I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme*
di Giuseppe Santalucia
Non possiamo far prevalere l’idea che “la migliore qualità per governare sia quella di non voler governare” –come ci avverte Giuseppe Santalucia –, ma occorre che per interessi collettivi e pubblici, mai individuali, ci si riappropri degli spazi lasciati in balia del malgoverno di pochi.
E se la partecipazione in termini di appartenenza è uno scoglio insormontabile, che dalle nuove generazioni è percepito come minaccia all’indipendenza, allora ben vengano “le aggregazioni fluide” richiamate da Giuseppe Santalucia, che siano animate però dal motto del rispetto delle regole, della trasparenza delle decisioni, dell’efficienza del servizio giustizia e dell’attenzione alla questione morale. Sarà di grande aiuto ricordare che la magistratura non deve essere corporativa, autoreferenziale e ripiegata su sé stessa, bensì deve essere impegnata a ricercare soluzioni per il miglior servizio giustizia.
Giuseppe Santalucia ci spiega come la cura contro il correntismo sia nelle mani dalle nuove generazioni di magistrati.
Ed è ai giovani magistrati che questo scritto è rivolto.
Nelle varie riforme del sistema elettorale del Consiglio, che nel tempo si sono succedute, è possibile scorgere un disegno unitario? In quella successione v’è mai stato spazio, a livello di proposte, per il sorteggio?
L’esame dei sistemi elettorali del Consiglio superiore della magistratura può essere condotto distinguendo due grandi periodi.
Nel primo, che ebbe inizio con l’istituzione del Consiglio e cessò a ridosso degli anni novanta del secolo scorso, il sistema elettorale e i tentativi plurimi di modificarlo furono espressione di un disegno della magistratura, andato a buon fine, di liberarsi dai vincoli di una forte gerarchia interna, e quindi di porre in disparte la divisione per categorie che valeva sia per l’elettorato attivo che per quello passivo, premiando, in termini di sovra-rappresentanza, i magistrati di cassazione.
Questo periodo, a voler usare una formula di sintesi, fu dedicato alla conquista di spazi di democraticità interna alla magistratura.
Nel secondo, che iniziò negli anni ottanta del secolo scorso e che, senza soluzione di continuità, attraversa i giorni nostri, sistema elettorale ed elaborazione di nuovi meccanismi sono stati e sono, invece, lo strumento con cui si è cercato e si cerca di liberare il Consiglio dal peso e dalle pressioni delle correnti della magistratura associata.
Prima di dare conto, attraverso una carrellata riassuntiva del succedersi nel tempo dei vari modelli elettorali, credo sia necessario soffermarsi, anche in vista del prossimo futuro, sull’esistenza di limiti costituzionali al potere del legislatore ordinario di immaginare nuovi sistemi di scelta della componente cd. togata.
La Costituzione –è noto – non dice nulla sul tipo di sistema elettorale e altro non fa che imporre la rappresentanza per categorie.
È stato detto, nella precedente sessione dalla Prof.ssa Biondi, ma anche dalla Presidente Luccioli, che il meccanismo di scelta fondato sul sorteggio sarebbe incostituzionale.
Credo che su tale affermazione si possa e si debba convenire!
Non è però secondario che oggi, a differenza di quanto avvenne nel passato – mi riferisco ad un disegno di legge presentato nel 1971 dall’on. Almirante e, in tempi più recenti, ad una iniziativa legislativa di riforma costituzionale del Governo Berlusconi –, proprio il Governo si stia apprestando ad approvare un disegno di legge ordinaria sul sorteggio.
La premessa di questa iniziativa, di indubbio peso politico non trattandosi dell’azione di un singolo parlamentare, è che il sorteggio possa trovare cittadinanza nel nostro sistema a Costituzione invariata.
Per questa parte allora va fatto richiamo, irrobustendo in tal modo le critiche già fatte al sistema del sorteggio, ad una sentenza della Corte Costituzionale – n. 6/2011 – che indirettamente ha validato la tesi della impossibilità di introdurre il sorteggio senza una modifica della Costituzione.
Tanto è stato affermato nell’occasione in cui la Corte si è occupata – definendola con una pronuncia di inammissibilità – della questione della pari rappresentanza della componente togata e della componente laica all’interno del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti.
Ha così chiarito che quel che è essenziale è che ci sia una rappresentanza della magistratura togata eletta dalla magistratura togata: quindi eletta, non designata all’interno della magistratura togata, ma, appunto, scelta per mezzo di una elezione.
La rinnovata vitalità, nel dibattito pubblico, del sorteggio come sistema di elezione al Consiglio, che pone addirittura in ombra i profili di incompatibilità costituzionale, è diretta conseguenza del contesto politico e culturale che caratterizza il presente, attraversato da una profonda crisi della democrazia rappresentativa, più acuta di quella percepibile negli anni settanta del secolo scorso quando, per tornare al dato storico richiamato, al sorteggio si era sì pensato, ma imbastendo un disegno di legge costituzionale, a firma allora dell’on. Almirante.
La rinnovata proposta del sorteggio è l’indice più chiaro di questo stato di crisi della rappresentanza, di una democrazia che pretende di inverare un paradosso: quello secondo cui la scelta della classe dirigente, della élite a cui affidare l’esercizio del potere, e quindi la definizione della superiorità per competenza, rinvenga il suo fondamento nel postulato dell’assenza di qualunque superiorità.
Quando si inneggia alla democrazia diretta come soluzione della crisi, la cui portata e vastità peraltro non possono essere negate, la proposta di sorteggio rischia di aver successo già all’interno del corpo dei magistrati.
Quali erano le caratteristiche dei sistemi elettorali del primo periodo?
Fatta questa doverosa puntualizzazione, si può tornare al tema specifico della relazione: l’evoluzione storica dei sistemi elettorali, per come si sono succeduti sin dall’origine dell’organo di autogoverno.
La legge istitutiva del Consiglio si connotò per l’adozione di un sistema elettorale di tipo maggioritario, un maggioritario puro a collegi uninominali. Si costruirono collegi territoriali in cui destinati a prevalere erano i magistrati appartenenti alla Corte di cassazione.
In particolare, si definirono quattro collegi per i magistrati di appello, quattro collegi per i magistrati di tribunale e si costruì un collegio nazionale per i magistrati di cassazione, che erano numericamente di gran lunga inferiori.
In ciascun collegio territoriale si esprimeva soltanto un eletto, mentre il collegio nazionale per la legittimità consegnava ben sei componenti.
Quella legge, che fu approvata a dieci anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, rivelava un dato particolarmente significativo, ossia la scarsa accettazione del modello costituzionale di Consiglio all’interno del ceto politico del tempo e, aspetto non secondario, nell’ambito della magistratura per così dire alta, quella di cassazione.
I magistrati della Corte di cassazione, con la loro rappresentanza, si erano anni prima battuti affinché il presidente della Corte fosse di diritto il presidente del Consiglio.
L’intento era chiaro!
Non volevano perdere il controllo sull’intera magistratura, che già esercitavano attraverso il sistema dei concorsi per la progressione in carriera.
L’Associazione nazionale dei magistrati, invece, già dal Congresso di Napoli del 1957, aveva fatto del principio costituzionale – di cui all’art. 101 – della soggezione soltanto alla legge, un vessillo e insieme lo strumento per rompere quell’assetto sclerotizzato di potere all’interno dell’Ordine.
Le resistenze politiche e culturali rispetto al modello costituzionale di Consiglio erano del resto molto forti: si pensi che, qualche anno prima dell’approvazione della legge istitutiva, furono fatti dei tentativi dal Governo di allora per promuovere una revisione costituzionale e specificamente per cambiare il volto del Consiglio sì come delineato appena qualche anno prima.
Non si accettava al tempo la soluzione impressa nella Carta di renderlo del tutto indipendente dal Ministro, soggetto politicamente responsabile dell’organizzazione giudiziaria.
Grazie anche all’impegno politico-culturale dell’Associazione dei magistrati fu infine varata, nel 1958, la legge istitutiva che, appena cinque anni dopo, fu portata all’esame della Corte costituzionale.
Nel 1963 la Corte emise una sentenza storica – n. 168 –, dichiarando l’illegittimità della norma che riconduceva il Consiglio, pur titolare del potere decisorio nelle materie di sua competenza, alle dipendenze del Ministro per mezzo dell’attribuzione esclusiva a quest’ultimo dell’iniziativa procedimentale necessaria a che il Consiglio potesse deliberare.
Quella stessa sentenza, però, affermò pure che il principio della categorizzazione dei magistrati era conforme a Costituzione e che, quindi, l’elettorato passivo doveva essere delineato in modo tale da assicurare la rappresentanza per categorie; aggiunse, poi, che il legislatore era libero di organizzare sulla base delle ripartizioni per categorie anche l’elettorato attivo.
Non mancò infine di precisare che la maggiore presenza dei magistrati di cassazione all’interno del Consiglio ben si giustificava, perché il legislatore non era vincolato a porre esclusiva attenzione al dato numerico di rappresentanza, e quindi a un equilibrato dosaggio per proporzione nel definire le quote, ben potendo valorizzare, in riguardo ai magistrati di cassazione, il maggior prestigio e la maggiore competenza ed esperienza, espresse a quel tempo per mezzo del reclutamento ai gradi superiori tramite il sistema dei concorsi per esami.
Ciò nonostante, la vitalità dell’associazionismo e la sua forza di elaborazione culturale portarono di lì a qualche anno a un primo indebolimento della struttura portante di quel sistema elettorale.
La spinta politica della magistratura associata consentì – nonostante la Corte Costituzionale avesse validato la ripartizione per categorie con preminenza dei magistrati di legittimità – di incrinare la rigidità di quel principio, e nel 1967 fu approvata una legge – l. n. 1198 – che introdusse un nuovo meccanismo elettorale, abbastanza complesso, a dire il vero.
Si trattava di un sistema a doppio turno, che ebbe vita breve ma che oggi riacquista interesse, atteso che la commissione ministeriale, presieduta dal presidente Luigi Scotti e nominata, nella scorsa Legislatura, dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando ha riproposto, con la relazione conclusiva dei lavori, un sistema elettorale a doppio turno.
In quel sistema erano conservati i collegi territoriali, della precedente legge, per l’elezione dei magistrati di merito e il collegio nazionale per l’elezione dei componenti di legittimità. Nella prima fase si procedeva alla designazione per la candidatura: si svolgeva una prima fase deputata alla selezione dei candidati. Otto collegi territoriali, quattro per i magistrati di tribunale e quattro per i magistrati di appello, nominavano ciascuno due candidati; il collegio unico della cassazione esprimeva ben dodici candidati, di cui quattro con ufficio direttivo.
Nella fase di designazione il magistrato elettore appartenente alle categorie del merito poteva indicare non più di due candidati della propria categoria tra i magistrati in servizio in uffici compresi nel collegio territoriale di appartenenza; il magistrato di cassazione poteva invece esprimere non più di dodici preferenze, di cui quattro relative a magistrati con ufficio direttivo.
I designati andavano a comporre un’unica lista nazionale, e a quel punto, nelle vere elezioni – e quindi non nella designazione – ciascun magistrato poteva votare a prescindere dalla categoria di appartenenza, esprimendo preferenze sia per il magistrato della propria categoria che per i magistrati delle altre.
Quindi, qualunque magistrato votava nel “listone” nazionale sia per il magistrato della propria categoria, che per gli altri magistrati, con in più la possibilità di esprimere voto per magistrati non inclusi tra i designati.
Un indebolimento, così, del principio della categorizzazione, che era il frutto delle battaglie dell’associazionismo ma una riconferma del principio maggioritario. Erano infatti eletti i candidati che ottenevano il maggior numero di voti nella categoria di appartenenza, ferma la regola che dovessero essere proclamati otto eletti, quattro magistrati di cassazione, tre di appello e tre di tribunale compresi nella lista nazionale.
Con questa legge furono formati due Consigli: il primo che, nonostante la struttura maggioritaria del sistema, non vide una presenza massiccia dei rappresentati della corrente moderata allora preponderante, Magistratura indipendente. Questa però riuscì a organizzarsi molto bene per la seconda tornata elettorale e si aggiudicò tredici sui quattordici seggi da assegnare – allora erano ventuno i componenti del Consiglio, esclusi i capi di Corte e, ovviamente, il Presidente della Repubblica –.
Come e quando si giunse ad un sistema elettorale di tipo proporzionale?
Anche in ragione di questo risultato che, per quanto rispondente al principio maggioritario, apparve come una stortura, si arrivò ad una nuova riforma del sistema elettorale.
Ovviamente il contesto politico era assolutamente favorevole a una riforma che desse spazio alla rappresentanza del pluralismo interno all’Associazione nazionale dei magistrati. Il principio della rappresentanza democratica non solo era coltivato dall’associazionismo giudiziario ma trovava autorevolissimi sostenitori anche nel mondo politico.
Con la legge del 1975 – l. n. 695 – il sistema elettorale fu strutturato in senso proporzionale.
Si passò così da un sistema a forte impronta maggioritaria ad altro opposto, su collegio nazionale per liste concorrenti e con scrutinio di lista, con l’unico sbarramento del 6% di rappresentanza nazionale della lista.
Fu contestualmente aumentato, da ventuno a trenta, il numero dei componenti del Consiglio, con un aumento, ovviamente, anche della componente laica. Ciò permise al Partito comunista di allora di avere una maggiore rappresentanza in Consiglio.
Furono gli anni che qualcuno ha definito “gli anni della convenzione costituzionale”, in cui era noto che quattro seggi erano di spettanza della Democrazia cristiana, tre del Partito comunista, due del Partito socialista, uno, a turno, dei partiti di minoranza dell’arco costituzionale, con una piena corrispondenza tra la rappresentanza all’interno della magistratura e la rappresentanza politica.
Le Forze politiche, del resto, erano complessivamente favorevoli all’idea che il Consiglio superiore rappresentasse al suo interno la pluralità delle posizioni e delle sensibilità culturali presenti nella magistratura e, in generale, nel Paese: l’on. Bosso, che aveva presieduto il Consiglio del 1972 e il sottosegretario alla Giustizia, prof. Dell’Andro, negli interventi fatti alla Camera durante i lavori per il varo della nuova legge, affermarono che la fisiologica pluralità, da rappresentare in Consiglio e non conculcare, avrebbe poi dovuto trovare una unità di intenti nell’azione concreta.
In tal modo la legge del 1975 segnò il passaggio da una rappresentanza per categorie, interne all’Ordine, ad una rappresentanza più ampia, di tipo politico-ideologico.
L’assetto si mantenne senza particolari problemi fino agli anni ottanta, segnati dalla promozione, ad opera del Partito socialista e dei Radicali, dei referendum sulla giustizia e da una forte contestazione del ruolo politico del Consiglio. Furono gli anni dell’aspra denuncia della cd. politicizzazione del Consiglio – il motto era “bisogna spoliticizzare il Consiglio” –. L’accresciuta rappresentanza del Consiglio aveva creato non pochi dissensi.
È poi appena il caso di ricordare che nel 1981 – l. n. 1 – si portò un ulteriore colpo alla divisione per categorie, prevedendo che fosse possibile presentare liste non comprendenti tutte le categorie. Si stabilì poi che i componenti da eleggere dovessero essere scelti quattro fra i magistrati di cassazione, di cui due idonei alle funzioni direttive superiori; due fra i magistrati di appello, quattro fra i magistrati di tribunale con almeno tre anni di anzianità dalla nomina e dieci indipendentemente dalla categoria di appartenenza.
Con legge successiva – l. n. 655 del 1985 – fu nuovamente modificata la proporzione dei componenti appartenenti alle diverse categorie e si stabilì che due dovessero essere magistrati di cassazione, con effettivo esercizio delle funzioni di legittimità, otto magistrati con funzioni di merito e dieci scelti indipendentemente dalla categoria, e ciò per adeguare il sistema alla pronuncia di illegittimità costituzionale – sentenza n. 87 del 1982 – secondo cui l’art. 104 cost. non consentiva che non si tenesse conto delle diverse categorie, in particolare di quella dei magistrati di cassazione, espressamente menzionata nella Carta.
Oggi la professoressa Biondi ha affermato che il Consiglio non è organo di rappresentanza della magistratura, e ciò non è contestabile; va però ricordato che la Corte Costituzionale con una sentenza pronunciata nel 1973 – sent. n. 142: si trattava della questione dell’autorizzazione a procedere per un episodio di vilipendio dell’Ordine giudiziario – affermò la legittimità della previsione che l’autorizzazione spettasse al Ministro, perché il Consiglio Superiore non era (non è) organo di rappresentanza. Riconobbe però, e questo non va trascurato, una rappresentanza parziale, dunque non la rappresentanza dell’Ordine, anche perché il Consiglio è a composizione mista ed è presieduto dal Presidente della Repubblica; ma la rappresentanza della componente togata, che pertanto deve essere rappresentativa dell’elettorato.
La rappresentatività sta a significare che deve ricorrere un nesso di corrispondenza tra l’elettorato e gli eletti, che si misura anche sul piano della responsabilità, tema oggi evocato da Eugenio Albamonte.
Un sistema è rappresentativo se assicura, oltre che la corrispondenza con il corpo elettorale, la possibilità di controllo di quanti dovranno esercitare il potere, proprio sul modo con cui lo eserciteranno.
È questa la ragione per la quale, data la natura necessariamente elettorale della scelta di buona parte dei componenti del Consiglio, la mediazione delle correnti è stata essenziale.
L’associazionismo era riuscito a far smantellare la gerarchia interna, il sistema dei concorsi, ottenendo le promozioni a ruolo aperto e una disciplina ordinamentale improntata al principio della parità di tutti i magistrati, distinti soltanto per funzioni.
Il Consiglio, attraverso questa profonda revisione dell’ordinamento giudiziario, acquistò progressivamente centralità, e il forte ruolo assunto nel governo della magistratura e di ampi settori del servizio giudiziario non poteva essere correttamente dispiegato senza una relazione di responsabilità, che fu per lungo tempo rinvenuta entro lo schema della rappresentanza.
Al tempo – negli anni settanta – uno studioso di diritto costituzionale ebbe a notare che la rappresentanza della componente togata consentiva un meccanismo di responsabilizzazione attraverso le assemblee che le organizzazioni delle correnti riuscivano a mettere su per discutere e valutare l’operato delle loro rappresentanze in Consiglio. Un fenomeno simile non è mai accaduto per la rappresentanza laica, che mantiene i rapporti con il mondo politico – e ne ha dato oggi conferma il prof. Spangher – ma senza che ciòc avvenga con quella trasparenza, quella chiarezza e, se si vuole, con quella istituzionalizzazione che il sistema elettorale proporzionale con scrutinio di lista ha assicurato.
Quali sono state le ragioni del cambiamento di sistema?
Con la legge del 1990 – n. 74 – si provò a riformare fortemente il sistema. La legge intervenne ad elezioni già indette, addirittura Magistratura democratica aveva già presentato la propria lista. Il fine era di scardinare il sistema correntizio, tornando anzitutto ai collegi territoriali e disegnandoli di modeste dimensioni. Il disegno di legge proponeva ben nove collegi, seppure senza la riproposizione del riparto dell’elettorato nelle categorie di qualifica o funzionali.
La legge del 1990 si proponeva il fine di avvicinare gli elettori agli eletti e di scompaginare così la forza delle correnti, di comprimerne il ruolo di soggetti della mediazione per la rappresentanza elettorale soprattutto; ed anche quello di impedire a movimenti del mondo associativo appena formatisi – il riferimento è al Movimento per la giustizia e a Proposta ’88 – di conquistare spazi nella competizione elettorale.
Si elevò così lo sbarramento dei voti di lista dal 6 al 9%. Fu una scelta difficilmente spiegabile guardando soltanto al ruolo e alle funzioni del Consiglio, che è stato pensato come organo di garanzia e non di governo. La soglia del 6% si giustificava col fatto che, per quanto organo di garanzia, il Consiglio avrebbe dovuto giovarsi di più rapide e semplificate procedure decisionali; la soglia del 9% era con ogni probabilità troppo elevata e in stridente contrasto con la natura e le funzioni del Consiglio.
Il collegio elettorale nazionale fu abbandonato. Si previdero quattro collegi territoriali che, a regime, si dovevano formare per sorteggio dei distretti da assemblare: due con una percentuale di elettori tra il venti e il ventiquattro, che assegnavano quattro seggi ciascuno; e altri due con una percentuale di elettori del ventisei, che assegnavano ciascuno cinque seggi.
La prima tornata elettorale successiva all’entrata in vigore della legge non ebbe il risultato sperato da chi quella legge aveva voluto. I rappresentanti della corrente che avrebbe dovuto essere ostacolata e più in difficoltà col nuovo sistema riuscirono ad aggiudicarsi molti più seggi di quanti in proporzione furono assegnati alla corrente di Magistratura indipendente.
L’eterogenesi dei fini non fu per il vero conseguenza delle previsioni del sistema elettorale, quanto di un’interpretazione sul recupero dei resti che trovò la forza di affermarsi. Il recupero era stato previsto che avvenisse in sede distrettuale e non nazionale, regola che ancor più comprimeva il criterio proporzionale di ripartizione dei seggi; si decise, però, di far partecipare al riparto dei resti anche senza l’ottenimento di un quoziente intero nel distretto.
Ove fosse prevalsa la tesi opposta, ossia della necessità di un quoziente intero come legittimazione alle operazioni di riparto, probabilmente le conseguenze sarebbero state diverse, come allora fu affermato dall’on. O. Fumagalli Carulli.
Quale è il bilancio che può trarsi?
Dall’esame dell’evoluzione dei sistemi elettorali emerge come si siano confrontate e scontrate due opposte visioni del Consiglio.
Per una, il Consiglio è e dovrebbe essere, per usare una formula suggestiva per quanto imprecisa, soltanto organo di alta amministrazione, chiamato a provvedere nell’ambito ristretto delle competenze assegnate dalla Costituzione. Su questa premessa si è sempre negata l’esigenza di assicurare una capacità di rappresentanza del corpo elettorale.
Per l’altra, invece, il Consiglio è organo di rilevanza costituzionale che, seppure l’espressione possa apparire eccessiva, attua con la sua azione un indirizzo politico nel settore dell’amministrazione della giustizia, nella misura in cui opera scelte che ricadono, come ha scritto il prof. Silvestri, sulla qualità del servizio giustizia, in modo che indipendenza e autonomia non siano vissute come prerogative della corporazione ma come le pre-condizioni della democraticità dell’azione della magistratura. Di qui l’impossibilità di relegarlo nel recinto dei compiti puntualmente espressi dall’art. 105 Cost.
In questa contrapposizione si spiegano poi i tentativi, fatti negli anni con proposte di legge costituzionale – il riferimento è a un disegno di legge approvato tempo addietro dal Governo Berlusconi –, di vietare al Consiglio lo svolgimento di compiti non menzionati in Costituzionale, in particolare, l’adozione di risoluzioni a conclusione delle cd. pratiche a tutela.
Progetto questo che propugnava, in buona sostanza, una rappresentanza con forte compressione della rappresentatività e quindi della responsabilità di tipo politico degli eletti.
Dopo il 1990 proseguirono, con forza sempre maggiore, i propositi di spazzare via le correnti dalla vita del Consiglio. Con la legge del 2002, tuttora vigente, è stato riproposto il collegio nazionale, ma con candidature singole, con la previsione di un numero modesto di presentatori della candidatura all’interno di un sistema maggioritario estremo, per il quale vince colui che ottiene più voti.
Si è voluto sopprimere il modello di rappresentanza mediata attraverso le correnti.
Già durante i lavori parlamentari della legge del 2002 si denunciò che si sarebbe sostituito un sistema trasparente di rapporto tra il gruppo e l’eletto con un sistema occulto; che si sarebbe sostituito all’influenza delle correnti quella dei gruppi di potere, delle cordate.
Ciò che poi si è puntualmente avverato.
La profonda crisi della politica nella sua più ampia accezione è stato fertile terreno per le ultime riforme.
L’attuale sistema elettorale ha sfiancato le correnti per come sono state conosciute nel primo periodo, nel pieno dell’ascesa democratica, segnato dall’attuazione dei principi costituzionali; quando agirono come motore politico-culturale dell’innovazione e dell’inveramento dei principi costituzionali. Ma non è riuscito a contenere la forza elettorale dei gruppi di potere ed anzi li ha agevolati, proprio contribuendo a scemare – in un quadro più generale, non è solo la legge elettorale – l’identità delle correnti come gruppo politico, culturale, di elaborazione di programmi che concorrono poi, attraverso il Consiglio, a definire quell’indirizzo politico della giustizia, a cui ho fatto cenno, e a far prevalere l’aspetto che oggi è da tutti criticato, quello della gestione del potere.
Lungo questo percorso, ancora non concluso, il sorteggio può avere maggior fortuna già nel dibattito interno alla magistratura. I magistrati, infatti, hanno sperimentato, dal 2002 ad oggi, il depauperamento politico-culturale delle correnti e hanno assistito all’affermazione delle correnti come gruppi di gestione del potere, che esercitano avendo comunque saputo mettere a punto i meccanismi di governo del consenso elettorale pure in un sistema maggioritario a candidature singole.
Nei tempi che viviamo è vincente l’idea che la migliore qualità per governare sia quella di non voler governare, e che si possa rinunciare al principio di competenza, se il principio di competenza comporta l’accettazione di clientele, di cordate, della prevalenza – come dire – degli interessi personali, come ha prima stigmatizzato il prof. Spangher.
Non va dimenticato che viviamo nel periodo in cui nel sentire politico diffuso è popolare il motto della non appartenenza in nome di aggregazioni puntuali, a rete, fluide, in cui i partiti e i gruppi strutturati vengono vissuti come uno strumento di oppressione della libertà.
E cosa è più odioso, per un magistrato, che sentirsi oppresso da una struttura, da un aggregato stabile?
Credo allora che il pericolo di proposte incentrate sul sorteggio non sia solo un dato esterno, come fu al tempo della proposta dell’on. Almirante, perché ormai è un epilogo possibile all’orizzonte a cui progressivamente anche i magistrati si stiano abituando.
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17