ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sull’obbligo di rinvio pregiudiziale (nota a CGUE, Grande Sezione, sentenza 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA c. Rete Ferroviaria Italiana SpA in C-561/19)
di Giorgio Capra
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la recente sentenza Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA c. Rete Ferroviaria Italiana SpA, ha confermato le ipotesi – già delineate nella sentenza Cilfit – al ricorrere delle quali il giudice nazionale di ultima istanza, pur in presenza di una questione concernente l’applicazione del diritto eurounitario, è esonerato dall’obbligo di investire la Corte tramite lo strumento del rinvio pregiudiziale.
Il Consiglio di Stato, che nell’ambito del giudizio aveva già sollevato alcune questioni pregiudiziali su cui la Corte si era pronunciata con sentenza, alla luce di una ulteriore richiesta di rinvio pregiudiziale proveniente dalle parti appellanti, ha preliminarmente sottoposto alla Corte di Giustizia la seguente questione: “[S]e, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, il giudice nazionale, le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale, è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea, anche nei casi in cui tale questione gli venga proposta da una delle parti del processo dopo il suo primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo, ovvero dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione, ovvero anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
La Corte di Giustizia, ricordato che il rinvio pregiudiziale “costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati” e “mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantir[ne] la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia”, ha ribadito e sviluppato i criteri – già espressi nella sentenza Cilfit – al ricorrere dei quali l’obbligo dei giudici di ultima istanza di rivolgersi alla Corte in presenza di questioni di interpretazione del diritto eurounitario viene meno.
Si tratta dei casi di irrilevanza della questione, dell’acte éclairé, ovverosia quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell’acte clair, quando l’interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi. Con riguardo all’ultima ipotesi, la Corte di Giustizia ha, poi, richiamato la necessità di interpretare il diritto unionale secondo le caratteristiche ad esso proprie e tenendo in considerazione le particolari difficoltà interpretative che esso pone sotto il profilo delle divergenze linguistiche tra le varie versioni delle disposizioni e dell’autonomia delle sue nozioni, nonché il rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione.
In ogni caso, la CGUE ha ribadito che, qualora ritenga di essere esonerato dall’obbligo di sottoporre alla Corte un rinvio pregiudiziale, il giudice di ultima istanza debba motivare la propria decisione specificando quale ipotesi reputi sussistere.
La Corte ha poi precisato che l’iniziativa delle parti nel giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza Cilfit, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale. Qualora, però, non ricorra alcuna delle succitate ipotesi, il giudice di ultima istanza è tenuto a sottoporre alla Corte di Giustizia ogni questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso. E questo obbligo non viene meno neanche nel caso in cui tale giudice abbia già sottoposto una questione pregiudiziale qualora, dopo la decisione della Corte, permangano questioni di interpretazione del diritto unionale la cui risoluzione è necessaria per dirimere la controversia.
La Corte di Giustizia ha, però, ricordato che il giudice di ultima istanza può astenersi dal rinvio pregiudiziale per ragioni di irricevibilità inerenti alla disciplina del procedimento dinanzi a tale giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza ed effettività della tutela giurisdizionale.
È significativo notare che, nelle proprie conclusioni del 15 aprile 2021, l’avvocato generale Bobek aveva auspicato un superamento dei criteri Cilfit e, più in generale, un ripensamento dello strumento del rinvio pregiudiziale, non nell’ottica della mera corretta applicazione del diritto unionale al caso concreto, ma in funzione nomofilattica.
Apertura coattiva di borse e consenso del contribuente in sede di verifica fiscale
“Nel caso di apertura di una valigetta reperita in sede di accesso, la mancata autorizzazione di cui all’art. 52, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, può essere superata dal consenso prestato dal titolare del diritto. La mancata informazione al titolare del diritto della facoltà, di cui all’art. 12, comma 2, l. n. 212 del 2000, di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi della giustizia tributaria non è idonea, di per se stessa, in assenza di un’espressa previsione di legge in tal senso, a decretare l’invalidità del consenso prestato dal contribuente all’apertura della borsa ed a determinare quindi l’inutilizzabilità delle acquisizioni effettuate e la nullità dell’avviso di accertamento. La mancata informazione dell’art. 12 comma 2 costituisce una circostanza che potrà e dovrà essere valutata dal giudice del merito, insieme a tutti gli altri elementi probatori, al fine di verificare se nel caso concreto il contribuente abbia espresso un consenso effettivamente spontaneo"
Le conclusioni del sostituto Procuratore Generale Giovanni Battista Nardecchia all’udienza del 12 ottobre 2021 davanti alle Sezioni Unite civili
La tentazione tirannica dei valori assoluti[1]
di Alessio Lo Giudice
Sommario: 1. Fenomenologia del conflitto in epoca pandemica. – 2. La strada dei valori assoluti. – 3. Etica dei valori ed etica dei principi. – 4. Il rischio della deriva proceduralista e i benefici della mediazione.
1. Fenomenologia del conflitto in epoca pandemica
L’odierno e diffuso utilizzo del termine crisi nelle letture della (e sulla) pandemia acquista un significato preciso nella misura in cui lo associamo proprio alla necessità di assumere decisioni, politiche e giuridiche, in presenza di un conflitto tra principi fondamentali, talvolta rappresentati come espressione di veri e propri valori assoluti. Nella misura, cioè, in cui interpretiamo la nostra condizione come quella di un sistema sociale che, a più livelli, si è trovato, e si trova, sistematicamente di fronte alla necessità di giudicare e decidere con il tempo che stringe tra istanze configgenti e parimenti tutelate non solo dall’ordinamento giuridico ma anche dal tessuto valoriale ampiamente condiviso nel contesto socio-culturale di riferimento. È questa la situazione che hanno dovuto gestire i medici dei reparti di rianimazione quando, a corto di posti disponibili in terapia intensiva e a fronte di una serie di motivate richieste di ricovero, sono stati chiamati a giudicare chi meritava, più degli altri, di essere curato. Ma è analoga, al netto di tutte le differenze specifiche, la situazione che il decisore politico ha dovuto affrontare di fronte al dilagare dell’epidemia, prima di procedere alla chiusura delle attività sociali e produttive. Oggi, lo stesso decisore politico si trova ancora a decidere, con urgenza, tra alternative che comunque si escludono, quando è chiamato a procedere alla riapertura o alla richiusura delle attività a fronte dei risultati del contenimento del contagio; quando è chiamato a decidere sull’opportunità o meno di prevedere l’obbligo vaccinale; quando è chiamato ad adottare misure, come nel caso del Green pass, che comunque incidono sull’esercizio di alcuni diritti fondamentali. Per non parlare, poi, di tutte le ulteriori scelte quotidiane che molti hanno dovuto compiere in tale contesto, posti di fronte ad alternative quali quelle tra affetto e salute, o tra lavoro e salute. In altre parole, il conflitto tra principi, spesso riconfigurato quale espressione del conflitto tra valori assoluti, indica l’esperienza diffusa che, con una maggiore frequenza a livello istituzionale e socio-culturale, stiamo vivendo a causa della pandemia, sebbene rappresenti una situazione ricorrente nelle società tardo-moderne caratterizzate da un sempre crescente pluralismo etico[2].
Ciò che la crisi pone in risalto, del resto, è l’urgenza della scelta in assenza di criteri generali certi, indiscutibili e stabili, nonostante l’esistenza di norme di vario rango, di linee guida, principi deontologici, pareri scientifici e tecnici. Scelte che implicano la necessità di optare tra alternative in ogni caso riconducibili a istanze profondamente umane, legate alla natura dell’uomo e agli interessi che storicamente prevalgono. Questa è la situazione dei medici di fronte al dilemma etico, alla scelta tragica da compiere nel triage. Bisogna seguire a tutti i costi il principio della parità di trattamento? Occorre seguire il criterio della maggiore probabilità di successo clinico, con l’annessa valutazione sul discutibile parametro dell’aspettativa di vita? O invece basterebbe attenersi al criterio cronologico: chi prima arriva viene curato fino ad esaurimento posti? Ma simile è anche la situazione che il decisore politico deve affrontare di fronte alla necessità di aprire o chiudere lo spazio sociale ed economico-produttivo. Lo è perché si tratta di bilanciare, in concreto, principi e interessi costituzionalmente protetti che, nel loro insieme, esprimono la trama complessa di una società. Mettere in discussione uno qualsiasi di questi principi, dalle libertà alla salute, dall’uguaglianza all’iniziativa economica, comporta comunque una ferita nel tessuto sociale con tempi di recupero assolutamente non prevedibili. Una ferita, soprattutto, che rischia di ampliarsi a dismisura, senza che sia possibile immaginare di rimarginarla, se il conflitto in questione assume sempre più le caratteristiche di una lotta tra valori assoluti che si mostrano resistenti di fronte a qualsiasi ipotesi di mediazione.
2. La strada dei valori assoluti
Ebbene, la strada dei valori, se questi ultimi, occorre precisare, vengono intesi come ideali e assoluti, rischia di condurre a conflitti sempre più irrisolvibili[3]. Per essere più precisi, tale strada equivale alla pretesa e alla prassi di ricorrere a valori assoluti nel momento in cui sorge il problema di giustificare o contestare, a diversi livelli, una decisione politica e giuridica. Intendo, in particolare, sostenere come siffatta forma di giustificazione, concepita come attuazione materiale di valori ritenuti assoluti, sia intrinsecamente conflittuale.
A prescindere dalla caratterizzazione morale di molti conflitti contemporanei, specie in epoca pandemica, può in proposito considerarsi anche un’analisi concettuale frutto di una tradizione consolidata. Ci sono certo riflessioni che puntano proprio a sottolineare la conflittualità strutturale della prassi politico-giuridica fondata sui valori assoluti. Ma è significativo potersi riferire anche agli studi di coloro che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX hanno fondato filosoficamente un’etica materiale dei valori. Si pensi a Max Scheler o a Nicolai Hartmann. In particolare, quest’ultimo individua nel tendenziale aspetto tirannico del valore un tratto tipico dei rapporti di opposizione tra i valori stessi: «Ogni valore – una volta che ha acquistato potere su di una persona – ha la tendenza di erigersi a tiranno esclusivo dell’intero ethos umano, ed invero alle spese di altri valori, anche di quelli che non gli sono materialmente contrapposti»[4].
In realtà, come anticipato in precedenza, la conflittualità è una componente strutturale di un certo modo di intendere i valori. Se intesi come assoluti, tali cioè da ordinare in maniera onnicomprensiva e totalizzante una forma di vita, non possono che comportare l’esclusione di valori alternativi che si presentano come altrettanto assoluti. A questo proposito Carl Schmitt, ragionando proprio sulla tirannia dei valori indicata da Hartmann, afferma: «I valori per quanto alti e santi, come valori, valgono sempre e soltanto per qualcosa e per qualcuno»[5].
Riferimento classico, nel riflettere sull’ontologia del conflitto di valori, è l’idea della pluralità di valori come centri normativi avanzata da Max Weber, espressione del fallimento dei progetti di neutralizzazione etica che si sono susseguiti nella modernità. Il politeismo dei valori, così concepito, è più il riflesso dell’insufficienza regolativa e integrativa del modello di razionalità autoreferenziale, che il residuo dell’implosione di una precedente omogeneità culturale: «Gli antichi dèi, spogliati del loro incanto e perciò in forma di potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta»[6].
Una tale contesa è in realtà lo scontro tra posizioni comunque situate storicamente che pretendono di imporre concezioni del mondo assolutizzanti. Posizioni cioè che divinizzano il dato valoriale promuovendone la supremazia gerarchica che ne consegue. Da questo punto di vista, le riflessioni di Schmitt indicano quella che oggi potrebbe appunto essere definita la logica di chi incarna un’ingenua, quanto improbabile, concezione assoluta della libertà individuale: “Per la logica del valore deve sempre valere che per il valore supremo il prezzo più alto non è troppo alto, e deve essere pagato”[7].
Questo discorso trova un importante riscontro in un contesto filosoficamente distante da quello schmittiano. Jürgen Habermas, infatti, indicando nella mancata distinzione tra norme e valori un vizio metodologico, frutto dell’errata auto-interpretazione del proprio ruolo da parte della Corte Costituzionale tedesca, ha reiteratamente criticato la cosiddetta “giurisprudenza dei valori”. E ancora una volta sottolinea la conflittualità intrinseca rispetto a qualsiasi ordine di valori assoluti: “Valori differenti lottano per la prevalenza: nella misura in cui trovano riconoscimento intersoggettivo nell’ambito d’una cultura o d’una forma di vita, essi generano configurazioni flessibili e ricche di tensione”[8].
3. Etica dei valori ed etica dei principi
L’ispirazione per una prassi politico-giuridica valoriale in senso assoluto, e inevitabilmente conflittuale, nasce probabilmente dalla necessità di una legittimità sostanziale che rafforzi, o superi, il presunto debole fondamento del legalismo e del positivismo giuridico, nonostante la cornice del costituzionalismo del secondo novecento abbia condotto alla positivizzazione di una pluralità di valori attraverso principi normativi di chiara matrice morale. Secondo l’impostazione ispirata dall’etica dei valori di cui qui si sta discutendo, non basterebbe una teoria formale dei valori di stampo neokantiano. Sarebbe invece necessaria un’etica materiale che neutralizzi il pluralismo dei valori e dia vita a una filosofia dei valori assoluti, a una gerarchia di valori che quindi, in una certa misura, detti la forma e gli obiettivi delle decisioni politiche e giuridiche e delle corrispondenti contestazioni.
L’asserzione di un valore assoluto, se concepito come fondamento escludente che non ammette la possibilità di fondamenti “altri”, è però sostanzialmente un’asserzione negativa, legandosi alla simultanea affermazione di un disvalore. Secondo una tale visione, infatti, il valore vale nella misura in cui svaluta ciò che ad esso si contrappone, e che diviene quindi un non-valore o un valore negativo. A questo proposito basti pensare all’etica assiomatica di Scheler, in cui il rapporto con la negazione è costitutivo del valore stesso: “La non esistenza di un valore positivo è in sé un valore negativo; […] la non esistenza di un valore negativo è in sé un valore positivo”[9].
Di conseguenza, un agire politico o una prassi giurisdizionale che si autogiustifichino sulla base di un’etica materiale dei valori assoluti non potrebbe pretendere di colmare in questo modo la presunta carenza di legittimità sostanziale di decisioni guidate esclusivamente dalle norme di rango costituzionale. In realtà, l’aggressività di ogni decisione volta ad attuare un valore assoluto che esclude la legittimità di percezioni valoriali alternative è sintomo di parzialità: affermo il valore negando un non-valore. Ciò spesso equivale a dire: affermo una forma di vita negandone un’altra. Ma ciò che è buono per noi non è detto che sia buono per tutti. Occorrerebbe infatti chiedersi se l’universale, quale fondamento assoluto, divida o unisca, nel momento in cui se ne pretende la concretizzazione storica.
Proprio a partire da questo interrogativo si comprende la differenza tra l’etica dei valori assoluti e l’etica dei principi. Sebbene, infatti, entrambe le impostazioni possano avere per oggetto i medesimi beni (libertà, sicurezza, salute, vita etc.), i presupposti filosofici e gli esiti deliberativi sono prevalentemente antitetici. Ciò si comprende se si tiene a mente la natura tendenzialmente tirannica dei valori assoluti, per come è stata descritta nelle pagine precedenti. Non a caso, Gustavo Zagrebelsky riconfigura l’idea di valore come valore-fine: «Il valore, nel senso che qui interessa, è un bene finale, fine a se stesso, che sta innanzi a noi come una meta che chiede di essere perseguita attraverso attività teleologicamente orientate»[10]. Ciò comporta che l’etica derivante da una tale concezione dei valori sia un’etica dei fini. L’obiettivo etico è l’attuazione materiale del valore a prescindere dai mezzi o dalla procedura seguiti. Il criterio di legittimità della decisione assunta è la sua efficienza rispetto alla concretizzazione del valore in oggetto. Perde quindi di rilevanza la valutazione sul mezzo utilizzato e, di conseguenza, la possibile compresenza di altri valori confliggenti: «Tra l’inizio e la fine dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé qualsiasi azione che possa essere messa in rapporto di strumentalità efficiente rispetto al valore stesso»[11]. Siamo quindi di fronte non ad un’etica deontologica bensì ad un’etica del risultato.
L’etica dei principi, al contrario, ha una natura intrinsecamente deontologica, quindi normativa, e quindi giuridica. I principi, infatti, nella chiara distinzione proposta da Zagrebelsky, sono beni iniziali che, in quanto espressione di valori non assoluti, pretendono di realizzarsi attraverso mezzi determinati, coerenti con la natura del principio stesso: «L’agire “per principi” è intrinsecamente regolato e delimitato dal principio medesimo e dalle sue implicazioni: ex principiis derivationes»[12]. Si tratta dunque di un’etica dei mezzi e, conseguentemente, dei doveri. Ciò che conta è la strada seguita, ispirata dal principio e coerente con le implicazioni normative comprese nel principio stesso. Ebbene, proprio perché non regolata dall’efficienza e dal risultato, l’etica dei principi è, a differenza di quella materiale dei valori assoluti, non solo compatibile con i fondamenti teorico-istituzionali dello Stato di diritto, ma anche costitutiva della prassi giuridica nell’ambito di contesti sociali che tutelano il pluralismo etico e culturale. L’etica materiale dei valori assoluti, infatti, data la prospettiva dogmatica e gerarchica che la ispira, non ammette la logica del bilanciamento bensì quella della sopraffazione o contrapposizione irriducibile. Al contrario, l’etica dei principi, in quanto fondata su istanze valoriali che sono volte non all’efficienza e alla potenza del risultato ma a determinare la coerenza delle azioni ispirate dai principi stessi, senza che sia postulata una gerarchia statica tra di essi, contempla e alimenta la compresenza di più valori e il necessario bilanciamento tra principi quando alcuni di essi sono rilevanti rispetto alla situazione concreta oggetto di valutazione. Si comprende dunque quanto possa essere benefico un agire etico-giuridico fondato sui principi nei frangenti, come è quello attuale, di crisi emergenziale, e quanto, al contrario, possa essere deleterio, un agire per valori materiali ritenuti assoluti inevitabilmente volto a generare conflitti laceranti.
4. Il rischio della deriva proceduralista e i benefici della mediazione
L’etica dei principi pare dunque non solo più coerente, rispetto all’etica materiale dei valori assoluti, con l’impianto istituzionale dello Stato di diritto democratico di matrice costituzionale, ma anche più confacente alle esigenze che si pongono in una situazione di emergenza come è quella causata dalla pandemia da Covid-19. In realtà, la portata della questione si estende al fondamento da dare alla regolazione sociale. A una prima possibilità, che come si è visto comporta un’attuazione immediata e diretta di valori assoluti, può opporsi un’alternativa strategica, ispirata dall’etica dei principi, e fondata sull’applicazione di norme che regolino la coesistenza di prospettive morali differenti, tanto fondamentali quanto legittime, predeterminando proceduralmente anche il percorso da seguire nel processo di deliberazione. La prescrizione normativa, seguendo questa strategia, si configura concettualmente come rivolta a tutti. Allora, come sostiene Habermas, si tratta ancora una volta di apprezzare la differenza, nell’ottica della regolazione, tra un agire deontologico (guidato da norme) e uno teleologico (guidato da valori): «La domanda “che devo fare?” […] avrà nei due casi formulazioni e risposte diverse. Alla luce delle norme si può decidere cosa sia doveroso fare, nell’orizzonte dei valori cosa sia raccomandabile»[13].
Sulla base di queste premesse si possono pensare diversi modelli regolativi interni al paradigma dell’applicazione di norme. Due, in particolare, meritano attenzione in quanto pretendono, nel primo caso, di neutralizzare il dato valoriale, con tutti gli effetti controfattuali che ne conseguono, nel secondo caso, invece, di mutarne semplicemente l’auto-percezione.
Seguendo anzitutto la visione proceduralista, per uscire dal conflitto tra valori assoluti sarebbe necessario porre l’attenzione su elementi comunicativi e procedurali in grado di stabilire le condizioni di possibilità per una cooperazione tra forme di vita diverse. Ciò, allo stesso tempo, rispettando il progetto etico di ogni forma di vita nella misura in cui soddisfi i requisiti procedurali di comunicabilità che la convivenza tra differenti universi morali impone. A quest’esito giunge, ad esempio, la critica di Habermas alla filosofia dei valori: «Le etiche dei beni e le etiche dei valori isolano dei particolari contenuti normativi: ma le loro premesse normative – in una società moderna caratterizzata dal “pluralismo degli idoli” (Weber) – sono in realtà troppo “forti” per servire da base a decisioni universalmente vincolanti. Solo teorie morali e giuridiche impostate in senso procedurale possono promettere un procedimento imparziale per la fondazione e il confronto critico di principi diversi»[14].
Ma una tale impostazione riposa su una fiducia incondizionata negli effetti conciliativi di un dialogo proceduralmente regolato. Come se la prassi deliberativa, in sé, possa neutralizzare il conflitto di valori. In realtà, si tratta in questo caso di affidarsi ad assunti non dimostrati, e in una certa misura indimostrabili. Come la presunzione stessa della capacità innata degli individui di farsi guidare da un agire comunicativo regolato da una procedura. O come la credenza nell’attitudine degli individui a “mettersi nei panni degli altri” in virtù della semplice comunicazione reciproca.
Occorrerebbe allora individuare un’altra strada, attraverso cui pensare la regolazione sociale come applicazione di norme e decisioni. Potrebbe essere, a ben vedere, quella che in questa sede si propone di associare al concetto di mediazione. Non la mediazione garantita da una procedura, e neanche quella prodotta da una politica fondata sul mero calcolo delle convenienze. Mi riferisco invece alla mediazione tra portatori di valori che, se da una parte interpretano i propri valori come riferimenti identitari indispensabili, dall’altra non escludono la legittima capacità dei diversi soggetti di riconoscersi in valori fondamentali alternativi.
Un valore fondamentale, in sé, nella misura in cui venga inteso come dato assolutizzante, non può essere oggetto di mediazione; è concettualmente immediato. Richiedendo attuazione ad ogni costo, si impone. Al contrario, un valore che possiamo definire complementare a priori (nel senso che è in attesa di ricevere e fornire complemento senza essere il fondamento assoluto di un ordine ideale onnicomprensivo) è sostanzialmente un punto di vista degno del più alto riconoscimento. Dichiara la sua natura non assoluta e si mostra quindi disponibile alla mediazione. La complementarità di un valore, in questo senso, da una parte ne garantisce la rilevanza politica e giuridica quale punto di vista che esprime una forma di vita, dall’altra ne esclude l’aggressività quale centro onnicomprensivo di regolazione.
Non si tratta però di affidarsi agli effetti misteriosamente conciliativi di un dialogo potenziale tra portatori di punti di vista reciprocamente riconosciuti. Occorre invece riflettere sulla strutturale relazionalità dei valori: per cui ogni valore “vale” proprio in quanto strutturalmente in relazione – qualsiasi tipo di relazione, come abbiamo visto – con altri valori. Nella misura in cui il portatore del punto di vista acquista la consapevolezza della non esclusività della propria posizione, si profila l’esigenza di una visione panoramica dei contesti oggetto di regolazione. Cioè di una visione che cerchi di tener conto di tutti i punti di vista, in quanto di pari rango, poiché riconosciuti in un quadro metaetico condiviso[15].
La mediazione quindi non sorge come scelta etica, ma come esigenza regolativa fondata su una reinterpretazione della prospettiva da cui si agisce e del modo di autorappresentare la propria posizione. Se tanto le norme quanto le decisioni giudiziarie e gli atteggiamenti individuali fossero il prodotto di un tale capovolgimento prospettico, allora potrebbe delinearsi una via di uscita al conflitto di valori ritenuti assoluti che non riposi sulla presunzione neutralizzante, e in realtà concettualmente viziata, della mera prospettiva proceduralista.
[1] Si segnala che questo testo è destinato altresì alla pubblicazione in un volume collettaneo in corso di stampa presso Edizioni Scientifiche Italiane, dal titolo I diritti fondamentali al tempo della pandemia, curato da C. Ingratoci, A. Madera e F. Pellegrino.
[2] Sulla accresciuta rilevanza giuridica di tali conflitti cfr., tra gli altri, V. Villa, Disaccordi interpretativi profondi. Saggio di metagiurisprudenza ricostruttiva, Giappichelli, Torino 2017; D. Canale, Conflitti pratici. Quando il diritto diventa immorale, Laterza, Roma-Bari 2017.
[3] A questo risultato non giungono invece quelle solide, quanto condivisibili, concezioni del diritto assiologicamente orientate in senso realistico. A tal proposito, nella eminente concezione di Angelo Falzea, il diritto viene inteso come realtà assiologica attraverso una lettura critica delle anguste visioni formalistiche ed astratte del fenomeno giuridico. La scienza giuridica, secondo tale concezione, deve quindi fondarsi sulla realtà fattuale complessa, sulle combinazioni valoriali che pragmaticamente si realizzano in contesti pluralisti, proprio attaverso la prassi sociale che si consolida grazie all’emergere degli interessi e all’esperienza dei valori che così si affermano. Il diritto è quindi concepito come un sistema di valori associati ai fatti. La norma stessa consente di associare un valore ai fatti che contempla. In particolare, è nell’effetto giuridico che è possible rinvenire il valore attribuito al fatto. Ma l’esperienza dei valori, in quanto prodotto della pratica sociale, è antitetica all’assolutizzazione idealistica dei valori stessi in chiave metafisica, trascendente, o comunque fondamentalisticamente dogmatica. L’esperienza dei valori coincide con una realtà assiologica, e non con un’idealità assoluta e irrelata. Essa, dunque, comprende lo spazio della convivenza sociale assiologicamente determinata in senso plurale e in grado di mediare tra interessi confliggenti (Cfr., in particolare, A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Parte I: Il concetto di diritto, VI edizione ampliata, Giuffrè, Milano 2008, pp. 259-502. Si veda, inoltre, per una fondamentale riflessione sul rapporto tra l’etica sociale e i bisogni materiali della vita umana, l’opera di R. De Stefano, Per un’etica sociale della cultura, I, Le basi filosofiche dell’umanismo moderno, Giuffrè, Milano 1954).
[4] N. Hartmann, Etica. Assiologia dei costumi, trad. it., Guida editori, Napoli 1970, p. 408.
[5] C. Schmitt, “La tirannia dei valori”, trad. it., Rassegna di diritto pubblico, n. 1, 1970, p. 19.
[6] M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, trad. it., Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 30. Per un’interpretazione in senso analogo dell’idea weberiana del politeismo dei valori, si veda G. Marramao, Dopo il Leviatano. Individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 379 ss.
[7] C. Schmitt, “La tirannia dei valori” cit., p. 25.
[8] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it, Guerini e Associati, Milano 1996, p. 304.
[9] M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, trad. it., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 1996, p. 48.
[10] G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna 2008, p. 206.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 208.
[13] J. Habermas, Fatti e norme cit., p. 304.
[14] J. Habermas, Morale, diritto, politica, trad. it., Einaudi, Torino 1992, p. 30.
[15] All’affermazione dell’immanenza giuridica di una tavola assiologica condivisa, chiaramente coerente con il pluralismo valoriale tutelato dalle cornici costituzionali del secondo Novecento, possono ricondursi, tra le altre, le riflessioni di G. Silvestri, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Giappichelli, Torino 2005, e di A. Ruggeri, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Giuffrè, Milano 1977; Id., Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, Giappichelli, Torino 2009.
SCRITTI IN ONORE DI ANTONIO RUGGERI
Giustizia Insieme segnala la presentazione degli “Scritti in onore di Antonio Ruggeri”, che si terrà mercoledì 20 ottobre alle ore 15:30 presso l'Aula Magna Rettorato dell'Università di Messina e che potrà essere seguita simultaneamente via Teams.
Per poter partecipare in via telematica all'evento sarà sufficiente cliccare sull'icona di Microsoft Teams presente in fondo alla locandina.
L’accesso defensionale a materiali e contenuti informativi in possesso della RAI (il caso Report).
(nota a TAR Lazio, Sez. III, 18 giugno 2021, n. 7333)[1]
di Martina Sinisi
Sommario: 1. Il perimetro dell’accesso delineato dalla sentenza. – 1.1. La perimetrazione soggettiva: gli obblighi ostensivi di RAI con riferimento all’accesso procedimentale e l’esclusione degli stessi in relazione all’accesso civico generalizzato. – 1.2. La perimetrazione oggettiva: l’accesso a materiali e contenuti informativi dell’attività giornalistica. – 2. Le conclusioni cui giunge la sentenza: il superamento della potenziale conflittualità con gli interessi contrapposti e la preminenza dell’interesse defensionale – 2.1. L’adesione all’orientamento maggioritario sulla valutazione in astratto delle esigenze difensive ai fini dell’accoglimento dell’istanza di accesso. – 3. Brevi considerazioni conclusive.
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1. ll perimetro dell’accesso delineato dalla sentenza.
La tematica dell’accesso, come noto, negli ultimi anni è stata costantemente sotto la lente di ingrandimento della giurisprudenza (oltre che della dottrina, che ne aveva attenzionato le criticità fin dall’introduzione del c.d. decreto trasparenza - d.lgs. n. 33/2013 s.m.i.), tanto da richiedere, in assenza di una chiara e univoca indicazione normativa e nel perdurare delle incertezze interpretative, l’intervento nomofilattico dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con una serie di pronunce[2], si è preoccupata di delineare i rapporti tra l’accesso civico generalizzato e il preesistente accesso procedimentale di cui alla l. n. 241/90 s.m.i. in termini di complementarietà e, al contempo, di autonomia, chiarendone così anche la dimensione dell’uno in rapporto all’altro, più volte descritta dalla giurisprudenza come “più ampia e meno profonda” con riferimento all’accesso civico generalizzato per la maggiore ampiezza dell’oggetto della pretesa conoscitiva e per l’assenza di un collegamento con una posizione giuridica qualificata, a differenza dell’accesso procedimentale in cui la pretesa conoscitiva vanta un oggetto meno ampio, ma risulta essere maggiormente profonda perché collegata a un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso.
In questa cornice si pone la pronuncia del TAR Lazio, resa all’esito di una controversia che, nasceva dal diniego opposto a una istanza di accesso agli atti presentata, come spesso accade soprattutto nella diffusa incertezza sui presupposti per l’accesso e sull’ampiezza del potere valutativo rimesso all’amministrazione nell’accogliere o nel rigettare la relativa istanza, sia ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990 s.m.i. che ai sensi dell'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013 nei confronti della Rai-Radiotelevisione Italiana S.p.A. in ragione di esigenze difensive (“l’esigenza .. di tutelare la propria reputazione nelle sedi competenti”) in riferimento a un servizio mandato in onda dall’emittente televisiva in cui sarebbero state riportate “notizie false e fuorvianti” sull’istante e sull’attività professionale dallo stesso esercitata.
Veniva pertanto richiesta l’ostensione dei materiale e dei contenuti informativi in possesso della RAI e, più precisamente, costituivano oggetto di istanza di ostensione: “a) tutte le richieste rivolte dai giornalisti e/o dalla redazione di “Report”, tramite e-mail o con qualsiasi mezzo scritto o orale, a persone fisiche ed enti pubblici (Comuni, Province, ecc.) o privati (fondazioni, società, ecc.), per ottenere informazioni e/o documenti riguardanti il ricorrente e la sua attività professionale; b) tutti i documenti e/o le informazioni fornite ai giornalisti e/o alla redazione di “Report” a seguito delle richieste sub a), e in particolare la corrispondenza personale intercorsa tra lo scrivente e soggetti terzi illustrata nella parte finale del servizio; c) ogni altra corrispondenza non ricompresa sub a) o b) che sia intervenuta tra i giornalisti e/o la redazione di “Report”; d) file video integrali della trasmissione e in particolare delle interviste poi confluite nel servizio mostrato al pubblico; e) dati integrali degli ascolti della trasmissione su base nazionale e regionale; f) dati integrali relativi alla pubblicizzazione del servizio sui canali Rai, quotidiani, periodici o altri mezzi di informazione”.
Riconosciuta fondata, nei limiti di cui si dirà, l’istanza di accesso procedimentale (e non anche quella di accesso civico generalizzato per cui, con riferimento alla RAI, opera la causa di esclusione di cui al comma 2-bis, lett. b) del d. lgs. n. 33/2013, come si vedrà meglio infra), in quanto ricorrenti nel caso di specie i relativi presupposti e cioè la sussistenza di un interesse ‘diretto’ (“in ragione dell’obiettiva riferibilità della documentazione richiesta alla sua persona trattandosi di materiale inerente al servizio televisivo che lo aveva specificamente riguardato”), ‘concreto’ (in quanto funzionale a promuovere iniziative a tutela del suo buon nome e di un interesse) e ‘attuale’ (“dal momento che il servizio giornalistico lesivo della sua reputazione continuava ad essere visionabile sul sito internet della RAI”), nonché una situazione giuridicamente tutelata in collegamento alla documentazione oggetto dell’istanza di accesso (“dal momento che i documenti concernenti l’attività espletata dai giornalisti incaricati del pubblico servizio radiotelevisivo così come i dati degli ascolti risulterebbero strettamente collegati alla situazione legittimante integrata dall’esigenza di tutela dei diritti – di rilievo costituzionale – all’onore a al buon nome, in quanto preordinati alla piena conoscenza di ciò che avrebbe preceduto la messa in onda del servizio e la diffusione dei contenuti lesivi, in vista dell’eventuale proposizione di iniziative risarcitorie”), il TAR, coerentemente con la riconosciuta prevalenza della pretesa conoscitiva supportata da necessità difensive, ai sensi dell’art. 24, comma 7, l. n. 241/90 s.m.i., ma suscitando qualche perplessità per la peculiarità della fattispecie in esame, ha condannato la RAI all’ostensione dei documenti in suo possesso, ivi comprese la corrispondenza giornalistica dell’autore del servizio e la documentazione proveniente da interlocuzione con la pubblica amministrazione, tra cui quella formata dalla stessa pubblica amministrazione e successivamente acquisita dalla RAI. Ciò sul presupposto implicito del rinvio operato dall’art. 22 comma 1, lett. d) agli atti “detenuti” (e non dunque a quelli “formati”) dalla p.a., così superando le eccezioni relative al segreto professionale, almeno con riferimento a fonti pubbliche, e all’autonomia giornalistica, in ragione dell’impiego del giornalista presso emittente televisiva pubblica (con ciò implicitamente differenziando quanto a regime applicabile l’analoga posizione di coloro che svolgono attività giornalistica presso emittenti private non esercenti attività di pubblico interesse)[3].
Sgombrato il campo dalla possibilità di esercitare l’accesso civico generalizzato e ristretto lo stesso alla sola ipotesi di accesso procedimentale, si vanno delineando più nettamente i profili da attenzionare e le correlate implicazioni.
In primo luogo viene in rilievo rispetto agli obblighi di trasparenza – intesa in senso lato, rimanendo nel più circoscritto perimetro dell’accesso procedimentale, come si è detto in premessa – la posizione del giornalista che svolga la propria attività: se cioè corra l’obbligo di distinguere tra lo svolgimento dell’attività in forma autonoma o piuttosto subordinata in favore di una emittente pubblica o privata che svolga un servizio pubblico, o se piuttosto le due posizioni, che si differenziano sotto il profilo contrattuale, tendano a sovrapporsi quanto agli obblighi di carattere pubblico inerenti allo svolgimento di un servizio di pubblico interesse. In altri termini: se lo svolgimento formalmente autonomo o piuttosto subordinato dell’attività giornalistica incida o meno sugli obblighi ostensivi del materiale informativo e se dunque tali obblighi nascano per il solo fatto di aver prestato la propria attività giornalistica in favore di una emittente che svolga un servizio pubblico o di pubblico interesse e quindi determini sempre e comunque un obbligo di ostensione del materiale informativo raccolto in vista del servizio giornalistico successivamente trasmesso in quanto attività prodromica e come tale inclusa nel servizio stesso, con l’effetto che la distinzione rimarrebbe nella sfera “interna” e rileverebbe ai soli fini civili (contrattuali), come pare essere. A ciò si aggiunga che la giurisprudenza civile ha in più occasioni sottolineato che in tale ambito il carattere della subordinazione risulta generalmente attenuato proprio per la creatività e la particolare autonomia che qualificano la prestazione lavorativa, nonché per la natura prettamente intellettuale dell’attività stessa[4].
La questione, non posta espressamente dalla sentenza ma inevitabilmente sottesa ad un più ampio esame quantomeno in termini di riflessione generale con riferimento all’intero ventaglio delle ipotesi di accesso prospettabili, pare con buona probabilità da ritenere implicitamente superata dalla lettura offerta e dal principio di diritto enunciato.
Collegato a tale profilo vi è poi quello più specificamente inerente all’oggetto dell’istanza di accesso – fonte di maggiori dubbi – e, in particolare, agli atti provenienti da interlocuzioni con pubbliche amministrazioni, cui tale oggetto risulta essere circoscritto nella prospettazione resa dal TAR. La generica legittimazione passiva degli enti pubblici, cui i soggetti possono rivolgersi direttamente, ricorrendo i presupposti dell’interesse diretto, concreto e attuale e del collegamento con una situazione giuridica legittimante, sembra scontrarsi nel caso di specie con l’obbligo di mantenere la segretezza sulla fonte di acquisizione delle notizie divulgate e rimarrebbe quindi, a voler ammettere la conoscibilità di tali atti con debita oscurazione della fonte, in qualche modo assorbita dalla riconosciuta legittimazione passiva in capo alla RAI nel più ampio quadro sopra descritto e che si specificherà ulteriormente in prosieguo. La conclusione a cui giunge il TAR relativamente all’obbligo di RAI di esibire gli atti richiesti viene motivata in ragione dello svolgimento di un pubblico servizio; circostanza, questa, che, a detta del TAR, renderebbe la RAI soggetta agli obblighi di trasparenza sottesi alla l. n. 241/90 e consentirebbe di superare la prospettazione difensiva fondata sulla prevalenza che si sarebbe dovuta riconoscere al segreto giornalistico sulle fonti informative per “sostenere l’esclusione ovvero la limitazione dell’accesso nel caso di specie”. Secondo il TAR, in buona sostanza, l’attività consistente nella rappresentazione di notizie non può ritenersi disgiunta da quella preparatoria, volta all’acquisizione, alla raccolta e all’elaborazione delle notizie poi oggetto di rappresentazione; tanto più se si tratta di documenti ed atti formati ovvero detenuti da una pubblica amministrazione o da un privato gestore di un pubblico servizio.
La questione non è di poco conto: si afferma l’accessibilità di atti formati da enti pubblici e solo successivamente acquisiti dalla RAI tramite il giornalista, legittimando l’oggetto della pretesa conoscitiva in virtù del collegamento tra il servizio messo in onda e l’attività preparatoria volta all’acquisizione della documentazione e delle informazioni.
1.1. La perimetrazione soggettiva: gli obblighi ostensivi di RAI con riferimento all’accesso procedimentale e l’esclusione degli stessi in relazione all’ accesso civico generalizzato.
Il riconoscimento della legittimazione passiva in capo alla RAI nel caso di accesso procedimentale e la ricorrenza di una specifica causa di esclusione nel caso di accesso civico generalizzato, come rilevato dalle precedenti pronunce della medesima sezione[5], ha determinato l’accoglimento dell’una istanza (sia pure limitata sotto il profilo oggettivo) e il rigetto dell’altra da parte del TAR.
Se infatti l’art. 22, comma 1, chiarisce, nell’ambito di disciplina dell’accesso procedimentale, che per “pubblica amministrazione” si devono intendere “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”, così includendo tra i destinatari delle istanze di accesso anche i gestori di pubblico servizio, ai fini dell’accesso civico generalizzato ricorre nel caso di RAI un’ipotesi di esclusione soggettiva in quanto società emittente di strumenti quotati in mercati regolamentati, ai sensi dell’art. 2-bis, comma 2, lett. b) del d.lgs. n. 33/2013, in combinato disposto con l’art. 2, comma 1, lett. p) del d.lgs. n. 175/2016[6].
Al contrario, per quanto riguarda l’accesso procedimentale ex l. n. 241/90 s.m.i., non vi è dubbio che la RAI, in quanto soggetto esercente un pubblico servizio, rientri nella più ampia nozione di pubblica amministrazione di cui al richiamato art. 22, comma 1, lett. e), comprensiva – come ricordato – di tutti i soggetti di diritto pubblico e quelli di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse e, in quanto tale, l’attività da essa svolta rimane soggetta al diritto di accesso.
Già in precedenti pronunce[7] il TAR aveva avuto occasione di affermare la soggezione della RAI agli obblighi ostensivi di cui agli artt. 22 e ss. l. n. 241/1990 in forza del riferimento normativo anche ai “gestori di pubblici servizi”.
Pur nella sua veste formalmente privatistica di società per azioni e pur agendo mediante atti di diritto privato, la RAI “conserva indubbiamente significativi elementi di natura pubblicistica”, come ricorda il TAR, ravvisabili in particolare “a) nella prevista nomina di numerosi componenti del C.d.A. non già da parte del socio pubblico, ma da un organo ad essa esterno quale la Commissione parlamentare di vigilanza; b) nell’indisponibilità dello scopo da perseguire e cioè il servizio pubblico radiotelevisivo, prefissato a livello normativo; c) nella destinazione di un canone, avente natura di imposta, alla copertura dei costi del servizio da essa gestito”. L’azienda, inoltre, essendo di proprietà pubblica e rappresenta la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo, è “pienamente riconducibile all’ambito di applicazione della normativa sul diritto di accesso”.
Non è valsa a orientare in senso contrario il TAR neanche l’eccezione opposta dalla RAI circa la pretesa estraneità dell’attività oggetto dell’istanza ostensiva, all’ambito del servizio pubblico radiotelevisivo gestito dalla medesima. Il punto non appare affatto trascurabile, anche perché proprio l’oggetto dell’istanza ostensiva, almeno in parte, può ingenerare alcuni dubbi come si vedrà meglio nel paragrafo seguente.
Da un lato, precisa il TAR, “la rappresentazione di notizie operata all’interno di un servizio trasmesso nel corso di un programma di inchiesta giornalistica in onda su una rete RAI non può configurarsi come attività distinta da quella di ‘informazione pubblica’ riconducibile nell’ambito della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo affidato in gestione alla medesima Società, del quale sono ritenuti caratteri essenziali il pluralismo, la democraticità e l’imparzialità dell’informazione.. Dall’altro, l’attività consistente nella rappresentazione di notizie non può ritenersi disgiunta da quella preparatoria, volta all’acquisizione, alla raccolta e all’elaborazione delle notizie poi oggetto di rappresentazione”.
Da questo punto di vista emerge il diverso regime ai fini dell’accesso agli atti cui sarebbero sottoposti i giornalisti che svolgono la propria attività presso una emittente pubblica o equiparata – qual è l’emittente privata che svolga attività di servizio pubblico o di pubblico interesse e come tale rientrerebbe nella nozione di pubblica amministrazione richiamata in precedenza – rispetto a quelli che svolgono l’attività giornalistica al di fuori di tale perimetro. Ciò si giustificherebbe in virtù della peculiare finalizzazione dell’attività svolta dal giornalista – non è del tutto chiaro, ma sembra di poter così affermare anche in virtù del silenzio serbato dal TAR sulla specifica distinzione, se in virtù di qualunque tipo di collaborazione contrattuale, tanto subordinata quanto caratterizzata da autonomia perché indipendente dal vincolo di subordinazione e quindi dall’assoggettamento del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, ad esempio nei casi in cui la collaborazione avvenga da libero professionista a partita iva, oppure come lavoratore autonomo occasionale ovvero sotto forma di cessione del diritto d’autore etc.[8] – che ne impone la soggezione agli obblighi pubblici.
1.2. La perimetrazione oggettiva: l’accesso a materiali e contenuti informativi dell’attività giornalistica
Il precedente paragrafo introduce alla perimetrazione oggettiva operata dal TAR circa i materiali e i contenuti informativi accessibili.
Condivisibili, almeno in linea di principio, appaiono le precisazioni svolte dal TAR sul fatto che “la rappresentazione di notizie operata all’interno di un servizio trasmesso nel corso di un programma di inchiesta giornalistica in onda su una rete RAI non può configurarsi come attività distinta da quella di “informazione pubblica” riconducibile nell’ambito della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo affidato in gestione alla medesima Società, del quale sono ritenuti caratteri essenziali il pluralismo, la democraticità e l’imparzialità dell’informazione (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 112/1993; in senso analogo, cfr. TAR Lazio, sede di Roma, sez. I, sent. 14 giugno 2019, n. 7761)”, e che “l’attività consistente nella rappresentazione di notizie non può ritenersi disgiunta da quella preparatoria, volta all’acquisizione, alla raccolta e all’elaborazione delle notizie poi oggetto di rappresentazione".
Con riferimento alla delimitazione operata dal TAR della documentazione ostensibile va però precisato quanto segue.
Non è valorizzata in sentenza – almeno non in via espressa – la formale riconducibilità di alcuni degli atti che formavano oggetto dell’ampia istanza di accesso alla nozione di “documento amministrativo” ai sensi dell’art. 22, co. 1, lett. d, della L. n. 241/90 s.m.i. (v. supra, par. 1, spec. lett. a, b e c del passaggio della sentenza richiamato), in cui invece rientra a pieno titolo “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica”; nell’iter argomentativo esposto l’oggetto dell’istanza di accesso viene ridimensionato piuttosto in virtù della correlazione tra “l’interesse prospettato” e “la situazione giuridicamente tutelata collegata ai documenti oggetto della richiesta di accesso” (così implicitamente comprendendo nella nozione di documento amministrativo quanto in tal modo perimetrato).
Muovendo da questo presupposto, il TAR svolge le seguenti considerazioni.
Il servizio di inchiesta giornalistica in discussione aveva ad oggetto la gestione dei fondi regionali e la complessa rete di rapporti che avrebbero visto coinvolta l’amministrazione locale e i professionisti attivi sul territorio regionale e che in tale contesto l’istante/ricorrente veniva indicato come professionista di riferimento per le attività di consulenza e per altri incarichi affidati dalla Regione e da alcune amministrazioni comunali ovvero da altri enti pubblici a carattere locale “in una rappresentazione connotata in senso negativo fondata su informazioni false e fuorvianti, in quanto sarebbe stato indicato come riferimento soggettivo di un intreccio di rapporti quantomeno opachi”. In questa prospettiva – e cioè sotto il profilo dell’interesse difensivo – il TAR ha ritenuto suscettibile di ostensione la documentazione “connessa all’attività preparatoria di acquisizione e di raccolta di informazioni riguardanti le prestazioni di carattere professionale svolte dal ricorrente in favore di soggetti pubblici, confluite nell’elaborazione del contenuto del servizio di inchiesta giornalistica mandato in onda”, come detto, nello specifico avente ad oggetto la rete di rapporti di consulenza professionale instaurati su incarico di enti territoriali e locali.
Tale documentazione risultava costituita in particolare, dalle “richieste informative rivolte in via scritta dalla redazione del programma ad enti di natura pubblica in merito all’eventuale conferimento di incarichi ovvero di consulenze in favore di parte ricorrente, unitamente ai riscontri forniti dai suddetti enti, in quanto rientranti nel novero dei documenti e degli atti formati ovvero detenuti da una pubblica amministrazione o da un privato gestore di un pubblico servizio”.
È in questi termini che il TAR delimita la documentazione ostensibile.
Il passaggio tuttavia appare di peculiare importanza anche per la conseguente considerazione espressa dal TAR secondo cui “la delimitazione in siffatti termini della documentazione ostensibile, coinvolgendo l’interlocuzione intercorsa con soggetti di natura pubblica, rende priva di rilievo nel caso concreto la prospettazione difensiva articolata dalla Società resistente circa la prevalenza che dovrebbe riconoscersi al segreto giornalistico sulle ‘fonti’ informative per sostenere l’esclusione ovvero la limitazione dell’accesso nel caso di specie”. Nulla si dice invece con riferimento al motivo dell’esclusione, sia pure implicita, dal perimetro degli atti ostensibili degli altri atti (richieste rivolte dai giornalisti a privati quali società o fondazioni e, più genericamente, alla corrispondenza personale intercorsa).
Con riferimento alla perimetrazione oggettiva così come effettuata in sentenza non possono sottacersi alcune perplessità legate principalmente a due circostanze, tra loro connesse, e specificamente: l’affermazione della legittimazione passiva della RAI all’accesso nel caso di atti formalmente provenienti da enti pubblici, considerati tout court ostensibili dal TAR proprio in ragione della natura pubblica dell’ente che ha formato l’atto e le implicazioni in termini di segretezza della fonte, che potrebbe risultare pregiudicata soprattutto nel caso di atti acquisiti in via confidenziale (pur in assenza di espresse indicazioni al riguardo in sentenza, sembra lecito chiedersi ad esempio nel caso di specie con quali modalità si sia appresa la notizia del conferimento di incarichi da parte di enti pubblici e se gli atti in discussione rivelino tale fonte).
Se infatti è vero che l’art. 22, comma 1, lett. d) l. n. 241/90 s.m.i. si riferisce a atti “detenuti” da una pubblica amministrazione e quindi implicitamente include tra gli atti ostensibili anche quelli non formati dalla medesima amministrazione cui è rivolta l’istanza, il limite generale di buon senso sembra da ravvisare nel legame con l’utilizzazione di detti atti, spesso prodromici rispetto all’atto conclusivo adottato dall’amministrazione procedente e che costituisce il più diretto oggetto dell’istanza di accesso. Ciò in virtù nel nesso funzionale e allo scopo di non gravare il privato istante dell’onere di richieste ostensive “frazionate” da rivolgere di volta in volta all’amministrazione che ha materialmente formato l’atto utilizzato.
Quello degli eventuali limiti all’accesso nel caso di documento formato da altra amministrazione è un tema che, in assenza di una più specifica formulazione normativa, non è stato tuttavia espressamente affrontato dalla giurisprudenza, ma vi è stato fatto cenno sotto il profilo dell’onere probatorio con affermazioni di principio di carattere generale: trattandosi di fatto costitutivo della pretesa, l’onere di fornire la prova che i documenti siano in possesso della p.a. grava, ai sensi dell’art. 2697 c.c. sul privato istante (ricorrente in giudizio). Sotto il profilo sostanziale e, dunque nel merito della questione, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che “solo qualora sia fornita la dimostrazione che la documentazione di cui è chiesta l’ostensione effettivamente esiste e avrebbe dovuto essere detenuta dall’Amministrazione medesima destinataria della richiesta di accesso, questo deve essere concesso pur laddove l’Amministrazione medesima ne abbia perso la disponibilità; ciò per la ragione che non è opponibile al cittadino la circostanza (meramente contingente e fattuale) dell’assenza di documenti presso l’Amministrazione interpellata tutte le volte che – in ragione della riconducibilità del procedimento amministrativo cui i documenti ineriscono, alle competenze proprie di quest’ultima – i predetti documenti devono essere detenuti dall’Amministrazione medesima”[9].
Dunque l’unica indicazione più esplicita che si ricava è quella del collegamento tra il procedimento amministrativo cui ineriscono i documenti dei quali viene richiesta l’ostensione e le “competenze” dell’Amministrazione alla quale è rivolta l’istanza.
Da questo punto di vista, pur in assenza di un vero e proprio “procedimento amministrativo”, in virtù di quanto espressamente previsto dal richiamato comma 1, lett. d) dell’art. 22, l. n. 241/90 s.m.i., che include tra i documenti amministrativi ostensibili “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti”, ivi espressamente includendo quelli “interni o non relativi a uno specifico procedimento” (“..detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse..”) e in ragione della espressa considerazione degli atti in questione come attività “preparatoria” e pertanto inscindibile rispetto al servizio giornalistico, nel caso di specie, estendendo le maglie dell’interpretazione, potrebbe trovare supporto, almeno in astratto, la considerazione dell’ostensibilità di gli atti formati da altre amministrazioni e successivamente utilizzati per l’elaborazione della rappresentazione fotocinematografica – cioè il servizio giornalistico – che costituisce l’oggetto più diretto di accesso ed è legato alla “competenza” della RAI (sia pure solo in quanto atti presupposti). Ciò fatta salva l’individuazione dei giusti limiti entro i quali tale richiesta risulti caso per caso giustificata e dunque gli atti siano concretamente esigibili dalla RAI e non piuttosto dall’amministrazione stessa che li ha formati[10].
Indubbiamente, parlando di limiti, nel caso di specie non può non tenersi conto dell’obbligo di segretezza della fonte giornalistica: in altri termini, laddove l’esibizione di tali atti da parte della RAI non può avvenire se non fornendo chiare indicazioni sulla fonte delle notizie e, dunque, svelando la stessa, non si può neanche ravvisare un obbligo in tal senso se non ammettendo implicitamente la possibilità di fatto di incidere sull’autonomia giornalistica. Né si può in alcun modo avallare un uso distorto dell’accesso che determini come fine ultimo quello di indagare indebitamente sulla fonte della notizia in discussione, specie se il documento che si vuole conoscere, di per sé, può essere chiesto all’amministrazione che lo detiene perché lo ha anche formato. Una cosa è proteggere l’interesse a conoscere l’esistenza e il contenuto di un certo atto o documento, altra ritenere meritevole di protezione l’interesse a entrare in possesso dell’atto o documento concretamente detenuto dall’amministrazione per eventualmente appurare come e in che modo ne abbia ottenuto la disponibilità.
Il tema è invero complesso. Ferma restando la possibilità di oscurare alcuni dati, è evidente che l’accesso non può spingersi fino a comprimere l’obbligo professionale di segretezza cui sono tenuti i giornalisti facendo emergere la fonte delle proprie notizie, in quanto tale obbligo è posto proprio a presidio della libertà di informazione e dell’autonomia giornalistica.
L’esigenza di garantire il diritto di accesso deve perciò trovare il giusto contemperamento con la necessità di evitare che la “maggiore profondità” ascritta all’accesso ex l. 241/90 s.m.i., collegata all’esistenza di una posizione legittimante, possa, per il tramite della breccia aperta dall’impossibilità di ritenere l’attività di rappresentazione delle notizie disgiunta da quella preparatoria di acquisizione, raccolta ed elaborazione delle notizie che hanno formato oggetto di rappresentazione, creare indeterminatezza sugli atti ostensibili o finanche un indebito e generalizzato ampliamento dei contenuti accessibili (ancor più facilmente per il tramite della “porta d’accesso” dell’interesse defensionale, su cui v. infra).
L’informazione è certamente un momento essenziale della vita di uno Stato democratico e deve essere garantita nella sua piena libertà perché, come ci insegna la tradizione del costituzionalismo, la libertà di cronaca corrisponde anche a un interesse della collettività a una informazione obiettiva[11].
2. Le conclusioni cui giunge la sentenza: il superamento della potenziale conflittualità con gli interessi contrapposti e la preminenza dell’interesse defensionale.
Le considerazioni svolte dal TAR e riportate nel precedente paragrafo, segnando il passaggio dall’oggetto dell’istanza alla fondatezza della stessa, introducono il più ampio tema del bilanciamento in via amministrativa degli interessi confliggenti nel caso di accesso procedimentale e la “deroga” sancita dall’art. 24, comma 7 con riferimento all’accesso difensivo in cui tale bilanciamento è operato a monte dal legislatore.
Come noto, l’art. 24, comma 7, l. n. 241/90 s.m.i. attribuisce preminenza assoluta alle esigenze difensive, non subordinando a valutazione discrezionale la pretesa ostensiva ma facendone piuttosto derivare dalle relative esigenze conoscitive un vero e proprio obbligo ostensivo: la legge in proposito afferma che deve essere “comunque” garantito ai richiedenti “l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici..” (con la previsione del criterio maggiormente restrittivo della “stretta indispensabilità” nel caso di dati sensibili e giudiziari).
L’aver ancorato ai fini dell’obbligo ostensivo l’attività di rappresentazione delle notizie a quella preparatoria della medesima, volta – si ricorda – alla “acquisizione”, “raccolta” ed “elaborazione” delle notizie oggetto di rappresentazione, ha portato il TAR rigettare la separazione tra la figura della concessionaria del pubblico servizio e gli aspetti più strettamente inerenti all’espletamento della prestazione resa dal giornalista incaricato nell’elaborazione dei contenuti del singolo servizio nell’ambito della libera esplicazione dell’opera creativa e intellettuale del giornalista stesso.
All’opera del giornalista è applicabile l’obbligo di segreto professionale in base alla normativa che disciplina la relativa attività. A ben vedere però, l’art. 2, comma 3, L. n. 69/1963, connesso alla libertà di stampa, afferma che “Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie” – con ciò riferendosi non solo a chi racconta un fatto, ma a “ogni realtà in grado di documentarne l’accadimento in modo quanto più diretto possibile” – “quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse.”.
Ebbene nell’interpretazione del TAR l’eventuale violazione del segreto professionale sarebbe esclusa dal fatto che “l’interlocuzione [sarebbe] intercorsa con soggetti di natura pubblica”; non viene invece dato atto del fatto che l’unico dato legittimamente “secretato” dal richiamato articolo 2 della l. 69 cit., sarebbe la fonte di acquisizione delle informazioni e della documentazione e non anche la documentazione e le informazioni stesse (e comunque è noto che il diritto di accesso può essere garantito ricorrendo agli accorgimenti necessari, ad esempio oscurando alcuni dati dal documento oggetto dell’istanza). È evidente però che la considerazione – nei termini indicati – circa la possibilità che la natura pubblica della fonte di acquisizione delle notizie escluda ex se la ricorrenza di un interesse opponibile qual è il segreto professionale porterebbe in linea di principio a orientare anche la possibilità di accedere a documenti e informazioni, pur nel più ampio spazio valutativo riservato alla pubblica amministrazione, al di fuori dei casi di accesso defensionale (e sempre a non voler considerare che nessuna menzione è stata espressamente fatta degli altri atti, non riconducibili a interlocuzioni intercorsi con le p.a., esclusi implicitamente dal perimetro oggettivo dell’accesso). Tali considerazioni lasciano però aperta la porta ai dubbi in precedenza espressi.
In altre parole, il TAR compie tre passaggi: (i) afferma la legittimazione passiva in capo alla RAI rispetto all’obbligo ostensivo in presenza di interlocuzioni con pubbliche amministrazioni e circoscrive a queste ultime l’oggetto accessibile; (ii) afferma implicitamente che l’attività del giornalista – tutta, senza operare distinzioni neanche in linea di principio con riferimento al ventaglio di situazioni prospettabili – è “assorbita” dall’attività di pubblico interesse svolta dalla RAI in quanto attività preparatoria e quindi prodromica rispetto al contenuto del servizio giornalistico mandato in onda dall’emittente televisiva e pertanto la fa rientrare nel perimetro di applicazione del diritto di accesso; (iii) supera, in virtù della natura pubblica della fonte di acquisizione, le obiezioni relative alla lesione degli interessi contrapposti (segreto professionale e autonomia giornalistica) e accorda preminenza alle esigenze difensive, pur “delimitando” la documentazione ostensibile nei termini anzidetti.
L’iter argomentativo seguito ha portato alla condanna all’ostensione degli atti effettivamente formati e/o detenuti dalla RAI, con onere per la stessa RAI di fare menzione di eventuali atti che non fossero stati oggetto di documentazione, secondo il principio più volte affermato in giurisprudenza per cui spetta all'amministrazione destinataria dell'istanza di accesso indicare, sotto la propria responsabilità, quali sono gli atti inesistenti che non è in grado di esibire[12].
2.1. La preminenza dell’interesse defensionale e l’adesione all’orientamento maggioritario sulla valutazione in astratto delle esigenze difensive ai fini dell’accoglimento dell’istanza di accesso.
Con riferimento alla valutazione delle esigenze difensive, la sentenza conferma quell’orientamento che circoscrive il potere amministrativo a una mera valutazione in astratto e non in concreto di dette esigenze, con la conseguenza di stabilire una corrispondenza tra pretesa conoscitiva e obbligo ostensivo a fronte del collegamento tra l’istanza ostensiva e una astratta esigenza difensiva.
Ciò pone un preciso limite al potere discrezionale della pubblica amministrazione: si esclude ogni margine di apprezzamento da parte della stessa che non potrà sindacare la necessarietà della conoscenza a fini difensivi nel caso concreto, dal momento che l’utilità effettiva può essere valutata solo in giudizio e che l’accesso difensivo prescinde dalla pendenza di un giudizio[13].
Opportunamente, dunque, il TAR prende posizione, sulla scia dell’indirizzo maggioritario, su un punto rispetto al quale la giurisprudenza non ha sempre manifestato uniformità di indirizzo, dividendosi tra un orientamento che ha mostrato di propendere per una valutazione ampia dell’istanza di accesso difensivo, secondo cui sarebbe sufficiente che la documentazione richiesta avesse “attinenza” con il processo[14] e un altro indirizzo che invece ha avallato una valutazione più rigorosa dell’interesse defensionale[15].
Il primo degli indicati indirizzi appare maggiormente condivisibile e più coerente con la lettera della legge ed è stato confermato dall’Adunanza Plenaria n. 19/2020 nell’ambito di una più ampia pronuncia che ha fatto chiarezza sulla complementarietà tra l’accesso difensivo e i metodi di acquisizione probatoria previsti dal c.p.c. e che significativamente ha ricordato che sul piano della logica difensiva – “costruita intorno al principio dell’accessibilità dei documenti amministrativi per esigenze di tutela e che si traduce in un onere aggravato sul piano probatorio, nel senso che grava sulla parte interessata l’onere di dimostrare che il documento al quale intende accedere è necessario (o, addirittura, strettamente indispensabile se concerne dati sensibili o giudiziari) per la cura o la difesa dei propri interessi” – il legislatore ha inserito all’interno di una norma di natura sostanziale uno strumento di valenza tipicamente processuale, fornendo ‘azione’ alla ‘pretesa’ e che “la necessità (o la stretta indispensabilità) della conoscenza del documento determina il nesso di strumentalità tra il diritto all’accesso e la situazione giuridica ‘finale’, nel senso che l’ostensione del documento amministrativo deve essere valutata, sulla base di un giudizio prognostico ex ante, come il tramite per acquisire gli elementi di prova in ordine ai fatti (principali e secondari) integranti la fattispecie costitutiva della situazione giuridica ‘finale’ controversa e delle correlative pretese astrattamente azionabili in giudizio”.
Non è tuttavia sufficiente addurre un generico riferimento a esigenze probatorie o difensive poiché, come ricordato anche da una più recente decisione dell’Adunanza Plenaria (n. 4/2021), l’ostensione “passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare”, ma né la p.a., né il giudice adito “devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990”.
Dunque, ai fini dell’accoglimento dell’istanza di accesso difensivo si richiede unicamente l’esistenza del nesso di strumentalità tra l’accesso e la cura o la difesa in giudizio dei propri interessi giuridici.
Più precisamente, la giurisprudenza ha chiarito che occorre “circoscrivere le qualità dell’interesse legittimante a quelle ipotesi che - sole - garantiscono la piena corrispondenza tra la situazione (sostanziale) giuridicamente tutelata ed i fatti (principali e secondari) di cui la stessa fattispecie si compone, atteso il necessario raffronto che l’interprete deve operare, in termini di pratica sussunzione, tra la fattispecie concreta di cui la parte domanda la tutela in giudizio e l’astratto paradigma legale che ne costituisce la base legale” e che “siffatto giudizio di sussunzione, che costituisce la base fondante dell’accesso difensivo, è regolato in ogni suo aspetto dalla legge (e dal rispettivo regolamento di attuazione), mostrandosi privo di tratti “liberi” lasciati alla interpretazione discrezionale dell’autorità amministrativa ovvero alla prudente interpretazione del giudice”[16].
Nel caso di accesso difensivo, dunque, l’unico interesse legittimante è quello che corrisponde in modo diretto, concreto e attuale alla cura o anche difesa in giudizio di tali fattispecie predeterminate, in chiave strettamente difensiva. Ciò coerentemente con la ratio dalla legge, secondo cui le finalità dell’accesso devono essere dedotte e rappresentate in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione e devono essere suffragate con idonea documentazione, così da permettere all’amministrazione detentrice del documento il vaglio sul nesso di strumentalità necessaria della documentazione richiesta sub specie di astratta pertinenza con la situazione finale controversa.
Nella valutazione della strumentalità defensionale, anche in rapporto alla tutela della riservatezza, secondo la previsione dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, trova applicazione il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico (e quello più stringente della “stretta indispensabilità” per i dati sensibili e giudiziari), che di per sé segna la prevalenza del primo interesse rispetto al secondo, ovviamente a condizione che venga riscontrata la sussistenza dei presupposti generali.
Dunque la “strumentalità” dell’accesso, richiesta dall’art. 22, comma 1, lett. b, l. n. 241/1990 come finalizzazione della domanda ostensiva alla cura di un interesse diretto, concreto, attuale (e non meramente emulativo o potenziale) connesso alla disponibilità dell'atto o del documento del quale si richiede l'accesso, viene correttamente intesa in senso ampio, in termini di “utilità per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante”[17].
La sentenza valorizza quell’orientamento – dominante – secondo cui la legittimazione all'accesso non può essere valutata facendo riferimento alla legittimazione della pretesa sostanziale sottostante, ma ha consistenza autonoma (“indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata”), sicché, una volta accertato il collegamento tra l'interesse e il documento, ogni ulteriore indagine sull'utilità e sull’efficacia del documento stesso in prospettiva di tutela giurisdizionale ovvero sull'esistenza di altri strumenti di tutela eventualmente utilizzabili risulta del tutto ultronea[18].
In conclusione il riscontro, ai fini dell’accoglimento dell’istanza, del legame tra la finalità dichiarata e il documento richiesto, più che la forma della valutazione nello specifico acquista quella dell’accertamento della generica utilità del documento del quale viene chiesta l’ostensione per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante, non dovendo e non potendo assumere tale riscontro i tratti dello strumento di prova diretta della lesione di tale interesse, dal momento che una valutazione di rilevanza o di irrilevanza dell’istanza ostensiva rispetto alla finalità difensiva prospettata non spetta né all’ente cui è chiesta l’ostensione dei documenti, né al giudice in sede di tutela giurisdizionale avverso il diniego opposto[19].
3. Considerazioni conclusive.
Come noto, il diritto di accesso procedimentale è un istituto volto a garantire la conoscenza degli atti amministrativi al privato che sia coinvolto nell’esercizio della funzione amministrativa (il cui interesse sia “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”), ciò in ossequio ai principi di partecipazione, imparzialità e trasparenza amministrativa che guidano l’azione amministrativa e attribuiscono quindi all’istituto dell’accesso procedimentale anche “rilevanti finalità di pubblico interesse” (art. 22, l. 241/90 s.m.i.).
Si tutela in via diretta al “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” (art. 22, cit.), ove per documento amministrativo si intende espressamente ogni atto (o rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti), anche interni o non relativi a uno specifico procedimento “detenuti” da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse nell’ambito del più ampio indirizzo volto alla realizzazione di una amministrazione trasparente che, in virtù del più saldo legame stabilito dal d.lgs n. 33/2013 s.m.i. tra l’efficacia della trasparenza amministrativa e la tutela dei diritti individuali, viene delineata attraverso il riferimento ad una “accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti... allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.
Oggetto di protezione è pertanto il diritto del singolo alla conoscenza del contenuto dei documenti formati e/o detenuti dalla p.a. e dai soggetti ad essa equiparati collegati alla propria situazione giuridica, cui l’ordinamento – per l’appunto – riconosce tutela (esclusa nel caso di accesso procedimentale volto a esercitare un controllo generalizzato), rafforzata nel caso in cui tale conoscenza sia preordinata alla cura o difesa dei propri interessi giuridici. In quest’ultimo caso è accordata prevalenza alla pretesa conoscitiva rispetto alle ragioni della riservatezza e anche la valutazione che l’amministrazione è chiamata a operare con riferimento alle esigenze difensive non potrà spingersi fino a sindacare la “necessarietà” della conoscenza ai fini difensivi nel caso concreto, dovendosi piuttosto arrestare a un riscontro meramente astratto in virtù della pacifica circostanza per cui la richiesta di accesso si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso a una immediata tutela in via giurisdizionale.
In linea di principio, ciò vale tanto per gli atti formati dalla pubblica amministrazione cui è rivolta l’istanza, quanto per quelli da essa “detenuti”, in quanto atti pubblici e ricollegabili al procedimento amministrativo di competenza dell’amministrazione stessa, a garanzia della loro conoscibilità in concreto, tanto più se le ragioni di tale conoscenza trovano giustificazione nell’esigenza di cura e tutela dei propri interessi (nel caso di specie: la propria reputazione da notizie asseritamente false).
Altra cosa è però ritenere meritevole di protezione l’interesse a entrare in possesso dell’atto o del documento (non formato ma semplicemente) detenuto dall’amministrazione con l’eventuale intento di trarre informazioni sulla fonte della notizia. Una cosa è garantire la conoscenza del contenuto del documento, altro la conoscenza della fonte.
Tale distinzione sembra confondersi nell’iter argomentativo su cui il TAR fonda il proprio decisum, motivando l’obbligo posto in capo a RAI di ostendere gli atti recanti gli affidamenti di incarichi conferiti al ricorrente da parte della Regione e da alcune amministrazioni comunali con riferimento alla circostanza per cui, essendo l’interlocuzione intercorsa con soggetti di natura pubblica, proprio in virtù di questa circostanza si ritiene “priva di rilievo nel caso concreto..la prospettazione difensiva circa la prevalenza che dovrebbe essere accordata al segreto giornalistico sulle ‘fonti’ informative”.
Il carattere pubblico degli atti rende gli stessi accessibili, ivi compresi – come detto – quelli semplicemente detenuti dalla RAI in ragione della loro connessione con l’attività preparatoria del servizio giornalistico, ma non può arrivare a determinare la conoscenza della fonte dell’informazione ricevuta. In altri termini, laddove la conoscenza del documento sia idonea a svelarne la fonte, o addirittura l’accesso appaia a tal fine meramente strumentale, non si può non riconoscere una legittima causa di limitazione e/o esclusione dell’accesso al documento stesso, anche in virtù della previsione all’art. 2, comma 3, L. n. 69/1963. Ancor più tale limite rileva con riferimento a documenti (pubblici), la cui accessibilità sarebbe garantita anche eventualmente rivolgendo l’istanza all’ente pubblico che li ha formati, dal momento che tale possibilità è comunque in grado di garantire la protezione dell’interesse alla conoscenza del contenuto del documento, e cioè il “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”; ovvero a soddisfare pienamente quel bisogno di conoscere strumentale a una situazione giuridica pregressa che è l’interesse tutelato in via esclusiva dal più volte richiamato art. 22, l. 241/90 s.m.i. (che lascia invece sullo sfondo la generica tutela della trasparenza come interesse pubblico solo “occasionalmente protetto”).
[1] Avverso la sentenza è stato proposto appello con il numero 202106876, attualmente pendente.
[2] Cons. Stato, Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10; Id., 25 settembre 2020, nn. 19, 20 e 21; Id., 18 marzo 2021 n. 4.
[3] Viceversa, la giurisprudenza ha precisato – con riferimento all’accesso ex L. n. 241/90 s.m.i. – che il diritto di accesso agli atti non è automatico per i giornalisti che invocano una pretesa libertà di informarsi per informare, dal momento che contenuto e limiti dell’accesso sono fissati dalla legge e la stessa non prevede che il diritto a essere informati possa “accrescere” il diritto di accesso di chi informa, né nei contenuti, né nel risultato, pena l’introduzione di una “inammissibile azione popolare sulla trasparenza dell’azione amministrativa che la normativa sull’accesso non conosce” (in questi termini: Cons. Stato, Sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631, in una controversia in cui il redattore di una testata specializzata invocava il diritto di cronaca per ottenere dal Ministero dell’economia copia dei contratti derivati stipulati dallo Stato con alcuni istituti di credito stranieri). In dottrina per profili generali e spunti ricostruttivi, tra i contributi più significativi sul tema, si veda M.A. Sandulli, Note in tema di diritto all’informazione radiotelevisiva, in Giur. It., 1978. Più recentemente, sempre per profili generali, si veda anche B. Ponti, La mediazione informativa nel regime giuridico della trasparenza: spunti ricostruttivi, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, fasc. 2, 1 aprile 2019, p. 383 ss.; Id., La trasparenza e i mediatori dell’informazione, in G. Gardini, M. Magri, Il FOIA italiano: vincitori e vinti. Un bilancio a tre anni dall’introduzione, Maggioli, 2019.
[4] In termini si vedano, tra i più recenti: Trib. Roma, Sez. lav., 25 febbraio 2019, n. 1844; Corte app. Roma, 8 aprile 2020, nn. 493 e 494. Anche la giurisprudenza civile più risalente era approdata a un orientamento interpretativo che teneva conto della singolarità della professione, tanto da indurre a parlare di subordinazione “affievolita” o “attenuata”. Premesso che i caratteri distintivi del rapporto di lavoro subordinato, costituiti “dall’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale” e dal suo assoggettamento “ai poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro”, sono i “medesimi per qualunque tipo di lavoro”, essi possono connotarsi per “intensità diverse” a seconda del livello delle mansioni esercitate o del contenuto della prestazione pattuita, dunque “fermo restando il carattere della creatività”, può costituire l’una o l’altra forma “a seconda delle modalità della collaborazione tra il datore di lavoro e il giornalista” (Cass. n. 3705/1999).
[5] TAR Lazio, Sez. III, 3 marzo 2021, n. 2607. La sentenza richiamata, come ricordato dal Collegio, evidenzia che la soluzione accolta dal Legislatore trova altresì conferma nelle considerazioni espresse nell’ambito del parere n. 1257/2017 reso dal Consiglio di Stato sullo schema di Linee guida dell’ANAC elaborato per aggiornare quelle già emesse per l’applicazione del D.lgs. n. 33/2013 all’esito delle modifiche intervenute con il D.lgs. n. 97/2016. Nel parere richiamato si osserva infatti che “Le società quotate, sono sottoposte ad un sistema di obblighi, di controlli e di sanzioni autonomo, in ragione dell’esigenza di contemperare gli interessi pubblici sottesi alla normativa anticorruzione e trasparenza con la tutela degli investitori e dei mercati finanziari, e questa circostanza ben potrebbe giustificare l’esonero dagli obblighi di trasparenza in questione”.
[6] L’art. 2 bis del D.lgs. n. 33/2013 s.m.i., nell’individuare il campo di applicazione della disciplina dell’accesso civico, al comma 2 lett. b), come successivamente modificato, dispone che essa si applica “… alle società in controllo pubblico come definite dall'articolo 2, comma 1, lettera m), del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175. Sono escluse le società quotate come definite dall'articolo 2, comma 1, lettera p), dello stesso decreto legislativo”. L’articolo 2, comma 1, lettera p), D.lgs. n. 175/2016 definisce società quotate come “le società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati; le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati”.
[7] Ex multis, si vedano le seguenti decisioni: TAR Lazio, Roma, Sez. III, 16 novembre 2020, n. 1197 (verso la quale è stato proposto appello tutt’ora pendente); Id., 15 luglio 2019, n. 9347 (confermata in appello con decisione del Cons. Stato del 24 maggio 2021, n. 4004); Id., 2 febbraio 2018, n. 1354 (decisione annullata in appello e rinviata al primo giudice ma per questioni di rito e, precisamente, mancata integrazione del contraddittorio). In questi tre casi l’applicabilità della disciplina dell’accesso di cui alla l. n. 241/90 s.m.i. fu affermata con riferimento a controversie aventi ad oggetto l’accesso ai documenti esercitato da parte di giornalisti professionisti non dipendenti della RAI alle procedure di reclutamento indetta dalla RAI stessa per verificare la corretta applicazione nei loro confronti delle regole che disciplinano a monte la formazione delle graduatorie.
[8] Da questo punto di vista neppure il carattere “creativo” dell’opera resa potrebbe portare a conclusioni diverse se si ha riguardo a quella giurisprudenza che, sia pure in altri ambiti, ha affermato che, “in linea di principio, la natura di opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore dell’atto cui si chiede l’accesso non esclude quest’ultimo dato che la disciplina dettata a tutela del diritto di autore e della proprietà intellettuale garantisce gli interessi economici dell'autore ovvero del titolare dell'opera intellettuale, mentre la normativa sull'accesso agli atti è funzionale a garantire altri interessi e, in questi limiti, deve essere consentita la visione e anche l'estrazione di copia” (in questo senso, si veda per tutti TAR Lazio, Roma, Sez. III, 21 marzo 2017, n. 3742).
[9] TAR Trento, Sez. I, 16 settembre 2020, n. 158.
[10] Ciò troverebbe conferma – e allo stesso tempo esplicitazione dei limiti – nella giurisprudenza che in materia di accesso agli atti e ai documenti amministrativi espressamente nega che possa rappresentare una circostanza escludente dell’obbligo ostensivo la materiale assenza dei documenti presso l’amministrazione interpellata “tutte le volte che – in ragione della riconducibilità del procedimento amministrativo cui i documenti richiesti ineriscono alle competenze proprie dell’amministrazione interpellata – i predetti documenti debbano essere detenuti dell’amministrazione medesima” (in questi termini, TAR Cagliari, Sez. II, 11 novembre 2020, n. 612), non essendo opponibile al cittadino la circostanza contingente e fattuale dell’assenza dei documenti presso l’amministrazione interpellata. Dunque, secondo l’orientamento consolidato, laddove sia fornita la dimostrazione (da parte dell’istante) che la documentazione di cui viene chiesta l’ostensione effettivamente esiste e “avrebbe dovuto essere detenuta dall’amministrazione destinataria della richiesta di accesso, questo deve essere concesso pur laddove l’amministrazione ne abbia perso la disponibilità” (TAR Trento, Sez. I, 16 settembre 2020, n. 158).
[11] Sul tema in generale si rinvia per tutti a V. Crisafulli, Problematica della “libertà di informazione”, in Il Politico, 1962, p. 285 ss.; A. Loiodice, Informazione (diritto alla), in Enc. Dir., 1971, XXI. Con le peculiarità di ciascun approccio si vedano anche: C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958; A. Pace, Informazione: valori e situazioni giuridiche soggettive, in Dir. soc., 2014 e in Id., Per la Costituzione. Scritti scelti, vol. II, Napoli, 2019, 576. In alcune costruzioni dottrinarie è stato sottolineato che la libertà di informazione, diversamente dalla generale libertà di manifestazione del proprio pensiero, identificherebbe un diritto di natura funzionale, volto al soddisfacimento dell'interesse della collettività ad essere informata, sino a divenire, negli approcci più radicali, elemento costitutivo di un rapporto giuridico di tipo obbligatorio, caratterizzato non già o non solo in funzione del diritto (di informare) di chi trasmette le informazioni, ma soprattutto del diritto di chi le riceve ad essere obiettivamente informato. È nota anche la posizione per cui «i diritti di libertà e i diritti politici si pongono di fatto come reciprocamente serventi, in una rete di situazioni giuridiche soggettive anche strutturalmente diverse tra loro, ma tutte di fatto convergenti alla più piena realizzazione, nel nostro Paese, di una democrazia liberale» (A. Pace, cit.).
[12] Ex multis: TAR Lazio, sez. III-bis, 2 novembre 2018, n. 10553.
[13] Già la più attenta dottrina aveva sottolineato che il diritto di accesso defensionale non poteva essere oggetto di valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante, stante la chiara formulazione della norma (art. 24, L. n. 241/90 s.m.i.), che delinea una sovraordinazione dell’ipotesi dell’accesso c.d. defensionale di cui al comma 7 (in virtù del quale deve “comunque” essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”), rispetto alle possibili limitazioni contemplate dal comma 6 del medesimo art. 24; il che significa che se la pretesa conoscitiva non è strumentale alla difesa dei propri interessi, ma è espressione di un puro e semplice interesse alla conoscenza, la norma applicabile sarà il comma 6, che rimette all’amministrazione il bilanciamento dell’interesse alla conoscenza con gli altri interessi previsti dal medesimo comma, viceversa, in presenza di una pretesa conoscitiva fondata sull’esigenza di protezione di una situazione giuridica soggettiva individuale, la norma applicabile sarà il comma 7, in cui il bilanciamento è effettuato a monte dal legislatore. In questi termini: F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione retorica, in Federalismi.it, n. 10/2019.
[14] Ex multis: Cons. Stato, sez. VI, 15 novembre 2018, n. 6444; Id., sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 461.
[15] Ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2014, n. 2472; Id., sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1568.
[16] Cons. Stato, Ad. Plen., 18 marzo 2021, n. 4, cit.
[17] In termini cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 15 maggio 2017 n. 2269; Id., Sez. III, 16 maggio 2016 n. 1978; Id., Sez. IV, 6 agosto 2014 n. 4209.
[18]In questi termini: Cons. Stato, Sez. V, 9 marzo 2020, n. 1664.
[19] Sul punto sia consentito rinviare a M. Sinisi, I diritti di accesso e la discrezionalità amministrativa, Cacucci Editore, 2020.
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