanti alla Scuola e la sfida alle scuole private di preparazione al concorso come momento di realizzazione dello stato sociale.
La legge delega ha previsto (sub c) che la Ssm organizzi, anche in sede decentrata, corsi di preparazione al concorso per magistrato ordinario per laureati in possesso dei seguenti requisiti: 1) voto di laurea non inferiore a 105/110; 2) tirocinio formativo, effettuato o in corso oppure attività prestata presso l’ufficio per il processo.
I costi di organizzazione debbono gravare “sui partecipanti in una misura che tenga conto delle condizioni reddituali dei singoli e dei loro nuclei familiari”.
A questa previsione della legge delega è stata data attuazione con d. lgs. n. 44 del 2024, con il quale sono state introdotte disposizioni tutt’altro che scontate ed in certa misura anche discutibili.
È stato infatti previsto che la Scuola, nell’esercizio della propria autonomia, tenuto conto delle proprie risorse stabilisca, per ogni corso, il numero massimo dei partecipanti ammessi ed i criteri di preferenza per il caso in cui gli aspiranti siano in numero superiore ai posti disponibili.
I corsi, organizzati anche a livello decentrato, vertono sulle materie oggetto della prova scritta e consistono in sessioni di studio tenute da docenti di elevata competenza e professionalità ed i costi di organizzazione gravano sui partecipanti in misura che tenga conto delle condizioni reddituali loro e dei nuclei familiari, secondo le determinazioni del comitato direttivo della Scuola.
Inevitabile il confronto con le c.d. scuole legali che hanno funzionato presso le nostre università per diversi anni e che stanno attraverso un momento di profonda crisi, adesso aggravata dalla previsione del concorso in magistratura come concorso di primo grado.
Il risultato di questa esperienza credo possa essere giudicato non proprio positivamente, giusto per utilizzare un eufemismo.
Questo in sostanza per tutta una serie di diverse e concomitanti ragioni, la prima delle quali è da rinvenire nella mancanza di chiarezza circa la finalità delle scuole legali che sono sempre oscillate tra l’idea di un corso postlaurea comune a tutte le professioni legali, quasi come una specie di dottorato di ricerca e quella di un corso di preparazione alle prove di ammissione alle professioni di magistrato, avvocato o notaio.
Una tale incertezza circa le finalità ha inevitabilmente inciso sulla organizzazione dei corsi, i quali sovente si sono risolti in lezioni attinenti a differenti discipline, affidate a volenterosi docenti della facoltà (oggi dipartimento) i quali hanno rappresentato una sorta di specializzazione del contenuto del corso già offerto alle stesse persone come studenti.
Spesso è mancato un coordinamento sui contenuti dei singoli corsi e tra i corsi, trattandosi di interessanti conferenze su temi specifici, quando svolte dai titolari qualificati dei corsi.
Un limite della organizzazione nel nostro paese degli insegnamenti universitari di giurisprudenza è, come noto, la scarsa (o inesistente) pratica di scrivere in diritto. Le attività (lezioni, seminari, ricevimenti, esami di profitto, ad eccezione della tesi di laurea) si svolgono infatti quasi esclusivamente oralmente.
Le scuole legali avrebbero potuto costituire l’occasione per far esercitare i partecipanti con prove scritte, cosa che purtroppo si è verificata non di frequente e con scarsa disponibilità dei docenti a correggere i compiti e quindi a discutere i contenuti con gli studenti.
L’idea di una preparazione comune per i concorsi di ammissione alle singole professioni è andata a scontrarsi con le specificità dei singoli concorsi di ammissione, tenute invece in grandissima attenzione dalle scuole private di preparazione, nelle quali tutto è indirizzato al raggiungimento del risultato ed a quanto risulta utile e necessario per superare la prova di ammissione.
In questo e per questo il confronto tra le scuole legali e le scuole private a pagamento è stato, come tutti sanno, assolutamente impari a vantaggio delle seconde.
Il compito che adesso viene assegnato ai corsi della Ssm parrebbe più chiaro, non più una formazione comune ma la “preparazione al concorso per magistrato ordinario”, vertente sulle tre materie oggetto della prova scritta.
La previsione potrebbe riaprire la concorrenza con le scuole private di preparazione al concorso in magistratura, ma decisivo diviene che coloro che hanno approvato la legge credano poi davvero nei corsi “pubblici” che realizzerebbe un aspetto rilevante dello stato sociale disegnato nella Costituzione, dal momento che molti sono i nostri laureati che, per ragioni economiche, non possono permettersi di frequentare i corsi delle scuole private.
Credere in un progetto significa in sostanza destinare ad esso le risorse necessarie per la sua realizzazione e questo mi pare essere il primo aspetto, assolutamente imprescindibile. La mancanza di risorse infatti può ritenersi una delle ragioni, se non la principale, dell’insuccesso delle scuole legali.
Certamente da tenere in contro la possibilità di svolgere i corsi a livello decentrato, ma anche in questo caso vengono in rilievo le risorse economiche e di personale, attualmente quasi inesistenti o comunque del tutto inadeguate allo scopo.
La competenza attribuita alla Ssm, come si legge nella relazione illustrativa, non deve essere intesa come competenza esclusiva, rimanendo possibile, e forse anche auspicabile, che altri soggetti pubblici possono svolgere la preparazione al concorso per magistrato ordinario.
Ovvio in questo senso pensare alle Università, per le quali potrebbero non valere le limitazioni previste per i corsi organizzati dalla Ssm e quindi trattarsi di corsi aperti a tutti i laureati in giurisprudenza, indipendentemente dal voto di laurea o dalla media degli esami.
I corsi potrebbero svolgersi in maniera coordinata e senza alcuno spirito di competizione, evitando soprattutto il formarsi dell’idea di un corso di “serie A” ed un altro di “serie B”.
Necessario parrebbe altresì un raccordo dei tempi di svolgimento dei corsi con quello dei bandi di concorso, dal momento che una eccessiva sfasatura finirebbe per ridurre inevitabilmente l’efficacia della preparazione.
L’organizzazione dei corsi di preparazione è, come detto, attribuita alla Ssm, alla quale viene in specifico riconosciuta la necessità di assumere in proposito decisioni di grande importanza.
Innanzi tutto per la possibilità, non prevista dalla legge delega, di introdurre per gli aventi diritto a partecipare ai corsi un numero chiuso, sulla base delle risorse della Scuole.
La legge delega si limitava a restringere la partecipazione ai laureati “più bravi” e che avessero dimostrato interesse per la magistratura (tirocinio, ufficio per il processo), dando però l’impressione che a tutti coloro che fossero in possesso di tali condizioni sarebbe stato riconosciuto il diritto ad iscriversi e partecipare ai corsi di preparazione.
Il decreto legislativo prevede invece la possibilità della Scuola “nell’esercizio della propria autonomia, tenuto conto delle proprie risorse” di stabilire “il numero massimo di partecipanti”.
A parte il fatto che non è certo la Scuola a decidere circa le proprie risorse, che derivano da scelte fatte in altre sedi e da altri soggetti istituzionali, la legge stabilisce che “i costi di organizzazione gravino sui partecipanti”, confermando così l’impressione che la presenza dei requisiti richiesti determini una sorta di diritto a partecipare ai corsi.
D’altra parte credere in questa iniziativa – per porre una reale alternativa ai corsi organizzati dalle scuole private – vuol dire anche attribuire le risorse necessarie e, in caso di un alto numero di domande, aumentare queste ultime anziché introdurre un numero chiuso ed escludere una parte dei richiedenti.
La decisione di fissare un numero massimo di ammessi viene quindi lasciata al direttivo della Scuola, la quale si vede riconoscere anche un ulteriore compito, assai delicato, vale a dire quello di stabilire in questo caso “i criteri di preferenza”, senza altra indicazione.
Si aprono, come evidente, molti possibili criteri di selezione: ancora merito (i “più bravi dei bravi”), di reddito, di genere e quanto altro. La scelta ancora è attribuita al direttivo della Scuola, senza che sia previsto l’intervento, neppure a livello consultivo, di altri soggetti istituzionali (ad esempio il Csm).
Il comitato direttivo della scuola determina anche in concreto in quale misura i costi di organizzazione debbono gravare sui partecipanti, seppure con la necessità di tener conto delle condizioni reddituali.
Al proposito ci potremmo chiedere, visto che niente si dice al riguardo, se a fronte di situazioni economiche disagiate il costo potrebbe essere fissato a livello zero, ossia una partecipazione gratuita. Il decreto non ha ritenuto di prendere in considerazione l’ipotesi avanzata dal Csm nel suo parere di istituire borse di studio per persone in difficoltà economiche.
Inutile infine sottolineare l’ampio margine di scelta – e questo rientra nelle funzioni tipicamente riconosciute alla Scuola – nella organizzazione dei corsi, nella scelta dei docenti e nella predisposizione dei programmi.
In questo caso sembrerebbe da tener in conto, quali esperienze e modelli da seguire, più quelli delle scuole private di preparazione che non quelli delle scuole legali, ad esempio facendo riferimento ad un numero ridotto di docenti, magistrati e/o universitari, semmai con impegno esclusivo o quasi, ma sempre con un taglio pratico delle lezioni e con prove scritte o simulazioni di temi corretti e discussi con i partecipanti ai corsi.
4. La disciplina della prova scritta e della prova orale, la “disobbedienza” del governo delegato al principio e criterio direttivo di riduzione delle materie
Con riguardo alle prove del concorso di accesso alla magistratura, la legge delega ha fatto riferimento sia alla prova scritta (sub d), sia a quella orale (sub e).
Per la prima ha stabilito che la stessa abbia la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento teorico-sistematico dei candidati e consista nello svolgimento di tre elaborati scritti, rispettivamente vertenti sul diritto civile, sul diritto penale e sul diritto amministrativo, anche alla luce dei principi costituzionali e della Unione europea. La disposizione è stata ripetuta negli stessi termini anche nel decreto legislativo.
Per la prova orale la legge indicava quale principio e criterio direttivo quello di ridurre le materie, mantenendo ferme, oltre al colloquio in una lingua straniera, almeno quelle di diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto dell’unione europea, diritto del lavoro, diritto della crisi e dell’insolvenza e ordinamento giudiziario.
Il governo ha ritenuto di non dare attuazione a questo principio, giustificando la sua scelta con questa motivazione: “tra le materie della prova orale non si opera alcuna espunzione, non dando seguito a questo criterio della delega. Infatti non si è ritenuto che le materie della prova orale fossero ulteriormente comprimibili”.
Certamente non è la prima volta che il legislatore delegato decide per una attuazione parziale della delega e questo, secondo quanto precisato in varie occasioni dalla giurisprudenza costituzionale, non determina un vizio per violazione dei principi e criteri direttivi.
Per il nostro caso vale però la pena di sottolineare come più che attuazione parziale parrebbe doversi parlare di vera e propria violazione di una scelta inequivoca e caratterizzante operata dalla legge delega.
Indicativa in proposito la stessa rubrica dell’art. 4 della legge (“riduzione dei tempi per l’accesso in magistratura”) e chiara la decisione di ridurre, allo scopo, le materie della prova orale, da tempo e da più parti segnalate come eccessive, alcune delle quali poco significative per la selezione dei futuri magistrati.
Il decreto legislativo – accanto al decreto legge – rappresenta, come noto, una eccezione al principio secondo cui il potere legislativo spetta al parlamento, giustificata dal fatto che le scelte significative, cui il governo deve attenersi, sono fatte dal parlamento. Il decreto ha il compito di attuare le stesse, integrandole e specificandole, senza poter in alcun modo sostituirsi alle scelte fatte dalla legge delega.
La scelta del parlamento era stata di ridurre le materie dell’orale per limitare i tempi per l’accesso alla magistratura, ad essa il governo ha sostituito la propria scelta, ritenendo nel merito non riducibili le materie.
Ad aggravare una supposta violazione dei principi e criteri direttivi della legge delega, il governo non solamente non ha ridotto le materie della prova orale, ma addirittura, in contrasto con la suddetta finalità, ha aggiunto una nuova ed ulteriore prova, scritta ed orale, vale a dire il test psicoattitudinale ed il relativo colloquio. Su questa prova, assai discutibile, vale la pena di soffermarsi un momento.
5. La previsione di un test psicoattitudinale di ammissione nel d. lgs. 44/2024. I dubbi di legittimità costituzionale per eccesso di delega e irragionevolezza e la violazione del principio di leale collaborazione istituzionale nei riguardi del Consiglio superiore della magistratura.
L’ipotesi di introdurre un test psicoattitudinale era già stata avanzata per il nostro ordinamento almeno in due precedenti occasioni.
La prima nel programma eversivo predisposto da Licio Gelli, nell’ambito del più ampio disegno tendente a ricondurre la magistratura alla funzione di corretta e scrupolosa applicazione della legge, la seconda con la più recente legge Castelli. Attraverso l’approvazione di un maxiemendamento all’originario progetto di legge era stata inserita la previsione secondo cui i candidati al concorso per la magistratura avrebbero dovuto sostenere un colloquio di idoneità psicoattitudinale, anche in relazione alle specifiche funzioni che avrebbero dovuto indicare nella domanda di ammissione. Era inoltre previsto, nel decreto legislativo di attuazione, lo svolgimento di un colloquio con la presenza di un professore universitario che avrebbe dovuto essere valutato collegialmente dalla commissione di concorso.
La successiva legge Mastella, come noto, portò sostanziali modifiche a quella legge, tra le quali l’abolizione del test psicoattitudinale.
La disciplina adesso contenuta nel d. lgs. n. 44 del 2024 appare, per quanto cercherò di evidenziare, frutto di una certa approssimazione e motivata da un pregiudizio di fondo nei riguardi della instabilità psichica dei magistrati – era il 4 settembre 2003 quando l’allore presidente del consiglio Silvio Berlusconi affermò che "i giudici sono matti, sono mentalmente disturbati, hanno turbe psichiche e sono antropologicamente diversi dalla razza umana” - e che va ad inserirsi nell’opera di delegittimazione in corso, da parte delle forze politiche della attuale maggioranza, nei riguardi di singoli magistrati e dell’intera magistratura.
È previsto che, per i concorsi banditi a partire dal 2026, i candidati al concorso per magistrato ordinario, dopo aver superato le tre prove scritte, debbano sostenere un test psicoattitudinale allo scopo di “verificare l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”.
Al test segue un colloquio psicoattitudinale, diretto dal presidente della commissione di concorso, con l’ausilio di un esperto psicologo, davanti alla commissione competente per la prova orale, alla quale è rimessa la valutazione dell’idoneità psicoattitudinale.
La valutazione della prova viene parificata alla verifica della conoscenza della lingua straniera e quindi motivata “con la sola formula ‘idoneo/non idoneo’”
I test, nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria, dovranno essere individuati dal Csm, il quale dovrà individuare altresì le condizioni di inidoneità a svolgere la funzione giudiziaria.
Prima di passare ad alcune valutazione sul merito delle scelte operate dal legislatore delegato, ritengo opportuno evidenziare alcuni possibili vizi di legittimità costituzionale, sotto l’aspetto dell’eccesso di delega, da un lato e della ragionevolezza della scelta legislativa, dall’altro.
La legge delega, come noto, non conteneva alcuna autorizzazione al governo ad inserire quella che può ritenersi una ulteriore prova, la quale, come già detto, si viene a porre in evidente contrasto con la ratio della legge, ispirata a ridurre i tempi di svolgimento del concorso di accesso alla magistratura.
Per quanto concerne invece la ragionevolezza, ci potremmo chiedere se ed in che limiti possa ritenersi conforme ai principi costituzionali una indagine sulla personalità di un soggetto che aspira ad un posto di lavoro.
In via di prima approssimazione credo che dovremmo dimostrare che quella indagine risulti assolutamente necessaria per la funzione cui aspira il candidato e quindi nel nostro caso quali sono le condizioni attitudinali richieste come indispensabili.
Nessun dubbio può nutrirsi sulle qualità recentemente indicate da Spina (Valutazione di idoneità psicoattitudinale e concorso per magistrato ordinario: profili di contrasto con la Costituzione e i suoi principi fondamentali, in Questione giustizia, 2 luglio 2024): equilibrio, capacità di giudizio, disposizione all’ascolto delle opposte ragioni, non lasciarsi condizionare, onestà intellettuale, indipendenza di giudizio, disinteresse personale, assenza di preconcetti.
Il dubbio riguarda invece la possibilità di poter accertare, attraverso un test seguito da colloquio psicoattitudinale, la presenza o meno dei sopra indicati elementi nel candidato al concorso e quindi la ragionevolezza della previsione normativa.
Riprendendo la frase scritta a mano in un cartello presente nello studio di Einstein all'Università di Princeton, “non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato.”
La disciplina in esame pone dubbi circa la ragionevolezza della medesima anche sotto l’aspetto di una ingiustificata discriminazione a danno degli aspiranti magistrati.
Se la previsione di una indagine sulla personalità viene giustificata dalla delicatezza del ruolo svolto dai magistrati e dalla incidenza delle loro decisioni sulla vita dei destinatari, ci potremmo chiedere come non ritenere necessaria una analoga misura per molte altre professioni, si pensi, solo per fare qualche esempio, agli insegnanti di qualsiasi livello oppure al personale medico.
Una ulteriore discriminazione, ancora meno giustificabile, è poi quella a danno dei magistrati ordinari rispetto ai magistrati delle giurisdizioni speciali (amministrativa, contabile, tributaria, militare) per i quali invece non si è ritenuto di prevedere un analogo test di ammissione.
Ai sospetti di incostituzionalità si può aggiungere - sempre con riguardo alla disciplina in oggetto e con specifico riferimento al rapporto tra ministro della giustizia e Csm - un comportamento certamente non ispirato al principio di leale collaborazione tra le istituzioni.
La bozza di decreto legislativo, attuativo delle delega, inviata dal ministro della giustizia per il parere del Csm non conteneva alcun riferimento all’ipotesi del test psicoattitudinale, introdotto dopo che era stato inviato il parere e quando ovviamente non vi era più alcuna possibilità da parte del Consiglio di esprimere il suo parere, pur se non poteva certamente sfuggire al ministro che, nel caso, non si trattava certamente di una aggiunta di dettaglio, ma di una scelta assai dibattuta e contrastata e sulla quale, come detto, vi erano stati specifici precedenti.
La cosa è resa palese dalla lettera aperta inviata a tutti i consiglieri del Csm il 15 maggio 2024 e firmata da 414 magistrati con la quale si chiedeva al Consiglio di esprimere un “motivato e deciso parere contrario” alla proposta di inserire un test psicoattitudinale, giudicando lo stesso “inutile, dannoso, incoerente, insidioso, pericoloso, preoccupante ed offensivo”.
6. Segue: i test della personalità tra test psicoattitudinali e test psicodiagnostici. La verifica della “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria” e la ricerca dei relativi parametri di riferimento. Gli aspetti procedurali. La collocazione del test nel procedimento concorsuale; la relazione tra test e successivo colloquio; lo svolgimento del colloquio insieme alla prova orale sulle materie giuridiche davanti alla commissione di concorso: rilievi critici; la (non) motivazione con la “sola” formula “non idoneo” ed i riflessi circa la possibile ripetizione delle prove di accesso: rilievi critici
Il decreto legislativo ha quindi introdotto un test e un colloquio psicoattitudinale per l’accesso alla magistratura ordinaria.
In materia è chiara la distinzione che corre tra un test di questo tipo, tendente ad accertare se il candidato ha le abilità richieste per svolgere una certa funzione ed i “test psicodiagnostici”, tendenti a rilevare stati di malattia psichica. Così in quest’ultimo caso i disturbi rilevabili sono individuati ad esempio negli stati depressivi o di ansia, nella schizofrenia, nei disturbi ossessivi compulsivi, nel delirio, mentre nel primo caso nella capacità di controllare le proprie emozioni, di gestire situazioni di stress, nella coscienziosità, nell’equilibrio, nella apertura mentale, nella capacità di risolvere i problemi.
Da condividere la conclusione per cui, con riguardo al tema che ci occupa, oltre ai test psicodiagnostici – esclusi dalla lettera della legge – siano da scartare altresì i test di intelligenza, di velocità nella lettura, di precisione o di generica attitudine al lavoro e quindi identificare i test psicoattitudinali in quelli che vengono comunemente chiamati “test di personalità”.
Il carattere un poco improvvisato della scelta operata dal governo pare evidenziato dal fatto che alcuni esponenti dell’area governativa, tra i quali lo stesso ministro Nordio, all’indomani della notizia, tradendo forse la loro reale volontà, hanno fatto riferimento al noto test Minnesota, il quale è senza dubbio alcuno qualificabile e qualificato come test psicodiagnostico.
La legge prevede che il test e colloquio psicoattitudinali debbono servire a verificare “l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”. La presenza di due negazioni (“assenza” “inidoneità”) in luogo di un più lineare “verificare le condizioni di idoneità”, sembra voler indicare che oggetto della verifica deve essere non la presenza di condizioni idoneative, quanto la esclusione di cause di inidoneità, vale a dire una situazione eccezionale rispetto alla normalità.
Logico pertanto che, al fine di predisporre i test e poi di svolgere il colloquio, si renda indispensabile individuare preventivamente quali sono i parametri di riferimento rispetto ai quali fondare la verifica, ossia quali sono le condizioni di inidoneità.
La loro esatta individuazione risulta del tutto necessaria sotto diversi aspetti.
Innanzi tutto per i candidati al concorso, i quali su questa base possono decidere se partecipare oppure no: se viene considerata una condizione l’essere di un’altezza superiore al metro e sessanta, quelli che non la raggiungono eviteranno di presentare domanda.
Inoltre per porre le premesse di una valutazione oggettiva e non rimessa alle libere scelte della commissione esaminatrice.
Infine per affidare poi l’incarico a chi ha la competenza tecnica (esperti di psicometria) di formulare concretamente i test.
Una volta escluso l’utilizzo di test psicodiagnostici o di valutazione del quoziente intellettivo, viene da chiedersi se realmente i test psicoattitudinali applicati al concorso per la magistratura ordinaria allo scopo di escludere i casi limite di inidoneità, abbiamo davvero una qualche utilità. Ciò anche in considerazione del fatto che la “funzione giudiziaria” di cui parla la legge ha caratteristiche profondamente diverse a seconda che faccia riferimento al “lavoro” del consigliere di cassazione, del pubblico ministero, del giudice di famiglia, del giudice del lavoro, del giudice monocratico o del componente di un organo collegiale.
Passando a valutare gli aspetti più strettamente procedurali, il legislatore delegato pone lo svolgimento del test e del colloquio psicoattitudinali in un momento successivo a quello dello svolgimento delle tre prove scritte e quindi solo per coloro che le hanno superate. Il superamento delle prove scritte con l’ammissione all’orale sta a significare, come noto, la quasi certezza di aver superato il concorso, dal momento che in vari casi gli ammessi alla prova orale sono stati in numero minore rispetto ai posti messi a concorso.
Una simile scelta esclude quindi l’ipotesi nella quale con maggiore frequenza vengono utilizzati i test attitudinali ossia quella di collocare la prova all’inizio della procedura concorsuale al fine di operare uno sfoltimento dei candidati che poi sosterranno le prove davvero qualificanti. Allo stesso modo esclude pure quella di porre i test attitudinali una volta terminato il “periodo di prova” durante il quale è stato possibile valutare i soggetti “all’opera” (per i magistrati, si sarebbe potuto pensare a porli dopo il periodo di tirocinio).
Come noto di recente (d.m. 30 maggio 2025, n. 418) i test preventivi di ammissione ai corsi di laurea in medicina sono stati sostituiti da un semestre libero iniziale, con frequenza obbligatoria a corsi su tre discipline (chimica, fisica e biologia), al termine del quale i candidati vengono sottoposti a test aventi ad oggetto le materie seguite durante il semestre.
Le prove, come detto, consisteranno in un test ed in un colloquio, per cui è logico porsi il problema di quale sia la relazione che intercorre tra i due momenti.
Tra coloro che si occupano di psicometria troviamo infatti chi ritiene che netta prevalenza debba essere riconosciuta ai risultati del test, in quanto certamente più oggettivo e meglio valutabile e motivabile, tanto da ritenere giustificata l’esclusione del colloquio in caso di assoluta insufficienza del test.
Altri invece al contrario vedono nel colloquio il momento più qualificante, potendo chiarire ed approfondire le risultanze del test e quindi meglio accertare la personalità del candidato.
Nel nostro caso il legislatore delegato parrebbe aver optato per la seconda impostazione, dal momento che prevede che i test siano sostenuti “esclusivamente ai fini dello svolgimento del colloquio psicoattitudinale”.
Se l’elemento centrale risulta essere quello del colloquio, la relativa disciplina non può non suscitare qualche perplessità. Generalmente si ritiene che un colloquio di questo genere debba essere condotto e soprattutto giudicato da persona esperta in psicologia e che si svolga in forma riservata, garantendo l’anonimato e la riservatezza per la veridicità del risultato e per non porre in imbarazzo la persona esaminata.
Al contrario il legislatore delegato ha stabilito che il colloquio sia diretto dal presidente della commissione (quindi da un esperto di diritto), al quale lo psicologo è solo chiamato a dare un “ausilio”, che si svolga di fronte all’intera commissione competente per la prova orale, la quale collegialmente valuterà la idoneità psicoattitudinale dell’aspirante magistrato. Il giudizio sulla idoneità viene quindi reso da un collegio di giuristi, integrato da uno psicologo in sovrannumero.
La prova di idoneità (rectius di non inidoneità) alla funzione giudiziaria si svolge pertanto secondo le stesse modalità dell’esame orale per le discipline giuridiche previste dalla legge e viene parificata, quanto a modalità di giudizio, alla prova di conoscenza della lingua straniera.
Evidente la differenza che intercorre tra il colloquio psicoattitudinale e l’esame orale di una disciplina giuridica, sia per quanto concerne il particolare contenuto che esclude qualsiasi forma di compensazione tra le differenti materie, sia per la natura escludente propria del colloquio.
Parrebbe infatti che l’accertata condizione di inidoneità alla funzione giudiziaria debba escludere comunque, a prescindere da ogni altra valutazione, il superamento della prova.
Per questo logica vorrebbe che il colloquio si tenesse prima dell’orale vero e proprio e che l’accertata inidoneità fosse preclusiva all’esame orale sulle discipline giuridiche. Ciò ad evitare la situazione un po' paradossale di un candidato che supera a pieni voti tre prove scritte in diritto civile, penale ed amministrativo, che altrettanto fa con le diciassette materie giuridiche previste per l’orale, salvo poi, sulla base di un colloquio psicoattitudinale, alla fine sentirsi dire “lei non è idoneo alla funzione giudiziaria”.
L’insufficienza nel colloquio psicoattitudinale – al pari di quello sulla lingua straniera – è motivata “con la sola formula ‘non idoneo’”, quindi attraverso una non motivazione la quale, se può aver un senso per la prova linguistica, appare davvero assai discutibile se riferita ad un test e colloquio psicoattitudinale.
Sembrerebbe infatti necessario che il candidato possa sapere per quali ragioni è stato giudicato inidoneo alla funzione giudiziaria, certamente ai fini di un eventuale ricorso in sede giudiziaria, giustificato tra l’altro anche dal fatto che una simile valutazione potrebbe pregiudicare il candidato pure per altri concorsi diversi da quello per la magistratura ai quali egli intenda presentarsi.
La legge, di recente modificata, ha esteso a quattro le possibili prove di accesso al concorso per magistrato ordinario alle quali l’interessato può partecipare.
A fronte di test e colloquio sui tratti della personalità che hanno dato come risultato la inidoneità del candidato a svolgere funzioni giudiziarie, se è vero che i tratti della personalità sono per definizione stabili (altrimenti non potrebbero essere definiti come tali), viene da chiedersi quali siano gli effetti di un simile risultato nei riguardi del candidato che intenda ripetere la prova.
Facile capire come rimediare ad una insufficienza nel diritto civile o nel diritto penale o anche nella conoscenza di una lingua straniera, ma come rimediare ad una non motivata “inidoneità alla funzione giudiziaria”?
Forse sarebbe più logico specificare che chi ha mostrato, a seguito di attendibili prove psicoattitudinali, la presenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria non possa ripetere l’esame di accesso o, qualora si dovesse accedere all’idea che nel tempo i tratti della personalità possono cambiare, sia nuovamente sottoposto al test ed al colloquio in via preliminare rispetto alle altre prove, scritte e orali.
7. Segue: i risultati a breve termine della introduzione di test psicoattitudinali per la delegittimazione della magistratura ed i rischi a più lungo termine per la indipendenza dei magistrati. Il giudizio fortemente critico degli psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana e la significativa esperienza francese: le ragioni della introduzione nel 2009 del test psicoattitudinale e le ragioni della sua eliminazione nel 2017, a seguito dei risultati ricavati dalla sua applicazione pratica
L’applicazione pratica della innovazione in parola darà la misura della opportunità ed efficacia della stessa. Lanciandomi in una previsione, ed accettando il rischio di venire clamorosamente smentito, credo che pochissimi (forse nessuno) saranno di fatto gli esclusi per “assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria”.
La previsione di un test psicoattitudinale ottiene comunque a mio avviso un risultato nel breve periodo e potrebbe costituire un grave rischio per l’indipendenza della magistratura a più lunga scadenza.
Nel breve periodo la misura si inserisce armonicamente nel processo in corso di delegittimazione della magistratura agli occhi dei cittadini, specie attraverso l’accusa di politicizzazione e di volersi sostituire alle scelte spettanti al legislatore (v., volendo, Romboli, Magistratura e politica dalla finestra del Csm. I progetti di revisione costituzionale e la pratica di delegittimazione della magistratura, in Questione giustizia, 11 giugno 2025).
Prevedere un test psicoattitudinale per l’accesso alla magistratura ordinaria non può non far pensare alla presenza nella stessa di soggetti psichicamente instabili o mentalmente disturbati.
Una verifica fondata, per le ragioni che ho cercato di evidenziare, su elementi dai contorni sfuggenti e per niente oggettivi e relativi a caratteri attinenti alla personalità può rischiare, in tempi più lunghi, di trasformarsi in un pericoloso strumento per escludere persone non conformiste e per incidere negativamente sulla selezione degli aspiranti magistrati.
Del resto un vasto gruppo di psichiatri e psicologi membri della Società psicoanalitica italiana, nell’aprile 2024 aveva espresso “la più decisa contrarietà, disapprovazione e preoccupazione” riguardo alla ipotesi di istituire test psicoattitudinali per l’accesso alla magistratura, attraverso una critica soprattutto “tecnica” in ordine alla capacità di selezionare i futuri magistrati vagliando la loro specifica “idoneità psicoattitudinale” (“nessun tecnico, anche soltanto minimamente competente in materia, saprebbe in coscienza avallare una simile supposizione o presunzione”).
Nella suddetta dichiarazione i firmatari sottolineavano altresì come la commissione giudicatrice, non avendo alcun vero ancoraggio scientifico, sarebbe indotta ad un affidamento, “se non ad una subordinazione all’ordinamento politico del momento. L’operato di simili esperti correrebbe così il rischio di adeguare le proprie risposte ‘diagnostiche’ all’aspettativa di quella domanda ‘politica’ che li ha cooptati come suoi funzionari. Il risultato di tutto ciò sarebbe, con tutta evidenza, negativo per la psichiatria, per la psicologia e altrettanto inopportuno e sfavorevole per la magistratura, per la giustizia e per la cultura del nostro paese”.
Significativa può essere in proposito l’esperienza francese, che vale quindi la pena di ripercorrere seppure in estrema sintesi.
Nel 2001 alcuni bambini parlarono di abusi sessuali subiti ad Outreau (da qui la vicenda nota come Affaire Outreau), per i quali furono accusate quaranta persone. I relativi processi si svolsero negli anni 2004-2005, con una serie di condanne.
Nel 2005 in appello a Parigi tutti gli imputati furono completamente assolti ed il giudizio di primo grado si rivelò un enorme errore giudiziario, con conseguenti forti critiche al sistema giudiziario. Fu pure istituita una commissione parlamentare d’inchiesta (2006) che mise in evidenza gravi errori nelle indagini e nella valutazione delle prove.
Il caso, che è rimasto come simbolo di “errore giudiziario”, portò ad una serie di riforme del sistema giudiziario, fra le quali la introduzione nel 2009 di un “test di attitudine e di personalità”, con lo scopo di identificare eventuali fragilità psicologiche o tratti di personalità incompatibili con la funzione giudiziaria.
La prova era costituita da un test di 240 domande da compilare in tre ore, seguite da un colloquio di mezz’ora condotto da un magistrato e da uno psicologo ed era collocata dopo le prove scritte e le prove orali di ammissione e prima del “grand oral” finale davanti alla commissione del concorso. Questa riceveva i risultati del test psicoattitudinale come elemento di informazione supplementare (un parere aggiuntivo), i quali non costituivano mai una barriera autonoma per l’accesso alla prova orale finale.
L’applicazione di simile innovazione si rivelò di scarsa utilità pratica, in quanto non forniva indicazioni utili alla selezione dei candidati, di dubbia validità scientifica, per la mancanza di basi solide in psicometria e possibile strumento di selezione politica o ideologica, con il rischio di escludere candidati sgraditi sotto una veste pseudo scientifica.
Per queste ragioni il 10 maggio 2017 il test psicoattitudinale fu eliminato.
Il sindacato dei magistrati, in un comunicato stampa pubblicato nella stessa data, poneva in rilievo come “la causa del malfunzionamento giudiziario è stata erroneamente attribuita alla personalità dei giovani magistrati priva di ‘spessore umano’, il che ha dato origine all'idea di una soluzione miracolosa, tanto fantasiosa quanto pericolosa: un test per individuare tratti della personalità incompatibili con l'esercizio delle funzioni giudiziarie. Questa analisi ha trascurato la riflessione essenziale sulla procedura penale e sul funzionamento dell'istituzione, in particolare per quanto riguarda la custodia cautelare e il diritto a un giusto processo (…). Non è stato per sfiducia di principio in qualsiasi modifica al concorso o per assecondare un corporativismo fuori luogo che abbiamo chiesto l'abolizione di questi test, ma piuttosto perché sono completamente inaffidabili e inutili. Una relazione presentata lo scorso ottobre da una task force presieduta da giudici di alto livello ha ribadito questo punto, denunciando una pericolosa apparenza di scientificità in questi test, che non migliora in alcun modo il reclutamento dei giudici. Come possiamo seriamente immaginare che questi test psicometrici e di personalità, soggetti a una valutazione necessariamente riduttiva e utilizzati, in un inquietante mix di generi, da una coppia psicologo-magistrato, possano riflettere la complessità della personalità di una persona e le sue capacità di diventare magistrato? (…) In ogni caso, queste competenze possono essere valutate solo dopo una solida formazione, in cui i magistrati in formazione beneficino di un ambiente di supporto basato su situazioni reali, realmente rappresentative della realtà giudiziaria. Queste sono tutte strade per promuovere un sistema giudiziario umano e aperto alla comunità”.
Nota dell’autore
Il saggio è destinato agli scritti in onore di Michele Ainis.
Il lavoro trae spunti ed argomenti dai lavori della VI commissione del Csm, della quale ho fatto parte dall’inizio della attuale consiliatura fino ad oggi.
Desidero ringraziare per questa esperienza e per quanto ho appreso dalle approfondite e spesso appassionate discussioni, i miei colleghi di commissione, a partire dai due presidenti (Marcello Basilico e Roberto D’Auria) e da tutti gli altri componenti (Antonello Cosentino, Claudia Eccher, Roberto Fontana, Felice Giuffrè, Maria Luisa Mazzola, Eligio Paolini e Dario Scaletta).
Immagine: particolare da Ritratto di magistrato, olio su tela – Scuola italiana, XVIII secolo.
Con la maratona oratoria “Al centesimo catenaccio” Area Dg., in occasione del suo 5° Congresso nazionale, ha voluto portare ancora una volta l’attenzione sulla questione del sovraffollamento carcerario, punta dell’iceberg di un sistema, quale quello penitenziario, che versa in una crisi drammatica e ingravescente. Le statistiche ministeriali al 31.1.2025 restituiscono numeri sconvolgenti: 63.167 sono le persone recluse, oltre 11.800 in più oltre la capienza regolamentare, questa stessa stimata in eccesso, perché è noto che, al di là del dato ufficiale, la capienza effettiva è pari 46.706 posti disponibili, di talché in questo momento sono recluse nelle nostre carceri 16.000 persone in più rispetto al limite massimo regolamentare. L’indice medio di sovraffollamento è pari al 134,29%, l’83 % degli istituti sono sovraffollati e il 33% ha un indice di affollamento pari o superiore al 150%, con punte che hanno superato quest’anno in alcuni casi il 200%.
Ma i numeri, pur sconvolgenti, non restituiscono appieno la gravità della situazione, che è fatta di vite e corpi ristretti per mesi e anni in spazi detentivi sempre più ridotti e angusti, in ambienti spesso degradati; persone costrette ad un’umiliante promiscuità, a dividere un’offerta trattamentale ed un supporto educativo – istruzione, formazione, lavoro, attività ricreative, affettività etc.- sempre più esigue perché le risorse non aumentano, mentre aumenta esponenzialmente la platea dei fruitori. Sovraffollamento significa anche un accesso sempre più difficile ed aleatorio alle cure e alle terapie, e ciò in carceri che contano oltre il 32% di tossicodipendenti, una percentuale elevatissima di malati psichiatrici e una popolazione che necessita di cure e controlli. Sessantaquattro sono le persone ristrette suicidatesi dall’inizio dell’anno in carcere, in un luogo in cui nessun suicidio è tollerabile perché i detenuti sono sotto la custodia e, prima ancora, sotto la tutela dello Stato e delle Istituzioni penitenziarie. Il sovraffollamento favorisce tanto l’autolesionismo, che presenta anch’esso numeri in costante crescita, quanto il suicidio: secondo il report del Garante nazionale, dei 54 istituti in cui si sono verificati suicidi nel 2024, ben 51 erano sovraffollati.
Questa situazione involge anche chi in carcere quotidianamente vi lavora: polizia penitenziaria, direttori, educatori e psicologi, medici, la magistratura di Sorveglianza, i quali, esposti a sempre maggiore frustrazione e sfiducia, faticano a svolgere il loro mandato istituzionale che è, anzitutto, quello di alimentare la speranza per il cambiamento e accompagnare le persone detenute alla rieducazione e al reinserimento sociale e lavorativo.
Con la maratona oratoria ci proponiamo di raccontare tutto questo attraverso la testimonianza di coloro che quotidianamente operano nel carcere e per il carcere, per far comprendere, ai decisori politici, anzitutto, ed all’opinione pubblica, che se la pena si riduce, come in effetti rischia di divenire, mera coercizione della libertà personale, afflizione e sofferenza, essa tracima in un trattamento inumano e degradante vietato dall’art. 27 Cost. e dall’art. 3 CEDU, esponendo così ancora una volta il nostro Paese all’umiliazione di una nuova condanna della Corte Europea.
Il sovraffollamento è un fenomeno non recente (i provvedimenti clemenziali amnistia e indulto succedutisi dal 1942 al 2006 sono stati ben 35), ma che è cresciuto in modo esponenziale a far data dal 1991, assumendo così nel tempo genesi multifattoriale e carattere insieme emergenziale e strutturale, tale perciò da richiedere risposte efficaci tanto nell’immediato, quanto sul piano sistemico. Le proposte e soluzioni avanzate finora dal Governo e dalla maggioranza parlamentare appaiono del tutto inadeguate o rischiano financo di aggravare le presenze in carcere. Nel luglio scorso - di fatto così sterilizzando il dibattito parlamentare sulla proposta dell’On.le Giachetti sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata - è stato approvato il D.L 92/2024, contenente, tra l’altro, una riforma dell’istituto della Liberazione anticipata presentata quale misura di mitigazione del sovraffollamento, ma rivelatasi del tutto inefficace, tanto che dal 31 luglio 2024 al 31.08.2025 si sono registrate oltre 2000 presenze in più nelle carceri italiane. E mentre il nuovo Piano carceri varato dal Governo nella promessa di realizzazione di diecimila nuovi posti detentivi in due anni, appare tanto velleitario, per l’oggettiva complessità e costi di una tale impresa, quanto inadeguato rispetto al tasso di crescita (+ 12.600 presenze dal 2020 al 2025), con il nuovo Pacchetto sicurezza D.L. n.48/2025 sono state introdotti nuovi reati, nuove aggravanti e nuove fattispecie ostative specifiche dei detenuti.
Il sovraffollamento carcerario non è un fenomeno ontologicamente connesso al carcere, né la sua soluzione si traduce necessariamente in una deflessione sul versante della difesa sociale, ma devono e possono essere trovate soluzioni capaci di coniugare i diritti fondamentali dei detenuti, in primis la tutela della dignità umana, con il bene della sicurezza.
Con la maratona oratoria ci proponiamo, perciò di creare un momento di confronto tra magistrati, avvocati, garanti, operatori, intellettuali e giornalisti, sulle soluzioni, sui rimedi e sulle misure di mitigazione adottabili, così da offrire un contributo di proposte utili al dibattito pubblico ed alle scelte che devono impegnare i nostri decisori politici.
Lunedì 6 ottobre prossimo Area avvierà le iniziative che porteranno al suo congresso annuale. Presso la sala di rappresentanza del Comune di Genova, dalle 17.00, si parlerà di La riforma Nordio: una riforma della magistratura che non serve alla giustizia. A chi scrive sarà affidata una (breve, come di norma si precisa) introduzione, di taglio storico. E anticipo qui le linee generali.
Il dibattito su una separazione tra requirenti e giudicanti è in effetti risalente nel tempo. Lasciando da parte il lavoro della Costituente, nei primi anni ’60 proprio alla magistratura “progressista” capitò talvolta di proporre i PM come «corpo distino dalla Magistratura giudicante», ma per una disarticolazione di quella che Nello Ajello, in una storica inchiesta su l’Espresso del 1965, chiamava le “toghe di piombo”, l’insieme dei magistrati tradizionalisti che venivano dall’esperienza fascista. Non era forse opportuno avere figure professionali preparate specificamente all’attività di indagine, in un contesto - culturale, sociale e politico – in febbrile trasformazione? Si tratta della stessa logica che anima qualche decennio dopo le riflessioni di Giovanni Falcone, proprio nell’ultimissima fase della propria vita. Anche qui, però, è indispensabile contestualizzare. Il magistrato palermitano, dopo la epocale celebrazione del maxiprocesso, aveva subìto una serie di cocenti “sconfitte” professionali. Gli era stata negata innanzi tutto la guida del pool antimafia dopo la partenza di Caponnetto: nonostante la sua specialissima competenza, non era il più anziano degli aspiranti alla direzione dell’ufficio istruzione di Palermo. Medesimi furono gli argomenti con cui subito dopo fallì la nomina ad Alto commissario per la lotta alla mafia. La stessa “superprocura”, poi Procura nazionale antimafia, nasceva dall’idea di una specializzazione, da una sua visione di PM “moderno” uscito dalle pagine del nuovo codice di procedura penale. Larga parte della magistratura – Magistratura democratica, ma non solo - era invece contraria alla sua istituzione, per la paventata vicinanza di questo organo all’esecutivo. A maggio del 1992, pochi giorni prima della strage di Capaci, in una lezione palermitana, annotava che «il pubblico ministero dipende sì dalla magistratura ma rispondendo a esigenze e a istanze decisionali diverse da quelle della magistratura».
Erano i magistrati a non comprendere le riflessioni, assai minoritarie, di Falcone? O si sbagliava Falcone? Il nuovo codice di rito aveva disegnato un “nuovo PM” (il magistrato siciliano lo aveva sottolineato con largo anticipo) molto più centrale che in passato; più di prima “inquirente”, che non requirente. Più “esposto” mediaticamente, come la vicenda di Manipulite dimostrava proprio in quel torno di tempo. Le sentenze della Consulta del 1992, secondo la dottrina quasi unanime, avevano smantellato l’impronta accusatoria del 1988, e una certa spinta della magistratura forse c’era stata. Capisco possa risultare urticante leggerlo in questa sede, ma lo sviluppo del populismo giudiziario ha giocato un ruolo non secondario nel dibattito istituzionale successivo, e non è stato di aiuto per la difesa dell’indipendenza dei magistrati. Agli storici, e alla dottrina giuridica, questo appare oggi chiaro, come appare chiaro un certo atteggiamento autoreferenziale della magistratura associata.
Anche oggi, sulla separazione, non “mettersi alla testa” di una riforma della pubblica accusa, da parte di ANM in particolare, potrebbe rivelarsi infine un errore costosissimo. Già l’argomento che solo l’1%, o poco più, di PM passa alla funzione giudicante a chi scrive pare errato. Si potrebbe facilmente rispondere che allora proprio la realtà di fatto, due esperienze professionali nella stragrande maggioranza dei casi radicalmente distinte, giustifica una formalizzazione costituzionale. E invece, al contrario, ai PM – cui è affidato un potere che necessariamente può essere terribile - si dovrebbe probabilmente chiedere di aver fatto obbligatoriamente anche il giudice, proprio sul presupposto dell’unità profonda della funzione di magistrato: dal difficilissimo esercizio del giudicare, si può imparare un modo misurato e prudente di accusare. Magari con valutazioni della professionalità maggiormente stringenti e stilate anche da non magistrati, e (almeno) minime verifiche dei costi/benefici nelle operazioni investigative.
Pensare invece a una semplice dimidiazione dell’ordine giudiziario ha sostanza semplicemente punitiva, e di questa materia è fatto il “sogno” berlusconiano di separare in due la magistratura, d’altronde composta da “malati di mente”. E invece, al netto dei tanti errori, la magistratura italiana – lo dice un “laico” - rimane una straordinaria riserva della Repubblica e per sapere tecnico è fra le migliori al mondo.
Il progetto della destra potrebbe spingere la pubblica accusa all’interno di un alveo culturale e operativo che è esattamente quello che i “garantisti”, fautori della separazione delle carriere, vogliono contrastare. Il magistrato inquirente rischierebbe il rango di “avvocato della polizia”. E non si continui a ripetere che, alla luce del testo del disegno di legge costituzionale, non c’è rischio di subordinazione del PM all’esecutivo. Lo ha scritto autorevolmente Marcello Pera, ora senatore di Forza Italia; con un PM separato, che però mantiene le prerogative del magistrato, in particolare senza vincolo gerarchico, e che diventa via via più forte, con un proprio organo di governo autonomo, si generebbe uno sbilanciamento, «un pericolo per la democrazia. (…) Sembra allora chiaro che la sola separazione non basta. (…) Occorre necessariamente rivedere la Costituzione». Come? Reinserendo la gerarchia per i PM, modificando la loro autonomia e indipendenza rispetto a quella riservata ai giudicanti.
E la riprofilatura del potere esecutivo, nel senso del “premierato”, sarà a breve il nuovo orizzonte “riformatore” della maggioranza. Una costituzione “nuova”, un disegno complessivo cui certo non può essere negata una profonda coerenza interna. Non occorre essere dei profeti per comprendere quali esiti successivi potrà avere la pubblica accusa in Italia.
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