ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Introduzione - Parte I A) 2. Il Consiglio d’Europa, la Convenzione europea dei diritti umani e la Corte europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) con sede a Strasburgo - 3. La Corte EDU - 4. Il giudizio davanti alla Corte EDU e l’esecuzione delle sentenze - 5. La Convenzione europea dei diritti umani e l’ordinamento italiano - B) 6. L’Unione europea, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e la Corte di Giustizia dell’unione europea (CGUE) con sede in Lussemburgo - 7. Le fonti del diritto dell’unione europea - 8. Le istituzioni dell’Unione europea - 9. Il sistema di tutela giurisdizionale: la CGUE e la sua giurisprudenza - 10. Le competenze dell’Unione europea 11. Le competenze espressamente attribuite all’Unione europea dai Trattati - 12. Le competenze per valori, scopi e le disposizioni di applicazione generale poste a fondamento dell’Unione europea - 13. Le competenze per principi: la tutela dei diritti fondamentali e i rapporti tra la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFUE) e la Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) - 14. L’Unione europea e l’ordinamento italiano - Parte II C)15. Quante e quali competenze sono state realmente cedute a livello sovranazionale? - 16. La cessione di competenze basata sul principio di attribuzione - 17. La cessione di competenze in favore dell’ordinamento sovranazionale basata sui valori, sugli scopi, sulle disposizioni di applicazione generale del TFUE e sui principi generali - 18. La cessione di competenze basata sulla tutela dei diritti fondamentali - 19. Una nuova gerarchia delle fonti - 20. Le operazioni che deve compiere il giudice comune - 21. Conclusioni.
1. Introduzione
La disciplina sovranazionale ha un impatto sempre maggiore nella nostra esperienza quotidiana.
Guardando alle riforme degli ultimi anni, in qualsiasi settore, si scopre che, a monte della nuova disciplina, vi è un atto dell’Unione europea oppure una sentenza della CGUE, che ne detta i principi o ne impone l’adozione.
Lo scopo di questo contributo è quello di cercare di fare il punto sulla situazione e di comprendere quale sia il margine di manovra che è rimasto agli ordinamenti nazionali, come il nostro, che hanno aderito sia all’Unione europea che al Consiglio d’Europea.
A tal fine, mi è sembrato opportuno suddividere lo scritto in due parti.
Una prima parte, di natura istituzionale, nella quale si descrive, prima, il Consiglio d’Europa e la CEDU, con sede a Strasburgo e, poi, l’Unione europea e la Corte di giustizia dell’unione europea, con sede in Lussemburgo.
Nella seconda parte, di natura più critica e valutativa, si focalizza l’attenzione sulla reale estensione delle competenze dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa (e quindi della CEDU), confrontandole con le competenze previste dal nostro art. 117 Cost.
Infine, si rappresenta che è in atto un vero e proprio mutamento di paradigma - dallo stato costituzionale di diritto, verso uno stato costituzionale di diritto sovranazionale - e si rassegnano delle conclusioni che, in realtà, più che altro, vorrebbero essere uno spunto per l’apertura di un dibattito, teso a coniugare le nostre categorie giuridiche tradizionali con le fonti sovranazionali e sovraordinate.
PARTE I A)
2. Il Consiglio d’Europa, la Convenzione europea dei diritti umani e la Corte europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) con sede a Strasburgo
Nel 1948 si svolse il Congresso dell’Aia sotto la presidenza di Winston Churchill e con la partecipazione dei più importanti leader europei, tra i quali merita menzione, Altiero Spinelli.
Il Congresso dell’Aia diede il via ai lavori per l’istituzione del Consiglio d’Europa che si conclusero con la sottoscrizione del Trattato di Londra del 5 maggio 1949, ratificato dall’Italia con legge 23 luglio 1949, n. 433.
Con il Trattato di Londra venne approvato lo Statuto del Consiglio d’Europa con sede a Strasburgo.
Gli organi del Consiglio d’Europa sono i seguenti:
- Il Segretario generale: guida l'Organizzazione, fornendo una gestione strategica;
- Il Comitato dei Ministri: è il principale organo decisionale e rappresenta gli Stati membri;
- L’Assemblea parlamentare: è il forum democratico per il monitoraggio e il dibattito tra i parlamenti nazionali;
- Il Congresso dei poteri locali e regionali: rafforza la democrazia locale e regionale;
- La Corte europea dei diritti dell’uomo: pronuncia sentenze su ricorsi individuali o contro gli Stati membri;
- il Commissario per i diritti umani: promuove il rispetto dei diritti umani negli Stati membri;
- Gli organismi di monitoraggio e consulenza: guidano gli Stati membri e controllano che rispettino gli impegni assunti.
Oggi il Consiglio d’Europa conta ben 46 Stati membri (la Russia era entrata nel 1996 e ne è uscita nel 2022)[1].
L’azione del Consiglio d’Europa si dirige in tre direzioni:
a) la tutela della democrazia tra i paesi membri;
b) la tutela dello Stato di diritto;
c) la tutela dei diritti umani;
Primo e tuttora più importante documento prodotto dal Consiglio d’Europa è la Convenzione (europea) dei diritti umani (CEDU), aperta alla firma degli Stati membri (art. 59 Conv.)[2].
La Convenzione venne firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed è stata ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848.
La Convenzione è suddivisa in tre titoli:
-il titolo I, rubricato “diritti e libertà” prevede i c.d. diritti fondamentali (art. 2-18).
- il titolo II istituisce e regola la Corte Europea dei diritti dell’Uomo[3] (art. 19-51)
- il titolo III è rubricato “disposizioni varie” (art. 52-59)
Il testo originario della Convenzione ha subito nel tempo integrazioni e modifiche attraverso vari protocolli[4].
Solo nel 1998, a seguito dell’entrata in vigore del protocollo emendativo n. 11, ogni Stato parte della Convenzione ha accettato (senza più poterla discrezionalmente evitare) la giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e la possibilità per ogni persona (fisica o giuridica) o ente non governativo di presentare un ricorso alla Corte direttamente e senza filtri.
3. La Corte EDU
La Corte è composta da tanti giudici quanti sono gli stati membri del Consiglio d’Europa (attualmente 46).
I giudici sono eletti dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa sulla base delle liste di tre candidati proposte da ciascuno Stato scelti tra giudici e giureconsulti di riconosciuta competenza.
Il mandato, non rinnovabile, è della durata di nove anni (art. 22 e 23 CEDU)
La CEDU è competente per risolvere ogni questione di interpretazione e applicazione della Convenzione (art. 32 Conv.). Con le sue sentenze essa risolve controversie relative ai diritti e alle libertà convenzionali, sollevate da ricorsi individuali (art. 34 Conv.) o da ricorsi interstatali (art. 33 Conv.).
Accanto alla propria funzione di decidere il caso concreto, la giurisprudenza CEDU ha un valore più generale che si esplica in questi tre punti:
- la sentenza ha valore di precedente al quale la CEDU si richiama per decidere i successivi casi analoghi;
- la sentenza ha valore di cosa giudicata nel caso concreto che è stato deciso;
- la sentenza ha valore di “cosa interpretata” in quanto tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa ricevono, dalle sentenze e dalle decisioni della Corte, l’indicazione vincolante del contenuto attuale che la Corte assegna ai singoli diritti e libertà.
A fronte di una sentenza della CEDU, tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa sono tenuti ad adeguarsi alla sua ratio decidendi (art. 41 e 46 CEDU).
In forza dello Statuto del Consiglio d’Europa, degli artt. 1, 19, 32 CEDU, e del regolamento interno della CEDU, gli Stati membri sono tenuti a osservare la Convenzione, nell’interpretazione che ne dà la CEDU.
4. Il giudizio davanti alla Corte EDU e l’esecuzione delle sentenze
La Corte EDU è chiamata a valutare la proporzione in concreto dell’interferenza statale che il ricorrente lamenta, in relazione ad un suo diritto tutelato dalla CEDU.
La CEDU non sussume il fatto in un’astratta previsione di legge, bensì confronta il fatto (per come ricostruito nei giudizi precedenti e comprensivo del diritto che gli è stato applicato in ambito nazionale) con le esigenze di tutela che derivano dalla Convenzione.
Di regola, la Corte non svolge attività istruttoria.
Nel giudizio della Corte EDU è necessario distinguere due fasi.
4.1. La prima coincide con l’applicazione dei criteri sulla competenza
Il ricorrente deve indicare di aver subito un’ingerenza in uno dei diritti previsti dalla Convenzione e che lo Stato debba rispondere di tale lesione.
Se la Convenzione è applicabile e la Corte competente a esaminare il ricorso, si può ritenere che il ricorrente abbia accesso alla protezione.
La Corte EDU è competente a esaminare il ricorso qualora si verifichino le seguenti condizioni:
a) la violazione sia avvenuta nell’ambito della giurisdizione dello Stato (competenza ratione loci);
b) gli atti che danno luogo all’asserita violazione siano avvenuti successivamente alla ratifica della Convenzione da parte dello stato convenuto e prima della sua denuncia (competenza ratione temporis);
c) il diritto di cui il ricorrente lamenta la lesione sia previsto dalla Convenzione (competenza ratione materia);
d) il ricorrente sia la vittima della lesione di un diritto di cui è titolare o di cui è comunque è portatore (competenza ratione personae);
e) l’asserita violazione sia imputabile a uno degli Stati parte (competenza ratione personae).[5]
Successivamente, la Corte valuta i criteri di ricevibilità in senso stretto del ricorso[6] e, in caso di riscontro positivo, termina così la prima fase del giudizio.
4.2. La seconda fase è quella della c.d. giustificazione della condotta dello Stato.
Lo Stato, in relazione all’azione o omissione che ha posto in essere in relazione ad un diritto previsto dalla Convenzione è chiamato a dimostrare, congiuntamente, i seguenti requisiti:
a) la base legale della propria condotta (o interferenza attiva e/o omissiva): la condotta dello Stato deve essere stata realizzata in attuazione di una normativa interna e deve essere rispettosa degli obblighi negativi (di non ingerenza sul diritto tutelato dalla CEDU) e/o positivi (di adottare misure idonee a proteggere il diritto tutelato dalla CEDU)[7];
b) la propria condotta (o interferenza) deve essere attuata per uno scopo legittimo previsto dalla Convenzione (art. 18 CEDU[8]);
c) la propria condotta deve aver inciso in maniera proporzionata e non discriminatoria sul diritto tutelato dalla Convenzione: il test di proporzionalità è il cuore del giudizio davanti alla CEDU. Lo Stato deve dimostrare di aver adottato (o non adottato), in attuazione degli obblighi negativi o positivi previsti dalla CEDU, misure adeguate a perseguire gli scopi legittimi previsti dalla Convenzione, con il minor sacrificio possibile per il diritto tutelato.
Infine, una volta affrontati tutti questi aspetti, la CEDU stabilisce se, nel caso concreto, con la sua condotta lo Stato ha violato o meno gli obblighi (positivi o negativi) previsti dalla Convenzione in relazione al diritto di cui si discute.
All’esito del giudizio, la CEDU può pronunciare decisioni e/o sentenze.
Tendenzialmente, la decisione non definisce il merito, mentre la sentenza, si.
La sentenza può essere di rigetto o di accoglimento del ricorso.
In caso di accoglimento, se la Corte dichiara che vi è stata violazione della CEDU o dei suoi protocolli, l’art. 41 CEDU prevede:
- la CEDU può condannare lo Stato membro a rimuovere le conseguenze della violazione (restitutio in integrum);
-in subordine, qualora lo Stato dimostri che la restitutio in integrum è materialmente impossibile o che impone un onere eccessivamente sproporzionato, la CEDU accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. Si tratta di un indennizzo che nella pratica si articola solitamente in danno patrimoniale e non patrimoniale. Le sentenze devono essere motivate (art. 45 Conv,) e divengono definitive decorsi tre mesi ai sensi dell’art. 44 Conv.
4.3. La fase esecutiva delle sentenze della CEDU è disciplinata dall’art. 46 e coinvolge lo Stato convenuto inadempiente, il Comitato dei Ministri (organo del Consiglio d’Europa) e la Corte EDU.
Gli Stati si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della CEDU adottando le misure generali idonee ad impedire la reiterazione della violazione (art. 46 par. 1 CEDU).
Tutti gli organi dello stato sono chiamati a tale attività.
Nell’ordinamento italiano, l’art. 5 comma 3, lett. a-bis della legge 400/1988 prevede che il presidente del Consiglio dei ministri promuova gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte EDU nei confronti dello Stato italiano[9].
La procedura relativa al controllo dell'esecuzione delle sentenze è condotta, ai sensi dell’art. 46 CEDU dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con il supporto del servizio dell'esecuzione delle sentenze della Corte e del Segretariato del Consiglio d'Europa.
Il Comitato dei ministri è un organo politico intergovernativo.
Esso è composto dai ministri degli esteri o da loro delegati. Il comitato si riunisce a porte chiuse e dedica quattro sessioni all'anno alla sorveglianza dell'esecuzione delle sentenze.
A partire dal 1 gennaio 2011, il controllo viene esercitato con due modalità: la sorveglianza standard e la sorveglianza rafforzata.
La sorveglianza standard ha ad oggetto le sentenze che lo Stato può eseguire senza la necessità dell’intervento del Comitato dei ministri che si limita a verificare che i piani di bilancio d'azione siano depositati nei termini previsti.
La procedura di sorveglianza rafforzata riguarda i casi che meritano un'attenzione prioritaria da parte del comitato dei ministri: casi che necessitano l'adozione di misure individuali urgenti, le c.d. sentenze pilota, le sentenze che individuano dei problemi strutturali e/o complessi.
La procedura di sorveglianza rafforzata comporta che il comitato dei ministri incarichi il segretariato di mettere in moto una cooperazione più approfondita e attiva nei confronti dello Stato, fornendo tra l'altro: un'assistenza nell'elaborazione e messa in pratica dei piani d'azione; pareri di esperti sulle misure da adottare; programmi di cooperazione bilaterale e multilaterale in relazione a casi che riguardano questioni complesse.
Il comitato dei ministri può fare ricorso a strumenti di pressione politica: dall'invio di lettere e comunicazioni al governo da parte del segretariato, all'adozione di risoluzioni interinali.
5. La Convenzione europea dei diritti umani nell’ordinamento italiano
Con le due storiche sentenze nn. 348 e 349/2007 la Corte Cost. ha affermato:
a) che il contenuto dell’obbligo internazionale derivante dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali corrisponde a quanto si ricava dall’interpretazione datane dalla Corte europea, nella giurisprudenza elaborata nell’esercizio della sua competenza a interpretare e applicare la Convenzione (art. 32 CEDU);
b) che il giudice nell’applicare la legge italiana deve interpretarla in modo da assicurane la compatibilità con la Convenzione;
c) che in caso di impossibilità di interpretazione conforme, è esclusa la possibilità che il giudice disapplichi la legge interna;
d) che in tal caso, invece, il giudice deve sollevare questione di costituzionalità, per il contrasto della legge con l’art. 117 Cost. rispetto al quale la Convenzione opera come norma interposta;
e) che l’incompatibilità della legge interna con la Convenzione determina la sua incostituzionalità, salvo che la Convenzione stessa, nell’interpretazione datane dalla CEDU, sia in contrasto con la Costituzione[10].
Infatti, spetta alla Corte costituzionale verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte EDU, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali, almeno equivalente, al livello garantito dalla Costituzione italiana, poiché occorre tener presente che la maggior tutela che la CEDU può accordare a un diritto fondamentale, significa minor tutela di altri diritti concorrenti previsti dalla Costituzione.
Per questa ragione, il controllo della Corte costituzionale deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento, tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117 comma 1 Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti, contenuta in altri articoli della Costituzione.
5.1. Quanto sopra espresso al punto e), rappresenta la c.d. teoria dei controlimiti elaborata dalla Corte costituzionale.
In sostanza, il Giudice delle leggi si riserva la possibilità, a certe condizioni, ed entro certi limiti, di affermare che il diritto sovranazionale (CEDU oppure dell’Unione europea) non può trovare ingresso nell’ordinamento italiano.
I controlimiti sono più estesi nei confronti della normativa CEDU e meno estesi per la normativa UE.
Infatti, la normativa CEDU non può trovare applicazione in Italia se contrasta con una qualsiasi norma di rango costituzionale, mentre, la normativa europea non può trovare ingresso in Italia solo se contrasta con i principi fondamentali della Costituzione (artt. da 1 a 11 e 139 Cost.) e i diritti inalienabili della persona (art. 2 Cost.)[11].
5.2. Merita qui segnalare che la Corte costituzionale ha cercato di ridurre l’impatto della giurisprudenza evolutiva della Corte EDU con la sentenza n. 49/2015.
La Corte Cost. ha affermato che il vincolo delle norme CEDU deriverebbe sì dall’interpretazione datane dalla Corte EDU, ma solo quando essa abbia dato luogo a “una giurisprudenza consolidata” oppure nel caso delle c.d. “sentenze pilota”[12]
La successiva giurisprudenza della Corte costituzionale non sembra seguire, costantemente, il criterio indicato dalla sentenza 49/2015 ed è prevalente un’analisi di tutta la giurisprudenza CEDU, senza guardare solo a quella “consolidata” (v. Corte Cost. 68/2017, 32/2021, 33/2021).
Questa situazione rischia di esporre l’Italia a responsabilità nell’ambito del sistema della Convenzione europea. Sul piano degli obblighi internazionali dello Stato, infatti, opera l’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, secondo il quale, una parte non può invocare le disposizioni della propria legislazione interna (anche costituzionale) per giustificare la mancata esecuzione di un trattato.
B) 6. L’Unione Europea, la Carta dei diritti fondamentali (CDFUE o Carta di Nizza) e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con sede in Lussemburgo
Il secondo percorso intrapreso dall’Italia è quello che l’ha condotta ad essere membro dell’Unione europea.
L’Unione europea è il risultato di un processo di unificazione, iniziato con la creazione negli anni Cinquanta, delle Comunità europee.
Nel 1951 con il Trattato di Parigi venne istituita la CECA (comunità europea del Carbone e dell’acciaio);
Nel 1957 con i trattati di Roma, ratificati in Italia con la legge 14 ottobre 1957, n. 1203, venne creata sia la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) sia la Comunità economica europea (CEE).
Il primo trattato (istitutivo della CECA) è andato a scadenza naturale nel 2002 e la sua materia è stata considerata assorbita nel mercato comune.
Il secondo trattato (istitutivo della CEEA o Euratom) è ancora in vigore e tale organizzazione internazionale esiste tutt’oggi.
Sebbene i membri appartenenti all'Euratom siano gli stessi dell'Unione europea, l'Euratom non si è mai fuso con essa nelle varie ratifiche dei trattati europei e mantiene tuttora una personalità giuridica separata, nonostante condivida con essa anche l'organo governativo stesso (Commissione europea).
Il terzo trattato (istitutivo della CEE) è stato modificato più volte negli anni fino a giungere all’attuale assetto dell’Unione Europea: nel 2007 con la firma del Trattato di Lisbona, ratificato in Italia con la legge 2 agosto 2008, n. 130 si perviene all’ordinamento dell’Unione europea attualmente vigente.
Ad oggi, i Trattati hanno dato vita ad un ordinamento (comunitario prima e, poi, unionale) autonomo rispetto a quello degli Stati membri, sebbene in questi integrato secondo il principio dell’efficacia diretta e del primato dell’applicazione del diritto dell’Unione europea.
In quanto ordinamento autonomo, quello dell’Unione europea è un sistema dotato di:
- proprie fonti del diritto;
- proprie istituzioni;
- un proprio sistema di tutela giurisdizionale;
- proprie competenze che risultano dalle cessioni di sovranità effettuate dagli Stati membri, in favore dell’Unione.
Vediamo, ad uno ad uno, questi aspetti.
7. Le fonti del diritto dell’Unione europea
L’ordinamento europeo è fondato sulla seguente gerarchia delle fonti:
7.1. gli atti giuridici di diritto primario sono:
a) il Trattato istitutivo dell’Unione Europea (TUE);
b) il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE);
c) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE o Carta di Nizza) che ha lo stesso valore giuridico dei trattati (v. art. 6 par. 1 TUE);
d) i principi generali di diritto dell’Unione europea elaborati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (art. 6 TUE e art. 340 TFUE);
e) le norme di diritto internazionale consuetudinario e pattizio dell’Unione europea con gli stati terzi.
7.2. gli atti di diritto derivato sono (ex art. 288 TFUE):
f) i regolamenti: sono atti giuridici che si applicano automaticamente e in modo uniforme a tutti i paesi dell'UE non appena entrano in vigore, senza bisogno di essere recepiti nell'ordinamento nazionale. Sono vincolanti in tutti i loro elementi per tutti i paesi dell'UE.
g) le direttive: impongono ai paesi dell'UE di conseguire determinati risultati, lasciando al tempo stesso la libertà di scegliere come realizzarli. Gli Stati membri devono adottare le misure necessarie per recepire le direttive nell'ordinamento nazionale e conseguire gli obiettivi stabiliti. Le autorità nazionali devono comunicare tali misure alla Commissione europea.
Il recepimento nel diritto nazionale deve avvenire entro il termine fissato quando la direttiva viene adottata (generalmente entro 2 anni). Quando un paese non recepisce correttamente una direttiva, la Commissione può avviare una procedura d'infrazione.
h) le decisioni: sono vincolanti in tutti i loro elementi. Se designano i destinatari sono vincolanti soltanto nei confronti di questi.
i) le raccomandazioni ed i pareri (che non sono atti vincolanti)
7.3. gli atti non legislativi sono (v. art. 289 TFUE):
- gli atti delegati: sono atti giuridicamente vincolanti che consentono alla Commissione di integrare o modificare elementi non essenziali degli atti legislativi dell'Unione, ad esempio per definire misure dettagliate; gli atti delegati sono adottati dalla Commissione e, se il Parlamento europeo e il Consiglio non sollevano obiezioni, entrano in vigore.
- gli atti di esecuzione: sono atti giuridicamente vincolanti che consentono alla Commissione, sotto la supervisione di comitati composti da rappresentanti dei paesi membri, di creare le condizioni per garantire l'applicazione uniforme delle norme dell'UE.
8. Le istituzioni dell’Unione europea
L’Unione ha personalità giuridica (art. 47 TUE).
Il quadro istituzionale dell’Unione europea è costituito dai seguenti organi (art. 13 TUE):
-Il Parlamento europeo: rappresenta i cittadini dei paesi dell'UE, che lo eleggono direttamente. Adotta decisioni sulle leggi europee congiuntamente con il Consiglio dell'Unione europea. Approva inoltre il bilancio dell'UE. (v. art. 14 TUE; artt. 223-234 TFUE);
-Il Consiglio europeo: è un organo di Stati; è composto dai capi di Stato e di governo degli Stati membri designati secondo i propri ordinamenti costituzionali. Non ha funzioni legislative. È un supremo organo di indirizzo dell’intera Unione (v. art. 15 TUE; artt. 235-236 TFUE):
-Il Consiglio dell’Unione europea: rappresenta i governi dei paesi dell'UE. Il Consiglio dell'Unione europea è il luogo in cui i ministri nazionali di ciascun governo si riuniscono per adottare leggi e coordinare le politiche. I ministri si riuniscono in formazioni diverse a seconda dell'argomento da discutere. Il Consiglio dell'UE adotta decisioni sulle leggi europee congiuntamente con il Parlamento europeo. (v. art. 16 TUE; artt. 237-243 TFUE)
-La Commissione europea: rappresenta gli interessi comuni dell'UE ed è il principale organo esecutivo dell'UE. Utilizza il suo "diritto di iniziativa" per presentare proposte di nuove leggi, che sono esaminate e adottate dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell'Unione europea (art. 17 TUE; artt. 244-250 TFUE)
-La Corte di Giustizia dell’Unione europea: La Corte garantisce il rispetto del diritto dell'UE e la corretta interpretazione e applicazione dei trattati (art. 19 TUE; artt. 251-281 TFUE).
- La Corte dei conti: contribuisce a migliorare la gestione finanziaria dell'UE e a promuoverne la rendicontabilità e la trasparenza, e funge da custode indipendente degli interessi finanziari dei cittadini dell'UE (artt. 285-287 TFUE)
-La Banca centrale europea (BCE) e il Sistema europeo di banche centrali hanno la responsabilità di mantenere stabili i prezzi nella zona euro. Sono inoltre responsabili della politica monetaria e dei tassi di cambio nella zona euro e sostengono le politiche economiche dell'UE. (artt. 282-284 TFUE)
9. Il sistema di tutela giurisdizionale: la CGUE e la sua giurisprudenza
La Corte di Giustizia[13] ha il compito di assicurare “il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati” (art. 19 TUE) sui quali si fonda l'Unione europea, controllando la legittimità degli atti delle istituzioni dell'Ue, vigilando sull’osservanza da parte degli Stati membri degli obblighi derivanti dai trattati e interpretando il diritto dell'Unione su domanda dei giudici nazionali.
La CGUE ha competenza in quattro aree:
-ricorso per infrazione: avente ad oggetto il mancato rispetto del diritto UE da parte delle istituzioni e degli stati membri (art. 258 TFUE);
-ricorso in annullamento: avente ad oggetto l’invalidità di atti adottati dalle istituzioni UE (art. 263 TFUE);
-ricorso in carenza: avente ad oggetto le omissioni da parte delle istituzioni UE (art. 265 TFUE);
- risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale delle istituzioni e degli agenti UE (art. 268 e 340 TFUE).
A queste quattro competenze, nelle quali la CGUE agisce come giudice investito della questione da un ricorso di parte (sia essa pubblica o privata) e giudica su atti e comportamenti di organi e/o istituzioni dell’Ue, oppure di atti e comportamenti dei singoli Stati, pronunciando sentenze di accertamento, costitutive o di condanna, si aggiunge un’ulteriore competenza della CGUE che è quella del c.d. rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE).
La forma di interlocuzione con la Corte di giustizia che ha conosciuto maggiore fortuna e ha consentito l'autentica realizzazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti ai singoli dell'ordinamento Ue è il rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE) esperibile dalle autorità giurisdizionali degli Stati membri.
Queste ultime hanno la facoltà - oppure l'obbligo, se giurisdizioni di ultima istanza[14]- di sottoporre alla Corte questioni di interpretazione dei trattati, o di validità e/o interpretazione degli atti di istituzioni, organi organismi Ue[15], che vengano in rilievo nell'ambito di procedimenti giurisdizionali nazionali.
Il procedimento di rinvio pregiudiziale mira ad assicurare l'unità di interpretazione del diritto dell'unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l'autonomia di tale diritto.
Tramite il rinvio pregiudiziale il giudice nazionale diviene giudice comune del diritto Ue.
Le sentenze interpretative della Corte sono generalmente funzionali alla verifica, da parte del giudice nazionale, della compatibilità del diritto interno con il diritto Ue.[16]
La competenza interpretativa della Corte di Lussemburgo può esplicarsi, a condizione che la controversia rientri nell'ambito applicativo del diritto dell'Unione e che sia effettiva e non irrilevante.
Quanto ai canoni interpretativi utilizzati dalla Corte di giustizia, assumono particolare rilievo l'interpretazione teleologica e il principio dell'effetto utile specie in considerazione delle difficoltà insite nell'impiego del solo criterio dell'interpretazione letterale a fronte di disposizioni normative di diritto primario e derivato, redatte in 24 lingue ufficiali ugualmente facenti fede.
In base a detti criteri l'interpretazione privilegiata dalla Corte Ue è quella meglio atta a realizzare gli obiettivi perseguiti dai trattati istitutivi e dal legislatore europeo[17]. La Corte combinando il criterio sistematico con quello comparativo, è inoltre pervenuta all'elaborazione di nozioni giuridiche autonome da utilizzare nell'interpretazione degli atti di diritto primario e derivato dell'Ue.[18]
Va infine evidenziato come le sentenze della Corte di giustizia siano vincolanti nel procedimento a quo, ma abbiano altresì efficacia erga omnes rispetto a qualsiasi altro caso ove debba farsi applicazione della medesima disposizione di diritto Ue interpretata dalla Corte[19].
Tratteggiati i compiti e le funzioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea, cerchiamo ora di comprendere quale sia l’effettiva estensione della sua giurisdizione (cioè su quali materie essa si pronuncia). Per farlo, bisogna andare a vedere quali sono le competenze dell’Unione europea.
10. Le competenze dell’Unione europea
L’azione dell’Unione europea si distingue in esterna (politica estera) ed interna.
Tralasciando l’azione esterna dell’Unione europea, concentriamoci ai nostri fini sull’azione interna.
Volendo semplificare, le competenze dell’Unione europea si fondano, da un lato, sulla tutela dei diritti fondamentali della persona e, dall’altro, sul diritto pubblico dell’economia (regolamentazione del mercato interno e gestione unitaria della politica monetaria).
Più nel dettaglio, per comprendere che cosa l’Unione europea può fare occorre guardare in tre direzioni.
I) L’Unione europea ha competenza nei settori che le sono attribuiti dai Trattati (art. 4 e 5 TUE e artt. 1 - 6 TFUE)
II) L’Unione europea si fonda su certi valori, persegue certi scopi (art. 2, 3 e 7 TUE) e prevede talune disposizioni di applicazione generale (artt. 8-25 TFUE)
III) L’Unione europea si fonda su certi principi soprattutto in materia di diritti fondamentali (art. 6 TUE)
11. Le competenze espressamente attribuite all’Unione europea dai Trattati
Quanto ai criteri di riparto delle competenze tra Unione e stati membri vengono in rilievo gli articoli 4 e 5 TUE come regole generali e poi, nello specifico quelle del TFUE (art. 2-6).
La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione e l’esercizio delle competenze sui principi di sussidiarietà e proporzionalità. (art. 5 TUE). Questo significa che
all’Unione spetta solo quello che le è attribuito nei trattati, agli stati membri è riservata in via esclusiva la sicurezza nazionale.
La portata del principio di attribuzione risulta attenuata dalla c.d. teoria dei poteri impliciti elaborata dalla CGUE[20].
Nei Trattati, le competenze sono ripartite in: a) esclusiva; b) concorrente; c) generale su definizione di politiche economiche, occupazionali e sociali; d) di sostegno e completamento dell’azione degli Stati membri; e) competenze parallele e non escludenti quelle degli Stati membri.
Vediamole ad una ad una.
a) La competenza esclusiva dell’Unione: solo l’Unione può legiferare e adottare atti vincolanti nei seguenti settori (v. art. 3 TFUE):
a) unione doganale;
b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno
c) politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l'euro;
d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca;
e) politica commerciale comune.
L'Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell'Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata.
b) La competenza concorrente dell’Unione con quella degli stati membri: gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l'Unione non ha esercitato la propria. Se e quando l’Unione esercita la propria competenza, la normativa nazionale cede il passo a quella unionale. Ciò avviene nelle seguenti materie (art. 4 TFUE):
a) mercato interno;
b) politica sociale, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente trattato
c) coesione economica, sociale e territoriale;
d) agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare;
e) ambiente;
f) protezione dei consumatori;
g) trasporti;
h) reti transeuropee;
i) energia;
j) spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
k) problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente trattato.
c) La competenza generale sulla definizione delle politiche economiche, occupazionali e sociali (v. art. 2 par. 3 TFUE) che viene poi esplicitata nell’art. 5 TFUE che recita:
“1. Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell'ambito dell'Unione. A tal fine il Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche.
Agli Stati membri la cui moneta è l'euro si applicano disposizioni specifiche.
2. L'Unione prende misure per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette politiche.
3. L'Unione può prendere iniziative per assicurare il coordinamento delle politiche sociali degli Stati membri”
d) una competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza in tali settori.
Gli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione adottati in base a disposizioni dei trattati relative a tali settori non possono comportare un'armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri (art. 2 par. 5 TFUE e poi l’art. 6 TFUE):
I settori di tali azioni, nella loro finalità europea, sono i seguenti:
a) tutela e miglioramento della salute umana;
b) industria;
c) cultura;
d) turismo;
e) istruzione, formazione professionale, gioventù e sport;
f) protezione civile;
g) cooperazione amministrativa.
e) Infine, l’art. 4 TFUE prevede altre due competenze a favore dell’Unione che sono parallele e non escludenti quelle degli Stati membri: nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio ed in quelli della cooperazione allo sviluppo e dell'aiuto umanitario.
Nei settori sopra richiamati, l’Unione europea può emanare propri atti legislativi (di diritto derivato: regolamenti, direttive e decisioni) e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha competenza ad interpretare ed emanare le proprie sentenze.
12. Le competenze per valori, scopi e le disposizioni di applicazione generale poste a fondamento dell’Unione Europea
L’art. 2 TUE indica i valori sui quali si fonda l’Unione europea ed afferma che si tratta di valori comuni agli stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
Tali valori sono indicati nel rispetto: della dignità umana, della libertà, della democrazia; dell’uguaglianza, dello Stato di diritto, dei diritti umani.
La violazione dei valori previsti nell’art.2. TUE dà luogo alla sanzione prevista dall’art. 7 TUE: l’Unione, in caso di riscontrata violazione di tali valori può sospendere alcuni diritti che spetterebbero allo Stato interessato in base ai trattati.
L’art. 3 TUE indica gli scopi dell’Unione europea nel perseguimento della pace, dei propri valori e del benessere dei popoli attraverso l’instaurazione di un mercato interno e di una politica monetaria comuni.
Per quanto riguarda il TFUE vengono in rilievo le seguenti disposizioni di applicazione generale che l’Unione è chiamata a perseguire, sempre, attraverso le sue azioni:
-eliminare le ineguaglianze e favorire la parità di genere (art. 8 TFUE);
-promuovere un elevato livello di occupazione, di protezione sociale, di tutela della salute umana (art. 9 TFUE);
-combattere le discriminazioni ingiustificate (art. 10 TFUE);
-tutelare l’ambiente e promuovere lo sviluppo sostenibile (art. 11 TFUE);
-la protezione dei consumatori (art. 12 TFUE);
-il benessere degli animali (art. 13 TFUE);
-promuovere e disciplinare i servizi di interesse economico generale (art. 14 TFUE)
- perseguire la più ampia trasparenza possibile nell’azione (art. 15 TFUE)
- tutelare il diritto di ogni persona alla protezione dei dati personali che la riguardano (art. 16 TFUE)
- divieto di ogni discriminazione basata sulla nazionalità all’interno dell’UE (art. 18 TFUE)
- le norme sulla cittadinanza dell’unione (art. 20-25 TFUE)
13. Le competenze per principi: la tutela dei diritti fondamentali e i rapporti tra la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFUE) e la Convenzione europea dei diritti umani (CEDU).
I diritti umani sono citati dall’art. 2 TUE come valori sul rispetto dei quali si fonda l’Unione.
Allo stesso tempo, l’art. 6 par. 3 TUE afferma che, i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.
I principi generali del diritto dell’Unione sono elaborati dalla Corte di Giustizia dell’unione europea e sono fonte primaria al pari dei trattati istitutivi dell’unione europea e della CDFUE.
La tipologia dei principi generali è ampia. Si distinguono secondo il seguente schema.
13.1. I principi generali del diritto dell’Unione: essi trovano fondamento in varie norme dei Trattati. Ne sono esempio:
a) il principio di non discriminazione;
b) il principio generale di parità di trattamento e di uguaglianza;
c) il principio di libera circolazione;
d) il principio della tutela giurisdizionale effettiva che, in materia processuale, si declina nei principi di effettività e di equivalenza[21].
13.2. I principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri (v. art. 340 par. 2 TFUE). Ne sono esempi:
a) il principio di legalità;
b) il principio della certezza del diritto;
c) il principio del legittimo affidamento;
d) il principio del contraddittorio;
e) il principio di proporzionalità.
13.3. Tra i principi generali del diritto dell’Unione rientra anche la protezione dei diritti fondamentali.
L’art. 6 TUE par. 1 afferma che l’Unione riconosce la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza del 7 dicembre 2000) e che essa ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Al par. 2 afferma che l’Unione aderisce alla CEDU. Tuttavia, tale adesione ancora non è avvenuta poiché l’Unione europea non ha sottoscritto il relativo trattato internazionale[22]
Ad oggi, pertanto, i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali (art. 6 par. 3 TUE).
13.4. La Carta europea dei diritti dell’uomo (CDFUE) è a tutti gli effetti fonte primaria del diritto dell’Unione Europea (v. art. 6 par. 1 TUE).
Il suo contenuto è molto ampio poiché oltre ai diritti di libertà enuncia un catalogo di diritti fondamentali attinenti a ogni settore giuridico (diritto costituzionale, civile, penale, della famiglia, del lavoro, della protezione sociale ecc.) e non limitati alle sole materie di competenza della UE[23].
La CDFUE, in quanto parte del diritto dell’Unione europea è interpretata e applicata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE).
Quanto all’analisi dei rapporti tra CEDU e CDFUE si rinvia agli artt. 51-54 CDFUE, limitandoci qui a rappresentare quanto segue:
- il cittadino può lamentare, direttamente, davanti al proprio giudice nazionale, una lesione di un diritto fondamentale previsto dalla CDFUE, a patto che la lesione sia stata realizzata dallo Stato membro o dall’organo Ue “in attuazione del diritto dell’Unione.” (art. 51 CDFUE);
- L’art. 52 par. 3 CDFUE afferma una clausola di equivalenza per cui, i diritti che si trovano sia nella CEDU che nella CDFUE, hanno lo stesso significato e devono essere interpretati dalla Corte di Giustizia in maniera coerente con la giurisprudenza della Corte EDU.
Le spiegazioni relative alla CDFUE (pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 14.12.2007), sub art. 52, riportano un dettagliato elenco dei diritti equivalenti tra quelli CEDU e quelli CDFUE (che in definitiva sono quasi tutti i diritti previsti dalla CEDU).
L’art. 53 CDFUE vieta un’interpretazione delle disposizioni della Carta che si risolva in una limitazione o lesione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalla CEDU.
Muovendo da questi parametri, la Corte di Giustizia dell’unione europea afferma, sul piano teorico, che il livello di protezione dei diritti fondamentali apprestato dalla CEDU costituisce un minimum standard inderogabile, rispetto al quale la CDFUE può solo apprestare un livello di tutela più elevato.
L'applicazione pratica di tale meccanismo non è altrettanto semplice, essendo evidente la difficoltà di stabilire, in ciascun caso concreto, quale sia lo standard di tutela più elevato poiché, generalmente, e salvo il caso di diritti assoluti e inderogabili, ogni innalzamento del livello di protezione di un diritto è controbilanciato dalla corrispondente limitazione di altri diritti fondamentali concorrenti.
14. L’Unione europea e l’ordinamento italiano
Questo tema va affrontato, distinguendo il punto di vista della CGUE, da quello della Corte costituzionale italiana.
È bene premettere che la CGUE adotta una concezione (prevalentemente) monista del rapporto tra ordinamento unionale e ordinamento degli stati membri, mentre, la Corte costituzionale tende a sposare una concezione (prevalentemente) dualista[24].
14.1 La posizione della Corte di Giustizia (CGUE).
La Corte di Giustizia UE afferma il principio del primato del diritto dell’Unione e dell’effetto diretto.
Sono provviste di effetto diretto tutte le disposizioni di diritto Ue che siano sufficientemente chiare, precise e incondizionate e non richiedano pertanto l'emanazione di ulteriori atti di esecuzione o integrativi.
Detto carattere è stato riscontrato dalla Corte di giustizia:
- in talune disposizioni del TFUE.
- nelle disposizioni dei regolamenti e delle decisioni.
- nelle direttive non attuate, o non correttamente attuate, dagli Stati membri, che siano sufficientemente chiare e precise e incondizionate (si tratta di tre casi: direttive che enuncino un obbligo negativo, direttive che ribadiscano un obbligo già enunciato nei trattati, direttive dettagliate).
La Corte di Giustizia ha distinto tra effetto diretto verticale e orizzontale delle direttive non attuate.
L’effetto diretto verticale è limitato alle direttive il cui termine di attuazione sia scaduto e alle fattispecie nelle quali il singolo invoca un diritto nei confronti dello Stato.[25]
L’effetto diretto orizzontale, ossia l’invocabilità tra privati delle disposizioni di direttive dotate di effetto diretto ma non attuate, viene esclusa in linea di principio, benché in alcuni casi, ad esempio relativi ai divieti di discriminazione in materia di condizioni di lavoro, esso è stato riconosciuto.
Invece, qualora non ricorrano i presupposti per riconoscere l'effetto diretto delle direttive né per attuare un'interpretazione conforme del diritto interno, i singoli possono far valere dinanzi all'autorità giudiziaria nazionale la responsabilità dello Stato per mancata attuazione del diritto Ue.
E ciò a tre condizioni:
-che la direttiva attribuisca loro diritti soggettivi;
-che il contenuto di questi ultimi sia individuabile sulla base delle disposizioni della direttiva;
- e che sussista un nesso di causalità, tra la violazione dell'obbligo di attuazione a carico dello Stato e il danno prodottosi.[26]
Il rimedio risarcitorio può essere esperito anche a fronte di una violazione del diritto Ue da parte delle autorità nazionali non più emendabile a causa del passaggio in giudicato della decisione giudiziaria interna[27].
14.2. La posizione della Corte costituzionale italiana
La Corte costituzionale italiana, dopo un iniziale atteggiamento di chiusura, ha riconosciuto il principio del primato del diritto comunitario[28], oggi diritto Ue, sia pure in base a una concezione dualistica del rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali.
La Corte costituzionale ha puntualizzato che la possibilità di disapplicare il diritto interno é riservato alle sole ipotesi di contrasto con le norme comunitarie provviste di effetto diretto[29].
Diversamente, in caso di conflitto tra norma interna e norma comunitaria non direttamente applicabile, il giudice è tenuto a sollevare questione di legittimità costituzionale della prima, in riferimento agli articoli 11 e 117 comma 1 Cost., assumendo la norma unionale come il parametro interposto del giudizio di legittimità costituzionale[30].
Con riferimento all'efficacia dei diritti fondamentali della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), la Corte costituzionale, negli ultimi anni, ha elaborato un orientamento differente, rispetto a quello sopra delineato.
In base al nuovo orientamento inaugurato da Corte Cost. 269/2017[31] quando una disposizione di legge viola, al contempo, un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e da una norma Ue (della Carta o comunque espressiva di principi riconducibili a disposizioni della Carta), il giudice, anche ove quest'ultima sia direttamente applicabile, può, invece di disapplicare il diritto interno contrastante, sollevare questione di legittimità costituzionale[32].
La Corte costituzionale ha precisato che il previo promovimento dell'incidente di legittimità costituzionale, in fattispecie di doppia pregiudizialità, risulta “opportuno” ma non obbligatorio.
Questo orientamento giurisprudenziale, incentrato sul c.d. concorso dei rimedi, si è andato consolidando ed ampliando nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Ad oggi, in presenza di una normativa interna che sia in contrasto con “il diritto dell’Unione dotato di efficacia diretta, allorché la questione presenti “un tono costituzionale” per il nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale”[33], il giudice comune è libero di scegliere se:
-disapplicare la normativa interna in contrasto con il diritto UE;
- sollevare rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE;
- rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale.
PARTE II C)
15. Quante e quali competenze sono state realmente cedute a livello sovranazionale?
A questo punto, occorre confrontare le materie dell’art. 117 Cost. con le competenze del Consiglio d’Europa e con quelle dell’Unione europea per apprezzare quanta e quale sovranità è stata realmente ceduta.
16. La cessione di competenze basata sul principio di attribuzione
Se si confrontano, ad una, ad una, le competenze legislative previste dall’art. 117 Cost. con le competenze attribuite all’Unione europea dai Trattati (artt. 4 e 5 TUE e da 2 a 6 TFUE), notiamo che la competenza dell’Unione tende ad azzerare quella nazionale. Si pensi ai seguenti aspetti.
- molte delle competenze attribuite coincidono già a livello letterale o lessicale con quelle previste dall’art. 117 Cost. (ad es. ambiente, salute, istruzione, formazione professionale, protezione civile, la concorrenza, energia, immigrazione, la profilassi internazionale e i problemi comuni in materia di sanità pubblica, etc.): in queste materie la cessione di competenze è totale poiché la materia è la stessa (anche nominalmente) e il diritto europeo prevale sempre e comunque su quello nazionale;
- altre competenze attribuite sono designate con una terminologia diversa da quella dell’art. 117 Cost., ma quella dei Trattati è più ampia. Prendiamo ad esempio le competenze attribuite all’Unione che fanno riferimento alla parola “politica”. Ad esempio: a) la politica commerciale comune; b) le politiche economiche nell’ambito dell’Unione; c) le politiche occupazionali degli Stati membri; d) le politiche sociali degli Stati membri.
Il termine “politica” (previsto dal TUE e TFUE) è molto più ampio di quello di “materia” (ex art. 117 Cost.) e quindi, di fatto, il secondo resta assorbito nel primo.
In questi settori, l’Unione ha un potere di indirizzo e coordinamento ma il principio del primato del diritto dell’Unione e dell’effetto diretto conferiscono alle norme Ue un’efficacia pervasiva all’interno degli ordinamenti degli Stati membri.
- La competenza esclusiva attribuita all’Ue in materia di concorrenza per il funzionamento del mercato interno UE è una competenza trasversale e fortemente pervasiva.
La CGUE la utilizza come valore sovraordinato che plasma e ridefinisce molti istituti giuridici di diritto interno guardando più alla sostanza economica delle cose che non ai loro aspetti giuridici e formali (ad es. la nozione di pubblica amministrazione, quella di organismo di diritto pubblico, la nozione di pubblico servizio, la nozione di concessione di diritto amministrativo, la nozione di consumatore, la nozione di dipendenza economica).
- la competenza esclusiva attribuita all’UE in materia di politiche monetarie è una competenza che crea vincoli stringenti poiché tutta l’azione statale si trova a doversi misurare con i vincoli di bilancio (è stato costituzionalizzato anche l’equilibrio tra le entrate e le spese e la sostenibilità del debito pubblico con la modifica degli artt. 81 e 97 Cost.).
Anche questa competenza esclusiva è molto pervasiva e finisce, di fatto, per incidere su tutte le residue competenze statali.
- Per comprendere la pervasività delle competenze attribuite all’Ue basti porre mente alle ultime novità normative introdotte a seguito di atti unionali sovraordinati.
Si rammenta, a titolo di esempio: il codice dei contratti pubblici di cui al D. lgs. 36/2023; il codice dei consumatori di cui al D. Lgs. 206/2005; il codice del turismo di cui al d. lgs. 79/2011; la nuova class action; il regolamento generale sulla protezione dei dati personali GDPR n. 679/2016.
In tutti questi settori, vi sono a monte, normative molto dettagliate di diritto dell’unione europea e quindi è ridotta la sfera di decisione dei pubblici poteri interni.
- A tutto quanto sopra si aggiunga che la giurisprudenza della CGUE ha elaborato la teoria dei c.d. poteri impliciti che si fonda sull’assunto che, anche se un potere non è stato espressamente attribuito ma è comunque funzionale e necessario a perseguire una finalità legittima e collegata ad altro potere attribuito, allora esso può essere validamente esercitato.
Anche questo modus procedendi, in ogni settore, altera e riduce lo spazio residuo di manovra dei decisori interni.
17. La cessione di competenze in favore dell’ordinamento sovranazionale basata sui valori, sugli scopi, sulle disposizioni di applicazione generale del TFUE e sui principi generali
Lo Stato italiano è membro del Consiglio d’Europa ed è membro dell’Unione europea.
L’adesione a queste due istituzioni sovranazionali, diverse e parallele, munite di proprie giurisdizioni comporta una sottoposizione dell’Italia a giudizi di conformità del proprio operato politico in relazione a concetti vaghi ed indeterminati come i valori, gli scopi ed i principi.
Quale membro del Consiglio d’Europa si trova soggetto alla costante valutazione politica e giuridica del Consiglio soprattutto in relazione alla procedura di esecuzione delle sentenze della CEDU (v. art. 46 CEDU).
Quale membro dell’Unione europea, lo Stato italiano è esposto al costante monitoraggio delle Istituzioni europee sul rispetto dei valori di cui all’art. 2 TUE (norma che prevede anche la sua espressa sanzione nell’art. 7 TUE) nonché degli scopi di cui all’art. 3 TUE.
L’ancoraggio del diritto UE a valori e scopi generici contribuiscono al fenomeno dell’ampliamento del diritto UE a discapito delle prerogative nazionali.
A rendere ancora più ampio lo spettro di azione del diritto Ue vi sono le disposizioni di applicazione generale previste nel TFUE (artt. 7 – 25) che prevedono norme di rango fondamentale per il diritto UE e che la Corte CGUE applica agli Stati membri nella loro massima estensione semantica possibile.
Infine, vi sono i principi generali di diritto dell’Unione europea elaborati dalla CGUE e che sono fonte primaria del diritto UE al pari dei Trattati istitutivi.
Tali principi sono individuati, elaborati e costruiti dalla giurisprudenza della CGUE alla quale, in questo frangente, è veramente arduo non riconoscere una vera e propria funzione creativa del diritto.
L’applicazione diretta dei principi di diritto ha un effetto dirompente nel nostro ordinamento che, invece, è tradizionalmente fondato sul concetto di regola e sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta.
Le regole sono diverse dai principi[34].
Una regola è un enunciato condizionale che connette una qualunque conseguenza giuridica a una classe di fatti: “Se F, allora G”. La conseguenza giuridica può essere una sanzione, o la nascita di un obbligo o di un diritto.
Di fronte alla regola opera il meccanismo della sussunzione del fatto nella fattispecie, si ha maggiore certezza del rispetto della regola e il giudice si limita ad applicare la legge.
Al contrario, un principio, è una norma: a) fondamentale; b) caratterizzata da una particolare indeterminatezza connotata a sua volta dalla fattispecie aperta, dalla defettibilità e dalla genericità.
Inoltre, se due principi entrano in collisione tra loro (ad es. salute e lavoro, impresa e ambiente) si tratta di comprendere quale sia la tecnica di risoluzione del problema atteso che non sono applicabili i criteri previsti dall’art. 15 prel. c.c. (gerarchico, cronologico e specialità).
La tecnica generalmente impiegata dai giudici costituzionali in casi del genere va sotto il nome di ponderazione (o bilanciamento) dei principi, e consiste nell’istituire tra i due principi coinvolti una gerarchia assiologica e mobile.
Questa panoramica sui principi, ci fa comprendere quanto margine di discrezionalità abbia la CGUE nell’elaborazione e applicazione degli stessi ai casi concreti sottoposti alla sua attenzione.
In definitiva, in materia di valori, scopi e principi la cessione di competenze nazionali è molto ampia e basata su confini incerti e indeterminati rimessi alla valutazione discrezionale delle istituzioni sovranazionali.
18. La cessione di competenze basata sulla tutela dei diritti fondamentali
Un terzo ambito di intervento – forse il più importante – è quello in materia di diritti fondamentali.
Si parla di tutela multilivello dei diritti fondamentali e di dialogo tra le Corti (CEDU, CGUE e Corte costituzionale, Cassazione e Consiglio di Stato).
Proviamo a fare il punto.
La CEDU offre il minimum standard inderogabile per i diritti e le libertà in essa previste (art. 53 CEDU). A tal fine, la giurisprudenza della Corte EDU, a partire da tali diritti e libertà (sono circa quindici i diritti e le libertà sancite), elabora via via obblighi negativi e positivi a carico degli Stati membri volti alla protezione dei diritti fondamentali.
La CEDU impone al giudice comune che egli effettui, sempre, un’interpretazione convenzionalmente orientata delle proprie norme interne.
La CDFUE contempla (quasi) tutti gli stessi diritti fissati dalla CEDU (v. per l’equivalenza l’art. 52 CDFUE con le relative Spiegazioni) e anche molti altri diritti di natura sociale, economica e politica con una struttura tipicamente costituzionale.
La giurisprudenza della CGUE, a partire dalla Carta, e spesso recependo la giurisprudenza della Corte EDU, anche in questo caso, ha ricostruito obblighi negativi e positivi a carico degli Stati membri volti alla (maggior) protezione dei diritti fondamentali rispetto alla CEDU.
Anche la CDFUE e la giurisprudenza della CGUE impongono sempre, in ogni caso, al giudice comune che egli effettui un’interpretazione comunitariamente orientata delle proprie norme interne.
La Corte Costituzionale si è resa, negli anni, interlocutore privilegiato della CEDU e della CGUE ritagliandosi il ruolo di custode in ambito nazionale, dello sviluppo equilibrato del sistema dei diritti fondamentali e del controllo del rispetto dello standard di tutela su un singolo diritto fondamentale visto nell’ottica di insieme con gli altri.
Occorre infatti tener presente che la maggior tutela accordata a un diritto, supponiamo dalla CEDU o dalla CGUE, significa, automaticamente, minor tutela per altri diritti concorrenti o confliggenti.
Anche la Corte costituzionale è obbligata all’interpretazione convenzionalmente e comunitariamente orientata delle norme di diritto interno e ha il potere di sollevare rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Per comprendere quanta sovranità è stata ceduta in questo ambito da parte degli ordinamenti nazionali, bisogna partire da una premessa.
Dove c’è un diritto, non c’è un potere.
La proliferazione di diritti fondamentali, a vari livelli, restringe l’ambito di azione dei poteri pubblici.
La creazione giurisprudenziale di veri e propri obblighi positivi e negativi a carico degli Stati, a tutela dei diritti fondamentali, elimina, di fatto, i poteri pubblici. In teoria generale del diritto, solo quattro sono le posizioni fondamentali: l’obbligo al quale corrisponde la pretesa e la soggezione al quale corrisponde il potere. Se si creano nuovi obblighi, si creano nuove pretese e, di conseguenza si restringe l’area che prima era occupata dai poteri.
Per cercare di fare almeno il punto sulla situazione si passa, ora, ad esporre, quella che a me sembra possa essere, una possibile ricostruzione della attuale gerarchia delle fonti, per poi passare a quelle che sono le operazioni che deve svolgere il giudice comune in relazione ad esse.
D) 19. Una nuova gerarchia delle fonti
Di seguito, si riporta una breve ricostruzione schematica della nuova gerarchia delle fonti.
1. Al vertice, ci sono i c.d. principi fondamentali della Costituzione italiana (art. 1-12 e 139 Cost.) e i diritti inalienabili della persona, secondo quella che è stata definita dalla Corte costituzionale come la c.d. teoria dei controlimiti
2. poi, abbiamo, le norme consuetudinarie di diritto internazionale che trovano ingresso automatico nel nostro ordinamento tramite l’art. 10 Cost. e che devono essere conformi soltanto ai c.d. controlimiti.
3. In virtù del c.d. effetto diretto e del primato del diritto dell’Unione Europea, ci sono le fonti del diritto dell’Unione europea che trovano ingresso nel nostro ordinamento tramite l’art. 11 e l’art. 117 comma 1 Cost.:
3.a) atti di diritto primario dell’Unione europea:
- i Trattati istitutivi dell’Unione europea (TUE e il TFUE);
- la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE);
- i principi generali di diritto dell’Unione europea elaborati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea;
3.b) atti di diritto derivato dell’Unione europea:
-i regolamenti;
-le direttive;
-le decisioni.
4. Di seguito, vi sono le altre disposizioni della Costituzione italiana (diverse dai principi fondamentali) e le altre leggi costituzionali.
5. Poi, abbiamo, le norme pattizie di diritto internazionale (i cd. trattati di diritto internazionale), tra le quali rientra anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e la relativa giurisprudenza della Corte EDU, che è vincolante per tutti gli stati che hanno sottoscritto il relativo trattato.
6. Solo a questo punto, ci sono le leggi statali e gli atti aventi forza di legge, nonché le leggi regionali, secondo le rispettive competenze ex art. 117 Cost.
7. In posizione sub-legislativa troviamo gli Statuti degli Enti locali
8. I regolamenti governativi (v. art. 17 legge 400/1988)
9. I regolamenti degli Enti locali
10. Gli usi e le consuetudini
Terminata l’esposizione di questo tentativo di ricostruzione delle fonti del diritto, vediamo cosa debba fare il giudice comune, di fronte a questo complesso quadro ordinamentale.
20. Le operazioni che deve compiere il giudice comune
Oggi un giudice comune, che è chiamato ad applicare la legge per risolvere una controversia, si trova di fronte al problema di comprendere quale sia la norma applicabile.
Poniamo che egli individui una norma di diritto interno, applicabile al caso di specie.
La prima cosa che deve fare è verificare se tale norma sia in potenziale contrasto con altre norme sovranazionali o sovraordinate.
26.1. Una volta appurato che vi è una norma di rango sovraordinato in contrasto con quella interna, il giudice comune deve comprendere se il contrasto è solo potenziale oppure reale.
Il criterio per comprendere se il contrasto è solo potenziale oppure reale è quello della c.d. interpretazione conforme alla quale il giudice interno è sempre e comunque tenuto sia verso il diritto UE che verso la CEDU.
Il contrasto è solo potenziale quando, dalla disposizione di diritto interno è possibile ricavare, in via interpretativa, una norma in contrasto con la fonte sovraordinata;
il contrasto diventa reale quando, dalla disposizione interna non è possibile ricavare, in via interpretativa, neppure una norma che non sia in contrasto con la fonte sovraordinata.
Il giudice è obbligato a sollevare la questione solo in caso di contrasto reale[35].
Fatta questa precisazione, in caso di contrasto reale, il giudice comune deve effettuare le seguenti operazioni nelle varie ipotesi che gli si possono prospettare:
a) in caso di contrasto tra una norma del diritto UE e i principi supremi della Costituzione italiana (attivazione dei controlimiti nei confronti del diritto UE), il giudice deve rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale chiedendo che la legge di ratifica del Trattato UE venga dichiarata incostituzionale indicando come parametri:
- la norma del principio fondamentale della Costituzione che sarebbe violata;
-l’art. 11 e 117 comma 1 Cost. che consentono alla normativa UE di fungere da c.d. parametro interposto;
- la legge di recepimento del Trattato UE, cioè la legge 1203/1957 limitatamente alla parte in contrasto;
b) in caso di contrasto tra norma interna e diritto internazionale consuetudinario, il giudice deve rimettere la questione di legittimità alla Corte costituzionale chiedendo che la norma interna venga dichiarata incostituzionale indicando tre parametri:
-la norma interna censurata;
-l’art. 10 Cost. che consente al diritto internazionale consuetudinario di fungere da c.d. parametro interposto;
-la norma di diritto internazionale consuetudinario che sarebbe violata.
c) in caso di c.d. doppia pregiudizialità (norma di diritto interno contemporaneamente in contrasto con la Costituzione e la CDFUE e/o con altra norma di diritto UE, dotata di efficacia diretta, che abbia un nesso con interessi o principi di rango costituzionale), il giudice deve rimettere, (preferibilmente, ma non è obbligato) prima, la questione di legittimità alla Corte Costituzionale e, poi, una volta che la Corte Costituzionale abbia deciso, deve valutare se sollevare il rinvio pregiudiziale alla CGUE in presenza dei presupposti richiesti dall’art. 267 TFUE.[36]
d) in caso di contrasto tra norma interna e diritto dell’Ue il giudice deve comprendere se la norma di diritto europeo è direttamente applicabile oppure no nell’ordinamento interno, attraverso i canoni della chiarezza, della precisione e dell’incondizionatezza della disposizione UE.
d1) se la norma è direttamente applicabile (sufficientemente precisa e incondizionata e/o per i regolamenti e le direttive self-executing), possono darsi due eventualità:
- se ci sono ragionevoli dubbi sulla compatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione europea, il giudice può rimettere la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea con il meccanismo del rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE);
- se non ci sono dubbi e il giudice ritiene l’incompatibilità della norma interna al diritto UE, può disapplicare la norma interna in contrasto con il diritto dell’unione europea;
d2) se la norma non è direttamente applicabile (non precisa o condizionata, ad es. direttive non self-executing), il giudice è chiamato a rimettere la questione di legittimità alla Corte costituzionale chiedendo che la norma interna venga dichiarata incostituzionale indicando tre parametri:
-la norma interna censurata;
-l’art. 11 e l’art. 117 comma 1 Cost. che consentono alla normativa UE di fungere da c.d. parametro interposto;
-la norma di diritto europeo, non direttamente applicabile, che sarebbe violata.
e) in caso di contrasto tra norma interna e Costituzione il giudice è chiamato a rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale chiedendo che la norma venga dichiarata incostituzionale indicando due parametri: la norma censurata e la norma della Costituzione che sarebbe violata;
f) in caso di contrasto tra norma interna e CEDU il giudice deve rimettere la questione di legittimità alla Corte costituzionale chiedendo che la norma interna venga dichiarata incostituzionale indicando tre parametri:
-la norma interna censurata;
-l’art. 117 comma 1 Cost. che consente il recepimento nel nostro ordinamento del diritto internazionale pattizio (tra cui rientra anche la CEDU per come interpretata dalla Corte Edu) e che permettono alle norme CEDU di fungere da c.d. parametro interposto;
-la norma di diritto della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo che sarebbe violata.
g) in caso di contrasto tra CEDU (per come interpretata dalla Corte EDU) e norme costituzionali (attivazione dei controlimiti nei confronti della CEDU), il giudice deve rimettere la questione di legittimità alla Corte Costituzionale chiedendo che la legge di recepimento della CEDU venga dichiarata incostituzionale indicando come parametri:
- la norma della Costituzione che sarebbe violata;
- l’art. 117 comma 1 Cost. che consente il recepimento nel nostro ordinamento del diritto internazionale pattizio (tra cui rientra anche la CEDU per come interpretata dalla Corte Edu) e che permettono alle norme CEDU di fungere da c.d. parametro interposto;
- la legge di ratifica della CEDU e cioè la legge n. 848/1955 limitatamente alla parte in contrasto.
Come si vede, i compiti del giudice comune sono altamente discrezionali e complessi e mi pare evidente che tutto questo rischia di entrare in collisione con due valori fondanti le moderne democrazie costituzionali: il principio di legalità e quello di certezza del diritto.
21. Conclusion
La sovranità degli Stati membri del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea si trova ad essere stata ceduta e comunque molto limitata.
Tale assunto trova giustificazione in quattro fenomeni convergenti che riducono lo spazio di decisione dei pubblici poteri interni (legislativo, esecutivo e giudiziario):
-la sovranazionalizzazione del diritto interno;
-l’affermarsi del primato dell’economia e del mercato sul diritto;
-la sovranazionalizzazione della tutela dei diritti fondamentali;
- la creazione giurisprudenziale del diritto.
Tentiamo di analizzare ognuno di questi fenomeni.
21.1. Si assiste a una progressiva sovranazionalizzazione del nostro diritto nazionale dovuta all’appartenenza dell’Italia al Consiglio d’Europa e all’Unione europea.
Le competenze attribuite espressamente all’Unione europea dai Trattati (artt. 4-5 TUE e artt. 2-6 TFUE), combinate con il principio della primazia e dell’effetto diretto del diritto unionale, ci fanno comprendere come ormai l’unica operazione mentale da effettuare per capire quali siano le residue competenze nazionali sia quella per sottrazione dall’art. 117 Cost..
Dal confronto che abbiamo tentato di fare è emerso che allo stato italiano, in via esclusiva, resta la sicurezza nazionale e la tutela dell’ordine pubblico.
Il resto, ormai, è di competenza diretta o indiretta dell’unione europea.
21.2. Siamo di fronte all’affermarsi del primato dell’economia sulla politica e sul diritto nazionale.
La globalizzazione dell’economia ha capovolto il rapporto tra Stati e mercati.
Non sono più gli Stati che garantiscono la concorrenza tra le imprese, ma sono le grandi imprese multinazionali che mettono in concorrenza gli Stati privilegiando, per i loro investimenti, i paesi nei quali possono maggiormente sfruttare il lavoro, pagare meno imposte e sfruttare l’ambiente. Gli Stati sono assoggettati alle valutazioni di affidabilità delle agenzie di rating e sono portati sempre più a ragionare secondo logiche aziendalistiche.
A ciò si aggiunga il fatto che l’evoluzione del capitalismo finanziario e la sempre maggiore necessità degli Stati di reperire risorse, ha fatto esplodere il problema del peso dei debiti pubblici.
Proprio per rispondere a questa problematica, l’Italia ha aderito alla Comunità europea, prima, e all’Unione europea, poi.
In conseguenza di quanto sopra, gli stati membri si sono dati dei parametri da rispettare a pena di sanzione: i) sono tenuti a rispettare il limite del 3% per la spesa in deficit; ii) gli Stati devono mantenere il rapporto tra debito pubblico e PIL entro il 60%.
Per adeguarsi, l’Italia ha anche modificato la propria Costituzione (art. 81 e 97 Cost.) introducendo il principio dell’equilibrio di bilancio tra entrate e spese e modificando la propria contabilità pubblica attraverso la c.d. legge di bilancio (legge 196/2009).
Il ciclo annuale della legge di bilancio è suddiviso, ora, in due semestri: il semestre europeo (dove il governo dialoga con Commissione e Consiglio Ue) e il semestre nazionale (che si conclude con l’approvazione della legge di bilancio da pare del Parlamento).
Attualmente, quindi lo stato ha come obiettivo il rispetto dei vincoli di bilancio e dei parametri fissati in ambito europeo e se non li rispetta, è suscettibile di essere sanzionato.
A ciò si aggiunga un ulteriore vincolo: il c.d. PNRR approvato con Reg. 241/2021[37].
Ad oggi, in definitiva, la sfera di azione dei poteri pubblici è limitata, in negativo, dai vincoli europei di bilancio e, in positivo, dall’attuazione del PNRR. Lo Stato è chiamato a perseguire anche un altro obiettivo che si trova spesso in potenziale contrasto con il rispetto dei vincoli di spesa: la tutela dei diritti fondamentali.
Anche in questo ambito si assiste a una compressione dei poteri degli Stati membri.
21.3. La sfera di azione dei pubblici poteri è limitata dalla sovranazionalizzazione dei diritti fondamentali.
Le fonti sovranazionali che prevedono diritti fondamentali sono in aumento e hanno forza sempre più vincolante nei confronti degli Stati.
A livello internazionale, si rammenta la Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata dall’Onu nel 1948 e il patto dei diritti civili e politici dell’ONU del 1966.
Inoltre a livello regionale, vi è da considerare una pluralità di fonti:
- la nostra Carta costituzionale;
- la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU);
- la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea (CDFUE).
I diritti fondamentali diventano il nuovo perimetro attorno a cui ruotano i pubblici poteri: tali diritti, corredati da veri e propri obblighi di tutela, negativi e positivi, posti a carico degli Stati, diventano il limite invalicabile oltre il quale i poteri pubblici non possono prendere decisioni.
In altre parole: per i pubblici poteri, la sfera del decidibile è ristretta dall’espandersi e dalla nuova centralità, che viene riconosciuta ai diritti fondamentali.
Si tratta di un vero e proprio mutamento di paradigma nel rapporto tra autorità e libertà.
Nello stato di diritto (anche costituzionale) era l’autorità a creare la legge e poi ad applicarla secondo la propria discrezionalità che doveva essere esercitata entro i canoni di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e del neminem ledere.
Nel moderno neocostituzionalismo[38], è l’autorità a dover dimostrare che le norme, da lei create e poi attuate, rispettano gli obblighi di tutela imposti a salvaguardia dei diritti fondamentali.
Gli Stati, sottoponendosi alla giurisdizione obbligatoria di ben due Corti sovranazionali (CEDU e CGUE), che con la loro giurisprudenza creativa abbracciano, di fatto, tutta l’azione dei pubblici poteri, hanno finito per consentire che l’esercizio della loro sovranità sia condizionato e sottoposto al controllo costante di poteri giurisdizionali esterni.
Si potrebbe eccepire che tutto questo è fatto solo per consentire una maggior tutela dei diritti fondamentali delle persone e che tutto questo è un bene.
Si tratta di eccezione fondata ma che tuttavia deve essere ragionata e alla quale occorre porre dei limiti a tutela di altri valori, che al momento sembrano piuttosto negletti, come, ad esempio, quello della c.d. certezza del diritto.
Lo spostamento del baricentro del diritto, dal momento creativo-legislativo a quello giurisprudenziale-applicativo, ci porta all’ultimo fenomeno da analizzare.
21.4. Si assiste ad una sempre maggiore creazione giurisprudenziale del diritto, sia dall’esterno, che all’interno dei vari ordinamenti nazionali.
A) Dall’esterno, abbiamo, oggi due Corti sovranazionali, la CEDU e la CGUE, che ragionano, in maniera autonoma, secondo meccanismi di common law ed emanano sentenze alle quali gli Stati membri si devono adeguare.
È in atto una continua elaborazione giurisprudenziale di nozioni giuridiche autonome e principi che incidono e trasformano le categorie giuridiche-dogmatiche interne del diritto degli Stati membri[39].
Si tratta di diritto giurisprudenziale che si impone come vincolante per tutti i poteri pubblici (legislativo, amministrativo e giudiziario).
Le due Corti CGUE e CEDU, a loro volta, nella creazione del diritto, tendono a privilegiare i fini e gli scopi per i quali sono state istituite: l’economia e il libero mercato per la CGUE, ed i diritti fondamentali per entrambe le Corti.
Per quanto concerne l’economia e la massimizzazione del libero mercato, la CGUE effettua costruzioni giuridiche basate su categorie economiche e sulla prevalenza della sostanza economica dei fenomeni sulla forma giuridica degli stessi.
Le categorie economiche, che divengono così prevalenti su quelle giuridiche, sono:
-i bisogni economici e la nozione di beni e servizi economici;
-i soggetti economici (le famiglie, le imprese, lo Stato, e il resto del mondo) e le loro attività economiche (il lavoro, il consumo, il risparmio e l’investimento);
-la centralità del concetto di mercato in generale e, in particolare, del mercato del lavoro e di quello della moneta, con attenzione alle banche e alle imprese assicurative.
Anche lo Stato e la p.a. vengono considerati come operatori economici con prevalente attenzione alle entrate e alle spese pubbliche e alla tutela del mercato e della concorrenza (v. codice dei contratti pubblici d. lgs. 36/2023, legge antitrust n. 287/1990, TUF d.lgs. 58/1998, il divieto di aiuti di Stato).
Per quanto riguarda i diritti fondamentali, la CGUE e la Corte EDU intervengono, nei loro rispettivi ambiti, dettati dalla Carta dei diritti fondamentali Ue (CDFUE) e dalla CEDU, con sentenze vincolanti per tutti gli ordinamenti nazionali, che sono obbligati ad adeguarsi e a far prevalere il contenuto di tali sentenze, persino sulle loro leggi ordinarie.
Le due Corti creano veri e propri obblighi di tutela positivi e negativi a carico degli stati membri.
Le modalità di creazione degli obblighi a partire da norme di principio e le valutazioni effettuate dalle Corti (EDU e CGUE) su termini generici ed elastici come la proporzionalità e la ragionevolezza, rendono, di fatto, il diritto una creazione giurisprudenziale come avviene nei sistemi di common law.
Le tecniche di bilanciamento tra principi e diritti fondamentali sono più vicine a quelle di un legislatore che a quelle di un interprete, che si limita ad applicare una regola che trova già precostituita.
B) Anche all’interno degli ordinamenti nazionali, si assiste a fenomeni di creazione giurisprudenziale del diritto.
La Corte costituzionale è sempre più giudice della discrezionalità legislativa attraverso i parametri dedotti dall’art. 3 Cost. della c.d. ragionevolezza, proporzionalità e affidamento.
Verso l’esterno, la Corte costituzionale sta assumendo sempre più il ruolo di custode dell’equilibrio degli istituti costituzionali esposti al potere conformativo delle due Corti sovranazionali.
L’esempio più eclatante è l’elaborazione della teoria dei controlimiti.
Le autorità giurisdizionali interne si trovano di fronte ad un triplice problema.
In primo luogo, nella mutata gerarchia delle fonti, le operazioni che devono compiere per individuare la norma applicabile, conferisce loro ampia discrezionalità nel valutare e decidere cosa fare.
In secondo luogo, una volta individuata una sentenza della CGUE o della CEDU che esprime un principio prevalente su una legge ordinaria hanno il potere, a seconda dei casi, di effettuare interpretazioni conformative ai dati sopranazionali e possono arrivare persino a disapplicare la legge.
In terzo luogo, sono spesso costretti ad effettuare operazioni di re-interpretazione delle loro categorie giuridiche tradizionali, forzando, talvolta anche in modo palese, il dato normativo, per far prevalere gli scopi e i principi fissati dal diritto unionale. Si pensi a Cass. S.U. 6 aprile 2023 n. 9479 che, per adeguarsi ai principi di primazia della tutela del consumatore fissati dalla CGUE, ha effettuato un’interpretazione creativa (quasi ortopedica) delle norme del codice di procedura civile in materia di opposizione a decreto ingiuntivo[40].
21.5. Tutto quello che ho esposto e analizzato vuol essere una ricognizione, e un momento di riflessione, che costituisca un punto di partenza e non di arrivo.
La somma di tutti i sovraesposti fenomeni convergenti sta generando un mutamento radicale di paradigma.
Così come, dallo stato assoluto si è passati allo stato di diritto e, dallo stato di diritto, a quello costituzionale di diritto, allo stesso modo, adesso, stiamo assistendo alla progressiva sovranazionalizzazione dello stato costituzionale di diritto.
Potremo parlare, oggi, di stato costituzionale conformato al diritto sovranazionale o di stato costituzionale di diritto sovranazionale.
I principi classici di separazione dei poteri, quello di legalità e di certezza sono messi in crisi[41] dalla creazione giurisprudenziale del diritto ad opera delle Corti.
Il mutamento di paradigma è evidente: da quello in cui il Parlamento fa una legge e il potere esecutivo e giudiziario la applicano al caso concreto, si passa a quello in cui, due Corti sovranazionali emettono sentenze vincolanti anche per il Parlamento che può (e a volte deve) fare la legge, adeguandosi ai principi contenuti in tali sentenze.
Il potere esecutivo e giudiziario, poi, non si limitano ad applicare tale legge, al caso concreto, ma sono chiamati, prima di tutto, a dubitare della conformità di tale legge con il diritto sovranazionale.
In definitiva:
-tutti i poteri pubblici sono compressi dalle fonti sovraordinate, dal prevalere delle logiche economiche su quelle giuridiche e dall’affermarsi della intangibilità dei diritti fondamentali per come interpretati in via evolutiva, giorno per giorno, dalle pronunce della CGUE e della CEDU;
-il potere politico-legislativo dei singoli Stati tende a trasformarsi anch’esso in un potere esecutivo di decisioni prese a livello sovranazionale, e il potere giurisdizionale, attraverso l’autonomo dialogo con la CGUE e la CEDU, tende a trasformarsi in potere legislativo (con la c.d. interpretazione creativa di norme dalle disposizioni).
La constatazione di questo mutamento di paradigma impone, a mio avviso, una riflessione seria e profonda, a tutti i livelli, del nostro ordinamento giuridico.
Lo scopo di questo contributo è quello di aprire un dibattito su queste tematiche e stimolare la ricerca per cercare di controllare, prevedere e governare questi mutamenti, anziché subirli in maniera passiva e acritica.
Gli spunti possono essere moltissimi[42].
In definitiva, si tratta di intraprendere una vera e propria opera di rifondazione di tutte le categorie del nostro ordinamento nazionale, alla luce della sua conformazione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e al diritto dell’unione europea.
[1] Albania, Andorra, Armenia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Italia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Lussemburgo, Malta, Repubblica di Moldova, Monaco, Montenegro, Paesi Bassi, Macedonia del Nord, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ucraina, Regno Unito.
[2] La Convenzione dei diritti fondamentali si raccorda con lo Statuto del Consiglio d’Europa, come dimostra il richiamo ai poteri che esso assegna al Comitato dei Ministri (art. 54 Conv.) e l’attribuzione al Segretario generale del Consiglio del potere di svolgere inchieste nel corso delle quali gli Stati devono fornire risposta alle domande su come il loro ordine interno assicuri l’applicazione effettiva di tutte le disposizioni della Convenzione (art. 52 Conv.).
[3] Un’ulteriore fonte normativa fondamentale è il Regolamento della Corte dei diritti dell’uomo che consta di 117 articoli e 8 allegati.
[4] Si distingue tra protocolli aggiuntivi e protocolli emendativi.
I protocolli aggiuntivi integrano l’elenco dei diritti e delle libertà e sono i seguenti: protocolli n. 1, 4, 6, 7, 12, 13.
I protocolli emendativi modificano le regole di procedura e di funzionamento del sistema (protocolli n. 2, 3, 5, 8, 9, 10, 11, 14, 14 bis, 15 e 16).
[5] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, pag. 129-130.
[6] I criteri di ricevibilità in senso stretto sono i seguenti (v. art. 35 CEDU):
a) L’essere il ricorrente vittima (diretta, indiretta, potenziale) di una violazione della Convenzione;
b) Il previo esaurimento delle vie di ricorso interne
c) Il rispetto del termine per la presentazione del ricorso
d) La non manifesta infondatezza del ricorso
e) La presenza di un pregiudizio importante
f) Che il ricorso non sia anonimo
g) Che il ricorso non sia essenzialmente identico a uno precedentemente esaminato dalla Corte e non contenente fatti nuovi
h) Che il ricorso non sia già sottoposto a un’altra istanza internazionale di inchiesta o di risoluzione e non contenente fatti nuovi
i) Che il ricorso non sia abusivo
[7] Nel valutare la c.d. base legale (cioè se la misura dello Stato è fondata su una base legale interna) è necessario chiarire che il concetto di legge e di legalità è del tutto autonomo per la CEDU.
Ad esempio, l’art. 1 CEDU afferma: “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”. Per la Corte EDU, il concetto di legge equivale, più o meno, alla nostra ampia nozione di “diritto oggettivo”.
La nozione autonoma di diritto e di legge propria della CEDU è di tipo sostanziale e qualitativo e ricomprende la giurisprudenza tra le fonti.
[8] Art. 18 CEDU “Restrizione dell’uso di restrizioni ai diritti”: “Le restrizioni che, in base alla presente Convenzione, sono poste a detti diritti e libertà possono essere applicate solo allo scopo per cui sono state previste.”
Riportiamo alcuni scopi legittimi di restrizione dei diritti, previsti dalla CEDU:
- l’integrità territoriale;
- la sicurezza nazionale;
- la sicurezza pubblica;
- l’ordine e la prevenzione delle violazioni della legge penale;
- il benessere economico del paese: è scopo che giustifica limitazioni nel diritto al rispetto della vita privata e familiare;
- l’esigenza di protezione della salute;
[9] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, pag. 543.
[10] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, pag. 66.
[11] Così Corte Cost. 1146/988.
[12] Le sentenze pilota (che hanno variegata natura e struttura) non presentano a loro volta una speciale forza. Esse si caratterizzano solo per il fatto che decidono un caso in vista della decisione di altri numerosi casi identici (seriali) già pendenti, la cui trattazione viene sospesa in modo da consentire al governo interessato di introdurre soluzioni nazionali riparatorie e preventive di violazioni ripetute o strutturali (art. 61 Regolamento della Corte EDU).
[13] Attualmente, La Corte di giustizia dell'Unione europea, la cui sede è fissata a Lussemburgo comprende tre organi giurisdizionali: La Corte di giustizia, il tribunale e il tribunale della funzione pubblica. tra i tre organi riveste rilievo preponderante la Corte di giustizia, composta da 28 giudici e 11 avvocati generali, designati di comune accordo dai governi degli Stati membri, per un mandato di sei anni, rinnovabile e scelti tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le condizioni richieste per l'esercizio nei rispettivi paesi delle più alte funzioni giurisdizionali ovvero il seno in possesso di competenze notorie.
[14] Detto obbligo può essere derogato qualora la la questione pregiudiziale da sottoporre sia identica ad altre già decisa dalla Corte di giustizia; ove sul punto sussista una giurisprudenza costante del giudice dell'unione (anche non emessa a seguito di rinvio pregiudiziale e anche in mancanza di una stretta identità di materia); ove non vi sia alcun ragionevole dubbio interpretativo per la chiarezza del dettato normativo europeo (Corte giust., 6 ottobre 1982, in causa 283/81, CILFIT, §§ 13-17; 6 ottobre 2021 in causa C-561/19, Consorzio Italian management). Al di fuori di dette ipotesi, il mancato esercizio del rinvio pregiudiziale obbligatorio può determinare la responsabilità dello Stato membro anche nel quadro del ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 TFUE (Corte giust., 4 ottobre 2018, in causa C-416/17, Commissione c. Francia).Anche i giudici non di ultima istanza sono tenuti a proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ove venga in questione la validità di un atto dell'unione (Corte giust., 22 ottobre 1987, in causa C314/85 Foto-Frost).
[15] Le sentenze in tema di validità di atti di diritto derivato, rese a titolo di interpretazione pregiudiziale, comportano l'esame degli stessi vizi dell'atto delibabili in sede di ricorso per annullamento ex articolo 263 TFUE. La validità di un atto di un'istituzione, organo o organismo dell'unione può pertanto essere incidentalmente esaminata anche oltre il decorso del termine bimestrale previsto dall'articolo 263 Tfue, per l'impugnazione diretta con il ricorso in annullamento.
[16] Secondo la formula utilizzata dalla Corte di giustizia, nel procedimento ex articolo 267 TFUE, La Corte di giustizia non valuta essa stessa la conformità della legislazione nazionale e il diritto Ue, ma fornisce al giudice del rinvio tutti gli elementi ermeneutici propri del diritto dell'unione che possano consentire a quest'ultimo di valutare una siffatta conformità. (Corte giust. 18 settembre 2019, in causa C-222/18, VIPA, § 28.)
[17] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022.
[18] Cfr. ad es. Corte giust., 22 novembre 2001, in cause riunite C-541/99 e C-542/99, Cape snc e Idealservice MN RE sas sulla nozione di “consumatore”.
[19] Corte giust. 9 giugno 2016, in causa C-586/14, Budisan, § 45. Nella giurisprudenza interna v. Cass. 11 dicembre 2012, n. 22577/2012; Cass. 17 maggio 2019, n. 13425/2019. Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, pag. 79-82.
[20] La teoria prevede che pur in mancanza di un’espressa attribuzione di poteri, l’Unione possa essere considerata competente quando l’esercizio di un certo potere risulti indispensabile per l’esercizio di un potere espressamente previsto ovvero per il raggiungimento degli obiettivi dell’ente, V. Corte giust. 31 marzo 1971, in causa 22/70.
[21] In materia processuale, vige il principio di autonomia procedurale degli Stati membri con il solo rispetto dei limiti dell’equivalenza e dell’effettività. Il principio di equivalenza esige che alle azioni fondate sul diritto dell’Unione si applichino i medesimi mezzi di ricorso e le medesime norme processuali disponibili per le azioni analoghe di natura puramente nazionale. Il principio di effettività, o della tutela giurisdizionale effettiva, obbliga i giudici degli Stati membri ad assicurare che i mezzi di ricorso e le norme processuali nazionali non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile la proposizione di azioni fondate sul diritto dell’Unione
[22] Si tratta della questione relativa alla firma del protocollo emendativo n. 16 alla CEDU in relazione al quale la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha espresso parere contrario (parere 2/13 della Corte (Seduta Plenaria) del 18 dicembre 2014).
[23] Si veda ad esempio: art. 24 CDFUE che prevede i diritti dei minori; art. 25 diritti degli anziani; art. 36 accesso ai servizi di interesse economico generale; art. 37 tutela dell’ambiente; art. 38 protezione dei consumatori.
[24] La distinzione non è meramente teorica poiché, ad esempio, in presenza di antinomie tra norme dei diversi ordinamenti, nella concezione monista, si possono applicare i criteri di gerarchia e della lex posterior per abrogare o rendere invalide le norme sotto ordinate o precedenti, nella concezione dualista tali criteri non sono applicabili.
[25] Non è viceversa possibile per lo Stato far valere nei confronti del singolo un obbligo imposto da una direttiva prima della trasposizione della stessa.
[26] Corte giust, 19 novembre 1991, in cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich
[27] In tal caso, infatti, il diritto dell'unione non impone agli Stati membri di prevedere la possibilità di riapertura del processo. Ai singoli, tuttavia, deve essere concesso di far valere la responsabilità dello Stato al fine di ottenere con tale mezzo la tutela dei propri diritti.
[28] Nella giurisprudenza degli anni 70 la Corte ha ritenuto che il primato del diritto comunitario, la cui copertura costituzionale si rinviene nell'articolo 11 cost - che consente limitazioni alla sovranità nazionale necessaria per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni - dovesse essere garantito mediante la rimozione nel giudizio di costituzionalità del diritto interno contrastante con il diritto comunitario (parametro interposto) per violazione dell'articolo 11 cost.”
[29] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, p. 116-117.
[30] Corte cost. n. 227/2010; n. 75/2012; n. 207/2013; n. 269/2017.
[31] V. anche successive sentenze Corte Cost. nn. 20/2019, 63/2019, 11/2020, 44/2020, 254/2020
[32] Si veda in questi termini, ZAGREBELSKY, CHENAL, TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, 2022, p. 121.
[33] Così espressamente ex multis Corte cost. 181/2024.
[34] Vedi GUASTINI, La sintassi del diritto, 2014, Giappichelli, Torino, pag. 67-75.
[35] Tale impostazione è seguita, anche a livello interno, per le questioni di legittimità costituzionale. V. Corte Cost. 356/1996: il giudice non è obbligato a rimettere la questione di legittimità costituzionale quando da una disposizione può ricavare una norma incostituzionale, ma soltanto quando da una disposizione non può ricavare neppure una norma che sia costituzionale.
[36] v. Corte Cost. 269/2017; 20/2019; 63/2019; 181/2024.
[37] Lo Stato italiano ha predisposto un piano di riforme per ottenere i finanziamenti previsti dal c.d. Next Generation UE (alcuni, a fondo perduto, altri, sotto forma di prestiti onerosi). L’azione dei pubblici poteri è quindi limitata dal dover adempiere a quanto previsto nel piano ed entro le scadenze prestabilite, pena la perdita dei finanziamenti.
[38] Si tratta di una concezione del diritto che si fonda su una base giuspositivistica ma che dà ingresso anche ai valori e ai fatti attraverso la tutela multilivello dei diritti fondamentali. Tutto questo avviene tramite l’utilizzo di strumenti interpretativi basati sulla formulazione di principi e sul loro bilanciamento attraverso tecniche argomentative diverse da quella della classica sussunzione legale.
[39] Su tutti mi limito a citare un esempio.
Sulla base dell’art. 6 CEDU la Corte di Strasburgo ha elaborato una propria nozione di sanzione penale basata sui c.d. criteri Engels.
In base alla suddetta nozione, la Corte di Strasburgo ha spesso riqualificato quelle che per il diritto interno erano sanzioni amministrative in sanzioni penali, ponendosi quanto meno in rapporto di tensione con il principio di riserva di legge parlamentare e di democraticità.
Tali criteri, che nella causa Engel vengono riferiti all’ambito del diritto militare, sono resi criteri generali e consolidati dalla giurisprudenza della stessa Corte nella sentenza Öztürk contro Germania del 21 febbraio 1984. Tali sono: la qualificazione giuridica interna, secondo la quale «occorre anzitutto sapere se le previsioni che definiscono l’illecito in questione appartengono, secondo il sistema legale dello Stato resistente, alla sfera del diritto penale, disciplinare o entrambi assieme»; la natura dell’illecito e la funzione del conseguente provvedimento previsto, che deve essere applicabile in modo generale e avere scopo preventivo e repressivo; in ultimo, la gravità della sanzione, che non deve necessariamente essere privativa della libertà personale, come confermato in successive sentenze (Cfr. A e B contro Norvegia, Grande Camera, 15.11.2016; Johannesson contro Islanda, 18.5.2017).
[40] V. Cass. Sez. Un. 9479/2023: “la clausola del contratto resta abusiva anche se il consumatore non si è opposto all’ingiunzione. Spetta quindi al giudice dell’esecuzione controllare se la clausola ha natura vessatoria, ad esempio perché deroga al foro del consumatore.”
[41] Si veda L. FERRAJOLI, Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, 2022, pag. 80-83, il quale ha operato una riformulazione della teoria della separazione dei poteri:
-al centro e prima di tutto vi sono i diritti fondamentali, che delimitano, per i poteri, la sfera del decidibile;
-poi abbiamo le istituzioni politiche e di governo, legittimate dal consenso elettorale, che attraverso la discrezionalità legislativa, hanno il potere di creare nuove norme, nel rispetto dei propri obblighi negativi e positivi di tutela dei diritti fondamentali;
- dopo di che abbiamo le istituzioni di garanzia primaria e secondaria, legittimate dal principio di legalità:
Le istituzioni di garanzia primaria (come ad esempio la pubblica amministrazione) devono esercitare la propria discrezionalità amministrativa, entro i limiti fissati dalle istituzioni politiche e per adempiere ai loro obblighi di tutela dei diritti fondamentali;
le istituzioni di garanzia secondaria (la giurisdizione) intervengono quando sono stati violati i diritti fondamentali nei rapporti orizzontali (Corte di Cassazione) oppure, nei rapporti verticali, quando è stata male esercitata la discrezionalità legislativa (la CEDU, la CGUE, la Corte Costituzionale) o amministrativa (il Consiglio di Stato).
[42] Solo per citarne alcuni:
- tentare di fornire una ri-classificazione sistematica del nostro diritto interno alla luce del diritto sovranazionale: ad esempio, a partire dal concetto di “principi costituzionali comuni agli Stati membri” ex art. 6 par. 3 TUE, approfondire quali sono questi principi e studiarli nell’ambito del diritto civile, penale, amministrativo;
- adottare un approccio euronitario alla ricostruzione delle varie materie affrontandole come diritto privato europeo, diritto penale europeo, diritto amministrativo europeo;
- approfondire quali sono le categorie utilizzate dalle Corti sovranazionali e cercare di metterle a sistema;
-discutere dell’attualità del principio della separazione dei poteri e di quello di certezza del diritto all’interno di un sistema multilivello che ha una visione dialogica ed argomentativa del diritto che si crea dal basso, caso per caso, in antitesi alla visione del diritto imperativistica come comando che si crea dall’alto, e che si applica, per sussunzione, alla fattispecie.
Attorno a questo corpo dalle mille paludi.
Introduzione al V Convegno di Giustizia insieme, Roma 6 giugno 2025
Il corpo umano ha da sempre rappresentato un mistero.
Le radici più antiche del pensiero occidentale ne hanno tramandato la considerazione alternata tra il platonico carcere dell’anima e la singolare e indissolubile combinazione aristotelica di materia e forma.
Un’ambivalenza che la prima cristianità ha saputo tradurre, a partire dal mistero dell’incarnazione divina, in modelli teologici esemplari e in raffinati sistemi morali.
A questa costitutiva ambivalenza ontologica del corpo umano il pensiero scientifico moderno ha ritenuto di potersi sottrarre sollecitando una visione del corpo dominata dall’esclusiva considerazione dei suoi elementi quantitativi (o artificialmente quantificabili), e relegandone ogni dimensione qualitativa (la mente, il pensiero, l’anima o lo spirito) al dominio della metafisica o della religione.
Proprio in questo contesto del pensiero moderno, con riguardo alla considerazione del corpo, il diritto ha smarrito la sua strada: perdutamente distratto, negligente o disinteressato, ha presupposto il Soggetto (di ascendenza cartesiana) come datità trascendentale, ne ha arredato il mondo con il caleidoscopio dei beni scambiabili o producibili, e ha abbandonato la sorte del corpo agli arbìtri dei giovani Stati sovrani, ai disegni manipolatori della loro biopolitica, e alla disciplina morale delle chiese.
Nella misura in cui il contenuto dei codici borghesi andava costruendo il governo delle società moderne attorno alla regolazione dell’autonomia del Soggetto nella gestione economica del suo patrimonio, il corpo scompariva da ogni orizzonte della giuridicità civile, per ricomparire, ora brutalizzato, torturato, più spesso rinchiuso, tra gli arnesi punitivi del potere pubblico, quelli correttivi dei sanatori o delle istituzioni manicomiali, quando non mortificato dalle severe censure morali delle autorità religiose.
Quando finalmente riapparve in un testo normativo ufficiale (fuori dai misteriosi regolamenti o dalle nascoste circolari del potere), il codice civile italiano del 1942 guardò al corpo (o più propriamente, alle sue parti) al solo fine di regolarne la disponibilità da parte del suo ‘titolare’; una disponibilità riconosciuta e consentita nei rigorosi limiti della sua pur sempre preservata integrità, a beneficio degli interessi della collettività o della Nazione, secondo i toni consueti della stanca retorica del tempo.
Il corpo come mero oggetto, dunque, affidato alle mani del suo ‘padrone’ spirituale, in coerenza ai canoni classici della tradizione idealistica.
Ma sono, quelli, gli anni in cui la riduzione del corpo a mero oggetto veniva rivelando il suo risvolto più oscuro e terrificante, attraverso il racconto del corpo (o, meglio, dei corpi) orrendamente ritratti dalla pagina di Primo Levi.
È, dunque, un uomo quello il cui corpo diventa programmaticamente la ‘cosa’ voluta dagli altri? L’oggetto che (in contrasto con ogni imperativo di ascendenza kantiana) è destinato a fornire il mezzo per la realizzazione d’interessi altrui?
Sono queste le premesse storico-culturali che, dalla metà del secolo scorso, hanno ispirato e animato l’elaborazione delle carte giuridiche di respiro internazionale per cui al singolo è restituito (o, forse, realmente consegnato per la prima volta nella storia) l’esercizio di una piena sovranità su se stesso: il principio del consenso informato della persona per ogni azione che ambisca a toccarne il corpo; la considerazione della salute, non più come assenza di patologie funzionali di una quantità materiale, ma come completo stato di benessere fisico, psicologico e sociale.
Se, dunque, corpo e mente non appaiono ormai più districabili agli occhi del più avvertito pensiero scientifico contemporaneo, neppure al diritto (come all’orizzonte della cultura contemporanea) è più consentito guardare al corpo come a qualcosa di dissociabile dalla ‘persona’ in cui consiste: la conferma, l’ennesima, dell’insufficienza o della banalità della frusta distinzione categoriale di un mondo arredato di soli soggetti e oggetti tra loro ontologicamente contrapposti.
Eppure, il racconto del mondo contemporaneo ci ammonisce che la considerazione del corpo alla stregua di una cosa, la sua oggettivazione; lo sforzo di ridurlo a pura quantità biologica; il recupero di una sua pretesa natura meramente strumentale, costituiscono i tratti di una tentazione permanente, o quantomeno ricorrente, nella storia dell’uomo; il segno, quasi, della fatale attrazione a cui conducono i sotterranei percorsi della volontà di potenza; ora travestita degli interessi della politica, talora dei panni della tecnica, più spesso della cupa avidità del denaro, fino a precipitare nel travestimento abissale dell’istintualità ferina.
È, in definitiva, il ‘potere’ (nelle multiformità delle sue manifestazioni) il vero antagonista, foucaultianamente, della libertà del corpo; la minaccia che insidia senza tregua i progetti della persona e gli spazi della sua fioritura.
Sullo sfondo di queste considerazioni, il convegno che oggi si presenta ambisce a sollecitare una comune riflessione sullo stato attuale del corpo alla luce degli assetti dei poteri contemporanei.
Si tratta di tornare a guardare i contesti o le situazioni della vita individuale o collettiva all’interno dei quali la vita del corpo rinnova il suo confronto con le criticità più antiche, o si avvia all’incontro con quelle proprie del tempo nuovo, secondo una dialettica che guarda, da un lato, all’esercizio delle libertà della persona e delle sue prerogative di liberazione e, dall’altro, alle forme della coercizione, della sua istituzionalizzazione e dei sistemi che la gestiscono.
Da qui l’interrogativo sui poteri che minacciano la condizione del corpo sofferente, segnato dal dolore fisico o dai tormenti del disagio psicologico; sui limiti entro i quali le esigenze morali o il sentimento religioso della collettività o le ambizioni del pensiero scientifico valgano ancora a giustificare l’imposizione, contro ogni volontà o convinzione personale, di trattamenti o cure non accettate né sollecitate da chi sperimenta direttamente, sulla propria persona, l’esperienza del dolore.
E ancora, gli interrogativi sulla condizione del corpo della donna o di quello, in formazione, del minore, sulla consistenza delle esigenze, nuove o antiche, che quei corpi continuamente esprimono e sulle forme in cui si manifesta la violenza delle culture, delle ideologie e delle forme di sfruttamento o di soggezione che ancora quei corpi opprimono o si propongono di farlo.
Sul piano della coercizione agìta in chiave istituzionale (o latamente politica), la riflessione che intende sollecitarsi vorrebbe fermarsi sui limiti entro i quali la detenzione all’interno delle istituzioni carcerarie, l’imprigionamento o il trattamento generale delle popolazioni civili nei contesti bellici, e ancora la gestione politica dei fenomeni migratori (sul cui ‘contrasto’ sin troppo disinvoltamente appaiono costruiti percorsi e programmi strumentali di natura politica) possano considerarsi ancora compatibili con quel ‘senso di umanità’, che pure l’art. 27 della Costituzione italiana richiama come limite (non solo negativo) dei trattamenti sanzionatori interni, e che, riferito all’esperienza della guerra, conferisce almeno uno dei significati del suo ‘ripudio’ come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11 della Costituzione).
Il desolante racconto della cronaca dei giorni presenti richiama la nostra attenzione sul dovere della ‘sacralità’ e, dunque, sul dovere di avvertire il senso del limite che la barriera del corpo pur sempre esprime sul piano simbolico, a fronte delle troppe stragi che tornano a raffigurare masse di corpi straziati, trasformati (ora in chiave offensiva, talora in chiave difensiva) alla stregua di strumenti umani nelle mani di un odio che appare inestinguibile.
Se una responsabilità è oggettivamente imputabile all’essere umano, questa è senz’altro la negligente dissipazione delle proprie memorie storiche e culturali; se ancora non è distinguibile un senso del mondo a venire - la pronuncia della parola profetica - è tuttavia senz’altro doveroso il discernimento di ciò che, per comune e generalizzata nozione, ha reso la memoria materia di giustizia; che ha scolpito sulla carne dei nostri corpi ciò “che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Attorno a questo corpo dalle mille paludi è il titolo che abbiamo scelto per il nostro Convegno di quest'anno. Si tratta di un prestito da un verso di Amelia Rosselli da Serie ospedaliera, 1969. L'immagine è La danse di Henri Matisse, dipinto nel 1909, esposto al MOMA di New York.
Questo è il programma del Convegno, che si terrà nella Sala Alessandrina presso S.Ivo alla Sapienza, sede dell'Archivio di Stato di Roma, il 6 giugno 2025.
Nel corso della giornata sarà presentato il volume L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere di Donatella Stasio (Castelvecchi, 2025).
9.00
Saluti di Antonella Parisi (vicedirettrice Archivio di Stato di Roma)
Introduzione di Paola Filippi (direttrice scientifica di Giustizia Insieme)
Presentazione del restauro e della digitalizzazione di un registro generale della Corte di assise speciale di Roma a cura di Alessandra Terrei (restauratrice)
SESSIONE I
9.25-10.35
IL CORPO DELLA DONNA discussant Marco Dell'Utri (consigliere della Corte di Cassazione)
Marilisa D’Amico (professoressa ordinaria di diritto costituzionale Università di Milano)
Valentina Calderai (professoressa associata di diritto privato Università di Pisa)
10.35-11.45
IL CORPO SOFFERENTE discussant Corrado Caruso (professore ordinario di diritto costituzionale Università di Bologna)
Stefano Canestrari (professore ordinario di diritto penale Università di Bologna)
Paolo Flores D’Arcais (filosofo e giornalista)
11.45-12.55
IL CORPO DEL MINORE discussant Gabriella Luccioli (già presidente di sezione della Corte di Cassazione)
Mirzia Bianca (professoressa ordinaria di diritto civile Università di Roma Sapienza)
Elisabetta Lamarque (professoressa ordinaria di diritto costituzionale Università di Milano Bicocca)
12.55-14 pausa pranzo
SESSIONE II
14-15.10
IL CORPO DETENUTO discussant Donatella Stasio (giornalista)
Susanna Marietti (coordinatrice nazionale Associazione Antigone)
Mario Serio (componente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale)
15.10-16.20
IL CORPO PRIGIONIERO discussant Paola Filippi (sostituta procuratrice generale della Corte di Cassazione)
Emanuela Fronza (professoressa associata di diritto penale Università di Bologna)
Raffaele Piccirillo (sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione)
16.20-17.30
IL CORPO MIGRANTE discussant Sibilla Ottoni (giudice del Tribunale di Tivoli)
Luigi Patronaggio (procuratore generale di Cagliari)
Giovanna Pistorio (professoressa associata di diritto costituzionale Università Roma Tre)
17.30-17.45
Conclusioni di Costantino De Robbio (vicedirettore scientifico di Giustizia Insieme)
La partecipazione è gratuita, ma è necessaria l’iscrizione.
È prevista la possibilità di partecipare anche da remoto grazie a Radio Radicale.
Il convegno è accreditato presso l’Ordine degli Avvocati di Roma e dà diritto a 8 crediti formativi ordinari.
Per informazioni e iscrizioni:
Comitato scientifico per il convegno: Paola Filippi, Costantino De Robbio, Michela Petrini, Sibilla Ottoni, Riccardo Ionta, Marco Dell'Utri, Angelo Costanzo, Corrado Caruso, Gabriella Luccioli, Giuliano Scarselli.
Comitato organizzatore: Margherita Occhilupo, Michela Petrini, Sibilla Ottoni, Riccardo Ionta, Costantino De Robbio, Paola Filippi, Corrado Caruso.
Immagine: Henri Matisse, La danse, olio su tela, 1909, MOMA, New York.
Dopo averci raccontato, sempre per i tipi di Laterza, di brigate rosse (Colpirne uno. Ritratto di Famiglia con Brigate Rosse, 2022) e di anarchici (La pista anarchica. Dai pacchi bomba al caso Cospito, 2023), Mario Di Vito ci racconta dei Nar e della galassia del terrorismo fascista.
Con il piglio del cronista giudiziario (l’autore segue i temi della giustizia per Il Manifesto) e con molta sicurezza nel maneggiare materiale giudiziario e di archivio, Di Vito ci racconta la storia di Mario Amato, magistrato.
Dopo la prima sede a Rovereto, arriva nel giugno del 1977 alla Procura di Roma, il “porto delle nebbie”, come l’avevano battezzata.
Arriva in un ufficio senza personale, senza schedari o banche dati dove conservare ed organizzare i dati emersi nel corso delle indagini, con i centralinisti assenti sin dal pomeriggio. Lui però tornava per pranzo a casa e sbobinava da solo le intercettazioni telefoniche.
Arriva a Roma ed eredita i fascicoli sull’eversione neofascista romana che furono di Vittorio Occorsio, pubblico ministero, ammazzato da mano fascista quasi un anno prima, il 10 luglio 1976. Agghiacciante la rivendicazione dell’omicidio di Occorsio accusato di «avere, per opportunismo carrieristico, servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi erano portatori». Nonostante questo, i fascicoli sul terrorismo nero rimangono “orfani”, per quasi un anno, finché vengono assegnati ad Amato, l’ultimo arrivato.
Come Occorsio, Amato non ha colleghi che lo affiancano, nonostante i mille rivoli delle indagini sulle organizzazioni neofasciste ed il sangue che scorreva per le strade della Capitale. Un solo magistrato per seguire le trame nere mentre erano in quattro per seguire lo scandalo del calcio scommesse esploso quella stessa estate, fa notare Di Vito.
Come Occorsio, Amato gira senza scorta, senza auto di servizio.
Come Occorsio, Amato viene ammazzato, il 23 giugno 1980, mentre è solo, sulla strada verso il lavoro. Il primo a bordo della sua auto, il secondo mentre attende un autobus perché la sua auto era in panne.
Come Occorsio, Amato viene ammazzato da terroristi fascisti: gli spara Gilberto Cavallini, che poi scappa a bordo di una moto guidata da Luigi Ciavardini, entrambi nei Nuclei Armati rivoluzionari, come i fratelli Fioravanti e la Mambro. Tutti, poi, condannati per la strage di Bologna.
Nei due anni in cui ha lavorato a Roma, Amato ha incrociato, fra indagini e processi, tutti i personaggi della galassia fascista romana, da Concutelli, anello fra i vecchi ed i nuovi fascisti, agli esponenti dei NAR come i fratelli Fioravanti e la Mambro, e poi Carminati, Signorelli, Semeraro. Fanatici fascisti e delinquenti comuni e poi fanatici fascisti che, a furia di consumare rapine per finanziarsi, sono diventati delinquenti comuni. Ha attraversato la parte finale della strategia della tensione, la stagione romana degli omicidi politici, l’età della sottovalutazione della capacità militare ed eversiva dei gruppi neofascisti.
Ha dovuto lavorare nello stesso ufficio di Antonio Alibrandi, magistrato e padre di Alessandro, detto Ali Babà, militante del Fronte della Gioventù e del Movimento Sociale, poi componente dei NAR, i “nuovi” fascisti dopo la stagione di Ordine Nuovo, coinvolto in tutti i fatti più eclatanti di quella stagione criminale, latitante per anni, poi, morto in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Con un figlio così, il padre interveniva per fermare le perquisizioni delle sedi del Movimento Sociale, insolentiva i colleghi che indagavano fino a compiacersi dell’omicidio di Emilio Alessandrini “giudice della Repubblica”, minacciava i poliziotti che notificavano avvisi a comparire per il figlio, interrompeva i dibattimenti a carico dei terroristi neri. Chi sa cosa direbbero di un uno così, oggi, i tifosi dell’apparenza di imparzialità dei magistrati. Allora, venne condannato dalla sezione disciplinare del CSM alla censura, ma solo dopo che Amato era stato ucciso.
Ha dovuto lavorare con il Procuratore Giovanni De Matteo, che scriveva sulla rivista Politica e Strategia, vicina alla destra radicale, e non riassegnò tempestivamente i fascicoli di Occorsio dopo dopo il suo omicidio, non affiancò nessuno ad Amato per consentirgli di lavorare meglio, contribuì al suo isolamento in ufficio e nei rapporti con la polizia giudiziaria, fino a concludere, dopo avere appreso della sua morte, «Mario Amato è morto per un eccesso di zelo. Se non si fosse tanto preoccupato di arrivare puntuale in aula, lunedi mattina avrebbe avuto la scorta».
Amato ha sopportato una campagna di delegittimazione del foro e della stampa locale. Meno di dieci giorni prima di essere ammazzato l’Ordine degli avvocati di Roma ha diffuso, sui giornali, un documento in cui lo criticava per un ordine di cattura.
Insomma, a Roma allora la destra non era solo quella delle spranghe, delle pistole e delle bombe.
Amato era consapevole di indagare su un «ambiente con legami e diramazioni dappertutto», e di essere «solo…esposto ad attacchi della stampa e dei legali che sono legati a certa gente», come raccontava nella sua audizione innanzi alla prima commissione del CSM.
Fra fascisti, rivoluzionari o borghesi che fossero, Mario Amato è rimasto un giudice normale che cercava di fare il suo lavoro. Tutta la sua umanità traspare dalla continua ricerca di aiuto fra i colleghi, dalle richieste al Procuratore di essere affiancato dai colleghi od esonerato da parte del lavoro, dalla restituzione di fascicoli che non riusciva a lavorare.
Ha continuato il suo lavoro con scrupolo come quando, tornato dalle ferie, ha scovato per caso un fascicolo che la Procura romana stava inviando per competenza altrove e, consultando i suoi appunti personali, ha scoperto che riguardava bombe a mano già usate in attentati consumati a Roma.
Un uomo normale ma determinato, sempre alla ricerca di una “verità di assieme”. Innanzi al CSM ha invitato a non sottovalutare la pressione degli ambienti eversivi sul movimento giovanile del Movimento sociale: «ci sono ragazzi e ragazzini… come i nostri figli… figli di persone per bene, che vengono armati o comunque istigati ad armarsi e che poi ci trovano e ci ammazzano».
Ed in effetti dieci giorni dopo quell’audizione venne ammazzato mentre aspettava un autobus per andare al lavoro.
Il referendum abrogativo parziale dell’art. 8 della l. 15 luglio 1966, n.604, sui licenziamenti individuali nell’ambito delle piccole imprese, con riferimento al limite massimo della tutela indennitaria
V. A. Poso. Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data 12 aprile 2024 dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024).
Il secondo, sinteticamente denominato dai promotori “Piccole imprese - Licenziamenti” ha ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?».
Il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro dignitoso”, è inteso, in estrema sintesi, ad innalzare le tutele contro i licenziamenti illegittimi per le lavoratrici e i lavoratori che operano nelle imprese con meno di 15 dipendenti, eliminando il tetto massimo all’indennizzo, affinché sia il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite.
Chiedo, in particolar modo, ai giuslavoristi, in cosa consista la disciplina normativa oggetto di referendum.
Innanzitutto, un quadro sintetico dei soggetti ai quali si applica, spiegando, anche, le ragioni di politica del diritto poste a fondamento della l. n. 604/1966, che è rimasta, nel suo impianto originario, sostanzialmente immune, nonostante le riforme successive, dallo statuto dei lavoratori in poi, dovendosi, comunque, considerare le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108.
L. Zoppoli. La l. n. 604/1966 è la base di tutto l’edificio in cui albergano le tutele contro i licenziamenti arbitrari e/o viziati nella forma, nella motivazione, nella tempistica, nella procedura.
Si tratta di una disciplina importante e complessa, ripresa da accordi interconfederali degli anni ’50, che nell’insieme si può dire abbia resistito piuttosto bene al tempo con l’importante eccezione dei regimi sanzionatori, entrati in crisi solo pochi anni dopo con l’art. 18 della l. n. 300/1970.
Di quella originaria disciplina faceva parte anche il quadro sanzionatorio previsto dall’art. 8 che riguardava il licenziamento viziato in quanto carente della giusta causa o del giustificato motivo. Tale licenziamento era da considerarsi annullabile e il lavoratore godeva di una tutela c.d. obbligatoria: cioè aveva diritto ad essere riassunto entro tre giorni oppure (“in mancanza”) al risarcimento del danno consistente in un’indennità predeterminata nel minimo (5 mensilità dell’ultima retribuzione) e nel massimo (12 mensilità, che diventavano 8, se il lavoratore era in servizio da meno di trenta mesi, o 14, se aveva invece un’anzianità superiore a vent’anni), da graduare in base a tre parametri (dimensione dell’impresa, anzianità di servizio del lavoratore, comportamento delle parti).
Tutte le indennità venivano dimezzate per le imprese con meno di sessanta dipendenti (art. 8 c. 3). Per completezza occorre anche ricordare che la legge del 1966 non si applicava alle imprese con meno di trentacinque dipendenti (art. 11c. 1).
Con lo Statuto dei lavoratori la tutela obbligatoria divenne la sanzione per i licenziamenti ingiustificati solo nelle imprese che occupavano fino a sessanta dipendenti con eccezione delle unità produttive con più di quindici dipendenti o cinque, se agricole (c.d. “tutele parallele” frutto di una tribolata interpretazione giudiziaria assestatasi a fine anni ‘70 e avallata dalla Corte costituzionale). Questo assetto ha resistito fino alla l. 108/1990, adottata per scongiurare un referendum che avrebbe potuto generalizzare la reintegrazione.
Questa legge ha modificato entità e criteri di determinazione delle indennità risarcitorie, ma non il campo di applicazione dell’art. 8, conservando così la tutela obbligatoria nelle imprese che occupano fino a sessanta dipendenti con eccezioni delle unità produttive (o imprese ubicate nello stesso comune) con più di quindici dipendenti o cinque se agricole (art. 2 l. 108/90). Con la riforma del 1990 le indennità venivano fissate tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità (elevabili per i datori di lavoro con più di quindici dipendenti a 10, in caso di lavoratore con anzianità superiore a 10 anni, e a 14, in presenza di anzianità superiore a vent’anni); ed andavano calcolate sulla base non più di tre parametri ma di cinque (si aggiungono con qualche duplicazione: numero dei dipendenti occupati e anzianità di servizio del prestatore di lavoro).
Questo regime sanzionatorio, da un lato miserrimo e dall’altro frutto di cervellotiche ponderazioni, rende evidente come nelle piccole imprese la disciplina del licenziamento sia diventata sempre più frutto di compromessi all’insegna del pragmatismo più marcato dove il “valore della stabilità” per il lavoratore conta davvero poco rispetto alle miriadi di piccole imprese in cui sembra evidentemente inaccettabile indebolire anche minimamente la posizione contrattuale del datore di lavoro.
Con il Jobs Act anche gli assunti con contratto a tutele crescenti (d’ora in poi catuc, usato come acronimo) nelle piccole imprese (le stesse di cui all’art. 2 della l. 108/1990, ripreso dall’art. 18 Stat. lav. novellato nel 2012) si son visti rimaneggiare le tutele contro i licenziamenti illegittimi: queste divengono sempre solo indennitarie (con eliminazione della riassunzione, per la verità alternativa quasi mai praticata), ma mai possono superare le sei mensilità (art. 9 c. 1 del d.lgs. 23/2015).
Pertanto, il referendum sull’art. 8 della l. 604/1966 riguarda specificamente solo i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, che vedrebbero cadere il limite massimo ora previsto per le sanzioni indennitarie e avventurarsi nel mare aperto del diritto dei contratti. Come del resto, grazie alla Corte Cost. (194/2018), già parzialmente sembra accaduto sia per i lavoratori delle imprese medio-grandi assunti con catuc (per i quali la determinazione dell’indennità è ora rimessa al giudice seppure in una forbice legale di 4/36 mesi) sia per gli assunti con catuc nelle imprese più piccole, che un’altra sentenza della Corte (183/2022) ha considerato in via di espunzione dall’ordinamento.
O. Razzolini. Mi sembra che Lorenzo Zoppoli abbia già efficacemente tratteggiato il complesso quadro normativo vigente in materia di licenziamento nelle piccole imprese, dando conto anche della sua evoluzione storica.
Posso solo aggiungere che la scelta di diversificare il regime del licenziamento illegittimo in base al numero dei dipendenti sollevò un vivace dibattito parlamentare sin dall’approvazione della l. n. 604 del 1966 che, all’art. 11, ne sanciva la non applicabilità ai datori di lavoro che occupavano fino a trentacinque dipendenti per i quali avrebbe continuato ad operare il recesso ad nutum (v., in particolare, il resoconto del dibattito parlamentare del 12 maggio 1966).
Il requisito dimensionale dei 35 dipendenti, in parte mutuato dalla contrattazione collettiva, venne ampiamente criticato dalla minoranza e, in particolare, dall’on. Francesco Cacciatore(PSI, prima, PSIUP, poi)che respinse sia l’argomento fondato sull’elemento fiduciario che caratterizzerebbe i rapporti di lavoro nelle piccole imprese, giustificando l’esigenza di una maggiore libertà nel recesso, sia quello economico che faceva riferimento alla necessità di non gravare queste ultime di costi eccessivi. In subordine, la minoranza proponeva di abbassare il requisito da 35 a 10. Affermava Cacciatore in modo un po’ lapidario che «se il datore di lavoro non si trova nelle condizioni di affrontare la penalità o di riassumere il dipendente», nel caso il licenziamento venga ritenuto illegittimo, «vuol dire che non si deve concedere il lusso di licenziare ingiustamente».
L’on. Angelo Abenante (PCI) aggiunse che il requisito numerico si sarebbe tradotto in un incentivo per gli imprenditori ad eludere la legge frammentando l’impresa in tante unità o stabilimenti produttivi. Un’affermazione quest’ultima che va al cuore di un problema ancor oggi attuale. Il requisito numerico costituisce infatti un incentivo alla frammentazione di un’attività economica sostanzialmente unitaria non solo in una pluralità di stabilimenti e unità produttive riconducibili al medesimo soggetto di diritto, bensì in una pluralità di imprese e soggetti distinti sul piano giuridico formale (gruppi di imprese, reti, filiere).
Prevalsero, come noto, la proposta della maggioranza e i due argomenti – fiduciario ed economico – su cui essa si fondava.
Se il criterio della fiduciarietà del rapporto oggi non è più la ratio della libertà di recesso concessa alle piccole imprese, per contro tenute ad addurre sempre una giusta causa o un giustificato motivo, esso continua a costituire la spiegazione del perché in tali contesti organizzativi resti preferibile non attuare il rimedio della reintegrazione. La Corte costituzionale ha altresì richiamato l’«esigenza di salvaguardare la funzionalità delle unità produttive» in cui la reintegrazione potrebbe comportare situazioni di tensione nelle relazioni umane e di lavoro (Corte cost., n. 152 del 1975).
L’idea di diversificare il regime del licenziamento alla luce di un criterio dimensionale basato sul numero dei dipendenti non è certamente isolata né circoscritta al solo contesto italiano.
La loi Macron, che adotta un regime di tutela in caso di licenziamento ingiustificato molto simile a quello del Jobs Act, diversifica le conseguenze in caso di licenziamento illegittimo, fissando tetti minimi e massimi all’indennità dovuta al lavoratore a seconda di due elementi oggettivi: il numero dei dipendenti occupati nell’impresa (meno di 20, tra 20 a 299, 300 dipendenti e oltre) e l’anzianità di servizio del dipendente licenziato (meno di 2 anni, 2-10 anni, più di 10 anni). Anche in Germania la disciplina in materia di licenziamento (KSchG) è applicabile soltanto alle imprese che occupano più di dieci dipendenti; pertanto, al di sotto di tale soglia vale il principio della libertà di recesso (salvi i casi del licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza o del licenziamento discriminatorio).
A mio parere, tuttavia, alla base del quesito referendario non vi è tanto la volontà di rivedere i criteri alla base della scelta di escludere le piccole imprese dalla tutela reale, quanto l’intento di mettere in discussione la legittimità dei tetti massimi all’indennizzo dovuto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, in omaggio al principio dell’integrale risarcimento del danno affermato anche dal Comitato europeo per i diritti sociali (v. CGIL vs Italy, 11 settembre 2019). Un principio la cui affermazione, pur limitata ad un contesto assai circoscritto (lavoratori occupati nelle piccole imprese e assunti prima del 7 marzo 2015), avrebbe una grande importanza sul piano valoriale.
V. A. Poso. Siamo arrivati, poi, al testo vigente, che riguarda, comunque, i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ai quali, invece, si applicano le disposizioni normative del d. lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 (c.d. Jobs Act).
Chiedo, in particolare, a Lorenzo Zoppoli di tracciare un quadro sintetico delle diverse posizioni emerse in dottrina su questa norma.
L. Zoppoli. Direi che la dottrina è unanime nel ritenere che non si possa uniformare la disciplina dei licenziamenti per tutte le imprese ignorandone le differenze dimensionali, specie per quanto attiene alla solidità patrimoniale. Però è divisa sui parametri per valutare tale solidità. Molti ritengono che ormai non regga più il solo parametro del numero dei dipendenti, che dovrebbe essere almeno affiancato da altri come il fatturato o la redditività dell’impresa o la considerazione del grado di evoluzione tecnologica dell’organizzazione aziendale. Altri ritengono invece che il dato numerico rispecchi l’importanza dell’elemento fiduciario che sarebbe maggiore laddove a lavorare si è in pochi. Quest’ultimo era probabilmente il fattore determinante nell’escludere la reintegrazione per le imprese con pochi lavoratori. Ma se invece si tratta di graduare sanzioni indennitarie (come nella proposta referendaria) senza imporre alcuna prosecuzione del rapporto mi pare venga meno la rilevanza del numero dei lavoratori occupati.
V. A. Poso. Orsola Razzolini hai qualcosa da aggiungere rispetto a quanto evidenziato da Lorenzo Zoppoli, con riferimento alle applicazioni giurisprudenziali più importanti e alla nozione di piccola impresa?
O. Razzolini. Mi sembra che anche la giurisprudenza abbia sempre condiviso la necessità di differenziare le conseguenze del licenziamento illegittimo sulla base del requisito dimensionale. Va segnalata tuttavia la giurisprudenza in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato in violazione dell’art. 2110 c.c. e della contrattazione collettiva. L’orientamento più recente lo reputa nullo e pertanto improduttivo di effetti a prescindere dal numero dei dipendenti occupati nell’impresa (Trib. Pesaro, 27.4.2022; Cass., 22.5.2018, n. 12568; Cass., 22.7.2019, n. 19661). Un discorso diverso vale per il licenziamento inefficace per assenza di motivazione.
Non si può poi non soffermarsi sulla sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2022 che ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1, d.lgs. n. 23 del 2015, che circoscrive l’indennità dovuta ai lavoratori occupati nelle piccole imprese e assunti dopo il 7 marzo 2015 nel ristretto margine di 3-6 mensilità, richiamando tuttavia l’urgenza di un intervento legislativo che riveda la materia in termini complessivi sia con riferimento ai requisiti dimensionali sia con riferimento alla funzione effettivamente dissuasiva delle diverse indennità. La Corte punta in particolare il dito sulla perdurante idoneità del requisito numerico a denotare l’effettiva capacità economica dell’impresa.
Ed in effetti si deve convenire che nel contesto attuale vi sono imprese immobiliari e fondi di investimento con fatturati estremamente elevati e pochissimi dipendenti e, per contro, imprese con molti dipendenti ma poco margine in termini di utili e fatturato prodotto.
Il numero dei dipendenti è dunque un criterio senz’altro indicativo ma non più esclusivo. Ancora andrebbe ripensato il perimetro dell’impresa da considerare per calcolare il numero dei dipendenti. Ad esempio, nei gruppi, i dipendenti di una società controllata al 99% andrebbero sommati con quelli della controllante; del pari, nelle filiere, l’impresa leader, che controlla saldamente le imprese parte della filiera, non può scaricare su queste ultime dipendenti e relativi costi senza assumerne alcuna responsabilità. In definitiva, nelle organizzazioni complesse ma fortemente integrate il principio della formale separazione soggettiva non può più operare in modo automatico e assoluto.
È infine la stessa scelta dei 15 dipendenti quale requisito numerico a destare perplessità.
È noto come, per l’Istat, più che le piccole imprese rilevino le microimprese (0-9 addetti), che costituiscono il 95,2% delle imprese attive, occupano il 43,8% dei dipendenti (con una spesa media di 21.800 euro per dipendente) e portano solo il 26,8% di valore aggiunto complessivo. Forse occorrerebbe tornare al requisito dei 10 dipendenti suggerito nel 1966. È utile, in proposito, ricordare la definizione di “microimpresa” (perché è in fin dei conti delle micro, non delle piccole imprese che stiamo discutendo) contenuta nel Decreto del Ministero delle attività produttive del 18 aprile 2005 sulla scorta della Raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE: è microimpresa l’impresa che ha meno di dieci occupati e un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro dove per “bilancio annuo” si intende “il totale dell’attivo patrimoniale”. Credo questa sia la definizione di “piccola impresa” che dovrebbe essere accolta sul piano legislativo.
Vorrei osservare, infine, che questa definizione solo in parte interseca quella di cui all’art. 2083 c.c. in base alla quale “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Requisito essenziale del piccolo imprenditore, per il Codice civile, è quello di essere titolare di un’organizzazione di mezzi e persone che tuttavia non prevale mai sul contributo personale diretto dell’imprenditore e dei suoi familiari. Difficilmente un’organizzazione che occupa nove dipendenti può dirsi non prevalente, salvo il caso dell’impresa artigiana dove è maggiore il rilievo, in termini specialmente qualitativi, del lavoro diretto anche manuale del titolare dell’organizzazione tanto giustificarne un trattamento speciale e differenziato.
V. A. Poso. Lorenzo Zoppoli hai qualcosa da aggiungere alle osservazioni di Orsola Razzolini?
L. Zoppoli. Mi pare che Orsola abbia dato le indicazioni necessarie, con qualche utile spunto di riflessione che va oltre gli orientamenti della giurisprudenza. Aggiungerei che la più recente giurisprudenza costituzionale si lascia apprezzare anche di più se si considera quella (v. la sentenza n. 26 del 2017) che bloccò il precedente referendum sull’art. 18, che, come scrissi tempestivamente (v. il Quaderno n. 4 di Diritti lavori mercati (a cura di Sandro Staiano, Antonello Zoppoli, Lorenzo Zoppoli, Il diritto del lavoro alla prova del referendum, Editoriale Scientifica, 2018), impedì una utile verifica popolare sulla svolta legislativa realizzata con il d.lgs. 23/2015 che confermava e anzi, come si è detto prima, peggiorava le tutele contro i licenziamenti illegittimi anche nelle piccole imprese, cristallizzando il discrimine basato sul solo numero di dipendenti per di più individuato in valori troppo alti.
V. A. Poso. Come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria sulla norma in questione? Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito è che “Il lavoro deve essere dignitoso e perciò ben retribuito”. L’abolizione del tetto massimo del risarcimento consentirebbe al giudice di quantificarlo in base ai diversi parametri (età, carichi familiari, capacità economica dell’azienda), senza limitazioni imposte dalla legge, riconoscendo così una tutela più adeguata al lavoratore licenziato; e ciò rafforzerebbe la funzione dissuasiva della norma, come rimodulata in caso di esito positivo del referendum abrogativo.
Condividete questa prospettazione?
L. Zoppoli. In linea di massima condivido la necessità di adeguare le sanzioni per i licenziamenti ingiustificati nelle piccole imprese. Nutro solo la preoccupazione che l’eliminazione del massimo venga utilizzata dai giudici al ribasso.
O. Razzolini. Il quesito referendario affronta il tema della natura dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo. Parliamo di un risarcimento in senso tecnico, nel qual caso la previsione di tetti massimi costituisce un oggettivo e inaccettabile impedimento per il giudice di modulare il risarcimento al fine di garantire al lavoratore un integrale ristoro del danno subito? O parliamo di un’indennità che non aspira a garantire al lavoratore un risarcimento integrale ma un equo indennizzo, tenendo conto anche delle esigenze di salvaguardare l’impresa e i suoi interessi? A me sembra che questo sia il punto.
È evidente che il Comitato sociale europeo, nelle decisioni CGIL vs Italy e Finnish Society vs Finland, ha adottato la prima delle due posizioni e che, in parte, anche la Corte costituzionale con la sent. n. 192 del 2018 ha seguito questa linea pur confermando poi la legittimità dei tetti. Tuttavia, è altrettanto evidente che gli stati europei hanno sul punto una posizione ben diversa. Non solo l’Italia, ma la Spagna, la Francia, la Grecia, la Finlandia, il Regno Unito, prevedono tetti minimi e massimi all’indennizzo dovuto al lavoratore per non parlare del metodo di calcolo fondato sull’automatismo, da noi dichiarato incostituzionale, ma ancora vigente in Spagna dove al licenziato spetta un’indennità pari a 33 giorni di retribuzione per ogni anno di anzianità di servizio con un massimo di 24 mensilità. E la ragione dei tetti è, spiega il Tribunal Constitucional spagnolo, proprio il fatto che l’indennità non ha natura pienamente risarcitoria ma è funzionale al contemperamento degli interessi del lavoratore con quelli di politica economica e sociale.
In altri termini, il legislatore, prevedendo dei limiti, ammette che l’indennizzo – che pure deve essere adeguato e anche dissuasivo – non è rivolto all’integrale ristoro del danno patito dal lavoratore poiché vengono in rilievo esigenze di tutela dell’impresa che impongono un contemperamento. Alla stessa conclusione giunge il Conseil constitutionnel in Francia.
A me sembra che gli stati e le legislazioni nazionali abbiano tutto il diritto di scegliere, nell’esercizio della loro discrezionalità, di continuare a seguire questa impostazione. Naturalmente il fatto che la compensazione dovuta al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo abbia natura indennitaria e non risarcitoria non esclude che l’ammontare della stessa possa essere soggetto al giudizio della Corte costituzionale sotto il profilo dell’adeguatezza, della ragionevolezza e anche della dissuasività. Anzi, si può parlare di adeguatezza e ragionevolezza proprio perché parliamo di indennizzo; se parlassimo di risarcimento, in senso tecnico, non vi sarebbe alcuno spazio per ragionare di tetti minimi e massimi o di adeguatezza poiché in contrasto con il principio dell’integrale risarcimento del danno alla persona. E sotto questo profilo la previsione di un indennizzo compreso tra 3 e 6 mensilità, una forbice ristretta ed esigua, desta notevoli perplessità.
C. Caruso. Colgo l’occasione di questa domanda per fare un discorso più ampio.
Il “lavoro degno” è l’obiettivo verso cui devono convergere le politiche del lavoro in Italia. Non un lavoro purchessia, ma un’attività lavorativa che, a prescindere dalle mansioni in cui si concretizza e dai contesti in cui viene svolta, sia in grado di emancipare la persona, ne consenta la completa realizzazione e, allo stesso tempo, la piena partecipazione alla vita politica, economica e sociale della Repubblica.
Questi, in fondo, sono gli imperativi che discendono, con diversità di accenti, dai primi quattro articoli della nostra Costituzione. Lo ha ricordato anche il Presidente Sergio Mattarella nelle dichiarazioni rese in occasione della Festa dei Lavoratori, quando con vigore e insistenza, ha rimarcato come i salari bassi e la insicurezza sul posto di lavoro siano le emergenze che il nostro Paese deve immediatamente affrontare. La stagnazione delle retribuzioni, nonostante l’aumento della produttività e la alta qualificazione dei lavoratori, deprimono, nelle parole del Presidente, il nostro “capitale umano”. “[L]e morti del lavoro [sono] una piaga che non accenna ad arrestarsi e che, nel nostro Paese ha già mietuto, in questi primi mesi, centinaia di vite, con altrettante famiglie consegnate alla disperazione. Non sono tollerabili né indifferenza né rassegnazione”.
Il lavoro è “espressione della creatività e della dignità umana”. Secondo il nostro Capo dello Stato, gli stravolgimenti portati dalla società della tecnica non possono incidere sui suoi significati di “libertà e coesione”. È la dignità umana che deve costantemente ispirare le politiche del lavoro, l’orizzonte verso cui deve volgere lo sguardo la nostra società nel suo complesso (istituzioni, forze politiche, organizzazioni sociali, lavoratori e datori nelle loro azioni quotidiane). Va collocata in questo contesto la generale strategia referendaria del principale sindacato italiano, che ha proposto, tra i diversi quesiti, quello relativo alla abrogazione del tetto massimo dell’indennizzo per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese più piccole.
Non vi è dubbio che la mobilitazione referendaria lanci un sasso nello stagno e stimoli, nell’attuale immobilismo della compagine di governo, le forze politiche a rimettere al centro del pubblico dibattito la questione del lavoro e delle sue tutele.
Peraltro, allo stato attuale, l’inerzia della maggioranza, sullo specifico oggetto di questa intervista, si traduce in una vera e propria omissione legislativa in odore di incostituzionalità, solo si consideri il monito espresso dalla Corte costituzionale nella sent. n 183/2022. In quell’occasione (sul punto si tornerà infra), il Giudice delle leggi aveva rilevato come la disciplina del Jobs Act sull’indennizzo nei licenziamenti ingiustificati nelle piccole imprese non realizzasse un “sistema” in grado di attuare “quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi”. Pur senza pronunciare l’incostituzionalità della normativa, la Corte segnalava al legislatore “che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”.
Senonché la via referendaria, imboccata dalla CGIL, pone alcuni problemi sia a livello di equilibri generali sia per ciò che concerne la soluzione che, con l’abrogazione, si vorrebbe introdurre.
Quanto ai primi, è evidente che, attraverso la battaglia referendaria, il sindacato mira ad ergersi a referente e terminale principale delle politiche del lavoro. Non è una novità: in passato non sono mancati casi simili (si pensi all’iniziativa referendaria di inizio anni 2000 volta ad estendere la tutela reale alle piccole imprese), ma è evidente che, in questo modo, uno strumento di democrazia diretta, che i Costituenti consideravano di natura oppositiva (quasi un atto di controllo), viene utilizzato a fini propositivi e, in qualche modo, piegato alle logiche di funzionamento della democrazia rappresentativa. Il referendum diviene il mezzo per emergere nella competizione con i principali attori politici (e le altre organizzazioni sindacali), guadagnare visibilità, accrescere i propri consensi, e in qualche misura, dettare l’ordine di priorità dell’agenda politica. Una fuga in avanti, dunque, che non aiuta la composizione di una piattaforma programmatica volta a costruire una credibile alternativa di governo.
Inoltre, come ben sanno i politologi, il referendum è un gioco a somma zero, nel senso che la vittoria (o la sconfitta) è totale e senza sconti (chi vince prende tutto e chi perde lascia tutto). In caso di vittoria, qualsiasi soluzione diversa, capace di introdurre una qualche forma di mediazione rispetto alle scelte del legislatore referendario, potrebbe essere considerata in fraudem alla volontà popolare (e a rischio di incostituzionalità, a voler prendere sul serio la sent. n. 199/2012, con cui la Corte ha dichiarato illegittimo un intervento del legislatore rappresentativo di segno contrario all’esito del referendum del 2011 sui servizi pubblici locali).
La sconfitta o il mancato raggiungimento del quorum di validità potrebbe, all’opposto, cristallizzare l’attuale scelta normativa, rendendo politicamente assai complicato, di fronte a un governo che non brilla certo per attenzione alla questione sociale, riaprire il discorso delle tutele del lavoratore. E questo senza considerare i paradossi e le criticità, già evidenziate dai colleghi lavoristi, che deriverebbero dall’abrogazione del tetto indennitario: imprevedibilità delle soluzioni equitative fornite dal giudice, paradossale corsa al ribasso nella liquidazione del quantum, possibile disarmonia nei regimi tra i lavori assunti in un momento successivo o precedente al Jobs Act (in caso di un improbabile ma non impossibile esito diverso di tale quesito parziale rispetto a quello totale sul Jobs Act).
V. A. Poso. Resta fermo, però, il limite minimo dell’indennità risarcitoria( che va valutato nella sua congruità).
C. Caruso. Sì, il “taglia e cuci” realizzato dalla abrogazione referendaria “salva” il minimo ed elimina il massimo indennitario, restituendo una norma così strutturata: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo minimo di 2,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”.
O. Razzolini. Sì, è così. In teoria, a voler trasformare l’indennizzo in risarcimento in senso tecnico, anche la soglia minima non ha senso. Per come è formulato il quesito il limite minimo resta. La ragione politica è prevalsa in questo caso sulla coerenza tecnica.
L. Zoppoli. Il minimo di 2,5 mensilità previsto dalla norma rimane, essendo ancora espressamente qualificato come tale. Casomai il problema è che viene fissato a un livello davvero irrisorio e che poco si poteva fare con lo strumento referendario.
V. A. Poso. È opportuno, credo, fare una riflessione sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale, anche alla luce delle fonti internazionali, sulla adeguatezza della tutela meramente indennitaria, rispetto a quella reintegratoria, trattandosi di due regimi sanzionatori alternativi, ma compatibili con i principi di tutela del lavoro nel nostro ordinamento complessivamente inteso, anche se il quesito referendario non è diretto ad eliminare la tutela indennitaria per i licenziamenti illegittimi nelle imprese minori, ma solo il tetto massimo del risarcimento stabilito per legge.
In diverse occasioni, infatti, la Corte Costituzionale ha affermato la necessità di realizzare un equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.
L. Zoppoli. Come dici tu stesso, la questione non riguarda il referendum sull’art. 8. E comunque, sebbene sia vero che la Corte costituzionale non sembra ritenere in alcun modo garantita la reintegrazione dalla nostra Carta, il ragionamento deve a mio parere essere più ampio dovendosi approfondire sia la questione della effettività e dissuasività dell’apparato sanzionatorio sia la valutazione di coerenza interna dell’ordinamento qualora la tutela indennitaria prevista per i lavoratori subordinati fosse peggiorativa rispetto ai risarcimenti previsti per danni similari nel diritto generale dei contratti.
O. Razzolini. Come dicevo prima, in teoria, se accogliamo l’idea che l’indennità sia un risarcimento in senso tecnico, allora la reintegrazione, in quanto tutela in forma specifica, dovrebbe sempre essere la via privilegiata.
In questo senso, il Comitato europeo dei diritti sociali nel caso Finnish Society e successivamente in quello italiano promosso dalla CGIL nel 2020 ha valutato la non conformità alla Carta di tutti quei sistemi (caso finlandese e italiano) che non solo prevedono limiti massimi al risarcimento (24 mensilità nel caso finlandese, 36 in quello italiano) ma che escludono a priori la reintegrazione (considerata qui una forma di risarcimento in forma specifica).
Questa conclusione interpretativa però non solo non si evince dalla lettera dell’art. 24 della Carta sociale europea che parla di “congruo indennizzo” (adequate compensation, non full compensation) o “altra adeguata riparazione” (appropriate relief), ma, come ricordavo molto sommariamente prima, si pone in contrasto con la tradizione degli stati europei e, pertanto, a mio parere, difficilmente potrà avere un seguito. Per tale ragione, i proponenti il quesito referendario hanno seguito ma non portato fino alle sue estreme conseguenze la linea interpretativa del Comitato.
In fondo, gli ordinamenti considerano le conseguenze del licenziamento illegittimo un ambito in cui non si può tenere conto del solo punto di vista della vittima dell’illecito, assicurandone l’integrale ristoro, laddove possibile in forma specifica, bensì un ambito in cui le esigenze di tutela del lavoratore vanno contemperate con quelle, altrettanto importanti, dell’impresa e delle sue caratteristiche. Esigenze che, in modo coerente, non vengono invece rilievo, dando pieno spazio al risarcimento integrale, nei casi in cui il licenziamento appaia intollerabile, contrario alla dignità della persona, limite invalicabile dell’iniziativa economica: ad esempio il licenziamento discriminatorio, per motivo illecito o della lavoratrice madre.
C. Caruso. Per quanto riguarda le imprese più grandi, a partire dalla sent. n. 194/2018, che tutto sommato non ha fatto altro che sanzionare una sorta di automatismo legale, irragionevole nella sua rigidità, la Corte costituzionale ha progressivamente ricostruito un sistema di tutele alternativo rispetto a quello disegnato dal legislatore, pur mantenendosi in apparenza fedele all’assunto, radicato nella sua stessa giurisprudenza, secondo cui non può dedursi dalla Costituzione una unica soluzione costituzionalmente obbligata (la tutela reale non sarebbe cioè il solo punto di approdo di una adeguata protezione del lavoratore).
Le pronunce successive non fanno altro che rapportare le differenziate ipotesi introdotte dal legislatore all’unico tipo legale considerato di fatto compatibile con la Costituzione, e cioè alla tutela ripristinatoria (attenuata) prevista per il licenziamento illegittimo senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. È la identità della causa dell’illegittimità del recesso a postulare l’identità delle tutele, sia nel regime Fornero sia nel regime del Jobs Act.
L’univocità costituzionale del tipo legale viene ricostruita attraverso alcuni passaggi che, anzitutto, si preoccupano di rivedere il regime previsto dalla l. n. 92/2012: in primo luogo, in caso di insussistenza del fatto, anche il licenziamento oggettivamente ingiustificato deve essere sanzionato con la tutela reale, e non è possibile lasciare alcuna valutazione al giudice, il quale deve, in ogni caso e a prescindere dalle risultanze del caso concreto, procedere alla reintegra; in seconda battuta, attraverso una sorta di presunzione legale, la Corte si è premurata di demolire l’ordine di priorità delle tutele definito dal legislatore (nel senso di lasciare la reintegra solo in caso di manifesta insussistenza del fatto), così costruendo un sistema che, nei casi dubbi, dia comunque prevalenza alla stabilità del posto di lavoro.
Non vi è dubbio che queste sentenze traccino una preferenza per un determinato modello, sia nei presupposti (insussistenza del fatto) sia negli effetti (reintegra). E questa preferenza prevale a prescindere dal motivo e, più in generale, dalle circostanze del caso (ad esempio, dal rapporto che in concreto il lavoratore intrattiene con il datore di lavoro, dal tipo di impresa in cui presta la sua attività, dalle effettive ragioni che hanno portato al licenziamento): queste non assurgono mai ad elementi di valutazione giurisdizionale, che deve invece attenersi allo schema legale tipizzato dall’unica forma di tutela costituzionalmente ammissibile.
In virtù di tale prospettiva, focalizzata sulla stabilità del posto di lavoro, la garanzia del lavoratore sembrerebbe esprimersi solo e soltanto con la protezione ripristinatoria, con alcune rilevanti e contradditorie eccezioni (tutela indennitaria per mancato repêchage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, reintegra in caso di violazione delle clausole disciplinari del contratto collettivo, ma solo per le fattispecie determinate, licenziamenti collettivi).
Non è inusuale che la Corte costituzionale progressivamente costruisca un disegno sistematico, nelle diverse branche dell’ordinamento, alternativo a quello positivizzato dalle istituzioni rappresentative. Della complessiva razionalità di tali regimi, che vengono a crearsi per via di progressiva sedimentazione alluvionale di origine giurisprudenziale, è però lecito dubitare: la naturale vocazione casistica porta la giurisdizione costituzionale a rispondere alla singola questione proposta, lasciando inevasa tutta una serie di problemi che, in via consequenziale, possono presentarsi a causa degli innesti progressivamente apportati dalla Corte. Una sorta di ius singulare su cui lo stesso Giudice costituzionale è spesso costretto a tornare più volte, per correggere o specificare le soluzioni o le combinazioni normative risultanti dai suoi stessi interventi. Questa produzione continua di giustizia costituzionale a mezzo di giustizia costituzionale è conseguenza di una rincorsa casistica al fatto, che produce sistemi normativi dotati di scarsa o debole coerenza interna.
Anche per superare tali incongruenze, frutto delle numerose dissociazioni compiute dalla Corte, si rende necessario un nuovo intervento di stabilizzazione sistematica da parte del legislatore.
L’iniziativa della CGIL, che pure ha ad oggetto un ambito non direttamente toccato da questa giurisprudenza (salvo quanto si dirà dopo), si inserisce nel quadro di una giurisprudenza che ritiene comunque sbilanciato, a sfavore del lavoratore, l’attuale quadro normativo. Introducendo però un ulteriore elemento di incongruenza: se, infatti, la tipizzazione giurisprudenziale della tutela ripristinatoria delimita la discrezionalità giudiziale, il referendum in oggetto la allarga a dismisura. La tutela del lavoratore, calata a mo’ di asso pigliatutto, deve prevalere sempre nei confronti dell’impresa, anche a costo di incidere sulla sua sostenibilità e capacità di programmazione finanziaria nel medio-lungo periodo (con evidenti ricadute sulle capacità occupazionale e reddituali garantite agli altri lavoratori).
V. A. Poso. Qualche considerazione dobbiamo fare sulla base della sentenza della Corte Costituzionale 22 luglio 2022, n. 183, che pronunciandosi su un’altra norma, l’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (indennità dimezzate per piccole imprese e organizzazioni di tendenza e limite massimo di sei mensilità) ha dichiarato inammissibile la q. l. c., sollevata con riferimento a diverse norme della Costituzione e all’art. 24 della Carta Sociale Europea, con l’avvertimento al legislatore di essere costretta a intervenire, ove nuovamente investita, in caso di sua prolungata inerzia.
Si legge nella motivazione, al punto n. 5.2 « Quanto al secondo profilo, si deve evidenziare che il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete. - Invero, in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. - Il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza».
L. Zoppoli. Questa sentenza conferma pienamente quanto dicevo inizialmente. E va considerato che, nel silenzio del legislatore che ha fatto seguito al monito di Corte Cost. 183/2022, già il Tribunale di Livorno con l’ordinanza pronunciata il 29 novembre 2024 ha sollevato una nuova eccezione di incostituzionalità dell’art. 9 c. 1 del d. lgs 23/2015.
O. Razzolini. Su questo punto ho già risposto sopra.
Concordo con la valutazione della Corte costituzionale e ritengo che il legislatore dovrebbe intervenire e modificare la nozione di piccola impresa, ai fini del licenziamento, adottando quella di “microimpresa” proposta del D.M. del 2005 che utilizza il triplice criterio del numero dei dipendenti (fino a 10), del fatturato e dell’attivo patrimoniale (non superiore a 2 milioni di euro).
È vero però che, come ha sottolineato di recente il “Gruppo Freccia Rossa”, i criteri del fatturato e dell’attivo patrimoniale sono di difficile applicazione mentre assai più semplice risulta quello numerico, non a caso privilegiato dalla legge non soltanto italiana.
E tuttavia affidarsi al solo requisito numerico rischia di costituire un incentivo per operazioni di frammentazione dell’impresa.
Sotto questo profilo, sarebbe opportuno aprire una riflessione sul perimetro dell’impresa che si prende in considerazione. In altri termini, il requisito numerico deve essere oggi letto alla luce delle realtà organizzative complesse dove un’attività economica sostanzialmente unitaria viene frammentata fra una pluralità di soggetti di diritto fortemente integrati e che perseguono uno scopo imprenditoriale comune e condiviso. In questo senso, la giurisprudenza anche di Cassazione che riconosce la codatorialità a determinati fini, tra i quali il ripescaggio e il computo del requisito numerico selettivo del regime di licenziamento, offre indicazioni importanti.
C. Caruso. Due sono i profili censurati dalla sent. n. 183/2022, relative alla norma del Jobs Act concernente la tutela indennitaria nelle piccole imprese: il requisito numerico, di per sé non idoneo a giustificare la differenziazione di trattamento per i lavoratori delle imprese più grandi, e il tetto del massimo indennitario o, meglio, “l’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità”. Su questi due aspetti il legislatore è chiamato, dalla Corte, ad intervenire, secondo soluzioni libere, cui lo stesso Giudice delle leggi non accenna se non per sommi capi (quando fa riferimento, ad esempio, ai “cospicui investimenti in capitali” e al “consistente volume di affari” da tenere in considerazione per valutare la dimensione della impresa). Nella individuazione della soglia dimensionale, il legislatore dovrebbe, per un verso, evitare, come già sottolineato da Orsola Razzolini, l’eccessiva frammentazione della regolazione e, per altro verso, aumentare la forbice indennitaria, che allo stato attuale “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”.
V. A. Poso. Ritorno sulla risposta precedente di Lorenzo Zoppoli che ha anticipato che la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi nuovamente sulla stessa questione di legittimità costituzionale, sollevata, questa volta, dall’ordinanza del 29 novembre 2024 del Tribunale di Livorno (stando al calendario delle udienze della Consulta, la q. l. c. dovrebbe essere decisa il 23 giugno prossimo). Qualche vostra considerazione in proposito, anche sui possibili esiti, tenuto conto della precedente sentenza n. 183/2022 della Corte Costituzionale.
C. Caruso. L’esito non appare così scontato, come si potrebbe pensare alla luce dei toni usati della Corte costituzionale nella sentenza, che in effetti non sembravano lasciare vie di fuga alla dichiarazione di incostituzionalità. La sent. n. 183/2022 è una decisione che può essere ricondotta al genere letterario delle sentenze di incostituzionalità accertata ma non dichiarata: la Corte accerta, nella parte motiva, il vulnus di incostituzionalità ma omette di sanzionarlo con un dispositivo coerente con la motivazione. La pronuncia, infatti, è di inammissibilità, non formale ma sostanziale: a mancare non è una condizione o un requisito processuale, che rende impossibile l’esame nel merito della questione, ma un elemento che attiene alla sostanza della questione sollevata: nella specie, a difettare è una grandezza normativa, presente nell’ordinamento, che consenta alla Corte di sostituire il frammento legislativo ritenuto viziato.
È stato sostenuto, in letteratura, che le inammissibilità sostanziali fossero destinate a essere progressivamente abbandonate dall’armamentario decisorio della Corte. In effetti, a partire da un trittico di sentenze adottate tra il 2017 e il 2019, la Corte ha abbandonato la dottrina, risalente a Vezio Crisafulli, delle rime obbligate, secondo cui l’addizione o sostituzione, realizzabile in via pretoria dal Giudice delle leggi, sarebbe solo quella univocamente desumibile dal tertium comparationis evocato dal giudice remittente e ispirato all’eadem ratio della norma impugnata. Era questa una teoria pensata per limitare la creatività della Corte e tentare, in qualche modo, di rispettare la discrezionalità del legislatore, valore di rango costituzionale esplicitato dall’art. 28 della l. n. 87/1953, secondo cui “il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento”.
Da qualche anno la Corte si accontenta, invece, di intervenire a “rime adeguate”, rinvenendo, anche d’ufficio, nella trama dell’ordinamento soluzioni che le consentano di corregge il vizio di incostituzionalità prospettato dal giudice a quo. È verosimile ritenere che la ragione della inammissibilità pronunciata con la sent. n. 183/2002 sia da rinvenire proprio nella difficoltà di reperire una grandezza idonea a esprimere un ragionevole bilanciamento degli interessi coinvolti.
Tale difficoltà permane anche nella nuova questione prospettata dal Tribunale di Livorno. Bene avrebbe fatto il giudice a quo a ipotizzare una soglia indennitaria massima, argomentando sulla adeguatezza dell’ipotesi così suggerita e, così facendo, tutelarsi da una seconda pronuncia di inammissibilità. Il Tribunale ha invece chiesto una caducatoria secca dell’art. 9 del d.lgs. n. 23/2015, nella parte in cui prevede che “l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Viene così richiesta la completa espunzione del quantum indennitario (non solo del massimo!), con il rischio di lasciare impregiudicata persino il tipo di tutela, e, in ogni caso, senza alcuna indicazione circa l’eventuale sostituzione chiesta alla Corte. In altri termini, se non vi fosse il precedente del 2022, la Corte avrebbe avuto buon gioco a dichiarare inammissibile la questione proposta. Non viene invece attinto, dal petitum della questione, il requisito dimensionale (interessato solo genericamente dagli argomenti spesi dal remittente in relazione alla scarsa dissuasività della tutela).
È quindi verosimile ritenere che la Corte costituzionale, peraltro in una composizione radicalmente diversa da quella del 2022, non si pronuncerà sul requisito dimensionale.
In relazione al massimo indennitario, invece, la Corte dovrà scegliere se rimanere fedele al proprio precedente o appoggiarsi alla laconica ordinanza di rimessione per trovare un commodus discessus. Nel caso in cui voglia dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione, la Corte sarà chiamata a determinare la soglia quantitativa massima, andandola a individuare in via equitativa. Da questo punto di vista, una misura ragionevole potrebbe essere quella prevista dalla proposta di ddl elaborata dal “Gruppo Frecciarossa”, che immagina di raddoppiare, fino a 12 mensilità, la tutela indennitaria, pari alla metà del quantum stabilito dalla legge Fornero per la tutela indennitaria nelle imprese maggiori.
O. Razzolini. Il caso affrontato da Tribunale di Livorno – licenziamento per giusta causa illegittimo intimato da un’impresa con 14 dipendenti e 4 milioni di fatturato – ben dimostra l’opportunità di intervenire sul piano legislativo rivedendo la nozione di piccola impresa alla stregua del triplice criterio dipendenti (fino a 10), fatturato annuo e attivo patrimoniale (non superiore a 2 milioni di euro).
La questione è come potrà reagire la Corte costituzionale dopo la sentenza di tipo monitorio n. 183/2022. In effetti, come sottolinea il Tribunale di Livorno, sono passati già più di due anni da quella sentenza e il legislatore, nonostante il monito della Consulta, non è intervenuto (anche se pare nelle intenzioni farlo a breve).
La Corte potrebbe dunque dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, co. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 poiché la forbice estremamente ridotta (da tre a sei mensilità) entro la quale deve essere determinata l’indennità da licenziamento illegittimo nelle piccole imprese non appare rispondente ai criteri della adeguatezza e della dissuasività, senza contare che definire le piccole imprese sulla base del solo criterio numerico dei 15 dipendenti appare, in effetti, per le ragioni dette, anacronistico.
A mio parere, il giudizio di illegittimità costituzionale potrebbe tuttavia investire il solo limite massimo delle 6 mensilità, lasciando viceversa integra la previsione per cui nelle piccole imprese l’importo previsto dagli artt. 3, co. 1, 4, co. 1 e 6, co. 1 è dimezzato. In questo modo, nel caso di licenziamento ingiustificato nelle piccole imprese, l’indennità potrebbe arrivare a ben 18 mensilità, una cifra certamente congrua, adeguata e sufficientemente dissuasiva anche nel caso di piccole imprese con fatturati elevati. Verrebbe al contempo rispettata l’esigenza di mantenere un regime differenziato per le piccole imprese.
Resterebbe certamente l’anacronismo dell’unico criterio numerico utilizzato per selezionare queste ultime, ma sul punto sembra difficile che la Corte possa pienamente sostituirsi al legislatore tracciando direttamente una diversa e più circoscritta nozione, tratta ad esempio dalla raccomandazione europea e dal decreto ministeriale, da valere “fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento”, come fatto ad esempio nella nota sentenza sul fine vita (Corte cost. n. 242/2019).
La semplice declaratoria di illegittimità del limite delle 6 mensilità appare sufficiente a garantire la “tenuta” costituzionale della disciplina vigente, ferma restando la necessità di un più complessivo intervento legislativo che metta ordine in una materia ormai pressoché inestricabile.
L. Zoppoli. A mio avviso, le motivazioni della nuova ordinanza di rimessione sembrano abbastanza diverse da quelle che hanno condotto alla sentenza 183/2022 di tipo monitorio.
In effetti riprendono puntualmente le censure della sentenza 183 della Corte costituzionale e non si vede come la medesima Corte possa evitare una pronuncia di accoglimento.
Per come è formulata la questione di costituzionalità a me pare che la Corte potrebbe anche semplicemente dichiarare l’incostituzionalità della differenziazione dell’ indennità in ragione del numero dei dipendenti che non risulta un indicatore razionale e convincente della forza economica dell’impresa (nel caso livornese l’impresa ha 14 dipendenti, ma fattura oltre 4 milioni di euro nel 2023). Una pronuncia simile aprirebbe però più problemi sistematici rispetto all’esito positivo del referendum sull’art. 8, che in fin dei conti, pur eliminando i limiti massimi alle indennità, lascia in piedi il criterio del numero di dipendenti che il giudice anzi, insieme agli altri, dovrebbe continuare ad utilizzare.
V. A. Poso. Prima di rivolgere la successiva domanda, cerco di illustrare, a beneficio dei lettori, l’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024, che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 8 della l. n. 604/1966, nel testo vigente a seguito delle modifiche apportate dall’art 2,comma 3, l. n. 108/1990 e per le parti piò sopra indicate. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito è stato assegnato il seguente titolo sintetico, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Piccole imprese - Licenziamenti e relativa indennità: abrogazione parziale”.
Nessun problema si pone per la vigenza del testo normativo in questione per il quale l’Ufficio Centrale per il Referendum richiama, anche, l’art. 1, comma 1, d. lgs 1° dicembre 2009, n. 179( recante: “Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell'articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246”), che, in combinato disposto con l’Allegato 1 allo stesso decreto, ha dichiarato indispensabile la permanenza in vigore delle disposizioni di cui agli artt. da 1 a 10, 11, comma2, 12,13 e 14 della l. n. 604/1966. Mi sembra di poter dire che si tratti di una legge «ricognitiva».
Vado oltre. Merita segnalare - ne dà conto anche l’Ufficio Centrale per il Referendum nella sua ordinanza – che la Corte Costituzionale, con sentenza 6 febbraio 2003,n. 41 ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della medesima norma oggi oggetto di nuova richiesta referendaria( oltre che dell’art. 18, commi primo, secondo e terzo della l. 20 maggio 1970,n.300, come modificato dall’art. 1 della l. n. 108/1990 e degli artt. 2, comma1, e 4, comma 1, secondo periodo, sempre della l. n. 108/1990); richiesta dichiarata legittima, con ordinanza del 9 dicembre 2002, dall’Ufficio Centrale per il Referendum.
Per quanto di nostro interesse, a chi vuole rispondere chiedo una valutazione di questa sentenza.
L. Zoppoli. Due osservazioni. La prima è che la sentenza citata si legge con vero piacere perché è scritta in modo piano e convincente: non a caso la “penna” è quella di Gustavo Zagrebelsky. La seconda è che quel referendum avrebbe avuto un effetto molto più profondo ed ampio di quello attuale: eppure, come mette in rilievo la sentenza, non avrebbe omologato il regime sanzionatorio dei licenziamenti per tutti i lavoratori (alcune categorie ne sarebbero rimaste fuori).
Questo però non era imputabile al quesito referendario, ma ad antiche scelte legislative non tutte nel radar del comitato promotore. Perciò la Corte non ritiene che la permanenza di esclusioni infici la scelta abrogativa proposta agli elettori incentrata sull’eliminazione della differenziazione basata sul numero dei dipendenti. L’esito del referendum proposto nel 2024 sarebbe assai più ristretto perché omologherebbe il regime dei licenziamenti solo con riguardo all’eliminazione dei limiti massimi alle indennità sanzionatorie/risarcitorie mantenendo la reintegrazione fuori dalle imprese più piccole (salvo per vizi formali e discriminatori).
Dopo vent’anni l’esigenza di giustizia uguale per tutti i lavoratori si accontenterebbe così di un risultato parecchio ridimensionato? Forse no, perché a me pare piuttosto che l’universalizzazione delle tutele contro i licenziamenti si muova oggi all’interno della logica che ha ispirato le riforme del nuovo millennio che hanno posto la tutela indennitaria/risarcitoria al centro del sistema purché il giudice possa ragguagliarla al danno effettivamente procurato al lavoratore.
Non sono sicuro però che così si raggiunga realmente un sistema universale ed equilibrato. Anche perché i criteri di determinazione delle indennità introdotti dalla L.n.108/90 (non soggetti a referendum e da integrare con quelli indicati dall’ art. 30 c. 3 della L. n. 183/2010) mi pare obblighino il giudice a differenziare sensibilmente le indennità in base anche alle dimensioni dell’impresa. Che fine fa così anche una pur minima garanzia di universalizzazione delle tutele?
V. A. Poso. L’Ufficio Centrale per il Referendum ha rilevato - a me pare correttamente - che non sussiste la condizione ostativa prevista dall’art. 38 della l. n. 352 del 25 maggio 1970, in ragione della riproposizione del quesito referendario dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.41/2003, sopra richiamata, e dopo l’espletamento del voto popolare indetto con d.P.R. 9 aprile 2003,in mancanza della partecipazione della maggioranza degli aventi diritto al voto, come richiesto dall’art. 75, comma quarto, Cost.,« posto che il citato articolo 38 limita, per il periodo di cinque anni, la possibilità di promuovere nuovamente la medesima iniziativa referendaria solo nel caso in cui i cittadini si siano effettivamente espressi per il mantenimento della normativa sottoposta al loro sindacato, ovvero nell’ipotesi in cui la consultazione abrogativa sia risultata invalida ai sensi dell’art.75, quarto comma, Cost.(n.d.r.: che ritiene necessari i requisiti del voto espresso dalla maggioranza degli aventi diritto e della maggioranza dei voti validamente espressi), limitazione temporale non operante nel caso di specie, dato il maggior tempo trascorso dalla precedente iniziativa». L. Zoppoli. La posizione dell’Ufficio Centrale per il Referendum, che tu hai efficacemente riassunto, mi pare ineccepibile.
Si può ancora sottolineare che, dopo il Jobs Act, le questioni riguardanti le piccole imprese si sono aggravate perché le tutele contro i licenziamenti illegittimi sono state ulteriormente indebolite. È un tema sul quale sarebbe bene invitare gli elettori ad esprimersi invece di auspicare un assenteismo che faccia nuovamente mancare il quorum, come molti più o meno esplicitamente dicono.
Il cittadino deve capire bene su cosa deve pronunciarsi. Ma non mi pare ci sia bisogno di essere geni per pronunciarsi su alcune domande essenziali che si possono così sintetizzare: “ritenete che i 4/5 milioni di lavoratori italiani occupati in imprese con meno di sessanta dipendenti e/o in articolazioni delle imprese con meno di quindici dipendenti debbano ancora essere esposti alla decisione di un licenziamento del tutto arbitrario? Ritenete che la normativa attuale, che prevede l’obbligo di corrispondere al massimo 5/6 mensilità al lavoratore licenziato senza alcun motivo o per un motivo futile, sia efficace per indurre il piccolo imprenditore a non licenziare?”.
Certo oggi la situazione occupazionale è ancora tale che nelle piccole imprese le assunzioni a tempo indeterminato non sono frequentissime. E il cittadino potrebbe giustamente temere che aumentare anche di poco le tutele possa ancor più favorire lavoro precario e nero. Mi pare però più che giusto sul piano della crescita culturale e civile che ogni elettore italiano si prenda la responsabilità di andare a votare e avallare una situazione antica in cui esistono lavoratori di serie A (imprese medio-grandi e pubbliche amministrazioni) e lavoratori di serie B (occupati nell’80/90% delle piccole imprese italiane).
Non sono scelte da fare in modo opaco o elitario. E, oltretutto, bisogna anche sapere che così diritti fondamentali previsti dalla Carta dei cittadini europei - tra cui rientra il diritto di ogni lavoratore alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (art. 30) - vengono tutelati nel nostro ordinamento in modo enormemente squilibrato.
C. Caruso. Ineccepibile nel merito, la decisione dell’Ufficio Centrale per il Referendum è invece criticabile là ove equipara, ai fini del divieto di esperibilità della consultazione referendaria, il voto negativo al mancato raggiungimento del quorum. L’art. 38 della legge n. 352/1970 prevede infatti il divieto di riproposizione solo in caso di esito negativo, non certo per il mancato raggiungimento del quorum di validità posto dall’art. 75 Cost. Nonostante il passaggio argomentativo non sia altro che un obiter dictum, irrilevante nel caso di specie (posto che la consultazione del 2003 risale a più di venti anni fa), inconsapevolmente l’UCR ha individuato, in via pretoria, un nuovo limite alla consultazione referendaria non previsto dalla legge (un limite che non avrebbe consentito, ad esempio, di riproporre, nel 2000, il referendum per l’abolizione della quota proporzionale, che nel 1999 non raggiunse il quorum per un pugno di voti). Non resta che sperare si tratti di un lapsus calami.
V. A. Poso Mi sembra di poter dire che l’Ufficio Centrale per il Referendum, a differenza di quanto ha dovuto fare per il requisito relativo all’abrogazione del d. lgs. n. 23/2015, nella sua interezza, proposto dai promotori con riferimento al testo originario, nel caso che ci occupa si è trovato facilitato negli adempimenti che ad esso competono in quanto la norma oggetto di quesito referendario è stata indicata con riferimento al testo vigente a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 108/1990; come abbiamo più volte precisato sopra.
L. Zoppoli. Credo proprio che questa sia una giusta considerazione.
V. A. Poso. Con la sentenza n.13 del 7 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della norma e per le parti indicate oggetto del quesito.
La Corte Costituzionale, correttamente, ha precisato, nel delineare il perimetro della norma, «che l’odierno quesito referendario è destinato a incidere su una previsione (la fissazione del tetto massimo, pari a sei mensilità, maggiorabile fino a quattordici, per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo) che, nella sua attuale vigenza – espressamente confermata, come rilevato dall’Ufficio centrale, dal combinato disposto tra l’art. 1, comma 1, e l’Allegato 1 del d.lgs. n. 179 del 2009 –, riguarda esclusivamente i lavoratori assunti presso datori di lavoro di “piccole” dimensioni prima del 7 marzo 2015».
Quali sono le Vostre valutazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa, quanto meno prevedibile?
C. Caruso. La giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità del referendum abrogativo ha dimostrato, negli anni, un elevato tasso di creatività, individuando una ampia congerie di limiti che sono andati ben al di là di quelli previsti dall’art. 75 Cost. Questa elevata creatività è stata accompagnata da una spiccata imprevedibilità decisoria, che spesso non ha arriso all’ammissibilità dei quesiti. Nel caso di specie, il quesito non sembrava porre particolari problematiche se non, forse, per la possibile contraddizione, in caso di esito negativo o mancato raggiungimento del quorum, che verrebbe a crearsi all’interno dell’ordinamento nel caso della permanenza in vigore il d.lgs. n. 23/2015. D’altro canto, i promotori non avevano altra scelta se non mostrare il fianco a questo possibile inconveniente di fatto (ancorché di non poco momento). Se, infatti, non fosse stata coinvolta, attraverso la proposizione di un altro quesito, la analoga disposizione contenuta nel Jobs Act, la richiesta di abrogazione del solo art. 8, l. n. 604/1966, sarebbe stata inammissibile. La Corte infatti richiede, ai fini dell’ammissibilità del quesito, l’autosufficienza dello stesso, nel senso che l’eventuale approvazione della richiesta non deve lasciare intatte «disposizioni idonee a garantire la perdurante operatività di interi plessi normativi di cui si chiedeva l’eliminazione ad opera del voto popolare» (tra le tante, sent. n. 57/2022).
O. Razzolini. A me sembra una pronuncia coerente con l’impostazione adottata dalla Corte costituzionale che ben spiega peraltro quale sarebbe la ricaduta di un risultato referendario positivo. Certo, qualora passasse questo quesito referendario ma non quello sul contratto a tutele crescenti si arriverebbe ad una situazione di disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo il 7 marzo 2015 ben poco razionale e tollerabile e che solo in parte sarebbe mitigata da un eventuale accoglimento della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Livorno con riferimento all’art. 9, d.lgs. n. 23 del 2015.
L. Zoppoli. Non so dire se fosse attesa nel senso di “prevista”; e probabilmente qualche dubbio si poteva avere vista la ridotta propensione della Corte in altre pronunce a considerare giuridicamente problematica la differenziazione di disciplina in materia basata sulla data di assunzione dei lavoratori. Credo però che la Corte abbia correttamente messo in rilievo l’effetto che avrebbe l’esito abrogativo di questo referendum considerato ex se. Se invece dovesse prevalere il sì anche nell’altro referendum sull’ abrogazione integrale del d.lgs. 23/2015, la nuova disciplina per le imprese minori riguarderebbe tutti i lavoratori. È abbastanza evidente che solo questo secondo risultato eleverebbe il tasso di razionalità del sistema: il che, anche per questa ragione, lo rende massimamente auspicabile.
V. A. Poso. Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti il referendum parziale abrogativo della norma in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost., tantomeno sono risultano profili attinenti a disposizioni a contenuto costituzionalmente obbligato: sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.
A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco, in particolare, alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle parole oggetto di abrogazione.
C. Caruso. Tutti i requisiti manipolativi non sano mai chiari o, meglio, autoevidenti in sé. La matrice razionalmente unitaria del quesito manipolativo non può che delinearsi alla luce dell’intenzione dei proponenti, per come obiettivata nel titolo e nella lettera del quesito (e, dunque, anche nella conformazione della normativa di risulta). Nel caso in esame non mi pare che la proposta referendaria presentasse problemi tali da inficiarne l’ammissibilità.
Lorenzo Zoppoli. Sotto il profilo della tecnica utilizzata dal comitato referendario non vedo alcun problema e condivido pienamente il giudizio di ammissibilità. Come ho già detto, non sono così certo che l’abrogazione del tetto massimo dell’indennità induca i giudici a muoversi con più libertà rispetto alle previsioni riguardanti le imprese più grandi. A mio parere resterà una sorta di implicita parametrazione al ribasso che indurrà la magistratura a non equiparare nel massimo le sanzioni risarcitorie tra imprese grandi e imprese “sotto soglia”.
O. Razzolini. Non sono una costituzionalista, ma anche a me la decisione della Corte sembra del tutto condivisibile.
V. A. Poso. Ritorno sulla precedente domanda e mi chiedo se, per come è stato confezionato, il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999), proprio con riferimento all’abolizione del limite massimo del risarcimento, venendo meno il carattere prettamente abrogativo.
Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
C. Caruso. Ho molti dubbi, in generale, sulla adeguatezza del requisito che richiede al quesito manipolativo di non essere “eccessivamente” manipolativo. Si tratta di uno dei tanti limiti, opposti al referendum, creati ad hoc dalla Corte costituzionale, la cui applicazione dà esiti difficilmente prevedibili (si pensi, in positivo, al referendum del 1993, sulla soglia dei collegi uninominali al Senato, al quesito sulla cittadinanza o, in negativo, al referendum “Calderoli” sulla estensione dei collegi uninominali nel c.d. Rosatellum, o all’estensione, tramite ritaglio, della tutela reale in caso di licenziamento illegittimo all’impresa con più di 5 dipendenti, che avrebbe reso generale una norma speciale, pensata per il solo imprenditore agricolo).
Una volta ammessa la possibilità di proporre referendum manipolativi (una possibilità in fondo coerente con la natura stessa del referendum abrogativo, almeno a volere prendere sul serio la tesi crisafulliana secondo cui persino la mera abrogazione esprime una innovazione dell’ordinamento giuridico, posto che abrogare non è altro che “disporre diversamente”) non ha molto senso chiedersi, in astratto, quale sia il grado manipolatività consentito dall’art. 75 Cost. Se in ogni proposta referendaria l’elemento innovativo è insopprimibile, l’inammissibilità delle proposte manipolative dovrebbe essere confinata ai soli quesiti formulati in modo da incidere sulla univocità della richiesta, su quella «matrice razionalmente unitaria» che consente di determinare, oggettivamente, la direzione del quesito.
Solo qualora non fosse assolutamente desumibile il verso dell’abrogazione sarebbe impossibile l’autodeterminazione del corpo elettorale, e cioè l’esercizio di quel voto consapevole che, a partire dalla sent. n. 16/1978, la Corte costituzionale ritiene requisito imprescindibile per l’ammissibilità del referendum.
La sent. n. 32/1993, nell’ammettere il referendum “Segni” sulla legge elettorale del Senato, ha evidenziato come fosse «per sé irrilevante il modo di formulazione del quesito, che può anche includere singole parole o singole frasi della legge prive di autonomo significato normativo, se l'uso di questa tecnica è imposto dall'esigenza di "chiarezza, univocità e omogeneità del quesito" e di "una parallela lineare evidenza delle conseguenze abrogative", sì da consentire agli elettori l'espressione di un voto consapevole». È l’univocità del quesito, ricostruita alla luce della ratio obiettivata nella richiesta e dell’intenzione dei promotori, a consentire la razionalizzazione del referendum e il suo innesto nella democrazia rappresentativa: una volta garantita tale condizione, l’innovatività propositiva del referendum non dovrebbe rappresentare un pericolo, ma anzi un salutare elemento di partecipazione capace di sparigliare l’oligarchia delle forze politiche organizzate.
In tal senso, e sotto tale profilo, non può che essere apprezzata la decisione “aperturista” della Corte costituzionale.
L. Zoppoli. Come può dedursi anche dalla mia risposta al quesito precedente, la mia opinione al riguardo è esattamente all’opposto: l’esito referendario è troppo poco manipolativo e rischia di lasciare di fatto in vigore una norma “occulta” dal tenore assai simile a quella che si vuole abrogare.
O. Razzolini. A mio parere, il risultato pratico consistente nel lasciare al giudice, anziché prevedere per legge, la modulazione nel quantum dell’indennità non stravolge del tutto la ratio della disposizione, come maturata nel contesto originario, poiché, come sottolinea Lorenzo Zoppoli, i giudici terranno comunque ampiamente in considerazione la natura e le dimensioni dell’impresa, in base all’art. 8 della l. n. 604 del 1966. In definitiva, l’esito positivo del referendum non sembra comportare la “mutazione genetica” dell’indennizzo in risarcimento in senso pieno perché, come molti autori hanno rilevato, l’art. 8 impone al giudice di modulare l’indennizzo tenendo conto di criteri estranei alle tecniche di valutazione del danno ed assumendo il punto di vista non solo della vittima dell’illecito ma dell’autore (si pensi al riferimento alle “dimensioni dell’impresa” e alle condizioni “delle parti”).
V. A. Poso A Vostro avviso l’approvazione della richiesta referendaria, genererebbe o no «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017)? Insomma, la normativa di risulta sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020), considerato che in ogni ipotesi di risarcimento del danno conseguente a licenziamento è stato previsto dal legislatore sempre un limite minimo e un limite massimo?
O. Razzolini. Certo, togliere il limite massimo cambia notevolmente ma, come dicevo prima, non comporta una vera trasformazione o mutazione genetica dell’indennizzo in risarcimento pieno.
L. Zoppoli. Ripeto: assolutamente no!
C. Caruso. Sul punto rimando alle risposte dei colleghi lavoristi.
V. A. Poso Quindi, mi pare di capire che, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte che anche per questo si è pronunciata per l’ammissibilità di questo quesito referendario.
Lorenzo Zoppoli. Proprio così.
O. Razzolini. Direi di sì.
V. A. Poso. C’è da dire, però, che in caso di esito positivo della consultazione referendaria, fermo restando il mantenimento della soglia minima (pari a 2,5 mensilità) la liquidazione dell’indennità, nel tetto massimo, resterebbe affidata all’equo apprezzamento del giudice sulla base dei criteri indicati dallo stesso art. 8 della legge n. 604 del 1966, non incisi dal quesito, che si riferiscono «al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti». Questo dice la Corte nella sentenza. E, aggiungerei, anche in base a quanto previsto dall’art. 30, comma 3, secondo cpv, della legge 4 novembre 2020 n. 183. Ritenete ammissibile questo ampio potere discrezionale, di valutazione, attribuito al Giudice?
O. Razzolini. Mi sembra tu faccia bene a ricordare anche l’art. 30, co. 3, secondo cpv della l. n. 183 del 2010 che aggiunge il riferimento alle “condizioni dell'attività esercitata dal datore di lavoro” e alla “situazione del mercato del lavoro locale”.
Certo il giudice viene dotato di un ampio potere discrezionale che d’altra parte ha già nel caso delle imprese con più di 15 dipendenti dove l’art. 18, testo vigente, prevede una forbice elevatissima: 6-36 mensilità. In mancanza di una definizione “aggiornata” di piccola impresa ancorata a parametri non solo dimensionali, ma economici e finanziari è in effetti solo il giudice, sulla base di una valutazione case by case, che può far sì che questi elementi giochino un ruolo effettivo nella determinazione del quantum dell’indennizzo.
Personalmente, per le ragioni che ho provato ad illustrare in precedenza, sono comunque favorevole alla previsione per legge di tetti massimi – purché certamente non irrisori – ma qui stiamo discutendo della legittimità di un quesito referendario sul piano tecnico, non sul piano del merito. Mi limito ad osservare che proprio le interessanti considerazioni di Lorenzo Zoppoli sulla probabile tendenza dei giudici, in caso di esito positivo del referendum, a liquidare comunque indennità molto basse mi spingono a pensare che il tetto massimo potrebbe giocare a favore dei lavoratori. In particolare, il tetto massimo di 18 mensilità potrebbe costituire per i giudici un invito a liquidare indennizzi ben superiori alle 6 mensilità, tenendo pur sempre conto dei criteri previsti dall’art. 8.
Lorenzo Zoppoli. Il potere del giudice è ampio ma non è illimitato: basti pensare ai criteri generali che riguarderebbero la determinazione delle indennità anche nelle imprese minori.
Qui c’è il problema da molti rilevato di una sensibile differenza stavolta a vantaggio dei lavoratori delle piccole imprese che non avrebbero il limite massimo di 24/36 mensilità. Non sono d’accordo. Anzitutto le differenziazioni ci sono sempre state e non sono incostituzionali se razionali. Scontata la limitata tecnica referendaria (solo abrogativa), non mi stupirei poi, come ho anticipato, se i giudici si orientassero a ritenere che i limiti massimi di cui all’art. 18 o al d.lgs. 23/15 (di cui si attende l’espunzione dall’art. 9 ad opera della Corte Costituzionale anche a prescindere dal referendum) valgano tendenzialmente anche per le imprese minori, che dovrebbero caratterizzarsi per la più ampia gamma di criteri legali per quantificare il danno dai quali deriverebbe la più attenta ponderazione tra gli interessi del lavoratore e quelli delle imprese.
Questa giustificazione darebbe razionalità alle residue differenziazioni, ferma restando l’auspicabile prospettiva di una più chiara e coordinata utilizzazione dei tanti criteri di determinazione delle indennità contenuti in una legislazione cresciuta più per affastellamento di suggestioni che in base a valutazioni oggettive.
Nell’era dell’intelligenza artificiale inaccettabile appare una simile approssimazione nel calcolo di una pur ambigua indennità che rimane a cavallo tra risarcimento e sanzione, ma che può certamente essere utilizzata dai giudici senza eccessivi soggettivismi. Insomma, con un po’ di ottimismo, non mi pare impossibile che uno degli esiti referendari possa essere la ricerca di un sistema sanzionatorio dei licenziamenti ispirato a maggiore universalismo, ma senza ignorare né le esigenze delle persone né quelle delle imprese in cui la dimensione personale e di relativa debolezza economica riguardi realmente anche il datore di lavoro.
C. Caruso. L’esito positivo del referendum contribuirebbe a segnare la completa trasfigurazione delle politiche del lavoro inaugurate dal Jobs Act. Questo sistema, che disegnava un sistema di tutele indennitarie concentrato sulla predeterminazione legale e conseguente prevedibilità del firing cost, è stato fortemente ridimensionato dalle pronunce adottate dalla Corte. Il successo del referendum sarebbe la pietra tombale di quel sistema, superato a favore di un assetto che, nelle piccole imprese, riconoscerebbe al prudente apprezzamento del giudice il quantum indennitario da riconoscere. Molte sarebbero le considerazioni teoriche che simile passaggio solleciterebbe. Mi limito a segnalare la paradossale eterogenesi dei fini sottolineata da Lorenzo Zoppoli: non sempre la fiducia illimitata nel giudice, la cui decisione, al contrario di quella realizzata dalla intermediazione legislativa, tende ad assolutizzare un certo punto di vista, può essere favorevole al lavoratore. Il rischio non è solo quello di avere una moltiplicazione di pronunce diverse per casi simili, ma anche di andare incontro a una giurisprudenza minuta e pulviscolare capace di rendere imprevedibile buona parte del contenzioso lavoristico di questo Paese.
V. A. Poso Già subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si potevano prospettare per evitare il voto popolare erano problematici, considerati i tempi ristretti e tenuto conto dell’attuale maggioranza parlamentare. Oggi è possibile solo il voto popolare. Si fa per ragionare: quale intervento avrebbe potuto adottare il legislatore (non solo quello demolitorio, ovviamente) sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
L. Zoppoli. La domanda mi pare molto teorica: non vedo nessuna iniziativa diretta ad evitare i referendum e mi pare piuttosto diffusa la fiducia (spero mal riposta) in un ampio astensionismo. Rilevo che nell’unico sforzo recente, di matrice puramente dottrinale, volto a prospettare una riforma dei licenziamenti (mi riferisco alla proposta del gruppo Frecciarossa: ne ho scritto in LDE, 2025, n. 1) il tema delle piccole imprese è stato accantonato. Credo che, se il referendum non giungesse in porto, l’unico scenario plausibile è quello di un nuovo intervento della Corte Costituzionale, che però non si prospetta foriero di una soluzione definitiva in questa delicatissima materia.
O. Razzolini. Anche a me sembra non vi sia alcuna iniziativa diretta ad evitare i referendum. Sarebbe stato invece opportuno cogliere l’occasione per mettere mano ad una complessiva riforma dei licenziamenti, rendendola più omogenea e meno irrazionale, e modificare la nozione di piccola impresa, passando almeno dai 15 ai 10 dipendenti. Ma questo non è stato fatto. Credo anche io che la complessità tecnica dei quesiti e la loro attinenza a questioni non universalmente percepite come prioritarie abbiano convinto il Governo che sarà davvero difficile raggiungere il quorum necessario alla validità del referendum.
V. A. Poso Sono così ovvi e scontati gli scenari che si prospettano in caso di esito positivo del voto popolare? Lo chiedo anche nella prospettiva di una bocciatura del referendum relativo al D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, venendosi così a creare un notevole divario tra le tutele indennitarie applicabili ai dipendenti delle piccole imprese: smisurata, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, assai compressa (fatto salvo il possibile intervento della Corte Costituzionale) per i lavoratori assunti in data successiva.
O. Razzolini. Ho risposto in gran parte sopra. Certo si arriverebbe ad un sistema irrazionale e incoerente a cui potrebbe porre rimedio solo in minima parte un’eventuale sentenza di accoglimento della questione di costituzionalità sollevata con riferimento all’art. 9, d.lgs. n. 23 del 2015.
L. Zoppoli. Anche io ho già risposto in precedenza. Posso ancora precisare che, se fosse bocciata la richiesta di abrogazione dell’intero d.lgs. n.23/2015, saremmo davanti a non minori incongruenze di quelle attuali. Mi pare però difficile che i due referendum abbiano destini diversi: li vedo quasi gemellati, nel bene e nel male. Ma forse il mio auspicio personale - già espresso - fa velo sulla lucidità previsionale.
Immagine: Laurence Stephen Lowry, Operai, 1948.
Chi studia il diritto penitenziario non può fare a meno di Ristretti Orizzonti. E crediamo che le duemila visite giornaliere al suo sito internet siano testimonianza della rilevanza per una cerchia più ampia di persone, a tal punto che Ristretti, straordinario strumento di informazione e di apprendimento, appare un bene culturale immateriale da tutelare. Ad esempio, il Notiziario quotidiano dal carcere è un appuntamento che ciascuno attende e dal quale trae beneficio per le attività che svolge. Il tutto senza considerare che Ristretti coinvolge da tempo un cospicuo numero di detenuti in attività aventi come scopo la rieducazione, costituzionalmente imposta.
Siamo quindi preoccupati delle conseguenze che si potranno verificare sul lavoro di Ristretti Orizzonti a seguito della nota del 27 febbraio 2025 del Direttore Generale della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del DAP, avente ad oggetto le modalità di custodia dei detenuti di Alta Sicurezza.
Da un lato, l’art. 13 della Costituzione esige che i “modi” della detenzione siano “previsti dalla legge”. Siamo consapevoli che già si è fatto ricorso a note, linee guida, circolari e simili per intervenire sulle modalità della detenzione, non di meno è il momento di adottare una posizione più netta, anche perché la giurisprudenza costituzionale ha esteso all’esecuzione della pena una serie di principi fino a qualche anno addietro ritenuti validi solo per la fase della cognizione (su tutti, un corollario proprio della legalità, il divieto di retroattività di modifiche in peius: sentenza 32/2020, seguita da decisioni conformi). Esistono spazi di attuazione da riconoscere alla fonte regolamento, ma una questione così importante, come quella delle modalità di custodia dei detenuti (nel nostro caso, di AS), deve trovare nella fonte legislativa la sua prima e insostituibile disciplina.
Dall’altro lato, nel merito, ci domandiamo quanto possa essere costituzionalmente legittima la scelta delle “celle chiuse” quale modalità di custodia dei detenuti di AS. I riferimenti corrono a diverse disposizioni della Costituzione. Da quelle che assegnano alla Repubblica compiti inequivocabili – quali garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2) e rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3) – a quelle che disegnano il volto costituzionale del sistema penale, come la responsabilità penale personale, il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e il finalismo rieducativo (art. 27).
Non convincono le motivazioni a favore delle “celle chiuse”, laddove si dice che solo in questo modo si rende possibile la individualizzazione del trattamento. Allo stesso modo, non pare opportuno fare discendere conseguenze così gravose sulla generalità dei detenuti in AS. Laddove si sono verificate criticità è giusto intervenire, non lo è farlo in modo indistinto, a tutto detrimento proprio della individualizzazione.
Chiediamo pertanto che il DAP intervenga in modo rapido e solerte per rimediare a questa scelta sbagliata e fuori dal perimetro costituzionale. Le persone non sono “reati che camminano”, il diverso trattamento e il differente regime di custodia devono sempre basarsi su valutazioni attuali e individualizzate. Siamo convinti che questo sia il modo più costituzionalmente orientato per garantire insieme l’ordine e la sicurezza entro gli istituti penitenziari e il pieno sviluppo della persona umana.
Davide Galliani, Università degli Studi di Milano (estensore)
Roberto Bartoli, Università degli Studi di Firenze
Francesco Palazzo, Università degli Studi di Firenze
Roberto Cornelli, Università degli Studi di Milano
Renzo Orlandi, Università degli Studi di Bologna
Giovanni Fiandaca, Università degli Studi di Palermo
Emilio Dolcini, Università degli Studi di Milano
Marco Pelissero, Università degli Studi di Torino
Luciano Eusebi, Università Cattolica di Milano
Angela Della Bella, Università degli Studi di Milano
Stefano Simonetta, Università degli Studi di Milano
Emilio Santoro, Università degli Studi di Firenze
Stefano Canestrari, Università degli Studi di Bologna
Patrizio Gonnella, Università degli Studi Roma Tre
Giandomenico Dodaro, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Lina Caraceni, Università degli Studi di Macerata
Franco Della Casa, Università degli Studi di Genova
Laura Cesaris, Università degli Studi di Pavia
Andrea Pugiotto, Università degli Studi di Ferrara
Carlo Fiorio, Università degli Studi di Perugia
Silvia Buzzelli, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Pasquale Bronzo, Università La Sapienza di Roma
Marco Ruotolo, Università degli Studi di Roma Tre
Gian Luigi Gatta, Università degli Studi di Milano
Costantino Visconti, Università degli Studi di Palermo
Gian Paolo Demuro, Università degli Studi di Sassari
Claudia Pecorella, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Mauro Palma, Università degli Studi di Roma Tre
Adolfo Ceretti, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Donato Castronuovo, Università degli Studi di Ferrara
Vittorio Manes, Università degli Studi di Bologna
Antonia Menghini, Università degli Studi di Trento
Alberto Di Martino, Università Sant’Anna di Pisa
Fabrizio Siracusano, Università degli Studi di Catania
Stefania Carnevale, Università degli Studi di Ferrara
30 aprile 2025
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