ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: portata, rispettivi ambiti applicativi e (possibili) sovrapposizioni
di Bruno Nascimbene*
Sommario. 1. Premessa. – 2. L’attualità del tema. Le pronunce rilevanti. – 3. La pluralità delle fonti. – 4. La Carta dei diritti fondamentali, il Trattato di Lisbona, l’armonia delle soluzioni. – 5. La rilevanza della CEDU nel sistema del Consiglio d’Europa e l’ordinamento interno. – 5.1. L’orientamento della Corte costituzionale. – 5.2. L’orientamento della Corte di giustizia. – 6. I rapporti fra Corte costituzionale e Corte di giustizia. – 6.1. La vicenda sul “diritto al silenzio”. – 6.2. La vicenda sul “bonus bebè”. – 7. I possibili contrasti. L’auspicata armonia.
1. Premessa
In occasione di un corso dedicato dalla Scuola Superiore della Magistratura alle fonti sovranazionali e all’intreccio delle diverse norme di derivazione europea con le norme nazionali, si presenta l’opportunità di ritornare su un tema che era stato oggetto di esame, almeno per alcuni profili, in un precedente corso organizzato dalla stessa Scuola. Erano stati presi in esame, allora, nel quadro della tutela dei diritti fondamentali in Europa, i cataloghi dei diritti e gli strumenti a disposizione del giudice nazionale per fornire la più ampia tutela ai diritti fondamentali del singolo[1].
L’attenzione era dedicata, in particolare, al giudice comune che deve applicare il diritto nazionale conformandosi a fonti sovraordinate: al diritto internazionale, dunque, consuetudinario e convenzionale, al diritto europeo convenzionale o speciale quale è il diritto dell’Unione europea, nel rispetto degli obblighi imposti dalla Costituzione. Norme rilevanti di questa sono gli artt. 10, 11, 117, e con riguardo ai diritti fondamentali, l’art. 2.
2. L’attualità del tema. Le pronunce rilevanti
Il tema è sempre di attualità, grazie anche alla discussione, e polemica (giuridica e politica) sul rispetto dello Stato di diritto in Europa. La presente relazione su CEDU e Carta dei diritti fondamentali riprende alcuni profili, per così dire tradizionali del tema, ma affatto scontati. Ne è un esempio una recente sentenza della Corte di Cassazione sulla non sindacabilità in sede di controllo della giurisdizione ex art. 111, 8° comma Cost., della violazione da parte del Consiglio di Stato sia del diritto dell’Unione europea, sia della CEDU, così equiparando le due fonti almeno al fine di escluderne la rilevanza quanto al rispetto dei limiti esterni della giurisdizione, ritenendo che la violazione di legge sostanziale o processuale rientra nell’ambito dei limiti interni della giurisdizione[2].
Altro esempio è rappresentato da due pronunce della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, di cui si dirà nel prosieguo, ma che fin d’ora si ritiene opportuno ricordare.
a) La Corte cost. si è rivolta alla Corte di giustizia ponendo una questione pregiudiziale di validità e d’interpretazione in tema di “diritto al silenzio”, che è espressione del fondamentale diritto di difesa tutelato sia dalla Carta (art. 47), sia dalla CEDU (art. 6), nell’ambito di procedimenti amministrativi, e si è quindi pronunciata adeguandosi ai principi affermati dalla Corte di giustizia, dichiarando la illegittimità di norme nazionali contrastanti (o confliggenti)[3].
b) Vi è stata una seconda occasione di rinvio da parte della Corte costituzionale alla Corte di giustizia, ponendo una questione di interpretazione in tema di assegno di natalità (c.d. bonus bebè) e di assegno di maternità, dubitando della conformità di norme nazionali rispetto a norme di diritto UE (regolamento e direttiva), in particolare rispetto a varie disposizioni della Carta. Si è quindi pronunciata la Corte di giustizia, ritenendo il contrasto delle norme nazionali che limitano le predette prestazioni sociali (la limitazione riguardava gli stranieri titolari di un permesso unico di lavoro, non beneficiari delle prestazioni, diversamente dagli stranieri soggiornanti da lungo periodo). La Corte costituzionale (al momento in cui si scrive) non si è ancora pronunciata[4].
c) A conferma di un diritto vivente in continua evoluzione[5], si ricordano sia le questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte di Cassazione (Randstad, su cui le conclusioni, del settembre 2021, dell’avvocato generale Hogan; la Corte, al momento in cui si scrive, non si è ancora pronunciata), con riguardo alla competenza delle S.U. in tema di rinvio ex art. 111, 8°comma Cost. (prima ricordato)[6]; sia quelle sollevate dal Consiglio di Stato (Hoffmann-La Roche) sugli eventuali limiti del rinvio alla Corte di giustizia quando il giudice a quo abbia già compiuto un altro rinvio pregiudiziale nella stessa causa (la questione è pendente)[7].
d) Il tema “rinvio” ex art. 267 TFUE, definito da una giurisprudenza consolidata come architrave o “chiave di volta” del sistema giurisdizionale[8], è stato rivisitato, in epoca recente, quanto agli obblighi (o non obblighi) che esso pone al giudice nazionale, dalla Corte di giustizia che ha ripreso la nota giurisprudenza Cilfit, ricordando la necessità, spesso trascurata, dell’obbligo di motivazione in caso di non rinvio (obbligo che può assumere rilevanza anche sotto il profilo CEDU, violazione dell’art. 6)[9].
e) Il dibattito circa una nuova, seppur diversa forma di rinvio, rappresentata dal Protocollo 16 alla CEDU, non ancora ratificato dal nostro Paese, è peraltro in corso ed è utile ricordare la speciale attenzione che è stata dedicata, anche di recente a questo tema [10].
3. La pluralità delle fonti
I diversi sistemi di protezione dei diritti fondamentali sono almeno tre, a livello nazionale ed europeo: costituzionale il primo; CEDU e diritto UE il secondo e il terzo, ricordando comunque la possibile rilevanza e applicabilità di altri strumenti internazionali, quali la Carta sociale in ambito europeo e il Patto sui diritti civili e politici e quello sui diritti economici sociali, in ambito internazionale. Essi, pur vincolanti, sono tuttavia privi di un proprio sistema giurisdizionale. Possono certamente assumere il ruolo di parametri interposti ai sensi dell’art. 117, 1° comma Cost., ma si tratta di fonti che non assumono lo stesso rilievo della CEDU o della Carta dei diritti fondamentali [11].
Il giudice nazionale deve dunque confrontarsi con una pluralità di fonti, risolvere possibili conflitti o antinomie, in un contesto in cui si dovrebbe sempre cercare l’armonia attraverso il dialogo. Il principio, che importa qui sottolineare, perché utile alla migliore comprensione dei rapporti CEDU-diritto UE, è ben indicato dalla Corte cost., non solo con riferimento ai rapporti fra Costituzione, CEDU e diritto UE, ma anche a quelli fra Costituzione e diritto internazionale. Il richiamo a quest’ultimo è meno usuale, ma sicuramente significativo dal punto di vista sistematico. Si ricorda in proposito la sentenza 63/19 sull’applicazione retroattiva della lex mitior in caso di sanzioni amministrative con funzioni punitive), richiamata dalla sentenza n. 11/20 che menziona e rende applicabili fonti diverse da quelle interne, facendo quindi riferimento a un “diritto internazionale dei diritti umani” che comprende norme vincolanti per il nostro ordinamento, quale è il Patto sui diritti civili e politici, che si ispirano ai medesimi principi della Costituzione[12]. La Corte ben riconosce il significato (e la rilevanza) di fonti internazionali, esprimendosi a favore della “massimizzazione” ovvero dell’ “integrazione delle tutele”: il rispetto degli obblighi internazionali “deve costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa”, mirando alla “massima espansione delle garanzie”. La tutela offerta dalla Corte cost. è diversa da quella offerta dalla Corte EDU, perché “opera una valutazione sistemica e non isolata” ovvero “non frazionata” per quanto riguarda i “valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinati”[13]. A queste fonti convenzionali internazionali si aggiunge, come già si è accennato, la fonte europea “Carta sociale” e la fonte rappresentata delle norme generali del diritto consuetudinario, cui rinvia l’art. 10, 1°comma Cost. Un complesso di norme, insomma, che mira alla tutela degli stessi diritti: quelli, fondamentali, della persona.
4. La Carta dei diritti fondamentali, il Trattato di Lisbona, la CEDU. L’armonia delle soluzioni
Non v’è dubbio che il Trattato di Lisbona, con le modifiche introdotte dall’art. 6 TUE, abbia rafforzato la tutela dei diritti fondamentali, conferendo alla Carta dei diritti fondamentali lo stesso valore giuridico dei trattati e prevedendo sia una (futura) adesione dell’Unione alla CEDU, sia, comunque, un riconoscimento, come principi generali dell’Unione, dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Queste tre fonti distinte (Carta, CEDU, principi generali) rappresentano “un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente” (cioè pre-Lisbona); si è voluto “garantire un certo grado di elasticità al sistema” e quindi “evitare che la Carta ‘cristallizzi’ i diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti indirettamente richiamate”[14]. La Carta, d’altra parte, è stata accettata con riserva da alcuni Stati (Polonia, Regno Unito, il riferimento è al Protocollo n. 30 al Trattato di Lisbona con riguardo ai diritti sociali), e l’adesione non è avvenuta, per una serie di motivi. Già Corte cost., peraltro, sembra individuare, prima del parere 2/13 della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione europea alla CEDU, un punto debole della norma relativa all’adesione perché l’Unione, in quanto tale, a seguito dell’adesione, dovrebbe “sottoporsi” a un sistema internazionale di controllo in ordine al rispetto “dei diritti fondamentali”. La fonte CEDU, tuttavia, cioè i diritti garantiti dalla stessa, resta vincolante nella sua integrità poiché tali diritti (art.6, par. 3) “fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”[15].
La coerenza CEDU-Carta, pur restando esse distinte, è d’altra parte affermata da una delle c.d. norme orizzontali della Carta, l’art. 52, par. 2, che prevede, in caso di corrispondenza fra “diritti CEDU” e “diritti Carta”, l’obbligo di interpretare il significato e la portata di questi ultimi in modo uguale ai primi, salva la possibilità, per la Carta, di concedere una protezione più estesa.
La ricerca di coerenza e armonia è pure espressa dal par. 4 dell’art. 52 che prevede l’obbligo di interpretare i diritti tutelati dalla Carta, che risultino anche dalle tradizioni costituzionali comuni, “in armonia” con le predette tradizioni.
Carta e CEDU restano fonti distinte seppur coordinate, l’art. 52 contenendo una clausola di equivalenza che non incide sulla diversità dei sistemi cui appartengono le fonti. Anzi, ne rappresenta una conferma, seppur nel necessario contesto di coerenza e armonia che contraddistingue i diritti fondamentali. Tale diversità è ribadita, nel diritto UE, in più occasioni quando se ne definisce l’ambito di applicazione: la Carta non estende “in alcun modo” le competenze dell’Unione definite nei “trattati” (art. 6, par. 1; Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona); non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione (art. 51, par. 1); non introduce competenze nuove o compiti nuovi, né modifica compiti o competenze definite nei Trattati (art. 51, par. 2; Dichiarazione n. 1 cit.). Si applica alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, e agli Stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” (art. 51, par. 1). Il perimetro, cioè i limiti materiali di applicazione della Carta sono ben definiti dall’applicabilità materiale del diritto UE, e quindi deve trattarsi di norme di diritto UE oppure di norme nazionali che siano attuazione di quel diritto, non già di una qualunque norma priva “di ogni legame con tale diritto”[16]. La CEDU, insomma, non si è trasformata in diritto UE grazie all’art. 6: non vi è stata “lisbonizzazione” o “trattatizzazione” indiretta della CEDU e il giudice nazionale non può disapplicare o non applicare la norma nazionale contrastante sulla base dell’art. 11 Cost., poiché non è individuabile, rispetto a tale norma costituzionale, “alcuna limitazione della sovranità nazionale”.
5. La rilevanza della CEDU nel sistema del Consiglio d’Europa e l’ordinamento interno.
5.1. L’orientamento della Corte costituzionale
Il Consiglio d’Europa, nel cui contesto si collocano la CEDU e l’attività interpretativa della Corte EDU, “è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea”[17]. Il “diritto CEDU” è pur sempre diritto internazionale, privo, è vero, dei requisiti di “primazia” e diretta applicabilità propri del diritto UE, ed è quindi applicabile nelle ipotesi in cui non è applicabile il diritto UE. La CEDU rappresenta a livello internazionale, la forma più evoluta o comunque una delle forme più evolute per la protezione dei diritti fondamentali. E’, invero, qualificata dalla Corte EDU come “uno strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo”, un mezzo rilevante per “promuovere e conservare gli ideali e i valori di una società democratica” in cui la democrazia politica è “un elemento fondamentale dell’ordine pubblico europeo”[18]. La CEDU offre una garanzia collettiva del rispetto degli obblighi e diritti previsti e, a “differenza dei trattati internazionali di tipo classico [essa] travalica l’ambito della semplice reciprocità tra gli Stati contraenti”[19].
Poiché la CEDU non ha le caratteristiche del diritto UE, essa, così come interpretata dalla Corte EDU, integra (quale norma interposta), “il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”[20].
Il giudice comune, in caso di contrasto fra norme interne e CEDU, se non riesce a conseguire un’interpretazione conforme della prima rispetto alla seconda e, quindi, a risolvere il contrasto per via interpretativa, deve proporre una questione di legittimità costituzionale, non potendo disapplicare la norma nazionale contrastante: proporrà, infatti, la questione in riferimento all’art. 117, 1°comma Cost. oppure all’art. 10, 1°comma Cost. qualora si tratti di una norma convenzionale ricognitiva di una norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta”[21]. La Corte costituzionale, procedendo a una valutazione (come si è prima detto) sistemica e non frazionata, e operando il consueto bilanciamento fra fonti (la norma CEDU è norma interposta) deve procedere a una “integrazione delle tutele” non già ad una “affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale” [22].
5.2. L’orientamento della Corte di giustizia
La Corte di giustizia conferma la diversità delle fonti e dei sistemi, soprattutto quando, in occasione del parere 2/13 negativo (prima ricordato) sull’adesione alla CEDU, si è espressa sulle caratteristiche specifiche, sulle competenze e sull’autonomia del diritto dell’Unione che verrebbe compromessa qualora si procedesse all’adesione. Premesso che i diritti fondamentali, quali garantiti dalla CEDU, fanno parte del diritto UE in quanto principi generali ex art. 6, par. 3 TUE, la CEDU tuttavia, in assenza di adesione, “non costituisce uno strumento giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione”. L’accordo di adesione, in quanto accordo internazionale, vincolerebbe ex art. 216, par. 2 TFUE le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri, divenendo parte integrante del diritto UE; tuttavia sottoporrebbe l’Unione e la Corte di giustizia a un controllo esterno che pregiudicherebbe l’autonomia del diritto UE e vincolerebbe l’Unione e le sue istituzioni, in particolare la Corte di giustizia, all’interpretazione fornita dalla Corte EDU[23].
La Corte afferma l’esistenza di una “costruzione giuridica” al centro della quale si collocano i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta (il rispetto di tali diritti costituisce un presupposto della legittimità degli atti). Una costruzione, questa, caratterizzata sia dal fatto di derivare da una fonte autonoma, costituita dai Trattati, sia dal primato del diritto UE sul diritto nazionale, sia dall’effetto diretto di norme (che presentino determinate caratteristiche) applicabili ai cittadini degli Stati membri nonché agli Stati stessi. Proprio per preservare le caratteristiche specifiche e l’autonomia di tale ordinamento giuridico i Trattati hanno istituito un sistema giurisdizionale destinato ad assicurare la coerenza e l’unità nell’interpretazione del diritto UE[24]. Il giudice nazionale deve garantire la piena efficacia del diritto UE e deve disapplicare “all’occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore”; deve impedire situazioni di incompatibilità derivante da norme o da “qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, che porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione”[25].
Il sistema presenta peculiarità. Malgrado quanto previsto dall’art. 6, par. 3 TUE e dall’art. 52, par. 3 Carta sul riconoscimento dei diritti fondamentali tutelati dalla CEDU come appartenenti ai principi generali e sulla corrispondenza fra “diritti CEDU” e “diritti Carta”, la Carta non è, almeno fino a quando l’Unione non abbia aderito (già si è detto) alla CEDU, “un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giudico dell’Unione” e conseguentemente “il diritto dell’Unione non disciplina i rapporti tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale”[26].
6. I rapporti fra Corte costituzionale e Corte di giustizia
Alcuni rilievi meritano i rapporti fra Corte costituzionale e Corte di giustizia. Esempi concreti e recenti di dialogo fra Corte costituzionale e Corte di giustizia, che riguardano la tutela di diritti fondamentali, sono rappresentati dai casi prima ricordati del c.d. “diritto al silenzio” nell’ambito di un procedimento amministrativo (nella specie avanti alla Consob, ma poi esteso a quello avanti alla Banca d’Italia)[27] e del “bonus bebè”.
6.1. La vicenda sul “diritto al silenzio”
Nel primo caso, (deciso con sentenza n. 84/2021) la Corte costituzionale aveva posto (con ordinanza n. 117/2019) una questione pregiudiziale non solo di interpretazione, ma di validità, ritenendo “necessario sollevare un chiarimento” nello “spirito di leale cooperazione tra Corti nazionali ed europee nella definizione di livelli comuni di tutela dei diritti”[28]. Le norme in questione riguardano gli abusi di mercato (direttiva 2003/6, art. 14, par. 3 e regolamento 596/2014, art. 30, par. 1, lett. b), in riferimento o più precisamente “alla luce” non solo degli articoli 47 (diritto ad un ricorso effettivo) e 48 (presunzione di innocenza e diritti della difesa) della Carta, ma anche (“alla luce”) della giurisprudenza della Corte EDU, dell’art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri nella misura in cui le predette norme impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente, violando il diritto al silenzio, ovvero il diritto a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, peraltro tutelato dall’art. 24 Cost.
L’interpretazione riguardava l’obbligo, o non, per lo Stato di prevedere sanzioni a carico di chi si rifiuta di rispondere: se fosse stato affermato l’obbligo, il che non è avvenuto, si sarebbe posto un problema di compatibilità (validità) con gli articoli 47 e 48 Carta. La Corte di giustizia ha risposto ai quesiti pregiudiziali dichiarando (alla luce, appunto, della giurisprudenza della Corte EDU sul diritto ad un equo processo e della Carta) che il diritto al silenzio è “al centro della nozione di equo processo” (costituisce, invero, anche “una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta”) ed osta, in particolare, a che una persona fisica “imputata” venga sanzionata a causa del suo rifiuto a fornire all’autorità competente risposte che possano fare emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale o la sua responsabilità penale[29]. Le norme UE applicabili sugli abusi del mercato consentono agli Stati di non sanzionare il rifiuto a rispondere utilizzando “il potere discrezionale ad essi conferito da un testo di diritto derivato dell’Unione in modo conforme ai diritti fondamentali”. Viene così rispettato il diritto al silenzio, la Corte tenendo conto dell’interpretazione degli artt. 47 e 48 Carta, dei diritti corrispondenti garantiti dall’art. 6 CEDU (ai sensi del combinato disposto dell’art. 6, par. 3 TUE e dell’art. 52, par. 3 Carta) e dalla giurisprudenza della Corte EDU in quanto soglia di protezione minima): le norme UE sono dunque valide perché non impongono una sanzione[30]. Sono interpretate in senso conforme alla tutela del diritto al silenzio, nel senso che non impongono una sanzione[31].
La Corte costituzionale, a seguito della sentenza della Corte di giustizia, conferma l’interpretazione dalla stessa fornita. L’interpretazione “collima”, precisamente, con la propria “ricostruzione” circa la “portata del diritto al silenzio nell’ambito dei procedimenti amministrativi” che prevedono l’inflizione di sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale[32]. Un diritto, questo, che “può essere ricavato altresì” da altra fonte internazionale, quale il Patto sui diritti civili e politici (art. 14, par. 3, lett. g). Si tratta, insomma, di norme nazionali e sovranazionali che “si integrano completandosi reciprocamente nella interpretazione” e “nella definizione dello standard di tutela delle condizioni essenziali” del diritto in questione[33].
6.2. La vicenda sul “bonus bebè”
La seconda ordinanza della Corte, n. 182/20, richiamate le sentenze n. 269/17, n. 20/19, n. 63/19 sui rapporti fra pregiudiziale costituzionale e pregiudiziale comunitaria, in particolare sulla funzione del rinvio pregiudiziale, sottolinea la necessità di assicurare una «garanzia di uniforme interpretazione dei diritti e degli obblighi che discendono dal diritto dell’Unione», «in un quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia». Lo spirito, invero, è quello prima ricordato nella vicenda del “diritto al silenzio”. La Corte rivendica il proprio ruolo, nel quadro giurisdizionale disegnato dall’art. 47 Carta, di «interrogare la Corte di giustizia» prima di decidere la questione di legittimità costituzionale, e dunque di esaminare se una norma nazionale «infranga in pari tempo i principi costituzionali e le garanzie sancite nella Carta»[34]. Alla Corte era stata posta la questione di legittimità delle norme nazionali che prevedono la concessione di un assegno di natalità (c.d. bonus bebè) e un assegno di maternità per gli stranieri soggiornanti di lungo periodo (disciplinati dalla direttiva 2003/109; il beneficio è a questi applicabile in virtù del regolamento 1231/2010), non anche agli stranieri che sono titolari di un permesso unico di lavoro (disciplinati dalla direttiva 2011/98; si tratta di un permesso, rilasciato ai sensi della direttiva 2011/98 che consente agli stranieri di soggiornare regolarmente in uno Stato per fini lavorativi, e che non possiedono i requisiti dei c.d. lungosoggiornanti; la direttiva richiama espressamente il regolamento 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale).
Giudice remittente era la Corte di Cassazione che prospettava una discriminazione “fra stranieri” in ordine al beneficio di dette prestazioni sociali, e dubitava della legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 31, 117, 1°comma Cost., quest’ultimo in relazione a varie disposizioni della Carta UE: 20, 21, 33, 34. La Corte cost. poneva il quesito pregiudiziale con riferimento all’interpretazione del solo art. 34 che riguarda la sicurezza sociale e l’assistenza sociale, chiedendo di conoscere se «nel suo ambito di applicazione rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base» al regolamento e alla direttiva ricordati (art. 3, par. 1, lett. b) e j) del regolamento richiamato dall’art. 12, par. 1, lett. e) della direttiva 2011/98). La domanda riguardava, insomma, la compatibilità, o non, con l’art. 34, delle norme nazionali che escludono dai benefici sociali i titolari di un permesso unico [35].
La Corte di giustizia[36] si è pronunciata per l’incompatibilità delle norme nazionali, poiché i predetti assegni rientrano nei settori della sicurezza sociale. Il diritto di accesso alle prestazioni sociali è inteso in senso ampio. La sua lettura è strettamente connessa alla direttiva ricordata (e al regolamento richiamato), perché questa “rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta”[37] e perché con il rinvio al regolamento 883/2004 la direttiva “dà espressione concreta” al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 34, paragrafi 1 e 2 della Carta[38]. Si tratta di una direttiva che concretizza un diritto fondamentale previsto dalla Carta e vincola gli Stati, che adottano misure rientranti in questa direttiva, ad agire nel rispetto della stessa[39].
Il contrasto delle norme nazionali viene dunque ritenuto sussistente con la direttiva (art. 12) e, si può dire, per via derivata con l’art. 34 Carta. L’interpretazione della direttiva insieme al regolamento richiamato ha, come risultato, di qualificare (a prescindere da ogni definizione di diritto nazionale)[40], l’assegno di natalità (in quanto prestazione familiare ex art. 3, par. 1 lett. j) e l’assegno di maternità (ex art. 3, par. 1 lett. b) rientrano nei settori di sicurezza sociale e debbono essere riconosciuti, in virtù del principio di parità di trattamento, anche ai cittadini di Paesi terzi titolari di un permesso unico (art. 12, par. 1, lett. b e c della direttiva).
La Corte non affronta il tema dell’effetto diretto dell’art. 34 e della direttiva, non essendo stata posta la questione interpretativa specifica. D’altra parte, in altra occasione in cui erano oggetto di interpretazione l’art. 34, parr. 1 e 2 e alcune norme del regolamento 883/2004, la Corte, dopo aver ritenuto inapplicabile il regolamento, ha considerato superfluo esaminare la questione alla luce dell’art. 34[41]. L’art. 34 è norma “mista” di principi e diritti, le “Spiegazioni” relative alla Carta precisando che il par. 1 è un principio (e tale sembra essere il par. 3), mentre il par. 2 sul diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali per chi risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione è un diritto[42]. Una più ampia disamina dell’art. 34 e dei suoi effetti sarebbe stata auspicabile. La formula utilizzata, secondo cui il diritto derivato dà concretezza a un diritto fondamentale, richiama quanto afferma la Corte a proposito del principio generale di non discriminazione fondato sull’età, ove le direttive in questione (in materia di occupazione e condizioni di lavoro, e sul lavoro a tempo determinato), in quanto diritto derivato, furono utilizzate per dare concretezza al principio[43].
7. I possibili contrasti. L’auspicata armonia
Una riflessione conclusiva.
Il giudice italiano, la Corte costituzionale in particolare, ha posto problemi interpretativi alla Corte di giustizia su questioni che riguardano la tutela di diritti fondamentali, previsti da fonti diverse: Carta e CEDU, ma anche altri strumenti internazionali.
Si dovrebbero comunque evitare ipotesi di contrasto e di ricorso da parte nazionale ai “controlimiti”, se è vero che esiste, o comunque dovrebbe esistere (come sottolinea la Corte costituzionale), una «costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia» dei diritti fondamentali, e che i principi e diritti sono «tra loro armonici e complementari». Il rapporto fra fonti e Corti, insomma, deve, o comunque dovrebbe essere «di mutua implicazione e di feconda integrazione»[44].
*Professore emerito, già ordinario di Diritto dell’Unione europea nell’Università degli Studi di Milano.
[1] La relazione dal titolo La tutela dei diritti fondamentali in Europa: i cataloghi e gli strumenti a disposizione dei giudici nazionali (cataloghi, arsenale dei giudici e limiti o confini), svolta nel precedente corso (settembre 2020) è leggibile in eurojus, 2020. La relazione, qui pubblicata, tenuta in occasione del corso della Scuola Superiore della Magistratura (novembre 2021, “Fonti del diritto e giurisprudenza internazionali. Strumenti di tutela e di soluzione delle antinomie”) sarà pubblicata prossimamente in un Quaderno della Scuola. Considerata la natura del presente lavoro, i riferimenti in nota sono di carattere essenziale. Più recentemente, sul tema dei rapporti o intreccio fra “Carte” e “Corti” si veda I. Anrò, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e CEDU: dieci anni di convivenza, in Federalismi, 2020, p. 109 ss.; per altri riferimenti cfr. il nostro La tutela cit.
[2] Cass. S.U., 5.10.2021, n. 2690, Hoffman-La Roche e a. Per un richiamo congiunto alla tutela affermata dalla CEDU (“ordinamento convenzionale”) e dal diritto UE (“ordinamento europeo”), verificandosi una “concorrenza di tutele che si traduce in un’integrazione di garanzie” cfr. Corte cost. 30.7.2021, n. 182, punti 4.1., 11. del “Considerato in diritto”; sul concorso di tutele si veda anche oltre, parr. 6.1., 7. Cfr. inoltre i rifer. nella nota 33.Sul tema del rispetto dello Stato di diritto si permette rinviare al nostro Il rispetto della rule of law e lo strumento finanziario. La “condizionalità”, in eurojus, 2021 (riferimenti ivi).
[3] Ordinanza della Corte cost. n. 117/2019; sentenza della Corte di giustizia 2.2.2021; sentenza della Corte cost. n. 84/2021, su cui oltre, par. 6.1.
[4] Cfr. l’ordinanza della Corte cost. n. 182/2020, la sentenza della Corte di giustizia 2.9.2021, su cui oltre par. 6.2.
[5] Sul diritto vivente ricordato si vedano le altre relazioni al corso della Scuola (novembre 2021) di prossima pubblicazione nel Quaderno cit. nota 1.
[6] Ordinanza della Cass. S.U. 18.9.2020, n. 19598, Randstad; conclusioni dell’avvocato generale del 9.9.2021, causa C-497/20, in EU:C:2021:725; per un commento, recentemente E. Tosto, Saga Randstad, atto I: a che punto siamo, in Federalismi, 2021, p. 207 ss.
[7] Sulle ordinanze della Cassazione, Sezioni unite, e del Consiglio di Stato cfr., anche per riferimenti, B. Nascimbene, P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 2020 e degli stessi Rinvio pregiudiziale e garanzie giurisdizionali effettive. Un confronto fra diritto dell’Unione e diritto nazionale. Commento all’ordinanza 2327/2021 del Consiglio di Stato, ibidem, 2021. La scelta delle Sezioni unite è stata di adire con rinvio pregiudiziale la Corte di giustizia, non già la Corte cost., che con sentenza 18 gennaio 2018, n. 6 aveva ritenuto non rientrante nella nozione di motivo inerente la giurisdizione ex art. 111, 8°comma la violazione del diritto UE, rientrante invece nella nozione di violazione di legge, rilevante ex art. 360 cod. proc. civ.; le Sezioni unite avevano prospettato la violazione degli artt. 19 TUE e 47 Carta (denegata giustizia) qualora fosse escluso il ricorso ex art. 111 Cost. Per le conclusioni dell’avvocato generale cfr. la nota precedente; la causa pendente su rinvio del Consiglio di Stato è C-261/21.
[8] In questi termini, il parere della Corte di giustizia 2/13 del 18.12.2014, EU:C:2014:2475, punto 176.
[9] Cfr. la sentenza 6.10.2021, C-561/19, Consorzio Italian Management, EU:C:2021:799 e la sentenza 6.10.1982, C-283/81, Cilfit, EU:C:1982:335. Per un commento cfr. P. De Pasquale, Inespugnabile la roccaforte dei criteri CILFIT, in BlogDue, 2021; F. Ferraro, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, in questa Rivista, 2021. Recentemente, sull’obbligo, o non, di rinvio e sulla necessità di motivazione, si vedano le sentenze (sul c.d. caso dei “balneari”) del Consiglio di Stato, Ad. plen., 9.11.2021, n. 17 e n. 18, punto 29 (di entrambe).
[10] Cfr. i vari contributi pubblicati in questa Rivista 2020 e 2021 di S. Bartole, Le opinabili paure di pur autorevoli dottrine a proposito della ratifica del protocollo n. 16 alla CEDU e i reali danni dell’inerzia parlamentare, P. Biavati, Giudici deresponsabilizzati ? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo 16, E. Cannizzaro, La singolare vicenda della ratifica del Protocollo n.16, M. Castellaneta, Ratificato il Protocollo n. 15 …aspettando il Prot. n.16. Al via le modifiche alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, A. Esposito, La riflessività del protocollo n. 16 alla Cedu, C.V. Giabardo, Il Protocollo 16 e l’ambizioso (ma accidentato) progetto di una global community of courts, E. Lamarque, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, B. Nascimbene, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, C. Pinelli, Il rinvio dell’autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 16 CEDU e le conseguenze inattese del sovranismo simbolico sull’interesse nazionale, A. Ruggeri, Protocollo 16: funere mersit acerbo?, nonché gli interventi (ibidem, 2021) di E. Albanesi, B. Biancardi, F. Buffa, G. Cerrina Ferroni, R. Conti, M. Lipari, M. Luciani, A. Ruggeri, R. Sabato, F. Vari, in occasione del convegno del 22.6.2021 “Protocollo n. 16. Riaprire il cantiere in Parlamento”.
[11] Alla Carta sociale si riferisce Corte cost. 13.6.2018, n. 120; 8.11.2018, n. 194; al Patto internazionale si riferisce Corte cost. 21.3.2021, n. 63; 30.4.2021, n. 84, di cui oltre; sulla possibile rilevanza del diritto consuetudinario ex art. 10, 1° comma Cost., cfr. Corte cost. 28.12.2012, n. 264, su cui oltre.
[12] Cfr. Corte cost. 21.3.2019, n. 63, punto 6.1. del “Considerato in diritto”; 9.1.2020, n. 11, punto 3.4. del “Considerato in diritto”.
[13] Cfr. Corte cost. 28.12.2012, n. 264, punti 4.1., 4.2., 5.4. del “Considerato in diritto”; ordinanza 10.5.2019, n. 117, punto 3 del “Considerato in diritto” sul rinvio ad una pluralità di fonti internazionali.
[14] Cfr. Corte cost., 11.3.2011, n. 80, punto 5.2. del “Considerato in diritto”.
[15] Cfr. Corte cost. n. 80/11, punto 5.3. del “Considerato in diritto”; Corte di giustizia, parere 2/13 cit., spec. punti 164, 179-189.
[16] Corte cost. n. 80/11, punto 5.5. del “Considerato in diritto”.
[17] Cfr. Corte cost. n. 80/2011, punto 5.1. del “Considerato in diritto”, richiamando Corte cost. 24.10.2007, n. 349.
[18] Cfr. Corte EDU, 23.3.1995, Loizidou c. Turchia, par. 75; 17.2.1994, Gorzelik e a. c. Polonia, par. 89.
[19] Cfr. Corte EDU 18.1.1978, Irlanda c. Regno Unito, par. 239.
[20] Cfr. Corte cost., 28.11.2012, n. 264, punto 4.1. del “Considerato in diritto”.
[21] Corte cost. 264/12, punto 4. del “Considerato in diritto” con riferimento alla giurisprudenza precedente.
[22] Cfr. Corte cost. n. 264/12, punto 4.2. del “Considerato in diritto”.
[23] Cfr. il parere 2/13 cit., spec. punti 179-185.
[24] Cfr. Corte, 24.10.2018, C-234/17, XC, YB, ZA, EU:C:2018:853, punti 36-37, 39 con ampi riferimenti giurisprudenziali.
[25] Cfr. Corte, 26.2.2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, EU:C:2013:105, punti 45-46, con ampi riferimenti giurisprudenziali.
[26] Sentenza Åkerberg Fransson cit., punto 44, ricordando negli stessi termini 24.4.2012, C-571/10, Kamberaj, EU:C:2012:233, punto 62.
[27] Nella pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (TUIF) e modifiche successive la Corte, in via consequenziale, ha dichiarato l’illegittimità della norma anche in riferimento al procedimento in cui la persona si rifiuti di fornire risposte alla Banca d’Italia: cfr. il punto 4. del “Considerato in diritto”.
[28] È stata la prima volta, nel rapporto fra le due Corti, che è stata posta una questione di validità: cfr. il punto 10. dell’ordinanza 10.5.2019, n. 117.
[29] Corte 2.2. 2021, causa C-481/19, DB, EU:C:2021:84. Per rilievi in proposito cfr., su questa sentenza e su quella della Corte cost., di cui oltre, M. Aranci, Da Roma a Lussemburgo… e ritorno: la pronuncia della Consulta sul diritto al silenzio, in eurojus.it, 2021; E. Basile, La Corte di giustizia riconosce il diritto al silenzio nell’ambito dei procedimenti amministrativi “punitivi”, in Sistema penale, 2021; D. Coduti, Il diritto al silenzio nell’intreccio tra diritto nazionale, sovranazionale e internazionale: il caso D.B. c. CONSOB, in Federalismi, 2021, p. 121 ss.; P. Gambatesa, Riflessioni sulla prima occasione di “dialogo” tra Corte Costituzionale e Corte di giustizia in casi di doppia pregiudizialità, in Federalismi, 2021, p. 64 ss. Sul riferimento all’art. 6 CEDU e alla centralità del diritto, sentenza DB cit., punti 33, 37-40. La Corte precisa, tuttavia (punto 41) che non può comunque essere giustificata «qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti, qual è il caso di un rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie minanti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa». Tale “valutazione” sul diritto al silenzio «non trova smentita nella giurisprudenza della [stessa] relativa alle norme dell’Unione in materia di concorrenza», l’impresa non potendo «vedersi imporre l’obbligo di fornire risposte in virtù delle quali essa si troverebbe a dovere ammettere l’esistenza di una violazione» di dette norme (giurisprudenza che, «come indicato dallo stesso giudice del rinvio», «non può applicarsi per analogia quando si tratta di stabilire il diritto al silenzio di persone fisiche»).
[30] Sentenza DB, cit., punti 56-58 ove si afferma che la validità delle norme UE non viene pregiudicata dal fatto che manchi, nelle stesse, una esplicita esclusione dell’inflizione di una sanzione.
[31] Sull’interpretazione conforme, cfr. Corte, DB, cit., punti 50,55; su tale principio, in generale, Corte, 24.6.2019, C-573/17, Poplawski, EU:C:2019:530, punti 55-57. Sulla rilevanza dell’interpretazione conforme, nella specie ai due parametri interposti rappresentati dalla CEDU e dal diritto UE, essendo presente, e tutelato, in entrambi gli ordinamenti (“convenzionale” e “europeo”), il principio della presunzione di innocenza (“come delineato nell’ordinamento convenzionale dalla giurisprudenza della Corte EDU e come riconosciuto nell’ordinamento dell’Unione europea”) cfr. Corte cost., n. 182/21, punti 9, 10, 14, 16 del “Considerato in diritto”.
[32] Cfr. la sentenza n. 84/21, spec. i punti 3.4. e 3.5. del “Considerato in diritto”. La Corte ha concluso per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f. «nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato»; la Corte precisa altresì che è compito del legislatore “la più precisa declinazione delle ulteriori modalità di tutela” del diritto al silenzio, “in modo da meglio calibrare” la tutela dell’ambito dei procedimenti amministrativi che vengono in considerazione” nel rispetto dei principi discendenti non solo dalla Costituzione, ma dalla CEDU e dal diritto UE (“Considerato in diritto”, punto 5). Cfr. in argomento i riferimenti alla nota 29.
[33] Sentenza n. 84/2011, punto 3.5. del “Considerato in diritto”, richiamando le sentenze n. 388/1999 e n. 187/2019. Sull’integrazione fra fonti ovvero “coincidenza” cfr. anche la sentenza della Corte cost. 29.3.2021, n. 49, punto 9.2. del “Considerato in diritto”, e sulla “concorrenza” fra fonti i riferimenti nella nota 2.
[34] Cfr. Corte cost. ordinanza 30.7.2020, n. 182, punti 3.1. e 3.2. del “Considerato in diritto”. Il precedente orientamento richiamato è alle sentenze 14.12.2017, n. 269; 21.2.2019, n. 20; 21.3.2019, n. 63; 5.2.2020, n. 11; le stesse sentenze sono richiamate da Corte cost. n. 49/2021, punto 9.2. e da n. 182/2021, punto 4.2. Sull’ordinanza n. 182/20 si vedano, in particolare, i commenti di D. Gallo, A. Nano, L’accesso agli assegni di natalità e di maternità per i cittadini di Paesi terzi titolari di permesso unico nell’ordinanza n. 182 del 2020 della Corte costituzionale, in eurojus.it, 2020; N. Lazzerini, Dual Preliminarity Within The Scope of the UE Charter of Fundamental Rights in the light of Order 782/2020 of the Italian Constitutional Court, in European Papers, 2020.
[35] Cfr. il dispositivo dell’ordinanza e, quanto al riferimento al diritto secondario, il punto 7.1.2., ove la Corte costituzionale precisa la propria richiesta tesa a conoscere se l’assegno di maternità «debba essere incluso nell’art. 34 CDFUE, letto alla luce del diritto secondario».
[36] Sentenza 2.9.2021, causa C-350/20, O.D. e a., EU:C:2021:659. Per un commento, D. Gallo, Assegni di natalità e maternità nella recente sentenza della Corte di giustizia: riflessioni “a caldo”, in eurojus, 2021; A. Torrice, Siglata la pace tra Corte di giustizia e Corte costituzionale sul difficile terreno della sicurezza sociale, in questa Rivista, 2021.
[37] Cfr. il considerando 31 della direttiva richiamata dalla sentenza O.D. e a. cit., punto 45.
[38] Cfr. la sentenza O.D. e a. cit., punto 46.
[39] Cfr. la sentenza O.D. e a. cit., punto 47, ricordando, in materia di discriminazioni fondate sull’età, la sentenza 11.11.2014, Schmitzer, C-530/13, EU:C:2014:2359, punto 23 con riferimenti di giurisprudenza.
[40] Cfr. su questi problemi di definizione la sentenza Kamberaj cit., punti 77-78.
[41] Cfr. in questi termini 18.12.2019, C-447/18, UB, EU:C:2019:1098, punti 33-34.
[42] Sui problemi relativi alla diretta applicabilità di norme della Carta e sulla distinzione fra principi e diritti cfr. i rilievi svolti nel nostro Carta dei diritti fondamentali, applicabilità e rapporti fra giudici: la necessità di una tutela integrata, in European Papers, 2021, p. 81 ss.
[43] Cfr. la sentenza 22.11.2005, C-144/04, Mangold, EU:C:2005:709.
[44] Cfr. l’ordinanza n. 182/20, punto 3.2. del “Considerato in diritto”. Per alcuni rilievi sui comuni intenti delle Corti europee cfr. L.S. Rossi, I rapporti fra la Carta dei diritti fondamentali e la CEDU nella giurisprudenza delle rispettive Corti, in I Post di AISDUE, 2020; S. Sciarra, Lenti bifocali e parole comuni: antidoti sull’accentramento nel giudizio di costituzionalità, in Federalismi, 2021, p. 37 ss.; cfr. anche E. Lamarque, I poteri del giudice comune nel rapporto con la Corte costituzionale e le Corti europee, in Questione giustizia, 2020; R. Conti, CEDU e Carta UE dei diritti fondamentali, tra contenuti affini e ambiti di applicazione divergenti, in Consulta on line, 2020.
Sciascia, i giudici e il danno da eccessiva professionalità di Giovanbattista Tona
Sommario: 1. “Il problema vero, assoluto” della giustizia – 2. Ripensare il ruolo del giudice nel crogiolo delle inquietudini sciasciane – 3. La bilancia tra diritto e drogheria – 4. L’etica imperscrutabile e professionale – 5. L’approccio di “sistema” – 6. La destinazione di un percorso.
1. “Il problema vero, assoluto” della giustizia
Interrogare Sciascia, interrogarsi su Sciascia o lasciarsi interrogare da Sciascia?
Il centenario della nascita del grande letterato di Racalmuto incrocia uno dei periodi più bui (nella percezione pubblica – che più della concretezza conta – certamente il più buio) per chi esercita il mestiere del giudicare in Italia.
E il confronto con lo scrittore che ha posto la giustizia al centro delle sue riflessioni, delle sue denunce e dei suoi tormenti è pertanto ineludibile e drammatico per la magistratura italiana sulla quale dall’esterno si indirizzano, e nella quale all’interno si dibattono, divergenti e nel loro complesso confuse ansie riformatrici e rigeneratrici.
Mentre si ricercano i modi più adeguati a garantire il retto ed imparziale giudizio dei magistrati attraverso la predisposizione di strumenti più aggiornati e rigorosi di valutazione della professionalità o di selezione meritocratica dei capi degli uffici o ancora di investitura dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura fuori dalle dinamiche elettorali e correntizie, ci si dimentica che gli esiti scandalosi delle più recenti prassi, oggi aborrite unanimemente da tutti, anche da chi continua a praticarle, sono i purulenti epigoni non della conservazione dell’antico, ma di precedenti mirabolanti riforme innovatrici, sulle quali si sono innestate le attività di giovani e meno giovani talenti, che dovevano perseguire – alcuni anche con ampio sostegno interno all’ordine giudiziario – gli obiettivi di palingenesi oggi ancora agognati.
Chi ha passione per i numeri conterà quante volte negli ultimi venti anni sono state modificate le norme sull’ordinamento giudiziario, sul processo civile e sul processo penale; e quando avrà finito, potrà cominciare a contare quante volte siano state modificate le circolari del CSM – ovviamente sempre per migliorare e per evitare prassi discutibili – su valutazione di professionalità, incompatibilità, incarichi e organizzazione degli uffici. Chi si annoia a fare la conta, però, di questa opera incessante può constatare egualmente i risultati.
Leonardo Sciascia già nel suo risalente saggio su “I fatti di Bronte” (datato 1960, poco dopo “Le parrocchie di Regalpetra”, prima ancora de “Il giorno della civetta” e di “Morte dell’inquisitore”), cominciava a denunciare le dinamiche di potere che in ogni tempo – e non meno quando ci sono rivolgimenti o riforme – hanno condizionato l’amministrazione della giustizia, facendola diventare strumento funzionale ad un proclamato rinnovamento morale e istituzionale (l’Unità d’Italia, ma poi anche il fascismo, e ancora dopo a rovescio l’AMGOT) cui corrispondevano, invece, meri riequilibri o consolidamenti di rapporti di forza.
Cosa penserebbe oggi delle sempre più indispensabili riforme dell’organizzazione giudiziaria?
Sciascia in vita era capace di assumere posizioni e proporre letture del tutto asimmetriche rispetto alle linee di pensiero, tracciate dal dibattito pubblico, e la sua voce sorprendente e originale spezzava sempre i ritornelli delle fazioni in lotta, persino di quelle che sembravano più vicine alle sue opinioni.
Chi si ricorda di questo o chi semplicemente legge oggi quello che disse allora ma nella temperie di allora e non sotto la luce del consenso unanime e (spesso ipocritamente) devoto riservatogli oggi, si renderà conto che vi è solo da compatire – sempre che non siano, come talvolta viene il sospetto che siano, in mala fede – coloro i quali ritengono dai suoi scritti di ricavarne il pensiero sui fatti dell’attualità: su quali proposte sosterrebbe, su quali scelte condividerebbe, su quali rimedi suggerirebbe.
Regole e riforme sono infrastruttura sotto la quale, comunque, rimane irrisolto il tormento sciasciano, mutuato dalla constatazione drammatica che Alessandro Manzoni appunta nella “Storia della colonna infame”: il continuo rischio che nell’amministrazione della giustizia ci si possa scoprire “un’ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano”.
L’essenza immortale della critica di Sciascia ai giudici e la pretesa che essi soffrano e non si fregino del ruolo da essi scelti si concretizza in un monito: “devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perchè il potere è esercitato in libertà ed autonomia”.
Non sono parole di Sciascia. Sono parole di Rosario Livatino.
Quelle di Sciascia hanno un suono più cupo ma il concetto che esprimono (assai tenace, sciascianamente lo potremmo definire) è lo stesso: “la scelta della professione del giudicare dovrebbe avere radice nella ripugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere (…) nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”.
La differenza tra i due sembra davvero misurabile in quegli scarsi venti chilometri di strada statale che separano Racalmuto da Canicattì. E se poi si rilegge in Sciascia che “il problema vero, assoluto” non si risolve con riforme o referendum, perché “è di coscienza, è di religione”, mentre oggi tutti rileggono Livatino perché il suo essere giudice si è incarnato proprio in una religione, allora si capisce che tra le campagne dei due paesi dell’agrigentino ci saranno forse dei sentieri che li separano appena appena di un soffio.
2. Ripensare il ruolo del giudice nel crogiolo delle inquietudini sciasciane
Nel volume curato da Andrea Apollonio, dal titolo “Verità impossibili. Voci della magistratura siciliana sull’opera di Leonardo Sciascia”, una di queste voci ha ipotizzato che un giudice dei nostri tempi, alla ricerca di un ripensamento sulla fisionomia ideale che l’amministratore della giustizia dovrebbe assumere nel quotidiano, constatata la confusione che, dietro la sicumera dell’indignazione e la professione dei principi, regna tra molte delle agenzie di etica istituzionale, possa essersi rivolto proprio agli scritti, alle epigrammatiche annotazioni e ai personaggi del Maestro di Regalpetra per ritrovare gli orizzonti di senso della sua dolorosamente necessaria professione.
“Un’intervista impossibile a delle pagine scritte o meglio ancora la richiesta di un consulto ad un oracolo che, tra il fruscio e gli odori di carta stampata e talvolta ingiallita anziché tra i fumi del fuoco perenne di farina d’orzo e foglie d’alloro, pronunci responsi da decifrare senza pretendere chiarezza.”
I frammenti sciasciani sono stati generosi di inquietudini per il giudice alla ricerca dell’essenza del giudicare:
“E se non si torna a chieder alle persone il conto preciso di quello che sono, di quello che fanno, di come vivono; se non si torna a giudicare un’azione per quella che è, senza far caso se è fatta con la mano sinistra (che sa quello che fa la destra) o con la mano destra (che sa quello che fa la mano sinistra), temo che nessuna riforma o rivolgimento varrà a cavare il classico ragno dal classico buco: immagine del tutto pertinente alla situazione, e anzi da moltiplicare – tanti buchi, tanti ragni”
(Nero su Nero, 1979)
“…quelle apparenze che da un certo punto in poi non sono apparenza, ma condizionamenti e condanne”
(Cruciverba, 1983)
“ Un fatto è un sacco vuoto. Bisogna metterci l’uomo, la persona, il personaggio perché stia su”
(Il contesto, 1971)
“…Non si può pretendere da un contadino la razionale fatica di uomo senza contemporaneamente dargli il diritto ad essere uomo… Una campagna ben coltivata è immagine della ragione: presuppone in colui che la lavora l’effettiva partecipazione alla ragione universale, al diritto…”
(Il Consiglio d’Egitto, 1963)
“…quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto.”
(Corriere della sera, 14 ottobre 1983).
E in quest’ultima affermazione, di apparente irresolubile contraddizione, contraddittoria in sé e inconciliabile con il rigore argomentativo richiesto a chi, come Sciascia, predica il primato della ragione, sì proprio in quest’ultima affermazione c’è il cuore del metodo sciasciano. Che dice e si contraddice. Per esigere dal giudice che non chiuda la sua ragione in un recinto di tecnica, che non consenta alla Ragion di Stato o alle convenienze di ruolo di rendere irrilevanti davanti al suo giudizio le ragioni della dignità dell’uomo, che non cerchi di sfuggire al confronto – a volte pericoloso, spesso impari – con le attese delle folle e le pretese dei poteri.
3. La bilancia tra diritto e drogheria
Etica e professionalità sono le parole elevate che salveranno la magistratura dalla sua crisi. Ovviamente se si tradurranno in prassi quotidiane. Bene! Questa è la strada. Ma rileggere Sciascia insegna la diffidenza verso chi invoca l’etica e la professionalità, così come verso chi invoca la verità, fino a farne strumenti ciechi o fonti germinatrici di pregiudizio.
Etica e professionalità, tecnica e scienza, possono diventare nient’altro che armi affilate per la conquista di porzioni di potere, talvolta anche molto miserabile.
Possono creare la familiarità di gioco con “quella bilancia che, incisa sul davanti della scranna presidenziale, dava l’illusione o la delusione, a seconda la si guardava dalla gabbia o da fuori, che il tribunale fosse soltanto una drogheria accreditata”, come icastico e irriverente Sciascia la definì nel racconto “Il signor T protegge il paese”.
In “Morte dell’inquisitore”, Sciascia ci racconta che, mentre supreme ingiustizie si consumavano con lo strazio degli eretici nello Spettacolo generale di Fede, il più ingrato lavoro di Monsignor de Los Cameros, inquisitore di Sicilia, era quello di stabilire il ruolo delle precedenze nelle solenni processioni che precedevano l’esecuzione delle sentenze del Sant’Uffizio.
“I qualificatori teologi avevano attaccato briga coi consultori giuristi: i primi ritenevano di dover avere vantaggio sui secondi per il fatto stesso che di un reo prima veniva qualificato l’errore teologico, e poi scendevano in campo i giuristi; ma questi da parte loro definivano, l’Atto di Fede pubblico come un atto giudiziario. I consultori ecclesiastici contendevano con i consultori laici; e il partito dei consultori laici era a sua volta internamente agitato dal contendere tra togati, avvocati semplici, avvocati del segreto.”
Questioni giuridiche raffinatissime mentre la dignità dell’uomo si mortificava (alla lettera, si faceva di morte) sopra un palcoscenico dinanzi alla folla plaudente. E dinanzi alla corte capitanale che si lamentava delle sedie rivestite di damasco di color perso perché avrebbe preteso, richiamandosi a vari canoni, sedie di velluto carmisino.
Questa metodica di selezione delle questioni giuridiche ritenute più rilevanti rimane collocata alla data del 16 marzo del 1658 nella Palermo dei vicerè oppure, come direbbe Sciascia, è una velenosa entelechia del potere, una fotografia di una realtà che tende a riprodursi fino a che raggiunge l’obiettivo finale cui spontaneamente tende (la mera affermazione di sé) e che in questo caso in nulla potrebbe identificarsi con la giustizia?
La coscienza del giudice dovrà vigilare su di sé e su chi lo circonda per ricacciare questa immagine nel passato. Senza confidare nel fatto che certi atteggiamenti tecnicamente astratti, prima ancora di mostrarsi irragionevoli, potranno rivelarsi ridicoli. Questo non basterà.
“Perché”, scrive ancora Sciascia introducendo una mostra del pittore Pietro Guccione nel 1984, “la stupidità – bisogna riconoscerlo – sa essere perfetta, mentre l’intelligenza raramente lo è”.
4. L’etica imperscrutabile e professionale
L’etica del giudice sarà la distanza? L’imprescrutabilità? Il rispetto delle forme? L’ossequio al sistema giuridico-istituzionale di cui è uno snodo?
Basterà questo a legittimarne il ruolo in un sistema democratico moderno?
Se potrà bastare, l’impresa è tutta lì: assicurare che chi giudica sia dotato di elevata preparazione tecnica, sia diligente e puntuale.
Ma almeno su questo Sciascia si è espresso già e non possiamo rammaricarci del fatto che oggi non sia con noi a discuterne:
“Presupponendo la scienza del cuore umano alla pari di quella dei codici, e magari in maggior misura quella del cuore umano, l’amministrazione della giustizia riceverebbe anzi danno da una eccessiva professionalità.”
Proprio così ha scritto sul Corriere della sera del 14 ottobre 1983 in un articolo in cui tra l’altro parlava del caso Tortora. E in un caso nel quale le iniziative giudiziarie non venivano portate ad esempio di corretta amministrazione della giustizia, Sciascia propose anche il rischio inverso; oltre al danno provocato dalla professionalità scarsa, se ne poteva prefigurare uno, forse ancora più grave, derivante da professionalità eccessiva. Quella scarsa smarrisce ma quella eccessiva soffoca la scienza del cuore umano ed entrambe convergono verso un decidere sordo e vuoto. Che come il suono di una campana sancisce la solennità di chi la muove, sollecita l’attenzione di chi la ascolta, ma annichilisce senza ragione chi vi si trova dentro.
Rileggendo il racconto di Tolstoi, “La morte di Ivan Il'ič”, Sciascia commenta la vicenda del protagonista, un giudice, che rivede se stesso nel medico che gli formula la prognosi di un male incurabile e che gli sembra comportarsi come in tribunale fa chi formula l’accusa ad un imputato. Allo scrittore siciliano in quel contesto premeva sottolineare come fosse in atto una forma di medicamentalizzazione della vita, ma (inconsapevolmente) come in un gioco di specchi racconta ciò che può essere la giuridicizzazione della vita degli uomini, che possono così sparire dalla vista dell’uomo giudice chiamato a deciderne le sorti.
“Imperscrutabile, come il giudice. Come il giudice, non tenuto a render conto di nulla e soprattutto delle sentenze che emette.
E così come il giudice può dar torto o ragione facendo astrazione del torto o della ragione, poiché quello che conta è l’affermazione della legge comunque interpretata, il medico fa astrazione della malattia e della salute, poiché quello che conta è l’affermazione della medicina, cioè la medicamentalizzazione dell’idea della vita”.
Sembra affiorare in queste parole il germe dal quale può scaturire la visione della giustizia che, ne “Il contesto”, il presidente illustra all’ispettore Rogas, spiegandogli come, in nome del circuito della legittimità, le prove oggettive non esistono e quel che conta è il potere legittimo che può rendere l’uomo allo stato di colpa.
“…quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società - che somma così paurosamente grande di poteri gli affida - disposto e proteso a comprendere l'uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”.
Questa volta è di nuovo Livatino che parla. Ma oramai è chiaro: il Maestro ateo e il Beato cattolico guardano gli stessi orizzonti dalla campagna di contrada Noce o da una finestra del Palazzo di giustizia di Agrigento.
5. L’approccio di “sistema”
La storia d’Italia è disseminata di storie di magistrati che interpretano un potere senza potere, che per l’affermazione della legalità e della verità si confrontano senza mezzi con soggetti portatori di fatto di una forza talvolta capace di neutralizzarli talaltra di schiacciarli. Sciascia si è occupato anche di loro e di tutti gli altri uomini dello Stato che, in vari ruoli, hanno esercitato i loro compiti scoprendosi senza potere.
Ma la sua diffidenza verso chi amministra la giustizia si fonda sulla constatazione che l’essere un potere o l’essere un senza potere non deriva da profili normativi od organizzativi, ma ancora una volta dal modo di essere dell’uomo.
In più occasioni Sciascia ebbe a raccontare che da ragazzo, prima che gli venisse somministrato per obbligo scolastico, aveva letto “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni e s’era fatto di quel romanzo un’idea rovesciata rispetto a quello che a scuola gli avrebbero insegnato: una storia disperante il cui protagonista assoluto, perché vincente, era Don Abbondio.
A fronte del conflitto impari tra i due giovani popolani Renzo e Lucia e il signorotto Don Rodrigo, dopo la propagazione della peste, dopo le sommosse e la fame, le conversioni e i tradimenti, ognuno sopporta la sua porzione di sofferenze e di sconfitte, ma chi trionfa è sempre Don Abbondio: con lui “l’uomo del ‘particulare’ perviene alla sua miserevole ma duratura apoteosi”.
E perché in lui può esserci la sintesi di ciò che di peggio può diventare un giudice, il più elevato in grado al pari del più marginale e periferico?
Perché l’agire di Don Abbondio rappresenta “un sistema di servitù volontaria, non semplicemente accettato ma perseguito da una posizione di forza, di indipendenza quel era quella di un prete in Lombardia”.
Arrogante e pavido, vittimista e sfuggente, fa della sua indipendenza e del suo potere gli elastici strumenti necessari a schivare danni e ad assicurarsi protezione; nonostante dovesse servire il volere di Dio, era “refrattario alla Grazia e della Provvidenza si considerava creditore”.
Sciascia si lamentava del fatto che, negli istituti scolastici e nei corsi universitari, non si trovasse traccia di uno dei saggi, a suo avviso, più illuminanti sul significato anche civile del capolavoro manzoniano; lo aveva pubblicato nel 1933 Angelandrea Zottoli e aveva un titolo significativo: “Il sistema di Don Abbondio”.
Oggi che la palingenesi della magistratura pare debba prendere le mosse dal ripudio di un “sistema”, che nell’editoria contemporanea ha dato il titolo a volumi commercialmente più fortunati di quello di Zottoli, forse bisognerebbe concentrarsi maggiormente sui mali italici più endemici e più camaleontici, capaci di insinuarsi anche in un potere autonomo e asseritamente separato. Con o senza le correnti.
Leggendo un libro del 1933, che trae spunto da un romanzo del 1827, che a sua volta parla di una vicenda del 1628, forse si capirà per tempo, entro il 2022, come contrastare l’unico sistema che può davvero durevolmente condizionare i magistrati: quello di Don Abbondio.
6. La destinazione di un percorso
Un giudice inquieto ha cercato di rileggere Sciascia. Per capire verso dove potremmo andare per uscire da questa crisi, che grava sull’istituzione e che coinvolge i singoli.
Ma è già partito un treno. Sul quale viaggia il giudice inquieto e lungo il tragitto ha portato questi libri, per aiutarsi a trascorrere utilmente il tempo.
Il treno porterà – così gli hanno detto – al rinnovamento e alla rilegittimazione della magistratura dopo gli scandali che l’hanno colpita.
Quale sia la meta di questo treno di preciso il giudice non lo ha ancora compreso.
Gli scritti sciasciani, che ha riletto, lo hanno esortato a trovare dentro di sé nella coscienza e attorno a sé nella scienza del cuore umano la strada per giungere imperfettamente ma effettualmente alla meta del giusto giudicare.
Ma sul treno c’è già e il convoglio va.
Ed il giudice si sente come quel contadino, di cui trova fulminante racconto nel diario sciasciano intitolato “Nero su nero” e che, come lui, sperava di poter essere sicuro della meta. Epperò….
“Il contadino che a Roccapalumba sale sul treno che va ad Agrigento, per tre volte, a tre persone diverse, domanda se il treno va ad Agrigento: e per tre volte ottiene la stessa risposta: «Almeno…» La terza volta la risposta viene addirittura da un ferroviere: e allora il contadino si rassegna al dubbio. Nessuno è certo che il treno vada ad Agrigento: pare che ci vada, così è scritto, così credono i viaggiatori e coloro che lo muovono; ma può anche finire a Trapani, a Messina, all’inferno”.
Copertina di Fabio Magnasciutti - Ponti versus muri, o muri e ponti
Editoriale
Ponti versus muri, o muri e ponti. Si direbbe, e siamo certi alcuni lo penseranno, magari senza esternarlo, quanta retorica attorno a queste espressioni, quanto desiderio, stucchevole fino al punto da risultare vagamente nazionalpopolare, di sfruttare le due espressioni oltre il loro significato consueto e proprio dell’edilizia per farne, invece, icone abusate di un pensiero che tende ad autocelebrare come giusto, convincente, corretto tutto quanto sta sopra il ponte ed invece scorretto e negletto quanto è alla base del muro.
Diversa vorrebbe essere la prospettiva che anima i contributi che Giustizia insieme si appresta ad offrire ai suoi lettori a partire da domani in un periodo “natalizio” – pare si possa, almeno quest’anno, continuare a chiamarlo così senza suscitare cattivi pensieri discriminatori – tradizionalmente dedicato ad uno stacco, fisico e mentale. Saggi, appunti, riflessioni che in quei due termini hanno trovato il punto di innesco per affrontare temi e problemi che “vivono” nella società del nostro tempo, alcuni ben avvertiti alla comunità dei giuristi, altri meno presenti.
Problemi a volte “nostri”, altre volte vissuti in realtà spaziali diverse e per questo, forse a torto, avvertiti come marginali rispetto ai “nostri” e dunque meritevoli di attenzione minore.
Ne è nata una collettanea di pensieri, suggestioni e rappresentazioni plurali.
Quindici opere dell’ingegno che hanno passato sotto la lente di ingrandimento accadimenti della storia come la guerra del Vietnam - Augusto D’Angelo, Il ponte di La Pira contro la guerra in Vietnam – e la caduta del muro di Berlino – Andrea Apollonio, Il confine tra le cose e il coraggio di superarlo: il muro (di Berlino) oggi – ma anche il tempo presente – Giuseppe Savagnone, Nel Natale del Covid non siamo più tanto buoni; Tommaso Manzon, Un muro d'oro puro, simile a terso cristallo: una meditazione natalizia a margine di Apocalisse 21 – la drammaticità della crisi pandemica e delle divaricazioni aspre progressivamente manifestatesi sui rimedi e sui costi da questi prodotti – Marco Dell’Utri, Il ponte fragile della ragione. Appunti sull’obbligo vaccinale – fino a toccare le piaghe più dolorose del nostro tempo presente, alcune tragicamente quotidiane - M. C. Amoroso, Il muro che vorrei fra uomo e donna, – altre fisicamente lontane ancorché collegate a fenomeni ormai divenuti planetari. Qui la riflessione si è orientata verso come quelli migratori, ben lontani dall'essere geograficamente limitati al Mediterraneo, come ci ricorda Tania Groppi mettendo insieme le reazioni sovraniste polacche alla situazione migratoria nell'America del sud - Migranti, ponti e muri dalla Polonia al continente latino americano – e, ancora nel terzo millennio, di segregazione - Karim El Sadi, Gaza. Il dramma del fanciullo palestinese e il muro dell'indifferenza. Quali ponti per il futuro? – che lo street artist Bansky ha scolpito in alcuni suoi murales realizzati proprio a Gaza, affrescando i muri con immagini di rara intensità e bellezza.
Interventi che sembrano tutti condurre il lettore verso una dimensione universale dei “doveri” e delle responsabilità, nella quale le sovranità statali sembrano in cerca di un riposizionamento ancora oggi incompiuto e incerto – Enzo Cannizzaro, Stati sovrani e giustizia globale – e che, senza evocare l'idea utopica di open borders che propagandava John Lennon in Imagine, interrogano tutti noi su quanto il giurista e la giustizia debbano continuamente misurarsi con una dimensione del diritto sempre più sconfinata, per dirla con Maria Rosaria Ferrarese e parimenti alimentarsi della conoscenza di un mondo complicato e complesso qual è quello in cui viviamo, nel quale il passato non può essere oggetto di mera (e forse troppo comoda) epurazione, come ci suggerisce David Cerri – Chi aiuterà il minore a dialogare col giudice nel nuovo processo di famiglia? L’esperto come San Cristoforo – ma anzi sentinella attiva del e sul nuovo che avanza.
Una rappresentazione, quella dei ponti e dei muri che, d’altra parte, è sembrata non potesse e non dovesse prescindere dalle riflessioni orientate sulle poderose capacità espressive proprie del mondo della della cinematografia – Dino Petralia, Il prigioniero coreano, alle prese con un cinema di frontiera – della musica, con Luigi di Paola – Sting, The brigde – che ci conduce per mano attraverso l'acqua, la città sommersa ed il ponte della mente rappresentato nell'ultimo album del poeta-cantante e con Giuseppe Arbia, Pink Floyd - The Wall, che analizzerà i muri nei quali si rinchiude l'individuo, e del disegno satirico. Infine – o, meglio, all'inizio – Fabio Magnasciutti, con la vignetta che accompagna questo editoriale e che ne incarna davvero la sua portata di senso. Tutte quante, espressioni plasticamente capaci di dimostrare quanto sia prima di tutto interiore e quotidiano, anche se spesso inconfessato, per ciascuna persona sensibile, il conflitto fra ponti e muri, la ricerca di un confine appagante fra le esigenze del sé e quelle degli altri; quanto ancora sia difficile eliminare l’uno e scegliere l’altro, quanto sia essenziale, ancorché oneroso, provare a mettere “insieme” l’uno e l’altro, attingendo alla risorsa preziosa, anche se aspra e onerosa, del confronto e del dialogo, rifuggendo da schematismi astratti e, soprattutto, da coloro che si ergono a tutori dell’uno o dell’altro corno della questione e si fanno portatori di un’unica e sola “verità”, invece di andare alla ricerca delle cause delle verità plurali che spesso si fronteggiano. Il che non vuol certo negare la necessità di affrontare le questioni nodali del nostro tempo con alla base alcune idee cardine e non negoziabili, quali la tutela dei diritti fondamentali, il rispetto della Costituzione, la salvaguardia dello Stato di diritto, ma soltanto invitare tutti ad un approccio capace di ascoltare le diverse prospettive per coglierne ciò che di buono e vero esse potrebbero avere.
Insomma, per dirla con Giorgio La Pira, che ha attivato l’idea portante di queste riflessioni, piace assecondare e proporre una prospettiva che si fondi sul motto “osare l’inosabile”, investire su tutto ciò che è prodotto del pensiero umano per trarne forza e alimento, senza perdere di vista, appunto, i cardini sui quali la nostra civiltà poggia – recte, deve poggiare –. Fondere, dunque, i ponti con i muri piuttosto che porsi in una prospettiva che vede il bianco nel ponte e il nero nel muro, superare l’idea stessa che sia sufficiente eliminare il muro, invece ponendo le basi per una linea di azione e di pensiero capace di capire le ragioni del muro per poterlo valicare insieme a chi ne ha rappresentato le esigenze. Perseguire, dunque, un ragionevole accomodamento fra diverse prospettive che proprio la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione ha di recente individuato come Grundnorm per risolvere conflitti apparentemente insanabili in ambito religioso senza deflettere mai dall’idea di stare dalla parte della persona umana e dei valori che essa riflette. Idea che Piero Calamandrei ebbe a perseguire con forza, come ci ricorda la riflessione dedicata alla rivista Il Ponte che il Maestro creò sulle ceneri della seconda guerra mondiale di Giuliano Scarselli – G. Scarselli, Il Ponte di Piero Calamandrei (una storia fiorentina) -.
In questa prospettiva fare memoria costituisce dunque risorsa preziosa per spiegare meglio il tempo presente e prefigurare un futuro anche solo un pizzico migliore.
Alla direzione scientifica ed alla redazione non resta altro che far giungere un ringraziamento sincero a chi questo viaggio ha con passione reso possibile e dunque a tutte le Autrici e gli Autori che, ne siamo certi, hanno reso più stabili i ponti e dato un senso profondo ai muri del nostro tempo.
Buon Natale, buon anno e, soprattutto, buona lettura.
Accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori e condanna alle spese in caso di cessata materia del contendere (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 ottobre 2021, n. 6824).
Silia Gardini*
Sommario: 1. Inquadramento dell’istituto della cessazione della materia del contendere nell’ambito del processo amministrativo – 2. L’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse – 3. La sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824 della VI sezione del Consiglio di Stato – 3.1 L’accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori – 3.2 Soccombenza c.d. “virtuale” e condanna alle spese
1.Inquadramento dell’istituto della cessazione della materia del contendere nell’ambito del processo amministrativoL’espressione “cessazione della materia del contendere” è una formula terminativa del processo emersa dalla necessità pretoria di fronteggiare – in pendenza del procedimento giurisdizionale – il sopraggiungere di un elemento che abbia diretta incidenza sulla vicenda dedotta in giudizio. Affrontare il tema della cessazione della materia del contendere vuol dire, dunque, esaminare tutti quei casi in cui l’irrompere sulla scena processuale di una sopravvenienza (fattuale o provvedimentale), atta a modificare la situazione che era stata cristallizzata al momento della proposizione del ricorso, possa produrre effetti estintivi sullo stesso giudizio. Sotto questo profilo, le dinamiche sottese al processo amministrativo sono del tutto peculiari e risultano strettamente connesse all’evoluzione che, nel corso degli anni, ha attraversato lo stesso sistema di giustizia amministrativa.
Diversamente da quanto è avvenuto nell’ambito del processo civile[1], nel processo amministrativo la declaratoria di cessazione della materia del contendere si riconnette storicamente alla necessità di inglobare nella vicenda processuale l’atto o il fatto sopravvenuto che incida sul provvedimento impugnato. Se il giudizio era, in una prima fase, proiettato alla sola verifica della legittimità di un determinato provvedimento, l’intero processo risultava inevitabilmente condizionato dalla vita di quello stesso atto, «con riferimento alla sua insorgenza, al suo decorso, alla sua estinzione»[2] ed appariva quasi doveroso per il giudice il rilevarne d’ufficio le relative implicazioni. Così, in tutti i casi di provvedimento sopravvenuto (anche laddove ciò non risultasse soddisfacente per l’interesse del ricorrente), veniva emessa una pronuncia di cessazione della materia del contendere sulla base della sola constatazione del venir meno dell’atto. Come rilevato in dottrina, questo assetto giurisprudenziale «deriva[va] direttamente dalla rigida concezione del processo amministrativo come processo di impugnazione di un atto: di un processo, cioè, i cui limiti sono rigorosamente posti dall’atto stesso»[3].
Il riconoscimento legislativo dell’istituto della cessazione della materia del contendere è avvenuto soltanto con la legge n. 1034/1971 (c.d. Legge T.a.r.), il cui art. 23, comma 7 disponeva che, se entro il termine per la fissazione dell’udienza, l’amministrazione avesse annullato o riformato l’atto impugnato in modo conforme alla istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo regionale avrebbe dovuto “dare atto” della cessata materia del contendere e provvede sulle spese[4]. La portata innovativa della norma – già auspicata, de iure condendo, dalla dottrina – era evidente: circoscrivendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere alle sole ipotesi in cui l’atto di annullamento o di riforma del provvedimento impugnato risultasse conforme alle istanze del ricorrente, la Legge T.a.r. rendeva il Giudice amministrativo conoscitore del fatto al fine di accertare il permanere di una lesione, pur nel venir meno del provvedimento amministrativo che aveva dato origine al giudizio.
La pronuncia di c.m.c. venne, così, ricondotta all’accertamento di una vicenda sostanziale, dal quale si fece discendere altresì la preclusione nei confronti dell’amministrazione a modificare la situazione giuridica posta in essere con il provvedimento, anteriormente emanato, da cui fosse conseguita l’integrale soddisfazione dell’interesse legittimo fatto valere dal ricorrente[5].
In una prima fase, però, nel silenzio del legislatore, non appariva ancora del tutto certo se alla sentenza – poi decreto[6] – di cessazione della materia del contendere dovesse attribuirsi natura di pronuncia di rito ovvero di merito. Ad ogni modo, dopo qualche incertezza, la giurisprudenza prevalente optò per il riconoscimento della natura di pronuncia di merito della c.m.c., facendo leva sulla tipologia di accertamento (relativo alla conformità della sopravvenienza rispetto all’interesse del ricorrente) che il giudice, con essa, era chiamato ad operare.
Le risultanze di questa lunga elaborazione dell’istituto sono, poi, confluite nel Codice del processo amministrativo che – com’è noto – ha inserito la disciplina della pronuncia di cessazione della materia del contendere nell’art. 34, dedicato alle sentenze di merito, disponendo che «qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta, il giudice dichiara cessata la materia del contendere».
La novità più rilevante introdotta dalla norma codicistica si rinviene nell’impiego di una locuzione più chiara e sintetica rispetto alla formula lessicale adoperata dalla normativa previgente, che – espungendo il riferimento espresso all’annullamento o alla riforma dell’atto impugnato da parte dell’Amministrazione – connette, senza più alcun dubbio interpretativo, la pronuncia di cessata materia del contendere esclusivamente al pieno soddisfacimento della pretesa azionata con il ricorso, indipendentemente dalla domanda esperita.
Di conseguenza, oltre all’ipotesi tradizionale di annullamento con efficacia ex tunc – ovvero la riforma in chiave satisfattoria – del provvedimento impugnato, si avrà certamente una pronuncia di cessazione della materia del contendere ai sensi dell’art. 34, comma 5 c.p.a., ad esempio, nel casi di pagamento di una somma di denaro pretesa dal privato (anche nel corso di un giudizio risarcitorio), di rilascio del provvedimento richiesto nell’ambito del giudizio avverso il silenzio dell’Amministrazione, di esecuzione della sentenza da parte della P.A. in pendenza di un giudizio di ottemperanza. A contrario, non potranno in alcun modo determinare cessazione della materia del contendere l’atto di revoca del provvedimento impugnato, avente ex lege efficacia ex nunc, l’annullamento parziale dell’atto lesivo, la sostituzione dello stesso provvedimento con altro atto sostanzialmente confermativo delle decisioni precedentemente assunte, né – nell’ambito del rito avverso l’inerzia della p.a. – l’emanazione di un provvedimento espresso di diniego[7].
A ben vedere, il minimo comun denominatore di tutte le fattispecie di cessazione della materia del contendere si sostanzia nell’accertamento da parte del giudice – attraverso una pronuncia di merito idonea a formare giudicato sostanziale e, dunque, a condizionare, con effetti preclusivi e conformativi, il successivo esercizio del pubblico potere – della natura della sopravvenienza (fattuale o provvedimentale), che deve risultare capace di determinare una nuova configurazione del rapporto tra privato e pubblica amministrazione e riconoscere al primo le stesse identiche utilità che avrebbe potuto conseguire con l’accoglimento del ricorso[8].
2. L’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse
Prima della legge n. 1034/1971, le ipotesi di sopravvenienza idonee ad influire sul giudizio in corso di venivano fatte confluire indistintamente nelle due formule decisorie della “cessazione della materia del contendere” e della “improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse”. Solo successivamente all’emanazione della Legge T.a.r., la giurisprudenza si proiettò verso la piena scissione concettuale dei due istituti.
Il discrimine si coglieva in pieno volgendo lo sguardo agli effetti prodotti dalla sopravvenienza nella sfera giuridica soggettiva del ricorrente: se la pronuncia di cessazione della materia del contendere discendeva da eventi direttamente incidenti sull’oggetto del giudizio (fosse esso identificato con il provvedimento impugnato, ovvero con il rapporto instaurato tra amministrazione e privato), facendo conseguire al privato l’utilità agognata, la sopravvenuta carenza di interesse si ricollegava ad una modificazione della sfera personale del soggetto che interferiva con il mantenimento dell’interesse ad agire[9]. In altre parole, si rilevò che nella prima figura la sopravvenienza causava il venir meno dell’interesse materiale alla tutela giurisdizionale, in virtù del pieno soddisfacimento della pretesa sostanziale del ricorrente, laddove, nella seconda, essa incideva sul mantenimento di un presupposto processuale, determinando l’impossibilità per il ricorrente di conseguire un risultato vantaggioso da una eventuale pronuncia di accoglimento e, di conseguenza, l’inutilità di un pronunciamento giudiziale sulla fondatezza del ricorso[10]. Da qui la configurazione della dichiarazione di carenza sopravvenuta di interesse come pronuncia di mero rito, a fronte della natura di merito dell’accertamento posto alla base della cessazione della materia del contendere.
Il Codice del processo amministrativo, a differenza della Legge T.a.r. del 1971, ha previsto espressamente la figura della carenza sopravvenuta di interesse: l’art. 35, comma 1, lett. c) c.p.a. ricomprende tale formula processuale tra le sentenze di rito, stabilendo che «il giudice dichiara, anche d’ufficio, il ricorso (…) improcedibile quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse di una delle parti alla decisione». L’art. 84, comma 4 c.p.a. – ad integrazione della disposizione precedente – prevede, poi, che il giudice, anche a prescindere da una rinuncia di parte, possa desumere dall’intervento di fatti o atti univoci, successivi alla proposizione del ricorso, nonché dal comportamento delle parti, argomenti che provino la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa.
Sul punto, la giurisprudenza più recente ha sostanzialmente mantenuto l’orientamento già consolidatosi sotto la vigenza della l. n. 1034/1971, affermando a più riprese che la sopravvenuta carenza di interesse si verifica quando – a seguito della modificazione della situazione di fatto e di diritto cristallizzata al momento della proposizione della domanda – l’eventuale accoglimento del ricorso non produrrebbe più alcuna utilità per il ricorrente, facendo venir meno la condizione dell’azione dell’interesse a ricorrere[11]. L’esempio tipico di sopravvenuta carenza di interesse si verifica laddove l’Amministrazione adotti, nelle more del giudizio, un nuovo provvedimento che fissi un diverso assetto degli interessi, in modo che i rapporti con il privato risultino regolati dal nuovo atto e l’eliminazione giurisdizionale di quello impugnato non avrebbe più alcuna utilità. L’esclusione di ogni risultato utile può verificarsi, inoltre, quando l’atto del cui annullamento si discute abbia consumato la sua efficacia, ovvero quando il rapporto giuridico sotteso al provvedimento impugnato sia stato oggetto di una nuova regolazione intervenuta nel corso del giudizio, o – ancora – quando il ricorrente non abbia impugnato un atto presupposto o collegato da cui derivano effetti sfavorevoli.
In ogni caso, però, al fine di scongiurare la possibile elusione dell’obbligo di decidere sulla domanda proposta[12], l’indagine condotta dal giudice in tali circostanze è considerata particolarmente gravosa, sicché il mantenimento di qualsivoglia interesse di parte all’esame della censura (sia pure esso solamente strumentale o morale, ma pur sempre correlato ad una lesione attuale cagionata dall’azione amministrativa[13]) giustificherebbe l’esigenza di una decisione di merito[14].
In particolare, ciò si verifica quando il ricorrente, pur non potendo trarre più alcuna utilità dall’annullamento del provvedimento impugnato, mantenga tuttavia un interesse ad ottenere il ristoro per il pregiudizio patito in conseguenza dell’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa. In altre parole, in tutti quei casi in cui viene meno l’interesse alla tutela in forma specifica consistente nell’annullamento dell’atto, ma permane l’interesse a conseguire una tutela per equivalente che risarcisca il privato dei danni eventualmente subiti.
La fattispecie, disciplinata espressamente dall’art. 34, comma 3 c.p.a. – a norma del quale «quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori» – ha dato vita ad un intenso dibattito giurisprudenziale ed è stata analizzata dall’annotata sentenza del Consiglio di Stato, che ne ha efficacemente chiarito l’ambito di applicazione, anche con riguardo all’istituto della cessazione della materia del contendere.
3. La sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824 della VI sezione del Consiglio di Stato
Il caso oggetto della pronuncia in commento, esaminato dal Consiglio di Stato con la sentenza 11 ottobre 2021, n. 6824, si riferisce ad una procedura valutativa per la chiamata di due professori di seconda fascia, indetta nel 2016 dall’Università di Padova.
Dopo un primo annullamento della procedura ed a seguito della rinnovazione della stessa, uno dei candidati non vincitori impugnava gli atti dinnanzi al T.a.r. del Veneto che, ancora una volta, aveva deciso per l’accoglimento del ricorso. Incardinato il giudizio di appello dinnanzi al Consiglio di Stato, l’Università appellante aveva, però, fatto presente che il ricorrente vittorioso in primo grado era nel frattempo risultato vincitore di una nuova procedura concorsuale – indetta dalla medesima Università e per il medesimo ruolo – ed aveva, dunque, richiesto al giudice di dichiarare l’inammissibilità (improcedibilità) del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. La parte appellata, dal canto suo, aveva rilevato l’impossibilità di dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse, stante la necessità di ottenere una pronuncia di accertamento sull’illegittimità degli atti impugnati ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., al fine del successivo risarcimento dei danni.
Il Consiglio di Stato, disattendendo le ipotesi prospettate da entrambe la parti, ha deciso per la declaratoria della cessazione della materia del contendere, rifacendosi a quell’orientamento – sopra ampiamente richiamato – che individua la linea di demarcazione tra c.m.c. e s.c.i. nel diverso accertamento sotteso alla loro adozione e connesso alla piena soddisfazione dell’interesse sostanziale sotteso alla proposizione dell’azione. Nel caso di specie, infatti, la parte appellata – con la chiamata come professore di seconda fascia da parte dell’Università di Padova – aveva conseguito interamente il bene della vita oggetto del giudizio, ottenendo, anzi, sul piano sostanziale più di quanto avrebbe potuto ricavare da una sentenza favorevole, la quale avrebbe potuto statuire, al più, l’obbligo di rinnovamento della procedura concorsuale.
La sentenza non ha, dunque, posto in essere particolari innovazioni sul piano della definizione della pronuncia di cessazione della materia del contendere, assestandosi invero sulle risultanze da tempo cristallizzate dalla giurisprudenza prevalente e già esaminate nei paragrafi precedenti. Essa contiene, tuttavia, delle riflessioni particolarmente interessanti con riguardo ai profili di connessione tra cessazione della materia del contendere, sopravvenuta carenza di interesse e declaratoria dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori che – nella prassi giudiziaria – tendono spesso ad essere sovrapposti ed alternativamente utilizzati e richiamati.
3.1 L’accertamento dell’illegittimità del provvedimento ai fini risarcitori
Come già anticipato, ai sensi dell’articolo 34, comma 3 del Codice del processo amministrativo, «quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori». La norma prevede, dunque, la possibilità di convertire l’azione di annullamento in azione di mero accertamento, regula iuris che si connette al più rilevante principio di effettività della tutela giurisdizionale ed al corollario che da tale principio deriva, costituito dall’ammissibilità di azioni di accertamento anche atipiche[15]. Prima di esaminare le direttive fornite sull’argomento dal Giudice amministrativo con la sentenza annotata, è – però – opportuno ripercorrere brevemente i principali filoni interpretativi formatisi sulla norma in esame.
Un primo orientamento, facendo leva sulla formulazione letterale della norma e sulle esigenze di economia processuale ad essa sottese, rinviene nell’art. 34, comma 3 c.p.a. un vero e proprio potere-dovere di decidere il merito della causa, esercitabile ex officio dal giudice. Appare evidente come, da un’applicazione rigorosa di tale orientamento, discendano difficoltà di coordinamento tra la disposizione normativa in esame ed il principio della domanda, problema – tuttavia – “risolto” dalla giurisprudenza ricorrendo al principio di continenza e considerando che la domanda di annullamento racchiuderebbe in sé, necessariamente, anche un’attività di accertamento[16].
Di contro, l’orientamento più restrittivo ritiene che l’accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori sia ammissibile soltanto laddove la domanda di risarcimento sia stata proposta nello stesso giudizio, oppure quando parte ricorrente dimostri di aver già incardinato un separato giudizio di risarcimento (o di essere in procinto di farlo)[17].
Ancora, secondo un’interpretazione più recente, meno stringente della precedente, l’art. 34, comma 3, c.p.a. non può essere inteso nel senso che – in seguito ad una semplice generica indicazione della parte e in mancanza di una specifica domanda in tal senso – il giudice debba automaticamente verificare la sussistenza di un interesse a fini risarcitori. Secondo questa impostazione, diversamente opinando, perderebbe di senso a livello sistematico il principio dell’autonomia dell’azione risarcitoria, così come enucleato dall’art. 30 c.p.a. e verrebbe svalutato anche il principio dispositivo che informa il giudizio amministrativo e che preclude la mutabilità ex officio del giudizio di annullamento, una volta azionato[18]. L’applicazione della norma de qua rimarrebbe, dunque, subordinata alla esplicita istanza di parte ed alla puntuale allegazione in relazione al perdurante interesse risarcitorio.
Orbene, con la sentenza n. 6824/2021, il Consiglio di Stato pare aderire all’ultimo degli orientamenti richiamati. La ricostruzione effettuata – partendo dalla precisazione che l’unica forma d’interesse che, una volta acclarata l’inutilità dell’annullamento, legittima la prosecuzione del giudizio è quella che sorregge l’azione risarcitoria e che qualsiasi diversa apertura si porrebbe contra legem[19] – assegna alla disponibilità della parte la deduzione dell’esistenza di suddetto interesse con apposita istanza, mentre onera il giudice dell’accertamento puntuale della sussistenza dei presupposti necessari ai fini dell’adozione della relativa pronuncia.
Definito il proprio orientamento sul punto, la sentenza precisa, poi, che l’istituto in esame non può trovare applicazione nei casi in cui la soddisfazione dell’interesse sostanziale del ricorrente determini una pronuncia sulla cessazione della materia del contendere, neppure ai fini di una statuizione limitata alla c.d. soccombenza virtuale per la condanna alle spese. L’ambito di applicazione dell’art. 34, comma 3 viene – dunque – riconnesso e circoscritto a quello della dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse, nel senso che, ove ne ricorrano i presupposti, l’illegittimità dei provvedimenti impugnati può essere accertata esclusivamente per evitare una pronuncia di rito relativa all’improcedibilità del ricorso.
L’interpretazione del Giudice appare coerente con la natura delle pronunce esaminate. Prendendo le mosse dagli effetti che l’intervento di una sopravvenienza – fattuale o provvedimentale – sulla scena processuale può determinare, le tre situazioni che possono configurarsi sono, infatti, le seguenti: 1) la piena realizzazione dell’interesse sostanziale del ricorrente, con pronuncia di cessazione della materia del contendere; 2) l’impossibilità dell’ottenimento del bene della vita per la via processuale, con pronuncia di sopravvenuta carenza di interesse al ricorso; 3) la necessità, pure in assenza di un interesse all’annullamento degli atti, di una pronuncia di accertamento della loro illegittimità ai fini risarcitori.
Ebbene, nei casi di cui al punto 1), sulla scorta della valenza di pronuncia di merito della declaratoria di c.m.c., l’illegittimità dei provvedimenti impugnati può essere desunta indirettamente dal riconoscimento della spettanza del bene della vita oggetto del giudizio da parte dell’Amministrazione. In altre parole, la declaratoria di cessazione della materia del contendere – per sua stessa natura – non necessita in alcun caso di essere “integrata” dall’accertamento di cui all’art. 34, comma 3 c.p.a., essendo essa già di per sé una pronuncia di merito idonea ad accertare il soddisfacimento della pretesa sostanziale dedotta in giudizio. Di conseguenza, la parte, per poter proporre una successiva azione risarcitoria, non avrebbe bisogno di un’ulteriore indagine giudiziale sulla illegittimità degli atti, rinvenendosi il presupposto oggettivo della illiceità della condotta pubblica nell’accertamento implicito alla pronuncia in esame.
Diversamente avviene nei casi di carenza sopravvenuta di interesse, laddove la pronuncia di mero rito che ne rileva l’operatività nulla potrebbe dire in merito al rapporto sostanziale sotteso al ricorso e, dunque, alla eventuale illegittimità dell’azione amministrativa. In definitiva, è solo per evitare una pronuncia di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse (nelle modalità sopra richiamate ed al solo dichiarato fine di consentire la proposizione dell’azione risarcitoria) che la parte può rappresentare al giudice la necessità di una pronuncia di accertamento ex art. 34, comma 3 c.p.a.
3.2 Soccombenza c.d. “virtuale” e condanna alle spese
Com’è noto, nel processo amministrativo il pagamento delle spese di lite è da sempre stato ancorato al principio di soccombenza[20]. Pertanto, in tutte quelle ipotesi in cui il giudice non giunga ad una pronuncia di espresso accoglimento o rigetto della domanda proposta, è necessario individuare un criterio per la corretta attribuzione degli oneri economici del processo.
Sotto questo profilo, la posizione del ricorrente nel processo amministrativo è stata – fino ad un certo punto – mortificata dall’esistenza di un orientamento giurisprudenziale che, in caso di cessazione della materia del contendere, stabiliva la doverosa compensazione delle spese giudiziali. Fu, infatti, soltanto dopo l’entrata in vigore della Legge T.a.r., che la giurisprudenza iniziò a mostrarsi più sensibile alla necessità di tutelare il privato che – pur in assenza di una sentenza di formale accoglimento del ricorso – risultasse parte sostanzialmente vittoriosa, spianando la strada all’operatività della c.d. soccombenza virtuale. Tale locuzione è ancora oggi ampiamente utilizzata dal giudice amministrativo e, con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ha colto l’occasione per chiarirne l’operatività laddove il giudice chiuda il processo con una sentenza di cessazione della materia del contendere ovvero di sopravvenuta carenza di interesse.
Nei casi in cui venga pronunciata una sentenza che dichiara la c.m.c., il Giudice ritiene che la norma di cui all’art. 34, comma 3 c.p.a. non risulti applicabile neppure ai fini dell’individuazione della parte virtualmente soccombente. Ciò perché, trattandosi di una pronuncia di merito, per sua natura idonea ad accertare il rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, essa dovrebbe essere automaticamente in grado di orientare il giudice anche sul versante della regolazione delle spese. Ed è sulla scorta delle motivazioni che lo hanno indotto a dichiarare la c.m.c. che il giudice si pronuncerà in merito alla soccombenza (più o meno) virtuale dell’amministrazione.
Diversa e più complessa la situazione in caso di sentenza che, in rito, rilevi la carenza sopravvenuta di interesse. Si è detto che – in questi casi – l’art. 34, comma 3 c.p.a. può essere applicato se il ricorrente, pur non potendo trarre più alcuna utilità accoglimento della domanda, mantenga un interesse concreto ed attuale ad ottenere un ristoro patrimoniale per il pregiudizio patito in conseguenza dell’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa. Ed è certo che, laddove il giudice si pronunci in tal senso, il relativo accertamento sia idoneo ad acquisite lo status di cosa giudicata sostanziale, utile ai fini della domanda risarcitoria.
Ciò non avviene, invece, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, con il capo della sentenza volto a regolare le spese di giudizio, che «non è mai idoneo alla formazione di un giudicato sul merito» e non incide dunque sul contenuto sostanziale della pronuncia principale, cui resta estraneo[21]. Pertanto, in assenza di un’espressa statuizione ex art. 34, comma 3 (e, dunque, di un interesse concreto ed attuale all’accertamento dell’illegittimità degli atti impugnati ai fini risarcitori) le considerazioni svolte ai fini della valutazione della c.d. soccombenza virtuale per la liquidazione delle spese di lite, anche nell’ambito di una pronuncia di rito dichiarativa dell’improcedibilità, non sono idonee ad acquistare autorità di giudicato sul merito delle questioni oggetto della controversia, ma valgono – se non impugnate – a rendere irrevocabili soltanto i rapporti di dare/avere tra le parti del processo relativamente, appunto, alla regolamentazione delle spese del giudizio.
Ne consegue che le due pronunce non possono essere in alcun caso sovrapposte, ma mantengono completa autonomia. Va da sé che, in tutti quei casi in cui il giudice, nel dichiarare l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, accerti pure l’illegittimità degli atti ai sensi dell’art. 34, comma 3 c.p.a., la soccombenza virtuale dell’amministrazione conseguirà in via diretta alla valutazione di merito compiuta dalla sentenza. Diversamente, laddove il giudice – pur non ravvisando la sussistenza delle condizioni necessarie per l’accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori – ritenga di non voler disporre la compensazione delle spese, ovvero di prevedere l’addebito delle spese per l’acquisto del contributo unificato in capo alla parte resistente, sarà necessaria una espressa pronuncia sulla soccombenza virtuale.
In definitiva, accertamento dell’illegittimità degli atti ai fini risarcitori e soccombenza virtuale sono due istituti distinti e non sovrapponibili: il primo consiste in una statuizione di merito utile ai fini risarcitori in caso di pronuncia si sopravvenuta carenza di interesse, mentre il secondo è volto a regolare la ripartizione delle spese di giudizio nei casi in cui il processo non si chiuda con una espressa pronuncia di accoglimento o di rigetto.
* Ricercatore di Diritto amministrativo, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.
[1] Nel processo civile la formula di “cessata materia del contendere” non è frutto di una particolare elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, ma si è sostanzialmente imposta nella pratica giudiziaria dei Tribunali in due distinte circostante: 1) in tutte le ipotesi di spontanea autocomposizione della lite tra le parti in giudizio, sia che ad essa si giungesse mediante reciproche concessioni, sia che la stessa dipendesse dalla sottomissione unilaterale di una parte alle pretese dell’altra; 2) nelle ipotesi di eventi estintivi delle ragioni sostanziali di contesa che, pur in presenza di una formale ragione di contrasto, avrebbero reso iniqua (o, quantomeno, inutile) una pronuncia di rigetto. Peraltro, diversamente da quanto avviene nel processo amministrativo, la giurisprudenza civile – nel silenzio del legislatore – ha da sempre assegnato alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere natura di pronuncia di mero rito che determina, dunque, la conclusione del processo in assenza di una valutazione di merito sulla domanda (cfr., di recente, Cass. civ., 31 agosto 2015, n. 17312). Ai fini della declaratoria di c.m.c., la giurisprudenza civile richiede altresì che si registri il pieno accordo tra le parti in relazione all’idoneità dell’evento a rimuovere ogni motivo di contenzioso tra le stesse (cfr., Cass., 26 luglio 2002, n. 11038). Per un inquadramento dottrinale dell’istituto nell’ambito del processo civile, si vedano A. Panzarola, voce Cessazione della materia del contendere (diritto processuale civile), in Enciclopedia del diritto, Milano, agg. VI, 2002; E. Vianello, voce Cessazione della materia del contendere, in Digesto, discipline privatistiche, 2000, 129; B. Sassani, Cessazione della materia del contendere – Diritto processuale civile, in Enc. giur., VI, Roma, 1988; F. Carnelutti, Sistema di diritto processuale civile, Padova, 1939, spec. 490 ss.; G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960, 153 ss.; S. Satta, Commentario al Codice di procedura civile, Milano, 1960, I, 426; A. Attardi, Riconoscimento del diritto, cessazione della materia del contendere e legittimazione ad impugnare, in Giur. It., 1987, IV, 482 ss.
[2] In tali termini, V. Caianiello, voce Cessazione della materia del contendere (diritto amministrativo), in Enciclopedia del diritto, Milano, agg. III, 2000. Si veda anche l’importante pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che – pronunciandosi in materia di silenzio-rifiuto – aveva riaffermato l’esatta coincidenza tra provvedimento impugnato ed oggetto del processo (in virtù della quale dal venir meno dell’atto si faceva discendere, in ogni caso ed a prescindere da qualsivoglia valutazione di merito, la conclusione del giudizio) ed aveva dunque consolidato la natura di pronuncia di rito della declaratoria di cessazione della materia del contendere: cfr., Cons. di Stato, Ad. Plen., 3 maggio 1960, n. 8, in Giur. it., 1960, III, 257 ss., con nota di E. Guicciardi.
[3] Così, A. Romano, Cessazione della materia del contendere e carenza sopravvenuta d’interesse, in Problemi del processo amministrativo, Atti del Convegno di studi di scienza dell'amministrazione promosso dalla Amministrazione provinciale di Como, Varenna, Villa Monastero, 19-22 settembre 1963, Milano, 1964, 353 ss.
[4] Cfr., in dottrina, C. Galtieri, La cessazione della materia del contendere davanti ai tribunali amministrativi regionali, in Cons. Stato, 1974, II, 1187 ss.
[5] Cfr., ex multis, Cons. di Stato, VI Sez., 30 marzo 1982; Cons. di Stato, sez. V, 19 novembre 1992, n. 1319; Cons. di Stato, sez. V, 20 aprile 1994, n. 331; Cons. di Stato, sez. VI, 7 luglio 1995, n. 661, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Per un approfondimento, si vedano le riflessioni di P. Numerico, voce Cessazione della materia del contendere - Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., VI, Roma, 1988 e la giurisprudenza ivi richiamata.
[6] La l. n. 205/2000, con l’intento di semplificare le regole procedurali relative alla estinzione e conclusione del giudizio amministrativo, aveva successivamente integrato l’art. 26 della Legge T.a.r., stabilendo che la cessazione della materia del contendere – al pari della rinuncia al ricorso e della perenzione – fosse pronunciata con decreto monocratico del presidente della sezione competente o di un magistrato da lui delegato. Per un approfondimento sul punto, si rinvia alla ricostruzione di N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Milano, 2021, 515 ss.
[7] Cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 16 giugno 2015, n. 2979, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Sul punto la giurisprudenza è pacifica. Cfr., anche Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2009, n. 1316; Id., 24 novembre 2009, n. 7363; Id., 21 dicembre 2010, n. 9319; Id. 5 marzo 2012, n. 1258; Id., 5 aprile 2016, n.1332; Id., sez. IV, 14 ottobre 2011, n. 5533; Id., 28 giugno 2016, n. 2909; Id., 24 luglio 2017, n. 3638, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[9] Cfr., R. Villata, voce Interesse ad agire, Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., vol. XVII, Roma, 1989.
[10] Cfr., V. Caianiello, voce Cessazione della materia del contendere (diritto amministrativo), cit.; A.M. Corso, Cessazione della materia del contendere ed oggetto del giudizio amministrativo, in Una giustizia per la pubblica amministrazione, a cura di V. Spagnuolo Vigorita, Napoli, 1983, 411 ss. In giurisprudenza, cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. V, 23 aprile 1998, n. 474; Id. 10 marzo 1997, n. 242, in www.giustizia.amministrativa.it.
[11] Cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. IV, 24 luglio 2017, n. 3638; C.G.A.R.S., 20 maggio 2019, n. 453, in www.giustizia-amministrativa.it.
[12] Cfr., Cons. di Stato, sez. IV, 12 aprile 2017, n. 1700; Id., sez. V, 8 aprile 2014, n. 1663; Id., sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4637, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Cfr., Cons. di Stato, sez. V, 12 maggio 2020, n. 2969, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] Cfr., Cons. di Stato, sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2224; Id., sez. IV, 15 settembre 2015, n. 4307; Id., sez. V, 6 novembre 2011, n. 5070; Id., 27 novembre 2015, n. 5379; Id., sez. IV, 14 dicembre 2015, n. 5663; Id., 16 dicembre 2016, n. 5340, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Cfr., Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214; Id. sez. IV, 5 dicembre 2016, n. 5102; Id. 16 giugno 2015, n. 2979; Id., sez. V, 24 luglio 2014, n. 3957 Id., 17 luglio 2020, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] Cfr., Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817; Id., 28 luglio 2014, n. 3997 e 24 luglio 2014, n. 3939; Id., sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2916; Id., 4 febbraio 2013, n. 646; Id., sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848, in www.giustizia-amministrativa.it.
[17] Cfr., Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3848; Id., sez. V, 24 luglio 2014, in www.giustizia-amministrativa.it.
[18] In questo senso, Cons. Stato, sez. III, 29 gennaio 2020, n. 736; Id., sez. IV, 17 gennaio 2020, n. 418; Id., sez. III, 8 gennaio 2018, n. 5771, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] Cfr., sul punto, anche Cons. di Stato, sez. III, 15 aprile 2021, n. 3086, in www.giustizia-amministrativa.it. Parte della giurisprudenza ha, invero, ritenuto sufficiente – ai fini della norma in esame – la sussistenza di un mero interesse “morale” alla pronuncia di accertamento dell’illegittimità dell’azione amministrativa (cfr., Cons. di stato, sez. V, 15 giugno 2015, n. 2952, in www.giustizia-amministrativa.it).
[20] La regola della soccombenza era espressamente prevista dalla l. n. 1034/1971 ed è stata confermata dal vigente art. 26, comma 1, c.p.a., secondo il quale il giudice provvede sulle spese a norma degli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e di sinteticità degli atti. Cfr., M. Mengozzi, Spese di giudizio, in Codice della giustizia amministrativa, a cura di G. Morbidelli, Milano, 2015, 359 e ss. e dottrina e giurisprudenza ivi citate.
[21] Cfr., da ultimo, Cons. di Stato, sez. V, 25 febbraio 2020, n. 1394; Id, sez. VI, 18 marzo 2019, n. 1766, in www.giustizia-amministrativa.it.
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