ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il finalismo rieducativo di cui all’art. 27, comma 3, della Costituzione nell’attuale contesto degli istituti di pena
Sommario: 1. Premessa – 2. La funzione della pena nella costituzione – 3. L’ “essere” e il “dover essere” nell’esecuzione penale – 4. Le recenti modifiche alla disciplina dell’esecuzione penale e gli interventi normativi ancora in itinere – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
La presente pubblicazione si riallaccia ad alcuni dei temi trattati nel capitolo della memoria resa dal Procuratore Generale della Corte dei conti in occasione del giudizio sul rendiconto generale dello Stato per l’esercizio 2023, avente ad oggetto la gestione affidata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria[1].
Prima di addentrarsi nell’analisi, tuttavia, si vuole evidenziare l’esistenza di un diffuso pregiudizio, serpeggiante nella pubblica opinione, che vede il mondo delle carceri come una sorta di realtà a sé stante, un’isola solo lambita dal diritto e poco interessante per i giuristi: il tema, infatti, viene spesso ricondotto a mere esigenze di sicurezza, da soddisfare attraverso l’innalzamento di mura invalicabili entro le quali costringere i rei quanto più a lungo possibile, se necessario costruendo nuove prigioni, inasprendo le pene, infliggendole al massimo edittale, prevedendo nuove e sempre più specifiche figure di reato e circostanze aggravanti, in modo da allontanare il tempo in cui il reprobo potrà, malauguratamente, contaminare con la propria presenza la società dei liberi.
Quel che sembra essenziale, in un’ottica populista, insomma, è che si provveda a “buttare via le chiavi” delle celle, affinché sia compiuta la “vendetta pubblica” per il male fatto e ci si protegga da nuove aggressioni[2].
La certezza della pena – nella prospettiva descritta – equivale alla certezza del carcere, che dovrebbe fungere da deterrenza alle scelte criminali.[3]
Questa visione, purtroppo oggi assai diffusa, potrebbe indurre a considerare la relazione che ha dato origine al presente lavoro il frutto di un’eccentrica incursione della magistratura contabile in un territorio estraneo al proprio orizzonte e, comunque, di scarso rilievo giuridico.
Al di là della non condivisibilità dell’obiezione e dell’approccio sotteso – anche per ragioni legate al dettato costituzionale – non deve dimenticarsi che l’attività di ogni articolazione dell’amministrazione è soggetta, oltre che alle regole peculiari del settore, anche alle norme e ai principi generali che sovraintendono l’esercizio dei pubblici poteri, necessariamente proteso, in base al principio sancito dall’art. 97 della Costituzione, alla cura degli interessi pubblici agli stessi affidati, da perseguirsi mediante un corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
Un esempio concreto, tratto dalla casistica afferente alla sottoposizione al visto di atti, rende evidente il rapporto fra i compiti intestati alla Corte dei conti e la tematica oggetto di indagine[4].
Nel caso di specie, il punto di contatto concerne la qualità del vitto offerto ai detenuti, cui deve essere garantita “un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”, come prescritto dall’art. 9 della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” .
Si fa riferimento alle diverse delibere con cui la Sezione Regionale di Controllo per il Lazio ha ricusato il visto sui decreti di approvazione di contratti riguardanti la fornitura del vitto nell’ambito di numerose strutture carcerarie site nella regione.[5]
Nelle ipotesi esaminate, l’amministrazione aveva formulato bandi di gara riguardanti il solo servizio obbligatorio e principale di vitto, assegnandolo alle aggiudicatarie che avevano presentato consistenti ribassi, tali da condurre ad un impegno alla consegna delle derrate alimentari necessarie al confezionamento dei pasti giornalieri completi (colazione, pranzo e cena) ad un prezzo estremante contenuto (in due ipotesi 2,39 euro; 2,25 euro e 3 euro nelle altre); la fornitura del sopravvitto, acquistato dai detenuti con i fondi del proprio peculio, invece, era considerata meramente accessoria e la possibilità di richiederla ex post era rimessa alla valutazione discrezionale degli istituti di pena, i quali, di fatto, in realtà, si erano sistematicamente avvalsi di tale facoltà.
Il Collegio del controllo, valutate tali circostanze, osservava che il servizio di vitto non era economicamente sostenibile ove svincolato dai ricavi del sopravvitto e che quest’ultimo, in effetti, non aveva una natura realmente accessoria, data la sua centralità sotto il profilo della convenienza dell’operazione, interamente gestita da un’unica impresa in posizione di potenziale conflitto di interessi, a tutto discapito della qualità della fornitura dei beni alimentari primari.
La Sezione, quindi, considerato che le offerte avevano riguardato solo il vitto, ravvisava la violazione degli artt. 35, comma 4, e 95 del codice dei contratti, nella versione applicabile ratione temporis, e del sotteso principio della tutela della concorrenza e – scorgendo anche il rischio della compromissione dei basilari diritti dei detenuti fondati sugli artt. 27, comma 2, e 32 Cost. – trametteva le proprie delibere anche al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Il tema dell’eventuale inadeguatezza dell’alimentazione offerta ai detenuti, peraltro, si palesa estremamente attuale: si attendono, infatti, gli esiti del processo – avviato in seguito ad un esposto presentato dalla Garante di Roma Capitale – inerente al reato di frode nelle pubbliche forniture a carico dei vertici di una ditta incaricata del servizio di vitto cui è stato contestato di aver servito cibo scadente ed avariato o, comunque, non conforme alle prescrizioni del capitolato. –
Sembra opportuno, quindi, che ciascuno degli attori istituzionali coinvolti si impegni in un’attenta vigilanza sulla quantità e qualità del vitto e sull’accessibilità dei costi del sopravvitto, trattandosi di aspetti inerenti alla cura del bene primario della salute degli ospiti degli istituti di pena.
Sotto altro profilo, si rammenta che la Corte svolge un controllo successivo sulla gestione, effettuato, sulla base di programmi annuali, accertando, anche in base all'esito di altri controlli, la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell'azione amministrativa.
Ai fini d’interesse si richiama la deliberazione n.3/2021/G, riguardante “L’attuazione della legislazione di riforma dell’organizzazione della polizia penitenziaria nell’ambito del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”, in cui la Sezione centrale di Controllo per le amministrazioni dello Stato ha espresso la raccomandazione di procedere alla copertura delle piante organiche e all’allocazione delle risorse umane sotto il profilo territoriale.
La Corte dei conti e il mondo dell’esecuzione penale, dunque, non sono così distanti, posto che la prima è custode e garante della corretta gestione delle risorse pubbliche, ivi comprese quelle afferenti al settore di interesse, a vantaggio e presidio dell’intera collettività, composta, ovviamente, anche da coloro vivono una situazione di privazione della libertà.
2. La funzione della pena nella costituzione
La realtà penitenziaria, dunque, si presta ad essere scrutinata sotto il profilo dell’efficacia dell’apparato in rapporto all’obiettivo istituzionalmente prefissato, che non può indentificarsi nel mero contenimento del reo o nell’inflizione di un male simmetrico a quello compiuto.
Il legislatore costituzionale, infatti, all’art. 27, comma 3, della Carta fondamentale ha chiaramente stabilito che finalità della pena consiste nella rieducazione del reo, da interpretarsi come tensione verso la risocializzazione e il reinserimento sociale.[6]
La pena, inoltre, per dirsi rispettosa del sistema di principi e valori costituzionali, deve essere in linea con ulteriori disposizioni, dal momento che i detenuti – seppure inevitabilmente privati di una parte della loro libertà, essenzialmente quella di movimento – restano titolari dei diritti all’integrità fisica, al lavoro, alla professione della propria religione, ai rapporti familiari e all’affettività, all’informazione, alla libertà di pensiero, alla salute, all’istruzione, rispettivamente tutelati dagli artt. 2, 4, 19, 21, 29, 30,31, 32, 34 Cost., che devono essere loro garantiti.[7]
L’applicazione dell’art. 3 Cost. implica, poi, la necessità di rivolgere un’attività di recupero sociale nei confronti di coloro che hanno trasgredito a causa di una condizione di inferiorità ed emarginazione, dovendosi riservare ai soggetti che delinquono pur senza trovarsi in una situazione di svantaggio, tecniche rieducative diverse.
Altre norme, riguardanti direttamente lo stato di restrizione della libertà personale, rilevano in negativo, indicando ciò che la pena non deve essere: l’art. 13, comma 4, Cost., rende punibile ogni violenza fisica e morale inflitta a coloro che versano in tale situazione e lo stesso art. 27, comma 3, Cost. vieta i trattamenti contrari al senso di umanità.
Lo Stato, infine, in base all’art. 117 Cost., che impone il rispetto dei vincoli internazionali, è tenuto al rispetto delle fonti convenzionali quali la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
3. L’ “essere” e il “dover essere” nell’esecuzione penale
I principi sopra elencati, però, rischiano di restare formule astratte ed inattuate, come se avessero un valore meramente programmatico.
Se è vero, infatti, che sul piano normativo e teorico la pena detentiva non può consistere in una “vendetta pubblica” né in uno strumento esclusivamente securitario, sul piano concreto e fattuale la realtà degli istituti di pena – per come descritta dai rapporti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e risultante dalle testimonianze dei garanti territoriali, dai magistrati di sorveglianza e dalle pagine dei quotidiani che scandiscono il triste elenco, in continua progressione, dei detenuti che hanno scelto di togliersi la vita – appare ben lontana dal rispecchiare il modello delineato dalla Costituzione.[8]
Il sovraffollamento degli istituti, in crescente aumento, costituisce il primo ed il più evidente elemento (anche non certamente l’unico) che marca il divario fra l’essere e il dover essere nell’ambito d’interesse: al 9 dicembre 2024 erano presenti 62.363 detenuti (di cui 9.918 in attesa di primo giudizio) a fronte dei 46.666 posti regolarmente disponibili ed di una capienza regolamentare di 51.165 (con un divario di 4.499 posti); il relativo indice passa dal 115,36% registrato il 30 giugno 2022 all’attuale percentuale di 133,64%.
Si tratta di una situazione prossima a raggiungere il livello di criticità sanzionato con la “sentenza Torreggiani” dell’8 gennaio 2013, ma, del resto, le condanne pronunciate nel contesto dell’ordinamento interno, certificano la persistenza nel contesto delle carceri italiane di situazioni tali da dover qualificare le condizioni detentive quali inumante e degradanti.[9]
Il sovraffollamento poi, influendo negativamente sulle condizioni di vita dei detenuti e sull’ambiente lavorativo degli operatori interessati, produce ulteriori tragici corollari, fungendo da spinta, quanto meno concausale, delle scelte suicidarie.
Si delinea così un rapporto di correlazione che, oltre ad essere intuitivo, è stato di recente oggetto di un’accurata analisi da parte del Garante nazionale, rappresentata nel “Focus suicidi e decessi in carcere anno 2024”, costantemente aggiornato.
I numeri, nella loro fredda asetticità, in realtà – se si rammenta che ogni cifra esprime la decisione di uno uomo o di una donna di togliersi la vita, non tollerando il protrarsi delle proprie sofferenze – sono impietosi: alla data del 20 dicembre 2024 sono stati accertati 83 suicidi (cui aggiungere 20 decessi per cause ancora da accertare), con un incremento rispetto al 2023, in cui, a quella data, si erano registrati 66 casi.
Fra i parametri esaminati dal Garante rientrano l’età, il reato ascritto, la posizione giuridica, il tempo di permanenza nell’istituto, la tipologia delle sezioni (aperta o chiusa), le motivazioni del gesto, se note (riconducibili, in alcuni casi, a “sconforto”) e il sovraffollamento degli istituti.
Il raffronto basato sull’ultimo degli indici elencati, come sopra anticipato, appare particolarmente significativo: su 54 degli istituti in cui si sono verificati gli eventi suicidari, 51 registrano un indice di affollamento superiore a 100 e, fra questi, 22 superiore a 150.
Alla luce dei dati esposti, quindi, appare del tutto plausibile che l’affollamento dei luoghi, la sua ricaduta sulle condizioni materiali e sulla spersonalizzazione soggettiva, insieme alle fragilità individuali, compongano il contesto entro il quale si collocano sia le scelte suicidarie sia, più in generale, gli eventi critici espressione del disagio detentivo, quali gli atti di autolesionismo, le aggressioni fisiche al personale di Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo e le proteste.
Il tema delle proteste, in particolare, induce ad una riflessione in merito al clima di tensione che contribuisce a suscitarle e alle modalità della loro repressione, tenuto conto delle informazioni fornite da Antigone nel “Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione.”[10]
L’associazione riferisce di vicende processuali, ancora in itinere, riguardanti, fra l’altro, le ipotesi di gravi abusi e violenze che sarebbero state inflitte ai detenuti ristretti presso le Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e di Melfi come ritorsione per le proteste intentate durante l’emergenza COVID.
Non sono state dimostrate le eventuali responsabilità dei singoli, innocenti fino ad un’eventuale condanna definitiva, ma, in ogni caso, lo scenario che risulta dalle pagine del rapporto merita attenzione, anche a proposito del dibattito riguardante l’istituzione del nuovo reato di “rivolta penitenziaria”, che secondo quanto sostenuto da qualificati operatori ed esegeti[11], esprimerebbe una scelta di criminalizzazione non adeguata alla cura degli interessi da proteggere in luogo di altri interventi volti a mitigare le difficoltà e le asprezze che caratterizzano i luoghi di pena.
Gli aspetti che rendono la pena una forzata permanenza in luogo insalubre a scapito della finalità rieducativa, comunque, non si riducono al sovraffollamento e alle sue ricadute[12]: il catalogo è ampio e, fra gli altri, ci si limita a citare il tema delle difficoltà dei detenuti ad accedere alle cure mediche, specie se afflitti da patologie psichiatriche, nonché la questione della preclusione allo svolgimento di colloqui di carattere riservato, pur all’indomani della storica sentenza della Consulta n. 10/2024, che, secondo quanto chiarito dalla I Sezione della Cassazione con la sentenza n. 8/2025, non fonda solo una mera aspettativa ma sancisce il diritto all’esercizio dell’affettività all’interno degli istituti.[13]
4. Recenti modifiche alla disciplina dell’esecuzione penale e interventi normativi ancora in itinere.
Il quadro normativo è stato di recente inciso da innovazioni (in parte ancora in fieri) in ordine alle quali – senza pretesa di esaustività – si propongono le brevi riflessioni che seguono.
4.1. Occorre prendere in esame, in primo luogo, il D.L. n. 92 del 4 luglio 2024, recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia”, convertito nella legge 8 agosto 2024, n. 112, proponendo preliminarmente una duplice considerazione di carattere generale.
Una prima riflessione attiene alla scelta dello strumento della decretazione di urgenza, previsto dall’art. 77, comma secondo, Cost., con riguardo ai relativi presupposti e alle misure individuate.
Sotto il primo profilo, non può dubitarsi che le condizioni critiche in cui versa il sistema carcerario integrino la straordinaria necessità e urgenza richiesta dalla disposizione richiamata, trattandosi di una situazione che, anche in ragione dell’elevato numero dei suicidi, richiede provvedimenti incisivi e non più procrastinabili.
Sul fronte delle misure, invece, si riscontra un disallineamento fra il presupposto dell’urgenza e il differimento dell’attuazione di alcune disposizioni, non di immediata applicazione, come pure è previsto dall’art. 15, comma 3, della l. 23 agosto 1988, n. 400,[14] e, soprattutto, come suggerito dalla gravità dell’emergenza da fronteggiare.
Una seconda osservazione, non disgiunta da quella che precede, attiene alla ratio ispiratrice della riforma, prevalentemente mossa dal proposito di migliorare il funzionamento degli istituti di pena attraverso l’incremento del personale di polizia penitenziaria e della dirigenza e dall’esigenza di razionalizzare alcuni benefici, semplificando anche le relative procedure di accesso; l’intento di ridurre la popolazione carceraria, invece, non è ricompreso fra le finalità perseguite.[15]
a) Passando all’esame delle singole disposizioni, deve sicuramente apprezzarsi l’assunzione di agenti e di nuovi dirigenti, oltre allo scorrimento delle graduatorie dei concorsi per ispettori già espletati, di cui agli articoli 1, 2 e 3, volta a ridurre la scopertura di organico che affligge il settore, con un intervento dichiaratamente attuato extra ordinem, vale a dire ulteriore e aggiuntivo rispetto al ricambio reso necessario dal turn over.[16]
Residuano, tuttavia, alcune perplessità.
La prima attiene alle significative e perduranti carenze del personale di Polizia penitenziaria, che rendono la misura, seppur utile e sicuramente apprezzabile, non risolutiva. [17]
Inoltre, la possibile diminuzione del periodo di formazione degli agenti prevista dall’art. 4, pur ispirata a comprensibili finalità acceleratorie dell’immissione in servizio, rischia di incidere negativamente sulla loro preparazione ad affrontare il compito estremamente delicato e complesso della gestione quotidiana delle persone detenute, anche sotto i profili della tutela dei diritti fondamentali delle persone custodite e delle capacità di fronteggiare eventi critici, purtroppo, non infrequenti.
Del resto, il motto del Corpo recita despondere spem munus nostrum (garantire la speranza è il nostro compito) e non sembra che possa prescindersi da un addestramento che possa aiutare gli agenti ad onorarlo con il loro faticoso lavoro quotidiano.
Si osserva, ancora, che le nuove assunzioni non riguardano altre figure, pure gravemente carenti all’interno delle carceri ed essenziali per poter delineare percorsi risocializzanti, quali educatori, psicologi, mediatori culturali, della cui presenza beneficerebbe l’intera comunità penitenziaria[18].
b) In fase di conversione, al fine di far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari, è stato inserito un articolo 4-bis[19], che istituisce di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria – cui sono attribuiti amplissimi poteri, in carica sino al 31 dicembre 2026, chiamato a compiere tutti gli atti necessari per realizzare “nuove infrastrutture penitenziarie” e “opere di riqualificazione e ristrutturazione delle strutture esistenti, al fine di aumentarne la capienza e di garantire una migliore condizione di vita dei detenuti” .
Si tratta del primo passo di un programma molto vasto ed articolato, ancora non concretamente delineato: in attesa di apprezzarne lo sviluppo, sulla base della lettura della norma, si ritiene di dover diversificare il giudizio a seconda degli obiettivi da perseguire, nei termini esplicitati.
Il proposito di riqualificare le strutture esistenti, recuperandone porzioni fatiscenti e ripensando gli spazi della detenzione, nell’ottica del miglioramento delle attività trattamentali e delle condizioni di vita dei detenuti (anche sotto il profilo dell’individuazione di aree dedicate all’affettività) appare pienamente condivisibile.
Alla costruzione di nuove carceri, destinate inevitabilmente a saturarsi, invece, sembra che debbano essere preferite altre strategie, incentrate su una visione non carcero – centrica e di respiro più ampio della mera repressione, tanto più che le deficienze di organico riguardanti tutte le figure professionali coinvolte nell’esecuzione penale renderebbero poco produttivo l’impegno rivolto alla realizzazione di nuove strutture, destinate anche esse a restare sguarnite di personale[20].
c) L’art. 5 interviene in materia di liberazione anticipata; le detrazioni, finora concesse su istanza dell’interessato, verranno applicate d’ufficio della magistratura di sorveglianza che le calcolerà al momento della valutazione di istanze riguardante l’accesso a una misura alternativa (o ad un altro beneficio) o all’approssimarsi del fine pena, a meno che il detenuto non presenti una richiesta sorretta da uno specifico interesse.
Anche a tale riguardo, pur apprezzandosi l’intento semplificativo della novella, non possono sottacersi alcuni dubbi.[21]
Una prima criticità attiene alla scelta di fare a meno delle valutazioni semestrali, che, diradando il confronto con gli interlocutori istituzionali, rischia di amplificare il senso di solitudine dei detenuti.
Ciò in quanto gli interessati sono esposti a un giudizio consuntivo, espresso, nel caso di pene di consistente entità, solo dopo un prolungato silenzio, venendo privati del riscontro fornito dalle periodiche indicazioni, valorizzate nella sentenza della Corte costituzionale n. 276/1990, e utili a rafforzare buoni propositi e a scoraggiare tempestivamente il protrarsi di condotte non consone.
Eventuali ritardi nella decisione, inoltre, specie con riferimento alle decisioni da assumere in vista dell’approssimarsi del fine pena, inciderebbero in modo significativo sulla posizione del detenuto, dal momento che eventuali difficoltà ad ottenere una pronuncia tempestiva comporterebbero una indebita permanenza in carcere.
La mancata previsione di una disciplina intertemporale, infine, rischia di confondere, oltre che gli aspiranti beneficiari, anche i qualificati interpreti che dovranno applicare le nuove disposizioni.
Sullo sfondo restano due questioni irrisolte.
La prima riguarda il sottodimensionamento degli organici sia magistratuali che amministrativi degli uffici di sorveglianza – oberati da un’enorme mole di lavoro, non supportati dalle misure di rafforzamento previste dal PNRR e non adeguatamente informatizzati – non superabile dagli accorgimenti semplificatori introdotti.
La seconda attiene al sovraffollamento, sul quale il legislatore non ha inteso incidere mediante un incremento del numero dei giorni di detrazione della pena, pur trattandosi di uno strumento utilizzabile per alleviare, in questo caso con effetto immediato, il congestionamento del sistema, come già avvenuto all’indomani della condanna inflitta all’Italia con la “sentenza Torregiani”.
d) L’art. 6 ha previsto un incremento del numero colloqui telefonici, aumentati dal numero di uno la settimana a sei al mese a seguito di una modifica da apportare, per mezzo di un regolamento da adottarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, all’art. 39 del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230; nel frattempo, le direzioni dei singoli istituti potranno autorizzare ulteriori colloqui oltre i limiti attualmente previsti.
La norma si propone di sistematizzare la materia, interessata da diverse modifiche, limitando la discrezionalità sull’ampliamento dei colloqui.
La portata dell’innovazione (che risente di uno scarso coordinamento con l’art. 2-quinquies della legge 25 giugno 2020, n. 70, fonte, fra l’altro, di rango superiore al regolamento), tuttavia, avrebbe potuto essere più significativa, fino a spingersi a concedere ai detenuti, in assenza di esigenze cautelari ovvero di ragioni ostative di carattere processuale o legate alla pericolosità sociale del soggetto, la libertà di intrattenere quotidiani contatti con i loro cari, attenuando il rischio suicidario e favorendo la risocializzazione; la nuova disciplina, inoltre, avrebbe potuto essere ispirata ad una maggiore coerenza rispetto ai principi recentemente espressi dalla Corte Costituzionale in tema dell’affettività dei ristretti e di colloqui telefonici.[22]
e) L’occasione di adeguarsi ai principi affermati dalla Consulta non è stata colta neppure in riferimento alla lettera f dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, incisa dalle sentenze n.186/2018 n. 97/2020 che ne hanno dichiarato l’incostituzionalità nelle parti in cui prevedeva il divieto di cucinare cibi ed affermava l’assoluta impossibilità di scambiare oggetti, anche tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità: la norma, infatti, è restata immutata nella sua formulazione, se non per la modifica del segno di interpunzione, in precedenza un punto fermo, divenuto un punto e virgola che precede la nuova lettera f-bis, inserita dall’art. 7 del decreto in commento, alla lettera b dell’unico comma.
Tale disposizione vieta ai detenuti ostativi l’accesso ai percorsi di giustizia riparativa, ponendo una preclusione assoluta, non in linea con l’orientamento del giudice delle leggi che ha ritenuto le limitazioni contenute nel richiamato 41-bis compatibili con i principi costituzionali solamente a condizione che siano finalizzate in modo congruo e proporzionato a prevenire rischi per la sicurezza, risolvendosi altrimenti in una mera vessazione (cfr. le sentenze della Corte Costituzionale n. 351 del 1996 e n.149 del 2018)[23].
f) L’art. 8, concernente le “misure penali di comunità” prevede la creazione di un registro presso il Ministero della Giustizia, in cui potranno essere iscritte quelle strutture che, oltre ad offrire una residenza, garantiscano lo svolgimento di servizi di assistenza, riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo anche a vantaggio di soggetti che soffrono di dipendenza da alcool e stupefacenti o di problematiche psichiatriche il cui trattamento non necessiti di ricovero in reparti specificamente attrezzati.
Al fine di agevolare l’ingresso degli interessati, le strutture verranno incluse in elenco tenuto e aggiornato dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia, che provvederà anche ad esplicare un’attività di vigilanza, secondo le modalità che verranno dettagliate con decreto del Ministro della Giustizia da adottarsi ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400/1988, cui si rimandano ulteriori aspetti esplicativi; a beneficio dei detenuti sprovvisti di domicilio idoneo e che sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per provvedere al proprio sostentamento, vengono stanziati 7 milioni euro annui.
In sede di prima la lettura, la norma sembra apprezzabile in quanto comporta una deflazione della popolazione carceraria e il reindirizzamento verso percorsi risocializzanti esterni, anche estesi a soggetti che versano in particolari difficoltà.
La disposizione, che così come altre esaminate, non è di immediata applicazione, tuttavia, rivela, in nuce, potenziali criticità che potranno essere scongiurate in fase di redazione della normativa secondaria e della successiva attuazione.
Si fa riferimento, in primo luogo, alla necessità che l’organizzazione delle strutture non ricalchi quella che caratterizza gli istituti penitenziari, posto che, in questo caso si assisterebbe a un’inammissibile privatizzazione dell’esecuzione penale e, nella sostanza, all’elusione della ratio sottesa alla disposizione.
La previsione, inoltre, non sopperisce alle difficoltà di gestire i numerosi detenuti tossicodipendenti o affetti da patologie psichiatriche necessitanti della presa in carico presso apposite strutture terapeutiche, attualmente non adeguate e presenti in numero significativamente inferiore alle esigenze effettive.[24]
4.2. In secondo luogo, occorre fare riferimento al disegno di legge di iniziativa governativa (c.d. pacchetto sicurezza) approvato dalla Camera dei deputati il 18 settembre 2024 e attualmente all'esame del Senato, recante "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell'usura e di ordinamento penitenziario", ispirato prevalentemente all’esigenza di fornire una risposta alle esigenze di maggiore sicurezza e tutela dei cittadini.
Al riguardo, deve evidenziarsi che, se al D.L.n.42/2024 può essere imputato di non esplicare significativi effetti deflattivi del numero dei detenuti, il disegno di legge sopra menzionato è addirittura destinato a produrre un aumento della popolazione carceraria, quale inevitabile ricaduta dell’introduzione di nuovi reati e di circostanze aggravanti, nel quadro della criminalizzazione o della più severa repressione di condotte per lo più espressione di contesti di marginalità sociale[25].
Due fattispecie meritano un attento scrutinio.
a) L’art.15, comma 1, interviene sugli artt. 146 e 147 c.p., rendendo facoltativo anziché obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le donne incinte e per le madri di prole fino a un anno, così come già avviene nel caso di figli di età da uno a tre anni, mantenendo quale unica distinzione fra le due ipotesi la necessità che, nel primo caso, l’esecuzione abbia luogo in un istituto a custodia attenuata per detenute madri; l’esecuzione, inoltre, non potrebbe essere rinviata qualora sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti, presumibilmente riscontrabile nel caso di serialità di pregressi reati contro il patrimonio e nella mancanza di fonti di reddito.
Sul piano concreto, occorre tener presente che il numero delle detenute madri, alla data del 9 dicembre 2024 era pari a 12 e, ipotizzando un corrispondente numero di madri in attesa o con prole inferiore ad un anno interessate dalla misura, non pare di scorgere un fenomeno di entità tale da giustificare un allarme sociale.[26]
Sempre su un piano fattuale, si fa presente che l’attenuazione della rigorosa previsione mediante l’indicazione di un più idoneo luogo di custodia è più apparente che reale, posto che sul territorio sono presenti solo cinque ICAM, con la conseguenza che, nella maggior parte dei casi, la detenuta madre, specie se residente in una delle regioni del sud, subirebbe il peso della scelta fra la prosecuzione della gravidanza e la cura del neonato in alternativa alla vicinanza degli altri affetti presenti nel proprio territorio, teoricamente garantita dagli artt. 28 e 42, comma 2, dell’ordinamento penitenziario.
Ciò premesso, la modifica non persuade, segnando una netta inversione di tendenza rispetto al percorso normativo e giurisprudenziale teso alla tutela della detenuta madre, in funzione dei “best interests of the child”, secondo la definizione dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e all’attuazione degli artt. 27, comma 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art.31 della Costituzione, che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia.
Il differimento obbligatorio della pena, fino ad ora concesso ai sensi dell’art. 146 c.p., infatti, costituisce un importante tassello del predetto sistema di tutela, la cui dismissione nuocerebbe a bambini molto piccoli, che, trovandosi fin dalla nascita costretti in spazi ridotti in una situazione di deprivazione sensoriale, rischierebbero una grave compromissione del proprio sviluppo psichico e motorio.
Il costo dell’incremento della sicurezza “percepita”, in definitiva, verrebbe scaricato su pochi soggetti estremamente vulnerabili, spesso già vittime di un contesto di marginalità sociale e di disuguaglianza economica, se non del tutto incolpevoli, come i nascituri e i minori.[27]
b) L’art. 26, dedicato al “Rafforzamento della sicurezza negli istituti penitenziari”, al primo comma, lettera b, introduce nel codice penale l’art. 415-bis, rubricato “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, sanzionando con la pena della reclusione da uno a cinque anni (da elevarsi fino al limite di anni 20 al ricorrere delle aggravanti previste) la partecipazione alla rivolta attuata mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite, incriminando anche le condotte di resistenza passiva, quando le stesse “avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.”
Un rischio, non teorico, è che un detenuto responsabile di un reato non eccessivamente grave, trovandosi coinvolto in una rivolta carceraria – anche in quanto resistente passivo – subisca una condanna che, al ricorrere delle aggravanti previste, potrà arrivare fino a 20 anni.
La norma ha sollevato molteplici critiche, soprattutto per la rilevanza attribuita alla resistenza passiva, che, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, non integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. né può giustificare l’uso legittimo delle armi scriminato dall’art. 51 c.p.
Si è dubitato, in primis, della compatibilità della disposizione con principi di ragionevolezza, di offensività e di proporzionalità, tanto più in considerazione dell’equiparazione delle condotte di resistenza passive agli altri comportamenti sanzionati; la norma, inoltre, non pare rispondere ad uno standard di sufficiente determinatezza, risultando suscettibile – data la genericità del riferimento al “contesto” di realizzazione della condotta – di una applicazione arbitraria, declinata in funzione dell’esigenza di reprimere ogni contestazione sollevata all’interno di strutture inadeguate e afflitte da una situazione emergenziale di sovraffollamento.[28]
Fermi restando i sospetti di legittimità sopra avanzati, si dubita anche dell’efficacia di una risposta meramente repressiva alle gravi criticità del mondo penitenziario, trattandosi di un elemento di acutizzazione di un clima di tensione che, al contrario, avrebbe bisogno di essere smussato attraverso l’ascolto delle esigenze dei detenuti e il miglioramento delle loro condizioni di vita.
Questa opinione, che si ritiene meritevole di attenta considerazione, è stata espressa, con sostanziale unità di vedute dall’accademia, dagli organismi rappresentativi del foro e non da ultimo, a una rappresentanza di coloro che operano all’interno delle carceri.[29]
5. Considerazioni conclusive.
Le conclusioni rassegnate in seno al capitolo della memoria del Procuratore generale, nonostante siano trascorsi alcuni mesi, appaiono del tutto attuali: permane, infatti, la presenza delle criticità che marcano il divario fra la pena legale e quella reale, contraddicendo l’attuazione del finalismo rieducativo, poco credibile quando rivolto ad individui che subiscono la compromissione di diritti fondamentali e della propria dignità.[30]
Le massime autorità civili e politiche hanno colto la gravità della situazione, lanciando messaggi di forte impatto: il Papa, con l’apertura della porta santa Rebibbia, e il Capo dello Stato, nel discorso di fine d’anno, auspicando che i detenuti possano “respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine.”
Appare particolarmente significativo, inoltre, in considerazione delle specifiche ed elevate competenze dei firmatari, l’appello rivolto alle istituzioni alla società civile, dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP) e dall’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale "G.D." Pisapia (ASPP), che, alla luce dei dati contenuti nel report sui suicidi in carcere predisposto dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, hanno espresso il proprio sconcerto per l’allarmante realtà delle carceri italiane.[31]
Ciò posto, si intravede un duplice percorso attraverso il quale la pena può cessare di essere “vendetta pubblica” per diventare un momento di speranza, di riflessione e di ripartenza, come preteso dalla carta fondamentale.
Una prima misura, di immediata praticabilità, potrebbe riguardare l’introduzione di meccanismi di sfoltimento della popolazione carceraria, eventualmente da rivolgersi a quella porzione che sta scontando pene brevi o esigui residui di pena (nel più recente report del Garante il numero dei detenuti che stanno scontando una pena di durata inferiore ad un anno risulta pari a 1.418 e quello dei condannati ad una pena inferiore ai due anni è di 3000; in riferimento ai residui di pena al di sotto delle predette soglie sono presenti rispettivamente 8.137 e 8.378 detenuti)[32].
Si tratta di interventi non procrastinabili nelle more dell’attuazione delle riforme già varate, o della realizzazione di progetti in itinere, in quanto, parafrasando il detto che recita che “l’ottimo è nemico del buono”, in questo caso può dirsi che l’“ottimo” è nemico del senso di umanità e del rispetto dovuto ad ogni individuo, dato che, nell’attesa di una futura riorganizzazione, si consuma un incessante sacrificio di vite umane.
Anche le strategie a lungo termine, peraltro, dovrebbero presupporre una visione non carcero -centrica che – valorizzando una lettura evolutiva dell’art. 27 Cost. nella parte in cui declina al plurale il sostantivo “pena” quale strumento tendente ad attuare il finalismo rieducativo – conduca all’effettivo ampliamento dello spettro delle sanzioni, ricomprendendovi soluzioni alternative alla detenzione (da riservarsi agli autori dei reati più gravi), meno devastanti per chi è tenuto a scontarle, con miglior impatto risocializzante, più efficaci e meno costose per l’erario.
Ancora più a monte, potrebbe immaginarsi un impegno delle istituzioni diretto a prevenire e non a reprimere comportamenti illeciti, incidente sulla fascia di popolazione condannata da una situazione di marginalità sociale e di povertà economica e culturale a condurre quell’esistenza degradata che è l’anticamera della trasgressione delle norme penali: per questo bisognerebbe arruolare quell’ “esercito di insegnanti” invocato da Gesualdo Bufalino.
Infine, tornando al nesso fra il mondo delle carceri e l’ambito delle funzioni del giudice contabile, si evidenzia che il contrasto alle disfunzioni descritte non è estraneo ai compiti della Corte.
La stessa, infatti, in qualità di custode delle risorse pubbliche, è chiamata a scongiurarne gli sprechi e a garantire, in corrispondenza ai diversi ruoli assegnati a ciascuna delle sue articolazioni, il loro corretto impiego: sul punto occorre ribadire con chiarezza – in via conclusiva – che le risorse costruttivamente utilizzate per creare condizioni di vita più umane nelle carceri, migliorando le attività trattamentali e le offerte formative, nella prospettiva di un reale reinserimento dei soggetti interessati, non sono sprecate, ma ben impiegate per garantire la sicurezza di tutti.
[1] La Corte dei conti, secondo quanto previsto dall’art. 40 del Regio Decreto 12 luglio 1934, n. 1214, delibera sul rendiconto generale dello Stato a Sezioni riunite e con le formalità della sua giurisdizione contenziosa, comportanti la trattazione in udienza pubblica e la partecipazione del Pubblico Ministero contabile. Quest’ultimo agisce a tutela dell’interesse generale alla regolarità della gestione finanziaria e patrimoniale. Vd. anche l’art. 6 del Regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, approvato con le delibera delle SS.RR. n. 14 del 16 giugno 2000.
[2] L’espressione è tratta dal titolo del volume di M. Bortolato – E. Vigna Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, edito da Laterza nel 2020.
[3] Cfr., sulle ragioni del superamento di una simile concezione, il contributo di R. Bartoli, intitolato Sulle recenti riforme in ambito penale tra populismo, garantismo e costituzionalismo, apparso, il 3 ottobre 2024 sulla rivista Sistema penale,
[4] L’attribuzione alla Corte di conti della funzione di controllo della legittimità di atti è coeva alla sua stessa istituzione, risultando dall’art. 13 della legge 14 agosto 1862, n.800; la disciplina del controllo preventivo di legittimità è contenuta nell’art. 24 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, nell’art. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 e nell’art. 27 della legge 29 settembre 2000, n. 300; disposizioni successive hanno modificato il novero degli atti da sottoporre a controllo differenziando le relative discipline.
[5] Cfr. le deliberazioni n.101/2021/PREV, n. 102/2021/PREV. n. 103/2021/PREV e n.104/2021/PREV. della Sezione di controllo per la regione Lazio.
[6] La disposizione in esame, peraltro, trova un importante riflesso in alcune delle disposizioni contenute nella legge 26 luglio 1975, n. 354, recante “Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, che all’art. 1, comma 2, prevede l’attuazione di un trattamento che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale, specificando, all’art. 15, che il trattamento deve essere svolto “avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia;” e che, salvo casi di impossibilità, “al condannato e all'internato è assicurato il lavoro”.
[7] L’importanza di garantire ogni diritto che non sia necessariamente inciso dallo stato di restrizione è facilmente intuibile; la Corte costituzionale, nella decisione 11 dicembre 2012, n. 301, ha chiarito che “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale.”
[8] G. Fiandaca, nella premessa del suo saggio Punizione, edito da “il Mulino”, rivela che, in occasione della sua esperienza di Garante regionale dei detenuti, l’osservazione ravvicinata della drammatica condizione dell’universo penitenziario gli ha consentito di prendere atto dei molti fattori che oggettivamente determinano un ampio divario tra la astratta configurazione della pena detentiva e la sua dimensione concreta.
[9] La sentenza riguarda sette ricorsi, depositati tra il 2009 e il 2010, da altrettanti detenuti che lamentavano di aver subito un trattamento inumano e degradante per essere stati alloggiati in celle scarsamente illuminate di nove metri quadrati, da condividere con altre due persone, con limitazioni all’accesso all’acqua calda per le docce, per periodi che andavano da 14 a 54 mesi, tra il 2006 e il 2011.
In quella occasione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani in relazione ai trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, detenuti in una situazione di sovraffollamento degli istituti che li ospitavano, aggravata anche dalle descritte disfunzioni nei servizi.
A quell’epoca il sistema carcerario italiano ospitava intorno a 65.905 persone detenute.
Dopo la sentenza “Torreggiani” il Governo italiano ha adottato il decreto-legge 23 dicembre 2013 n.146 (c.d. decreto “Svuota-carceri”), successivamente convertito nella legge 21 febbraio 2014, n.10, introducendo nell’ordinamento penitenziario nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei detenuti e degli internati destinatari di trattamenti non rispettosi dell’art. 3 della CEDU.
In particolare, l’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario, ha previsto il reclamo giurisdizionale da proporre al magistrato di sorveglianza, dettandone la relativa disciplina mediante il rinvio agli artt. 666 e 678 c.p.p.; l’art. 35-ter, rubricato “Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati”, che consente ai destinatari di trattamenti inumani o degradanti (a causa del sovraffollamento o per altre cause) di conseguire un ristoro per la violazione subita, consistente in una riduzione della pena da espiare, nella misura di un giorno per ogni dieci giorni di pregiudizio subito, o, in via subordinata, in un indennizzo economico, corrispondente ad 8 euro per ogni giorno di pregiudizio patito.
[10] Cfr. la sezione del rapporto riguardante i procedimenti penali per il reato di tortura di cui all’articolo 613 bis c.p.
[11] Vd. il contributo del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Cagliari L. Patronaggio pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 10 dicembre 2024 e l’intervista rilasciata il 28 dicembre 2024 dal segretario generale del sindacato UilPa della Polizia Penitenziaria Gennarino De Fazio, su “Il Dubbio.”
[12] Cfr. il contributo di C. Mistrorigo, pubblicato il 12 dicembre 2024 sulla rivista Sistema penale, intitolato Una fotografia delle indegne condizioni presenti nelle carceri italiane in una ordinanza del magistrato di sorveglianza di Firenze a seguito di reclamo ex art. 35 bis o.p. e dell’allegata ordinanza del magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze, e sulla stessa rivista, la lettera scritta da detenuti nel carcere di Brescia, Nerio Fischione, Canton Mombello, pubblicata il 17 agosto 2024 (Dai detenuti una lettera straziante e una lezione dal carcere).
[13] Cfr., su Sistema penale il contributo del 5 gennaio 2025 di G.L. Gatta, La Cassazione sull'affettività in carcere come diritto: ammissibile il reclamo del detenuto al quale sia negato un colloquio con il coniuge in condizioni di intimità e l’articolo di F. Cimino, Il diritto all’affettività ristretta. A quasi un anno dalla pronuncia della Corte costituzionale in materia di colloqui intimi, in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 12.
[14] L’art. 77, sotto il profilo di interesse, deve comunque essere letto alla luce delle decisioni della Consulta n. 16 del 24 gennaio 2017 e n.170 del 12 luglio 2017.
[15] Questo aspetto è lucidamente evidenziato – insieme a molti altri – nel documento dalla Conferenza dei Garanti territoriali intitolato Alcune note sul Decreto-Legge n. 92 del 4 luglio 2024, recante «Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della Giustizia» e proposte di intervento IMMEDIATO al fine di porre termine alle condizioni drammatiche delle carceri italiane apparso il 22 luglio 2024 sulla rivista “Sistema Penale” (D.l. Nordio e carcere: il documento della Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali).
[16] Cfr. l’audizione del Capo del Dap, Giovanni Russo sul D.l./2024, resa in data 10 luglio alla Commissione Giustizia del Senato.
[17] Cfr. la Relazione sul rendiconto generale dello stato per il 2023, Volume II, tomo I, e precisamente la nota 36 di pag. 226, dove si chiarisce che “nel corso del 2023 si è provveduto all’assunzione di 312 unità di personale non dirigente nei diversi profili. Ciò nonostante, dato l’effetto del turn over, detto personale passa dalle complessive 36.257 unità del 2022 alle 35.818 rispetto ad un organico incrementato da 42.384 unità a 42.666.”
[18] Il tema – insieme a quelli inerenti alle modifiche alla liberazione anticipata, ai colloqui con i familiari e all’albo delle comunità, inquadrati nel contesto del decreto – viene affrontato nel contributo di E. Romano intitolato D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente, pubblicato su Giustizia Insieme il 9 luglio 2024 e nell’ articolo di F. Gianfilippi Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario, pubblicato il 10 giugno sulla stessa rivista; vd. anche l’Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024”, pubblicata su Giustizia Insieme il 15 luglio 2024.
[19] La disposizione è stata da ultimo modificata dall’art. 6 del D.L. 29 novembre 2024, n. 178, convertito nella legge 23 gennaio 2025, n. 4, che, fra l’altro, ha prorogato la durata in carica del Commissario.
[20] Le modifiche e le innovazioni apportate al decreto sono oggetto del contributo di F. Gianfilippi La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere, pubblicato su Giustizia insieme il 6 settembre 2024.
[21] Si rinvia ai contributi di E. Romano D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente e di F. Gianfilippi: Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario e “La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere”, già citati.
[22] Si fa riferimento alle decisioni n.10 del 26 gennaio 2024 e n. 85 del 13 maggio 2024.
[23] Cfr. sul punto, le Riflessioni sui possibili margini di intervento parlamentare in sede di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92 (decreto carcere). Appunti a prima lettura di M. Ruotolo, pubblicato in data 11 luglio 2024 su Sistema penale, anche per gli spunti riguardanti altri aspetti del decreto, all’epoca in corso di conversione, incluso il tema dei colloqui telefonici; vd. anche l’“Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024”, cit.
[24] Si rimanda ai contributi menzionati alle note 20, 21 e 23.
[25] Cfr. l’articolo di G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati di Cesare Beccaria, pubblicato il 7 novembre su Sistema Penale
[26] Fonte: “Report analitico” del Garante Nazionale, tabella n.6, pag.10.
[27] Cfr. su Sistema penale, l’”Osservatorio sulla violenza contro le donne n. 4/2024 – Crimini di strada e condizionamenti sociali e ambientali: l’applicazione della disciplina della continuazione ai reati commessi dalle “borseggiatrici.” e i contributi di M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236) pubblicato il 9 ottobre 2024” sulla stessa rivista nonché l’articolo di F. Gianfilippi, Il DDL Sicurezza e il carcere pubblicato su Giustizia insieme” il 29 ottobre 2024.
[28] Cfr. i menzionati interventi di G. L. Gatta, Il pacchetto sicurezza e gli insegnamenti, dimenticati, di Cesare Beccaria; di Fabio Gianfilippi Il DDL Sicurezza e il carcere e di M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236).
[29] Cfr. su Sistema penale l’articolo di R. Cornelli Il Ddl Sicurezza alla prova della ricerca criminologica: prime annotazioni critiche”, pubblicato il 27 maggio 2024; vd. sempre su Sistema penale, i documenti con cui le camere penali italiane hanno deliberato lo stato di agitazione (Pacchetto sicurezza: l'Unione delle Camere Penali Italiane delibera lo stato di agitazione, del 2 ottobre 2024) e, in seguito, l’astensione dalle udienze (Pacchetto sicurezza: l'Unione delle Camere Penali Italiane delibera l'astensione dalle udienze dal 4 al 6 novembre e indice una manifestazione nazionale chiamando a confronto Avvocatura e Accademia, del 31 ottobre 2024, nonché, su Giustizia Insieme il comunicato dell’associazione italiana dei professori di diritto penale (Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria, del 24 ottobre 2024).
[30] Cfr. l’articolo “Detenuti senza dignità”, a firma del magistrato di sorveglianza Marcello Bortalato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, sulla rivista Questione Giustizia.
[31] Cfr., sulla rivista Sistema penale, il contributo del 1° gennaio 2025 intitolato Record di suicidi ed eventi critici in carcere nel 2024: i dati nel report del Garante dei detenuti. Il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno: l'alto numero di suicidi "è indice di condizioni inammissibili e sulla stessa rivista, pubblicato in data 27 dicembre 2024, il documento dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP) e l'Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale "G.D." Pisapia (ASPP), intitolato Un triste primato del 2024: l’ennesimo record dei sucidi in carcere.
[32] Fonte: Report analitico del Garante Nazionale, tabella n.8 di pag. 10.
Correttivo 2024 e collegio consultivo tecnico: prime osservazioni
di Francesco Goisis
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il perimetro oggettivo e soggettivo del CCT – 3.Il CCT come arbitrato irrituale: profili di rafforzamento della indipendenza e imparzialità del collegio. - 4. Precisazioni in punto di durata del CCT. - 5. Il nuovo art. 216: un rafforzamento dell’obbligatorietà in senso forte del CCT e le criticità del testo legislativo. - 6. Il problema della domanda di parte nella proposizione dei quesiti e della distinzione tra le diverse categorie di pronunciamenti del CCT. - 7. Il rapporto con l’accordo bonario. - 8. Il “nuovo” Allegato V.2. - 9. La disciplina intertemporale. - 10. Conclusioni.
1. Introduzione.
La disciplina del Collegio consultivo tecnico (CCT) [1]- artt. 215-219 e Allegato V.2 - è stata in non pochi punti modificata dal Correttivo (d.lgs. 31 dicembre 2024, n. 209).
La relazione illustrativa parla di necessità di affrontare, tramite il nuovo intervento legislativo, “incertezze applicative relative al perimetro della sua attività, nonché sui relativi presupposti di istituzione, attivazione e modalità operative”, nonché di fornire chiarimenti “in merito alla natura giuridica delle determinazioni del CCT in relazione alla possibile esperibilità del c.d. accordo bonario nonché ai i limiti temporali della sua operatività e alle modalità di calcolo e computo dei compensi spettanti ai componenti del collegio”.
Se molti interventi correttivi sono stati in realtà meramente formali, altri rivestono maggiore interesse pratico e sistematico.
2. Il perimetro oggettivo e soggettivo del CCT.
Soffermandosi sui profili di maggior interesse, e quindi partendo dal campo di applicazione oggettivo e soggettivo del CCT, l’obbligatorietà dei CCT è ora limitata ai contratti pubblici, inclusi quelli misti e realizzati tramite concessione e partenariato, con valore dei lavori superiori alla soglia di rilevanza comunitaria. Quanto ai contratti pubblici di forniture e servizi di qualsiasi valore, l’attivazione del CCT è ormai facoltativa, ossia rimessa alla volontà delle parti.
In effetti, i CCT nel settore delle forniture e dei servizi, introdotti solo nel 2023, non erano mai “decollati” e la relativa disciplina poneva diversi interrogativi: il quadro normativo del CCT è sempre stato pensato per lo specifico settore dei lavori, senza alcuna reale attenzione per le particolarità di servizi e forniture; la scelta, dunque, era tra un adattamento della disciplina anche a forniture o servizi, o la sostanziale soppressione del CCT per questi ultimi, e la seconda opzione ha prevalso.
Viene, d’altro canto, opportunamente esplicitata (nonostante qualche perplessità emersa in sede parlamentare[2]) l’estensione del CCT anche ai settori speciali. Si è infatti introdotto, nell’art. 141 (co. 3, lett. i-bis), un riferimento agli “articoli da 215 a 219”, resi quindi indubbiamente (ed obbligatoriamente) operativi anche nei settori speciali per i lavori soprasoglia. Ciò nonostante le resistenze finora incontrate nella prassi, ma in coerenza con un’opzione interpretativa già affermata dal Ministero delle Infrastrutture dei Trasporti (“MIT”)[3].
Si noti che il neo-codificato accordo di collaborazione di cui all’art. 82-bis - le cui funzioni manutentive del rapporto contrattuale sono in parte sovrapponibili a quelle del CCT - è stato opportunamente “subordinato” funzionalmente al CCT: difatti, all’art. 4, co. 2 del nuovo Allegato II.6 (in tema di accordi di collaborazione), è esplicitato che “In caso di costituzione di un collegio consultivo tecnico ai sensi degli articoli 215 o 218 del codice, le parti dell'accordo di collaborazione sono tenute ad osservare i pareri e le determinazioni del collegio, ove incidenti su aspetti da esso regolati”.
In tal modo, sembra assistersi anche ad un espresso ampiamento soggettivo dell’efficacia delle deliberazioni del CCT, estese a tutte le parti dell’accordo di collaborazione. Quest’ultimo, difatti, coinvolge non solo le parti del contratti di appalto o di concessione, ma anche tutte le altre “parti coinvolte in misura significativa nella fase di esecuzione di uncontratto di lavori, servizi o forniture…”: ebbene, anch’esse sono “sono tenute ad osservare i pareri e le determinazioni del collegio”.
Il che, a dire il vero, avrebbe suggerito di affrontare il tema (trascurato dal legislatore) su come coinvolgere le parti diverse da quelle del contratto principale nel procedimento di CCT, assicurando, anche a loro tutela, un minimo di contraddittorio. In ogni caso, pare da escludersi un’estensione soggettiva diretta della portata arbitrale delle determinazioni del CCT, atteso il necessario fondamento volontario dell’arbitrato, su cui ci soffermeremo.
3.Il CCT come arbitrato irrituale: profili di rafforzamento della indipendenza e imparzialità del collegio.
Degna di nota è anche la valorizzazione della natura arbitrale (irrituale) del CCT, ove chiamato ad emanare determinazioni su controversie contrattuali.
Più nel dettaglio, contribuendo a risolvere la discussione dottrinale in corso sulla natura del CCT nella sua veste “arbitrale”, nel comma 1, primo periodo, dell’art. 215 è inserito un riferimento alla finalità di “garantire l'indipendenza di giudizio e valutazione” del CCT, così rispondendo alle critiche in punto di preteso difetto di terzietà del collegio (che, in tesi, avrebbe impedito di ritenerlo un vero arbitrato irrituale).
Nella stessa ottica di rafforzamento della indipendenza del collegio, all’art. 2, co. 4, dell’Allegato V.2, viene prevista la possibilità di proporre una istanza di ricusazione dei componenti del CCT al presidente del Tribunale ordinario ai sensi dell'art. 810 c.p.c.. Tale istanza sarà però proponibile solo sulla base di asserite incompatibilità di un membro del collegio, quali dettagliate, senza particolari novità (salvo il loro carattere tassativo, in virtù dell’inserimento dell’avverbio “esclusivamente”[4]), dallo stesso art. 2.
Non sfugge, tuttavia, che (i) la ricusazione è prevista dal Codice di rito solo per l’arbitrato rituale, (ii) la giurisprudenza ne esclude l’estendibilità analogica all’arbitrato irrituale, in quanto la terzietà non costituirebbe, per quest’ultimo, principio di ordine pubblico[5] e, comunque, (iii) l’art. 815 c.p.c. prevede (per l’arbitrato rituale) un regime di incompatibilità molto più rigoroso di quello previsto per i membri del CCT; ad esempio, mai un dipendente di una delle parti della controversia potrebbe essere nominato arbitro rituale, mentre tale possibilità è espressamente prevista nel caso del CCT, in relazione ai componenti “semplici” e quindi indubbiamente consentita.
Insomma, al di là delle enunciazioni di principio, la garanzia dell’indipendenza rimane essenzialmente riferita al presidente del CCT, visto che esclusivamente per esso vale l’incompatibilità per chi abbia “svolto con riguardo ai lavori o servizi oggetto dell'affidamento, attività di collaborazione nel campo giuridico, amministrativo o economico per una delle parti”.
Il testo del Correttivo approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri prevedeva, in realtà, una estensione di tale incisiva causa di incompatibilità a tutti i componenti. Esso è stato però modificato su richiesta di ANCE[6], recepita anche nel parere del Senato[7], la quale paventava ricadute negative per le imprese, che non avrebbero più potuto indicare come propri rappresentati nel CCT i professionisti di fiducia già coinvolti in una determinata commessa.
In ogni caso, operando il CCT a maggioranza, ed essendo i componenti semplici nominati da ciascuna parte, è proprio il presidente, di regola, ad avere l’ultima parola, così assicurando, in concreto, un adeguato livello di indipendenza/terzietà del collegio.
In sostanza, il legislatore sembra essersi ispirato alla tesi per cui, quale unica condizione davvero necessaria per la tenuta del procedimento arbitrale sul piano della imparzialità, le procedure di nomina degli arbitri debbano salvaguare la parità delle parti: in altri termini, una nozione di imparzialità arbitrale dipendente non dalle eventuali relazioni tra gli arbitri e le parti del procedimento, ma affidata ad un principio di uguaglianza delle parti nella formazione del collegio arbitrale [8].
Semmai, in tale ottica appare discutibile la scelta del Correttivo di consentire sempre al MIT la nomina di un componente nei CCT nelle opere da quest’ultimo anche parzialmente finanziate (art. 1, co. 2, Allegato V.2: “Nei casi in cui il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti partecipa al finanziamento della spesa nomina un componente del Collegio con le modalità di cui al presente comma”). Se quel che si vuole dire è che tale membro di nomina ministeriale si aggiunge a quello di ordinaria nomina pubblica, si rischia così la creazione di un organo sbilanciato verso la parte pubblica e, con ciò, incapace di una credibile funzione conciliativa e arbitrale.
Sempre a presidio dell’indipendenza del CCT, si prevede la non revocabilità dei membri per opera delle parti. La previsione appare particolarmente incisiva, atteso che anche per gli arbitri irrituali è ammessa la revocabilità per giusta causa, ex art. 1726 c.c.[9].
Di nuovo, trattasi di profilo dal chiaro rilievo sistematico: una recente giurisprudenza aveva invero affermato la riconducibilità del CCT ad un rapporto fiduciario di mandato, con conseguente revocabilità del componente una volta venuto meno il rapporto fiduciario[10].
In sostanza, nel complesso, pare confermata (e rafforzata) la qualificazione del CCT come collegio arbitrale irrituale sui generis, in cui la terzietà/indipendenza del collegio (pur specificamente presidiata) risulta tuttavia (come peraltro usuale nel comune arbitrato irrituale) attenuata rispetto al modello dell’arbitrato rituale[11].
D’altra parte, i membri del CCT, a garanzia della funzionalità del collegio, non possono dimettersi se non per giusta causa o giustificato motivo (art. 5, co. 3 r 4, dell’Allegato V.2).
Tra le ragioni che giustificano le dimissioni del componenti del CCT, debbono certamente enumerarsi il mancato puntuale pagamento di quanto dovuto al CCT (secondo parametri non derogabili in pejus dalle parti, nemmeno nell’esercizio di pretese potestà regolamentari, secondo quanto esplicitato dall’art. 1, co. 5, dell’Allegato V.2, secondo cui “Il compenso è corrisposto a tutti i componenti del CCT indipendentemente dal rapporto intercorrente tra ciascun componente e le parti contrattuali ed è sottoposto esclusivamente ai limiti previsti dalla legge”), nonché la mancata collaborazione delle parti, che debbono mettere il CCT in condizioni di operare in modo informato ed efficace, ad es. fornendo ad esso idonea documentazione e assistenza informativa.
Resta il fatto che non risultano risolti due dei problemi di fondo che possono indurre i componenti del CCT alle dimissioni: ossia (i) la mancata previsione (al di là dell’enunciazione di principio dell’art.1, co. 4, dell’Allegato V.2 che parla di compenso “proporzionato al valore dell'opera, al numero, alla qualità e alla tempestività delle determinazioni assunte”) di un compenso realmente rapportato alla qualità e quantità dell’attività svolta, con la conseguenza che, dopo un numero anche limitato di determinazioni, può facilmente risultare esaurito il tetto massimo dei compensi del singolo componente, che l’art. 1, co. 5, ribadisce pari alla misura massima di un triplo della parte fissa e, allo stesso tempo, (ii) il divieto di partecipare contemporaneamente a più di cinque CCT e, nell’arco di due anni, di far parte di più di dieci CCT (art. 5, co. 1, dell’Allegato V.2; i limiti sono stati mantenuti, nonostante il diverso, motivato, avviso del Senato[12]), che può determinare la penalizzante (e di dubbia conformità al principio di proporzionalità) conseguenza della partecipazione a CCT infruttiferi e, allo stesso tempo, preclusivi di altri CCT retribuibili.
4. Precisazioni in punto di durata del CCT.
Anche in connessione al divieto di dimissione senza giusta causa o giustificato motivo, opportuno appare il chiarimento sul momento in cui l’esecuzione contrattuale è da intendersi conclusa e, con ciò, il CCT sciolto: ossia, ai sensi del nuovo comma 1-bis dell’art. 219, la “data della sottoscrizione dell'atto di collaudo o regolare esecuzione, salvo che non sussistano riserve o altre richieste in merito al collaudo medesimo; in quest'ultimo caso, il collegio è sciolto con l'adozione della relativa pronuncia”.
La previsione non affronta però il problema, anch’esso di interesse pratico, della sorte del CCT in caso di eventi che portino alla inefficacia anticipata del rapporto contrattuale (ad esempio, recesso e risoluzione)[13].
A tal riguardo, la principale questione è se il CCT risulti automaticamente sciolto (dopo aver reso, nel caso della risoluzione, un parere obbligatorio preventivo), oppure possa/debba pronunciarsi sulle controversie nascenti da tali vicende, spesso non prive di significativi profili contenziosi.
Sul punto, pare utilmente ipotizzabile un’applicazione analogica della previsione dell’art. 219, co. 1-bis, per cui la sussistenza di riserve o altre richieste in merito all’atto conclusivo del rapporto contrattuale determina la persistente operatività del CCT.
5. Il nuovo art. 216: un rafforzamento dell’obbligatorietà in senso forte del CCT e le criticità del testo legislativo.
Venendo al profilo forse più rilevante per il CCT dell’intero Correttivo, risulta significativamente ampliato l’ambito dell’intervento obbligatorio del CCT, così opportunamente rafforzandone la funzione pubblicistica (e quindi indisponibile) di assicurare la pronta ed esatta realizzazione delle opere pubbliche, indipendente dalla volontà delle parti di adirlo.
Difatti, l’art. 216, co. 1, viene così modificato: “Nei casi di iscrizione di riserve, di proposte di variante e in relazione ad ogni altra disputa tecnica o controversia che insorga durante l'esecuzione di un contratto di lavori di importo pari o superiore alle soglie di rilevanza europea, è obbligatoria l'acquisizione del parere o, su concorde richiesta delle parti, di una determinazione del collegio. Se le parti convengono altresì che le determinazioni del collegio assumono natura di lodo contrattuale ai sensi dell'articolo 808-ter del Codice di procedura civile, è preclusa l'esperibilità dell'accordo bonario per la decisione sulle riserve”.
In sostanza, la norma mira a rendere doverosa l’attivazione del CCT, a fronte di una controversia di qualsiasi genere (di carattere giuridico o tecnico, ed oggetto, o meno, di riserva), coerentemente chiarendo che la determinazione con natura arbitrale preclude altri rimedi di ADR (e in specie l’accordo bonario).
La previsione è da salutare con favore, nella misura in cui si muove nella direzione di una obbligatorietà in senso “forte” del CCT su lavori soprasoglia.
In questi casi, apparirebbe anzi ragionevole (anche se il legislatore non lo dice espressamente) che il Collegio possa/debba deliberare anche d’ufficio. Ciò è peraltro suggerito, sul piano letterale, dal fatto che l’art. 4, co. 1, dell’Allegato V.2 non commina alcuna nullità per il parere emesso senza domanda di parte[14] e, sul piano sostanziale, dall’osservazione che se il legislatore vuole che su un determinato profilo il CCT si pronunci, non si vede perché si dovrebbe impedirne tale (inderogabile) attività nelle (pur presumibilmente limitate) ipotesi in cui, al di fuori di un formale quesito, il Collegio venga a conoscenza di fatti che ne richiedono l’intervento.
Non mancano però profili francamente critici nel nuovo art. 216, co. 1. Come vedremo, essi rischiano addirittura di mettere in crisi la funzionalità dei CCT.
Non è ben chiaro, anzitutto, perché si sia prevista la necessità di una “concorde richiesta delle parti” per la determinazione.
Sul punto, si è presumibilmente seguito il rilievo del parere del Consiglio di Stato sulla versione preliminare del Correttivo[15]: ivi si proponeva di specificare “al fine di fugare ogni dubbio in ordine alla compatibilità con il divieto costituzionale di arbitrato obbligatorio”, che “il collegio consultivo tecnico interviene con “determinazione” solo ove vi sia una richiesta congiunta in tal senso delle parti, con l’ulteriore specificazione che tale determinazione avrà natura di lodo contrattuale ai sensi dell’articolo 808-ter del Codice di procedura civile a condizione che le parti medesime convengano ulteriormente espressamente di attribuirvi tale valore. Fuori di tale ipotesi la forma ordinaria di pronuncia obbligatoria del collegio consultivo tecnico resterebbe, invece, il parere (anche su istanza di una sola delle parti).”.
Tuttavia, a tal riguardo, va anzitutto notato come, ai sensi della disciplina generale (e, fino al Correttivo, unica) del CCT, la richiesta di determinazioni e pareri non richieda affatto una volontà concorde delle parti, inequivocabilmente bastando la richiesta anche di una sola delle parti: “Il procedimento per l’espressione dei pareri o delle determinazioni del CCT può essere attivato da ciascuna delle parti o da entrambe congiuntamente” (art. 4, co. 1 dell’Allegato V.2).
Non si comprende quindi perché dovrebbe essere altrimenti solo nelle – peraltro ormai del tutto pervasive - ipotesi di cui all’art. 216. Si così fosse, la regola generale diventerebbe, a ben vedere, quella della necessità di una richiesta congiunta nella quasi totalità dei casi.
D’altra parte, la regola di cui art. 4, co. 1 dell’Allegato V.2 (ossia quella della sufficienza di una sola richiesta) pare del tutto ragionevole e coerente con il sistema generale della tutela giurisdizionale e delle ADR. Sfugge dunque perché dovrebbe risultare derogata proprio quando è addirittura necessario un parere obbligatorio e, quindi, il legislatore sembra semmai manifestare l’idea della particolare utilità (e anzi essenzialità) dell’intervento del CCT. Non è chiaro, allora, perché, proprio in tali circostanze, il CCT dovrebbe essere depotenziato nella portata delle sue pronunce, in mancanza di una richiesta congiunta.
Passiamo ora alla necessità della richiesta congiunta per la determinazione arbitrale (peraltro, si noti, a dimostrazione di una certa approssimazione del testo legislativo, subito smentita dallo stesso art. 216, co. 4, ove in tema di parere obbligatorio sulle sospensioni per gravi ragioni tecniche, riemerge la regola originaria per cui “In tal caso la pronuncia assume l'efficacia di lodo contrattuale solo se tale possibilità non sia stata espressamente esclusa ai sensi di quanto disposto dall'articolo 217”).
Qui il vero problema (ed equivoco) è che un conto è la obbligatorietà del CCT per i lavori soprasoglia (che riflette la sua funzione pubblicistica, ossia la sua preordinazione alla realizzazione del principio del risultato nella fase esecutiva); altro è la questione della volontarietà dell’arbitrato: quest’ultima è pienamente assicurata (come nella comune esperienza delle clausole arbitrali) ove la opzione arbitrale sia manifestata congiuntamente e liberamente ab origine, in sede di costituzione del CCT. Salvo voler (impropriamente) assimilare i due profili, nessun bisogno, dunque, di ulteriori, congiunte, manifestazioni di volontà, ogni qual volta sorga una concreta controversia da portare all’attenzione del collegio nella sua veste arbitrale[16].
Tanto più che l’art. 3, c. 3, dell’Allegato V.2, nel disciplinare l’insediamento del CCT, stabilisce che “Nel verbale della seduta d’insediamento, ..., se le parti non si siano avvalse della facoltà di escludere che le determinazioni del Collegio assumano natura di lodo contrattuale, sono precisati termini e modalità di svolgimento del contraddittorio, specificando il dies a quo della decorrenza del termine di quindici giorni per la pronuncia del lodo”.
Se ne desume allora che - come del resto esplicitato nelle Linee Guida 2022 (par. 3.2.2: “il CCT può operare come collegio arbitrale ai sensi e per gli effetti dell’art. 808 ter c.p.c. solo se il consenso in tal senso sia stato ritualmente prestato dalle parti ai sensi dell’art. 6, comma 3, quarto periodo”) - contenuto necessario della prima riunione di insediamento sia proprio, tra l’altro, la scelta se attribuire o meno valore arbitrale alle determinazioni del CCT (perché da ciò derivano conseguenze quanto alle regole di funzionamento del CCT, da determinare in tale sede). La relativa scelta è dunque, in realtà, tutt’altro che implicita (ossia per silenzio assenso), ma finisce per (dover) essere dichiarata a verbale, assumendo quindi una forma addirittura solenne.
Non convince, quindi, il problema (sollevato dal Consiglio di Stato e da alcune voci dottrinali[17] e presumibilmente alla base del testo del nuovo art. 216) del preteso carattere non totalmente volontario dell’arbitrato.
Anche in questo caso, d’altro canto, la disciplina è quantomeno poco coordinata, visto che l’art. 217, co. 1, primo periodo, in tema di pareri e determinazioni facoltative, esplicitamente ancora afferma la sufficienza della scelta ab origine sulla natura arbitrale delle determinazioni, senza alcun bisogno di successive manifestazioni di volontà, tantomeno congiunte (“Quando l'acquisizione del parere o della determinazione non è obbligatoria, le determinazioni del collegio consultivo tecnico assumono natura di lodo contrattuale ai sensi dell'articolo 808-ter del codice di procedura civile se le parti, successivamente alla nomina del Presidente e non oltre il momento dell'insediamento del collegio, non abbiano diversamente disposto”) e, coerentemente, l’art. 3. co. 2, secondo periodo, dell’Allegato V.2, di nuovo menziona, in termini generali, la circostanza che nella “seduta d'insediamento del Collegio” i legali rappresentanti delle parti siano “tenuti a rendere a verbale dichiarazione in merito alla eventuale volontà di non attribuire alle pronunce del Collegio valore di lodo contrattuale ai sensi dell'articolo 808-ter del codice di procedura civile”.
Ora, se si trattasse davvero di un problema costituzionale, non si comprenderebbe perché esso dovrebbe porsi solo per le pronunce obbligatorie (diverse da quelle sulle sospensioni per gravi ragioni tecniche) e non invece per quelle facoltative. Ciò salvo immaginare, come già osservato, una (tutt’altro che persuasiva) sovrapposizione tra carattere obbligatorio della pronuncia del CCT e, invece, pretesa obbligatorietà dell’arbitrato.
6. Il problema della domanda di parte nella proposizione dei quesiti e della distinzione tra le diverse categorie di pronunciamenti del CCT.
Va, infine, segnalato un ulteriore difetto di coordinamento tra art. 216 e art. 4, co. 1, dell’Allegato V.2, che continua a prevedere (come già il par. 4.1.3 delle Linee Guida 2022) che “In nessun caso il CCT può pronunciare in assenza dei quesiti di parte; l’inosservanza di tale divieto comporta la nullità delle determinazioni eventualmente assunte. Se l’appaltatore, al fine di non incorrere in decadenze, iscriva riserve senza formulare anche il relativo quesito al CCT, il quesito deve essere formulato dal responsabile del procedimento se la riserva è tale da incidere sulla regolare esecuzione dei lavori”.
Ora, se ormai ogni riserva comporta (almeno) un parere obbligatorio, sfugge perché mai il dovere per il RUP di sollevare d’ufficio il quesito su una riserva dovrebbe essere subordinato ad una valutazione di incidenza sulla regolare esecuzione dei lavori. Evidentemente tale dovere sussiste sempre, essendo il RUP chiamato a garantire la legittimità della fase d’esecuzione, e quindi a richiedere d’ufficio pronunce obbligatorie.
Per coordinare l’art. 216, co. 1 e l’art. 4, co. 1, dell’Allegato V.2, bisognerebbe allora ritenere che quest’ultima previsione si riferisca solo a delle determinazioni “in senso stretto”, intese come deliberazioni del CCT, di natura arbitrale o meno, diverse dai pareri obbligatori.
In tal senso potrebbe essere valorizzato il dato letterale l’art. 4, co. 1, terzo periodo, dell’Allegato V.2 laddove si parla di “determinazioni”, peraltro con specifico ed esclusivo riferimento alla nullità in caso di pronuncia senza richiesta di parte.
Tuttavia, anche in tale prospettiva, non sarebbe facile convincersi della razionalità sistematica della previsione. Ed invero, venendo ad un ulteriore punto delicato, tra un parere obbligatorio su una riserva/controversia e una determinazione collegiale priva di valore arbitrale non dovrebbe esservi una reale differenza di regime, contenuto ed efficacia.
A ben vedere, il parere obbligatorio sulla riserva non può (così come la determinazione) che vertere, appunto, sulla fondatezza della riserva, ossia sul merito delle reciproche posizioni delle parti della controversia e, soprattutto, l’art. 215, co. 3, non pare fare alcuna differenza tra pareri ex art. 215 e, rispettivamente, ex art. 216, prevedendo espressamente che “L'inosservanza dei pareri o delle determinazioni del collegio consultivo tecnico è valutata ai fini della responsabilità del soggetto agente per danno erariale e costituisce, salvo prova contraria, grave inadempimento degli obblighi contrattuali”.
Vero che la esclusione della responsabilità per danno erariale è letteralmente riferita, dall’art. 215, co. 3, alle sole determinazioni (“L’osservanza delle determinazioni del collegio consultivo tecnico è causa di esclusione della responsabilità per danno erariale, salva l’ipotesi di condotta dolosa”), ma questo appare, con tutta probabilità, un mero refuso, visto che sarebbe irragionevole che il parere, ove non seguito, comportasse (come reso esplicito dall’art. 215, co. 3), in negativo, un “grave inadempimento degli obblighi contrattuali” e una ragione di possibile “responsabilità del soggetto agente per danno erariale”, ed invece non incidesse, in positivo, sulla responsabilità erariale, determinando un’esenzione[18].
Non a caso, le originarie scelte legislative di cui all’art. 6, co. 3, secondo periodo, del D.L 16 luglio 2020, n. 76 parlavano solo di determinazioni[19], senza alcun riferimento ai pareri, e dalla qualità di determinazione (anche non arbitrale) derivava il carattere semi-vincolante, con i noti incentivi a conformarsi sia di tipo negativo (responsabilità) che positivo (esenzione da responsabilità erariale): era insomma indubbio che il fatto di conformarsi ad una pronuncia non vincolante sulle riserve o altre controversie esimesse dalla responsabilità contabile.
In effetti, l’unica distinzione utile sul piano del contenuto tra le diverse pronunce del CCT sembrerebbe quella tra determinazioni aventi ad oggetto una controversia ed invece meri pareri, estranei alla risoluzione di una controversia, o, in ogni caso, essenzialmente attinenti all’esercizio della funzione di cura della esecuzione e prosecuzione del contratto da parte della Stazione appaltante e quindi solo collegati all’esecuzione contrattuale, senza però investirne direttamente le controversie “paritarie” (si pensi a quelli, obbligatori, sulle sospensioni e sulle proroghe, previsti dall’art. 121, co. 3 e 8, nonché a quelli su risoluzione e modalità di prosecuzione dei lavori, di cui all’art. 217, co. 1).
Non a caso, alcuni di questi pareri sono anche espressamente esclusi dalla possibilità di valere come lodi arbitrali. Il che si comprende proprio perché (e nella misura in cui) non attengono (almeno di per sé) a controversie, o, quantomeno, a controversie paritarie: è il caso dei pareri sulla risoluzione, sulla sospensione coattiva o sulle modalità di prosecuzione dei lavori (comprese scelte di chiaro tenore autoritativo, ossia quella relative alla selezione del soggetto con cui continuare i lavori), per i quali, ex art. 217, co. 1, è appunto preclusa l’arbitrabilità.
Su tali profili non certo del tutto nitidi della disciplina, il Correttivo avrebbe potuto e dovuto fare chiarezza.
Al contrario, esso, all’art. 216, co. 1, ossia solo in relazione alle pronunce obbligatorie del CCT (peraltro destinate a diventare la massima parte), (i) sembra implicare una pretesa distinzione quanto ai presupposti procedurali e presumibilmente, ai contenuti e agli effetti, tra pareri “in senso stretto” e determinazioni non arbitrali e, ancora, (ii) mette in discussione la scelta per cui la opzione per il carattere arbitrale o meno delle future determinazioni debba essere compiuta ab origine.
Quanto sopra finisce per creare una disciplina francamente contraddittoria e poco funzionale proprio rispetto al profilo all’evidenza più rilevante del CCT: ossia quello funzionale, delle pronunce che il collegio può e deve deliberare e dei relativi presupposti di iniziativa procedurale. Non sfugge, allora, il rischio di comportamenti opportunistici delle parti, che potrebbero, di volta in volta, negare il loro consenso ad una pronuncia con pienezza di efficacia, presumibilmente sulla base di una valutazione prognostica in ordine al relativo esito. Un po' come se in un giudizio già in corso ciascuna delle parti potesse impedire al giudicante di decidere la lite, sulla base di una propria valutazione del rischio di soccombenza.
7. Il rapporto con l’accordo bonario.
Problemi applicativi possono nascere anche dalle previsione dell’art. 216, co. 1, secondo periodo, per cui solo in caso di opzione arbitrale, “…è preclusa l'esperibilità dell'accordo bonario per la decisione sulle riserve”.
Ora, se è certamente condivisibile (e a ben vedere ovvio) che in caso di scelta per determinazioni arbitrali non vi possa essere alcuno spazio per procedure di accordo bonario, sfugge, parimenti, che utile ruolo possa svolgere questa procedura a fronte di pareri (o determinazioni non arbitrali, sempre che abbia senso la distinzione) del CCT, già resi o da rendere in tempi velocissimi: al parere del CCT rischierebbe solo di sovrapporsi una diversa proposta di accordo bonario.
Tuttavia, anche pareri/determinazioni non arbitrali del CCT, lo sappiamo, sono semi-vincolanti, nel senso di obbligare le parti a conformarvisi, salvo, altrimenti, in negativo, il rischio di responsabilità erariale e/o contrattuale e, in positivo, l’impossibilità di godere di un’esenzione da responsabilità erariale.
Quindi, al di là della oggettiva confusione che sarebbe creata dalla ipotetica presenza di pareri non coerenti, non è chiaro perché la Stazione appaltante dovrebbe decidere di seguire la proposta di accordo bonario, in alternativa alla (difforme) deliberazione del CCT. Tra un parere semi-vincolante, quello del CCT, e una proposta in alcun modo vincolante, quella di accordo bonario, la prevalenza dovrebbe sempre spettare, anche in una logica strettamente ordinamentale, al primo.
Insomma, i due sistemi di ADR dovrebbero ritenersi sempre (ossia anche ove il CCT non abbia veste arbitrale) alternativi, per intuibili ragioni di economia procedimentale e coerenza generale del sistema delle ADR negli appalti pubblici.
8. Il “nuovo” Allegato V.2.
Il Correttivo ha poi proceduto ad una sostituzione integrale dell’Allegato V.2.
Al di là di quanto già riferito, tuttavia, le modifiche rispetto al precedente complesso normativo (Allegato V.2 più Linee Guida del Consiglio superiore dei lavori pubblici approvate con decreto del Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili del 17 gennaio 2022) non sono particolarmente significative: in buona sostanza, sono state incorporate nell’Allegato, con alcuni adattamenti, alcune delle previsioni delle Linee Guida 2022, oltre che le disposizioni relative ai tetti sui compensi disciplinate dall’articolo 6, comma 7-bis, del decreto-legge n. 76 del 2020. Ciò al condivisibile fine di mettere a disposizione degli operatori un unico testo normativo, finalmente di rango legislativo ordinario e quindi di indubbia adeguatezza nel sistema delle fonti.
Peraltro, il rilievo delle Linee Guida 2022 non è, ad oggi, certo venuto completamente meno.
Difatti, l’art. 1, co. 6, dell’Allegato V.2 continua a rinviare a queste ultime per la determinazione del compenso, nelle more dell’approvazione di un apposito decreto ministeriale contenente nuove linee guida. Con il che la disciplina di dettaglio del CCT appare ancora parzialmente incerta e comunque divisa tra più fonti, visto che, almeno per “la parte relativa alla determinazione dei compensi” continuano, dichiaratamente, a trovare applicazione sia l’art. 1 dell’Allegato V.2 che, in via residuale, le Linee Guida 2022.
D’altra parte, profili tutt’altro che marginali, quali ad es. i presupposti e le tempistiche del diritto al compenso, rimangono, ad oggi, esclusivamente disciplinati dalle Linee Guida 2022. Quest’ultime paiono quindi destinate a continuare a svolgere un ruolo che va, in realtà, al di là del profilo della mera determinazione dei compensi.
Invero, il nuovo complesso normativo non risolve alcuni profili interpretativi rilevanti, emergenti dalla stessa attività di consulenza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (“MIT”)
Ad esempio, il MIT ha recentemente chiarito che per la determinazione dei compensi si debba guardare alla base d’asta, non al valore del contratto dopo il ribasso d’asta[20]. Diverso avviso ha invece espresso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici[21]. Il che dà un’idea della incertezza su punti non secondari della materia.
In sostanza, se gran parte delle questioni interpretative hanno in concreto riguardato il problema dei compensi, proprio su di ciò si è omesso di fare chiarezza, rinviando a future linee guida.
9. La disciplina intertemporale.
La Relazione governativa ricorda che “per assicurare certezza nei rapporti giuridici, è stata colmata una lacuna in merito alla mancata definizione del regime transitorio applicabile, anche in ordine alle disposizioni dell’Allegato V.2”.
In effetti, se con l’entrata in vigore del Codice del 2023, l’art. 224, co. 1 prevedeva che le disposizioni di cui agli articoli da 215 a 219 si applicassero anche ai collegi già costituiti ed operanti, senza quindi richiamare espressamente anche l’Allegato V.2, a cui peraltro già rinviava e rinvia l’art. 215, co. 1, il regime transitorio, stabilito dal nuovo art. 225-bis, co. 3, menziona direttamente anche l’Allegato V.2.
Ma al di là di questo (probabilmente superfluo) chiarimento, le novità non sono finite.
Il nuovo regime transitorio è caratterizzato anche da un approccio meno impositivo: per gli i lavori, le novità del Correttivo in tema di CCT trovano subito applicazione (ossia anche ai CCT in corso, fin dal 31 dicembre 2024), “in assenza di una espressa volontà contraria delle parti”.
Dunque, in caso di silenzio delle parti prevale la nuova disciplina.
La mancanza di un termine entro cui eventualmente manifestare la scelta per la precedente normativa rende peraltro la previsione di incerta applicazione, atteso che non è stabilito da quando il silenzio possa dirsi “significativo”.
Sul punto si può ipotizzare che le parti abbiano l’onere di dichiarare la loro volontà contraria all’applicazione della nuova disciplina non oltre la prima riunione utile del CCT successiva al 31 dicembre 2024, ovvero anche prima, laddove, pur essendo già sorte ipotesi di intervento obbligatorio del CCT ai sensi del nuovo art. 216, co. 1, nondimeno non intendano sottoporre il quesito al CCT sulla base della non obbligatorietà dell’adempimento ai sensi della precedente normativa.
Venendo ad altri profili del regime transitorio di non immediata interpretazione, non è chiarito se per la permanenza della precedente disciplina sia richiesta la volontà di entrambe le parti, o basti la volontà espressa anche di una di esse.
L’uso del plurale (“le parti”) sembra alludere ad una volontà di tutte le parti, perché altrimenti il legislatore avrebbe usato il singolare.
Una tale lettura appare peraltro anche coerente con la funzione primariamente pubblicistica del CCT: quest’ultima mal si attaglia ad una facoltà delle parti di decisione in ordine all’applicazione di misure di razionalizzazione/rafforzamento dell’istituto e quindi induce, almeno, a neutralizzare la portata della volontà di una singola parte, magari semplicemente diretta a depotenziare un CCT in corso, impedendogli di svolgere appieno il suo ruolo pubblicistico di attuazione del principio del risultato.
Ed ancora, è da chiedersi se le parti siano da intendersi esclusivamente come le parti del contratto pubblico, o, al contrario, anche i membri del CCT (in quanto parti del relativo procedimento e rapporto contrattuale di ADR) possano, ove ritengano la nuova disciplina penalizzante (ad esempio sotto il profilo delle riduzioni dei compensi per gli appalti di valore elevatissimo[22] o della perdita della libertà di dimettersi), obiettare alla sua applicazione, e, se sì, con quali effetti.
In sostanza, più che al chiarimento sul regime transitorio promesso nella Relazione governativa, si assiste ad una disciplina potenzialmente foriera di nuovi dubbi[23].
10. Conclusioni.
Come si è tentato di mostrare, il Correttivo è sicuramente apprezzabile laddove cerca di chiarire alcuni punti incerti e, soprattutto, sviluppa coerentemente la funzione pubblicistica del CCT , imponendo dunque, laddove il CCT sia obbligatorio, che esso si pronunci su tutte le principali questioni che interessano l’esecuzione dell’appalto, e, quindi, in particolare, su tutte le controversie.
Ho avuto già avuto modo di notarlo: ha poco senso un sistema obbligatorio di prevenzione e risoluzione rapida del contenzioso preordinato (anche) all’interesse (pubblico) “alla scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell'opera a regola d'arte” (art. 215, co. 2), se poi le parti sono libere di non coinvolgere affatto il collegio[24].
Tuttavia, il Correttivo ha introdotto, nel nuovo art. 216, alcune apparenti distinzioni tra pareri e determinazioni non arbitrali prive di utilità sostanziale ed anzi foriere di incertezze e complicazioni operative.
Infelice è inoltre la introduzione (sempre nell’art. 216, co. 1) di una necessità di richiesta congiunta delle parti perché si possa avere una risposta di valore arbitrale sulle singole controversie già manifestatesi: sfugge il senso della prescrizione (si noti, rimasta intatta agli artt. 216, co. 4, 217, co. 1 e, infine, 3, co. 2 e 3, dell’Allegato V.2) per cui la opzione arbitrale deve essere espressa in sede di costituzione del collegio, se poi la stessa volontà deve essere confermata ogni qual volta sorga una controversia. Se la scelta arbitrale deve essere sempre “ribadita”, tanto varrebbe, anche per evitare condotte opportunistiche delle parti, dire con chiarezza che nessuna scelta per l’arbitrato (o meno) è assunta ab origine.
Insomma, nessun dubbio che debbono essere rispettati noti principi costituzionali di assoluta e sostanziale volontarietà del ricorso all’arbitrato e quindi di sua ammissibilità solo ove libera manifestazione in senso negativo del diritto di azione avanti ai giudici statuali, ma non si comprende quale sia il problema nel momento in cui si chiede alle parti di prendere posizione sulla via arbitrale (senza costrizioni nemmeno indirette) in sede di costituzione del collegio, in relazione a tutte le future controversie esecutive. Se una simile soluzione fosse davvero in contrasto con lo statuto costituzionale dell’arbitrato, allora, per assurdo, lo sarebbe ogni clausola arbitrale (come contrapposta al compromesso in arbitri).
Sempre l’art. 216 contiene un coordinamento tra CCT e accordo bonario, che pare ammetterne la coesistenza in caso di determinazioni non arbitrali: è da dubitarsi della razionalità di una tale soluzione, visto che, al di là delle incertezze ed imbarazzi che possono nascere da una molteplicità (e difformità) di pareri, anche le determinazioni non arbitrali sono (e rimangono) semi-vincolanti, sicché il sistema rischia di avviarsi verso torsioni logico-giuridiche, della cui desiderabilità è lecito dubitare.
[1] Sul tema, in generale, A. Aniello, Il collegio consultivo tecnico come arbitrato obbligatorio? Spunti di riflessione, in Riv. Arb., 2022, 517 ss.; F. Auletta, Sulle conseguenze possibili e le implicazioni non necessarie dell’opzione in favore della « natura del lodo contrattuale » per le determinazioni del Collegio consultivo tecnico, in Riv. Arb, 2022, 485 ss.; P. Carbone, L’inopinata “resurrezione” del collegio consultivo tecnico, in Riv. Trim. App., 2019, 1135 ss.; P. Carbone, La disciplina del collegio consultivo tecnico dopo il decreto del Mims 17 gennaio 2022 n. 12, Santarcangelo di Romagna, 2022; L. Caruccio, Collegio consultivo tecnico, in Commentario al Codice dei contratti pubblici, a cura di R. Villata e M. Ramajoli, Pisa, 2024, 1002 ss.; A. Cianflone - G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, Milano 2021, 2686 ss.; F. Francario, La natura giuridica delle determinazioni del collegio consultivo tecnico, in L’amministrativista, 2021; F. Francario, Il Collegio consultivo tecnico. Misura di semplificazione e di efficienza o inutile aggravamento amministrativo?, in Giustizia insieme, 2022; F. Francario, “To be or not to be”. Il collegio consultivo tecnico. Misura di semplificazione e di efficienza o inutile aggravamento amministrativo?, in L’amministrativista, 2022; F. Francario, Il Collegio consultivo tecnico, organismo atipico di mediazione e di conciliazione in ambito pubblicistico, in Giustizia insieme, 2023; M. Frontoni, Il collegio consultivo tecnico. Commento alle Linee Guida allegate al decreto M.i.m.s. 17 gennaio 2022, n. 12, Santarcangelo di Romagna, 2022;F. Goisis, Il collegio consultivo tecnico come strumento di conciliazione ed arbitrato nell’interesse della celere e esatta esecuzione del contratto, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2024, 47 ss.; F. Goisis, Il collegio consultivo tecnico nella sua veste arbitrale: profili sostanziali e di tutela giurisdizionale, in Giustizia insieme, 2024; F. Goisis, Il collegio consultivo tecnico come forma di arbitrato volontario, in Riv. Arb. 2024, 559 ss.; I. Lombardini, Spunti ricostruttivi sulla disciplina del Collegio Consultivo Tecnico nel nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023), in Riv. Arb, 2023, 991 ss.; I. Lombardini, Riflessioni sul nuovo Collegio Consultivo Tecnico negli appalti pubblici, in questa Rivista, 2020, 843 ss.; I. Lombardini, Il difficile presente dell’arbitrato nei contratti pubblici e l’introduzione di altri nuovi rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale: il collegio consultivo tecnico (ex art. 1, commi 11-14 del d.l. 18 aprile 2019, n. 32 coordinato con la legge di conversione 14 giugno 2019, n. 55), in Riv. Arb, 2019 84 ss.; M. Macchia, Alla ricerca di esperti... Rimedi alternativi ed esecuzione dell’appalto, in Giorn. dir. amm., 2024, 19 ss.; A. Maltoni, I collegi consultivi tecnici, in Liber amicorum per Guido Greco, a cura di F.G Scoca, M.P. Chiti e D.U. Galetta, Torino, 2024, 499 ss.; P. Otranto, Dalla funzione amministrativa giustiziale alle ADR di diritto pubblico. L’esperienza dei dispute boards e del collegio consultivo tecnico, Napoli, 2023; C. Volpe, Il Collegio consultivo tecnico. Un istituto ancora dagli incerti confini, in giustizia-amministrativa.it, 2020.
[2] Senato della Repubblica, Parere della 8ª Commissione permanente del 17 dicembre 2024, in cui si osserva che : “h) con riferimento all'articolo 39 dello schema in esame, considerato che gli appalti dei settori speciali si caratterizzano per un minore livello di contenzioso ed una notevole numerosità di appalti, sarebbe importante considerare queste caratteristiche al fine di rendere il meccanismo gestibile e applicato agli appalti maggiormente rilevanti, rivedendo l'estensione anche ai settori speciali della disciplina del collegio consultivo tecnico, rendendo l'applicazione dell'istituto facoltativa, alla luce della notevole complessità applicativa e operativa che tale applicazione comporta e della necessità di garantire tempistiche di mercato coerenti con la piena apertura concorrenziale dei settori in cui molte imprese pubbliche operano, o, in subordine al comma 1, lettera a), del suddetto articolo 39, dopo le parole: "gli articoli da 215 a 219." aggiungere le seguenti: "Per le imprese pubbliche e gli enti titolari di diritti speciali ed esclusivi le soglie per l'applicazione della disciplina del collegio consultivo tecnico sono fissate in 25 milioni di euro per i contratti di appalto di lavori e in 15 milioni di euro per i contratti di appalto di forniture e servizi." e Camera dei Deputati, Parere della VII Commissione del 17 dicembre 2024, in cui si osserva: “gg) all'articolo 39, comma 1, lettera a), dello schema di decreto, valuti il Governo la possibilità di sopprimere il n. 3), che inserisce la lettera i-bis) all'articolo 141, comma 3, del codice, allo scopo di escludere le aziende operanti nei settori speciali dall'obbligo di istituire il collegio consultivo Tecnico (CCT)”.
[3] Parere 4 agosto 2023, n. 6962, che aveva tra l’altro valorizzato il “tenore letterale della previsione di cui all’art. 215, comma l, del nuovo codice che si riferisce generalmente ai contratti, comprendendo, pertanto, ogni negozio che sia stato stipulato da una stazione appaltante o da un ente concedente (art. 2, comma l, lettera a), dell’Allegato 1.1. al Codice)”.
[4] Inserimento espressamente suggerito sia Senato della Repubblica, Parere della 8ª Commissione permanente del 17 dicembre 2024: “79) all'articolo 2, comma 3, dell'Allegato V.2 - Modalità di costituzione del Collegio consultivo tecnico, come sostituito dall'articolo 84 dello schema in esame, valuti il Governo di inserire dopo le parole: "membri del collegio" la seguente: "esclusivamente" che dalla Camera dei Deputati, Parere della VII Commissione del 17 dicembre 2024 :“xx) all'articolo 84 dello schema di decreto, che sostituisce l'Allegato V.2, recante modalità di costituzione del Collegio Consultivo Tecnico (CCT), valuti il Governo l'opportunità di inserire, all'articolo 2, comma 3, di tale allegato, dopo le parole: «membri del collegio» la parola: «esclusivamente»”.
[5] Tra le tante, CCa., Sez. II, 13 febbraio 2002, n. 8472; CCa, Sez. II, 25 giugno 2005, n. 13701; CCa., Sez. I, 17 novembre 2022, n.33900.
[6] ANCE, Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al Codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 (Atto n. 226), Audizione presso le Commissioni Ambiente Camera e Senato, 25: “Non condivisibile è invece la modifica che estende a tutti i componenti del collegio, e non solo al presidente, la causa di incompatibilità relativa “all’aver svolto, con riguardo ai lavori o servizi oggetto dell’affidamento, attività di collaborazione nel campo giuridico, amministrativo o economico” per una delle parti. Anche in ragione della non esatta definizione dell’ambito di operatività della previsione, si corre il rischio di escludere da qualunque incarico di parte i professionisti che abbiano già in corso un rapporto di fiducia professionale con l’impresa ed abbiano, pertanto, maturato, rispetto a specifici appalti, una forma di esperienza. Sarebbe quindi opportuno confermare la normativa vigente, circoscrivendo tale causa di incompatibilità al solo presidente del Collegio, che assolutamente deve essere figura terza e imparziale”.
[7] Senato della Repubblica, Parere della 8ª Commissione permanente del 17 dicembre 2024, in cui si propone la seguente osservazione: “80) all'articolo 2, comma 3, dell'Allegato V.2 - Modalità di costituzione del Collegio consultivo tecnico, come sostituito dall'articolo 84 dello schema in esame, valuti il Governo di inserire all'inizio della lettera c) le seguenti parole: "con riferimento al presidente del collegio".
[8] Tra gli altri, C. Consolo, La ricusazione dell’arbitro, in Riv. arb. 1998, 17 ss. e L. Salvaneschi, Sull'imparzialità dell'arbitro, in Riv. Dir. Proc., 2004, 428 ss..
[9] CCa,, Sez. I, 11 febbraio 2015, n. 2664.
[10] T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 11 novembre 2024, n.1582.
[11] Sul tema sia consentito il rinvio a F. Goisis, Il collegio consultivo tecnico nella sua veste arbitrale, cit.
[12] Senato della Repubblica, Parere della 8ª Commissione permanente del 17 dicembre 2024, in cui si propone la seguente osservazione:: “81) all'articolo 5, comma 1, dell'Allegato V.2 - Modalità di costituzione del Collegio consultivo tecnico, come sostituito dall'articolo 84 dello schema in esame, valuti il Governo di sostituire il primo periodo con il seguente: "Ogni componente del Collegio Consultivo Tecnico non può ricoprire più di dieci incarichi contemporaneamente e, comunque, non può svolgere più di venti incarichi ogni due anni", in quanto la limitazione a cinque del numero massimo di incarichi che è possibile assumere contemporaneamente rende estremamente difficile l'individuazione e la designazione dei membri che devono possedere particolari competenze nella materia”.
[13] Sul tema, vedi la Delibera ANAC 8 maggio 2024 n. 231, che sembra ritenere sciolto il CCT con la risoluzione per grave inadempimento, salva la possibilità di revoca in autotutela delle delibera di risoluzione, con conseguente operatività del CCT.
In senso coerente Delibera ANAC, 7 luglio 2021, n. 532: “Devono ritenersi insussistenti i presupposti per il ricorso al Collegio Consultivo Tecnico di cui agli artt. 5 e 6 del d.l. 76/2020, conv. in l.n. 120/2020, nel caso in cui il contratto d’appalto sia riferito ad un’opera ultimata, consegnata e già in esercizio, ancorché in attesa della conclusione del collaudo, nonché nel caso in cui sia in corso la risoluzione del contratto d’appalto per impossibilità sopravvenuta, con conseguente non realizzabilità dell’opera”
[14] Sul tema, M. Frontoni, op. cit., 90, ove, nel trattare nella identica previsione di cui al par. 4.1.3 delle Linee Guida 2022, osserva che: “La sanzione colpisce, dunque, le sole determinazioni, per cui dovrebbe ritenersi che eventuali “pareri” emessi in assenza di quesito delle parti rientrino, invece, nei poteri del CCT”.
[15] Parere 01463/2024, reso nell’Adunanza della Commissione speciale del 27 novembre 2024 e pubblicato il 2 dicembre 2024.
[16] Sul tema, rimando, se si vuole, a F. Goisis, Il collegio consultivo tecnico come forma, cit.
[17] Per tutte, A. Aniello, op. cit.
[18] In questo senso anche L. Caruccio, Collegio, cit., 1008.
[19] “L'inosservanza delle determinazioni del collegio consultivo tecnico viene valutata ai fini della responsabilità del soggetto agente per danno erariale e costituisce, salvo prova contraria, grave inadempimento degli obblighi contrattuali; l'osservanza delle determinazioni del collegio consultivo tecnico è causa di esclusione della responsabilità del soggetto agente per danno erariale, salvo il dolo”.
[20] Parere 6 dicembre 2024, n. 43081: “per il valore dell’appalto si intende l’importo a base di gara ed i costi della sicurezza. Tuttavia, ove vengano esercitate le opzioni, vanno considerati gli incrementi ai fini del compenso dei componenti CCT”.
[21] Parere 7 giugno 2024, n. 30: “l'importo da prendere a base di calcolo per la determinazione dei compensi del collegio consultivo tecnico è quello risultante dal contratto, che deve essere aggiornato, come previsto al punto 7.2.2. delle sopra citate linee guida, in caso di varianti contrattuali”.
[22] L’art. 1, co. 4, dell’Allegato V.2 prevede difatti dei nuovi limiti percentuali per gli appalti di massimo valore, ossia superiori a 1 miliardo di euro: “a) in caso di collegio consultivo tecnico composto da tre componenti, l'importo pari allo 0,02 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 1000 milioni di euro; b) in caso di collegio consultivo tecnico composto da cinque componenti, l'importo pari allo 0,03 per cento per la parte del valore dell'appalto eccedente 1000 milioni di euro”.
[23] Critico, sul punto, E. A. Apicella, Il Collegio Consultivo Tecnico (CCT) dopo il correttivo al Codice Appalti, in www.lavoripubblici.it/
[24] F. Goisis, Il collegio consultivo tecnico nella sua veste arbitrale, cit.
Un giudice onorario professionale comune agli stati membri: un’utopia possibile
Sommario: 1. Introduzione - 2. Premessa - Obiettivi della Rete Europea delle Associazioni dei Giudici Laici. 3. Proposta per un progetto di valorizzazione del ruolo della magistratura laica e onoraria e per la sua implementazione. - 4. Principi costituzionali e ordinamentali: 4.1. Fonti Costituzionali – 4.2. Regio Decreto n° 12 del 30.1 1941(Ordinamento Giudiziario) – 5. Stato di diritto – 6. Carichi di ruolo - 7. Spending review – 8. Storia e vicende del giudice laico e onorario negli Stati Membri.Cenni – 9. Armonizzazione dei sistemi giudiziari tra gli obiettivi della C.E. – 10. European Small Claims Procedure (ESCP) e Provvedimento Europeo di Ingiunzione – 11. Direttive in materia di ADR e ODR – 12. Regolamento UE (CE) n. 261/2004 – 13. Regolamento (UE) 2016/679 – 14. Un giudice professionale onorario comune agli stati membri (a professional honorary Judges) – 15. Conclusioni.
1. Introduzione[1].
Dalla sottoscrizione della Carta Europea del Giudice Laico[2] in Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, in cui si trovarono impegnate e coinvolte circa 20 associazioni europee, è stato costante anche lo sforzo successivo, almeno di una parte delle associazioni che l’hanno sottoscritta, per elaborare un percorso comune volto alla valorizzazione della magistratura laica e onoraria nei sistemi giudiziari. Il percorso non è apparso agevole a causa della sua eterogeneità e del suo impiego, spesso condizionato dalle vicende politiche dei singoli Stati Membri e dalla considerazione, non sempre favorevole, dei Governi e di una parte della magistratura di carriera.
In questo quadro complesso, si inserisce soprattutto la spinosa vicenda della magistratura onoraria italiana che, dopo la Riforma Cartabia resta ancora in attesa di un inquadramento giuridico concreto e di un trattamento economico e previdenziale definitivo.
2. Premessa - Obiettivi della Rete Europea delle Associazioni dei Giudici Laici (ENALJ)
Tra gli obiettivi previsti dallo Statuto di ENALJ (art. 3) [3] vi è quello di implementare la partecipazione dei giudici laici e onorari nel sistema giustizia e in definitiva, dei cittadini all’amministrazione della giustizia. Ciò appare in sintonia con le indicazioni e gli obiettivi espressi anche più recentemente, dalla stessa C.E (si richiama Reg U.E 2023/2836 C.E del 12.12.23) che si prefigge la promozione del coinvolgimento effettivo dei cittadini e delle organizzazioni della società civile ai processi di elaborazione delle politiche pubbliche. La partecipazione della società civile si esplica, in generale, raccogliendone opinioni e dati nelle varie fasi del processo di elaborazione delle politiche, specie quando le norme e le decisioni adottate abbiano un impatto su di esse, riservando alla stessa spazi e prerogative anche di intervento.
L’ENALJ si prefigge altresì di adottare forme di coinvolgimento e di attrazione verso la magistratura onoraria non solo attraverso la formazione, la partecipazione attiva a eventi scientifici e culturali ma anche analizzando percorsi propositivi da sottoporre alla stessa C.E, non escluse forme di tutela e di sicurezza sociale per i giudici non di carriera.
Il costante contatto con le associazioni degli altri Stati Membri ha evidenziato la diversa collocazione e impiego dei giudici laici e onorari e le diverse professionalità, sia quando operano a supporto della magistratura professionale per rendere più eque e trasparenti le decisioni (perché portano la loro esperienza dal mondo del lavoro e delle professioni e sono i giudici laici), sia quando collaborano con i magistrati di carriera e compongono le “giurie”, sia quando gestiscono ruoli autonomi come i magistrati onorari italiani. Ne è scaturito un proficuo confronto ed è stata esaminata la possibilità di valorizzarne il ruolo nel panorama giudiziario europeo in particolar modo attraverso la formazione, anche con il supporto di docenti universitari [4]. In questo percorso, notevole impatto assume l’esperienza italiana e il costante impiego richiesto di giudici onorari per sopperire alle carenze di magistrati professionali, con riduzione dei carichi di ruoli a essi assegnati o dando supporto nell’attività amministrativa e giurisdizionale (ufficio del processo) o comunque, destinando i magistrati onorari a controversie di minore complessità (giudici di pace)
L’inesauribile e fondamentale ruolo svolto dai magistrati non di carriera ha stimolato la Rete Europa in cooperazione con l’Università di Pozan, a percorrere la strada di un possibile confronto, di carattere interdisciplinare, anche tra accademici dei diversi paesi membri -da indicarsi dalle associazioni di categoria -su eventuali proposte da sottoporre alla Commissione Europea per un progetto di valorizzazione e implementazione del giudice onorario (da sostituirsi alla nomenclatura giudice laico tenuto conto delle diverse professionalità ormai impiegate nei sistemi giudiziari).
3. Proposta per un progetto di valorizzazione del ruolo della magistratura laica e onoraria e per la sua implementazione.
L’Italia per prima, si è fatta carico di elaborare una “bozza” di proposta per valorizzare il ruolo della magistratura onoraria e per la sua implementazione nel panorama giudiziario europeo. Su questo argomento tuttavia, è necessaria una breve premessa.
Non esiste a livello europeo una consapevolezza comune e condivisa del ruolo dei giudici laici e onorari e il loro impiego nei vari sistemi giudiziari può dipendere da vari fattori tra cui: 1) principi costituzionali e ordinamentali, 2) stato di diritto, 3) carichi di ruolo, 4) spending review, 5) storia e vicende dei giudici onorari negli stati membri
4. Principi costituzionali e ordinamentali
Non tutte le Costituzioni Europee e gli ordinamenti giuridici prevedono la figura del giudice laico e onorario.
Sul punto si richiamano per lo Stato italiano:
4.1. Fonti Costituzionali
Art.102 Costituzione: comma3°. La predetta disposizione dopo aver previsto che la giustizia sia esercitata da magistrati ordinari, stabilisce che la legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia oltre che la collaborazione di magistrati laici con i giudici togati nelle sezioni specializzate.
art.106 comma 2°: le nomine di magistrati avvengono per concorso ma la legge sull'Ordinamento Giudiziario può ammettere la nomina anche elettiva di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.
4.2. Regio Decreto n° 12 del 30.1 1941(Ordinamento Giudiziario). L’art.1 lettera a) indica i Giudici di Pace tra i giudici che amministrano la Giustizia in materia civile e penale[5].
5. Stato di diritto
È una forma di Stato di matrice liberale in cui tra i principi cardine troviamo la tutela giurisdizionale effettiva, l’indipendenza e l’autonomia della magistratura e trasparenza dell’attività della Pubblica Amministrazione. Come già evidenziato, non tutti gli Stati membri considerano la partecipazione dei cittadini all’amministrazione della giustizia come ulteriore strumento per implementare i valori della democrazia partecipata e dei diritti fondamentali. Il richiamo all’Ungheria, accusata peraltro, di carenze nel sistema giudiziario, ci evidenzia che la partecipazione dei giudici onorari si è notevolmente ridotta venendo essi impiegati solo in alcuni settori (da quanto si apprende, nei Tribunali minorili e Militari).
Tuttavia, anche in altri paesi abbiamo assistito a una drastica riduzione della magistratura onoraria. Il parlamento francese in particolare, nel 2017, ha soppresso la figura del giudice di prossimità ma ha conservato la possibilità di ricorrere a questi giudici non professionali che diventeranno magistrati su base temporanea.
6. Carichi di ruolo
La costante implementazione della domanda di giustizia soprattutto in Italia sovraccaricando i Tribunali (le ex Preture), venne evidenziata già dall’Assemblea Costituente[6].Si palesò da una parte, la necessità di utilizzare la magistratura onoraria come strumento per ridurre i carichi delle Preture e conseguentemente quelli dei giudici professionali, riducendone anche il numero e i costi (Mortara) mentre da altra parte, se ne auspicava l’abolizione evidenziandone le criticità (Leone, che esprimeva dubbi sulla loro imparzialità essendo avvocati).
7. Spending review
L’esigenza di ridurre i costi dell’apparato giudiziario soprattutto in Italia, è rimasta costante nel tempo anche sostenuta da politiche di riduzione del contenzioso con interventi sul rito e sulla geografia giudiziaria e implementando le ADR ed è andata via via crescendo negli anni. Ne consegue che la magistratura onoraria resta ancora lo strumento per ridurre i carichi di ruolo dei giudici professionali e i rispettivi costi.
8. Storia e vicende del giudice laico e onorario negli Stati Membri. Cenni.
Non tutti gli Stati membri hanno la medesima e importante tradizione storica sul giudice laico e onorario e soprattutto sul giudice di pace. Il giudice di pace, in particolare, trae la sua origine nei paesi del common law, in Inghilterra soprattutto, dove risale al 1361 e si diffuse negli altri paesi successivamente[7].
La sua adozione in Francia risale al 1790 dove venne soppresso nel 1958.
In Italia vanta una lunga tradizione: il quadro normativo di riferimento principale si rinviene nella legge istitutiva del giudice di pace del 21.11.1991 n°374[8].
Si richiama inoltre, per concretezza e come esempio, la particolare funzione che svolgono i giudici laici di Austria, Belgio e Germania nelle materie commerciali presso i tribunali commerciali, che vantano una lunga tradizione storica in tale funzione tanto che la loro associazione, UEMC (Union Européeenne Des Magistrats statuant en matiére Commerciale) fino dal 1989, fa parte delle associazioni non governative del Consiglio d’Europa. In Germania in particolare, oltre le molteplici competenze di supporto alla magistratura di carriera anche nel settore penale, nelle giurie in cui i giudici onorari hanno un voto autonomo, viene riconosciuto il ruolo insostituibile che potrebbero svolgere i giudici laici e onorari nelle materie commerciali internazionali. Si tratta di controversie che sono soggette a procedure spedite ma particolari, da trattarsi davanti alle camere commerciali internazionali che stentano però a decollare. In proposito, la Germania ha presentato uno specifico progetto di legge rimasto praticamente sulla carta per i rari casi trattati. In tale campo, la funzione dei giudici onorari si evidenzia fondamentale poiché interagiscono con i giudici professionali, la loro presenza allontana il sospetto dell’affare “chiuso” e non approcciabile perché gestito dalle lobby del Business.
Va evidenziata infine, la peculiarità delle vicende che attengono alla situazione italiana. Sulla condizione dei giudice onorario si è pronunciata la Corte di Giustizia con le sentenze del 16 luglio 2020, U.X. contro Governo della Repubblica italiana (C‑658/18, EU: C: 2020 : 572) e del 7.4.2022 (C-236-20) e in ultimo, con quella del 27.6.24, ha stabilito che per il diritto UE, i magistrati elettivi previsti dall’Ordinamento Italiano sono una giurisdizione nazionale e quindi sono giudici comuni europei anche ai fini del rinvio pregiudiziale e lavoratori a tempo determinato[9].
In precedenza si era anche pronunciato il Comitato Europeo dei Diritti Sociali, su reclamo n. 103/2013 presentato dall’Associazione Nazionale Giudici di Pace, con decisione del 16.11.16.
Non può sottacersi che il riconoscimento della funzione dei giudici onorari italiani e in particolare del giudice di pace come giudice comune europeo, risulta affatto nuova nel panorama europeo e riscontra a oggi, una concreta e tangibile ostilità di una parte della magistratura di carriera che non vede di buon occhio una riqualificazione delle funzioni “comparabili” a quelle di un magistrato di carriera e dello status del giudice onorario, alla luce delle sentenze del giudice europeo e nonostante pendano procedure di infrazione a oggi non ancora definite.
9. Armonizzazione dei sistemi giudiziari tra gli obiettivi della C.E
L'Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri (art. 67 TFUE) I sistemi giudiziari europei sono eterogenei e hanno caratteristiche strutturali e funzionali diverse. Tuttavia, come già evidenziato, l’armonizzazione dei sistemi, ossia il processo di progressivo ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri che consente di eliminare ogni ostacolo tecnico, amministrativo o normativo alle relazioni dell'Unione, costituisce un obiettivo della C.E per ottenere decisioni uniformi che garantiscano un migliore accesso alla giustizia e un maggiore efficientamento, per favorire la libera circolazione.
Non appare azzardato sostenere una proposta innovativa su cui lavorare che potrebbe avere a oggetto la istituzione del giudice onorario (professionale) europeo (ovvero del giudice di pace europeo) con attribuzione di specifiche competenze per valore limitato, in materie caratterizzate da minore complessità come quelle a cui si farà brevemente cenno infra, per dare un concreto apporto allo snellimento dei processi e al sistema giustizia ancora in affanno in gran parte dell’Europea, concorrendo alla concreta e complessiva realizzazione dello spazio di giustizia mediante una più elevata protezione del cittadino consumatore.
10. European Small Claims Procedure (ESCP) e Provvedimento Europeo di Ingiunzione
Nell’ottica di armonizzazione dei sistemi come obiettivo fondamentale e primario soprattutto per rafforzare la fiducia nei mercati e come detto, rafforzare la tutela del cittadino consumatore, la UE ha adottato diverse risoluzioni normative sia in materia stragiudiziale che giudiziale. Sono stati elaborati altresì, Il Regolamento CEE 861 /07 del parlamento Europeo e del Consiglio dell’11.7.07, come modificato dal Regolamento n° 2421/15, che istituisce un procedimento europeo per le controversie di modesta entità, definito European Small Claims Procedure (ESCP) inteso a semplificare e accelerare i procedimenti nei contenziosi relativi a controversie transfrontaliere nonché il Regolamento (CE) n. 1896/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, che istituisce un Procedimento Europeo d'Ingiunzione di Pagamento.
La procedura semplificata ESCP e scritta su moduli standardizzati, è prevista per le controversie di modesta entità (fino a euro 5.000), in materia civile e commerciale, quando coinvolgono cittadini, consumatori e piccole e medie imprese di differenti Stati membri dell'Unione Europea. In genere, si tratta di controversie su contratti di vendita on line di beni e servizi. Si può consultare il portale europeo della giustizia per maggiori informazioni. Il procedimento consente di ottenere una decisione applicabile a tutta l’UE.
È opportuno quindi che i consumatori traggano vantaggio dall'accesso a mezzi facili, efficaci, rapidi e a basso costo per risolvere le controversie transfrontaliere
Si è più volte evidenziato che, in particolare, la maggiore difficoltà per la diffusione delle ESCP deriva sostanzialmente, dalla non univocità dei sistemi giudiziari e una totale armonizzazione tra sistemi sarebbe impossibile. In Italia, per esempio tali controversie rientrano nella competenza per valore del giudice onorario di pace e si potrebbe auspicare che anche negli altri ordinamenti se ne occupi un giudice comune per tutti, anche non di carriera (definito anche “professionale” ovvero “togato” come in Italia)
11. Direttive in materia di ADR e ODR
Possono essere citate come ulteriore esempio. Queste dettano disposizioni comuni per la risoluzione delle controversie dei consumatori e sui requisiti che devono possedere i relativi organismi[10]. Il Regolamento Europeo sulle Online Dispute Resolution (ODR) - regolamento (UE) N. 524/2013 del Parlamento Europeo del 21 maggio 2013 con la relativa piattaforma ODR - riguarda in particolare, le procedure destinate a risolvere extragiudizialmente le controversie tra imprese e consumatori originate dai contratti di beni e servizi stipulati on line.
12. Regolamento UE (CE) n. 261/2004
È un insieme di norme che tutela i diritti dei passeggeri in casi di cancellazioni, ritardi e overbooking dei voli. Questo regolamento garantisce che i passeggeri abbiano diritto a un compenso /indennizzo[11].
13. Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali nonché alla libera circolazione di tali dati, noto come GDPR.
I predetti regolamenti sono stati emanati nell'ambito del programma di cooperazione giudiziaria in materia civile e commerciale, ai sensi dell'art. 65 Trattato UE su funzionamento dell’UE.
Lo scopo della cooperazione giudiziaria, nell’ambito dello spazio di giustizia europeo, è di consentire ai cittadini di esercitare liberamente i diritti eliminando o comunque riducendone i limiti.
Nell’ottica di armonizzazione dei sistemi rientra la possibilità di garantire una stretta collaborazione tra le autorità per eliminare tutti gli ostacoli derivanti dalle incompatibilità tra i diversi sistemi giudiziari e amministrativi e assicurare esecutività delle decisioni.
Tali misure riguardano in particolare, il corretto svolgimento dei procedimenti civili, se necessario, promuovendo la compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri pure conservando i sistemi le diverse peculiarità, per favorire un approccio fiduciario e migliorare l’accesso alla giustizia come parte della politica unionale.
Ne deriva che la proposta di un giudice onorario professionale comune europeo potrebbe essere valutata con favore per lo snellimento dei procedimenti e accrescere il senso di fiducia dei cittadini europei nella libera circolazione, nel mercato e negli investimenti agevolandone il ricorso a una tutela giurisdizionale effettiva.
14. Un giudice professionale onorario comune agli stati membri (A professional honorary Judges)
Nell’ottica di armonizzazione dei sistemi, un modello potrebbe essere individuato, in particolare, in un giudice onorario di pace europeo come strumento ulteriore per la realizzazione delle finalità sottese alle procedure semplificate e contribuire così al raggiungimento di un obiettivo fondamentale dell’UE Si può auspicare che l’ attività di cooperazione tra i giudici onorari europei, con scambio di dati ed esperienze, possa costituire anche un fondamentale strumento di diffusione delle ESCP[12] (l’esperienza insegna che il Decreto Ingiuntivo Europeo abbia avuto maggiore diffusione ma ancora resta di scarsa praticabilità).
Deve infatti, tenersi in debito conto il ruolo e l’importanza delle funzioni svolte dalla magistratura onoraria soprattutto in alcuni paesi.
Nulla osta, anche dopo le decisioni del giudice europeo, che quando svolge attività giurisdizionale, il giudice onorario, sia ormai da considerare giudice comune europeo, tenuto conto altresì, che molti giudici, non di carriera, sono esperti in diritto e in settori specializzati anche quando collaborano con i magistrati di carriera.
I giudici onorari ricevono comunque, tutti una formazione costante anche attraverso le singole associazioni come è emerso dal confronto ultra decennale con le altre magistrature.
Inoltre, grazie all’intensa attività svolta dalla Rete Europea in collaborazione con le Università che offrono anche una formazione sul diritto unionale e ne supportano ulteriormente la formazione[13], hanno, in gran parte perso, la laicità che li aveva contraddistinti nel corso degli anni.
Possono pertanto essere definiti con una nuova nomenclatura professional honorary Judges per distinguerli solo dai magistrati di carriera.
Lo strumento normativo per realizzare tale modello potrebbero essere le fonti derivate vincolanti (direttive e regolamenti) nel perseguimento degli obiettivi stabiliti dell’art.81 del Trattato sul Funzionamento dell’UE, il quale così recita al punto 1: L'Unione sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali. Tale cooperazione può includere l'adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.
A norma degli artt. 47 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali che prevede il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale e dell’art.6 par 1 della CEDU che prevede il diritto a un equo processo davanti a un giudice imparziale in tempi ragionevoli, non osta che una causa di minore entità sia esaminata da un giudice onorario (di pace) comune europeo che abbia ricevuto una formazione professionale, specifica sulle materie da trattare e che abbia acquisito esperienza, capacità e competenza.
Pertanto, una eventuale proposta da sottoporre alla C.E a cui spetta il compito di elaborare nuove proposte normative da presentare al Consiglio e al Parlamento Europeo, ben potrebbe essere vagliata, esaminata, elaborata e discussa da una commissione scientifica multidisciplinare, a partire da una analisi del giudice onorario (laico) relativamente alla sua storia, collocazione ruolo, status, condizioni e funzioni nei sistemi giudiziari europei attraverso una ricerca comparativa di carattere storico, sociale, filosofico e giuridico. Per il momento un simile progetto non trova riscontro anche per il disinteresse (ovvero riottosità) della magistratura di carriera (soprattutto in Italia) ma non appare una meta puramente teorica e irraggiungibile se si ha a cuore la realizzazione degli obiettivi dell’Unione garantendo una giustizia celere, economica ed efficace perché non resti insoddisfatta la domanda di giustizia del “cittadino europeo “.
15. Conclusioni
Sono note le difficoltà in cui versa la giustizia in Europa e le ormai cronache difficoltà in cui versa quella Italiana, in particolare, nonostante le riforme e i numerosi interventi sul rito e sulla geografia giudiziaria che non hanno migliorato la qualità della prestazione giudiziaria. Diventa pertanto, oltremodo difficile garantire un accesso al mercato interno tenuto conto dell’evolversi delle attività di scambio commerciale tra imprenditori europei ovvero tra imprenditori e consumatori (acquisti on line e sviluppo del turismo internazionale solo per fare un esempio) e non sono facilitati gli investimenti né la libera circolazione di beni e servizi, con danni anche alla economia.
Per garantire sicurezza e fiducia dei cittadini e delle imprese nella Giustizia è necessario che si prenda cura dei diritti di tutti senza discriminazioni, preclusioni e condizionamenti.
Su un sistema giudiziario efficiente e di facile accesso si fondano le democrazie europee e si innescano meccanismi positivi di crescita.
L’Unione Europea ha sollecitato più volte gli Stati Membri a migliorare i sistemi giudiziari nazionali al fine di semplificare gli investimenti.
Per una giustizia più rapida e che risponda ai propri fini, in una rinnovata sinergia tra magistratura di carriera, giudici onorari e Università, si evidenzia necessaria altresì una condivisione su una soluzione pratica come quella esaminata (tra le tante che hanno prodotto scarsi risultati) che renda realizzabile ciò che allo, stato, potrebbe apparire una utopia. Un riferimento ideale che si concretizzi in un rimedio effettivo e offra un approdo ulteriore alla giustizia in affanno; inoltre non può che accrescere il livello di fiducia nell’UE e nelle sue Istituzioni.
[1] Per gli argomenti trattati in questa breve relazione si rimanda anche: Report della vicepresidenza per la formazione e l’Educazione 2024, in Agenda dell’ Assemblea Annuale della Rete Europea delle Associazioni dei Giudici Laici e Onorari che si è svolta a LIPSIA il 10-13 Maggio 2024 ;Guida al Diritto il sole ventiquattrore “A Lipsia Assemblea Enalj verso il giudice onorario professionale, in Giustizia del 28 maggio 2024 ; The European Judge of Peace Proposal for the harmonization of judicial systems in civil matters, Small claims Procedure -call for competition Shuman Prize 2021 per il 70° anniversario della Dichiarazione di Shuman offerto dal CERN.
[2] Per un approfondimento si rimanda a “Il Giudice Onorario in Europa”, Diritto.it del 8.6.12 di M.Rosaria Porfilio. Dal 2010 al 2012, le attività di elaborazione della Carta e di inaugurazione della Giornata europea dei giudici onorari sono state sostenute finanziariamente dalla Commissione europea e organizzati dall'Accademia Europea di Berlino.
[3] Lo Statuto, sottoscritto da otto associazioni europee di giudici laici e onorari è stato presentato nell’Assemblea Generale tenutasi a Berlino l’11-13 Agosto 2012, in occasione della fondazione di ENALJ costituita sulla base delle previsioni contenute nella legge tedesca (Vereinsrecht) e relative alle associazioni no profit (art. 1 Statuto)
[4] Hanno dato il loro contributo il Prof. Piotr Jughacz, docente di filosofia dell’Università Adams Michiewicz di Poznan, direttore del centro Dikastai per la ricerca transdisciplinare sui giudici e sui Tribunali sociali e la Prof. Carolina Cern vicedirettore scientifico della facoltà di filosofia. La Prof Daniela Heid docente di diritto dei servizi pubblici e diritto UE, presso l’Università Federale Tedesca di Scienze Amministrative Applicate. Prof. Stefan Manchura della Ruhr-Universität Bochum (Germania). La prof. Maria Eugenia Bartoloni docente di Diritto U.E dell’Università Vanvitelli di Napoli capofila del Progetto Select - StrEnghten Lay and honorary judges European CompeTencies (vedi infra). Si richiama altresì la decisione del Consiglio dell’Unione Europea che l’8.3.21, ha pubblicato le “Conclusioni sul rafforzamento dell’applicazione della Carta dei Diritti Fondamentali” dell’UE (6795/21 JAI 233 FREMP 38). Al punto 23, il Consiglio nell’identificare come priorità l’individuazione di “ulteriori possibilità di miglioramento della competenza della magistratura e degli altri operatori della giustizia in merito alla Carta, attingendo a materiale formativo dedicato, compresi gli strumenti di e-learning, sottolinea inoltre l’importanza di interventi da parte degli Stati membri volti ad incoraggiare “le reti di giudici, di giudici onorari e laici e di altri operatori della giustizia a porre rinnovata enfasi sull’applicazione della Carta a livello nazionale”.
[5]Si richiamano in particolare, significativamente, l’art 1(dei giudici) comma prima sostituito dall’art. 1, D.P.R. 22.09.1988, n. 449, che è stato poi sostituito dall’art. 45, L. 21.11.1991, n. 374, con decorrenza dal 01.05.1995, ai sensi dell’art. 1, L. 04.12.1992, n. 477 e dell’art. 13, D.L. 07.10.1994, n. 571, come modificato dalla legge di conversione 06.12.1994, n. 673. Si richiamano ancora il DLGS 19 febbraio 1998 n°51 come modificato dalla L. 16 giugno 1998, n. 188.
[6] Lavori preparatori del 31.1.1947.
[7] In occasione della celebrazione dei 600 anni della istituzione del giudice di pace in Inghilterra e Galles, è stata sottoscritta dai delegati di circa 20 Stati membri la Carta Europea del Giudice Laico su progetto dell’Accademia Europea di Berlino, cofinanziato dalla C.E.
[8] In Italia il giudice di pace venne istituito nel solo regno di Napoli da Giuseppe Napoleone. Era nominato direttamente dall'imperatore e permane nei primi decenni dell'Unità d'Italia. Era eletto dal popolo tra gli elettori amministrativi che pagavano annualmente cento lire di imposta o ex sindaci e consiglieri provinciali in carica, ex membri della giunta amministrativa, ex ufficiali e impiegati civili.
Con il dispaccio Tanucci incorporato nella legge organica dell'Ordinamento Giudiziario delle due Sicilie, il 28.5.1917 venne introdotto il giudice conciliatore che sostituì il giudice di pace francese.
La figura del giudice conciliatore si diffuse su tutto lo Stato unitario ed era competente per le liti minori. Svolse una intensa attività in epoca preindustriale caratterizzata da una economia semplice prevalentemente agricola e rurale in condizioni di elevata litigiosità in materia di locazione di immobili di fondi, siepi e piante in cui il conciliatore era competente. Il Conciliatore svolse un'intensa attività tra la fine dell'800 e gli inizi del 900.
Con l'avvento dell'era industriale e capitalistica e la maggiore complessità delle risoluzioni necessarie per eliminare i conflitti, cominciò a essere richiesta una sempre maggiore competenza e conoscenza delle regole giuridiche affidata a magistrati semi professionali e preparati con conseguente ridimensione della figura del conciliatore fino alla sua totale abolizione con la legge 374/91 che istituiva la figura del giudice di pace e al dlgs 117/16 (cosiddetta riforma Orlando) che istituiva il ruolo unico della Magistratura Onoraria.
[9] La CGE si era già pronunciata sulla situazione previdenziale dei Recorders inglesi (sentenza del 1° marzo 2012 causa C-393/10)
[10] Direttiva n° e 231/11 e in particolare il reg n° 524/13 per le controversie on line
[11] In Europa e nel resto del mondo i diritti dei passeggeri aerei sono stati riconosciuti fin dal 1999, con l’istituzione della Convenzione di Montreal per l’unificazione di alcune regole per il trasporto aereo internazionale. Il Parlamento Europeo e la Commissione Europea hanno voluto garantire che i diritti dei passeggeri aerei in Europa venissero ulteriormente protetti e che i passeggeri avessero diritto al risarcimento completo.
[12] Tra le iniziative per una maggiore diffusione, si richiama il progetto SCAN Small Claims Analysis Net, cofinanziato dal programma Giustizia dell’UE 2014 2020 e realizzato in cooperazione tra 9 partener tra cui Università Federico II di Napoli capofila e la Luiss Guido Carli. La Piattaforma European Small Claims,è una web application capace di guidare il cittadino, step by step, per utilizzare in modo semplice e veloce e a costi ridotti il procedimento europeo. Per maggiori informazioni si rimanda: https://www.scanproject.eu/small-claims-platform.../. https://www.scanproject.eu/ Small claims Procedure, l’Esperienza Italiana, Webinar 7 maggio 2020. Appunti di Margherita Morelli
[13] Progetto di Formazione Select - StrEnghten Lay and honorary judges European CompeTencies Sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE.Il Progetto è stato coofinanziato dalla Unione Europea CE nel programma nell’ambito del programma Justice 2014-2020. Capofila del Progetto l’Universtà Vanvitelli. È stato realizzato dalla FB European Consulting in cooperazione con l’Associazione Nazionale Giudici di pace, il Concilium Schlichtung undberatung GmbH, UEMC (European European Union of Judges in Commercial Matters e supportato da ENALJ
Per maggiori informazioni si rimanda al sito htpp://selectproject.eu/en e alla pagina facebook.
Sommario: 1. Nazionalità e dell’autodeterminazione dei popoli - 2. Le idee nazionaliste e i gruppi etnici “allogeni”. - 3. Dopo la Seconda guerra mondiale - 4. Il dovere della Memoria
1. Nazionalità e dell’autodeterminazione dei popoli.
La questione delle nazionalità e dell’autodeterminazione dei popoli copre secoli di storia, ancor più antica è la determinazione possibile dei loro confini territoriali.
Quando si volge lo sguardo a quel territorio che ha come limiti la Carinzia e il Friuli a nord, la Macedonia egea e bulgara a sud, per affacciarsi poi in Dalmazia e Istria sull’Adriatico ci si imbatte, come afferma Joze Pirjevec nel suo bel libro “Serbi Croati Sloveni” edito dal Mulino nei primi anni Novanta del secolo scorso, in uno scontro drammatico di popolazioni, civiltà, religioni che per la sua complessità ha pochi eguali nella storia del mondo.
Dopo la conclusione del Primo conflitto mondiale con la conferenza di pace di Parigi del 1919 nacque il regno dei serbi, dei croati e degli sloveni che, per volontà di Alessandro I Karađorđević, si chiamò Iugoslavia.
L’unificazione “a tavolino” di popoli e culture tanto diverse (cattolici i croati, ortodossi i serbi, musulmani i bosniaci) produsse ben presto gravi conflitti interetnici proprio mentre in Italia la crisi del dopoguerra trovava il suo sbocco nell’avvento del fascismo prima come movimento politico, poi come regime totalitario.
Già a partire dal 1919 l’Italia vittoriosa e forte del Patto di Londra del 1915 chiedeva per sé vasti territori in quelle zone di confine come testimonia la “questione fiumana” e l’avventura di Gabriele D’Annunzio che la notte tra l’11 e il 12 settembre del 1919 con i suoi volontari occupò Fiume, instaurò la cosiddetta reggenza del Carnaro e proclamò l’annessione della città all’Italia.
Lo “staterello” fiumano durò quindici mesi durante i quali il poeta vate ne progettò una Costituzione e si impegnò a organizzare plateali manifestazioni patriottiche quasi coreografiche anticipazioni delle adunate fasciste (solo Giolitti col trattato di Rapallo nel ’25 liquidò la questione fiumana e la città fu riconosciuta libera sia dall’Italia sia dalla Iugoslavia).
2. Le idee nazionaliste e i gruppi etnici “allogeni”.
Negli anni Venti, mentre si consolidavano le idee nazionaliste, non si accettava che entro i confini della “Patria” potessero esistere gruppi etnici “allogeni”. Il comportamento delle autorità fu dettato dalla pretesa di una rapida assimilazione di quelle popolazioni alle quali si cercò in ogni modo di togliere non solo le personalità più rappresentative ma pure le organizzazioni che potevano contribuire a mantenerne viva la coscienza e l’identità culturale.
Gli intellettuali, ma anche maestri, professori, impiegati, furono costretti all’emigrazione, mentre scuole, biblioteche ed enti culturali venivano chiusi. Uno dei momenti più drammatici fu quello del luglio 1920 quando fu incendiato il centro culturale sloveno di Trieste. Questo processo si concluse nel ’27 con la proibizione da parte del regime fascista di ogni attività politico-culturale. A questo punto la seconda fase mirò direttamente alla snazionalizzazione e alla “bonifica etnica” col divieto di usare la propria lingua madre perfino nel suo ultimo rifugio: la Chiesa!
Non si possono qui analizzare per intero le tappe di questa lunga e tormentata vicenda delle popolazioni slave di confine costrette o all’emarginazione o alla diaspora. Tutti i provvedimenti furono attuati nonostante il trattato di Rapallo del 1925 avesse stabilito, in ottemperanza ai principi di nazionalità e di autodeterminazione, i rispettivi confini e sovranità.
3. Dopo la Seconda guerra mondiale
La fine della Seconda guerra mondiale, sulla base del recente passato, avrebbe potuto garantire la pace in quei territori?
La repressione Mussoliniana di sloveni e croati attuata nei Balcani dopo l’occupazione militare del 1941 ebbe come effetto l’inasprimento della resistenza antifascista pure in Istria, il territorio riconosciuto all’Italia dopo la Prima guerra mondiale le cui coste erano per lo più abitate da italiani ricchi di una lunga tradizione di civile convivenza con gli slavi. La lotta antifascista si innescò sulla contrapposizione italo-slava alimentata dal regime fascista per l’intero ventennio e diventò tristemente nota come “questione adriatica”.
L’esercito comunista di Tito occupò l’Istria e poi tutta la Venezia Giulia, territori rivendicati perché di tradizione slava.
Questa rivendicazione, almeno all’inizio, trovò appoggio nel Partito Comunista Italiano ma non venne accettata dagli altri partigiani del luogo decisi a difendere i territori italiani dalle mire espansionistiche di Tito. Essi si organizzarono e questo portò alla spaccatura del movimento partigiano con effetti drammatici come l’eccidio di Porzûs, quando fra il 7 e il 18 febbraio del ’45 furono uccisi diciassette partigiani delle brigate Osoppo da partigiani gappisti. Tra loro anche Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo.
La discussione storiografica su quell’evento è ancora materia di dissidio e di interpretazioni controverse circa il rapporto tra il Partito Comunista Italiano, i comunisti di Tito e la stessa Unione Sovietica. Sta di fatto che nonostante l’opposizione dei partigiani delle Brigate Osoppo l’esercito titino raggiunse Trieste il 1° maggio del 1945, due giorni prima degli Alleati che poi costrinsero le forze di occupazione iugoslave a ritirarsi dal Friuli Venezia Giulia, ma non dall’Istria.
Da quel momento iniziò nell’Istria una lunga serie di azioni violente considerate di “pulizia etnica” da parte iugoslava al fine di liberare il territorio da ogni presenza italiana: esecuzioni di massa dei cittadini, gettati poi vivi o morti nelle più di 1500 cavità naturali prodotte dall’acqua nella roccia carsica dette “foibe”, termine che deriva dal latino fovea ovvero fossa.
Furono forse più di 15mila ad esservi gettati: donne, bambini, giovani, vecchi senza distinzione di idee purché italiani. Si trattò certamente dell’estremo frutto del nazionalismo e del modo di Tito di intendere e realizzare l’ideologia comunista, ma fu anzitutto esecrabile vendetta sulla popolazione italiana inerme.
Gli slavi che avevano subito oppressione e gravissime perdite nella guerra di liberazione risposero con la stessa ferocia ponendo le basi di rancori e recriminazioni mai veramente sopite nonostante la condanna unanime di quei fatti e le relazioni politiche ristabilite nella pace.
4. Il dovere della Memoria
Ricordare e commemorare le Foibe è dovere civile. Creare le condizioni perché i nuovi nazionalismi non abbiano spazio sarà possibile solo in una Europa dei popoli che ancora bisogna impegnarsi a costruire.
Senza questa determinazione le commemorazioni, questa ed altre, rischiano di trasformarsi in retorica celebrativa che è tutto il contrario della memoria storica dolorosa e condivisa.
Quale giustizia
Dialogo tra Marco Dell'Utri e Massimo Cacciari già pubblicato su Questa Rivista formato cartaceo, n.1, anno 2009.
Poco più di dieci anni fa, Mario Barcellona affidava alle pagine della ‘Trimestrale’ di diritto e procedura civile una sua relazione, tenuta ad Harvard, sull’idea del sociale nella teoria del diritto privato.
L’occasione forniva a B. l’opportunità di misurare, sul piano dell’epistemologia e del metodo, gli esiti di due importanti stagioni della storia delle idee del secondo Novecento condotte sull’incidenza ‘giuridica’ delle dinamiche sociali: vicende contrassegnate con l’allusione al solidarismo giudiziale (anni ‘60) e al c.d. uso alternativo del diritto (anni ‘70).
Nel giudizio di B. – in larga misura condivisibile –, là dove l’esperienza del solidarismo giudiziale era stata condotta, e s’era venuta esaurendo, nell’esercizio di un più maturo impegno di interpretazione dei dati positivi (in chiave evolutiva) alla luce dei principi costituzionali (e in tal senso in un quadro di sostanziale continuità metodologica con l’attitudine positivistica della tradizione), la proposta dell’uso alternativo del diritto aveva viceversa sollecitato l’operatore giuridico (il giudice in primo luogo) a farsi piuttosto ‘interprete della società’, alla ricerca dei modi e delle direzioni (per lo più lette secondo la chiave del conflitto di classe) attraverso cui la società e la sua coscienza vivono le proprie trasformazioni.
L’esperienza delle due stagioni (largamente superate e per alcuni versi da ritenersi fallite) si è tuttavia positivamente tradotta (come un paradossale lascito) in una sorta di maturazione culturale del giurista-giudice contemporaneo, misurabile attraverso l’accresciuta sensibilità per la dimensione ‘particolare’ (il rapporto, il gruppo, il contesto sociale) in cui la decisione concreta è destinata a incidere: una sorta di giustizia ‘orientata al caso’, dove dato positivo e dimensione normativa della realtà sociale giocano un ruolo di mutua interazione e di reciproci rimandi.
L’idea di un’interpretazione giudiziale ‘orientata al caso’ – secondo la formula che ripudia la persistente validità dell’astrazione moderna del ‘Soggetto Universale’, per riscoprire la specifica diversità di individui, gruppi o minoranze che, in ragione della particolarità delle culture di appartenenza, invocano il godimento di diritti e libertà ‘particolari’ (donne, minori, anziani, malati, omosessuali, immigrati, minoranze etniche o linguistiche, etc.) – ripropone l’interrogativo, che ancora anima le divisioni e gli aperti dissensi del dibattito contemporaneo, se possa ritenersi ancora accettabile, nelle società multiculturali, il modello tradizionale e autoritativo di giudice, o se, invece – respinta l’idea della generale condivisione delle norme, dei valori e dei principi dell’ordinamento giuridico, o del comune consenso sulle procedure decisionali –, non si ponga piuttosto il problema, del tutto inedito nei nostri sistemi, dell’accettazione ‘sociale’ della sentenza.
Il dibattito che indugia tra ‘giustificazione della validità delle norme’ e ‘giustificazione dell’applicazione della norma al caso concreto’, invita propriamente a guardare al di là del consenso astrattamente tributato alle norme all’atto della relativa approvazione formale, per sottolineare l’opportunità di ricorrere, al momento della loro applicazione, allo svolgimento di considerazioni aggiuntive e ulteriori, che sappiano confermarne l’adeguatezza rispetto al caso, in conformità al modo in cui la fattispecie (ossia il ‘frammento’ dell’esperienza di vita condotto all’esame del giudice) è stata definita dalle stesse parti.
Si rivela, da questo punto di vista, la decisività, in sede applicativa, dell’eguale accesso di tutti gli interessi che, in forza di una propria interpretazione della situazione, siano in grado di richiamarsi a motivi validi, ossia a ‘letture’ coerenti di norme valide, al fine di pervenire a un’interpretazione della ‘situazione comunemente condivisa’ che, sola, varrebbe a dotare di adeguata giustificazione la decisione assunta, al cospetto delle parti e della società pluralista.
Il discorso che accenna alla dimensione ‘democratica’ e ‘partecipata’ della vita del processo esercita un fascino non agevolmente eludibile, nella misura in cui chiama in causa il ruolo ‘attivo’ dei protagonisti della vita sociale, nella prospettiva di fondo di un modello di ‘giustizia conciliativa’ alternativo a quelli della tradizione.
È sufficiente solo un richiamo, in questa sede, alle riletture, secondo la chiave della giustizia ‘riconciliativa’, dei testi della tragedia greca (di Antigone, in primo luogo), delle antiche tradizioni ebraiche, ed in particolare della procedura del ryb, ossia dello scontro il cui scopo non è la punizione del colpevole ma il componimento della controversia attraverso il riconoscimento del torto compiuto, il perdono e quindi la riconciliazione e la pace. È l’umanità dell’avversario che si cerca di toccare e su cui si intende influire. L’obiettivo non è dunque la giustizia retributiva (ossia il ripianamento del torto con una sanzione equivalente) quanto il ristabilimento di una comunanza, incrinata o infranta dal torto commesso e subito. È, infine, la traccia e lo spirito dell’ubuntu africano tradizionale, orientato alla riconciliazione, alla reciproca accettazione, al riconoscimento dell’umanità delle persone, per farla riemergere quando questa è umiliata dal crimine non solo patito ma anche commesso.
E tuttavia, il percorso ‘obbligato’ che conduce alla soluzione dei conflitti – e quindi il suo affidamento all’esame e alla decisione del giudice, come ancora si addice all’essenza delle nostre culture – rivela, in tutta la sua evidenza, la delicatezza del ruolo cui è chiamato colui al quale è rimesso il compito di distinguere il difficile confine – che è poi la sostanza del conflitto – tra l’ortodossia e l’eresia, tra le vie esili della verità e le oscure inquietudini dell’errore.
Muovendo da tali premesse, quella che con maggiore evidenza si affaccia, nella prospettiva più larga della pagina dello storico del diritto, è la definitiva riformulazione, in chiave contemporanea, dei rapporti tra diritto e morale.
All’antico interdetto imposto al giurista – ritenuto per definizione ‘estraneo’ al discorso del filosofo, dello storico o, in generale, dello studioso delle ‘scienze umane’ –, va sostituendosi la sollecitazione a guardare, all’esercizio delle prerogative private, tanto alla luce delle norme positive dello stato, quanto (e più ancora) nella prospettiva di una legittimità che si radica e si conferma nella positività del costume sociale o di complessi di regole morali d’indole particolare.
A fronte di modi nuovi e diversi di vivere i valori positivi della Costituzione (nel che conviene scorgere la sostanza autentica della sua storicità, più ancora che nella contingente proliferazione di pretesi ‘nuovi diritti’), il criterio che sembra presiedere ai rapporti tra l’ordinamento statale e gli ordinamenti sociali minori appare strutturarsi secondo il senso o la funzione storicamente assolta dal principio tradizionale del sistema del diritto internazionale privato, ossia dalla nozione dell’ordine pubblico, come sintesi dei principi e dei valori essenziali del sistema, assunto come limite di commensurabilità tra valori che appartengono a ordinamenti diversamente distribuiti nello spazio.
Risale a pochi mesi fa, del resto, la pronuncia di una nostra Corte di merito, diretta a rendere esecutiva nel nostro sistema la decisione di un giudice inglese, incline a riconoscere la liceità e la meritevolezza – e quindi gli effetti sul piano dei rapporti parentali – dell’accordo gratuito di maternità surrogata (che la legge italiana espressamente ripudia), muovendo dalla più larga dimensione assiologica dell’ordine pubblico internazionale quale criterio ultimo di misurazione del grado di compatibilità tra ordinamenti neppure così lontani dal punto di vista storico-culturale.
La nozione della ‘dignità umana’, che la riflessione degli storici e dei filosofi del diritto restituisce all’operatore pratico, va progressivamente perdendo quei caratteri di unitarietà e universalità propri della cultura medioevale e moderna, legati alla dimensione creaturale della persona o alla riflessione sui diritti fondamentali secondo la tradizione giusnaturalistica.
Ciò che offende e ferisce la dignità umana viene oggi più comunemente riconosciuto in tutto quanto rende la persona un oggetto o uno strumento nelle mani altrui (persone, ideologie o culture dominanti che siano); in ciò che, sul piano dei rapporti tra le persone, svilisce o tradisce il senso dell’autorappresentazione che ciascuno intende dare di sé; ciò che ostacola (fuori dalla supposta dimensione universale della Dignità) la costruzione di una dignità concreta e irripetibile di ciascun individuo, la dignità del ‘senso’ che nessuno ha il diritto di imporre, nei limiti del reciproco riconoscimento.
“Questo non è una pipa” si affrettava a denunciare René Magritte nel suo dipinto dedicato a ‘I due misteri’. La provocazione artistica – finemente raccolta dal genio di Michel Foucault – chiamava lo spettatore a misurarsi con la rottura di una tradizione plurisecolare; con la negazione del principio cardine della pittura classica ferma all’indissolubile legame tra verosimiglianza e rappresentazione, tra segno e cosa. Il ribaltamento di quel principio valeva a riaffermare la liberazione della pittura dalla dittatura (e quindi dalla ‘violenza’) del verosimile e di una supposta realtà oggettiva di cui l’opera varrebbe a costituire la supina imitazione.
La ‘liberazione’ del diritto da quel genere di violenza (che è poi la violenza del potere) sta propriamente – per dirla con le parole di Gianni Vattimo – nell’esercizio dell’attività interpretativa. L’interpretazione attraverso l’applicazione della legge sarà priva di violenza (ossia senza imposizione di forza non negoziata) là dove – lungi dal rivelare apertamente detta violenza, o coprirla con aggiustamenti ad hoc – sappia ridurla progressivamente.
In questo senso è possibile parlare di progresso perché è attraverso l’accumulazione delle interpretazioni e il rimandarsi di esse, in modo da corroborare sempre meglio la soluzione di singoli casi (con l’accumulo di precedenti, conferme, applicazioni che ampliano, chiarificano, eccetera), che la violenza originaria viene effettivamente consumata. L’esperienza del diritto, che si sostanzia nella formalizzazione delle leggi (da intendere ermeneuticamente come il ‘monumento’, la ‘stipulazione’, la ‘sostanzialità’ della trasmissione storica) e nei sistemi istituzionali che le interpretano ed applicano, amministrando la giustizia, diviene così esperienza di consumazione dell’origine, non quindi mera rammemorazione o mascheramento dei suoi tratti violenti.
La giustizia che l’interpretazione conferisce al diritto non riguarda né la verità metafisica dell’infondatezza svelata, né la menzogna pietosa dell’affabulazione. Più specificamente, l’interpretazione – come applicazione che indebolisce la violenza dell’origine, che ne consuma le pretese di perentorietà e di definitività, smentendone la maschera sacrale – fa giustizia del diritto.
La ricchezza culturale implicata dalla circolarità ermeneutica dell’interpretazione e dall’attitudine pluralista del c.d. ‘diritto mite’ (o, se si preferisce, filosoficamente ‘debole’), pone quindi, in termini non più rimandabili, il tema della formazione del giurista-giudice, non più confinabile all’acquisizione di una competenza ‘tecnica’ di conoscenza e di capacità di gestione interpretativa delle norme positive, bensì aperta all’acquisizione della coscienza del diritto come prodotto eminentemente culturale, ossia della sua sostanziale indole simbolica, al pari di ogni altra espressione concreta di elaborazione sociale di ‘senso’.
In questo quadro, la formazione accademica italiana (che, al pari di quella continentale, sconta sul tema un sensibile ritardo culturale rispetto all’esperienza anglo-americana) si è venuta aprendo all’analisi e allo studio comparato del diritto e della letteratura, così come del cinema o del teatro (come laboratori etico-morali), ossia all’esame (fuori da ogni inopportuna digressione su presunti divertissement di giuristi raffinati) della dimensione culturale del diritto, in cui la ‘cultura’, secondo la proposta definitoria di Clifford Geertz, viene intesa come documento agìto, coincidente con ciò che viene detto attraverso le azioni sociali, ed in cui le strutture di senso appaiono inseparabili dai flussi di comportamento, a loro volta destinati a contrassegnare la realtà sociale come con-testo di continua rappresentazione, interpretazione e costruzione da parte dei soggetti.
Al pari di ogni altro testo letterario (o più genericamente culturale), conviene ribadire come il diritto sia parte integrante di questo ordine simbolico con-testuale, là dove contribuisce a strutturare la formulazione dell’identità collettiva, a guidare l’interpretazione e la trasmissione del sapere e della cultura sociale, a riconfigurare il tempo dell’esperienza, attraverso l’ordinazione del tempo vissuto e le progettazioni possibili di quello a venire.
Chiamare il giudice a rendersi consapevole di tutto questo, significa avviare il difficile compito di controllare come si addica, allo studio e all’applicazione del diritto – per il coinvolgimento culturale che ne connota l’esercizio e le responsabilità che ne discendono – la relativa attribuzione a soggetti rispetto ai quali parrebbe desiderabile ritrovare, quanto non opportunamente reclamare, una vocazione ed un impegno intellettuale non occasionali, né distratti.
Marco Dell'Utri
È semplice pensare alla “giustizia” in forme gnostico-dualistiche come dea abscondita, assolutamente straniera in questo mondo, astrattamente altra ogni misura di diritto positivo. E altrettanto semplice è ridurla a idea regolativa, in base alla quale orientare i comportamenti storicamente concreti del legislatore e del giudice che quelle leggi dovrebbe “applicare” (non occorre particolare scienza ermeneutica per sapere che ogni interpretazione è “produzione” e trasformazione normativa). In quest’ultimo senso intende “giustizia” l’opinare comune: come un Fine inattingibile in sé, ma che nonostante questo dovrebbe essere in grado di dar forma ad atti e pratiche determinati. L’aporia è evidente: se questa idea è immanente all’amministrazione del diritto, dovrà essere ogni volta dimostrabile il suo nesso alla fattispecie giudicata, e il suo Valore consisterà alla fine nel suo effettuale valere; se, invece, nessun atto è in grado di comprehendere in sé la sua infinita Potenza, tale Potenza rimarrà appunto sempre un Possibile “fantasma”. È un’aporia propriamente teologica: dall’Uno della Giustizia non possono ricavarsi che per saltus i Molti uno degli ordinamenti concreti e l’universale dissomiglianza dei pronunciamenti; oppure dell’Uno non si fa che il principio ordinatore immanente in ciascuno, “ciò” che ciascuno è nella sua essenza, e cioè null’altro che se stesso.
Per procedere oltre l’aporia sarà, allora, forse necessario superare l’idea di Giustizia come Principio universale di ordine, sostanza unitaria ed effettualmente predicabile di ogni giuris-dizione. La classica Dike esprimeva in fondo una tale idea: l’evidente unità dei cicli e dei ricorsi ordinanti il movimento degli astri, “dèi visibili”, il grande Numero abbracciante in sé tutti i Ritmi celesti, doveva trovare la propria immagine, il proprio eikòn, sub-lunare, nell’organizzazione del molteplice, diversificato, conflittuale inter-esse della polis.
Giustizia, dunque, come suprema concordia o armonia tra distinti, che soltanto “risolvendosi” in essa danno vita a un Cosmo. Giustizia come superamento dell’“idiotismo” degli enti particolari, che riconoscono di essere solo in quanto elementi dell’intero. Ma chi potrà dettare il Numero di una tale armonia? chi sarà il “nocchiero” e in base a quale idea, a quale Fine ridurrà al suo Uno le rotte e le orbite dei molti? Dike punisce coloro che non stanno ai suoi Ritmi, coloro che si ergono a pre-potenti rispetto al suo Logos, ma non può mettere a tacere la domanda sulla provenienza, sul fondamento, sulla legittimità del proprio stesso Ordine. E non appena questa domanda si impone, prende voce, anche come nuda interrogazione, l’unità è spezzata per sempre.
Dal punto di vista della cosmica Dike è perciò “ingiusto” chi si fa-parte, chi si sottrae all’Intero, chi presume di essere auto-nomos. Forse, nello stesso termine “legge” risuona questo appello ad una superiore unità, all’istanza ultima del “raccogliere” in Uno i distinti. Ma siamo davvero certi che è inevitabile pensare la Giustizia in questa prospettiva, secondo questo orientamento?
E se Giustizia, invece che energia centripeta, principio supremo ordinatore, che, come tale, lo abbiamo visto, minaccia ogni volta di risolversi nell’Ineffabile, o, all’opposto, in mera retorica, significasse la volontà di rendere a ciascuno il suo? Se Giustizia fosse un termine, per così dire, estro-verso, indicante come suprema esigenza la piena soddisfazione della “legge individuale”? Che significa “legge individuale”? Che le misure individuali di felicità, o anche semplicemente di eudaimonia, non si lasciano collocare in un’unica scala gerarchica. Nessun “giudice” potrà mai stabilire quanto valga per me un determinato bene e quanto mi sia costato acquisirlo. Nessun Principio può stabilire che cosa io intenda o percepisca per riconoscimento del mio valore.
Giustizia appare, allora, come l’idea che proprio attraverso il mutuo, giusto riconoscimento reciproco del valore di ciascuno possa costituirsi l’insieme, la communitas: quella dimensione comune che, proprio perché tale, a nessuno appartiene, e che, per la medesima ragione, custodisce in sé e difende il proprio di ciascuno.
Nel termine nomos non è forse proprio in questo senso che può essere pensato il rapporto a Dike? Nomos è assegnare la parte, articolare il tutto in parti dotati di valore proprio, responsabilizzare ciascuno alla propria parte.
Questo opera il nomos: suddivide, distingue, analizza in modo che a ogni individuo corrispondano responsabilità precise in base al suo carattere-daimon. Il “divino” (daimon) di ciascuno è precisamente la parte che gli è stata assegnata (daiomai) e che ne contraddistingue il carattere specifico. “Divino” è l’individuo perfettamente-nella-sua-parte, e non l’individuo che si è “superato” in una Luce universale, nel Lichtwesen a suo tempo criticato da Hegel, dove proprio la sua “legge individuale” verrebbe annullata. Giustizia apparirebbe, allora, la capacità di corrispondere all’esigenza di soddisfazione e riconoscimento che l’individuo esprime.
Ma l’individuo esattamente in quanto tale. E cioè compreso come parte che di per sé non può pretendere di farsi tutto o di “impadronirsi” della communitas. La “legge individuale” indica l’opposto di un farsi-legge dell’individuo; essa dice che nell’individuo si esprime una “legge”, quella appunto per cui nessuna misura individuale di felicità può valere come Principio universale. L’universale dell’individuo consiste nel suo non-essere universale e nell’esigere, per questo, riconoscimento e soddisfazione nella sua individualità. Giustizia è corrispondere a questo: “affidare” ad ognuno la sua parte, per la quale possa trovare come individuo piena soddisfazione, e ricondurlo a tale parte (Dike-Nemesi di nuovo!) non appena, tradendo se stesso, voglia imporre ad altri la propria misura.
È evidente come nessuna legge positiva, nessun diritto potrebbe esaurire in sé questa idea di Giustizia. La legge positiva, nella sua storicità, non appare, in questo quadro, che l’insieme delle norme miranti al riconoscimento dei diritti di ciascuno, precisamente nei limiti che la “legge individuale” prescrive. Ma nessuna legge potrà mai eliminare il pericolo della volontà individuale di ergersi a “universale”. Il diritto “arbitra” il campo o la scena o l’agorà dove “giocano” le distinte volontà di riconoscimento e soddisfazione.
Ma un tale diritto avrebbe profondamente a che fare con l’etymon, il significato radicale, del nomos collegato a Giustizia, poiché esso rappresenterebbe il ministro di quella idea dell’addivenire dell’individuo alla piena soddisfazione di sé, proprio nel suo essere tale, non nel sussumere in sé l’altro o nel volerlo con-vincere. Diritto è ministerium, da minus; quello della Giustizia è il vero magisterium, da magis.
Potremmo dire, in questo senso, che la Giustizia non giudica. Il giudizio spetta al ministerium, sulla base di valutazioni e situazioni storicamente determinate. E giudizio è sempre espressione di un punto di vista. Ma che la prospettiva del giudizio si interpreti come “incarnazione” di una Giustizia a sua volta giudicante dall’alto di principi e assiomi universalmente definiti, o che invece essa si intenda come garanzia dell’apertura alla eu-topia di una communitas fondata sulla “legge individuale”, mette in gioco una scelta, una decisione radicale. E io ritengo che nell’epoca attuale, di fronte alla sfida del “conflitto” tra civiltà, della costruzione di società multi-etniche e multi-religiose, solo quest’ultima prospettiva, nella sua apparente eu-topicità, sia quella davvero praticabile e realistica.
Massimo Cacciari
Immagine: Jacobello del Fiore, Trittico della Giustizia, tempera su tavola, 1421, Gallerie dell'Accademia, Venezia.
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