ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Audizione informale in relazione al Disegno di legge di Conversione del decreto-legge 8 agosto 2025, n.117, recante misure urgenti in materia di giustizia
Al Signor Presidente della II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
Il D.L. n.117, pur contenendo anche norme totalmente condivisibili, è tardivo, viene dopo una lunga inerzia ministeriale, e non consentirà di raggiungere l’obiettivo PNRR della riduzione del DT.
Vi sono provvedimenti del tutto condivisibili come l’estensione dell’utilizzo dei giudici di pace nei Tribunali, la proroga della permanenza dei giudici ausiliari nelle Corti di Appello oltre ad altre proroghe e l’aumento di organico della magistratura di sorveglianza.
E vanno sempre sottolineati i risultati che il PNRR ha raggiunto con il probabile raggiungimento di alcuni importanti obiettivi come la riduzione del 25 % del DT penale e l’abbattimento dell’arretrato civile.
Ma per il DT civile siamo arrivati in poco più di quattro anni alla riduzione del 20,1 % e vi è un dato sulla riduzione delle pendenze relativo al I trimestre 2025 non incoraggiante (-0,4 %), oltre al fatto che siamo a fronte, dopo anni di calo, di un aumento delle sopravvenienze.
Questo delinea la drammaticità del quadro e la totale insufficienza delle misure proposte nel D.L.
Avremmo bisogno di un calo delle pendenze o di un aumento delle definizioni di circa 200000 procedimenti (ovvero di quasi il 20 %) e pensare di sopperire solo con trasferimenti e applicazioni di magistrati in servizio è perdente.
Bisognerebbe pensare a interventi immediati di abbattimento delle pendenze. Se possibile ricorrendo a risorse dall’esterno.
Difatti puntare fondamentalmente su trasferimenti e applicazioni da uffici virtuosi ad altri in difficoltà rischia di risolversi in una partita di giro con guadagni per gli uni e perdite per gli altri. Non solo, ma si trascura che applicazioni e trasferimenti in un nuovo ufficio richiedono dei tempi di avvio che ridurranno ulteriormente l’efficacia dell’intervento.
Gli interventi proposti sono limitati ed insufficienti come i 50 magistrati del massimario applicati alle udienze civili della Cassazione ed i 20 trasferiti nelle Corti di Appello “critiche”.
Anche la misura simbolicamente più efficace, che pure, come vedremo, presenta moltissime controindicazioni, ovvero l'applicazione da remoto di 500 magistrati che continuando ad essere assegnati nei loro uffici di appartenenza, dovrebbero scrivere altre 50 sentenze civili a testa, porterebbe, se rispettati gli standard, a 25000 definizioni in più (o massimo 50000 se tutti riuscissero a farsi assegnare altri 50 procedimenti), del tutto insufficienti.
Va anche sottolineata l’infelice formulazione dell’art.3 comma 6 che prevede che al magistrato che esaurisca in anticipo il “pacchetto” di 50 procedimenti civili possa essere dato unicamente un altro pacchetto di 50 procedimenti civili, quando invece sarebbe opportuno prevedere, per questi magistrati particolarmente produttivi, una graduazione, con assegnazione di un numero minore di procedimenti concordato con lo stesso magistrato, prevedendo un’indennità proporzionata al surplus definito. Altrimenti è facile prevedere che ben pochi daranno questa disponibilità.
Questa nuova forma di applicazione ha una serie di risvolti estremamente pericolosi, aprendo una nuova frontiera nel processo civile, in cui concetti e principi anche costituzionali come il giudice naturale, la competenza territoriale, l'udienza in presenza, la stessa qualità dei provvedimenti verrebbero superati ed abbandonati per introdurre un insidiosissimo lavoro a cottimo (giustamente appena abbandonato per i giudici di pace). Una normativa emergenziale che, come ci insegna l’esperienza, tende a stabilizzarsi e a stravolgere il processo civile.
La concessione di poteri straordinari ai capi degli uffici per derogare alle norme e per pigiare sull'acceleratore della produttività rivela una visione organizzativa autoritaria e perdente: sappiamo che l'organizzazione vincente è quella che coinvolge, basata su regole condivise. Anche l’idea che derogare ai carichi esigibili possa portare ad un aumento delle definizioni è valida solo teoricamente, dato che l’esperienza ci insegna come già oggi questi limiti vengano abitualmente superati.
La ristrutturazione del tirocinio dei nuovi magistrati non solo è del tutto irrazionale (6 mesi nelle Corti di Appello civili ed uno solo in Procura), ma è sostanzialmente ininfluente ai fini della produttività dell'ufficio. Del resto il tirocinio, come dice la parola stessa, serve per formare e preparare alle funzioni giudiziarie, non per dare ausilio agli uffici giudiziari.
Il CSM nella sua delibera del 16 luglio 2025 aveva suggerito alcune misure che si sarebbero rivelate molto efficaci: la stabilizzazione degli oltre 8000 funzionari UPP ( di cui, in assenza di prospettive, sta continuando l’esodo ai danni degli uffici), il ricorso a magistrati civili in pensione, l’estinzione dei giudizi tributari (quasi il 50% del carico civile della Cassazione) aventi ad oggetto i debiti compresi nella dichiarazione di definizione agevolata, il riscontro in sede amministrativa alle domande di riconoscimento della cittadinanza provenienti da discendenti di emigrati italiani (il 5,5 % delle sopravvenienze nel 2024), la rivalutazione in sede amministrativa dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale sopravvenuti in epoca successiva al provvedimento di diniego impugnato in giudizio (il 6,8 %).
Non si capisce la rinuncia ad intervenire sui procedimenti tributari ed in tema di cittadinanza e protezione internazionale che da soli potevano ridurre di oltre 100000 procedimenti le pendenze, dando una fortissima spinta alla riduzione del DT.
Si tratta quindi di misure pacificamente insufficienti che più che coinvolgere e responsabilizzare sembrano voler spostare la responsabilità da un Ministero, finora in larga parte inerte, sul PNRR agli uffici giudiziari.
Ci vuole più responsabilità e più coraggio con un'ottica di coinvolgimento e di sinergia con tutti i soggetti che operano nella giustizia.
Roma, 11 settembre 2025
Il testo dell’audizione in larga parte riprende l’articolo “Le misure insufficienti introdotte nel sistema giustizia” pubblicato il 12 agosto 2025 dal Sole 24 ore
Sommario: 1. Spigolature sul tema - 2. Scienza matematica e scientia giuridica. Prove di dialogo - 2.1. AI e verità - 3. Formazione del giurista nell’era dell’intelligenza artificiale. Un nuovo alfabeto fra contenuti innovativi e modelli di formazione giudiziaria - 4. La formazione del giurista nell’era dell’intelligenza artificiale - 4.1. L’albero della formazione dei magistrati in tema di AI: a) che cosa dovrebbe sapere un giurista? - 4.2. Segue: b) con chi dovrebbe essere formato? - 5. Conclusioni (in progress).
1. Spigolature sul tema
Nel cuore del dibattito contemporaneo sull’intelligenza artificiale si colloca un interrogativo cruciale: può l’IA sostituire o replicare il giudizio umano all’interno del sistema giustizia? Ed ancora, quale posto può occupare l’AI senza alterarne l’equilibrio costituzionale, etico ed epistemologico?
Nel panorama di queste domande, sempre più incalzanti tanto quanto lo sono le risposte da più parti proposte, si collocano, da angolazioni diverse ma sorprendentemente convergenti, studiosi di campi apparentemente distanti: matematici, costituzionalisti, comparatisti, magistrati.
Impossibile, ovviamente, dare conto di tutte le opinioni in campo ed invece “umanamente possibile” provare a selezionare, sulla base di scelte valutative “umane” e non basate sulla logica algoritmica, alcune voci dotate di un grado di persuasività e comprensibilità tali da consentire una riflessione, peraltro, assolutamente aperta e ben lontana dall’essere risolutiva e conclusa.
Assai utile, dunque, partire da un portatore di saperi altri che il giurista, oggi più che mai, sente il bisogno di coinvolgere in quanto portatore di conoscenze che sarà “costretto” a maneggiare con cura e attenzione.
Il matematico Alfio Quarteroni, nel corso di uno degli incontri programmati dalla SSM con i MOT di Accademici dei Lincei, forte di una lunga esperienza nel calcolo scientifico e nella modellazione, ha delineato la distinzione tra algoritmi deterministici — tipici della tradizione matematica classica — e algoritmi adattivi, che caratterizzano l’IA moderna. Questi ultimi non seguono una logica pienamente prevedibile e non sono governati da istruzioni trasparenti, ma si sviluppano per correlazione statistica e addestramento empirico.
Eppure, osserva Quarteroni, per quanto l’IA possa emulare il linguaggio umano, essa non possiede alcuna consapevolezza, intenzionalità o senso del valore. È, in altri termini, una potenza senza coscienza: può suggerire, accelerare, ordinare; non può comprendere né decidere in senso etico o giuridico.
Il professor Quarteroni sostiene però che l’intelligenza artificiale possa rafforzare la scienza tradizionale, fondata su teoria, esperimento e simulazione, senza sostituirla. Questo approccio, chiamato scientific machine learning valorizza l’apprendimento dai dati all’interno di cornici teoriche ed “umane” consolidate.
Traslando questa idea al campo del diritto, il matematico propone una via intermedia tra una fiducia ingenua nell’efficienza dell’IA e un rifiuto rigido, legato alla sua mancanza di umanità.
In definitiva, una proposta di integrazione costruttiva in cui la scienza del diritto fornisce la cornice normativa entro cui l’IA dovrebbe operare, vincolata da principi, valori e logiche argomentative. Gli algoritmi giuridici possono aiutare a organizzare precedenti, individuare pattern o simulare scenari, ma non devono sostituire il giudizio umano, che rimane centrale. Il giurista ha così un ruolo fondamentale come interprete consapevole, capace di comprendere la logica algoritmica senza smarrire la profondità del sapere giuridico. In questo modo il diritto non diventa – e non può diventare - automatico, ma aumenta la sua capacità di essere sagomato ai bisogni, tarato sulle necessità, completo nei suoi percorsi decisionali. In una parola, più informato ed efficace, senza tuttavia perdere la sua dimensione umana.
Questo rilievo, proveniente da uno “scienziato non giurista” sembra trovare sponda nelle riflessioni giuridiche più avvertite sul ruolo dell’IA nel diritto.
Luciano Violante[1], affrontando il tema delle sfide democratiche della digitalizzazione, ha più volte ragionato sul rischio di una “società della scatola nera”, in cui le decisioni algoritmiche sfuggono al controllo democratico e rendono opachi i criteri di imputazione e responsabilità. Per contrastare questa deriva Violante propone di trasformare le “black box” in “glass box”. La digitalizzazione non è paragonabile alle precedenti rivoluzioni tecnologiche, entrando nel cuore della coscienza collettiva e così modificando la formazione delle opinioni, i processi cognitivi e perfino le relazioni sociali. La metafora della black box descrive dunque il pericolo di un potere algoritmico opaco: «through machine learning, data matching and automatic profiling, black boxes process large amounts of information, understand text, recognize images and connect the dots». Tali sistemi non sono neutri, poiché «an algorithm designer conveys his beliefs in the algorithm he creates, and so his beliefs become reality». In questo senso, la scatola nera rappresenta non solo l’incomprensibilità tecnica dell’algoritmo, ma anche la sua capacità di trasmettere, senza trasparenza, i pregiudizi e le visioni del mondo di chi l’ha costruito. Il rischio concreto è dunque che decisioni fondamentali per i diritti delle persone vengano prese sulla base di processi non verificabili, sottratti al controllo democratico e alla possibilità di contestazione. Per questo si afferma la necessità di passare dalle black boxes alle glass boxes, affinché «algorithmic decision-making needs to be fully transparent and individuals should have the right to challenge decisions made by an algorithm». La trasparenza diventa quindi una condizione essenziale per preservare la dignità dell’uomo e il ruolo del diritto: solo se gli algoritmi sono spiegabili e accessibili, l’individuo può rivendicare i propri diritti e la giurisdizione può esercitare il suo controllo. Da qui la sfida alla quale sono chiamati gli “umanisti”, volta a difendere la centralità dell’essere umano rispetto alla macchina, riaffermare il primato della responsabilità e del giudizio, garantire che l’uso dell’intelligenza artificiale sia sempre accompagnato da «transparent criteria in algorithmic design, digital education, the protection of the freedom to decide for oneself». La “black box” diventa così la metafora del pericolo maggiore della società digitale: l’oscurità decisionale che priva l’individuo della sua capacità di comprendere e di scegliere, e che rende urgente una nuova alfabetizzazione digitale e un quadro di regole volto a restituire all’uomo il dominio sulla tecnologia.
Da quell’immagine occorre allontanarsi, trasformandola in una scatola di vetro riempita di sistemi trasparenti ed auditabili. Terminologia, quest’ultima, assolutamente nuova per un giurista ma capace di rendere chiara l’esigenza di conoscere in quale modo l’algoritmo giunge ad una conclusione, quali dati utilizza e quali scarta e quali meccanismi di controllo offre rispetto alle soluzioni dispensate e mantenute in una cornice di legalità costituzionale.
In un ulteriore contributo[2] è sempre Violante a delineare con chiarezza la centralità del giudice come presidio di responsabilità e di garanzia costituzionale di fronte all’irrompere dell’intelligenza artificiale nei processi decisionali. L’autore sottolinea che “nessuna decisione che riguardi l’essere umano può essere presa in via definitiva dalla IA”, affermando un principio che delimita lo spazio dell’algoritmo e riafferma l’irrinunciabile competenza dell’autorità giudiziaria. La decisione, infatti, non è mera applicazione di regole tecniche, ma assunzione di responsabilità nei confronti delle conseguenze che essa produce. Per questo Violante richiama l’idea che “a chi cagiona dolore non dev’essere garantita la neutralità rispetto alle conseguenze della sua scelta. È un principio che appartiene all’umano prima che al giuridico o al tecnologico”, rimarcando come la funzione giudiziaria non possa essere delegata ad apparati privi di coscienza morale. L’IA, inoltre, trasforma i processi cognitivi e i circuiti del pensiero giuridico, perché “la formazione del pensiero si modifica” e la cultura dovrà imparare a “utilizzare in questa direzione gli strumenti digitali, anche nella nuova forma delle concatenazioni del pensiero”. Il compito del giudice diviene allora duplice: da un lato, saper usare le potenzialità del digitale come strumento di conoscenza; dall’altro, preservare la trasparenza e la legittimazione democratica delle decisioni, in quanto “il potere in democrazia dev’essere moralmente accettabile e non può essere invisibile. Un potere opaco non è moralmente accettabile”. In definitiva, il giudice si conferma custode della dignità della persona e garante dei diritti fondamentali, assicurando che la “Civiltà Digitale” resti, come afferma Violante, “una condizione umana caratterizzata dal dominio dell’uomo sulla tecnica digitale” e non il contrario.
In sintonia con le riflessioni di Violante, Oreste Pollicino[3] ha parlato ripetutamente di costituzionalismo digitale e del rischio che il potere computazionale, se non costituzionalizzato, rischierebbe di diventare un “Leviatano tecnocratico”[4], in cui la regola si dissolve nel comando, e il diritto perde la sua funzione deliberativa. Pollicino, forte della matrice costituzionale dei suoi studi e delle influenze prodotte da uno dei suo Maestri- Antonio Ruggeri – non poteva che porre al centro della riflessione la tenuta dei canoni costituzionali- fra i quali quello che lo riassume può forse indentificarsi con il personalismo – rispetto all’avvento dell’algoritmo e dell’IA. La digitalizzazione e l’IA che la prima preannuncia, secondo Violante e Pollicino sollevano dunque nuove questioni in materia di diritti umani, come la protezione della privacy, la libertà di espressione e il diritto all'informazione ed il rischio della disinformazione, oltre a quello della discriminazione algoritmica[5].
Il rischio riguarda dunque anche la salvaguardia della rule of law, oggi sottoposto a una pressione senza precedenti, visto che le grandi piattaforme digitali, pur essendo soggetti privati, esercitano di fatto funzioni pubbliche — dalla moderazione dell’informazione alla definizione delle libertà d’espressione. Queste piattaforme non rispondono affatto a logiche democratiche ma algoritmiche ed espressione così di chi le ha raccolte oltreché spesso opache[6]. È dunque cruciale garantire che i diritti fondamentali siano rispettati anche nel contesto digitale, attraverso una combinazione di regolamentazione normativa, educazione e responsabilità delle aziende tecnologiche.
All’analisi degli studiosi appena ricordati[7] si affianca quella di Andrea Simoncini, anch’essa centrata sul rapporto tra intelligenza artificiale e diritto costituzionale[8]. L'IA non rappresenterebbe solo una questione tecnica o normativa, ma una vera e propria trasformazione antropologica capace di incidere profondamente sull'architettura costituzionale. Afferma Simoncini che “Quando la decisione va ad incidere su posizioni giuridiche soggettive non potrà mai (dunque, neppure nel caso di amministrazione vincolata) essere sostituita tout court da un algoritmo, perché una decisione del genere non consentirebbe l’esercizio del più elementare diritto che ogni persona ha quando viene toccata dal potere pubblico: comprenderne le ragioni per poterle contestare in punto di fatto e di diritto”[9]. Da qui la necessità di una riflessione profonda su come adattare i principi costituzionali per preservare la dignità e i diritti della persona nell'era digitale, ponendo l’attenzione sul fatto che le potenzialità dell'IA nel migliorare l'efficienza del sistema giudiziario possono recare al loro interno una più o meno avvertita riduzione della discrezionalità e dell'umanità del giudicare.
Proprio l'opacità e la mancanza di accountability degli algoritmi possano minare la trasparenza e la responsabilità, principi fondamentali dello Stato di diritto.
La civilistica italiana non ha mancato di occuparsi del tema. Nel saggio Diritto, algoritmo, predittività[10], Nicolò Lipari mette in guardia dal ricondurre la decisione giudiziale alla mera esecuzione di un algoritmo, ricordando che il diritto contemporaneo è scienza pratica: non discende solo da norme astratte, ma si concreta nel caso, nell’argomentazione e nel bilanciamento di principi – in primis la ragionevolezza e l’eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. L’algoritmo, pur utile come ausilio (ad esempio per individuare precedenti o incoerenze), incorpora precomprensioni, opera su correlazioni storiche del passato e difetta della valutazione in termini di ragionevolezza che sta, invece, alla base del giudicare. Ragioni, queste, che rendono insostituibile l’apporto del giudice, al quale spetta armonizzare norme, principi e realtà sociale. La predittività potrebbe, secondo Lipari, trovare terreno più favorevole nella giustizia tributaria[11], dove le fattispecie sono spesso seriali e i dati oggettivabili, ma il passaggio dalla tecnica per fattispecie alla tecnica per principi rende impossibile comprimere la decisione nella binarietà del calcolo. In definitiva, l’intelligenza artificiale può contribuire a una giustizia aumentata solo se resta strumento e non soggetto, lasciando al giudice l’ultima parola e preservando la dimensione umana, storica ed emotiva del giudicare.
Anche Giovanni Comandè, parlando di “normatività algoritmica” per descrivere l’effetto pervasivo degli automatismi digitali, porta l’attenzione sul fatto che, se l’algoritmo diventa il filtro attraverso cui passa ogni valutazione di rischio, danno o colpevolezza, vi è un concreto rischio di piegare la funzione giurisdizionale a una logica performativa, al punto che il diritto non produrrebbe più giustizia, ma riproduce pattern. Da qui la necessità, per Comandè, di riaffermare la centralità della “spiegabilità” del diritto (e della giustizia) e della discrezionalità, rinnovando — anche alla luce della trasformazione tecnologica — la stessa architettura della responsabilità civile.
Ecco, ancora una volta, una nuova convergenza fra diversi saperi, quello scientifico matematico e quello della scientia juris.
La spiegabilità algoritmica secondo Comandè costituisce un diritto fondamentale con radici nell’art. 8 CEDU (vita privata) e nell’art. 22 GDPR (divieto di decisioni automatizzate senza supervisione umana significativa) - «Senza spiegabilità, non c’è giustizia. La motivazione algoritmica deve poter essere decodificata, verificata e criticata.»
Comandè sottolinea che ogni sistema decisionale basato su IA dovrebbe essere auditabile, contestabile e trasparente. L’opacità tecnica non può mai giustificare la sottrazione al controllo giuridico/giudiziario. La motivazione algoritmica deve essere sottoposta a standard giuridici, non solo ingegneristici.
Giovanna De Minico, per parte sua[12], muove dalla premessa che il giudice debba restare “indifferente a ordini, direttive o indicazioni, dettati o suggeriti da altri poteri dello Stato” e non può trasformarsi in un mero “rubber stamp” dell’esito algoritmico, poiché il “coinvolgimento umano consiste, non in un semplice gesto simbolico, ma in un controllo significativo” dotato di competenza e autorità per modificare la decisione automatizzata. La motivazione non può ridursi a una tautologia (“l’amministrazione ha deciso così, perché l’algoritmo ha deciso così”), ma deve “spiegare in termini chiari e comprensibili le ragioni per cui ha condiviso il risultato della macchina”. De Minico ammette un ruolo ausiliario dell’IA — “la macchina è un ausilio necessario o utile al giudice?” — nella fase istruttoria e nell’analisi probatoria, ma esclude che essa possa sostituire la decisione, prerogativa insopprimibile dell’uomo. Avverte inoltre che l’algoritmo “può fornire l’illusione di una ‘verità’ oggettiva e neutrale”, ma questa “verità” è “un prodotto dei dati che l’allenano, della loro qualità, completezza e imparzialità”, con il rischio che il giudice la assuma come un “dato certo” anziché come una tesi da verificare e sottoporre a critica. Un ulteriore argomento è di ostacolo all’ingresso nel processo dell’algoritmo decidente: la “riserva di nomofilachia alla Corte di Cassazione”. Questo tipo di algoritmo “comprometterebbe il fair play competitivo rispetto alla Corte Suprema perché la sostituirebbe di fatto nell’interpretazione unitaria del diritto” e, sdoppiando gli attori della nomofilachia, avrebbe un “effetto paralizzante sulla riforma del processo civile del 2006”, che intendeva rafforzare il ruolo uniformante della Cassazione. Ciò conferma, conclude l’autrice, “l’assoluta estraneità dell’intelligenza artificiale alla funzione di nomofilachia”, che deve restare di esclusiva competenza del giudice di ultima istanza.
In parallelo[13], De Minico richiama un analogo “nesso tra potere politico/responsabilità” e indica un’“insuperabile linea di confine” oltre la quale l’IA non deve spingersi, poiché il “policy maker” resta “l’esclusivo titolare del potere di scegliere tra gli interessi pubblici rilevanti”, senza delegare alla macchina la graduazione dei valori o la decisione finale. Anche qui si ammette l’uso dell’IA per “analizzare e sintetizzare i dati” ovvero “offrire scenari alternativi” che il decisore possa valutare, ma si ribadisce che la scelta conclusiva, specie se implica un bilanciamento tra diritti fondamentali, deve restare ancorata alla responsabilità politica e alla consapevolezza umana così come, in ambito giudiziario, la decisione deve restare ancorata alla responsabilità del giudice.
Sul versante amministrativo e senza soluzione di continuità rispetto alle opinioni sinteticamente raccolte, attente al piano costituzionale, si pone quella del Consigliere di Stato Giovanni Gallone.
Il concetto di "riserva di umanità" elaborato da Gallone[14] si riferisce alla necessità di preservare un ambito decisionale esclusivamente umano all'interno delle funzioni amministrative, esistendo limiti etici e giuridici invalicabili che richiedono l'intervento della persona[15], soprattutto quando le decisioni amministrative incidono significativamente sui diritti e sulla dignità delle persone. La "riserva di umanità", agganciata al modello costituzionale sagomato sulla centralità della persona umana,[16] si configura dunque come un principio fondamentale che delimita l'uso dell'automazione nelle decisioni pubbliche, assicurando che la tecnologia rimanga uno strumento al servizio della persona e non un fine in sé.
Un tentativo di unire mondi diversi in una prospettiva di dialogo sta alla base del libro Decidere con l’IA. Intelligenze artificiali e naturali nel diritto, in cui Amedeo Santosuosso e Giovanni Sartori esplorano le implicazioni dell’IA nel contesto giuridico, presentando un panorama che spazia dai sistemi predittivi alle reti neurali fino ai Large Language Models. Ragionando sul volume appena ricordato, Claudio Castelli[17] mette in evidenza come il libro offra una trattazione “ampia e approfondita” del rapporto tra intelligenze artificiali e decisione giuridica, mantenendo un equilibrio tra rigore tecnico e chiarezza espositiva. Castelli sottolinea la distinzione tracciata dagli autori tra decisione “composita” e decisione “complementare”: l’IA “può contribuire al processo decisionale, ne può essere un valido ausilio, ma non è complementare al decisore umano”. Richiama inoltre il nodo della spiegabilità, segnalando che “i sistemi che forniscono le prestazioni più elevate, ovvero le predizioni più accurate, sono più opachi”, con il conseguente rischio di ridurre la trasparenza. Secondo Castelli, Santosuosso e Sartor evidenziano come il ricorso all’IA possa stimolare una riflessione più profonda sull’atto del giudicare, ma ribadiscono che “il centro resta indiscutibilmente l’essere umano”: la formazione del giurista è imprescindibile, perché solo un decisore consapevole può governare l’uso dell’IA senza rinunciare alla propria autonomia critica.
2. Scienza matematica e scientia giuridica. Prove di dialogo
Tornando a Quarteroni, l’autorevole matematico propone dunque un paradigma integrativo dove l’IA, purché a monte caratterizzata dalla “spiegabilità” delle sue conclusioni, diventi un supporto intelligente e non un sostituto, della conoscenza teorica. Nel diritto, ad esempio, l’IA può offrire assistenza nell’analisi di casistica giurisprudenziale o nella previsione di esiti legali, ma non può sostituirsi al giudizio umano, che rimane insostituibile per responsabilità, etica[18] e capacità di spiegazione. La diagnosi di una grave malattia ed i rimedi per fronteggiarla non potranno che essere fatti dal medico, ci dice Quarteroni, ma le sue valutazioni e conclusioni non potranno che svolgersi sulla base di dati, conoscenze e valutazioni che l’IA gli ha fornito e che lo stesso elaborerà, personalizzerà, applicherà al caso concreto con una capacità di successo nell’esito finale grandemente superiore a quella che si sarebbe potuto immaginare “prima”. In questa prospettiva, l’approccio che il Prof. Quarteroni chiama machine learning scientifico – cioè, l’integrazione fra dati e teoria – rappresenta la chiave per una IA al servizio della scienza e della società, e in particolare per un utilizzo giuridicamente sostenibile e trasparente di questi strumenti.
Ho quindi trovato di particolare valore il fatto che il concetto di spiegabilità si ritrova nelle corde dell’accademico matematico e dell’eticista[19] quanto dello scienziato del diritto -Simoncini[20], Comandè[21] - come elemento comune che fonda la “verità” del dato, nascente dall’AI quanto di quello prodotto dall’uomo nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Un concetto comune capace di “giustificare” sia il dato algoritmico che quello giurisprudenziale. Un dato che è nell’essenza stessa della giustizia, ha copertura costituzionale e governa la stessa rule of law. Un dato plurale, dunque, che compare tanto nella “scienza” - che scienza non è - algoritmica che in quella matematica e giuridica e senza il quale la prima e le seconde perdono la loro stessa essenza.
Claudio Castelli ha sostenuto con forza che l’IA debba entrare nel sistema giudiziario, ma senza mai sostituire il giudice. Nella visione proposta, ispirata da una cultura delle garanzie, l’IA può aiutare a prevedere la durata dei processi, a mappare gli orientamenti delle corti, a disincentivare contenziosi pretestuosi. Ma non deve mai essere percepita come un oracolo. La discrezionalità, la personalizzazione del giudizio e l’assunzione della responsabilità sono, per Castelli, insopprimibili. E lo stesso Castelli promuove come “ricetta” per aggiornare le mappe del diritto quella della Rete fra portatori di saperi diversi- giudici avvocati ingegneri scienziati tecnici, filosofi, eticisti-. Sul concetto di fare rete si proverà a tornare nl prosieguo, apparendo centrale per affrontare il tema della “formazione”.
Da qui la centralità della formazione dei giuristi, al tempo stesso strumento idoneo a diffondere in maniera ramificata le conoscenze del nuovo, in modo da costruire nuove professionalità capaci di interagire criticamente con le tecnologie emergenti, ma anche di sfruttarne appieno le potenzialità.
Dunque, IA non come nemico del diritto né come suo destino ineludibile, ma come ricerca del discernimento che la nuova tecnologia trasformativa impone al diritto senza volerlo modificare nei suoi contenuti, semmai rendendolo coerente ad un sistema che ha un significativo bisogno tanto di efficienza che di “effettività” e che, dunque, richiede di essere disciplinato, interpretato e valutato alla luce dei princìpi fondamentali. Una prospettiva, questa, che non intende amputare la giurisdizione dal proprio ruolo di elemento pensante e portante del sistema giustizia, ma che ne fa al tempo stesso uno dei soggetti maggiormente responsabili, unitamente agli altri attori istituzionali, della tenuta della democrazia e dello Stato di diritto.
Si deve poi ad Antoine Garapon una lucida riflessione[22] sulla spasmodica ricerca, tutta del tempo presente, di una certezza “nel” diritto che, ormai impossibile da ricercare nell’ambito del tessuto normativo, si immagina finalmente possibile attraverso la sostituzione dell’algoritmo al linguaggio che “per le sue caratteristiche intrinseche, contrasta con il non spazio del calcolo”[23].
2.1. AI e verità
Sono queste le ragioni che hanno dunque portato all’affermazione di un paradigma che tende a sostituire la decisione giudiziaria, fondata sulla razionalità e sull’argomentazione, con un calcolo algoritmico basato su indicatori numerici. Questa “despazializzazione” della giustizia, osserva Garapon, trasforma il giudizio in un procedimento tecnico, strutturato in passaggi di misurazione e sistematizzazione dei dati, spesso opachi e accessibili solo agli esperti, annullando “il momento di interpretazione del diritto, che richiede a volte di rinvenire quale fosse l’intenzione del legislatore e la finalità perseguita” [24]. Il risultato è un sapere “esoterico” e poco contestabile, in cui la logica formale copre e cristallizza le premesse valoriali preesistenti che hanno dato forma all’algoritmo.
Esempi come il software COMPAS, usato in alcuni Stati USA per valutare la probabilità di recidiva, mostrano come il giudizio si riduca a un conteggio di punti pro/contro, spostando l’attenzione dalla valutazione del fatto passato alla prevenzione di rischi futuri. Questo rischia di modificare il ruolo del giudice, privilegiando competenze di risk assessment rispetto alla conoscenza giuridica, e favorendo processi di standardizzazione simili al “tipo normativo d’autore”. Più in generale, la digitalizzazione ha contribuito a una rivoluzione culturale che ha indebolito lo spazio fisico come riferimento della vita civile, marginalizzato il momento politico nella produzione normativa e spersonalizzato l’amministrazione della giustizia, esaltando la tecnica come soluzione rassicurante alle ansie sociali. Siamo dunque al tramonto della figura di giudice dubbioso, alla ricerca della soluzione adeguata al caso al termine di un percorso complicato, incerto, di ricerca della verità? L’AI risponde al dubbio finale che assillava il giurista “pre AI” – sarà “davvero vero”? - che si poneva o che si sarebbe dovuto porre - secondo Bobbio[25]? Abbiamo finalmente trovato l’antidoto, con l’uso pur accorto e magari ben addestrato dell’AI nell’ambito della giustizia, la soluzione finale rispetto alle incertezze prodotte da orientamenti ondivaghi della giurisprudenza di legittimità? Abbiamo dunque trovato il rimedio all'incerta nomofilachia con la certezza dell’AI?
Buffa, forse, ma pericolosa quest’ultima provocazione e magari bene accetta a chi con varie rime sollecita e attende l’eliminazione di quella “ambiguità” del vertice più volte stigmatizzata- anche se da altri forse molto più perspicuamente intesa- , pronto magari a cavalcare l’onda dell’AI per depotenziare la funzione giurisdizionale nella sua essenza, a ben vedere messa a repentaglio non già solo per la Cassazione, ma per l’intero sistema di tutela giurisdizionale, ormai solo apparentemente nelle mani dei giudici di merito, sempre più dominato, in realtà della predittività dell’AI.
Il discorso è estremamente delicato e tocca, al fondo, in generale il ruolo della giurisdizione[26] e, in particolare, della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, tutto imbastito su una trama di complessità del diritto sulla quale altre volte abbiamo provato a riflettere[27] e che si pone agli antipodi di un’idea di giurisdizione affidata alla predittività artificiale, quasi che la stagione che si aprirà innanzi al futuro della società sarà e non potrà che essere quella della nomofilachia algoritmica.
Un ragionare, minato già sul nascere dalla consapevolezza che i sistemi di AI generano spesso falsi filoni giurisprudenziali che lo rendono su quel versante assolutamente poco affidabile, aprendo peraltro le porte a questioni di alta complessità in ordine ai profili di responsabilità dei soggetti che fruiscono di tali informazioni introiettandole nell’attività giudiziaria. Temi, questi ultimi, rispetto ai quali l’intera comunità dei giuristi non potrà che prospettare i rischi altissimi in termini di credibilità dei ruoli ricoperti. Una posizione, però, che sembrerebbe doversi orientare verso un'opposizione “ragionevole” a ciò che potrebbe snaturare il sistema giudiziario senza chiudersi, invece, alle opportunità di incremento dell’indipendenza che l’AI potrebbe offrire[28]. Un’opposizione netta dovrà orientarsi verso chi pensa all’AI come grimaldello capace di mettere a repentaglio l’essenza stessa della Rule of law, appunto intimamente legata all’umanità della decisione, alla spiegabilità della soluzione adottata, per l’appunto sempre e comunque sagomata in ragione della specificità del caso. Il che, ovviamente, non vuol dire affatto chiudersi nella torre d’avorio, ma semmai offrire anche alla Suprema Corte di cassazione gli strumenti che possano renderne la funzione sempre più orientata verso standard di conoscibilità ed effettività capaci di alimentare quel valore della certezza del diritto dal quale non è dato ormai più prescindere[29].
È dunque questo il contesto che si apre innanzi a chi istituzionalmente ha il compito di “formare” i magistrati su tematiche, come già accennato, variamente conosciute, variamente utilizzate e variamente considerate come utili, pericolose, dannose per il futuro stesso del sistema giustizia. Una responsabilità ancora più elevata se si considera il tema dell’immagine e della forma assunta dalla giurisdizione a seconda del “modello” di AI che si intende ammettere e giustificare.
3. Formazione del giurista nell’era dell’intelligenza artificiale. Un nuovo alfabeto fra contenuti innovativi e modelli di formazione giudiziaria.
L'integrazione dell'intelligenza artificiale nel sistema giuridico non è più una prospettiva futura, ma una necessità avvertita come presente.
Tuttavia, perché questa transizione sia effettiva e rispettosa dei valori fondamentali dello Stato di diritto, il giurista deve dotarsi di nuovi strumenti, sia concettuali che pratici, aprendosi ad una serie di sfide.
Tra questa, la prima, particolarmente rilevante guardando al settore giustizia, è quella del “divario generazionale”. Scrive Violante[30]: “While the digital world often remains inaccessible to older generations, digital technology is often misused by younger generations. Education, however, can help seniors learn basic digital skills and teach young people to use digital technology responsibly”. Questo, peraltro, non significa orientare gli sforzi verso la creazione di una nuova professionalità di giudice informatico, ma semplicemente diffondere un nuovo alfabeto in modo da rendere il giurista capace di dialogare con l'intelligenza artificiale senza subirla.
Pochi sono fin qui i contributi sul “come” organizzare questa formazione che, occorre chiarire fin dall’inizio, coinvolge i fenomeni della digitalizzazione e quelli dell’AI in una prospettiva di complementarità che, tuttavia, occorre tenere ben distinti.
La digitalizzazione consiste nella trasformazione delle procedure e degli atti in formato digitale, con strumenti come il fascicolo telematico, le notifiche elettroniche o le banche dati giurisprudenziali. Tema che, particolarmente approfondito ormai da tempo sul piano interno, ha notevole impatto sulle relazioni fra ordinamenti nazionali diversi e che è orientato a realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro senza incidere sulla funzione di giudicare.
L’intelligenza artificiale, invece, non si limita a gestire dati, ma li interpreta e li elabora attraverso algoritmi capaci di influenzare il processo nel quale si forma la decisione giudiziaria, secondo gradi e forme variabili che giungono ai sistemi di giustizia predittiva e coinvolgono i software di valutazione del rischio.
Sul primo versante, quello della digitalizzazione, la complessità sul piano formativo è forse più limitata per due ordini di ragioni. Per un verso, infatti, ci si muove su territori prevalentemente normati a livello legislativo – interno e di diritto UE - o regolamentati attraverso strumenti nazionali o sovranazionali. E sul campo la diffusione di tali conoscenze è già in atto spedita, progressiva e costante[31].
Decisamente diverso appare il discorso sull’IA.
La diversità nasce dall’assenza, a monte, di un quadro normativo definito sul tema dell’AI e sulle regole di approccio relative al come, con chi e con quali scansioni temporali organizzare la formazione dei magistrati.
Questa incertezza si riscontra nel testo del d.d.l. italiano sull’intelligenza artificiale - S. 1146 "Disposizioni e deleghe al Governo in materia di intelligenza artificiale" - approvato in seconda lettura al Senato il 25 giugno 2025 e al vaglio della Camera.
Rileva, per quel che qui interessa, l’art.14, c.4, a cui tenore “Il Ministro della giustizia, nell'elaborazione delle linee programmatiche sulla formazione dei magistrati di cui all'articolo 12, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, promuove attività didattiche sul tema dell'intelligenza artificiale e sugli impieghi dei sistemi di intelligenza artificiale nell'attività giudiziaria, finalizzate alla formazione digitale di base e avanzata, all'acquisizione e alla condivisione di competenze digitali, nonché alla sensibilizzazione sui benefici e rischi, anche nel quadro regolatorio di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo. Per le medesime finalità di cui al primo periodo, il Ministro cura altresì la formazione del personale amministrativo.”
Il testo normativo in discussione ha, responsabilmente, cura di distinguere la formazione dei magistrati da quella del personale amministrativo. Quanto alla prima, che qui ha più rilievo, usa il verbo promuovere.
Basta scorrere il vocabolario Treccani per cogliere le diverse, ma comunque affini, portate di senso del sostantivo “promozione” qui attribuito al Ministero della Giustizia, comprese fra il far avanzare, far progredire ed il favorire, dare impulso o più semplicemente proporre, dare l’avvio, dare l’inizio, ma anche sollecitare, spingere, stimolare, fare in modo che qualcosa aumenti d’intensità.
Il riferimento normativo, interno al ricordato art.14, c.4, all’art.12, c.1 lett. a) del d.lgs. n.26/2006 sta, del resto, a significare che la SSM ha piena autonomia nell’individuazione della programmazione didattica, ma al contempo elabora la propria proposta “tenendo conto delle linee programmatiche sulla formazione pervenute dal Consiglio superiore della magistratura e dal Ministro della giustizia”. Una sinergia ed una cooperazione che negli anni si sono rivelate assai fruttuose, muovendosi sul crinale, bidirezionale, dell’autonomia e della collaborazione.
Ma il punto è, come già detto, che il testo del d.d.l. IA non è ancora legge e, dunque, che le Linee programmatiche sull’IA 2024 del CSM hanno soltanto sfiorato il tema, dichiarando espressamente che “L'utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale come strumento di supporto l'argomento dell'uso del lavoro del settore giudiziario merita un approfondimento, seppure si trovi tuttora in uno stato di sviluppo embrionale.” -pag.9-.
Nello stesso documento “Si suggerisce la creazione di cicli formativi sull'Intelligenza Artificiale nei vari settori dell'ordinamento e, in particolare, sull'I.A. nell'organizzazione giudiziaria e nel lavoro giudiziario, con il coinvolgimento del Consiglio Superiore della Magistratura e della CEPEJ. Si aggiunge, poi, che il possibile percorso formativo dedicato all'Introduzione all'Intelligenza Artificiale dovrebbe mirare a “fornire una base di conoscenza sui principi cardini dell'intelligenza artificiale (IA) e sulle sue applicazioni pratiche in contesti pubblici e privati, al fine di promuovere sessioni di interlocuzione critiche e informate sulle opportunità e rischi offerti dall'utilizzo di tali tecnologie”. Si suggerisce l'adozione della seguente ripartizione di argomenti 1. Introduzione all'intelligenza artificiale: esposizione dei concetti base dell'intelligenza artificiale, dei principali algoritmi e tecnologie; 2. Linee guida nazionali dell'IA e applicazioni quotidiane: rappresentazione della strategia nazionale per l'intelligenza artificiale e delle ulteriori linee guida di indirizzo. Analisi delle principali applicazioni nel mondo pubblico e privato; 3. Etica nell'utilizzo dell'IA: esplorazione dei possibili problemi di carattere etico dell'IA (es. bias nei dati), con esposizione e discussione su casi pratici”.
Sembra dunque opportuno indirizzare i progetti formativi a:
Si tratta di aspetti che riflettono le preoccupazioni, già sopra esposte dalla dottrina e di recente esteriorizzate nel Rapporto dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali (FRA) del 2025[32] e nelle opinioni nn.3 e 6 del 14 dicembre 2020[33], ove sono stati segnalati i rischi sistemici legati alla necessità di garantire un accesso effettivo e consapevole alla giustizia rispetto a controversie in cui vengono in gioco l’uso di sistemi di intelligenza artificiale, i c.d. bias algoritmici, la sorveglianza opaca, le discriminazioni di genere ed etnia, la mancata trasparenza dei processi decisionali automatizzati.
Per tale motivo la protezione dei diritti non può essere rinviata a una verifica a posteriori degli effetti prodotti dalla tecnologia ma deve, piuttosto, essere coessenziale allo sviluppo degli strumenti digitali. Occorre dunque esaminare le principali risposte normative e istituzionali anche a livello sovranazionale, volte a garantire il rispetto dello Stato di diritto anche nell’ambiente digitale e alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
4. La formazione del giurista nell’era dell’intelligenza artificiale
Secondo un sondaggio esposto da un docente inglese ad un corso organizzato dalla SSM per i giovani magistrati europei da poco concluso a Castel Capuano, nel Regno Unito il 73% dei magistrati non usa l’AI nella sua attività ma…il 27% sì!
Si tratta di un dato sul quale riflettere al fine di garantire, da parte della formazione, standard di conoscenza capaci di salvaguardare il canone dell’eguaglianza in favore dell’utenza.
Se la trasformazione digitale e l’ingresso pervasivo dell’intelligenza artificiale nei processi sociali, amministrativi e giurisdizionali pongono interrogativi radicali sul ruolo e sulle competenze del giurista contemporaneo, occorre affrontare consapevolmente questa transizione e dunque “progettare” un modello formativo che, nella cornice delle linee fondamentali già esposte, risponda in modo articolato a tre domande fondamentali: 1.che cosa deve sapere un giurista sull’IA e su quali contenuti vada orientata la formazione[34]; 2. come deve essere formato;3. con quali partner collaborare alla sua formazione.
Questo modello si innesta in modo coerente con l’attuale struttura della formazione dei magistrati italiani, articolata sul piano interno in una formazione (iniziale e permanente) centrale, gestita dalla Scuola Superiore della Magistratura con il fondamentale supporto della formazione decentrata, attraverso i formatori distrettuali[35]. La sinergia tra questi livelli consentirebbe di declinare un’offerta formativa sull’IA che sia allo stesso tempo unitaria nei principi e adattabile alle specificità locali in termini numerici e logistici, capace di combinare teoria e pratica, innovazione e salvaguardia dei valori costituzionali. Il tutto creando vitale e continua sinergia fra le strutture decentrate ed i magistrati MAGRIF-Magistrato di Riferimento per l’Innovazione e l’Informatica- statutariamente chiamati ad intercettare le necessità dell’ufficio giudiziario in tema di informatizzazione, innovazione tecnologica e ad elaborare proposte in collaborazione con i RID (Referenti distrettuali per l’innovazione) e con la dirigenza dei singoli uffici anche per individuare buone prassi.
Ma anche su questo versante è necessario che il progetto formativo offra ai formatori decentrati opportunità di crescita sul piano delle conoscenze in tema di AI e, dunque, investa sul piano della formazione dei formatori in maniera specifica, anche attraverso l’organizzazione di attività formative specifiche (corso HELP, di cui si dirà appresso) direttamente orientate a “formare” chi è chiamato ad organizzare progetti formativi su scale distrettuale.
Sul piano internazionale, per converso, la SSM partecipa con grande dinamismo alla Rete di formazione europea dei magistrati, al cui interno è stato di recente istituito un settore specificamente dedicato alla digitalizzazione della giustizia ed è partner di numerosi progetti internazionali con altre scuole di magistratura e istituzioni universitarie impegnate a vario titolo nella formazione dei magistrati. Luoghi, questi ultimi, nei quali il tema dell’AI è sempre più al centro delle attività di formazione.
I progetti finanziati dalla Commissione europea ai quali ha partecipato con successo la SSM- progetti EnJita 3, Split e Trust AI- possono infatti rafforzare la dimensione comparata e sovranazionale dei contenuti formativi sull’IA, favorendo un allineamento tra standard nazionali ed europei in ambito etico, giuridico e tecnologico e lavorando ancora una volta con un’ottica improntata a “fare rete” in una direzione rivolta a condividere esperienze.
Il giurista nostrano dovrebbe per questo essere messo in condizione di formarsi in prospettiva comparata e globale, per cogliere le dinamiche transnazionali dell’IA e del diritto. In questa prospettiva andrebbe sviluppata la comparazione tra modelli normativi all’avanguardia in materia: USA, Cina[36], Europa (capostipite sul tema della tutela dei diritti fondamentali).
Accanto a questa prospettiva è necessario approfondire gli standard etici e la conoscenza delle linee guida in materia (Commissione Europea, CEPEJ, Consiglio d’Europa).
A titolo meramente esemplificativo, può qui ricordarsi la banca dati Resource Centre on Cyberjustice and AI della CEPEJ[37], ove sono documentati i sistemi di intelligenza artificiale e gli strumenti digitali già utilizzati o in fase di sviluppo nei diversi ordinamenti giudiziari europei, descrivendone caratteristiche tecniche, ambiti di applicazione, soggetti responsabili e stato di avanzamento. La sua utilità per la formazione sembra evidente se si guarda alla possibilità di offrire ai magistrati e agli operatori della giustizia una visione comparata e aggiornata delle tecnologie applicate alla giurisdizione, distinguendo tra esperienze consolidate e sperimentali, in modo da favorire un apprendimento in progress e comparato. Ciò nella prospettiva di assimilazione, da parte dei magistrati, di un complesso intreccio di trasformazioni che non li veda passivi fruitori di sistemi non pienamente conosciuti, ma invece protagonisti principali, capaci di valutare rischi e opportunità dei vari sistemi e promuovere lo scambio di esperienze.
Per altro verso, l’European Cyberjustice Network[38], istituito sempre dalla CEPEJ nel 2021, conferma ancora una volta la necessità di fare rete, non potendosi affrontare la trasformazione digitale della giustizia con una prospettiva domestica. Favorendo lo scambio di esperienze, la circolazione di buone pratiche e il confronto con partner istituzionali e accademici di altri Paesi, l’ECN conferma come solo attraverso la cooperazione multilivello improntata a fiducia reciproca sia possibile sviluppare strumenti realmente efficaci, legittimi e coerenti con i principi comuni dello Stato di diritto. Una formazione dedicata anche alle piattaforme e reti appena ricordate e sviluppate all’interno del CEPEJ si dimostra allora fondamentale per la preparazione del giurista, consentendo non solo di conoscere le tecnologie più avanzate applicate alla giustizia, ma anche di comprendere i contesti europei in cui esse si sviluppano, le reti di cooperazione che ne favoriscono la diffusione e i principi comuni che ne orientano l’uso. Una formazione così non solo tecnica, ma invece capace di far maturare una consapevolezza comparata e multilivello, indispensabile a chi esercita funzioni giurisdizionali in un sistema sempre più interconnesso.
Né di minore valenza appare la “Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi”, adottata dalla CEPEJ nel 2018, ove il giudice è posto al centro del rapporto tra giurisdizione e innovazione tecnologica. Se è indubbio che gli strumenti di IA possano contribuire ad accrescere efficienza e qualità, “è essenziale assicurare che essi non minino le garanzie del diritto di accesso a un giudice e del diritto a un equo processo [...] Essi dovrebbero essere utilizzati anche con il dovuto rispetto per i principi dello stato di diritto e dell’indipendenza dei giudici nel loro processo decisionale” (p. 8).
Questa centralità del giudiziario si riflette anche nell’uso quotidiano delle tecnologie, visto che secondo la Carta “i professionisti della giustizia dovrebbero essere in grado, in qualsiasi momento, di rivedere le decisioni giudiziarie e i dati utilizzati per produrre un risultato e continuare ad avere la possibilità di non essere necessariamente vincolati a esso alla luce delle caratteristiche specifiche di tale caso concreto” (p. 13). Affinché il controllo giudiziario sia effettivo occorre, dunque, un’adeguata formazione, per cui “dovrebbero essere previsti programmi di alfabetizzazione informatica, destinati agli utilizzatori, e dibattiti che coinvolgano i professionisti della giustizia” (p. 13).
Sono queste le ragioni per cui nella Carta etica del 2018 si sottolinea che, lungi dall’essere un mero strumento di efficienza, l’IA deve “rafforzare le garanzie dello stato di diritto, nonché la qualità della giustizia pubblica” (p. 15), in un quadro in cui il giudice resta il garante supremo dei diritti e l’IA un supporto subordinato al rispetto della rule of law.
Proprio in questa prospettiva di respiro non ridotto al piano nazionale, assumono particolare rilevanza le strategie di diffusione della cultura dei diritti fondamentali all’interno del progetto HELP costituito presso il Consiglio d’Europa.
Un esempio significativo di networking formativo è appunto rappresentato dal corso HELP su Intelligenza Artificiale e Diritti Fondamentali, sviluppato dal Consiglio d’Europa[39]. Importare ed utilizzare, con i necessari adattamenti, tale corso nel sistema di formazione giudiziaria italiano significa predisporre un percorso che, pur mantenendo il format generale HELP, sia calibrato sulle esigenze concrete dei magistrati italiani. Questo adattamento non è soltanto contenutistico, ma anche metodologico, poiché la previsione della nomina di un tutor appositamente scelto consente infatti di accompagnare i partecipanti, guidandoli nell’applicazione pratica dei principi e degli strumenti appresi, attraverso un percorso misto, nel quale la struttura generale del corso Help viene arricchita in relazione alla specifica realtà dei partecipanti nazionali.
In tal modo, lo sviluppo in materia di formazione giudiziaria a livello europeo può e deve trovare un punto di raccordo con il sistema nazionale, garantendo non solo il trasferimento di conoscenze, ma anche la loro effettiva integrazione nel contesto giuridico interno.
Ecco, quindi, la “rete” nella quale la SSM potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo di rilievo per la magistratura e per il Paese.
4.1. L’albero della formazione dei magistrati in tema di AI: a) che cosa dovrebbe sapere un giurista?
Ricapitolando e provando a seguire il ragionamento logico che sta alla base di un ideale albero della formazione sull’AI[40], il giurista/magistrato dovrebbe poter acquisire conoscenze su diversi assi tematici, distribuiti tra formazione iniziale e permanente centrale e livello distrettuale.
Quanto alla formazione curata in sede centrale andrebbero sviluppati i seguenti temi:1) quadro normativo di riferimento[41], etica[42] e diritti fondamentali: rischi per l’autonomia decisionale, non discriminazione algoritmica, privacy, trasparenza, controllo umano;2) sistemi di AI e loro comprensione; 3) logica giuridica versus logica computazionale[43]: differenze epistemologiche, limiti della giustizia predittiva, ambiguità e valori;4) modelli comparati e linee guida internazionali. Tali temi andrebbero poi restituiti a livello di formazione decentrata- in sinergia con MAGRIF e RID-, lasciando alle singole formazioni decentrate l’autonomia sull’approfondimento di singoli aspetti affrontati a livello centrale e soprattutto le fasi laboratoriali tese a favorire lo sviluppo e l’apprendimento pratico delle nuove tecnologie, degli strumenti e delle pratiche operative, anche per verificare i rischi dell’uso dell’AI, i bias sistemici e le buone pratiche di uso dell’IA.
Il tutto per rafforzare la cultura dei diritti nel contesto digitale e fornire ai magistrati strumenti critici per valutare la compatibilità costituzionale e convenzionale dell’impiego dell’AI, in una prospettiva di bilanciamento tra innovazione e tutela della persona.
Seguendo questo percorso, la formazione sul piano delle fonti passerà poi, necessariamente, per la verifica dell’integrazione fra fonti sovranazionali e nazionali in materia dovendosi verificare, appena sarà varato in via definitiva il testo normativo interno sull’AI, in che misura gli spazi regolati sul piano domestico si pongano in armonia o in discontinuità con i parametri europei, rappresentati non solo dai Regolamenti citati, ma anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
La formazione andrebbe dunque pensata come un percorso ibrido, esperienziale e progressivo.
Un primo livello -centrale- dovrebbe privilegiare eventi con una didattica integrata e workshop orientati a sviluppare tematiche di taglio etico-normativo, prevedendo eventualmente delle restituzioni a livello decentrato, previa individuazione delle strutture formative capaci di indirizzarsi ad un numero rilevante di magistrati, investite del compito di predisporre, con piena autonomia, i iniziative di restituzione/ripetizione di corsi organizzati a livello centrale, con modulazioni eventualmente peculiari in relazione alle singole realtà territoriali. Il naturale dinamismo che caratterizza le formazioni distrettuali potrebbe così fare rete con le iniziative centrali, sperimentando laboratori pratici, simulazioni processuali con strumenti di IA e riflessioni condivise sull’impatto effettivo dei sistemi nei vari settori della giurisdizione.
Questi due livelli andrebbero realizzati con una didattica integrata che combini teoria, casi studio, laboratori e simulazioni, affiancando un sistema di monitoraggio e valutazione continuativa per verificare l’applicazione delle conoscenze a problemi complessi anche a distanza dai seminari organizzati.
Il sistema di rilevazione utilizzato in ambito EJTN, basato su piattaforme interattive come Mentimeter, potrebbe (e forse dovrebbe) essere agevolmente esportato presso la Scuola Superiore della Magistratura anche per i corsi dedicati all’intelligenza artificiale.
Tale strumento sembra prestarsi in modo equilibrato[44] a testare il grado di conoscenza di nozioni tecniche rispetto alle quali la maggior parte dei magistrati non possiede una formazione di base, consentendo di effettuare una misurazione oggettiva delle competenze iniziali e finali dei partecipanti. Attraverso un questionario somministrato in apertura e in chiusura del corso, composto da domande a risposta multipla o quiz strutturati sugli argomenti trattati, è possibile rilevare da parte degli esperti e relatori in tempo reale il livello di apprendimento, visualizzare i dati in forma aggregata durante la sessione e successivamente esportarli per elaborazioni statistiche che, oltre a calcolare l’incremento medio delle conoscenze, includono la rilevazione delle percentuali di risposte corrette e non corrette sia nel pre-test che nel post-test. L’analisi dei feedback raccolti offrirebbe alla Scuola superiore un patrimonio informativo prezioso per calibrare l’offerta futura e per orientarla in modo sempre più aderente alle esigenze reali della giurisdizione, in coerenza con il suo ruolo di presidio della rule of law. Infatti, in termini più generali, la misurazione dell’offerta formativa deve rappresentare un punto cruciale, poiché un sistema di valutazione quanto più accurato consente di verificare non solo la qualità metodologica e contenutistica dei programmi, ma anche la loro capacità di incidere realmente sulle competenze dei magistrati. La misurazione diventa allora uno strumento per rendere la formazione accountable, pienamente responsabile rispetto agli obiettivi di tutela dei diritti fondamentali e di rafforzamento delle garanzie dello Stato di diritto.
4.2. Segue: b) con chi dovrebbe essere formato il magistrato?
Anche su questo aspetto il modello da seguire dovrebbe procedere con il sistema della rete integrata, in modo da coinvolgere a diversi livelli, giuristi- giudici, avvocati, notai- informatici, filosofi ed eticisti da affiancare ad esperti del settore tecnologico (ingegneri, sviluppatori, data scientist).
A queste professionalità, come già accennato, andrebbero affiancati altri attori istituzionali e regolatori (CSM, Ministero Giustizia, Garante Privacy, Commissione Europea, Ordini professionali, Osservatori della giustizia, OCSCE) insieme agli enti strategici nazionali come -Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) e l'Agenzia per l'Italia Digitale (AgID), con cui sarebbe fondamentale, sulla scia delle prospettive tratteggiate da Castelli, avviare collaborazioni periodiche per integrare nei percorsi formativi comuni temi legati alla sicurezza informatica, alla protezione dei dati, all'interoperabilità dei sistemi e alla qualità dei servizi digitali pubblici, in un'ottica di sinergia tra innovazione tecnologica e tutela giuridica[45].
5. Conclusioni (in progress)
La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa del 2024 sopra richiamata afferma che l’uso dell’IA deve restare pienamente coerente con i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto (art. 1). Per altro verso, le disposizioni su trasparenza, responsabilità, ricorsi effettivi e indipendenza giudiziaria (artt. 4–7) mostrano che senza magistrati adeguatamente formati tali principi rischiano di restare astratti. La formazione giudiziaria diventa, dunque, strumento indispensabile per rendere effettivo lo Stato di diritto di fronte alle sfide poste dall’intelligenza artificiale.
Al termine di questa riflessione sembra davvero confermata la necessità di fornire a chi si impegna nella produzione del diritto e a chi si occupa della sua applicazione gli strumenti intellettuali necessari per mantenere il controllo della situazione in fieri e utilizzare proficuamente gli apporti della intelligenza artificiale[46].
La proposta che pare possibile delineare mettendo insieme i tasselli (tanti) qui sommariamente utilizzati intende offrire una possibile prospettiva metodologica sul piano organizzativo della formazione dei magistrati in tema di AI, volta ad immaginare una vera e propria cabina di regia alimentata dai diversi protagonisti che istituzionalmente hanno a cuore il tema dell’AI nel sistema giustizia che raccolga i contributi di tutti gli attori interessati, valorizzi le esperienze già maturate anche solo in via sperimentale, attivi sinergie con organismi nazionali e sovranazionali mettendo a profitto i progetti internazionali già in corso e quelli da intraprendere, moltiplichi le opportunità di formazione anche in sinergia con l’Avvocatura[47] e favorisca una cooperazione strutturata fra livelli centrali e decentrati delle strutture di formazione della SSM.
Tutto questo in modo che possa procedersi gradualmente e progressivamente ad un sistema formativo che riguardi al contempo i formatori dei formatori ed i magistrati tutti e, in generale, il sistema Giustizia.
Lo sviluppo di un progetto formativo sull’AI dovrebbe dunque fondarsi sull’idea di “fare squadra”, pure suggerita di recente da uno dei massimi studiosi della materia anche sul piano etico[48]. Pensare di poter prescindere da queste forme di dialogo, confronto e cooperazione, interna ed esterna, preferendo fragili personalismi sarebbe al tempo stesso velleitario e scarsamente orientato ad una logica di condivisione delle problematiche molteplici che si aprono innanzi agli operatori ed a chi è chiamato a governare l’eventuale utilizzo dei sistemi di AI nel settore della giustizia.
Questo sembra essere l’(unico) orizzonte solido, al cui interno potere realizzare un luogo di dialogo e di coordinamento in grado di dare credibilità e autorevolezza ad ogni progetto di formazione sul tema che possa risultare effettivo e credibile.
In questo modo la formazione giudiziaria sull’intelligenza artificiale potrà svilupparsi come percorso di alto profilo, capace di coniugare innovazione tecnologica, tutela della rule of law e dei diritti fondamentali, insieme a responsabilità istituzionali degli Enti coinvolti.
Per altro verso, ogni iniziativa di formazione dei magistrati sull’intelligenza artificiale di lungo orizzonte dovrebbe potersi fondare su un quadro normativo definito e integrato che, come si è visto, allo stato è ancora non ben definito, sia quanto alle competenze che ai limiti degli strumenti di AI in ambito giudiziario.
È questo l’elemento di partenza che oggi manca sul piano nazionale, mentre a livello europeo l’orizzonte è stato segnato dal già ricordato Regolamento (UE) 2024/1689, che impone obblighi specifici per i sistemi di IA ad alto rischio. L’assenza di una cornice chiara e definita sul piano delle competenze in materia di formazione dei magistrati e, ancora prima, sulle caratteristiche dei sistemi di AI in ambito giustizia, affiancata all’assenza di una normativa di recepimento del quadro UE suggerisce, dunque, prudenza rispetto a progetti formativi di lungo respiro e, dunque ad oggi difficilmente in grado di orientare la prassi.
C’è ancora tempo, dunque, per mettere a punto una strategia cooperativa diretta ad integrare e meglio orientare le scelte di politica formativa in tema di AI, in modo che l’innovazione tecnologica sia messa al servizio del sistema giustizia e all’interno di una cornice complessiva della programmazione annuale e pluriennale.
[1] L. Violante, Human rights in the digital society, in https://www.pass.va/en/publications/studia-selecta/studia_selecta_07_pass/violante.html.
[2] L. Violante, Diritto e potere nell’era digitale. Cybersociety, cybercommunity, cyberstate, cyberspace: tredici tesi, in Biolaw Journal n.1/2022 ,145 ss.
[3] O. Pollicino, Di cosa parliamo quando parliamo di costituzionalismo digitale?”, in Quaderni Costituzionali n. 3/2023.
[4] Intervista di J. Paoletti a Oreste Pollicino, l’Intelligenza Artificiale e il rischio di un Leviatano chiamato Tecnocrazia, 29 aprile 2025, in https://www.iaic.it/news/oreste-pollicino-lintelligenza-artificiale-e-il-rischio-di-un-leviatano-chiamato-tecnocrazia/
[5] O. Pollicino, Digital Private Powers Exercising Public Functions: The Constitutional Paradox in the Digital Age and its Possible Solutions, https://www.echr.coe.int/documents/d/echr/Intervention_20210415_Pollicino_Rule_of_Law_ENG.
[6] T. Groppi, Alle frontiere dello stato costituzionale: innovazione tecnologica e intelligenza artificiale, in Consultaonline, 28 settembre 2020, 675, spec. 678 e 679.
[7] O. Pollicino, P. Dunn, Intelligenza artificiale e democrazia, Opportunità e rischi di disinformazione e discriminazione, Bocconi University, 2024.
[8] A. Simoncini, Sovranità e potere nell’era digitale, in T. E. Frosini, O. Pollicino, E. Apa, M. Bassini (a cura di), Diritti e libertà in internet, Firenze, 2017, 20.
[9] A. Simoncini, Il linguaggio dell’intelligenza artificiale e la tutela costituzionale dei diritti, in Riv.AIC, 12 aprile 2023.
[10] N. Lipari, Diritto, algoritmo, predittività, in AA.VV., Giocare con altri dadi Giustizia e predittività dell’algoritmo, a cura di V. Mastroiacovo, Torino, 2024, 4 e ss.
[11] Sul punto, v. l’approfondito saggio di S. Dorigo, L'intelligenza artificiale e i suoi usi pratici nel diritto tributario: Amministrazione finanziaria e giudici, in S. Dorigo, R. Cordero Guerra, Fiscalità dell’economia digitale, Pisa, 2022, 192 ss.
[12] G. De Minico, Giustizia e intelligenza artificiale: un equilibrio mutevole”, Rivista AIC – Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 2/2024.
[13] G. De Minico, Un argine è necessario e riguarda il potere politico, Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2025
[14] G. Gallone Riserva di umanità e funzioni amministrative, Milano, 2023.
[15] Così anche R. D’Angiolella, Giustizia e intelligenza artificiale tra l’AI ACT e il disegno di legge italiano. L’insostituibilità del giudice, il metodo e l’argomentazione giuridica, in questa Rivista, 30 luglio 2025.
[16] G. Gallone. op. cit., 42.
[17] C. Castelli, Decidere con l’IA. Intelligenze artificiali e naturali nel diritto. Recensione al libro di A. Santosuosso e G. Sartori, Bologna, (Il Mulino, 2024), in Questionegiustizia. 23 maggio 2025.
[18] V., sul punto, M. Vallone, Spazio virtuale le garanzie di giurisdizione nella resilienza e nella difesa della sicurezza nazionale, Atti del convegno svolto nei giorni 11/12 ottobre 2024 in Roma, Palazzo della Farnesina, Prefazione, 14, in Quaderno della Rivista Trimestrale della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, n.1/2025.
[19] P. Benanti, L’opacità della AI non ha precedenti, ma noi dobbiamo scrutarla, in Corrieredellasera, Sette, 18 luglio 2025. 12
[20] A. Simoncini, Il linguaggio dell’intelligenza artificiale e la tutela costituzionale dei diritti, Riv.AIC, n.2/2023, 12 aprile 2023, 31, a proposito della decisione algoritmica: La comprensibilità deve essere garantita, sia per i cittadini che per il giudice, in tutti gli aspetti: “dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti” (richiamando Cons. Stato, Sez. VI, 8 aprile 2019, n. 2770 n.d.r.)
[21] G. Comandè, Intelligenza artificiale e responsabilità tra "liability" e "accountability". Il carattere trasformativo dell’IA e il problema della responsabilità, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2019, 175 ss.
[22] A. Garapon, Le despazializzazione della giustizia, Milano, 2021.
[23] A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 148.
[24] A. Garapon, La despazializzazione della giustizia, cit., 147.
[25] G. Zabrebelsky, Il dubbio e il dialogo. Il labirinto di Norberto Bobbio, Torino, 2024, 62.
[26] Nella Prefazione a Il ragionamento giuridico nell’era dell’intelligenza artificiale (AA.VV., a cura di S. Dorigo, Pisa 2020), il curatore del volume sottolinea come l’attività giurisdizionale non possa essere surrogata dall’automazione, poiché “l’interpretazione e l’applicazione delle norme giuridiche è da sempre un fenomeno umano: e questo perché le norme non sono mai chiare e quindi è sempre richiesto un quid pluris intellettuale per portarle ad esecuzione” -XVI-. Proprio l’ingresso dei sistemi intelligenti nei processi decisionali impone di chiarire se essi possano davvero supportare il ragionamento giuridico o se ne alterino “in modo decisivo il modo di essere” (ib.). Nello stesso volume, R. Köche, L’intelligenza artificiale a servizio della fiscalità: il sistema brasiliano di selezione doganale attraverso l’apprendimento automatico (SISAM) osserva che le decisioni della macchina non sono fondate soltanto su parametri giuridici, ma anche su criteri “politici ed economici” e che, pertanto, “la sua adeguatezza deve essere valutata sulla base di criteri di legittimità giuridica – altrimenti si supererebbero i limiti democratici” (P.340). In quest’ottica, il ruolo del giudice rimane imprescindibile: spetta a lui verificare la conformità delle scelte automatizzate ai parametri costituzionali e garantire che il controllo fiscale o amministrativo sia guidato dal rispetto della legge, “come ci si aspetta in uno Stato di Diritto” (P.342). L’autore mette in guardia, infine, rispetto all’illusione che l’intelligenza artificiale possa esaurire il compito ermeneutico: “esiste tuttavia una dimensione ermeneutica non trasponibile per l’intelligenza artificiale, una sorta di insufficienza semantica del processo decisionale” (p.342). Ne deriva che la giurisdizione non può essere ridotta a un calcolo probabilistico, e che la funzione del giudice – adeguatamente formato per comprendere opportunità e limiti degli strumenti tecnologici – resta centrale per salvaguardare il senso stesso del diritto nell’era digitale.
[27] V., volendo, R. Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni, in Consultaonline, 7 dicembre 2015; id., La Corte di cassazione e la sua funzione, in questa Rivista, 17 novembre 2018; id., Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in questa Rivista, 4 marzo 2021; id., La funzione nomofilattica delle Sezioni Unite civili vista dall’interno (con uno sguardo all’esterno), in questa Rivista, 11 gennaio 2024. V., ancora, Intervista di R.Conti a R. Rordorf, G. Luccioli, E. Lupo e G. Canzio sul tema “Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, in questa Rivista, 19 giugno 2019.
[28] Cfr. V. Montani, Logica umana e applicazioni della razionalità artificiale. Intervista al Prof. Angelo Costanzo, in DIMT, https://www.dimt.it/news/logica-umana-e-applicazioni-della-razionalità-artificiale-intervista-al-prof-angelo-costanzo/: “l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, nelle sue varie forme e graduazioni, può influire positivamente sull’imparzialità del giudicante perché può ampliare il novero dei dati e delle prospettive da utilizzare per la decisione. Ma comporta anche il rischio di frenare, inibire, deviare o cristallizzare l’immaginazione logica e l’immaginazione etica che sono le sorgenti della imparzialità, intesa nel suo senso più pregnante di apertura – emancipati da pregiudiziali autolimitazioni intellettuali − alle diverse ragionevoli interpretazioni dei dati normativi e alle diverse non implausibili ricostruzioni dei fatti… La razionalità artificiale non è in grado di sostituire il giurista ma può aiutarlo quando tratta una quantità di dati superiore a quelli che un individuo umano può gestire.”
[29] V., sul punto, G. Amoroso, Riflessioni in tema di diritto vivente e intelligenza artificiale e di D. Micheletti, Algoritmi nomofilattici a confronto: ufficio del massimario vs. intelligenza artificiale, entrambi in AA.VV., Giocare con altri dadi Giustizia e predittività dell’algoritmo, a cura di V. Mastroiacovo, Torino, 2024, rispettivamente pagg.176 e 185.
[30] L. Violante, Human rights in the digital society, cit., sub arg.n.4.
[31] Si veda, sul punto, F. Di Vizio, Il ruolo della SSM nella formazione digitale dei magistrati e le prospettive di utilizzo dell’IA nell’attività giudiziaria. Relazione all’incontro annuale del CSM con i RID, Roma, Palazzo Bachelet, 5 giugno 2025, a quanto consta, inedito.
[32] https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/fra-2025-fundamental-rights-report-2025_en.pdf
[33] https://fra.europa.eu/sites/default/files/fra_uploads/fra-2020-artificial-intelligence_en.pdf
[34] In questa direzione si muove, a titolo meramente esemplificativo, la struttura della Formazione presso la Corte di Cassazione, promotrice di una iniziativa, calendata per il prossimo 30 settembre, sul tema della rilevanza dell’AI sull’attività giurisdizionale di merito e di legittimità- Gli strumenti dell'intelligenza artificiale e l'attività giudiziaria, in https: //www.cortedicassazione.it/page/it/gli_strumenti_dellintelligenza_artificiale_e_lattivita_giudiziaria?contentId=EVN46203.
[35] L’esperienza dimostra che proprio dalle sedi decentrate si siano sviluppate esperienze poi proiettate ed ampliata alla dimensione nazionale. Di recente, la formazione decentrata presso la Corte di appello di Cagliari ha organizzato un corso su Diritto e neuroscienze -31 marzo 2 aprile 2025, per cui v. il sito della SSM, parte materiali multimediali -. Tra queste, quella in corso a Catania sull’uso dell’intelligenza artificiale in ambito giudiziario si fonda su una serie di progetti sperimentali che vedono coinvolti diversi partner istituzionali. In tale contesto il Tribunale di Catania ha avviato con il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (CINI) una sperimentazione rivolta alla sezione civile-imprese, con l’obiettivo di applicare strumenti di analisi automatica e classificazione degli atti-v. B. L. Mazzei, Tribunale di Catania e Consorzio Cini per l’uso dell’AI nella giustizia, in Ilsole24ore, 26 maggio 2025, in https://www.ilsole24ore.com/art/tribunale-catania-e-consorzio-cini-l-uso-dell-ia-giustizia-AHCr05u?refresh_ce-. Parallelamente l’Università di Catania, insieme a diverse facoltà, partecipa al progetto nazionale del Ministero della Giustizia JUST-SMART, finalizzato a sviluppare modelli e strumenti digitali per migliorare l’organizzazione del lavoro giudiziario, la calendarizzazione delle udienze ed il monitoraggio dei carichi-v. https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/upp_dettaglio_macroarea_6#-. Ancora una volta, alla base di queste esperienze c’è l’idea di fare rete per costruire un solido scambio di esperienze tra tribunali, università e centri di ricerca, orientati in modo cooperativo ad integrare innovazione ed esigenze di migliore efficienza del sistema giudiziario, in coerenza con la rule of law.
[36] V. L. Violante, Diritto e potere nell’era digitale. Cybersociety, cybercommunity, cyberstate, cyberspace: tredici tesi, cit.: “Un esempio di Cyberstate è la Cina, il cui modello dovrebbe essere analizzato per individuare i rischi che la democrazia corre nel Cyberspace. Nel 2017 il Governo cinese ha pubblicato il “Piano di sviluppo dell'IA di nuova generazione per il 2030”, finalizzato ad assumere la leadership mondiale nel campo dell’AI entro il 2030. In questo documento, il governo cinese affermava che conquistare la posizione leader nella tecnologia dell’IA era fondamentale per affermare la posizione militare ed economica della Cina nel mondo. L’obiettivo, esposto nel documento, è incorporare nell'IA tutti gli aspetti della vita privata e pubblica, dell'industria, del commercio, della difesa e della sicurezza. La Cina ha usato l’AI per la competizione globale facendo leva soprattutto sull’enorme quantità di dati che i cittadini cinesi generano sia online che offline, alla luce del fatto che la società cinese si basa su Internet e sull’uso del cellulare per qualunque transazione, sia per acquisti online sia per dati offline come semplici pagamenti. Il Piano AI identificava 7 aree chiave dell’IA su cui la Cina intendeva esprimere la propria leadership: a) Sistemi di imaging medica per la diagnosi precoce di malattie; b)Intelligenza audio per il riconoscimento vocale; c) Veicoli intelligenti in grado di navigare autonomamente in scenari complessi; d) Traduzione linguistica in scenari multilingua; e) Robot di servizio in grado di sostituire gli esseri umani in settori come l'istruzione, l'assistenza e la pulizia; f) Veicoli aerei senza pilota; g) Riconoscimento delle immagini, comprensione e sintesi di video, con ricerca di immagini specifiche all'interno di un video e l'integrazione uomo-video. La Cina ha impegnato centinaia di miliardi di dollari per il successo di questo piano. I risultati conseguiti: n. 1 al mondo per numero di papers di ricerca e di documenti sull'IA più citati in tutto il mondo; n. 1 al mondo nei brevetti AI; n. 1 al mondo negli investimenti di capitale di rischio dell'IA; n. 2 al mondo per numero di aziende di intelligenza artificiale; n. 2 al mondo per più grande pool di tali enti. Nel 2021, un rapporto della Stanford University indica che i ricercatori cinesi di intelligenza artificiale vengono citati più di tutti gli altri.”
[37] https://www.coe.int/en/web/cepej/resource-centre-on-cyberjustice-and-ai.
[38] https://www.coe.int/en/web/cepej/european-cyberjustice-network.
[39] https://rm.coe.int/artifical-intelligence-course-brief-english/1680b0cfe8
[40] Non è inutile, rispetto alla prospettiva offerta nel paragrafo, il riferimento all’albero di Porfirio operato da A. Costanzo, Dal pre-conscio al diritto artificiale, in questa Rivista, 10 febbraio 2023.
[41] Sui primi aspetti rassegnati nel testo, particolare attenzione andrebbe riservata al Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale (AI Act), che ha introdotto obblighi di impatto sui diritti fondamentali per i sistemi ad alto rischio e al Digital Services Act (DSA), relativo ai doveri delle piattaforme nella rimozione dei contenuti illeciti. Centrale appare, poi, l’analisi della legislazione europea (e della relativa giurisprudenza della Corte di Giustizia UE) sulla disciplina dei dati personali e del loro utilizzo da parte dell’autorità giudiziaria nell’ambito dell’attività decisoria. Particolare attenzione andrebbe poi riservata alla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sull’intelligenza artificiale, i diritti umani, la democrazia e lo Stato di diritto, adottata il 17 maggio 2024 e firmata, a nome dell’Unione Europea, in base alla Decisione (UE) 2024/2218 del Consiglio. Tale Convenzione, prima nel suo genere, si propone come una piattaforma di base contenente un complesso di garanzie minime ed impone che ogni applicazione dell’AI rispetti criteri di trasparenza, tracciabilità, partecipazione, rimedi effettivi e supervisione umana, riaffermando che anche nel contesto tecnologico valgono le garanzie dello Stato di diritto.
[42] L’approfondimento sul piano etico e deontologico che riguarda l’approccio del giudiziario all’AI dovrebbe costituire un ulteriore momento di approfondimento, coinvolgendo l’autogoverno della magistratura (CSM) in una prospettiva volta a stimolare un quadro rispettoso dei diritti fondamentali in campo.
[43] A. Costanzo, Dal pre-conscio al diritto artificiale, cit.
[44] Sembra infatti complesso immaginare, allo stato, forme sicuramente più sofisticate di rilevazione della concreta efficacia dell’attività formativa sui partecipanti, tenuto conto del numero di incontri di formazione organizzati e dell’organizzazione dei seminari anche all’interno del sito della SSM. Sul punto il contenuto del Quaderno n.12 della SSM, Ten years of the Italian School for the Judiciary (2011-2021), in https://ssm-italia.eu/wp-content/uploads/2022/12/Ten-years-of-the-Italian-School-for-theJudiciary.pdf?utm_source=chatgpt.com
[45] Proprio la fluidità di questo scenario spiega l’interesse del volume Assessing the Impact of Artificial Intelligence Systems on Fundamental Rights, che si misura sul terreno ancora in movimento della necessità di garantire un controllo adeguato sui sistemi di IA ad alto rischio. Gli autori non si limitano a sottolineare l’urgenza della questione, ma elaborano una proposta concreta, il FRIAct, vale a dire un modello di Fundamental Rights Impact Assessment concepito per tradurre in pratica le prescrizioni dell’AI Act. Come viene precisato nel volume, «The study is grounded in the obligations set forth by Regulation (EU) 2024/1689, known as the Artificial Intelligence Act (AI Act), which emphasises the necessity of assessing and mitigating risks to fundamental rights», e il FRIAct «is a critical tool mandated by the AI Act for certain high-risk AI systems». Non si tratta, dunque, di un mero esercizio teorico, ma di un tentativo di dare attuazione concreta a un obbligo giuridico, colmando la distanza tra principi costituzionali e operatività quotidiana. Il meccanismo proposto si fonda su una duplice struttura: da un lato, un Questionario qualitativo che raccoglie informazioni sul contesto e sugli obiettivi del sistema di IA, sulle popolazioni interessate e sulle possibili implicazioni etiche e sociali; dall’altro, una Matrix capace di tradurre questi elementi in indicatori semi-quantitativi, valutando l’impatto in termini di gravità e probabilità di violazione dei diritti fondamentali. L’esito è la produzione di FRIAct Scores, utili per orientare gli enti e gli operatori che intendono utilizzare l’IA, consentendo loro di anticipare rischi e adottare adeguate misure di mitigazione. Trasferito nel settore giustizia, un simile schema mette in luce una duplice prospettiva di lavoro. Da una parte, è evidente che non si può parlare di formazione dei magistrati senza avere alle spalle una base normativa chiara e multilivello, che integri fonti interne e sovranazionali e che garantisca la coerenza delle prassi. Dall’altra, diventa indispensabile affiancare ai percorsi formativi momenti stabili di confronto, aperti a istituzioni europee, autorità regolatorie, enti nazionali e internazionali, associazioni e università: solo così la formazione dei magistrati potrà crescere non come iniziativa isolata, ma come processo condiviso e integrato.
[46] A. Costanzo, Dal pre-conscio al diritto artificiale , cit.
[47] Importanti le prospettive tracciate dal Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano- A. La Lumia, AI. La UE ha anche bisogno di tecnologie, Ilsole24ore, 22 agosto 2025-.
[48] P. Benanti, L’opacità della AI non ha precedenti, ma noi dobbiamo scrutarla, cit.
Le opinioni espresse sono personali e non impegnano l'Istituzione di appartenenza.
Immagine: Edward Steichen, Rodin, Il Pensiero, 1902, stampa da due negativi.
Il pianoforte e la sua musica sublime, governati dall’autrice senza l’azzardo di manovre imprecise e col gusto raffinato della coerenza ad una trama a tratti energica, delicata e ricca di passaggi teneri ed accurati, sono i protagonisti indiscussi di una storia d’amore e d’amicizia.
In quello spazio indefinito tra il punto in cui vanno in frantumi i sogni e quello in cui nasce il pianto c’è un limbo - ci avvisa Abbadessa - in cui l’irruzione di un’amicizia può ridare linfa ed entusiasmo al grigiore e alla solitudine esistenziale, grazie a quell’onestà vicendevolmente protettiva non di rado più feconda dell’amore, condizione turbolenta, quest’ultima, e intimamente contraddittoria per sua stessa natura. Tra le due donne, Franca, pianista accompagnatrice, e Cristiana, talento indiscusso e di sicuro successo in àmbito di danza classica, s’insinua Carlo, fascinoso e colto professore appassionato di musica. Ed è proprio in questa leggiadra competizione tra donne, entrambe attratte dall’uomo, dipinta dalla scrittrice con l’incanto di una sognatrice ad occhi aperti, che si coglie il messaggio di egemonia sentimentale dell’amicizia, capace quest’ultima di ergersi come forza sovrastante, pronta a sublimarsi in una sopravvivenza vincente e convincente sull’amore.
Una scrittura accorta, a momenti musicale come le sue citazioni, che disegna frammenti di un’esistenza in fondo appartenente a tutti e che nel confronto - nell’attrito - tra ragione e sentimento coglie il senso profondo dell’amicizia.
Emanuela E. Abbadessa, La suggeritrice, Neri Pozza, 2024.
Recensione di «Arringhe» (De Frede editore, Napoli, 2025) dell’avvocato Gaetano Iannotta
1. La retorica forense è la disciplina teorica e metodologica che studia i principi, le tecniche e le strutture dell'argomentazione giuridica persuasiva, l'organizzazione del discorso e l'uso delle figure retoriche sulla base della retorica classica applicata al diritto. Si ritiene che essa abbia ha avuto origine a Siracusa nel V secolo a.C. in seguito alla fine della tirannia di Trasibulo (465 a.C.), quando si sviluppò una intensa attività giudiziaria per la restituzione di proprietà espropriate ai cittadini. In questo contesto nacque la figura del ῥήτωρ, cioè colui che doveva persuadere le giurie popolari nei processi, e i primi maestri riconosciuti di questa arte furono Corace e Tisia, che teorizzarono l'arte del discorso giudiziario con metodi e manuali pratici.
Nel quadro teorico della retorica giuridica si inserisce l'eloquenza forense, che è una tecnica con finalità legate alle cause giudiziarie. La sua nascita si colloca in ambito greco con la figura di Egesia di Magnesia (circa nel 250 a.C.), che si ispirò all'eloquenza attica e ebbe come modelli di oratori Carisio e Lisia. Nell'antica Roma, l'eloquenza forense trovò un suo sviluppo maturo e sistematico con il processo formulare romano e figure come Cicerone e Quintiliano diventarono esempi di questa arte, che era legata strettamente al diritto e all'oratoria in tribunale e si esercitava in luoghi, come il tribunale romano, strutturati quasi come teatri per l'ascolto pubblico delle arringhe.
Nel corso dei secoli l'eloquenza forense si è adattata ai mutamenti culturali e alle esigenze locali fino ai tempi recenti.
Nell'Ottocento, in Italia, l’eloquenza forense fu studiata in sedi specifiche, come la Scuola di eloquenza pratica legale promossa durante il periodo napoleonico, e coltivata in corsi specializzati come l'Accademia estemporanea di eloquenza forense a Milano per formare i giovani avvocati all'arte oratoria.
Nel Novecento, lo stile dell'eloquenza forense si è trasformato diventando più lineare, sobrio e essenziale, valorizzando la chiarezza e la brevità in linea con i cambiamenti sociali e culturali1.
Per quel che è dato sapere, attualmente nelle Università italiane l’insegnamento all'eloquenza forense e alla retorica giudiziaria è sporadico. Sia in Italia che in Europa, la retorica giudiziaria è spesso oggetto di attività formative nell'ambito dei corsi di giurisprudenza, ma la denominazione specifica di «Cattedra di eloquenza forense» è più rara e solitamente integrata in corsi più ampi di diritto, argomentazione o comunicazione giuridica2.
2. Autore di molteplici studi, che rivelano la pluralità dei suoi interessi, Gaetano Iannotta, come giurista, ha scritto e curato opere sull'eloquenza forense, Inoltre, è fondatore dell'Accademia di Eloquenza Forense e direttore di una collana di studi dedicata a questa materia.
Nel 2019 ha pubblicato uno studio sulla evoluzione di questa arte [L’eloquenza antica. L’oratore eloquente. Tecniche di argomentazione e persuasione nella difesa penale. Difese penali di Enrico de Nicola3], con una attenzione particolare all'eloquenza forense di Enrico De Nicola, che è sato uno dei più grandi oratori giudiziari italiani per la sua straordinaria capacità di esprimere concetti complessi con parole essenziali e senza artifici, valorizzando la brevità e la forza di ragionamento piuttosto che l'emotività o la retorica vuota e così segnando un cambiamento verso uno stile più sobrio e razionale, ispirato alle forme classiche attiche. Nel 2020 ha tracciato un agile quadro della storia della eloquenza forense in Italia e delle sue diverse articolazioni regionali [L’eloquenza forense in Italia» dedicato a Vincenzo Maria Siniscalchi4].
3. Come avvocato, nel recente «Arringhe» [De Frede editore, Napoli, 2025] , Iannotta offre al lettore sette sue arringhe (con esito positivo per gli imputati) che danno piena prova della sua competenza nell’uso delle tecniche di eloquenza forense moderna fondate su uno stile chiaro, conciso, logico e raziocinante, strumenti che soddisfano una esigenza di rapidità, efficacia e sobrietà consone al contesto giudiziario moderno perché funzionali a una comunicazione che sia intensa e dinamica ma non sacrifichi la profondità e l’acutezza del pensiero giuridico.
Si tratta di arringhe pregevoli sviluppate applicando i canoni tecnici più rilevanti della migliore retorica forense contemporanea:
· la brevità e la chiarezza, che si conseguano sintetizzando efficacemente la causa e i fatti principali, evitando giri di parole e artifici inutili
· l’esposizione dei fatti seguendo il loro ordine naturale, che si consegue raccontando gli eventi nell'ordine in cui si sono svolti per mantenere verosimiglianza e comprensibilità
· l’utilizzo di una logica raziocinante, che consiste nell’usare la ragione e le prove per sostenere le argomentazioni, senza affidarsi a espedienti suggestivi o manipolativi
· l’uso mirato delle figure retoriche classiche, che si realizza evitando ripetizioni (epifore e simili), sottrazioni (preterizioni, reticenze), e mascheramenti (antìfrasi) per enfatizzare o creare effetti di persuasione senza appesantire il discorso
· il ricorso a una introduzione efficace e senza artifici, che serve a preparare l’ascoltatore con un preambolo conciso e diretto, senza mirare a attrarne l’attenzione con tecnicismi o eccessi di stile
· l’approdo a una conclusione persuasiva razionale, cioè a una perorazione fondata sulla logica che riassuma e rafforzi i punti effettivamente dimostrati senza puntare su aspetti emotivi.
I testi riguardano una variegata tipologia di casi giudiziari penali: i reati di disastro aereo e lesioni colpose (In difesa del Colonnello Giuseppe Manzini), di traffico di munizioni e armi da guerra (In difesa di Ivan Vettorazzi), di furto e rapina (In difesa di Lorenzo Decasilliati), di bancarotta fraudolenta, evasione e frode fiscale (In difesa di Giorgio Masetti e In difesa di Brenno Caffari), di tentato omicidio (In difesa di Pietro Petriccione) di resistenza a pubblico ufficiale (In difesa del Dottore Giacomo Grande).
Si tratta di processi svoltisi in diverse sedi giudiziarie d’Italia nel periodo che va dal 1997 al 2003 sicché, oltre alle pregevoli soluzioni giuridiche elaborate (e accolte dai giudici), le arringhe offrono degli scorci interessanti, non soltanto dal punto di vista giudiziario, della società italiana degli ultimi decenni.
4. Per altro verso, con la pubblicazione di «Arringhe» l’Avvocato Iannotta fornisce materia per sollecitare l’incremento di un approccio formativo che può risultare proficuo per i giovani avvocati (ma utile anche per i magistrati).
Al riguardo, vale richiamare quello che l‘Autore ha raccomandato in altro suo scritto5:
«Il giovane deve studiare principalmente le orazioni giudiziarie degli oratori più degni di stima sforzandosi di comprendere lo sviluppo delle idee e l’esame della logica che ha seguito l’oratore.
Se il giovane riuscirà a penetrare nel pensiero e nello spirito dell’oratore da imitare, e a vedere le cose alla stessa sua luce, sarà in grado di discernere le virtù oratorie dai suoi difetti, dopo di che ne emulerà l’aspetto migliore.
Difatti, l’oratore deve all’oratore, come nel passato così nel presente; non è facile trovare la strada delle orazioni mai pronunciate!
Non vi è oratore che non sia stato influenzato da un altro (…).
Leggere e rileggere, se da un lato significa arricchire la propria cultura, dall’altro lato significa assimilare il testo, prendere possesso, raggiungere omogeneità stilistica con esso.
Questo tipo di lettura è chiaramente un’operazione creativa, poiché non è solo acquisizione di conoscenza, ma è già quasi un ricreare (…).
Nell’arte non c’è mai imitazione pura e semplice: l’arte è produttiva ed è proprio il foro a rendere ragione di questa produttività. L’arte nel foro diventa allora essenza produttiva naturale per generare una presenza nuova, una presenza diversa che prima ancora di essere rappresentazione è rinascita di un modello ideale.
Ciò che deve essere chiaro è che lo stile dell’eloquenza forense non è il frutto di una scelta, ma, in astratto, degli scopi che l’ordinamento giuridico di un tempo impone al giudice o all’avvocato e dalla naturale vocazione di chi si dedichi a meglio rendere l’una o l’altra esigenza della funzione penale. È dall’incontro tra i vari aspetti di questa e i vari temperamenti degli uomini che traggono origini le distinzioni tra le scuole e gli stili (…).
E allora potrà definirsi arte solo quell’imitazione forense che si snoderà in tre fasi: bravura nel selezionare i grandi oratori per emularne i pregi; capacità di seguire il principio individuationis per ricavarne uno stile personale; abilità di adeguare il proprio stile al sistema penale del tempo in cui si opera».
5. Gli apporti di Iannotta alla eloquenza forense non sono rilevanti soltanto per il loro valore intrinseco ma anche per le ulteriori osservazioni alle quali invitano.
Sarebbe assai interessante ─ ma richiederebbe una competenza estesa, variegata e necessariamente plurisoggettiva ─ approfondire la conoscenza di quali siano i canoni di eloquenza forense nelle varie aree del mondo, così da utilizzare questa materia come prisma per l’interpretazione di diversi fenomeni culturali fra loro interconnessi.
Valga solo l’accenno a alcuni esempi sparsi: l’insistenza sullo stile conciso, chiaro e efficace dell'eloquenza forense in Francia6; la formalizzazione di questa tecnica come insegnamento universitario moderno, ma con un approfondimento particolare circa tradizione antica in Grecia; l’attenzione alla persuasione delle giurie popolari e non solo dei giudici nei sistemi anglosassoni, la mescolanza di tecniche linguistiche forbite e formali, assieme a varianti più colloquiali a seconda del contesto, in Cina; il particolare stile di comunicazione in ambito legale, in Giappone; l’evocazione di principi religiosi, interpretazioni dottrinali e consuetudini locali nei paesi islamici.
Ma a porre questioni nuove e in una dimensione che non può più essere soltanto nazionale sono soprattutto gli sviluppi futuri dell’eloquenza forense ─ soprattutto in un sistema di comunicazione giudiziaria che vira decisamente verso la forma scritta7 più che orale ─ che, in misura attualmente crescente si serve degli strumenti della intelligenza artificiale.
Il contesto odierno mostra un impoverimento dell'uso della retorica e dell'oratoria tradizionale nei processi civili e penali, a causa di vari fattori: la quantità dei processi e l’allungamento della loro durata, la scarsa formazione specifica in materia di retorica, logica, teoria e psicologia dell’argomentazione.
In questa prospettiva la ricerca della coesione nelle argomentazioni e evitare le fallacie sono elementi minimi fondamentali per gli sviluppi futuri della funzionalità dell'eloquenza forense e della retorica giudiziaria.
Infatti, un discorso coeso facilita la sua comprensione e accettazione da parte del giudice, mentre evitare le fallacie logiche rende l'argomentazione più solida e affidabile8. La spinta (normativa e culturale) verso l'essenzialità nei testi difensivi e nelle arringhe orali rende il processo più rapido e efficiente, pur senza sacrificare la qualità della persuasione, che rimane al centro della retorica giudiziaria.
Allora l'eloquenza forense futura sarà legata alla capacità di costruire argomentazioni efficaci perché coese, evitando fallacie e bias cognitivi.
L’educazione retorica moderna dovrà concentrarsi non solo sulle tecniche specifiche ma anche su modelli performativi e dialettici per rendere la formazione professionale più responsabile e mirata, sottolineando il valore di una retorica che non si limiti a esprimere la posizione parte ma faciliti anche un processo fondato sulla ragionevolezza, rendendo la decisione finale più articolata e nutrita dal confronto con argomentazioni ben strutturate.
La retorica giudiziaria futura dovrà guardare al patrimonio della retorica classica come base per la formazione dell’abilità argomentativa e persuasiva, sfruttando metodi come quello casistico e le strutture articolate del discorso (esordio, narrazione, prova, confutazione, perorazione). Questi modelli antichi offrono una piattaforma solida per l'apprendimento e possono essere adattati alle esigenze moderne.
Inoltre, è prevedibile che l’evoluzione della retorica giudiziaria finisca per includere un uso sapiente delle nuove tecnologie, adattando le tecniche oratorie e persuasive ai contesti digitali (processi telematici, presentazioni multimediali, intelligenza artificiale nel supporto argomentativo).
In questo nuovo contesto, l'evoluzione della eloquenza forense dovrebbe procedere verso la massima efficienza comunicativa con un recupero consapevole delle strutture classiche e un crescente rigore logico. Il rapporto con i nuovi strumenti va, quindi, inteso come una sinergia: l’intelligenza artificiale non può sostituire la capacità persuasiva, emotiva e retorica propria dell’eloquenza in tribunale, ma può supportare l’avvocato automatizzando alcuni compiti ripetitivi, aiutandolo a concentrarsi maggiormente sulla costruzione efficace dell’argomentazione e sull’interazione umana.
In definitiva, è necessario formare un giurista forense (avvocato e magistrato) che conosca retorica, neuroscienze, psicologia e logica e sappia usare queste discipline per costruire un discorso persuasivo e deontologicamente appropriato, sicché l’eloquenza forense classica resta insostituibile nelle attività che richiedono giudizio critico, umanità, capacità di persuasione e interazione diretta, elementi che l’intelligenza artificiale non può replicare.

1S.T. Salvi, Avvocati oratori’. Eloquenza forense e trasformazioni di una professione tra Otto e Novecento, in: Historia et ius, Rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna www.historiaetius.eu - 12/2017 - paper 14, pp.1-26.
2Nell'Università di Urbino è attivo il corso di «Argomentazione giuridica e retorica forense» (anno accademico 2024/2025) che tratta in modo approfondito la retorica e le tecniche argomentative usate dai giuristi e dagli avvocati, con un confronto tra antico e moderno. Si studiano l'organizzazione del discorso, gli elementi persuasivi (logos, pathos, ethos), le figure retoriche, le tecniche di coinvolgimento, la comunicazione non verbale e le fallacie argomentative.
L'Università di Siena offre un corso denominato «Retorica forense», che si propone di approfondire la retorica giudiziaria nell'esperienza greca e romana.
L'Università di Messina ha organizzato in passato un corso di eloquenza forense destinato a sviluppare le competenze retoriche specifiche nell'ambito giuridico.
3Enrico De Nicola [1877-1959] è stato un politico e avvocato italiano di grande rilievo storico e culturale e il primo Presidente della Repubblica Italiana.
4Vincenzo Maria Siniscalchi [1931-2024] è stato un avvocato e politico italiano, dotato di eccellenti capacità oratorie.
5G. Iannotta, Sul miglior stile di eloquenza forense, Diritto di difesa, Rivista della dell’Unione della Camere Penali Italiane, 23 novembre 2023.
6m. Garçon, Sull’oratoria forense, prefazione di A. Altavilla, traduzione di G. Crescenzi, Milano 1957.
7G. Sposito, Dalle parole ai fatti. Il futuro scritto dell’oratoria forense, Ciceroniana On Line VI, 2, 2022, pp. 281-289.
8Su questi aspetti sia consentito rinviare a: A.Costanzo–S.Novani, La logica dell’analisi e della sintesi dei dati processuali, Torino, 2025, parte II, cap. 3.
Medesimo potere, medesima funzione o nessuna delle due? Riflessioni sull’annullamento d’ufficio come strumento di tutela (nota a Corte Costituzionale, 26 giugno 2025, n.88)
di Francesco Volpe
Sommario: 1.- Le diverse tesi circa il fondamento del potere di annullamento d’ufficio. 2.- Il dibattito successivo alla riforma portata nel 2005 alla legge generale sul procedimento. 3.- La nozione assunta di potere giuridico. 4.- Impossibilità d’identificare il potere di annullamento d’ufficio con il potere esercitato nel primo grado di azione amministrativa, ove si muova da una concezione di annullamento inteso come figura complessa di carattere ricostruttivo del regime giuridico demolito dall’attività amministrativa. 5.- Impossibilità di identificare il potere di annullamento d’ufficio con il potere esercitato nel primo grado di azione amministrativo, ove si muova da una concezione di annullamento inteso come strumento idoneo a rimuovere la qualità di atto giuridico dal provvedimento annullato. 6.- Esame dell’ipotesi per cui l’annullamento d’ufficio e l’atto annullato sarebbero accomunati da un’identità di funzione. 7.- Le tesi risalenti a favore del carattere vincolato dell’annullamento d’ufficio. 8.- Maggiore ampiezza della funzione esercitata in sede di annullamento d’ufficio rispetto a quella esercitata con l’atto amministrativo di primo grado. Carattere innominato dell’annullamento d’ufficio e impossibilità d’identificare la funzione del medesimo annullamento con la funzione a cui soggiace l’atto da annullare. 9.- L’annullamento d’ufficio come strumento di protezione di interessi privi di tutela giurisdizionale verso i vantaggi competitivi riconosciuti da un provvedimento amministrativo illegittimo per vizio della funzione. Rilievi sulla costituzionalità della disciplina legislativa dell’istituto.
1. Le diverse tesi circa il fondamento del potere di annullamento d’ufficio.
*La sentenza 26 giugno 2025, n. 88, della Corte costituzionale s’interroga sulla possibilità di riferire il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio al caso in cui vengano in rilievo interessi pubblici di particolare consistenza, come sono quelli relativi alla conservazione del patrimonio culturale, escludendo che questo, nel caso concreto, possa sussistere[i].
In questa sede, si prende spunto dalla sentenza per soffermarsi su un suo passaggio che pare interessante da un punto di vista sistematico.
Riferisce, infatti, la pronuncia: «Il riesame del provvedimento, pur mosso da ragioni di legittimità, non costituisce espressione di quel potere già esercitato, bensì di un altro potere riconosciuto in via generale all’amministrazione, quello dell’annullamento d’ufficio».
Viene, in tal modo, ripreso un tema che era assai dibattuto prima della riforma del 2005 alla legge generale sul procedimento, la quale, disciplinando per la prima volta l’istituto, ha esplicitamente previsto il potere delle autorità amministrative di autoannullare i propri atti.
A partire da quella riforma, non è più discutibile, pertanto, che tale potere spetti agli enti pubblici (se mai fosse stato messo in dubbio).
Prima di allora e nel silenzio della legge, invece, se ne cercava un fondamento implicito, che veniva sostenuto sulla scorta di diverse impostazioni.
A suo tempo, Nicola Bassi[ii] ha reso un’accurata ricostruzione del dibattito, riferendo come si siano contrapposti, in materia, due principali schieramenti.
Il primo era quello che riconduceva il potere di annullamento d’ufficio al più generale istituto della c.d. autotutela amministrativa, quale insieme di strumenti che consentirebbero all’amministrazione di attivarsi nell’esercizio di poteri autoritativi, anche quando essi non fossero previsti in modo esplicito dalla legge[iii].
La categoria dell’autotutela, tuttavia, è piuttosto equivoca e raggruppa in sé fenomeni eterogenei, sì che la sua stessa attitudine di giustificare l’esistenza di poteri amministrativi impliciti non è, forse, sempre persuasiva.
In ispecie, se, per autotutela, s’intendesse quella congerie di rimedi che, in determinate circostanze, consentono all’autorità amministrativa di «farsi giustizia da sé»[iv], senza avere la necessità di rivolgersi all’intervento dell’autorità giudiziaria, allora pare lecito ricondurre alla stessa categoria il fenomeno della c.d. esecutorietà degli atti amministrativi, i poteri di polizia demaniale o la possibilità di emettere ingiunzioni di pagamento capaci di valere, di per sé, quale titolo esecutivo, pur senza essere asseverati dal giudice.
Pare meno scontato, invece, che costituisca una vera e propria forma di autotutela (decisoria) l’ipotesi in cui l’amministrazione caduchi un proprio atto, evidentemente sul presupposto che esso possa danneggiarla.
Tanto più appare difficile sostenere tale asserzione, se si considera che il giudice che verrebbe a essere in tal modo sostituito e superato dall’autoannullamento, inteso come forma di autotutela, sarebbe il giudice amministrativo[v].
Davanti a quel giudice, infatti, le pubbliche amministrazioni non possono impugnare i propri provvedimenti[vi]. Nell’autoannullamento, pertanto, non ricorrerebbe nessuno strumento utile a farsi giustizia in sostituzione dell’ordinario rimedio giurisdizionale, perché, a rigore, neppure sussisterebbe l’ipotesi alternativa che si vorrebbe, appunto, superare. Mancando la sostitutività dello strumento, pertanto, non sarebbe neppure possibile parlare di autotutela in senso proprio[vii].
Il secondo schieramento posto a fondamento del potere di autoannullamento, invece, era quello che fondava il potere di annullamento su un’esigenza di tutela degli interessi affidati alle cure della pubblica amministrazione[viii].
A ben vedere, però, anche questa seconda prospettiva non era, forse, del tutto convincente.
La medesima, infatti, pur essendo utile a dimostrare le ragioni dell’atto di secondo grado, non giustificava, in assenza di una norma di legge che lo prevedesse, l’attribuzione del potere.
Adducere inconveniens non est solvere argumentum ed è difficile sostenere che, una volta che la legge abbia affidato un dato interesse alle cure dell’autorità amministrativa, questo debba comportare anche l’attribuzione di tutti gli strumenti necessari a raggiungerlo.
Tanto più questa conclusione sembrava problematica, proprio perché chi sostenne la medesima tesi fu del tutto esplicito nell’affermare che il potere di autoannullamento andrebbe tenuto distinto dal potere esercitato con l’atto di primo grado[ix].
Vi è stata, per la verità, anche una terza impostazione, alla quale lo stesso N. Bassi sembra avere aderito e che, appunto, giustificava l’esistenza del potere di autoannullamento identificandolo nello stesso potere esercitato con l’atto da annullarsi[x].
L’attribuzione del potere di emanare il provvedimento di espropriazione per pubblica utilità implicherebbe, secondo questa tesi, anche l’attribuzione del potere di farlo venire meno. Il potere sarebbe il medesimo, ancorché esercitato in un verso opposto, facendo venire meno tutto ciò che l’atto di primo grado ha costituito.
2. Il dibattito successivo alla riforma portata nel 2005 alla legge generale sul procedimento.
Dopo l’introduzione, nel 2005, dell’art. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241, in ogni caso, il problema del fondamento del potere di autoannullamento è sembrato superato[xi]. Non vi è stata più la necessità di reperirne la fonte, perché il potere di autoannullare gli atti amministrativi, finalmente, è stato positivamente previsto dalla legge.
Che si tratti del medesimo potere, di un potere diverso o di una espressione del principio generale di autotutela, la questione della sua titolarità sembrerebbe essere diventata, in tal modo, secondaria.
Per questi motivi, a partire da quella riforma, il dibattito si è orientato verso altri temi e, più specificamente, verso quelli inerenti all’individuazione dei limiti, funzionali e cronologici, relativi all’esercizio del potere di annullamento di ufficio[xii].
Viceversa, se il problema dell’attribuzione del potere di intervenire in secondo grado è talora riemerso, questo è avvenuto in modo quasi tangente e con riguardo al collegato, ma distinto, tema della c.d. «inesauribilità del potere»[xiii].
In tal senso, però, non si è più discusso circa la norma idonea a conferire il potere di autoannullare e circa l’essenza del potere stesso. L’indagine, piuttosto, si è orientata verso l’esistenza di una diversa norma o di diversi presupposti[xiv] che, a far data da un certo momento, lo possano estinguere.
Oggi, tuttavia, il vecchio problema dell’identificazione del potere di annullamento riemerge nel passaggio che si è citato della sentenza della Corte, la quale è ben ferma nel tenere distinto quel medesimo potere da quello esercitato con l’atto annullato.
Se ne trae, qui, spunto, perché tornare sul tema, sia pure con alcune riflessioni solo impressionistiche, non è forse una mera questione di puntiglio.
In effetti, la definizione di qual sia il potere di annullamento non si limita, forse, ai soli rapporti che corrono tra detta misura e il principio di tipicità dei provvedimenti (così come il problema si era originariamente posto), potendo giustificare alcune conseguenze ulteriori, e sistematiche, persino sul rapporto tra il cittadino e l’autorità.
3. La nozione assunta di potere giuridico.
Per cercare di comprendere se vi sia identità tra il potere di annullamento e il potere esercitato con l’atto da annullarsi, qui si propone, dunque, di seguire un percorso, per così dire, strutturale, muovendo da una preliminare nozione di potere, che s’intende assumere per presupposta.
Si vuole, così, seguirne la definizione classica, quale fu offerta, tra gli altri, da Giovanni Miele[xv], secondo cui il potere è la forza di produrre o di concorrere a produrre effetti giuridici.
Come tale, secondo una prospettiva che già si è cercato di sostenere in altra sede (alla quale si rimanda per gli opportuni richiami di letteratura[xvi]), il potere non è di per sé una situazione giuridica soggettiva[xvii], se per tale s’intende uno strumento di valutazione della conformità o della difformità a legge di un dato comportamento.
Esso, piuttosto, può costituire il contenuto di una situazione giuridica soggettiva (sia essa di libertà, sia essa di doverosità) e si risolve in un giudizio, non tanto di conformità a legge di un comportamento (vale a dire di liceità o di illiceità; di legittimità o di illegittimità), quanto sull’esistenza giuridica del medesimo comportamento.
Il potere, infatti, si esercita con una condotta tipica, che è data dall’atto giuridico. In tanto l’atto giuridico può dirsi esistente in quanto chi lo assume abbia il potere di adottarlo. Viceversa, mancando la forza non può venire a costituirsi l’atto. In assenza della titolarità del potere, il suo esercizio - più correttamente: il simulacro del suo esercizio - si risolve, infatti, in una mera condotta materiale. Detta condotta, quindi, è una mera apparenza di atto giuridico e, di per sé, è incapace di essere fonte di qualsiasi effetto.
Se il potere sussistesse, quella condotta materiale ne costituirebbe la forma (1325 c.c.); in assenza del potere, essa si risolve in una mera modificazione della realtà fenomenica, in quanto tale irrilevante come fonte di modificazione giuridica.
L’atto giuridico, infatti, è, a sua volta, fonte diretta di effetti giuridici (a differenza di quel che in passato veniva definito «fatto giuridico in senso stretto», ma che forse sarebbe più appropriato definire «fattispecie giuridicamente rilevante» o «fattispecie presupposta», che ne è, invece, fonte indiretta, facendo sì che l’atto a cui esso è collegato si attivi nella produzione giuridica[xviii]).
A questi primi rilievi, necessari a impostare le basi da cui ci si muove, può aggiungersi che il potere può assumere varie intensità, secondo il distinto modo con cui la forza che esso esprime è in grado di applicarsi.
Queste diverse intensità non rispondono a canoni di teoria generale del diritto; esse rispondono, piuttosto, a quello che la disciplina di diritto positivo è in grado di escogitare.
Accanto a poteri autoritativi (nel cui canone rientrano anche quelli che danno luogo al provvedimento amministrativo), capaci di imporsi, con i loro effetti, anche sui terzi, indipendentemente dalla loro volontà e nonostante la loro eventuale opposizione, vi sono poteri paritari, in cui la produzione giuridica si verifica solo se due o più distinte forze giuridiche vi collaborino attivamente, in ragione del loro congiunto e coordinato esercizio. In quest’ultima categoria rientra tradizionalmente, dunque, il contratto civilistico o l’accordo di diritto pubblico (art. 11. l. 7 agosto 1990, n. 241).
Ancora, vi sono atti che riescono a produrre effetti unilateralmente sui terzi, ma che si distinguono da quelli autoritativi propriamente detti, perché, pur essendo caratterizzati dalla stessa forza, godono, tuttavia, di un minor valore, cioè di una minore attitudine a resistere alle sollecitazioni a sé esterne. Anch’essi, dunque, sono in grado di produrre i propri effetti indipendentemente dall’assenso dei loro destinatari, ma i medesimi effetti, pur quando si siano già prodotti, possono venir meno se vi si opponga la semplice volontà contraria del loro destinatario (senza che sia necessario l’intervento di una autorità terza - il giudice - che li caduchi).
Così è, nel diritto civile, per il legatario che volesse rinunciare alla relativa istituzione (art. 649 c.c.).
Altrettanto sembra valere, nel diritto amministrativo, per il c.d. atto amministrativo paritetico. La determinazione dell’indennità di esproprio fa sorgere, in capo al suo destinatario, il diritto al pagamento della somma di denaro, secondo l’ammontare stabilito con la medesima. Ma è sufficiente che l’espropriando vi si opponga (sia pure entro i termini di legge), perché la determinazione perda i propri effetti. Prova ne sia che il connesso giudizio di opposizione alla stima, quale si celebra davanti alla Corte d’appello, non riguarda la validità in sé dell’atto di determinazione dell’indennità, ma concerne l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto all’indennità e l’accertamento del suo ammontare (che, in astratto, potrebbe risultare anche inferiore a quello precedentemente determinato dall’autorità amministrativa[xix]).
Questi, peraltro, sono solo alcuni esempi della diversa intensità del potere. Se ne potrebbero, invero, indicare ulteriori categorie (si pensi, ad esempio, all’aggiudicazione di un appalto, che non produce effetti, se impugnata, fino alla trattazione della domanda cautelare o al caso, non del tutto equiparabile, in cui la contestazione giurisdizionale di un certo atto - come avviene per le sanzioni disciplinari dei Consigli di disciplina forensi o degli Ordini delle professioni sanitarie o, nei giudizi di responsabilità, per le sentenze di condanna in primo grado della Corte dei conti - non produce effetti in pendenza dell’impugnazione).
In un certo senso, la diversa intensità del potere dipende dalla fantasia del legislatore, che può descriverla come gli sembra più congruo.
Il legislatore, tuttavia, non può modificare la nozione di potere in sé, perché, questa sì, è una categoria propria della teoria generale e che, in quanto tale, dal diritto positivo è presupposta. Essa raggruppa, quindi, tutte le forze giuridiche, indipendentemente dalla loro diversa intensità.
Resta così un ultimo aspetto da indicare, in questa estrema sintesi, per definire la nozione di potere giuridico che s’intende seguire. Vale a dire il modo con cui sia possibile distinguere un potere da un altro.
Se, tuttavia, si assume che il potere è la forza di produrre effetti giuridici, la soluzione è scontata: le forze si differenziano tra di loro in ragione dei diversi effetti che esse sono in grado di produrre.
Il potere correlato al provvedimento di espropriazione per pubblica utilità, pertanto, s’identifica perché il suo esercizio comporta la perdita del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) in capo a un dato soggetto e perché ne comporta il trasferimento ad altri; il potere esercitato con il permesso di costruire s’identifica perché esso attribuisce in capo a taluno lo ius aedificandi[xx]; il potere a cui riferisce la licenza di porto d’arma si distingue perché esso riconosce a chi ne sia destinatario il diritto soggettivo di tenere con sé un’arma anche nei luoghi pubblici.
4. Impossibilità d’identificare il potere di annullamento d’ufficio con il potere esercitato nel primo grado di azione amministrativa, ove si muova da una concezione di annullamento inteso come figura complessa di carattere ricostruttivo del regime giuridico demolito dall’attività amministrativa.
Date queste premesse, si può, a questo punto, verificare se il provvedimento di espropriazione sia lo stesso potere che viene esercitato quando quell’espropriazione venga autoannullata.
A giudizio di chi scrive - in sostanziale accordo con quanto evidenziato dalla Corte costituzionale - la risposta non può che essere negativa.
Naturalmente, anche al fine di giustificare tale asserzione, occorre stabilire delle (ulteriori) premesse e indicare che cosa si debba intendere per annullamento.
È noto che, secondo la teoria comunemente accettata, l’annullamento costituirebbe una sorta di ammissione reale di carattere negativo.
L’annullamento sarebbe, appunto, reale perché non inerirebbe a un soggetto, ma a una cosa: l’atto giuridico da annullare.
L’annullamento sarebbe per di più una ammissione negativa, perché esso (anziché fare acquistare) farebbe perdere al suo oggetto (vale a dire, l’atto giuridico), una qualità (o una rilevanza) giuridica.
Per effetto dell’annullamento, l’atto annullato perderebbe, dunque, la qualità stessa di atto e quindi di fonte diretta di effetti giuridici[xxi]. Un tanto, per di più, avverrebbe con conseguenze retroattive, sicché si dovrebbe dire dell’atto, una volta annullato, che esso non è mai esistito.
La caducazione degli effetti prodotti da quell’atto sarebbe, così, una conseguenza indiretta di tale operazione. Se, infatti, a causa dell’annullamento, si dovesse ritenere l’atto come non mai esistito, esso non potrebbe aver prodotto alcun effetto giuridico neppure per il passato.
Si ritiene, però, che detta nozione di annullamento non possa essere accettata.
A renderla problematica, infatti, è proprio quel carattere di retroattività che essa implica.
Anzi, per essere più precisi, è proprio il concetto stesso di retroattività a risultare ambiguo.
Come è stato, in un certo qual modo, già notato in letteratura[xxii], infatti, il concetto di retroattività è metaforico e, per quanto pare doversi sostenere in questa sede, non può essere concepito alla stregua di una vera produzione di effetti giuridici nel passato.
Non che tale produzione non sia concepibile, in una realtà (quale è quella del mondo del diritto) solo razionalistica e puro frutto della mente umana[xxiii]. In quanto tale, la ragione ben può concepire, che, in un mondo di fantasia, si possano alterare anche i fatti del passato.
Il punto è che quel mondo di fantasia, che è appunto il diritto, vale a regolare condotte umane, perché solo questo, a ben vedere, è lo scopo applicativo dell’intero sistema giuridico.
E le condotte umane, a loro volta, non si muovono che in un verso: dal presente verso il futuro, qualunque sia il significato proprio di tempo, di presente e di futuro[xxiv].
Pertanto, se davvero l’annullamento dell’espropriazione per pubblica utilità dovesse restituire il diritto di proprietà anche per il passato (sia pure attraverso il meccanismo del venir meno della rilevanza, propria dell’atto annullato, di fonte diretta di effetti giuridici), si dovrebbe concepire, allora, che davvero il soggetto che abbia subito la medesima espropriazione, una volta reintegrato nel suo diritto, potrebbe tornare indietro nel passato e goderne.
Perché questo è il diritto di proprietà nella sua essenza (come ogni altro diritto soggettivo in senso proprio). Esso è un diritto di godimento, una libertas agendi, che si attua primariamente attraverso facoltà, vale a dire attraverso comportamenti materiali[xxv].
Ma se questa è l’essenza del diritto soggettivo, allora non è possibile sostenere che l’annullamento dell’espropriazione ne restituisca la titolarità nel passato, perché in praeteritu non vivitur. L’uomo non può più godere, in quel passato ormai irrimediabilmente trascorso, del bene e del diritto sacrificati dal provvedimento amministrativo (quando pure quest’ultimo sia stato annullato).
Né ha senso avanzare che il diritto verrebbe restituito dall’annullamento per il passato alla stregua di una mera potenzialità, quasi a significare che, se il destinatario del provvedimento annullato fosse davvero in grado di tornare indietro nel tempo, allora egli potrebbe effettivamente godere del diritto ripristinato.
L’irrealizzabilità di questa prospettiva rende non praticabile anche questa ipotesi, cosicché sembra più economico affermare che chi è stato espropriato e veda poi annullato il relativo provvedimento non ottiene l’effettiva restituzione del diritto per il tempo che è stato.
Cosa intendiamo sostenere, pertanto, quando diciamo che l’annullamento sarebbe retroattivo?
Sembra, a parere di chi scrive, che questo sia un modo sintetico, ma metaforico, per affermare che, una volta pronunciato l’annullamento (e da quel momento in poi), chi è stato destinatario degli effetti di un determinato provvedimento amministrativo si debba trovare nella stessa situazione giuridica in cui egli si sarebbe trovato se il provvedimento caducato non fosse stato mai emanato.
Il che si risolve in un duplice effetto dell’annullamento: per il futuro (avendo sempre a mente l’esempio dell’annullamento dell’espropriazione), la proprietà viene, effettivamente e giuridicamente, restituita (sì che all’«espropriato-annullato» è consentito di tornare a godere del bene).
Quanto al passato, invece, vengono riconosciute quelle medesime situazioni giuridiche soggettive che oggi spetterebbero a chi ha subito l’espropriazione se egli non fosse mai stato espropriato e, tra queste, in primo luogo, il diritto soggettivo all’eventuale risarcimento del danno.
Si tratta, dunque, di situazioni giuridiche soggettive diverse da quelle su cui ha inciso il provvedimento di primo grado e, per di più, si tratta di situazioni giuridiche di tipo dipendente, che si definiscono tali perché la loro esistenza trova normalmente titolo nel fatto di essere già titolari di un diritto presupposto.
Nel caso in esame, detto «diritto-titolo» è il medesimo diritto che è stato, appunto, sacrificato dal provvedimento amministrativo di primo grado.
In ragione dell’annullamento, tuttavia, queste situazioni dipendenti trovano un titolo alternativo (ai fini costitutivi della loro esistenza) nell’annullamento stesso (sicché esse, nel processo, vengono definite alla stregua dei diritti patrimoniali consequenziali).
Da tutto questo sembra lecito inferire che gli effetti dell’annullamento sono disomogenei e non unitari.
Quanto agli effetti per il futuro, l’annullamento opera facendo davvero venir meno gli effetti dell’atto annullato (ma non l’atto stesso, la cui esistenza giuridica rimane conservata), sì da restituire il diritto eliminato dall’atto di primo grado.
Quanto al passato, l’annullamento si sostituisce al medesimo diritto estinto dall’atto amministrativo di primo grado (rectius: si sostituisce al fatto di essere titolari del diritto estinto), quale titolo alternativo (ma equipollente) per la produzione del complessivo regime che, rispetto a quel diritto, è normalmente collegato e dipendente, ma che, proprio per questo motivo, se ne distingue.
Se si vuole concordare su questa ricostruzione, è giocoforza riconoscere che il potere esercitato con l’annullamento non può essere lo stesso potere esercitato (sia pure in senso contrario) con l’atto da annullarsi, perché gli effetti che ne derivano sono, almeno parzialmente, diversi.
Se, più in particolare, si può sostenere che vi sia identità di effetti per il futuro (l’annullamento, a tal fine, restituisce il diritto che l’atto annullato ha estinto), altrettanto non può dirsi per i cosiddetti effetti retroattivi, i quali si risolvono nell’attribuzione, nel tempo presente, di situazioni giuridiche diverse da quelle su cui il provvedimento di primo grado ha inciso.
In un certo senso, guardando sempre al passato, l’annullamento non ha carattere demolitivo dell’atto di primo grado.
Esso si risolve, se mai, in una complessa operazione di ricostruzione del regime che, piuttosto, è stato proprio l’atto amministrativo di primo grado a demolire[xxvi].
E, per ragioni di identità strutturale tra le due figure, tale conclusione deve ripetersi anche con riguardo all’annullamento giurisdizionale, con tutto ciò che questo implica, in termini istituzionali, circa l’incidenza della sentenza del giudice amministrativo sulla sfera del Potere Esecutivo.
5. Impossibilità di identificare il potere di annullamento d’ufficio con il potere esercitato nel primo grado di azione amministrativo, ove si muova da una concezione di annullamento inteso come strumento idoneo a rimuovere la qualità di atto giuridico dal provvedimento annullato.
Una analoga conclusione, circa la distinzione tra il potere di annullamento e il potere esercitato con l’atto annullato dovrebbe essere raggiunta, peraltro, anche se s’intendesse seguire la tesi classica e persistere nel sostenere che l’annullamento eliminerebbe una qualità giuridica, rendendo, per il passato, nullo un atto fino a quel momento esistente.
Seguendo tale ipotesi, in effetti, è ancora più semplice negare che sussista identità tra i due poteri, perché essi si dimostrano essere integralmente distinti.
Dire, infatti, che l’annullamento impedisce all’espropriazione di essere considerata tale non equivale a dire che l’annullamento incide direttamente sui diritti dell’espropriato o del beneficiario. Tali diritti, come si è detto, vengono incisi dall’annullamento solo in via indiretta, attraverso la preliminare eliminazione del provvedimento e, più precisamente, della qualità giuridica che lo identifica come tale.
Di contro, è sui diritti dell’espropriato e del beneficiario che si riflette direttamente l’atto di primo grado, il quale, per poter così agire, dà per presupposta la propria esistenza (e quindi la propria rilevanza di atto), sulla quale esso non è in grado di incidere, perché ne costituisce l’espressione e perché non può darsi causa da sé.
La rilevanza giuridica dell’atto (cioè, la sua esistenza), a ben vedere, dipende dalla norma (di relazione) attributiva del potere di emanarlo. Ma altro è attribuire un potere e affermare che con il suo esercizio una determinata condotta vale come atto; altro è considerare le conseguenze giuridiche che dall’esercizio di quel potere derivano. Unificare i due piani equivale a confondere la causa con l’effetto[xxvii].
Anche seguendo questo percorso, pertanto, il potere di annullare l’atto e il potere esercitato con l’atto annullato non potrebbero identificarsi, perché si dovrebbe ugualmente concludere che i due atti producono conseguenze giuridiche totalmente diverse: il primo opererebbe su qualità giuridiche proprie dell’atto che ne è oggetto; il secondo opererebbe, invece, sul regime sostanziale dei suoi destinatari[xxviii].
6. Esame dell’ipotesi per cui l’annullamento d’ufficio e l’atto annullato sarebbero accomunati da un’identità di funzione.
Per quanto fin qui sostenuto, è, a questo punto, possibile ipotizzare che, quando si è affermato (in ossequio al principio del contrarius actus) che i due poteri coinciderebbero, si sia inteso, in realtà, sostenere una cosa piuttosto diversa.
In effetti, la terminologia tecnica (negli studi amministrativistici, in particolare) non è sempre assistita da una fortunata omogeneità, il che rende, talvolta, difficoltoso il dialogo tra chi si occupa della disciplina. Questo, talvolta, rende necessario, come si è ritenuto opportuno operare anche nel presente studio, chiarire preliminarmente a che cosa ci si riferisca, quando si impiegano determinati concetti.
Se, dunque, pare lecito ammettere una sorta di contaminazione terminologica, allora non è azzardato valutare che, quando si parla di identità tra l’annullamento e l’atto annullato, si voglia riferirsi più che al concetto proprio di potere, a quello, distinto eppure non troppo lontano, di funzione.
Vale a dire, allo scopo doveroso a cui quel potere è preordinato e che è definito dalla legge in forma ora del tutto rigida e predeterminata (quando il provvedimento sia integralmente vincolato), ora delegata (ma pur sempre non libera, quando l’atto debba essere preceduto da una qualche forma di discrezionalità, sia nella forma pura, sia nella forma tecnica, il cui risultato, attraverso la figura dell’autolimite, costituisce la funzione del caso concreto)[xxix].
Se si ammette questa ipotesi, il problema dell’identità tra i due provvedimenti si trasferisce dal piano del rispetto del principio di tipicità (che sottintende identità di poteri) a quello del rispetto del principio di nominatività (che sottintende, appunto, identità di funzione).
In questo senso, l’identità tra i due atti si tradurrebbe, altresì, nel considerare che gli stessi (doverosi) interessi affidati alla cura della pubblica amministrazione con il potere di emanare l’atto di primo grado si ripresenterebbero, per tornare a essere presi in considerazione, quando l’autorità amministrativa procedesse ad autoannullarlo.
Così come una espropriazione di pubblica utilità perseguirebbe, se legittima, la funzione di realizzare un’opera pubblica, allo stesso modo l’autoannullamento, eliminando l’espropriazione illegittima, perseguirebbe (in senso contrario) la stessa funzione e gli stessi interessi. In particolare, perseguirebbe lo scopo d’impedire la realizzazione di un’opera pubblica, quando essa non fosse sostenuta dai crismi della legalità e quindi non fosse normativamente giustificata.
Se, pertanto, si accettasse questa diversa prospettiva, sembrerebbero, allora, pertinenti le già riferite impostazioni che collegavano il potere di autoannullamento alla cura degli interessi affidati all’autorità amministrativa e, in un certo senso, anche quelle che riconducevano l’istituto nel fenomeno dell’autotutela.
Ma, vale ribadire, tale adesione viene qui protestata non senza le opportune specificazioni, perché entrambe le tesi contribuiscono a evidenziare i motivi dell’autoannullamento, ma non riescono a dimostrare che a identità di funzione debba corrispondere anche identità di potere esercitato.
7. Le tesi risalenti a favore del carattere vincolato dell’annullamento d’ufficio.
Tuttavia, anche questa conclusione, che sposta l’identità dal potere alla funzione, è forse meno certa di quel che, ad un primo scrutinio, potrebbe sembrare.
Secondo la tradizione, Enrico Guicciardi (il fondatore della scuola a cui ci s’ispira) sosteneva, nelle conversazioni con i suoi allievi diretti[xxx], che il primo e assorbente interesse, di cui l’autorità amministrativa avrebbe dovuto tenere conto in sede di annullamento d’ufficio, sarebbe stato quello del rispetto della legalità della propria azione. Pertanto, egli escludeva che l’autoannullamento potesse essere discrezionale. Se illegittimo, l’atto avrebbe dovuto essere autoannullato, senza tener conto di nessun altro rilievo.
La tesi, peraltro, non era affatto nuova, posto che era stata avanzata, per diretta conseguenza applicativa del principio di legalità, anche da Vincenzo Romanelli[xxxi].
Nella medesima tesi, peraltro, non si deve ravvisare una semplice, e quasi retorica, esaltazione del normativismo. Ad essa sottostanno, forse, ragioni di garanzia indiretta dei privati. Per il momento, però, non si ritiene opportuno approfondire la questione, che verrà, invece, affrontata a breve, giacché essa concorrerà a formare le conclusioni a cui s’intende pervenire.
Per chi seguisse una tale concezione, in ogni caso, non sarebbe difficile affermare che vi sia identità di funzione tra l’atto annullato e l’atto di annullamento.
Poiché non è dato ingresso, al momento della assunzione del provvedimento di secondo grado, ad interessi esogeni rispetto a quelli da considerarsi in occasione dell’emanazione dell’atto di primo grado, le finalità perseguite con entrambi gli atti non potrebbero essere diverse.
Secondo la costruzione di Guicciardi e di Romanelli, non si potrebbe ipotizzare un atto che, ponendo rimedio a una illegittimità già compiuta, sia in grado di esorbitare dalla funzione assegnata all’autorità amministrativa. In effetti, il ripristino della legalità implica di per sé anche il rispetto della norma che detta la funzione del provvedimento e non è concepibile che l’amministrazione che, così intenda agire, se ne possa distaccare.
Per converso, il divieto di autoannullare un provvedimento legittimo sarebbe ugualmente coerente con una concezione identitaria della funzione tra i due atti, giacché, se il provvedimento di primo grado non fosse viziato, esso, per necessità, perseguirebbe correttamente la funzione amministrativa istituzionale, cosicché, a caducarlo, si finirebbe per impedire che la medesima venga correttamente perseguita.
8. Maggiore ampiezza della funzione esercitata in sede di annullamento d’ufficio rispetto a quella esercitata con l’atto amministrativo di primo grado. Carattere innominato dell’annullamento d’ufficio e impossibilità d’identificare la funzione del medesimo annullamento con la funzione a cui soggiace l’atto da annullare.
Già ai tempi in cui E. Guicciardi esponeva queste idee era, tuttavia, prevalente la tesi opposta, favorevole alla discrezionalità dell’autoannullamento[xxxii].
Questa diversa opinione, oggi, non può più essere contestata, perché anch’essa è stata recepita dal diritto positivo il quale, all’art. 21 nonies della legge sul procedimento, stabilisce (come ben si sa) che l’autoannullamento può essere pronunciato solo «sussistendone le ragioni di interesse pubblico» e «tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati».
A circoscrivere il potere di annullare, compaiono, così, diversi interessi privati, potenzialmente contrapposti e, in particolare, quello del destinatario degli effetti favorevoli dell’atto (sì da doversi ravvisare una sorta di tutela dell’affidamento).
Compare, inoltre, un interesse pubblico, il quale non è necessariamente coincidente con l’interesse pubblico primario a cui sovrintende l’atto di primo grado.
Questo interesse, infatti, viene definito pubblico dalla legge perché esso è, genericamente, di utilità per l’autorità amministrativa e non perché esso coincida con la finalità a cui deve rispondere l’atto di primo grado[xxxiii].
Se diversamente fosse, invero, non vi sarebbe la necessità di prevederne la valutazione giacché essa, in un parametro di valutazione della legittimità generale dell’atto di primo grado, dovrebbe essere assunta in re ipsa: un annullamento che non ne tenesse conto sarebbe, infatti, esso stesso invalido per eccesso di potere.
Attraverso la necessità di tenere conto di questi interessi, privati e pubblici, si è, così, compiuta un’implementazione della funzione propria dell’atto di annullamento, che porta a considerare questa medesima funzione più estesa di quella a cui è consegnato il provvedimento di primo grado. Detta funzione, infatti, è il risultato di una valutazione discrezionale, la quale deve considerare una congerie di interessi di per sé non valutabili in primo grado.
Si potrebbe, anzi, rilevare che siffatta estensione della funzione perseguita con l’annullamento è forse fin troppo ampia. Non solo in quella parte in cui si rende necessario tenere conto dei, quasi sempre individuabili, interessi dei privati. Ma soprattutto per quel che attiene alla necessità di tenere conto di interessi pubblici i quali, per il modo generico con cui essi vengono normativamente descritti, potrebbero avere il contenuto più vario e indeterminato[xxxiv].
Di fatto, il potere di annullamento rischia di essere, quindi, un provvedimento che non risponde al principio di nominatività, perché i fini a cui esso sovrintende sono rappresentati da interessi pubblici non puntualmente predeterminati dalla legge o comunque non facilmente ricostruibili sulla sua scorta.
Per tutte queste ragioni, diventa difficile sostenere che, anche sotto il profilo funzionale, si possa parlare di identità tra l’atto di primo e l’atto di secondo grado.
In effetti, l’atto di primo grado potrebbe persino risultare vincolato sotto ogni profilo, cosicché, perché la sua funzione sia correttamente perseguita, l’autorità amministrativa sarebbe tenuta a verificare solo l’esistenza dei presupposti di fatto rigidamente e obiettivamente dettati dalla legge.
Non di meno, nel secondo grado dell’azione amministrativa, l’azione muterebbe e da vincolata diventerebbe discrezionale. Non varrebbe più, dunque, l’ossequio dell’unico fine predeterminato in ogni suo aspetto dalla legge, ma s’imporrebbe una diversa funzione, data dal risultato di una valutazione comparativa tra questo medesimo fine e il generico interesse pubblico a cui l’art. 21 nonies si riferisce.
Pertanto, l’atto di primo grado totalmente vincolato, ove fosse emanato in difetto dei suoi presupposti di legge, potrebbe pur essere disfunzionale. Non di meno, se, in sede di riesame, dovesse prevalere il contrapposto e indeterminato interesse pubblico, esso non sarebbe annullato. Con il che, in definitiva, la stessa azione amministrativa nel suo complesso (quale risulterebbe dalla sommatoria dell’atto di primo grado e della decisione di non autoannullare) si rivelerebbe assunta in difformità dallo scopo per il quale la legge ha attribuito l’originario potere provvedimentale.
A non diverse conclusioni si dovrebbe, peraltro, pervenire quando pure l’atto di primo grado fosse, già in partenza, discrezionale. Ugualmente, in sede di riesame, assumerebbero rilievo interessi pubblici (e privati) diversi da quelli considerati dalla legge in occasione del suo primo intervento di amministrazione attiva, sì che, anche in tal caso, la funzione dell’atto di annullamento risulterebbe più ampia, e comunque distinta, da quella propria dell’atto da annullare.
Per quanto esposto, la funzione in concreto, viene, quindi, a mutare nel secondo grado dell’azione amministrativa.
Ivi, essa è il risultato, necessariamente, di una valutazione discrezionale in senso proprio (e quindi di una valutazione comparativa di interessi) ed è, per di più, il risultato di una valutazione discrezionale diversa da quella prevista ai fini dell’emanazione dell’atto di primo grado, come tale capace d’influenzare in modo altrettanto diverso gli scopi che l’amministrazione è chiamata in concreto a perseguire.
A causa di queste considerazioni, ci si dichiara, dunque, concordi con la sentenza della Corte costituzionale da cui ha preso spunto questo intervento anche per quanto concerne quel suo ulteriore passaggio in cui si dichiara che l’autoannullamento è assoggettato «a regole specifiche, quanto a presupposti, a disciplina procedimentale e a portata della discrezionalità di cui la funzione di autotutela è espressione».
9. L’annullamento d’ufficio come strumento di protezione di interessi privi di tutela giurisdizionale verso i vantaggi competitivi riconosciuti da un provvedimento amministrativo illegittimo per vizio della funzione. Rilievi sulla costituzionalità della disciplina legislativa dell’istituto.
Vi è, a questo punto, motivo per interrogarsi sulle ricadute della conclusione che ha portato a negare la non identità – sia di potere, sia di funzione - tra l’atto di annullamento e l’atto annullato.
A parere di chi scrive, dette conseguenze attengono al profilo delle tutele, perché è con esse (e con il sottostante principio di legalità) che si confronta l’introduzione di un provvedimento amministrativo sostanzialmente innominato, quale è oggi l’annullamento d’ufficio.
Le medesime conseguenze, tuttavia, non si colgono quando il provvedimento di primo grado abbia contenuto sfavorevole per il suo destinatario, per tale intendendosi il provvedimento che miri a demolire un preesistente diritto o, più generalmente, una preesistente situazione di vantaggio (quale è il caso, a cui è stato fatto più volte riferimento, di un provvedimento di esproprio).
In questa ipotesi, in effetti, l’ampliamento della funzione, che è propria dell’autoannullamento, non pregiudicherebbe in nessun modo le sorti di detto soggetto, ma solo per un motivo: perché a costui spetterebbe, comunque, la tutela giurisdizionale. Se, perciò, questa fosse invocata nel termine, l’atto viziato dovrebbe essere, in via di principio, annullato dal giudice in ragione della sua semplice illegittimità e senza tenere conto di emergenti, ulteriori e generici interessi pubblici o privati. L’annullamento giurisdizionale, infatti, non soffre, per sua natura, di alcun ampliamento di funzione.
A diverse conclusioni, invece, si deve pervenire quando il provvedimento di primo grado sia favorevole alle sorti del destinatario, senza che vi sia nessun altro soggetto leso in modo diretto dalla sua emanazione.
L’aspetto su cui s’intende richiamare l’attenzione attiene proprio al carattere diretto con cui un provvedimento favorevole è in grado di danneggiare i terzi.
Per meglio intendersi, il rilascio a favore di Tizio di una concessione di un bene pubblico o il provvedimento di aggiudicazione di un appalto ben potrebbe pregiudicare direttamente Caio, se questi ambisse a ottenere per sé i medesimi provvedimenti.
In questa circostanza, a Caio sarebbe ugualmente riconosciuta la tutela giurisdizionale (perché, non troppo diversamente dal caso dell’espropriazione [xxxv], il provvedimento sarebbe per lui sfavorevole) e il rimedio che l’ordinamento riconoscerebbe non sarebbe confinato nella speranza di ottenere dalla pubblica amministrazione un autoannullamento del provvedimento illegittimo, ma risiederebbe, ancora una volta, nella possibilità di ottenere la caducazione dal giudice sulla base di stretti parametri di legittimità.
Anche in questa ipotesi, pertanto, l’ampliamento della funzione esercitata in occasione dell’atto di riesame non sembra in grado di pregiudicare l’esistenza di una protezione del terzo.
A diverse conclusioni, invece, si deve pervenire quando un provvedimento sia favorevole in termini assoluti; quando, cioè, esso non leda nessun altro soggetto in modo diretto, personale e attuale.
Si pensi, ad esempio, al permesso edilizio con cui si autorizzi la costruzione di un condominio senza che vi sia nessuno che, avanzando questioni di vicinitas, possa dolersene. Allo stesso modo, nel caso in cui fosse rilasciata un’autorizzazione illegittima all’esportazione di un bene vincolato, non vi sarebbe nessun soggetto che, vantando una lesione diretta a un proprio bene della vita, possa contestarlo.
Più in generale, in tutte queste ipotesi (come in altre affini), non vi sarebbe nessuno che avrebbe titolo, interesse e legittimazione per impugnare il provvedimento di cui altri verrebbe a giovarsi. Pertanto, non vi sarebbe neppure nessuno che potrebbe ottenere l’annullamento giurisdizionale dell’atto sulla base di una rigida ed esclusiva applicazione del diritto.
Questo, tuttavia, non significa che dall’emanazione di quel provvedimento favorevole non possano ugualmente emergere delle lesioni a soggetti terzi.
Si tratta, tuttavia, di lesioni indirette e più sfuggenti, alle quali la legge, per ragioni di economia del sistema, non riconosce protezione giurisdizionale, quand’anche esse fossero generate contra legem.
Non di meno, queste lesioni esistono e non possono essere del tutto trascurate.
Come si è ritenuto di sostenere in un precedente studio[xxxvi] - salvi i casi degli esoneri (a proposito dei quali preesiste non già un divieto, ma un dovere di attivarsi positivamente) e quelli delle pseudoautorizzazioni (che, attribuendo al privato un potere civilistico a lui altrimenti non imputabile, non presuppongono un divieto, giacché non ha nessun senso vietare quel che neppure può essere posto in essere) - ogni provvedimento amministrativo favorevole presuppone un divieto generale stabilito dalla legge, rispetto al quale il medesimo provvedimento agisce in deroga e a favore di un singolo e individuato soggetto.
In tanto ha senso concepire un permesso di costruire, in quanto esista un preliminare divieto, stabilito con atto normativo generale, che impedisca a chiunque di edificare; in tanto ha senso autorizzare l’esportazione di un’opera d’arte, in quanto esista un divieto, altrettanto generale, di tenere tale condotta.
In assenza di questo preliminare divieto, non vi sarebbe, di contro, alcun bisogno di un provvedimento che intervenga autorizzando il singolo, perché l’attività sarebbe per tutti, ab origine, lecita.
Ma, se così è, si deve allora riconoscere che il rapporto tra il presupposto divieto legislativo e l’atto amministrativo capace di derogarvi è complesso e che il confine con la possibilità di suscitare posizioni di ingiustificato privilegio è presidiato solo dal rigido rispetto della funzione amministrativa che sottostà al provvedimento favorevole, sul postulato che la disciplina di legge che regola l’emanazione del medesimo provvedimento sia essa stessa giustificata e non irragionevole (art. 3 Cost.).
Se la deroga amministrativa fosse, dunque, assunta in modo legittimo e, soprattutto, in stretto ossequio alla funzione, essa sarebbe giustificata e il danno indiretto (se pure esistente) che subirebbero tutti coloro sui quali continuerebbe a gravare il divieto non potrebbe essere ritenuto meritevole di nessuna tutela, perché esso, per definizione, sarebbe avvenuto secundum ius.
Se, invece, così non fosse e se la deroga a favore del singolo fosse assunta in modo disfunzionale, allora essa si trasformerebbe in un ingiustificato privilegio a favore di quell’unico soggetto autorizzato rispetto a tutti gli altri che al medesimo, e presupposto, divieto generale continuano, invece, a soggiacere.
In questo rilievo, a ben vedere, riposa gran parte della differenza tra uno Stato di diritto e uno Stato assoluto. Il primo si fonda, a parità di condizioni e quindi di ragioni, su un’equivalenza di regime tra tutti i consociati; il secondo, invece, favorisce gli uni rispetto agli altri in ragione dell’arbitrio del principe.
Il privilegio ingiustificato a cui ora si fa cenno, peraltro, non si risolve solo in un’odiosa disparità di trattamento.
Quel soggetto che godesse di un’illegittima autorizzazione amministrativa (o di un altrettanto illegittimo titolo sostitutivo e di c.d. semplificazione) potrebbe, infatti, compiere quello che tutti gli altri soggetti non possono fare (in quanto a loro vietato).
E tutto questo si tradurrebbe, quanto meno, in un’alterazione dei mercati, o, se si preferisce, delle prospettive dei singoli.
In altri termini, quel soggetto illegittimamente autorizzato verrebbe a godere contra legem di un vantaggio competitivo, tale da consentirgli di prevalere, successivamente, su eventuali concorrenti, anche solo futuri o potenziali.
Chi abbia ottenuto illegittimamente il permesso edilizio che gli consentisse la costruzione di un condominio – senza che nessuno abbia titolo per impugnarlo giurisdizionalmente – potrà, con il ricavato della vendita delle varie unità immobiliari, consolidarsi sul mercato e far propri i mezzi, anche economici, per riuscire più facilmente a imporsi anche in successive operazioni immobiliari o commerciali, a scapito dei competitori che dovessero, in quel momento, entrare con lui in contatto.
La lesione verso la generalità (intesa come somma di singoli individui), che verrebbe in tal modo a delinearsi non potrebbe, tuttavia, trovare tutela giurisdizionale, perché essa sarebbe diffusa e indeterminata.
Ne segue che l’unica sede in cui detta protezione può trovare una sorta di, pur minimo, riconoscimento è proprio quella interna alla stessa pubblica amministrazione e nei poteri di riesame che a questa sono riconosciuti[xxxvii].
Si tratta di una tutela minima, se ne conviene, perché essa è affidata a una rivalutazione della medesima autorità amministrativa, tanto nel caso in cui questa agisca d’ufficio, tanto in quello in cui agisca su impulso di un privato[xxxviii].
Pure, questa è l’unica tutela che oggi sussiste, perché anche la prospettiva (peraltro discutibile) che il provvedimento favorevole sia disapplicabile in sede di sindacato del giudice penale è confinata dall’esistenza, nel caso concreto, di una fattispecie penalisticamente rilevante[xxxix] e dai limiti in cui detta disapplicazione può trovare esplicazione, per lo più circoscritti a una sorta di fraudolenta collusione tra il beneficiato e gli amministratori.
Emerge così un ulteriore scopo – forse, effettivamente, lo scopo principale - a cui sovrintende il potere di annullamento d’ufficio.
Esso si pone, invero, come un, pur debole, presidio posto a tutela di quelle lesioni che sono prive di protezione giurisdizionale e che possono gravare sugli individui a causa degli ingiustificati vantaggi che il rilascio di un provvedimento, favorevole e illegittimo, in capo ad altri suscita. Vantaggi che, alterando le pari opportunità dei consociati, finirebbero, in difetto anche di questa tutela, per creare ingiustificate, e del tutto irrimediabili, disparità di trattamento[xl]. Come, peraltro, è già stato notato, l’annullamento d’ufficio, compromettendo l’atto di primo grado, incide sulla stabilità dei mercati: questo è indubbio[xli]. Tuttavia, questa sua attitudine non implica che esso leda o, comunque, non protegga i mercati stessi, la cui stabilità è un valore, a modo suo, relativo, ove essa sia frutto di posizioni indebitamente raggiunte. Se mai, pertanto, l’annullamento d’ufficio può contribuire a proteggere i mercati dalle proprie stesse distonie.
Si devono, così, rivalutare le già riferite opinioni di Romanelli e di Guicciardi, riconoscendo a loro un più profondo valore.
Lo stretto rispetto della legittimità - e di null’altro - che queste impostazioni invocavano risultava posto a tutela, a ben vedere, non tanto di uno sterile formalismo, quanto di interessi che, diversamente, non riuscirebbero a trovare nessuna protezione.
In altri termini, il potere di autoannullamento non deve essere confrontato solo con un generico e multiforme interesse pubblico alla stabilità dell’azione amministrativa o con l’affidamento del destinatario dell’atto annullato, ma anche con le aspettative di tutela dell’indifferenziata generalità dagli ingiustificati vantaggi competitivi attribuiti a un singolo.
Tanto più tali aspettative, peraltro, meritano protezione, perché esse coincidono con la funzione a cui sottostà l’atto amministrativo favorevole, la quale potrebbe risultare tradita, quando esso fosse stato illegittimamente emanato.
Tanto premesso, le conclusioni a cui sembra di doversi pervenire sono, a questo punto, consequenziali.
Una volta ancorato il potere di annullamento d’ufficio a una così ampia valutazione discrezionale, non resta che ammettere che anche questa debole forma di tutela della generalità indifferenziata è sostanzialmente decaduta o che, per lo meno, essa risulta fortemente indebolita.
Il provvedimento di primo grado potrebbe risultare del tutto illegittimo e del tutto irragionevole, ma, se non si riuscisse a superare l’ostacolo dell’innominato interesse pubblico all’annullamento (o quello dei contrapposti interessi privati), il medesimo provvedimento permarrebbe in vita e persisterebbe anche la correlata disparità di trattamento che esso avrebbe suscitato.
Con questo, non si vuole negare che - a fronte di talune illegittimità formali che nel primo grado di amministrazione attiva non siano state in grado d’incidere sul risultato provvedimentale, comunque inevitabile - un annullamento d’ufficio potrebbe risultare incongruo.
Da questo punto di vista, pertanto, l’estensione (art. 63, comma 1, d.l. 31 maggio 2021, n. 77) all’istituto dei limiti stabiliti dall’art. 21 octies, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241, è forse più giustificata di quanto non sia l’applicazione diretta dei medesimi limiti all’annullamento giurisdizionale[xlii].
Ma, almeno nelle ipotesi in cui la ragione d’illegittimità riposi sul vizio della funzione, l’atto di riesame dovrebbe risultare doveroso[xliii], per proteggere dalle lesioni indirette che l’atto di primo grado è in grado di cagionare sulla sommatoria dei singoli individui che compongono la generalità[xliv].
Alla luce di queste considerazioni, dunque, si deve forse riflettere sulla ragionevolezza della soluzione a cui lo stesso legislatore ha dato seguito nel 2005, con l’ampliamento, in tal modo introdotto, della funzione dell’atto di secondo grado.
Detta soluzione impedisce l’annullamento dell’atto viziato anche nei casi in cui il provvedimento di primo grado sia viziato dall’eccesso di potere.
Anzi, proprio perché nelle ipotesi dell’art. 21 octies, comma 2, cit. l’annullamento è precluso in via generale, gli ulteriori limiti all’annullamento previsti dall’art. 21 nonies sembrano riferirsi anche ai casi in cui il provvedimento di primo grado possa risultare viziato sotto il profilo funzionale. Quando, invece, una tale conclusione dovrebbe ritenersi esclusa, per le ragioni appena sostenute.
In definitiva, impedire l’autoannullamento di un provvedimento viziato da eccesso di potere consente all’autorità amministrativa di agire in difformità dalla sua funzione e di stabilizzare gli effetti della sua disfunzionale azione.
L’irragionevolezza che viene così a emergere porta, pertanto, a chiedersi se la disciplina dell’art. 21 nonies, creando il descritto deficit di tutela, sia, prima ancora che opportuna, del tutto conforme al dettato costituzionale.
Una tale evenienza, tuttavia, sembra essere stata esclusa dalla stessa sentenza della Corte da cui ha preso lo spunto questo studio, perché essa ha negato l’illegittimità dell’art. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241, sia pure sotto il ristretto, ma collegato, profilo dell’inderogabilità del termine entro cui agire in secondo grado.
Eppure, proprio le premesse da cui questa sentenza muove (circa la non identità di potere e funzione) forse avrebbero dovuto portare ad opposti risultati.
Su un piano più generale, invece, si ritiene che sia più aderente alla Costituzione un dettato normativo che renda doveroso l’annullamento d’ufficio nei casi in cui l’atto di primo grado sia viziato per eccesso di potere, quando pure vi si oppongano altri interessi, pubblici o privati.
* È dovuto un ringraziamento a Giancarlo Capelli e a Antonio Cassatella per gli utili spunti alla formazione di questo studio che sono derivati dal confronto con loro.
[i] Già si riscontrano, a tale riguardo, i primi commenti: G. Strazza, La Corte costituzionale definisce i limiti dell’annullamento d’ufficio (nota a prima lettura a Corte costituzionale 26 giugno 2025 n. 88), giustiziainsieme.it, 2025.
[ii]N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001, 379, s. Una non meno accurata ricostruzione dell’istituto, tuttavia, è stata fornita anche da M. Allena, Potere pubblico e autotutela amministrativa - I rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nello specchio dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2018, 15 s.
[iii]È scontato il richiamo a F. Benvenuti, voce Autotutela (dir. amm.), Enc. dir., IV, Milano, 1959, 453. In tempi più recenti, il tema è stato ripreso, seguendo la medesima prospettiva, da M. Silvestri, Potere pubblico e autotutela amministrativa
I rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nello specchio dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2021.
[iv] G. Licugnana, Profili evolutivi dell’autotutela amministrativa, Padova, 2004, 37, ha tuttavia proposto, in tempi più recenti, una nozione di autotutela leggermente diverso, alla stregua di un potere per la risoluzione di un conflitto, avente ad oggetto un interesse giuridicamente rilevante, da parte dello stesso titolare di quell’interesse.
[v] Il problema è stato colto anche da M. Allena, Potere pubblico, cit., 16 s., ancorché l’A. arrivi a conclusioni contrarie a quelle qui esposte, giacché ne inverte, se ben si è inteso, lo stesso ragionamento sottostante: poiché l’autorità amministrativa non può rivolgersi al giudice, allora le deve essere riconosciuto il potere di autoannullare i propri atti.
[vi]Con l’eccezione, forse, del caso in cui l’autorità amministrativa intenda eccepire la nullità di un proprio provvedimento, secondo quanto previsto dall’art. 31, u.c., c.p.a., e ove si voglia ravvisare in tale eccezione una sorta di sostanziale domanda giudiziale. Si consideri, in ogni caso, anche l’art. 33, comma 2, del testo unico del 1924, secondo il quale «Col preventivo assenso scritto di coloro ai quali il provvedimento direttamente si riferisce, può invece provocare la decisione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Ma se essi si rifiutino, si intenderà che vi abbiano rinunziato» (abrogato dal codice del 2010), a cui ha dava esecuzione l’art. 5 del regolamento del 1907 («Ove, entro trenta giorni da quello della notificazione dell'invito che sia stato fatto all'interessato, a termini dell'art. 25 11 della legge, questi non risponda all'autorità che ne ha promosso il consenso, s'intende che egli abbia rinunziato al diritto di ricorrere alla sezione giurisdizionale competente. Qualora l'interessato dichiari di accettare che l'affare sia deferito alla decisione della sezione predetta, l'autorità, entro trenta giorni dopo tale dichiarazione, invia gli atti alla segreteria della sezione stessa, dandone comunicazione agli interessati in forma amministrativa. Nel termine di altri trenta giorni dopo pervenuti gli atti alla segreteria, le parti possono presentare istanze, memorie e documenti»).
[vii] Questo si può sostenere, nonostante la stessa legge sul procedimento riconduca espressamente l’annullamento d’ufficio al genere dell’autotutela. Così, all’art. 14 quater, co. 2 («Le amministrazioni i cui atti sono sostituiti dalla determinazione motivata di conclusione della conferenza possono sollecitare con congrua motivazione l'amministrazione procedente ad assumere, previa indizione di una nuova conferenza, determinazioni in via di autotutela ai sensi dell'articolo 21-nonies. Possono altresì sollecitarla, purché abbiano partecipato, anche per il tramite del rappresentante di cui ai commi 4 e 5 dell'articolo 14-ter, alla conferenza di servizi o si siano espresse nei termini, ad assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi dell'articolo 21-quinquies») e all’art. 20, co. 3 («Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies»). Ancora una volta, le classificazioni operate dal legislatore non possono essere ritenute vincolanti per l’interprete.
[viii]S. Romano – G. Miele, voce Annullamento degli atti amministrativi, Noviss. Dig. it., I, 1, Torino, 1957, 644.
[ix]S. Romano – G. Miele, voce Annullamento, cit., 642.
[x]G. Coraggio, Annullamento d’ufficio degli atti amministrativi, Enc. giur., 1988, II, 4; A. Contieri, Il riesame del provvedimento amministrativo, Napoli, 1991, 83, ma, a ben vedere, anche la prevalente manualistica.
[xi] R. Chieppa, voce Provvedimenti di secondo grado, Enc. dir. Ann., II -2, Milano, 2008, 914, s. Secondo M. Trimarchi, Stabilità del provvedimento e certezze dei mercati, Dir. amm., 2016, 358, anzi, l’esplicita previsione dei provvedimenti di revoca e annullamento, contenuta nella legge sul procedimento, è indice di autonomia e distinzione dei poteri esercitati in primo grado.
[xii]Ci si permette soprattutto, di segnalare, tra i molti, gli studi di C. Napolitano, Autotutela amministrativa: riflessioni su una figura ancipite, Foro amm. – CdS., 2012, 2946 s.; G. Manfredi, Il tempo è tiranno: l’autotutela
nella legge Madia, Urb. e app., 2016, 5 s; C. P. Santacroce, Annullamento d’ufficio e tutela
dell’affidamento dopo la legge n. 124 del 2015, Dir. e proc. amm., 2017, 1145, s.; Id. Tempo e potere di riesame: l’insofferenza del giudice amministrativo alle «briglie» del legislatore, federalismi.it, 2018
[xiii]M. Trimarchi, L'inesauribilità. del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018, 145 s. 199 s. Il tema, peraltro, è stato affrontato dallo stesso A. anche nel saggio Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, P.A. – Persona e Amministrazione, 2017, 192 s.
[xiv]L’indagine si è arricchita di recente anche grazie agli studi che si sono interessati dei poteri di secondo grado diversi dall’annullamento e, in particolare, del potere di riforma, la cui titolarità (benché sia agevole sostenere che vada identificata nel potere esercitato in primo grado, giacché la modificazione dei suoi effetti sembra esserne effettiva esplicazione) sembrerebbe essere ostacolata, secondo una certa prospettiva, dagli effetti preclusivi dell’atto di primo grado alla riedizione del potere (questo, a sua volta, in ragione della impossibilità di riconoscere all’amministrazione una funzione abrogativa dei propri atti analoga a quella che riguarda gli atti normativi. Pertanto, la riforma presupporrebbe un annullamento degli effetti prodotti con l’atto di primo grado e solo in seguito a questa operazione, definita «complessa» il potere potrebbe tornare ad essere esercitato. V., così, N. Berti, La modifica dei provvedimenti amministrativi, Torino, 2022, 165 s.; Id., Riforma e modificazione del provvedimento amministrativo, in Dialoghi di diritto amministrativo lavori del laboratorio di diritto amministrativo 2022-2023, a cura di Flaminia Aperio Bella, Andrea Carbone, Enrico Zampetti, Roma, 2024, 80.
[xv] G. Miele, Potere, diritto soggettivo e interesse, Riv. dir. comm., 1944, 116; G. Miele, Principi di diritto amministrativo, Padova, 1953, 45, s. Ma, già prima, E. Garbagnati, La sostituzione processuale nel nuovo codice di procedura civile, Milano, 1942, 116.
[xvi] F. Volpe, Norme di relazione, norme d’azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 23 s.
[xvii]Contra, però, v. A. Motto, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 13 s. e, nella disciplina amministrativistica, A. Carbone, Potere e situazioni soggettive nel diritto amministrativo- I. Situazioni giuridiche soggettive e modello procedurale di accertamento, Torino, 2020, soprattutto 57 s.
[xviii] F. Volpe, Norme di relazione, cit., 111 s.
[xix] La giurisprudenza ravvisa dei limiti alla possibilità di pervenire a un accertamento dell’indennità secondo un ammontare inferiore a quello indicato nella determinazione amministrativa, ragionando tuttavia, in termini di ultrapetizione: se il giudice accertasse un ammontare inferiore violerebbe il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, perché la domanda dell’opponente è di per sé diretta a ottenere un riconoscimento più favorevole di quanto già assegnatogli. Così, ad esempio, Cass., I., 6 giugno 2019, 15414; Cass., I, 23 maggio 2014, n. 11503. Il che implica che, nel caso in cui il beneficiario dell’espropriazione introducesse una contrapposta domanda riconvenzionale, la possibilità che l’indennità sia inferiore a quella determinata potrebbe concretizzarsi.
[xx] Chi scrive riconosce la provocatorietà dell’esempio, persuaso come egli è (F. Volpe, Considerazioni sulla tutela dello jus aedificandi, Le Regioni, 1994, 222, s.) che, non potendosi distinguere tra titolarità e esercitabilità di una situazione giuridica soggettiva, non si possa più ritenere che lo ius aedificandi sia tutt’ora parte del contenuto del diritto domenicale.
[xxi]Anche in questo caso, il riferimento è scontato: E. C. Bartoli, L'inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 32, s.; Id., voce Annullabilità e annullamento, Enc. dir., II, 1958, 496. Il richiamo all’ammissione reale con effetti negativi, invece, è una rilettura operata da chi scrive della teoria di E.C.B.
[xxii]R. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, Commentario del codice civile (a cura di A. Scialoja – G.
Branca), Bologna – Roma, 1974, 81 s.
[xxiii] L’asserzione meriterebbe, da sola, una trattazione monografica per le questioni che essa implica e ci si limita qui a riferirla in questi troppo ristretti termini. Tuttavia, si è persuasi che il diritto sia una realtà immaginaria, costruita dalla mente dell’uomo. L’atto giuridico, il diritto soggettivo, l’effetto giuridico, la legge, il termine, le condizioni - tutti i concetti, insomma, propri della teoria generale del diritto - non esistono, infatti, nella realtà fenomenica. Quanto meno, essi non sono percepibili in modo empirico. Come tali, essi sono solo il frutto dell’immaginazione umana che ne congettura l’esistenza in una realtà complessiva che è anch’essa frutto di immaginazione. A questa realtà di fantasia, peraltro, si riferiscono modelli di funzionamento che si ispirano alla realtà fenomenica. Parliamo, così, di produzione degli effetti (il che implica un rapporto di causalità); parliamo di tempo di svolgimento delle fattispecie giuridiche; parliamo di esistenza delle singole categorie, estendendo a questi concetti un significato assai simile a quello che siamo soliti riferire a quel che cogliamo con i sensi e con la ragione della realtà che ci circonda. Ma si tratta pur sempre di traslitterazioni e di metafore, a cui ricorriamo, a parere di chi scrive, essenzialmente per due motivi. In primo luogo, perché questo ci agevola nella costruzione del pensiero giuridico, perché vi applichiamo schemi mentali consueti. In secondo luogo, perché questo mondo di fantasia che il diritto deve poi essere utilizzato come strumento di qualificazione di condotte umane. Cosicché, in questo meccanismo applicativo, i modelli epistemologici e descrittivi generali sono di indiscutibile aiuto, perché più adatti a riferirsi alla realtà fenomenica a cui essi sono destinati a essere ricondotti.
[xxiv] Sono questi i temi su cui si è concentrata buona parte della metafisica degli ultimi due secoli, grazie agli apporti di Kierkegaard, Bergson, Heidegger (per citare solo alcuni dei filosofi più noti).
[xxv]Si consentirà di limitare i richiami allo studio del proprio maestro: F. Gullo, Provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative, Padova, 1968, 42 s.
[xxvi] Una obiezione a questa ricostruzione potrebbe essere quella di considerare che essa non è in grado di applicarsi all’annullamento del rifiuto di provvedimento amministrativo favorevole. L’obiezione stessa viene contraddetta, tuttavia, dalla tesi, che sembra più convincente, secondo la quale l’annullamento (giurisdizionale) di un atto di rifiuto non sarebbe in realtà un vero e proprio atto di caducazione (giacché non sembra possibile ricondurre al rifiuto alcuna capacità di produrre effetti giuridici propri, da sé discendenti in quanto atto giuridico), ma si risolverebbe in un accertamento della perdurante esistenza (e del perdurante inadempimento) dell’obbligo di pronunciarsi sull’istanza che il privato abbia sollevato per ottenere il rilascio del provvedimento. Sul punto, da ultimo, S. Florian, L'azione di adempimento tra rifiuto di provvedimento e silenzio dell'amministrazione, Torino, 2022, 3 s. e passim.
[xxvii]Si rinvia a F. Volpe, Norme di relazione, cit., 80 s., per un più compiuto sviluppo del ragionamento.
[xxviii] La tesi dell’identità di potere sembra essere, tuttavia, stata ripresa, da ultimo, da A. Cassatella, L’attività di secondo grado, in Trattato di diritto amministrativo, 2- Attività, a cura di F. Caringella, R. Chieppa e B.G. Mattarella, Milano, 2025, 1096, nota 26, il quale, pur non contestando che il potere di annullamento si atteggi in modo diverso dal potere esercitato con l’atto di primo grado, ritiene che la norma attributiva sia la stessa, dipendendo la diversa conformazione della forza dalle necessarie contingenze dovute all’intercorso passaggio del tempo (e dell’emanazione del primo atto). Se ben si è compreso, tuttavia, questa tesi si inserisce nel solco di quella piùà generale tendenza che collega la titolarità del potere alla cura di un dato interesse, sicché a identità di interesse deriva anche identità di potere.
[xxix] Per non doversi ripetere quanto alla tesi qui esposta, ci si permette di rinviare ai propri precedenti studi: F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, Dir. amm., 2008, 4, 791 s.; F. Volpe, Il principio di nominatività, in Studi sui principi del diritto Amministrativo (a cura di M. Renna e F. Saitta), Milano, 2012, p. 349 s.
[xxx]Ma, a ben vedere, non solo nelle conversazioni private: E. Guicciardi, L’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato dei tribunali, ora in Studi di giustizia amministrativa, Torino, 1968, 391.
[xxxi] V. M. Romanelli, L'annullamento degli atti amministrativi, Milano, 1939, 262 s. Ne dà conto anche G. Manfredi, Annullamento doveroso?, P.A. – Persona e amministrazione, 2017, 387; 391.
[xxxii] Vi è chi, di recente, ha operato un’accurata ricostruzione storica del dibattito, sicché pare opportuno richiamare al già citato studio di G. Manfredi, Annullamento doveroso?, cit., 386, c.
[xxxiii]L’idea di fondo, pertanto, è che l’autorità amministrativa possa tornare sui propri errori, ma solo se serve a qualcosa. Se non dovesse servire – a qualunque cosa dovesse servire – l’azione, benché illegittima, va lasciata così com’è.
[xxxiv] Spunti in questo senso si possono ricavare anche dallo studio di A. Cioffi, Annullamento d’ufficio e libertà economiche, 2016, a suo tempo riportato nel sito istituzionale AIPDA e in diritto-amministrativo.org: «Il secondo cambiamento è nella natura dell’interesse. In questo caso, l’interesse non è più l’interesse pubblico specifico dell’amministrazione. È un’entità diversa: è interesse generale (…). L’interesse generale è diverso, perché è un’esigenza che non appartiene all’amministrazione, ma assume il peso di un’esigenza imperativa e di carattere generale. È il “motivo imperativo di interesse generale”. È tipico del diritto europeo e discende dal diritto civile francese».
[xxxv] Per il vero, una differenza sussiste. Mentre, nel caso dell’espropriazione, il carattere sfavorevole discende in via diretta dalla perdita del diritto preesistente, nel caso dell’aggiudicazione, il provvedimento si dimostra sfavorevole verso l’offerente postergato non perché questi subisca la perdita di un diritto, ma perché l’attribuzione di un vantaggio esclusivo ad altri gli preclude, indirettamente, la possibilità di ottenerlo per sé. Dal punto di vista del solo offerente postergato, l’aggiudicazione, dunque, non è troppo dissimile a un rifiuto di provvedimento favorevole, pertanto. Ma essa si distingue dal rifiuto in senso proprio, perché non si esaurisce nel negare un vantaggio, aggiungendo un effetto giuridico ulteriore a favore di terzi. Per questo motivo, il rifiuto (dell’aggiudicazione) verso il postergato è atto giuridico in senso proprio e, come tale, può essere, altrettanto propriamente annullato.
[xxxvi]F. Volpe, Ammissioni e autorizzazioni, Torino, 2018, 11 s.
[xxxvii] Il punto sembra essere stato, implicitamente, colto anche da M. Silvestri, Potere pubblico, cit., 29 s., quando l’A. osserva che il progressivo allargamento della legittimazione processuale ha comportato un arretramento dell’istituto dell’annullamento d’ufficio.
[xxxviii]M. Allena, L’annullamento, cit., 56 s.; N. Acquarelli, Contro la doverosità dell’annullamento d’ufficio, Dir. pubb., 2022, 371 s.
[xxxix]Una tale prospettiva, invece, è esclusa quando la condotta assoggettata a titolo amministrativo sia, in sua assenza, sanzionata amministrativa, ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, stante che, in tale ipotesi, la sanzione è comminata direttamente, dall’autorità amministrativa, alla quale non po' essere riconosciuto il potere previsto dalla L.A.C. di disapplicare un provvedimento proprio o di altro ente pubblico.
[xl] Si potrebbe opporre (e, in effetti, mi è stato opposto in una conversazione sul tema di questo studio) che esistono altri interessi non protetti pienamente, ma che pure verrebbero lesi dall’annullamento e che non sono ricollegabili all’interesse proprio di chi si sia avvantaggiato direttamente degli effetti dell’atto favorevole. Riprendendo l’esempio di chi abbia ottenuto un permesso di costruire illegittimo che consenta all’imprenditore di erigere un condominio illegittimo, se è vero che il vantaggio competitivo che costui acquista sul mercato non merita forse protezione, altrettanto potrebbe non dirsi per chi abbia acquistato le unità immobiliari che si vadano o siano state costruite. In altri termini, anche dagli effetti contra ius che taluno gode possono sorgere situazioni giuridiche dipendenti e, per così dire, sempre incolpevoli. Sicché, avendo riguardo a queste posizioni, potrebbe sembrare non infondata una limitazione del potere di autoannullamento. L’obiezione non è priva di valore, ma a parere di chi scrive essa deve essere superata a fronte del fatto che, da un lato, i titolari di queste situazioni dipendenti, talvolta, godono di altre protezioni giurisdizionali (quali ad esempio potrebbero essere date, sempre nell’esempio posto, dalla risoluzione del contratto o dalla tutela risarcitoria o quanti minoris); per altro verso, è capostipite di queste diverse situazioni dipendenti una loro genesi illegittima. Il che non si può ripetere per chi abbia a subire il danno della miglior posizione competitiva di cui altri goda. Dovendosi, dunque, confrontare le une con le altre, pare poziore quella che riconosce maggior evidenza a chi possa vantare una posizione secundum legem.
[xli] M. Trimarchi, Stabilità cit., passim e 356.
[xlii]Anche in questo caso, si consenta, per brevità di argomentazione circa le proprie tesi, di rinviare al proprio precedente studio F. Volpe, La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi illegittimi, Dir. proc. amm., 2008, 319.
[xliii]Una conclusione simile forse può leggersi anche nella tesi sostenuta da M. Allena, L’annullamento, cit., 141 s.: «In ogni caso, comunque, la discrezionalità dell’amministrazione non dovrebbe porsi in (addirittura, dichiarato) contrasto con le scelte legislative, ma dovrebbe essere sempre funzionale a una migliore attuazione di queste ultime, risolvendosi essa nel «potere di apprezzare in un margine determinato l’opportunità di soluzioni possibili rispetto alla norma amministrativa da attuare. La valutazione discrezionale sarebbe, cioè, pur sempre operata sulla base degli interessi protetti dalle norme specificamente violate che attribuiscono il potere di primo grado o, comunque, ne regolano l’esercizio». Rispetto a questo A., tuttavia, la tesi qui avanzata muove da un presupposto diverso. Vale a dire sul fatto che l’interesse pubblico considerato dall’art. 21 nonies non coincida con la funzione dell’atto di primo grado.
[xliv] La conclusione potrebbe sembrare simile a quella proposta da M. Allena, L’annullamento cit., 15, s, secondo cui vi sarebbe una sorta di necessità dell’annullamento d’ufficio, quando vi ricorrano ragioni di interesse pubblico, a sua volta da intendersi come l’interesse pubblico a cui soggiace l’atto di primo grado e, quindi, come distinto da un indifferenziato interesse pubblico, di qualsiasi tipo esso possa essere. In tal caso, infatti, secondo l’A. (152), i due presupposti per l’autoannullamento (dato dalla presenza dei vizi sostanziali di legittimità e dalla sussistenza dell’interesse, finirebbero per coincidere. Rispetto a quella tesi, tuttavia, vi sono alcune distinzioni e si ritiene di segnalarne ameno una. Essa è data dall’ipotesi in cui l’atto, originariamente viziato per eccesso di potere, riesca, per ragioni sopravvenute, a perseguire con i suoi effetti la finalità istituzionale in un momento successivo a quello della sua emanazione. Secondo quel che qui si sostiene, il provvedimento dovrebbe essere autoannullato e eventualmente potrebbe essere riemanato, con perdita tuttavia, degli effetti retroattivi. Secondo la tesi proposta dall’A., se ben si è inteso, all’autoannullamento non si dovrebbe dare corso.
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