ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Osservazioni sul disegno di legge delega di riforma del processo civile
di Giuliano Scarselli
Testo dell’audizione alla Camera dei Deputati sulla riforma del processo civile
1. Immagino che questa audizione sia finalizzata ad acquisire osservazioni tecniche specifiche, relative a singoli punti contenuti nel disegno di legge delega di riforma del processo civile.
A questo mi atterrò; mi siano tuttavia consentite alcune brevissime osservazioni preliminari.
a) La prima è che questa riforma non è pertinente, a mio parere, con l’obiettivo che intende perseguire, ovvero con l’esigenza di ridurre i tempi del processo.
Modificare il rito non serve per ridurre i tempi del processo, e le numerosissime riforme che si sono avute negli ultimi trenta anni lo dimostrano in modo inconfutabile.
Se vogliamo ridurre i tempi del processo, solo un intervento va posto in essere, ed è quello di aumentare il numero dei magistrati.
E’ una cosa così semplice che anche un bambino è in grado di capirla.
D’altronde, se a fronte di 2 milioni di nuove cause in Tribunale all’anno, abbiamo circa 10.000 magistrati, di cui parte sono addetti all’Ufficio della Procura della Repubblica, parte sono giudici che si occupano del penale, parte sono fuori ruolo o non attivi per ragioni varie, cosicché, si ritiene, che circa solo 3.000 magistrati, e non di più, si occupino, per tutti i gradi di giudizio, del contenzioso civile, non si vede proprio come i processi possano durare un tempo ragionevole, se 3.000 magistrati debbano far fronte ad un contenzioso di 2 milioni di cause ogni anno.
Ma su questo niente si trova nel disegno di riforma in commento.
b) Assai pericolose sono poi le novità in tema di Ufficio del processo.
La giustizia è amministrata in nome del popolo, e quindi non può essere delegata ad un team di giovani, per quanto coordinati da un magistrato, appena usciti dalle università, assunti a tempo determinato e con compensi minimi; la giustizia deve essere resa personalmente dai magistrati, secondo scienza e coscienza, così come è sempre stato.
E tanto è più pericoloso l’ufficio del processo, quanto più si penserà ad esso in termini di riduzione dei tempi processuali, perché ogni tempo guadagnato con esso equivarrà ad una semplificazione della funzione giurisdizionale.
I Tribunali non sono aziende, e l’idea che il primo obiettivo da perseguire sia solo, o soprattutto, quello della brevità dei tempi, attraverso una standardizzazione aziendalistica delle decisioni, costituisce, a mio parere, un vulnus.
c) La riforma della famiglia contiene anch’essa, a mio sommesso parere, aspetti preoccupanti.
Lunghissima oltre ogni misura, essa non rappresenta solo una riforma della procedura, bensì costituisce significativo intervento nei rapporti tra giudice e famiglia, immaginando una invadenza nella sfera dei privati che a mio parere, prima di essere approvata, necessitava di riflessioni che non vi sono state.
Peraltro, l’obiettivo doveva essere quello di estendere le regole del “giusto processo” ai giudizi dinanzi ai Tribunale per i minorenni; al contrario qui si sono estese le regole officiose del Tribunale per i minori a tutte le controversie di famiglia.
Non possono modificarsi i rapporti tra Stato e famiglia senza che ciò sia preceduto da idonea discussione; non possono darsi cambiamenti così forti e incisivi con decisioni unilaterali e frettolose.
d) Non condivisibile è altresì l’insieme della disciplina della mediazione e/o conciliazione.
Essa è onnipresente, non v’è momento del processo, fase, grado, nel quale non si faccia riferimento ad essa.
E’ una mediazione che si trova dappertutto, in ogni procedura, dinanzi ad ogni giudice.
Non è pensabile che le parti che vogliono giustizia, e chiedono che il giudice prenda una decisione, debbano in continuazione, e in innumerevoli e infiniti momenti, trovarsi dinanzi all’onere di dover mediare e/o conciliare, pena sempre minacce economiche più o meno dirette, o pena sopportazione di giudizi di rimprovero morale, come se l’esercizio del diritto di azione costituisse un capriccio.
La riforma non disciplina la mediazione solo al punto 4, dedicato ad essa, ma anche al punto 5. lettera l) per la conciliazione in prima udienza, e alla lettera m) per la facoltà del giudice di proporre una conciliazione fino al momento in cui trattiene la causa in decisione, al punto 8 lettera l) per la conciliazione dinanzi al giudice dell’appello, al punto 18 lettera b) 1, circa i compiti degli addetti all’ufficio del processo, tra i quali vi è anche quello della “selezione dei presupposti di mediabilità della lite”, al punto 22, lettera b) sulle modifiche da apportare alla legge 24 marzo 2001 n. 89, al punto 23 lettera f) sui procedimenti in materia di persone e famiglia, che fa riferimento alla possibilità di avvalersi della mediazione familiare, lettera l) sui tentativi di conciliazione, lettere o) e p), ove il mediatore familiare è istituzionalizzato con un elenco presso ogni tribunale, ecc……
Alla fine, sembra quasi che il cuore del processo civile sia la mediazione, non il giudizio; ma ritenere che la tutela dei diritti avvenga in primo luogo mediando, e solo dopo con l’esercizio della funzione giurisdizionale è una svolta epocale, un mutamento forte dell’organizzazione sociale, che credo sia discutibile, e che personalmente non condivido.
2. Ciò premesso, vengo ai singoli punti:
- Al punto 5. lettera i1) si prevede che “nel corso dell’udienza di comparizione le parti devono comparire personalmente ai fini del tentativo di conciliazione previsto dall’art. 185 c.p.c.”
Poiché conciliare la lite è atto volontario, e poiché non mancano nel processo momento con i quali indurre le parti a conciliare, v’è da ritenere preferibile l’attuale disciplina dell’art. 185 c.p.c., in base alla quale la comparizione personale delle parti ai fini della conciliazione si ha solo in ipotesi di congiunta richiesta delle stesse.
Altrimenti questa novità rischia di ingolfare le prime udienze, come già avvenne con la riforma del 26 novembre 1990 n. 353, facendo partecipare all’udienza una miriade di parti senza esiti utili, e con evidente e consequenziale aggravio e dispendio di tempi processuali.
- Al punto 5. lettera l 2.2.) si prevede che il giudice, trattenuta la causa in decisione “assegni termini perentori non superiori a trenta e quindici giorni prima di tale udienza per il deposito rispettivamente delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, salvo che le parti non vi rinuncino espressamente”.
Questa svalorizzazione delle comparse conclusionali non può, a mio parere, trovare consensi.
La riduzione a metà dei termini per il deposito delle memorie non trova giustificazione alla luce del fatto che corre normalmente lungo tempo dall’udienza di chiusura dell’istruzione e quella di chiusura del giudizio; e può essere, invece, tale riduzione, lesiva del diritto all’azione e alla difesa.
Ne’ si vede perché la legge dovrebbe ricordare alle parti che possono rinunciare all’esercizio di questo importante diritto difensivo.
La disciplina attuale è preferibile.
- Al punto 17, lettera d), è previsto che gli atti giudiziari degli avvocati e dei giudici, debbano assicurare “la strutturazione in campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia”.
Si tratta di precisare che la strutturazione in campi può aver ad oggetto le sole informazioni formali del giudizio (nomi delle parti, indicazione dell’ufficio giudiziario, materia oggetto del contendere, ecc….) non i dati attinenti all’esercizio dell’azione o della funzione giurisdizionale.
Va escluso che le parti possano un domani trovarsi ad esercitare il diritto di difesa con l’obbligo di utilizzare moduli predisposti dal Ministero della Giustizia; gli strumenti telematici e/o informatici possono essere utilizzati per facilitare gli adempimenti pratici delle attività giudiziarie, ma, oltre ciò, essi non possono essere pensati ne’ per condizionare o limitare l’esercizio del diritto di azione da parte degli avvocati, ne’ per limitare e/o circoscrivere lo ius dicere del giudice.
- Al punto 18, lettera b) 1 è previsto che gli addetti alla struttura dell’ufficio del processo, fra i vari compiti, abbiano anche quello della “predisposizione di bozze di provvedimenti”.
Si tratta, a mio parere, di un compito da cancellare.
Ed infatti, se si instaurerà la prassi che i provvedimenti vengono redatti in bozza dagli addetti all’ufficio del processo, il rischio sarà quello che i giudici non scriveranno più i provvedimenti, ma solo correggeranno quelli scritti dai loro assistenti.
Si tratterebbe di una novità dirompente, poiché una cosa è studiare un fascicolo direttamente e redigere personalmente il consequenziale provvedimento, altra cosa farsi illustrare da un addetto i fatti di causa, lasciare a questi la redazione del provvedimento, e poi, se del caso, apporre delle correzioni.
Peraltro, così come gli addetti dell’ufficio del processo in cassazione non hanno questo compito (confronta infatti il punto lettera c) 2.2.), allo stesso modo ciò deve valere anche per la giustizia di merito, poiché anch’essa, resa sui diritti dei cittadini, merita eguale attenzione e dignità.
- Al punto 21, in tema di sanzioni processuali per abuso del processo, si legge: “prevedere il riconoscimento all’amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata e conseguentemente, specifiche sanzioni a favore della cassa delle ammende”.
Altre sanzioni economiche sono poi sparsamente previste in questa riforma: al punto 23, nel processo in materia di famiglia, sono previste “sanzioni per il mancato deposito della documentazione”, e poi ancora “sanzioni per la mancata comparizione senza giustificato motivo”, ecc….
Osservo che in tutta la storia del processo civile fino ad oggi la responsabilità aggravata non è mai stata considerata illecito commesso contro l’amministrazione della giustizia, bensì, al più, contro l’avversario della lite; ed inoltre, se la responsabilità aggravata dovesse davvero assumere i connotati di un illecito amministrativo, allora questa dovrebbe necessariamente altresì essere disciplinata dalla legge nella sua tipicità, non rimessa alla discrezione del giudice con il generico concetto di “responsabilità aggravata”.
Non può ammettersi un illecito amministrativo rimesso a libera discrezione del giudice, privo di individuazione legale della fattispecie.
A maggior ragione ciò è inammissibile con riferimento al mondo giudiziario, che è un mondo di cose e idee del tutto relative, un mondo fatto di infinite sfumature di grigio, che taluni vedono più chiare, altri più scure.
Diceva Salvatore Satta che “se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece propria quella di essere un’opinione”.
Tutti possono errare nel muoversi nel mondo giudiziario, gli avvocati possono errare, ma anche i giudici possono farlo.
Mancini, ancor prima dell’unità d’Italia, scriveva che “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale” e che, se si introducono ostacoli, costi o sanzioni all’esercizio dell’azione in giudizio, allora “una comune prudenza determinerà sovente il cittadino a sopportare in pace torti anche gravi piuttosto che ricorrere a mezzi cotanto onerosi di riparazione. Allora le liti diverranno il lusso dei ricchi, la giustizia un loro privilegio e non un bene ed un diritto egualmente garentito a tutti” (in Mancini – Pisanelli – Scialoja, Commentario del codice di procedura civile per gli stati sardi, Torino, 1855, II, 9).
E dunque, terrorizzare i cittadini per le conseguenze economiche che l’aver adito il giudice possa avere, non è solo da considerare incostituzionale ai sensi dell’art. 24 Cost., ma incostituzionale anche ai sensi dell’art. 3 Cost., poiché impedisce soprattutto alle classi sociali più deboli di rivolgersi al giudice.
- Al punto 23, dedicato alla riforma dei processi in materia di famiglia:
- alla lettera b) prevede che “in presenza di allegazione di violenza domestica o di genere”, ecc……. discendano misure di salvaguardia delle vittime.
La norma è giustissima nella misura in cui tende a reprimere ogni forma di violenza, ma i provvedimenti restrittivi non possono discendere da una semplice allegazione e devono al contrario trovare riscontro in una prova, quanto meno sommaria e/o prima facie, della sussistenza della violenza allegata.
- alla lettera c) si prevede che, nei tribunali per i minorenni, il giudice relatore, ovvero un giudice monocratico, possa tenere udienza anche delegandola a giudici onorari, a seguito delle quali possono essere poi adottati provvedimenti decisori, anche provvisori.
La delicatezza dei provvedimenti, sconsiglia che questi possano essere decisi da un giudice monocratico.
- alla lettera f) si prevede che il ricorso introduttivo debba necessariamente indicare “un piano genitoriale che illustri gli impegni e le attività quotidiane dei minori, relativamente alla scuola, al percorso educativo, alle eventuali attività extrascolastiche, sportive, culturali e ricreative, alle frequentazioni parentali e amicali, ai luoghi abitualmente frequentati, alle vacanze normalmente godute”.
V’è al contrario da ritenere che il sindacato sulla vita di una famiglia non possa spingersi fino a questi dettagli, e/o che lo Stato, tramite il giudice, non abbia il diritto di conoscere e decidere financo sulle vacanze, sullo sport, sui luoghi o le persone che si frequentano, ecc…
- al punto ff) si prevede che per questi processi si adottino “puntuali disposizioni per regolamentare l’intervento dei servizi socio-assistenziali o sanitari, in funzione di monitoraggio, controllo e accertamento”.
Ritengo sia disposizione generica e pericolosa, e che, tutto al contrario, si debbano invece indicare in modo specifico i casi, da considerare eccezionali, nei quali sia opportuno l’intervento socio-assistenziale, quelli nei quali sia necessario attivare il servizio sanitario e per quali finalità, infine precisando che tutti detti servizi non possono adempiere a funzioni di monitoraggio, e che comunque ogni dato deve esser se del caso trattato nel rispetto della riservatezza.
Premesse alla lettura della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. Terza, 20 ottobre 2021 n. 7045 sull’obbligo vaccinale.
di Stefania Caggegi
Indice: 1.- Premessa; 2.- Le coordinate di riferimento costituzionali: diritto alla salute e dovere di solidarietà; 3.- Le prime pronunce del giudice amministrativo sull’obbligo vaccinale anti covid-19; 3.1. (segue) in particolare: la sentenza Consiglio di Stato Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
1. Premessa.
L’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento dell’obbligo di possesso ed esibizione della certificazione verde Covid-19 per accedere ai luoghi pubblici e da ultimo a quelli di lavoro [1] e la prospettata (seppur non attuata) introduzione dell’obbligo vaccinale generalizzato[2], hanno fatto tornare in voga nel nostro paese un dibattito giuridico che sembrava essersi esaurito negli anni ’90, quando la Corte Costituzionale si era occupata di affermare la legittimità dell’obbligo di vaccinazione contro il polio.
Ovviamente le due misure citate (certificazione verde e vaccinazione), seppur finalizzate al medesimo scopo di contrasto e/o contenimento della pandemia da Covid 19, hanno natura diversa.
Il meccanismo del c.d. green pass, prevede l’obbligo di possesso ed esibizione dell’attestazione per accedere ai luoghi pubblici e di lavoro, e si acquisisce alternativamente o tramite la vaccinazione, o tramite la sottoposizione ad un tampone rapido o per periodo limitato a seguito di guarigione da infezione, tutelando così la scelta dell’individuo di non sottoporsi a vaccinazione.
L’introduzione di un obbligo vaccinale generalizzato, per converso, eliminerebbe sotto questo profilo ogni possibilità di scelta.
Entrambe le misure sono state fortemente criticate muovendo dall’assunto che comporterebbero la violazione di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà personale e il diritto di autodeterminazione dell’individuo; ai quali si oppongono però altri diritti e valori, sempre costituzionalmente garantiti e di non minor rilevanza, quali il diritto alla salute di cui all’art. 34 Cost., considerato nella sua duplice sfera, individuale e collettiva, nonché il generale dovere di solidarietà nei confronti della collettività di cui all’art.2 Cost. [3].
2. Le coordinate di riferimento costituzionali: diritto alla salute e dovere di solidarietà.
L’art. 32 della Costituzione recita, com’è noto, che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Il legislatore costituzionale ha, dunque, da un lato riconosciuto alla salute la qualifica di diritto fondamentale dell’individuo, dall’altro lo ha indissolubilmente legato anche all’interesse della collettività [4].
La sfera individuale del diritto alla salute si sostanzia nel diritto a che nessuno leda la salute psico-fisica del soggetto ed è strettamente ricollegato anche al diritto di autodeterminazione del singolo, mentre la sfera collettiva ricollega il diritto alla salute ad un dovere di solidarietà nei confronti della collettività, che impone di preservare tale diritto anche in una prospettiva che attenga all’insieme dei consociati.
La valutazione del diritto alla salute, considerato nella sua sfera collettiva, non può che essere ancorata, dunque, al generale principio di cui all’art. 2 della nostra Costituzionale, il quale da un lato riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali, dall’altro richiede ai consociati “l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” [5].
La richiesta di adempimento di tale generale dovere di solidarietà in tutti gli ambiti della vita del singolo, vale come principio cardine, su cui è improntata l’intera carta costituzionale, al punto che la solidarietà deve essere considerata “la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione” [6].
Ed è proprio considerare questo dovere di solidarietà come un qualcosa di inderogabile, al pari del riconoscimento dei vari diritti costituzionalmente tutelati, che consente all’osservatore di scorgere la concreta rilevanza, quasi palpabile, del diritto alla salute collettiva.
In presenza di un eventuale imposizione di un obbligo vaccinale generalizzato, o più in generale di trattamenti sanitari che mirano ad evitare il propagarsi di contagi, l’obbligo imposto è inevitabilmente finalizzato al più alto interesse di tutela dell’intera comunità, cui in adempimento del dovere di solidarietà collettiva ogni consociato deve tendere e che in ragione di ciò giustifica la soccombenza del diritto di scelta del singolo individuo.
Tale ragionamento applicato alla materia oggetto di trattazione porta a concludere che sia proprio su questo dovere di solidarietà che si fonda l’intero impianto giuridico che giustificherebbe l’imposizione dell’obbligo vaccinale anti covid 19, a maggior ragione in una situazione di emergenza pandemica, come quella a cui ancora oggi assistiamo, che mette (e che ha messo) seriamente a rischio la collettività tutta [7].
Qualunque materia tocchi più valori costituzionalmente sanciti e tutelati determina la necessità che gli stessi siano bilanciati e l’inevitabile soccombenza di alcuni in favore di altri.
In materia di obbligo vaccinale [8], come detto, viene in rilievo l’art. 32 Cost. che postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti od accettati) con il coesistente e reciproco diritto alla salute della collettività.
A tal proposito, come anticipato in premessa, tocca scomodare risalente - ma evidentemente non risolutiva - giurisprudenza costituzionale. Difatti, già nel 1990 la Corte Costituzionale [9], nell’occuparsi dell’equa indennità dovuta dallo Stato per il caso di danno derivante, al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 2043 c.c., da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica, aveva avuto modo di esprimersi in merito al contemperamento dei valori interessati dall’imposizione di un obbligo vaccinale, affermando che “l'imposizione ex lege di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, e purché esso non incida negativamente - salvo che in misura temporanea e tollerabile - sullo stato di salute del soggetto”, ciò in quanto è proprio lo scopo di preservare lo stato di salute degli altri che, in quanto attinente alla salute come interesse della collettività, giustifica la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.
Da lì in poi, la giurisprudenza costituzionale è stata sempre ferma nel riconoscere come l’art. 32 esiga l’inevitabile contemperamento degli interessi suddetti e nell’affermare la legittima imposizione dell’obbligo vaccinale, seppur a determinate condizioni, ovvero: se il prescritto trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria. [10]
Da ultimo, la Corte Costituzionale [11], nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui non prevedeva l’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa anche di vaccinazioni raccomandate e non obbligatorie, ha ribadito il principio per il quale lo scopo principale deve sempre essere quello di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse (anche) collettivo e che dunque anche le terapie obbligatorie sono costituzionalmente legittime, ancorché siano quelle raccomandate ad esprimere maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale.
Come evidenziato l’imposizione di un determinato trattamento sanitario, in questo caso del vaccino anti covid 19, impatta in maniera diretta la vita del singolo cittadino, ragion per cui il legislatore costituzionale, a chiusura dell’art. 32, specifica che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Con questa disposizione viene disposta una chiara riserva di legge in materia sanitaria.
In generale, si ritiene che le materie coperte da riserva di legge possano essere disciplinate non solo dalla legge formale, ma anche da quegli atti normativi dell’esecutivo aventi forza o valore di legge e che quindi un decreto legge possa regolare legittimamente materie coperte da riserva di legge in quanto i contenuti del decreto vengono incorporati, in caso di conversione, in una legge formale del parlamento.[12]
Per la materia sanitaria il discorso è certamente più complesso, in quanto da un lato l’esercizio del potere legislativo deve essere preceduto e sorretto dalle risultanze della scienza [13], dall’altro appare più comprensibile il dubbio che l’imposizione di trattamenti sanitari obbligatori disposta con atti aventi forza di legge non soddisfi a pieno la riserva di legge di cui all’articolo 32 [14].
Rimane il fatto che nell’ipotesi di una imposizione di un obbligo vaccinale anti covid 19, la legittimità della formula legislativa utilizzata, avrebbe fondamento nella natura emergenziale della stessa, in quanto emanata per fronteggiare una pandemia senza precedenti [15].
3. Le prime pronunce del giudice amministrativo sull’obbligo vaccinale anti covid-19. Dall’inizio della pandemia la giurisprudenza amministrativa è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dei provvedimenti afferenti le misure di prevenzione e/o contrasto alla pandemia emanate dal governo nei vari settori, ad esempio la scuola o il sistema sanitario [16].
È interessante notare come in molte occasioni i Tribunali, nel decidere le varie controversie, abbiano colto l’occasione per richiamare i principi fondanti la legittimità dell’imposizione di un obbligo vaccinale – nei termini di cui ai precedenti paragrafi - in una prospettiva mirata a legittimare i c.d. “provvedimenti – covid 19”.
Ad esempio il Tar Lazio [17], chiamato a pronunciarsi sulla competenza statale della scelta tra terapie ammesse e non ammesse, o meglio tra trattamenti obbligatori e non obbligatori (oppure raccomandati, come nel caso dei vaccini), ha colto l’occasione per indicare esattamente l’approccio che deve accompagnare l’analisi di siffatta materia, specificando che questa impatta i principi fondamentali della materia «tutela della salute» e che la scelta in tale ambito costituisce il punto di equilibrio, in termini di bilanciamento tra valori parimenti tutelati dalla Costituzione (nonché sulla base dei dati e delle conoscenze scientifiche disponibili), tra autodeterminazione del singolo da un lato (rispetto della propria integrità psico-fisica) e “tutela della salute (individuale e collettiva)” dall’altro lato.
Sempre il Tar Lazio [18], interpellato questa volta sulla legittimità o meno delle misure introdotte dal legislatore nell’ambito scolastico, compie un ragionamento a contrario, negando il prospettato diritto del personale scolastico “a non essere vaccinato”, affermando con rigore e già nella fase cautelare del giudizio (sintomatico di quanto consideri rilevanti tali argomentazioni), che tale “diritto” - in disparte la questione della dubbia configurazione come diritto alla salute - non ha valenza assoluta né può essere inteso come intangibile, avuto presente che deve essere razionalmente correlato e contemperato con gli altri fondamentali, essenziali e poziori interessi pubblici quali quello attinente alla salute pubblica a circoscrivere l’estendersi della pandemia e a quello di assicurare il regolare svolgimento dell’essenziale servizio pubblico della scuola in presenza.
Anche il Tar Friuli Venezia Giulia [19], chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’obbligo vaccinale imposto al personale sanitario, richiama a fondamento del provvedimento la giurisprudenza costituzionale ormai cristallizzata nel ritenere legittima l’imposizione di un trattamento preventivo vaccinale, indicando quale elemento rilevante l’obbiettivo di tutela della salute pubblica attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale. È doveroso aggiungere che tale pronuncia è interessante da segnalare, non solo perché – come del resto le precedenti – è stata ispirata dalle risultanze della giurisprudenza costituzionale in materia di legittima imposizione dell’obbligo vaccinale, ma anche in ragione del fatto che, partendo da tale assunto, il Collegio ha svolto un’approfondita disamina sul rapporto tra l’aspetto scientifico e giuridico della materia, arrivando ad affermare, per primo, che il vaccino anti covid 19 non può più essere considerato sperimentale da quando è stato immesso sul mercato.
Leit motiv delle sentenze in materia di obbligo vaccinale pare dunque essere il bilanciamento tra diritto alla salute inteso nella sua sfera individuale e diritto alla salute della collettività, intesa come intera comunità nazionale, ma si badi non solo nazionale.
Difatti, già nel giugno scorso, il Consiglio di Stato [20] si è pronunciato sulla rilevanza delle misure emanate dal Governo per fronteggiare l’emergenza pandemica, in quanto misure coordinate a livello europeo, allargando il concetto di “salute pubblica” ad una dimensione sovranazionale, affermandone per tale via la natura non eludibile, anche per ciò che attiene la loro decorrenza temporale, in ragione del fatto che tutte mirano “a preservare la salute pubblica in ambito [appunto] sovra-nazionale”.
3.1. – (segue) in particolare: la sentenza Consiglio di Stato Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
Tra le più recenti pronunce si segnala la sentenza della Sezione Terza Consiglio di Stato, n. 7045 dello scorso 20 ottobre [21], resa con riferimento ad altra sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia che aveva dichiarato inammissibile il ricorso collettivo e cumulativo proposto contro gli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane avevano dato applicazione all’obbligo vaccinale previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021.
Dopo essersi pronunciato sugli aspetti processuali della causa trattata e aver ripreso e sviluppato più dettagliatamente le considerazioni svolte già dal Tar in merito all’aspetto scientifico della materia trattata, anche la Terza Sezione del Consiglio di Stato conclude che i vaccini anti covid-19 non possono essere considerati sperimentali.
Anche in questo caso, centrale nel ragionamento del giudice amministrativo è il richiamo al generale dovere di solidarietà e alla tutela del diritto alla salute inteso nella sua accezione collettiva: “il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco,”- si legge nella sentenza – “ è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco. Ciò non perché, come afferma chi enfatizza e assolutizza l’affermazione di un giusto valore concepito però come astratto bene, la persona receda a mezzo rispetto ad un fine o, peggio, ad oggetto di sperimentazione, in contrasto con il fondamentale principio personalista, a fondamento della nostra Costituzione, che vede nella persona sempre un fine e un valore in sé, quale soggetto e giammai oggetto di cura, ma perché si tutelano in questo modo tutti e ciascuno, anzitutto e soprattutto le più vulnerabili ed esposte al rischio di malattia grave e di morte, da un concreto male, nella sua spaventosa e collettiva dinamica di contagio diffuso e letale, in nome dell’altrettanto fondamentale principio di solidarietà, che pure sta a fondamento della nostra Costituzione (art. 2), la quale riconosce libertà, ma nel contempo richiede responsabilità all’individuo”.
L'orientamento sino ad ora emerso in seno alla giurisprudenza amministrativa non sembra dunque mettere in dubbio che la Costituzione possa legittimare l’introduzione nel nostro ordinamento la previsione dell'obbligo vaccinale, rimanendo con ciò escluso che la stessa scelta di introdurre l’obbligo di possesso ed esibizione del green pass covid 19 in luogo di un obbligo vaccinale generalizzato possa esser stata dettata dalla paventata illegittimità costituzionale di un tale obbligo, e non piuttosto da una scelta prettamente politica.
***
[1] Il decreto legge 21 settembre 2021, n. 127 (“Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l'estensione dell'ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening”- GU n.226 del 21-9-2021) ha integrato il decreto legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87, inserendo dopo l'articolo 9-quater gli articoli: 9-quinques; 9-sexies; 9- septes, ai sensi dei quali è stato disposto l’obbligo di possesso ed esibizione della certificazione verde COVID-19 rispettivamente per tutti i lavoratori del settore pubblico, per tutti i magistrati nello svolgimento della loro attività all’interno degli uffici giudiziari e per i lavoratori del settore privato.
[2] Invero ad oggi disposto solo per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario dall’art. 4 del D.L. 1 aprile 2021, n. 44 (“Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”- GU Serie Generale n.79 del 01-04-2021) convertito con modificazioni dalla L. 28 maggio 2021, n. 76 (in G.U. 31/05/2021, n. 128).
[3] Sull’impronta solidaristica dei doveri costituzionali si veda tra tutti: A. RUGGERI, Eguaglianza, solidarietà e tecniche decisorie nelle più salienti esperienze della giustizia costituzionale, in Rivista AIC, 2017 pp. 1 ss. Sullo specifico tema del vaccino anti covid 19: A. RUGGERI, La vaccinazione contro il Covid-19 tra autodeterminazione e solidarietà, in dirittifondamentali 22 maggio 2021.
[4] Si veda in proposito: M. LUCIANI, A proposito del diritto alla salute, in Dir. soc., 1979, pp. 410 ss.; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, ivi, 1983, pp. 21 ss.; D. MORANA, La salute nella Costituzione italiana: profili sistematici, Milano, 2002; G. SCACCIA, Commento all’art. 32, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, I, Bologna 2018 pp. 214 ss.
[5] D. TEGA, Commento all’art. 2, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, I, Bologna, 2018, p. 27; E. ROSSI, Commento all’art. 2, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino 2006, p. 55.
[6] Corte Costituzionale, 28 febbraio 1992, n. 75.
[7] Per un’analisi approfondita del tema in relazione alla pandemia da Covid 19, si rinvia a Q. CAMERLENGO, L. RAMPA, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti covid 19, in Rivista AIC n. 3 del 30.06.2021, pp. 199 ss.; R.ROMBOLI, Aspetti costituzionali della vaccinazione contro il Covid-19 come diritto, come obbligo e come onere (certificazione verde Covid-19), in QuestioneGiustizia 2021. Con specifico riferimento al tema della solidarietà costituzionale, si veda, tra gli altri: B. CARAVITA, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in Federalismi.it 2020, p. 18; L. CUOCOLO, I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19: la reazione italiana, in I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19, in Osservatorio Emergenza Covid-19, Federalismi.it. In tema di vaccinazioni si veda, tra tutti: F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, Milano, 2002, pp. 246 ss; F. GIUFFRÈ, La Corte costituzionale in cammino: da un modello casistico all’interpretazione della solidarietà, in Giur. cost., 1998, p. 1978, dove già affermava: «il comportamento volontario del cittadino, che si fa carico dei rischi della vaccinazione pur non essendone legalmente obbligato, non si mostra giuridicamente indifferente di fronte ai princìpi dell’ordinamento costituzionale, in quanto conforme all’atteggiamento di corresponsabilità e di cooperazione civica che scaturisce dal principio di solidarietà>>.
[8] In merito all’obbligo vaccinale in generale si veda, tra i molti: M. PLUTINO, Le vaccinazioni. Una frontiera mobile del concetto di «diritto fondamentale» tra autodeterminazione, dovere di solidarietà ed evidenze scientifiche, in Dirittifondamentali.it, 2017, pp. 1 ss., e M. TOMASI, Vaccini e salute pubblica: per-corsi di comparazione in equilibrio fra diritti individuali e doveri di solidarietà, in Dir. pubbl. comp. eur., 2017, pp. 455 ss.
[9] Corte Costituzionale n. 307 del 14.06.1990, Pubblicata in G. U. 27.06.1990; cfr. anche sentenza n. 258 del 1994, con la quale viene ripreso ed integrato il principio espresso con la sentenza n. 307/1990 cit., a sostegno della dichiarazione di inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della l. 27 maggio 1991 n. 165 (sulla vaccinazione obbligatoria contro l'epatite virale B) e delle leggi 4 febbraio 1966 n.51, 6 giugno 1939 n. 891, 5 marzo 1963 n. 292, 20 marzo 1968 n. 419 (sulla vaccinazione obbligatoria antipolio, antidifterica, ed antitetanica) sollevate in riferimento all'art. 32 della Costituzione.
[10] Corte Cost. n. 307/1990 cit.; n. 258/1994 cit.; n. 268/2017 e n. 5/2018, come richiamate in: Q. CAMERLENGO, L. RAMPA, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti covid 19, cit.; si veda anche: C. PINELLI, Gli obblighi di vaccinazione fra pretese violazioni di competenze regionali e processi di formazione dell’opinione pubblica, in Giur. Cost., 2018, pp. 38 ss.
[11] Corte Costituzionale 23 giugno 2020 n. 118.
[12] Sulla riserva di legge in generale: cfr. R. Guastini, Legge (riserva di), in Digesto delle discipline pubblicistiche, IX, Torino 1994, pp. 163 ss.; F. Modugno, Le fonti del diritto, in Id. (a cura di), Diritto pubblico, Torino 2012, pp. 109 ss.
[13] Si veda in proposito a commento della sentenza n. 5 del 2018 A. IANNUZZI, L’obbligatorietà delle vaccinazioni a giudizio della Corte costituzionale fra rispetto della discrezionalità del legislatore statale e valutazioni medico-statistiche, in Consulta online, 2018, pp. 87 ss.; C. MAGNANI, I vaccini e la Corte costituzionale: la salute tra interesse della collettività e scienza nelle sentenze 268 del 2017 e 5 del 2018, in Forum di Quaderni costituzionali, Rassegna, 2018, pp. 1 ss. In merito alla rilevanza delle risultanze scientifiche e alla qualifica dei trattamenti come “sperimentali o non sperimentali”, si rinvia anche a Tar Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10.09.2021 n. 261, con la quale il Tribunale ha affermato in merito alla vaccinazione da covid 19 che “la “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto affermare che la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata”(sentenza appellata e confermata nel merito da: Consiglio di Stato, sez. III n. 7045 del 20.10.2021. Per un’analisi critica del tema si veda: A. MANGIA, Si caelum digito tetigeris. Osservazioni sulla legittimità costituzionale degli obblighi vaccinali, in Rivista AIC n. 3, 2021.
[14] In tal senso si veda: A. NEGRONI, Decreto legge sui vaccini, riserva di legge e trattamenti sanitari obbligatori, in ForumCostituzionale.it 26 maggio 2017.
[15] Sulla questione della legge emergenziale si veda, tra gli altri: M. BELLETTI, La “confusione” nel sistema delle fonti ai tempi della gestione dell’emergenza da Covid-19 mette a dura prova gerarchia e legalità, in Osservatorio Costituzionale, n. 3, 2020, cui si rinvia anche in riferimento alle note contenute.
[16] DECRETO-LEGGE 6 agosto 2021, n. 111 Misure urgenti per l'esercizio in sicurezza delle attività scolastiche, universitarie, sociali e in materia di trasporti. (21G00125) (GU Serie Generale n.187 del 06-08-2021).
[17] Tar Lazio – Roma, Sez. III, 02.10.2020 n.10047.
[18] TAR Lazio Decreto Presidenziale del 24.08.2021 n. 4450 e Tar Lazio, Sez. Terza Bis decreto del 02.09.2021 n. 4532.
[19] Tar Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10.09.2021 n. 261.
[20] Consiglio di Stato, Sez. III, n. 3568 del 30 giugno 2021, conferma il disposto del Tar Lazio che aveva respinto un ricorso contro l’obbligo di possesso ed esibizione del green pass come disciplinato dalla normativa al tempo della pronuncia.
[21] Consiglio di Stato, Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
[22] Così testualmente in: G.M. BRAVO, voce Anarchismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Torino 2014, p.13.
Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio*
di Francesco Dal Canto
Sommario: 1. La pietra angolare e la sua erosione - 2. La dimensione politico-rappresentativa del CSM: una questione da (ri)mettere a fuoco - 3. Per un rilancio della natura costituzionale del CSM - 4. La crisi attuale e la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007 - 5. Spunti per qualche correttivo, non solo in materia elettorale - 6. Dal 1958 ad oggi, sette discipline elettorali - 7. Verso una nuova legge elettorale - 8. In conclusione.
1. La pietra angolare e la sua erosione
Per discutere in modo equilibrato delle prospettive di riforma del Consiglio superiore della magistratura credo sia opportuno partire da due considerazioni preliminari, in parte ovvie e tuttavia imprescindibili in considerazione del dibattito più recente.
Innanzi tutto, è doveroso ricordare come a partire dal 1958 il CSM abbia svolto una funzione essenziale, ponendosi quale “pietra angolare” dell’ordinamento giudiziario [1], a presidio dell’interesse pubblico all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, da intendere non come privilegio corporativo di una particolare categoria professionale bensì quale garanzia strumentale all’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla giustizia e dunque presupposto indefettibile dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Al CSM - prima ancora che alla Corte costituzionale e al legislatore, quest’ultimo per molti anni latitante in questo settore - si deve la progressiva affermazione dei principi costituzionali in tema di magistratura e la conseguente definizione del sistema italiano di ordinamento giudiziario, da tempo apprezzato sul piano internazionale, dove spesso è stato considerato un vero e proprio modello di riferimento.
Va poi detto che, nel processo di diffusione della cultura costituzionale sulla magistratura, e all’interno della magistratura, anche l’associazionismo giudiziario - anch’esso al centro del dibattito attuale, insieme al CSM - ha fornito un contributo determinante; ruolo che, per inciso, era stato assai rilevante anche prima del 1948 e in particolare nel corso della fase di elaborazione del Titolo IV della Parte II della Costituzione [2].
In definitiva, è indiscutibile che CSM e associazionismo giudiziario, ciascuno nel proprio ambito, hanno avuto un peso fondamentale nella democratizzazione della magistratura e nell’affermazione conseguente dell’assetto democratico della Repubblica.
Ma, come dicevo, v’è una seconda osservazione che appare necessaria.
È difficile nascondere, infatti, che il CSM stia attraversando oggi la peggiore crisi dal momento della sua istituzione. La pietra angolare corre il rischio di erodersi. Le cronache degli incontri clandestini avvenuti nei mesi scorsi tra alcuni esponenti politici e alcuni magistrati, tra i quali dei componenti del CSM, finalizzati a concordare preventivamente una serie di nomine di competenza di tale organo - per lo più riguardanti incarichi direttivi requirenti ([3]) - non rappresentano soltanto degli specifici episodi di rilevanza penale ed etica; tali vicende sono idonee a insinuare dei dubbi sul grado di autonomia reciproca tra magistratura e politica e sulla stessa credibilità e legittimazione dell’organo di autogoverno. Tali avvenimenti hanno rivelato, per dirla con il Presidente della Repubblica, “un quadro sconcertante e inaccettabile” [4].
Si è aperta dunque una ferita particolarmente profonda nel rapporto di fiducia tra società civile, sistema politico e CSM. Viene rilanciato il tema antico della c.d. politicizzazione dell’organo di autogoverno, i cui lavori sarebbero condizionati, più che da criteri oggettivi e trasparenti, da spinte corporative derivanti dalla suddivisione dei suoi componenti togati in gruppi facenti riferimento alle diverse correnti interne alla magistratura [5]; con la conseguenza che sovente le decisioni non sarebbero adottate nell’interesse generale al buon andamento del sistema giustizia ma in applicazione di un criterio di sostanziale lottizzazione tra le diverse componenti associative. Alla crisi esterna se ne aggiunge poi una interna, nel senso che gli episodi sopra richiamati hanno ampliato la distanza tra il CSM e i singoli magistrati, molti dei quali hanno perso fiducia nelle modalità con cui viene esercitato il governo della magistratura.
La crisi del CSM preoccupa molto anche perché non riguarda soltanto l’istituzione in sé ma immancabilmente rischia di coinvolgere l’intero ordine giudiziario. Del resto, la storia, com’è stato sottolineato, mostra che “le tensioni che si riversano sul CSM sono, in linea generale, il puntuale riflesso sull’organo di autogoverno delle tensioni che investono la nostra società e il ruolo del giudice”; dunque, quando nel dibattito pubblico si ripropone il tema della crisi del Csm, “è il ruolo del giudice ad essere messo in tensione e in discussione” [6].
2. La dimensione politico-rappresentativa del CSM: una questione da (ri)mettere a fuoco
Per inquadrare la fase attuale del CSM è necessario affrontare un equivoco di fondo, presente nel dibattito di questi mesi. La questione, rispetto alla quale si è originato l’equivoco, ruota intorno al quesito su quale sia il corretto rapporto che deve sussistere tra il Consiglio e la politica in senso lato.
Alcune recenti proposte di riforma, infatti, sembrano muovere dall’idea che la ragione di tutti i mali del governo della magistratura abbia a che fare con la sua eccessiva vicinanza alla dimensione politica; in conseguenza di tale assunto, viene prospettata l’idea di riformare il CSM facendo di esso un organo dalla esclusiva natura burocratico-amministrativa, di mera gestione del personale magistratuale.
Si tratta di semplificazioni pericolose, che non tengono conto, tra l’altro, dell’estrema poliedricità del termine “politica”; tali ricostruzioni rischiano di favorire - anzi, in alcuni casi, è proprio questo il loro principale obiettivo - una visione estremamente riduttiva del CSM, assolutamente non conforme al modello delineato dalla Costituzione, plasmato dalla Corte costituzionale e inveratosi nella prassi degli ultimi decenni.
È pertanto quanto mai opportuno tornare a riflettere sull’effettiva natura giuridica del CSM [7]).
La Costituzione e la legge istitutiva del 1958 offrono in proposito numerosi appigli dai quali occorre ripartire: la presidenza dell’organo affidata al Capo dello Stato, la composizione mista laici-togati, la presenza di un terzo di membri eletti dal Parlamento in seduta comune a maggioranza qualificata, la vicepresidenza affidata ad un componente laico, l’attribuzione per legge all’organo di autogoverno del compito di rendere pareri e formulare proposte in materia di giustizia e di presentare annualmente, per il tramite del Ministro della Giustizia, una relazione al Parlamento sullo stato della giustizia.
Non è possibile in questa sede soffermarsi sulle singole previsioni richiamate, peraltro di peso e di tenore diverso. Certo è che dal loro combinato disposto sembra agevole ricavare l’impossibilità di affermare la natura meramente amministrativa del CSM, collocato al centro di un delicato equilibrio tra organi costituzionali e interlocutore del potere politico.
Ma vi è di più. Nell’esercizio delle stesse attribuzioni più tipicamente amministrative (assegnazioni, promozioni, assunzioni, trasferimenti, ecc.), elencate all’art. 105 Cost., il CSM è chiamato ad assumere decisioni che, per non risultare frutto di arbitrio, non possono che essere fondate su criteri predeterminati, ovvero su un insieme di indirizzi, una policy come sottolineava Alessandro Pizzorusso [8]. Le decisioni adottate dal CSM non sono frutto di scelte meramente tecniche e neutrali; assegnazioni e promozioni dei magistrati sono effettuate nel contesto di una “politica” dell’amministrazione della magistratura [9]. Del resto, si tratta di quel potere di indirizzo che prima del 1948 era il Governo ad esercitare e che, con la Costituzione, è stato in gran parte trasferito al CSM a garanzia dell’indipendenza del potere giudiziario [10].
La valenza “politica” del CSM risiede, com’è stato notato, nel complesso delle sue attribuzioni. Tutti i poteri del CSM, “considerati nel loro insieme, non sono la sommatoria di competenze frazionate, generatrici di atti isolati, privi di criteri ordinatori, ma si inseriscono in una policy di settore, i cui confini sono tracciabili a partire dal dettato costituzionale e dalle leggi attuative” [11]. Ci troviamo dunque al cospetto di un organo “di garanzia” chiamato ad esprimere, nei limiti fissati dalla Costituzione e dalla legge sull’ordinamento giudiziario, “indirizzi” in materia di amministrazione della giurisdizione [12].
In questo senso, e solo in questo senso, può dirsi che il CSM è un organo dotato di una “politicità intrinseca” [13]. Com’è ovvio, si tratta di una natura politica del tutto diversa da quella di cui sono espressione gli organi titolari di indirizzo politico. Altrettanto certamente, si tratta di una politicità che non giustifica le sue possibili degenerazioni, quali la pratica delle spartizioni tra le correnti per l’assegnazione degli incarichi direttivi o, a maggior ragione, la soggezione dei processi decisionali a pressioni provenienti da esponenti della politica partitica.
Altro tradizionale problema, all’altro strettamente collegato, è poi quello riguardante la riconducibilità del CSM alla categoria degli organi di tipo rappresentativo. E anche in questo caso, come sulla questione della sua natura politica, occorre intendersi sulle parole.
Sicuramente non può parlarsi di rappresentanza politica, non essendo il CSM un organo di democrazia rappresentativa, né può dirsi che il CSM rappresenti propriamente il corpo giudiziario; opzione, del resto, che sarebbe coerente con la sua eventuale natura corporativa, ipotesi chiaramente scartata dai Padri costituenti, quando, tra l’altro, optarono per la composizione mista laici-togati. E del resto, la stessa Corte costituzionale ha da tempo escluso che il CSM possa essere considerato uno strumento di “rappresentanza in senso tecnico dell’ordine giudiziario” [14].
Ciò che invece può affermarsi è che il CSM deve avere una necessaria composizione rappresentativa [15]. Con ciò va inteso che, tenuto conto del complesso delle funzioni di cui è titolare, esso deve tendere a presentarsi quale specchio del pluralismo ideale e culturale presente nella magistratura (con riguardo ai componenti togati) e nella società civile (con riguardo ai componenti laici). Le decisioni adottate dal plenum costituiscono necessariamente il risultato di bilanciamenti tra visioni e sensibilità diverse in materia di giustizia e la loro autorevolezza sarà tanto maggiore quanto più i componenti risulteranno individuati secondo criteri idonei a garantirne la differente estrazione e la più ampia rappresentatività.
Del resto, il collegamento tra associazionismo giudiziario e designazione dei componenti togati trova la sua esclusiva ragione - ovviamente in linea di principio, vale a dire a prescindere dalla sua resa effettiva, su cui mi soffermerò più avanti - proprio nella garanzia del pluralismo all’interno del collegio. In altre parole, i componenti togati non rappresentano (o non dovrebbero rappresentare) gli interessi delle associazioni alle quali sono eventualmente collegati, ma ciò non esclude che le regole elettorali sulla composizione dell’organo possano (o forse debbano) essere congegnate in modo tale da dare voce, per il tramite di tali associazioni, alla complessità degli orientamenti e delle idee che circolano all’interno del corpo giudiziario. A ciò si aggiunga che l’attuazione del massimo pluralismo possibile nella componente togata si pone quale garanzia anche dell’indipendenza di tutti i magistrati nei confronti dello stesso Consiglio [16].
3. Per un rilancio della natura costituzionale del CSM
Ma è tempo di riprendere in mano anche un’altra annosa questione, da tempo trascurata dalla dottrina malgrado la non particolare linearità degli approdi raggiunti. La crisi attuale deve rappresentare infatti occasione per un “rilancio”, ovvero indurre a tratteggiare “per intero” la dimensione costituzionale di tale organo.
Mi riferisco al tradizionale indirizzo per il quale il CSM deve essere inserito tra gli organi cosiddetti di rilievo costituzionale - previsti e disciplinati dalla Carta e dunque non modificabili, né tanto meno sopprimibili, senza una revisione costituzionale - mentre andrebbe scartata la possibilità di riconoscere allo stesso la natura di vero e proprio organo costituzionale [17]. Si tratta, com’è noto, di una conclusione largamente accolta nel dibattito dottrinale degli ultimi decenni, che molto deve alla fortuna registrata da un fondamentale studio pubblicato negli anni Sessanta [18], e verso la quale, tuttavia, con specifico riguardo al CSM, si è registrata un’acquiescenza forse eccessiva.
Va premesso che ogni indagine su tale questione deve prendere avvio dalla constatazione che le formule di organo “costituzionale” e “di rilievo costituzionale”, malgrado i tentativi profusi dalla dottrina, sono e rimangono assai sfuggenti e controverse in quanto fondate su criteri di identificazione non assoluti, nel tempo variamente individuati.
Del resto, è pure controverso che la circostanza di riconoscere natura costituzionale ad un determinato organo comporti come conseguenza l’attribuzione ad esso di uno specifico e comune regime giuridico, ad esempio in termini di assoggettabilità dei rispettivi atti ad un controllo esterno, essendo per lo più ammesse, salvo quanto si dirà subito dopo, differenziazioni da caso a caso [19]. A ben vedere, vi è un solo carattere tipico che generalmente, ancorché non unanimemente, si tende ad attribuire ai soli organi costituzionali: quello della loro “insopprimibilità” in prospettiva di una revisione costituzionale [20].
Ad ogni modo, anche se la sola affermazione davvero indiscutibile dovesse risultare quella, certo un pò vaga, per cui gli organi costituzionali sono “quelli più importanti dello Stato” [21], risulterebbe comunque davvero anomalo non poter ricomprendere tra questi il CSM. Senza contare, specularmente, che talora, soprattutto in passato, la qualifica di organo di mera rilevanza costituzionale attribuita al CSM ha dato spazio proprio a quelle teorie tese a degradare il suo ruolo a un’attività di carattere esclusivamente amministrativo [22].
Ciò detto, senza voler ripercorrere in questa sede un dibattito sconfinato e non molto appagante, possiamo partire dall’orientamento maggioritario, che individua il principale elemento di differenziazione tra le due categorie di organi nella circostanza che soltanto quelli costituzionali sarebbero “in grado di esercitare, nello svolgimento delle loro funzioni - attive, di controllo e organizzative - un’influenza effettiva sul processo produttivo delle norme primarie” ([23]).
Traducendo in pratica tale definizione, l’orientamento dottrinale qui richiamato riconduce al novero degli organi costituzionali - alcuni di indirizzo politico, altri di garanzia - il corpo elettorale, il Parlamento, il Governo, il Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e il CNEL, quest’ultimo in quanto titolare dell’iniziativa legislativa e compartecipe dell’elaborazione della legislazione economica e sociale; al contrario, sulla base dello stesso ragionamento, vengono invece esclusi la Corte di cassazione, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato e, per quanto qui più interessa, il CSM, “perché nessuno di questi organi, per quanto superiorem non recognoscens, appare dotato di poteri politici o di poteri suscettibili di operare allo stesso livello di quelli politici” ed in particolare “è in grado di esercitare una influenza sul contenuto sostanziale delle norme primarie” [24].
Malgrado la raffinatezza del ragionamento seguito, tali conclusioni, con riguardo al CSM, non sembrano del tutto convincenti. Aldilà di ogni altra considerazione, pare davvero piuttosto formalistico riconoscere al CNEL il potere di incidere sulla normazione primaria, e per tale ragione annoverarlo tra gli organi costituzionali, e negare tale attitudine al CSM, estromettendolo da quel catalogo, senza tener conto, da un punto di vista sostanziale, che a tale organo è di fatto riconosciuto un ruolo fondamentale nella “scrittura” delle regole in materia di ordinamento giudiziario; attività, com’è noto, favorita per molti anni dalla sostanziale latitanza del Parlamento [25], ma che, anche all’indomani della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007, non è affatto venuta meno [26].
Ad ogni modo, alla conclusione di inserire il CSM tra gli organi costituzionali è possibile giungere anche seguendo un diverso indirizzo, che a me pare più lineare, avendo esso anche il pregio, se così si può dire, di riconoscere una pari “dignità costituzionale” agli organi di indirizzo politico e a quelli di garanzia, questi ultimi un poco sacrificati seguendo la precedente impostazione.
Tale orientamento è incentrato sul criterio dell’indispensabilità dell’organo costituzionale per il raggiungimento di finalità indicate come fondamentali dalla Costituzione. L’appellativo di “costituzionali”, in altre parole, dovrebbe spettare a quegli organi che devono necessariamente essere previsti, “pena la lesione di quel nucleo essenziale la cui integrità è la vera ragion d’essere della Repubblica democratica e pluralista” [27].
La natura costituzionale del CSM sarebbe desumibile dal suo carattere di indefettibilità in relazione all’obiettivo di “garanzia e immediata attuazione” del principio fondamentale dell’autonomia e indipendenza della magistratura, non potendosi immaginare, per la difesa dello stesso, soluzioni alternative a quelle dell’istituzione di un organo svincolato dal Governo a cui affidare funzioni prima appartenenti al potere esecutivo [28]. In definitiva, al CSM dovrebbe riconoscersi una natura costituzionale in quanto, sebbene la sua disciplina sia certamente modificabile con il procedimento di revisione costituzionale, la sua “esistenza” si configura come un “punto di non ritorno” nel disegno costituzionale [29].
4. La crisi attuale e la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007
Tornando alla crisi che ha investito il CSM, a me pare che essa non sia tanto manifestazione della natura eccessivamente politica dell’organo ma, all’opposto, dell’incapacità di esprimere correttamente tale natura.
Da qui l’equivoco a cui ho fatto prima riferimento. Proprio la difficoltà del CSM a mostrare la sua natura intrinsecamente politica ha favorito il rafforzarsi delle logiche burocratico-amministrative, fondate per lo più sulle appartenenze dei singoli componenti, di pari passo con la torsione delle correnti da motori di pluralismo ideale a centri di interessi particolari [30].
Ma come si è arrivati a questo punto? Le ragioni sono probabilmente molte e alcune hanno radici culturali profonde, che riguardano l’intera magistratura e la società più in generale.
Tuttavia, tra le ragioni della crisi attuale, a me sembra che possano essere annoverate anche alcune scelte compiute dal legislatore della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007. O meglio, quest’ultimo ha inconsapevolmente favorito il riaccendersi di alcune antiche criticità.
La ragione principale può essere individuata nella modifica dei criteri per l’attribuzione delle funzioni ai magistrati, soprattutto con riguardo agli incarichi direttivi, laddove il criterio dell’anzianità, perno del sistema a partire dalla legge Breganze n. 560/1966, è stato sostanzialmente sostituito con modalità di selezione di tipo concorsuale fondate prevalentemente sulla valutazione del merito dei candidati.
A prescindere dagli obiettivi che il legislatore ha inteso perseguire, per certi versi condivisibili, tale riforma ha di fatto innescato una serie di problemi a catena.
In primo luogo, è prepotentemente rientrata nella cultura di una parte della magistratura la logica della carriera, ovvero della rincorsa all’avanzamento di “grado”. Sebbene sia vero che la maggiore attenzione ai temi della dirigenza, anche grazie agli interventi del CSM all’indomani della riforma ([31]), ha contribuito ad innalzare il livello medio dei titolari degli incarichi direttivi e semi-direttivi, tuttavia è altresì incontestabile che si è venuta a creare una più netta separazione tra una sorta di “carriera dirigenziale”, percorsa da alcuni magistrati, che si snoda da un incarico direttivo ad un altro incarico direttivo, senza soluzione di continuità, e il normale avanzamento dei magistrati “normali” ([32]).
La frattura appena richiamata suscita perplessità. Non è inutile ricordare che il descritto fenomeno favorisce inevitabilmente un assetto più gerarchico della magistratura e costituisce il terreno ideale, come più volte evidenziato in passato, nel quale può diffondersi l’atteggiamento di deferenza e di conformismo giudiziario, i quali, a propria volta, mettono a rischio l’indipendenza del giudice [33]. Per tali ragioni l’idea stessa della carriera è incompatibile con l’assetto costituzionale della magistratura, che, com’è ben noto, si fonda sugli assunti per i quali i magistrati sono soggetti “soltanto alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.) e si distinguono “soltanto per funzioni” (art. 107, comma 3, Cost.).
Un secondo problema che si è creato con la riforma, al primo strettamente collegato, è quello della grande mole di aspettative, tensioni e pressioni che si sono scaricate sul CSM, organo chiamato a gestire l’applicazione dei nuovi criteri in materia di carriera.
Gli oltre dieci anni dall’entrata in vigore della nuova disciplina hanno confermato, qualora ve ne fosse stato bisogno, che valutare il merito è operazione estremamente complessa. Malgrado i tentativi svolti dallo stesso CSM di rendere più trasparenti le proprie scelte, attraverso l’adozione della richiamata disciplina secondaria, tanto minuziosa quanto fragile, tale obiettivo si è rivelato di ardua realizzazione. Si è rafforzata, in una grande parte della magistratura, la percezione che le scelte discrezionali del CSM, non agganciate a criteri oggettivi e davvero verificabili, siano sovente poco trasparenti, imprevedibili, talora del tutto arbitrarie.
Del resto, non sono stati rari i casi in cui i provvedimenti adottati dall’organo di autogoverno riguardanti gli incarichi direttivi e semidirettivi hanno peccato per insufficiente o incongrua motivazione; ciò che ha innescato un aumento esponenziale del contenzioso dinanzi al giudice amministrativo. Facendo una media dal 2010 al 2018, risulta che circa il 30% delle delibere adottate dal CSM di conferimento di incarichi direttivi è stata impugnata dinanzi al TAR Lazio [34].
Per inciso, proprio allo scopo di ridurre il contenzioso, era stato adottato il d.l n. 90/2014, sulla semplificazione e trasparenza amministrativa, laddove, all’art. 24, si era previsto che “contro i provvedimenti riguardanti il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi il controllo del giudice amministrativo ha ad oggetto i vizi di violazione di legge e l’eccesso di potere manifesto” (c.vi aggiunti). A prescindere dalle difficoltà che si sarebbero inevitabilmente presentate per distinguere tra vizio manifesto e vizio non manifesto, appariva chiaro l’intento del Governo di venire incontro al CSM, impedendo le impugnazioni degli atti consiliari motivate in ragione dei vizi meno evidenti. Ed è dunque significativo che il Parlamento abbia ritenuto di non convertire, con la legge n. 114/2014, tale disposizione, dando un segnale di sostanziale sfiducia nei confronti dell’organo di governo della magistratura.
Infine, un terzo problema esaltato dalla riforma è stato proprio il rafforzamento delle logiche corporative. Nell’applicazione dei criteri riguardanti la carriera dei magistrati, divenuti meno oggettivi, i componenti del CSM, soprattutto i togati ma non soltanto loro, hanno non raramente assecondato le aspettative derivanti dalle rispettive appartenenze, spogliandosi del ruolo di rappresentanti imparziali di pluralismo culturale per divenire meri terminali delle scelte delle rispettive “associazioni di categoria”, al fine di tutelare gli interessi degli affiliati.
Com’è stato efficacemente sintetizzato, “nell’ambito della selezione dei dirigenti, il difficile esercizio della discrezionalità ha incrociato le più forti resistenze culturali di una magistratura che, di fronte al venir meno delle certezze rappresentate dal criterio dell’anzianità, ha riscoperto il valore della carriera e la dimensione della corporazione” [35].
Va detto che sia il CSM sia la magistratura associata si sono mostrati in più occasioni consapevoli di tali rischi. In una delibera del 20 gennaio 2014, ove si elencano i doveri dei componenti dell’organo, si precisa che la volontà di questi ultimi “deve essere frutto di un personale studio e valutazione” e che il consigliere “non deve essere acritico interprete di posizioni di gruppi dell’associazionismo giudiziario anche solo per ragioni di appartenenza o debito elettorale”. Sono state poi predisposte negli ultimi anni puntuali regole deontologiche tese a sottolineare con forza l’importanza del “disinteresse personale” nella vita professionale e sociale [36].
Ma tale attenzione formale non ha costituito un argine adeguato contro le derive descritte.
5. Spunti per qualche correttivo, non solo in materia elettorale
Numerose sarebbero le riforme utili per aiutare il CSM ad uscire dalla crisi in cui versa attualmente. Non essendo questa la sede per affrontare le questioni in modo puntuale, mi limito ad alcuni cenni, per lo più in continuità con quanto detto in precedenza.
In primo luogo, pare necessario intervenire sulla disciplina della carriera dei magistrati, sia individuando un equilibrio diverso tra il criterio dell’anzianità e quello del merito sia attraverso l’utilizzo di parametri e indicatori più puntuali e oggettivi, maggiormente idonei ad apprezzare le attitudini effettive dei candidati e a contenere, conseguentemente, la “crisi di discrezionalità” che oggi investe il CSM.
Un altro obiettivo da perseguire sembra quello di riformare gli incarichi direttivi rendendoli davvero temporanei. Oggi la normativa prevede che essi abbiano una durata di quattro anni e siano rinnovabili una volta; ciò non esclude, tuttavia, che al termine di un incarico direttivo il magistrato possa passare senza soluzione di continuità ad un altro incarico direttivo, solitamente più prestigioso del precedente. Ma tale circostanza è incompatibile con la ratio più profonda della temporaneità degli incarichi, ovvero l’esigenza di preservare l’orizzontalità nei rapporti tra magistrati.
Dunque, la provvisorietà non dovrebbe riguardare il singolo incarico ma, in generale, la titolarità della funzione direttiva; insomma, al termine di un periodo di “servizio” il magistrato dovrebbe tornare a svolgere, almeno per un certo tempo, la normale funzione giurisdizionale. Come è stato efficacemente precisato, “il ruolo di direzione di un ufficio giudiziario non è uno status, ma un incarico temporaneo, di durata adeguata a garantirne l’incisività, che non istituisce differenze permanenti tra dirigenti e diretti, ma solo una temporanea diversità di funzioni” [37].
Ancora, in stretto collegamento con quanto appena evidenziato, pare opportuno impedire, o quanto meno limitare, con puntuali previsioni, i collegamenti troppo stretti tra la titolarità di incarichi istituzionali (CSM, Scuola della Magistratura, consigli giudiziari, ecc.) o associativi e la carriera professionale. Si tratta, infatti, di potenziali “circoli viziosi” che si prestano a divenire il terreno ideale per il diffondersi delle logiche corporative.
Infine, venendo più da vicino al CSM, nel tempo sono state avanzate proposte e correttivi volti a rendere i suoi processi decisionali più trasparenti e meno soggetti a condizionamenti impropri o a dinamiche spartitorie; per tutte, può richiamarsi l’idea di vietare le cd. nomine a pacchetto, oggi soltanto limitate dall’art. 38 del Regolamento interno del 2016, attraverso la previsione del voto separato per ciascuno dei candidati indicati nella proposta unitaria della commissione competente.
6. Dal 1958 ad oggi, sette discipline elettorali
Ma è sulla legge elettorale per il rinnovo della componente togata del CSM che in questi mesi si sono concentrate le attenzioni maggiori.
Non è la prima volta che accade. Dal 1958 ad oggi si sono avute quindici consiliature del CSM e ben sette discipline elettorali (cfr. leggi nn. 195/1958, 1198/1967, 695/1975, 1/1981, 655/1985, 74/1990 e 44/2002). Senza contare che la legge elettorale è stata oggetto, nel 1986 e nel 2000, anche di due procedimenti referendari promossi senza successo dai radicali. Nessun sistema elettorale, almeno a partire dagli anni Settanta, ha mai retto all’accusa di favorire la politicizzazione del Consiglio superiore [38].
Le correnti della magistratura, vive e vitali fin dall’inizio delle attività del CSM, “entrano” ufficialmente al suo interno con la legge n. 695/1975, con la quale non soltanto i componenti togati elettivi vengono portati da 14 a 20 (8 giudici di legittimità, 8 di tribunale e 4 di appello) ma si introduce per la prima volta il voto per liste concorrenti, con nome e simbolo del gruppo e con possibilità di esprimere preferenze all’interno della lista prescelta. Il sistema introdotto è proporzionale, con collegio unico nazionale e con clausola di sbarramento al 6%.
Il ragionamento che conduce all’approvazione di tale riforma, realizzata con il diffuso consenso della magistratura associata, della classe politica e della prevalente dottrina, è il seguente: poiché il CSM definisce i criteri generali sulla cui base è tenuto ad adottare i singoli provvedimenti riguardanti i magistrati, esso è in grado di incidere con un potere “immenso” sulla politica giudiziaria, ragione per la quale la sua composizione deve necessariamente essere “rappresentativa” delle diverse anime di cui la magistratura si compone [39].
Inoltre, tale assetto viene considerato il più adeguato allo scopo di consentire all’organo di autogoverno di farsi garante dell’indipendenza non soltanto esterna ma anche interna della magistratura [40]. In definitiva, in una fase storica nella quale viene raggiunta la piena consapevolezza del ruolo del giudice e della funzione giudiziaria nell’ordinamento, la componente togata del CSM diviene diretta espressione della vivacità culturale presente nel corpo giudiziario.
Quindici anni più tardi le prospettive sono parzialmente mutate. In un clima caratterizzato da forti tensioni tra politica e magistratura e preso atto, già allora, di alcune evidenti degenerazioni del “correntismo” [41], si giunge all’approvazione della legge n. 74/1990, approvata con la quasi esclusiva finalità di diminuire il peso delle correnti nel CSM. Vengono previsti più collegi nazionali, uno per l’elezione di due magistrati di cassazione e quattro (composti associando una pluralità di distretti di Corte d’Appello scelti mediante sorteggio) per l’elezione di diciotto magistrati di merito; il voto è espresso a favore delle liste e all’assegnazione dei seggi, realizzata con metodo proporzionale, partecipano soltanto i gruppi che hanno conseguito almeno il 9% dei suffragi sul piano nazionale.
Se l’obiettivo è quello di riavvicinare i candidati agli elettori, riducendo il peso della mediazione dei gruppi organizzati, in realtà la non sufficiente ristrettezza dei collegi, unita ad alcuni infelici tecnicismi, sortirà l’effetto esattamente contrario, rendendo ancora più decisivi gli apparati [42].
Si giunge quindi alla legge n. 44/2002, oggi in vigore, anch’essa figlia di una stagione caratterizzata da contrapposizioni tra politica e magistratura e da una malcelata volontà di depotenziare, con l’associazionismo giudiziario, il ruolo e il peso dell’organo di governo della magistratura. I componenti togati vengono ridotti a sedici, eletti col sistema maggioritario in tre collegi unici nazionali: uno per eleggere due magistrati di Cassazione, uno per eleggere dieci magistrati giudicanti, uno per eleggere quattro magistrati requirenti. Il voto non è per lista ma sui singoli candidati, ogni elettore ne ha uno per ciascun collegio, risultano eletti coloro che hanno ottenuto più suffragi fino alla copertura dei posti. Anche in questo caso la finalità perseguita è quella di “ridurre sensibilmente” il peso delle correnti e la logica spartitoria che ne segue [43].
Tale obiettivo non sarà raggiunto. A prescindere dalle critiche tradizionali rivolte ad un siffatto sistema, di tipo maggioritario, da alcuni ritenuto “la negazione del ruolo assegnato al CSM dalla Costituzione” [44], ben presto viene in risalto soprattutto l’incongruenza tra abolizione del voto di lista e introduzione soltanto di tre collegi unici nazionali; la prassi, infatti, mostra fin da subito l’impossibilità per i candidati di fare a meno dell’appoggio di gruppi organizzati su tutto il territorio nazionale.
In definitiva, l’esperienza insegna che nessuna formula elettorale è in grado, di per sé, di risolvere il problema del peso delle correnti all’interno del CSM.
7. Verso una nuova legge elettorale
È ovvio che il vero problema è quello di mettere a fuoco l’obiettivo della riforma elettorale.
Alla luce di quanto prima evidenziato, circa la corretta collocazione del CSM nell’ordinamento e la sua valenza in senso lato politico-rappresentativa, appare chiaro che non si dovrebbe prospettare tanto l’espulsione delle correnti dal meccanismo elettorale ma predisporre un sistema idoneo - ovviamente nei limiti ristretti in cui una formula elettorale può incidere su questo profilo - a contenere le degenerazioni del correntismo senza rinunciare al pluralismo di idee di cui le correnti devono essere espressione anche all’interno del CSM [45].
Insomma, pur nella consapevolezza che i congegni elettorali non sono da soli risolutivi, è opportuno rintracciare una soluzione che vada nel senso di ridurre gli effetti perversi del correntismo senza, allo stesso tempo, frustrare il pluralismo di cui le correnti sono espressione. Come detto, una cosa è il pluralismo culturale, che è un valore da preservare, altro è la lottizzazione, che è una degenerazione da combattere. La circostanza per la quale le correnti si sono dimostrate non sempre all’altezza del ruolo “pubblico” loro affidato, in quanto assorbite dal far prevalere gli interessi particolari dei propri associati, è un fattore di cui si deve tenere conto ma che non incide sulla centralità della loro funzione, che è da apprezzare, per inciso, anche in termini di garanzia di accountability dei componenti togati [46].
Quanto si è venuti dicendo impone innanzi tutto di scartare, tra le diverse ipotesi di riforma prospettate in questi mesi, la non-soluzione del sorteggio dei componenti togati del CSM, peraltro già a suo tempo avanzata nel d.d.l. costituzionale n. 4275/2011 e prima ancora, negli anni Settanta, dal Movimento sociale italiano. A prescindere dalla circostanza che tale prospettiva, anche se preceduta o seguita da una fase elettorale, potrebbe essere percorribile soltanto con una revisione dell’art. 104 Cost., contro di essa depone soprattutto l’evidente incompatibilità con la natura del CSM così come appena tratteggiata: il sorteggio, infatti, presuppone un Consiglio del tutto svilito, ridotto a mero organismo burocratico, in netto contrasto con l’esigenza di valorizzazione del pluralismo interno di cui si è detto. Senza contare che tale modalità di selezione, più che garantire una riduzione del peso delle correnti all’interno dell’organo, è in grado di assicurare soltanto una sua casuale ridistribuzione; né la stessa può offrire uno scudo insuperabile contro le pratiche lottizzatorie, le quali, anzi, potrebbero rinnovarsi secondo logiche diverse e meno trasparenti. Infine, com’è ovvio, il sorteggio non assicura l’individuazione delle persone più adeguate a ricoprire quel peculiare ruolo ([47]).
Sembrano peraltro troppo radicali i recenti progetti di legge C. 226 e C. 227, presentati negli scorsi mesi alla Camera dei deputati per iniziativa dei deputati Stefano Ceccanti e Marco Di Maio (in realtà riproduttivi di proposte analoghe presentate nella XVI legislatura), tesi all’introduzione di un sistema, di tipo maggioritario, caratterizzato dall’articolazione in sedici piccoli collegi uninominali (uno per i magistrati di legittimità, quattro per i pubblici ministeri, undici per i giudici di merito) e dalla circostanza che ogni elettore può votare soltanto per il collegio ad esso relativo. Tale sistema, avvicinando i candidati agli elettori, renderebbe almeno in prima battuta plausibilmente meno essenziale l’intermediazione delle correnti; d’altra parte, il rischio in cui si potrebbe incorrere sarebbe duplice: da un lato favorire la creazione di una rappresentanza fortemente localistica, dove l’interesse generale potrebbe cedere il posto agli interessi particolari, con possibile esaltazione di rapporti clientelari tra elettori ed eletti; dall’altro, il rischio di estromettere le minoranze culturali dal Consiglio.
A mio giudizio sono da preferire sistemi più calibrati. Ne richiamo tre, senza alcuna pretesa di esaustività.
Può innanzi tutto segnalarsi il progetto elaborato dalla Commissione Scotti, che ha ultimato i suoi lavori nel 2016, laddove in esso si è tentato di coniugare il sistema maggioritario con quello proporzionale, prevedendo sia collegi territoriali che un collegio nazionale. Le votazioni sono articolate infatti in due turni, il primo maggioritario, su base territoriale, il secondo, proporzionale per liste concorrenti, su base nazionale.
Appare poi coerente con l’obiettivo indicato anche la proposta avanzata a suo tempo dalla Commissione Balboni, istituita nel 1995. La soluzione del “voto singolo trasferibile”, infatti, ha il vantaggio di “mantenere un elevato grado di proporzionalità” impedendo al contempo di far prevalere la “logica di lista e degli schieramenti”, valorizzando la personalità dei singoli magistrati [48]. I collegi sono plurinominali e l’elettore si esprime votando un singolo candidato di una lista e indicando, in ordine di preferenza, altri candidati, non necessariamente della stessa lista, ai quali il voto potrebbe essere trasferito qualora il primo candidato non possa essere eletto o non abbia bisogno del voto per essere eletto.
Nello stesso senso, ovvero con la finalità di coniugare esigenze di “conservazione del pluralismo ideale e culturale […] e valorizzazione delle capacità e dell’indipendenza dei singoli magistrati”, si muove anche la recente proposta di un sistema proporzionale “temperato” [49]. Essa, in particolare, prevede tanti collegi uninominali quanti sono i magistrati da eleggere (esclusi quelli di legittimità, da concentrare in un collegio apposito), con collegamento di ciascun candidato con candidati in altri collegi facenti parte dello stesso gruppo e con distribuzione dei seggi su scala nazionale con il sistema proporzionale. Una volta ripartiti su scala nazionale i seggi tra i diversi gruppi, risultano eletti i candidati che, nel rispettivo collegio, ottengono la percentuale di voti più alta.
Tale sistema manterrebbe il ruolo delle correnti ma garantirebbe allo stesso tempo un rapporto diretto tra elettore e candidato nel collegio uninominale.
8. In conclusione
I congegni elettorali sono sempre perfettibili e nessuno mai davvero decisivo. Sono in ogni caso da prediligere, come accennavo, soluzioni equilibrate, che tengano conto dell’esigenza di contemperare le diverse istanze coinvolte, tutte di rilievo costituzionale.
Di tutto c’è bisogno meno che di risposte frettolose e scomposte.
In effetti, all’indomani degli scandali che hanno lambito il CSM la classe politica ha mostrato, almeno in una prima fase, una straordinaria reattività, con la messa in cantiere di una serie di proposte di riforma non sempre sufficientemente meditate. Reattività, per inciso, certamente giustificata in ragione della gravità dei fatti, anche se piuttosto inusuale se raffrontata ai tempi di reazione che si registrano di solito in altri settori dell’ordinamento, pur certamente bisognosi di interventi normativi. Mentre si scrive, in realtà, l’entusiasmo iniziale sembra essersi un poco raffreddato e il CSM appare meno al centro del dibattito politico rispetto soltanto a pochi mesi fa. Vedremo nei prossimi mesi se tale rallentamento è sintomo di una maggiore riflessione.
Per quanto molti dei problemi attuali abbiano una matrice culturale, e su quel piano debbano essere affrontati, qualche intervento normativo appare senza dubbio necessario. Ciò che deve essere tuttavia scongiurato è lo “scatto di nervi” del Parlamento, ovvero che si possa varare una riforma che non tenga conto dell’effettiva posta in gioco e risulti diretta a mortificare un organo fondamentale per l’equilibrio dei poteri e per il loro assetto democratico.
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019. * Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17 in tema di riforma del CSM pubblicati su questa Rivista: La rappresentanza di genere nel CSM, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale
[1] Corte cost., sent. n. 4/1986.
[2] Si noti che nel 1910, pochi mesi dopo la nascita della Associazione nazionale magistrati, l’allora ministro Orlando manifestò alcune perplessità rispetto a tale avvenimento, evidenziando un generico rischio che l’assetto associativo potesse condurre ad una “eccessiva” democratizzazione del corpo giudiziario, allora caratterizzato, come si sa, da una struttura marcatamente gerarchica. In effetti, i dubbi del ministro si dimostrarono fondati e l’associazionismo giudiziario contribuì a preparare il terreno alle novità che sarebbero state successivamente introdotte dalla Carta costituzionale.
[3] Cfr., da ultimo, G. Verde, Il conferimento degli incarichi direttivi fra Consiglio superiore della magistratura e Ministro della giustizia, in Lo Stato, 2019, 105
([4] G. Mattarella, Intervento nel corso del Plenum straordinario del CSM del 21 giugno 2019.
([5]) Per quanto, come giustamente nota L. Pepino, La magistratura e il suo consiglio superiore, in Questione giustizia, 2020, le vicende di cronaca cui si fa riferimento evidenziano in realtà un fatto ancora più grave del (già grave) fenomeno della lottizzazione correntizia; esse, infatti, riguardano una serie di contatti intercorsi tra politici e magistrati finalizzati ad individuare i candidati più idonei per certi incarichi direttivi in relazione non tanto alla loro appartenenza ad una certa associazione quanto alla loro “ritenuta maggiore o minor duttilità nella gestione di indagini eccellenti”.
[6] E. Bruti Liberati, Crisi del Csm, indipendenza della magistratura, modifica del sistema elettorale, in Questione giustizia, n. 1/1990, 18 ss.
[7] Cfr. A. Pizzorusso, Il Consiglio superiore della magistratura nella forma di governo vigente in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, Napoli, 2019, 519ss.
[8] A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, I, Napoli, 2019, 116.
[9] G. Ferri, Magistratura e potere politico, Padova, 2005, 247.
[10] Cfr. A. Pizzorusso, Il CSM nella forma di governo vigente in Italia, in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 548.
[11] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, n. 4/2017, 24.
[12] Da ultimo, la Commissione Scotti (cfr. Relazione della Commissione ministeriale per le modifiche alla Costituzione e al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, in www.giustizia.it, 2016, 19) ha ricordato che il CSM “non è un semplice consiglio di amministrazione, è piuttosto un’istituzione di garanzia nonché rappresentativa di idee, di prospettive, di orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio giustizia, anzi su quale sia il ruolo della magistratura e dello stesso Consiglio superiore”.
[13] P. Barile, Il CSM e la Costituzione, in la Repubblica, 9 aprile 1986.
[14] Cfr. Corte cost., sent. n. 142/1973
[15] Nella pronuncia richiamata alla nota precedente, del resto, la stessa Corte costituzionale ha affermato, con riferimento alla componente togata, che il CSM è un “organo a composizione parzialmente rappresentativa”.
[16] A. Pizzorusso, Il CSM nella forma di governo vigente in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 540.
[17] In argomento, da ultimo, M. Luciani, Il consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in www.osservatorioaic.it, 7 gennaio 2020.
[18] Il riferimento è ovviamente a E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale (appunti per una definizione), in Studi economico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, XLVI, 1, 1966, 155ss.
[19] S. Franzoni, I giudici del Consiglio superiore della magistratura, Torino, 2014, 117ss.
Nel 2019, peraltro, la Corte dei conti (N. 2/SSRRCO/QMIG/19) ha avuto modo di precisare che il suo controllo contabile deve essere escluso nei confronti dei soli organi costituzionali, pur riconoscendo che anche quelli di rilevanza costituzionale abbiano quale tratto comune riconoscibile “l’estraneità ad una sussunzione del loro operato nell’ambito delle politiche pubbliche governative”.
[20] Di recente M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura, cit., 8 ha proposto una variante a tale indirizzo tradizionale con specifico riferimento agli organi di rilevanza costituzionale: mentre di essi, a differenza di quanto valga per gli organi costituzionali, il legislatore costituzionale potrebbe certamente disporre, altrettanto non potrebbe fare con riguardo alle prestazioni agli stessi affidate, che comunque dovrebbero essere erogate in quanto connesse a scelte costituzionali fondamentali e non eludibili.
[21] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del CSM, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 1067.
[22] Cfr. L. Geninatti Saté, Il ruolo costituzionale del C.S.M.e i limiti al sindacato giurisdizionale dei suoi atti, Torino, 2012, 85.
[23] E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale, cit., 100s., ove peraltro si osserva come tale definizione sia il risultato dell’adozione di un criterio inedito fondato, tuttavia, sull’utilizzo sinergico di due caratteri tradizionali, già presenti nel precedente dibattito scientifico, ovvero quello della “posizione” e quello delle “funzioni” riconosciute agli organi.
[24] E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale, cit., 105 s.
[25]Cfr. A. Pizzorusso, Art. 108, in Commentario della Costituzione, a cura di G.Branca e A.Pizzorusso, Bologna-Roma, 1992, 6.
[26] Sia consentito il rinvio a F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Torino, 2018, 66 ss.
[27] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 21.
[28] In senso analogo, pur con diverse sfumature, U. De Siervo, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del CSM, in Giur. cost., 1968, 698, L. Daga, Il Consiglio superiore della magistratura, Napoli, 1973, 269ss., cui appartiene peraltro il virgolettato nel testo, L. G. Saté, Il ruolo costituzionale del CSM, cit., 75ss. e G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 22.
[29] C. Salazar, Il Consiglio superiore della magistratura e gli altri poteri dello Stato: un’indagine attraverso la giurisprudenza costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2007.
[30] Numerosi esempi di tale degenerazione, che non hanno risparmiato affatto la componente laica del Consiglio, sono contenuti nel saggio di A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei marescialli. Idee eretiche sul Consiglio superiore della magistratura, Roma, 2014, 1ss.
Sulle correnti osserva di recente G. Melis, Le correnti della magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, in Questione giustizia, 2020, come esse abbiano subito negli anni una involuzione; “da ossatura della democrazia interna della magistratura, da arterie, quali erano efficacemente, di una circolazione sanguigna fondamentale per la stessa esistenza della dialettica, da portatrici di idee e di modelli differenti circa la funzione giurisdizionale e il modo di esercitarla, si sono via via trasformate in ambigue articolazioni di potere; dedite, più che non alla realizzazione di un progetto alla propria autoconservazione”.
[31] Mi riferisco, in particolare, al Testo unico sulla dirigenza adottato con delibera del 28 luglio 2015, sul quale si veda G. Campanelli, Nuovo testo unico sulla dirigenza giudiziaria: possibili effetti sui limiti del sindacato giurisdizionale, in Questione giustizia, 2016.
[32] N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, ma un permanente campo di battaglia, in Questione giustizia, n. 3/2019, 44ss.
[33] Cfr. G. Silvestri, I problemi della giustizia italiana tra passato e presente, in Dir.pubbl., 2003, 328ss.
[34] Cfr. Ufficio Statistico del CSM, in www.csm.it.
[35] Cfr. M. Guglielmi, La discrezionalità del Consiglio una prerogativa irrinunciabile dell’autogoverno o un peso insostenibile per la magistratura?, in Questione giustizia, n. 4/2017, 34.
[36] Cfr. N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, cit., 44ss. Il codice etico dei magistrati, modificato da ultimo nel 2010, è consultabile in www.associazionemagistrati.it.
Occorre anche ricordare che l’Associazione nazionale magistrati ha reagito con fermezza agli scandali degli ultimi mesi, in particolare adottando, a conclusione del suo trentaquattresimo Congresso nazionale, svoltosi a Genova alla fine del 2019, una mozione (consultabile in www.associazionemagistrati.it) nella quale si legge che “i diversi gruppi che compongono l’associazione devono recuperare la loro funzione di luoghi di confronto ideale ed elaborazione culturale. Il pluralismo culturale, infatti, rappresenta una ricchezza, costituendo elemento essenziale dell’identità stessa dell’ANM, in seno alla quale le diverse visioni si confrontano e trovano una sintesi sulla base dei valori costituzionali comuni”. E ancora: “Consapevoli del ruolo e dei propri doveri i magistrati italiani ribadiscono, a fronte dei gravi fatti emersi, la centralità dell’etica della funzione giudiziaria e riaffermano come prioritaria esigenza l’adempimento dei doveri di correttezza, trasparenza e decoro nell’esercizio della giurisdizione, in tutti gli organi di governo autonomo e nell’impegno associativo”.
[37] N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, cit., 54.
[38] Cfr. N. Zanon-F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Forum di Quaderni costituzionali, 2019, 2.
[39] M. Ramat, Consiglio superiore della magistratura: false alternative e alternativa reale, in Quale giustizia, 1972, 377.
[40] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del CSM, cit., 1069.
[41] G. Volpe, Consiglio superiore della magistratura, in Enc.dir., Agg. IV, Milano, 2000, 380.
[42] G. Ferri, Magistratura e potere politico, cit., 36.
[43] S. Panizza, Art. 104, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto e M. Olivetti, Torino, 2006, 2014.
[44] G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 180.
[45] Cfr., da ultimo, S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM: vecchi problemi, ma quali soluzioni?, in osservatorioaic.it, 2020, 10.
[46] Come sottolinea ancora S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM, cit., 10, il quale altresì precisa che, tenuto conto del divieto di secondo mandato dei consiglieri, il collegamento tra eletti e correnti rappresenta la sola forma di responsabilizzazione dei primi.
[47] Cfr. V. Savio, Come eleggere il CSM, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in Questione giustizia, 2019, 1ss.
[48] Cfr. Relazione conclusiva del Presidente della Commissione Enzo Balboni, in Quad.cost., 1997, 552.
[49] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 27 ss.
Disposizioni “urgenti” in materia di protezione dei dati personali. Brevi note sul trattamento dati per finalità di pubblico interesse.
di Fabio Francario
Sommario : 1.- Il d.l. 8 ottobre 2021 n. 139 e l’urgenza di dettare disposizioni in materia di dati personali; 2.- Il diritto alla protezione dei dati personali non è super diritto fondamentale e può essere sacrificato o compresso dall’azione amministrativa nel rispetto del principio di legalità; 3.- Nel sistema disegnato dal GDPR la disciplina del trattamento dati per finalità di pubblico interesse si differenzia da quella del trattamento dati nei rapporti inter privati ed è irragionevole l’applicazione del principio di minimizzazione allo stesso modo; 4.- Necessità di un chiarimento sostanzialmente (solo) interpretativo; 5. – Le nuove disposizioni in materia di protezione dei dati personali; 6.- Osservazioni conclusive.
1.- Il d.l. 8 ottobre 2021 n. 139 e l’urgenza di dettare disposizioni in materia di dati personali.
Il decreto legge 8 ottobre 2021 n 139, c.d. decreto riaperture, detta disposizioni urgenti per l’accesso alle attività culturali, sportive e ricreative, nonché per l’organizzazione di pubbliche amministrazioni. Fin dalla rubrica precisa però di voler dettare disposizioni urgenti anche “in materia di protezione dei dati personali”.
Viene subito da chiedersi dove sia l’urgenza di dettare disposizioni anche in materia di dati personali, ma la ragione viene ben presto in mente se solo si siano un po’ seguite le vicende che nell’ultimo biennio hanno caratterizzato l’organizzazione e lo svolgimento dell’attività delle amministrazioni chiamate a fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid – 19, sia attraverso azioni di contrasto e contenimento dell’epidemia, che di sostegno della ripresa delle attività sociali ed economiche.
Nell’articolo già pubblicato su questa Rivista lo scorso mese di settembre[i] si è sottolineato come, in nome dell’esigenza di evitare che l’interesse alla protezione dei dati personali potesse correre non meglio precisati rischi (a causa del trattamento dei dati operato per finalità di pubblico interesse secondo modalità ritenute dal Garante non pienamente conformi ai principi della materia), l’intervento dell’Autorità garante abbia sovente arrestato o ritardato tanto l’erogazione delle misure di sostegno economico, quanto i relativi controlli, quanto ancora l’adozione delle stesse misure di contrasto dell’evento pandemico. Sono state a tal fine esemplificativamente richiamate una serie di vicende nelle quali ciò è sistematicamente avvenuto, mettendo in evidenza come l’interpretazione della normativa vigente propugnata dall’Autorità garante ed affermatasi nella prassi fosse praticamente diventata un fattore di blocco dell’azione amministrativa. Blocco assolutamente irragionevole nel bel mezzo di un’emergenza pandemica e in assoluta controtendenza rispetto allo sforzo complessivamente in atto nel nostro ordinamento negli ultimi anni, volto a recuperare quanto più possibile l’efficienza dell’amministrazione attraverso sempre più diffusi ed incisivi meccanismi di semplificazione dei processi decisionali e di rimozione della paura della firma in capo ai decisori pubblici.
I limiti e la non condivisibilità dell’interpretazione e dell’applicazione date alla normativa sulla protezione dei dati personali sono state più ampiamente illustrate nello scritto già citato, ma torna utile riassumerne sinteticamente le ragioni al fine di comprendere anzitutto il perché dell’urgenza di dettare nuove disposizioni in materia.
2.- Il diritto alla protezione dei dati personali non è super diritto fondamentale e può essere sacrificato o compresso dall’azione amministrativa nel rispetto del principio di legalità.
In linea di principio, la prima cosa da chiarire è che, in un contesto emergenziale come quello dell’evento pandemico, è assolutamente insostenibile ritenere che vi siano diritti o libertà individuali, anche fondamentali, che non possano essere compresse o sacrificate per le superiori esigenze di cura dell’interesse pubblico. Ciò è avvenuto per il diritto alla libertà personale, quando si è imposto il lockdown; per il diritto alla libertà di circolazione, quando si è limitata la circolazione tra comuni o regioni nel territorio nazionale o verso l’estero; quando per la carenza di risorse a disposizione negli ospedali non si è potuto assicurare a tutti il diritto alla vita.
In materia di privacy, si è invece praticamente ritenuto che quello alla protezione dei dati personali dovesse essere considerato come un super diritto fondamentale; che in nessun caso potesse essere sacrificato o compresso da un’azione amministrativa che non avesse un suo specifico fondamento nella normativa sulla protezione dei dati personali e che l’espressa attribuzione del potere di curare un determinato interesse pubblico non fosse pertanto sufficiente[ii] per comprimere o sacrificare, nel rispetto del principio di legalità, tale super diritto. L’Autorità garante ha infatti più volte ritenuto privi di valida base giuridica i trattamenti effettuati senza aver previamente calcolato i possibili rischi per il diritto alla protezione dei dati personali, ovvero senza che le norme rendessero prevedibile in maniera chiara e precisa da parte degli interessati il trattamento operato, ovvero ancora senza che fossero state adottate adeguate misure tecniche e organizzative per attuare in modo efficace la protezione dati; ovvero ha ritenuto i trattamenti sproporzionati rispetto all’interesse pubblico perseguito o privi di valida base giuridica, anche se previsti da una norma avente comunque forza e valore di legge, assumendo che non erano esattamente specificate le finalità del trattamento. In sostanza, ha preteso di applicare la normativa sulla protezione dei dati personali seguendo l’interpretazione più rigida e acritica possibile e senza minimamente tener conto o valorizzare il fatto che il trattamento dati per finalità di cura dell’interesse pubblico, nel sistema disegnato dal Reg. UE 679/2016 (GDPR), ubbidisce a regole e principi profondamente diversi rispetto a quelli che regolano la protezione dei dati personali nei rapporti inter privati. A partire dal fatto che la “esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” è di per sé considerata base giuridica sufficiente per rendere lecito il trattamento.
3.- Nel sistema disegnato dal GDPR la disciplina del trattamento dati per finalità di pubblico interesse si differenzia da quella del trattamento dati nei rapporti inter privati ed è irragionevole l’applicazione del principio di minimizzazione allo stesso modo.
La seconda cosa da chiarire è proprio l’irragionevolezza, più in generale, di una interpretazione della normativa recata dalla fonte comunitaria che tenda ad appiattirsi acriticamente sulla matrice privatistica che, in assenza del consenso dell’interessato, postula (ovviamente) un generale divieto di trattamento dei dati personali. Nell’impianto del regolamento comunitario, la disciplina del trattamento dati per finalità di pubblico interesse è invece profondamente differenziata rispetto a quella tratteggiata dal medesimo regolamento per la data protection nei rapporti inter privati[iii], e ciò non può rimanere privo di conseguenze al momento di sciogliere le possibili opzioni interpretative.
Premesso che il GDPR non pone un generale divieto di trattamento dei dati personali comuni o ordinari, ma, al contrario, lo prevede unicamente per i dati cd sensibili o particolari espressamente indicati dall’art. 9 (i soli dati che possono rivelare “l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, … dati genetici, dati biometrici … dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale”), bisogna muovere dalla considerazione che il trattamento è da ritenersi lecito se solo ricorra una delle condizioni indicate dall’art. 6 del Regolamento come possibile base giuridica del trattamento. E l’art. 6 considera a tal fine, accanto alle ipotesi del consenso e dell’adempimento di un obbligo legale e distintamente da queste, quella della “esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” come una possibile base giuridica del trattamento[iv]. Sul piano sistematico, oltre che letterale, la previsione ha importanza tutt’altro che trascurabile. Essa implica che l’attribuzione da parte di una norma primaria dell’esercizio di un compito d’interesse pubblico o di un pubblico potere è condizione necessaria e sufficiente per consentire all’amministrazione il trattamento dati, senza che sia necessaria un’espressa ulteriore previsione che precisi per quale specifica finalità viene consentito il trattamento. Specificazione che è invece necessaria nel caso la base giuridica del trattamento sia rappresentata dal consenso. Il solo consenso, ove prestato “in bianco”, senza espressa precisazione della finalità per la quale venga prestato, autorizzerebbe qualsivoglia uso o finalità del trattamento con le conseguenti intuibili possibilità di abuso. Ed è per questo che le regole della minimizzazione sono perfettamente congeniali al sistema fondato sulla base giuridica del consenso e vanno rigorosamente applicate in tal caso; laddove s’impone quantomeno una maggiore elasticità nel caso in cui la base giuridica è data dalla “esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. Nel primo caso, infatti, impongono al titolare di usarne nei limiti di quanto strettamente necessario per la specifica finalità dichiarata perché questi, diversamente, non sarebbe tenuto a comportarsi in tal modo. Nel secondo caso, invece, il soggetto pubblico agisce istituzionalmente perseguendo finalità predeterminate dalla legge, che sono quindi già perfettamente note all’interessato, e nell’osservanza del principio di proporzionalità, che impone di per sé come regola di condotta quella di arrecare il minor sacrificio possibile al diritto antagonista dell’interesse pubblico nel concreto del caso di specie.
Anche e soprattutto se considerata con riferimento alla fattispecie dell’obbligo legale, quella della “esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” rende subito evidente la differenza consistente nel fatto che, in un caso, la valutazione del trattamento come necessario e inevitabile è consumata direttamente dalla norma di legge, nell’altro è inevitabilmente rimessa all’amministrazione procedente, alla quale la legge ha attribuito il potere di curare l’interesse pubblico in una data materia o per una determinata funzione. Diversamente interpretata, la disposizione non avrebbe senso, perché la fattispecie sarebbe interamente assorbita nell’ipotesi dell’obbligo legale e non si distinguerebbe più da quest’ultima. Se la norma del GDPR non avesse inteso distinguere le fattispecie, sarebbe stata scritta diversamente, limitandosi a prevedere, molto più semplicemente, che, oltre alle ipotesi di consenso dell’interessato, il trattamento può ritenersi lecito nei soli casi e modi previsti dalla legge; senza distinguere tra le due ipotesi dell’adempimento dell’obbligo legale e del perseguimento di finalità di cura del pubblico interesse.
4.- Necessità di un chiarimento sostanzialmente (solo) interpretativo.
Le osservazioni sopra sinteticamente svolte consentono di concludere che, nel sistema disegnato dal DGPR, la previsione recata dalla lett e) dell’art 6 può e dovrebbe essere ritenuta di per sé sufficiente a fondare la base giuridica del trattamento, almeno dei dati comuni o ordinari, da parte della pubblica amministrazione, senza che si renda necessaria una successiva disposizione che specifichi ulteriormente le finalità e le modalità del trattamento.
Come sopra accennato, la prassi applicativa e l’interpretazione hanno purtroppo fino ad ora seguito la via opposta. L’acritica applicazione del principio di minimizzazione ai soggetti pubblici (come se questi, a differenza dei soggetti privati, non fossero già di per sé tenuti istituzionalmente ad agire per finalità predeterminate e nell’osservanza del principio di proporzionalità) ha avuto la conseguenza di far ritenere necessaria una specifica previsione di legge per ogni singolo trattamento (mezzi e finalità comprese) e di consentire al Garante un sindacato sul merito delle valutazioni discrezionali circa la necessità o meno di un dato intervento pubblico, arrivando così inevitabilmente a produrre quell’effetto di blocco o comunque di pesante condizionamento dell’esercizio della funzione amministrativa.
Questo fattore di blocco o di appesantimento dell’azione amministrativa, derivante, si ripete, da una quantomeno opinabile interpretazione della normativa sulla protezione dei dati personali, in un momento storico come quello attuale, nel quale tutti gli sforzi sono diretti ad assicurare la ripresa post pandemica del Paese, è evidentemente apparso eccessivo ed insostenibile e rimuovibile attraverso un intervento sostanzialmente interpretativo, come del resto espressamente auspicato anche nel precedente già citato scritto.
5. – Le nuove disposizioni in materia di protezione dei dati personali
Le nuove disposizioni in materia di protezione dei dati personali sono recate dall’art 9 del d.l. 139/2021.
Concettualmente, le nuove disposizioni si appuntano su tre distinti oggetti.
Cominciando dalla fine, si osserva subito che il terzo e ultimo comma dell’art. 9 introduce una misura generale di semplificazione che, con specifico riferimento a riforme, misure e progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, del Piano nazionale per gli investimenti complementari, nonchè del Piano nazionale integrato per l'energia e il clima 2030 prevede che, ove richiesti, i pareri del Garante per la protezione dei dati personali vanno resi nel termine non prorogabile di trenta giorni, decorso il quale può procedersi indipendentemente dall'acquisizione del parere.
Procedendo sempre a ritroso, si osserva poi che le disposizioni sono volte a valorizzare e potenziare il ruolo del Garante nella tutela della privacy più strettamente intesa con specifico riferimento ai rapporti e alle relazioni inter - personali. Viene introdotto nel Codice della privacy l’art 144 - bis che consente all’Autorità d’intervenire con i poteri inibitori, repressivi e sanzionatori di cui all’art 58 del Regolamento al fine di contrastare il fenomeno del cd revenge porn[v].
Si arriva così alle disposizioni che riguardano propriamente il trattamento dei dati personali da parte di un’amministrazione pubblica e soggetti equiparati[vi].
L’art 9, al primo comma, sub lett. b), dispone l’abrogazione dell’art 2 – quinquiesdecies del Codice della privacy e prevede, sub lett. a), l’inserimento del comma 1 bis all’art. 2 – ter del medesimo Codice, con la consequenziale riscrittura in parte qua anche dei commi 2 e 3 sempre dell’art. 2 ter.
L’art 2 – quinquiesdecies era stato introdotto nel testo del Codice dall’art 2, comma 1, lett f) del d lgs 101/2018, che, nel recare le disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del GDPR, aveva contemplato la possibilità che l’Autorità garante potesse adottare d’ufficio provvedimenti di carattere generale per prescrivere misure e accorgimenti a garanzia dell’interessato per i trattamenti svolti per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico ritenuti tali da presentare rischio elevato. Questo incisivo potere di controllo preventivo e regolatorio, esercitato tra gli altri nel caso dell’introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica (cfr. Provvedimento in tema di fatturazione elettronica, 20 dicembre 2018, doc. web n. 9069072) o dell’impiego dell’App Immuni (cfr. Provvedimento di autorizzazione al trattamento dei dati personali effettuato attraverso il Sistema di allerta Covid-19 - App Immuni - 1° giugno 2020, doc. web 9356568), viene adesso soppresso. Le implicazioni sulla ricostruzione anche sistematica dei poteri dell’Autorità garante nei confronti delle altre pubbliche amministrazioni sono di tutta evidenza.
Sub lett. a), il primo comma dell’art. 9 del d.l. 139/2021 prevede poi l’inserimento del comma 1 bis all’art. 2 – ter del vigente Codice della privacy (d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 e s.m.i.)
L’art 2 – ter apre il Capo II (Principi), del Titolo I (Principi e disposizioni generali) della Parte prima (Disposizioni generali) del Codice e, come da rubrica, è dedicato alla disciplina della “Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri”. Al primo comma dispone che “La base giuridica prevista dall'articolo 6, paragrafo 3, lettera b), del regolamento è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”. Vale quindi a precisare che l’obbligo legale o l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico o connesso all’esercizio dei pubblici poteri di cui sia investito il titolare del trattamento (le due ipotesi di cui alla lett. b) del GDPR) rendono lecito il trattamento se hanno (l’obbligo o l’esecuzione del compito / funzione) fondamento in una norma di legge. La disposizione ha consumato in tal modo il rinvio al “diritto dello Stato membro” operato dal citato par 3, lett b) dell’art 6 del GDPR, ma, come detto, ha prestato il fianco a più interpretazioni, palesando l’opportunità di un intervento chiarificatore come quello adesso attuato.
La nuova previsione recata dal comma 1 bis, secondo la quale per le amministrazioni pubbliche e soggetti equiparati il trattamento dei dati personali “è sempre consentito se necessario per l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti”, all’apparenza potrebbe sembrare del tutto inutile, dal momento la norma, secondo la quale l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti dalla legge possono rappresentare una valida base giuridica del trattamento, è di per sé già recata dall’art. 6 del GDPR. La chiara valenza interpretativa ben si comprende però alla luce di quanto sopra osservato, in ordine all’interpretazione restrittiva affermatasi proprio con riferimento all’applicazione del citato art. 6.
Anche già solo alla luce della prima parte del disposto del comma 1 bis non può più sussistere dubbio alcuno sul fatto che “l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti” sia base giuridica sufficiente per il trattamento da parte di una pubblica amministrazione. Già solo il quid novi del testo, rappresentato unicamente dall’avverbio “sempre”, leva ogni possibile dubbio al riguardo: se il trattamento è sempre possibile quando necessario per l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti, ciò esclude che il trattamento possa avvenire solo nei casi in cui è espressamente previsto da una norma di legge.
Anche l’ulteriore precisazione recata dalla seconda parte del comma 1 bis e le ulteriori conseguenziali disposizioni sul regime della comunicazione e diffusione chiariscono definitivamente che la necessarietà del trattamento, ai fini della cura di un pubblico interesse o dell’esercizio di pubblico funzioni, non deve essere previamente valutata dal legislatore, ma può bene essere valutata dall’amministrazione alla quale la legge abbia attributo quel determinato compito o pubblica funzione.
Il secondo periodo del comma 1 – bis chiarisce espressamente che “la finalità del trattamento, se non espressamente prevista da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento, è indicata dall'amministrazione, dalla società a controllo pubblico in coerenza al compito svolto o al potere esercitato, assicurando adeguata pubblicità all'identità del titolare del trattamento, alle finalità del trattamento e fornendo ogni altra informazione necessaria ad assicurare un trattamento corretto e trasparente con riguardo ai soggetti interessati e ai loro diritti di ottenere conferma e comunicazione di un trattamento di dati personali che li riguardano."
Anche la riscrittura dei commi 2 e 3 dell’art 2 – ter si rivela oltremodo significativa. Il comma 2 disciplina la comunicazione fra titolari dei dati comuni o ordinari e, prima della novella, prevedeva che, per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri, la comunicazione fosse possibile solo nei casi espressamente previsti dalla legge e che, in mancanza di una espressa previsione di legge, la comunicazione dovesse essere in ogni caso previamente autorizzata (anche solo in forma tacita) dal Garante. La novella ha completamente eliminato il secondo periodo dell’art 2, che sottoponeva la comunicazione alla previa autorizzazione del Garante, e ha previsto che la comunicazione possa essere effettuata anche se ritenuta necessaria “ai sensi del comma 1 – bis”; ovvero rimettendo la valutazione circa la necessità della comunicazione all’amministrazione medesima. Lo stesso è a dirsi per la diffusione e la comunicazione contemplate al comma 3, per la quali si precisa parimenti che la valutazione di necessità può ben essere effettuata, in assenza di una espressa previsione di legge, “ai sensi del comma 1 – bis”.
6.- Osservazioni conclusive.
Le disposizioni urgenti in materia di protezione dei dati personali dettate dall’art 9 del d.l. 139/2021 chiariscono che il trattamento dei dati personali per finalità di pubblico interesse (necessario per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri) è sempre consentito se ritenuto necessario dall’amministrazione alla quale il compito o potere sia stato attributo dal legislatore, senza che la finalità del trattamento debba essere espressamente specificata dal legislatore medesimo; e sottraggono la comunicazione dei dati (strumentale alla esecuzione di un compito di pubblico interesse o connesso all’esercizio di pubblici poteri) e la valutazione del rischio elevato (di un trattamento necessario per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico) alla potestà regolatoria dell’Autorità Garante.
Tanto l’espressa soppressione dei poteri in precedenza riconosciuti al Garante (per la valutazione dei rischi del trattamento o per la comunicazione e diffusione dei dati strumentali o connesse all’esecuzione di un compito di pubblico interesse o all’esercizio di un funzioni istituzionali), quanto l’inserimento del comma 1 - bis all’art 2 – ter del Codice, valgono indubbiamente a sottrarre il trattamento dati per finalità di pubblico interesse a quello stringente controllo che in precedenza ha consentito al Garante d’ingerirsi in maniera molto penetrante nella valutazione delle stesse finalità concretamente perseguite da una data azione amministrativa, sino al punto di valutarne l’effettiva utilità o l’astratta possibilità.
Sotto questo profilo, le disposizioni hanno una valenza interpretativa particolarmente significativa, che impone una lettura necessariamente più elastica dei principi di minimizzazione allorquando gli stessi non si rivolgono a rapporti tipicamente privatistici, ma devono essere applicati nei confronti del trattamento dati per finalità di pubblico interesse. Non solo la chiara indicazione della finalità di pubblico interesse deve essere ormai ritenuta necessariamente tale da poter di per sé giustificare l’eventuale trattamento anche in assenza di una espressa previsione che specifichi la finalità del trattamento; ma bisogna allo stesso modo tener conto del fatto che anche le valutazioni di pertinenza, adeguatezza e limitazione del trattamento devono per la gran parte ritenersi assorbite nell’applicazione del più generale principio di proporzionalità. In ogni caso, si vuol dire, non è più possibile doppiare le valutazioni discrezionali riservate all’amministrazione procedente per la cura dell’interesse pubblico nel concreto del caso di specie, con valutazioni di merito operate dall’Autorità garante in una maniera che non è consentita nemmeno al giudice amministrativo e che, per gli atti aventi forza e valore di legge, è riservata alla Corte costituzionale.
Queste prime conclusioni possono reputarsi pacifiche per il trattamento dei dati comuni o ordinari.
E’ facile immaginare che il problema rimanga aperto per i dati cd particolari, o perlomeno per alcuni di essi. La soluzione non appare scontata.
Se è vero infatti che le modifiche introdotte non hanno toccato l’art 2 – sexies, che per motivi d’interesse pubblico ammette il trattamento solo nei casi, indicati dal secondo comma dell’articolo medesimo, in cui l’interesse pubblico può essere considerato “rilevante”; è anche vero che il nuovo comma 1 – bis è stato inserito all’interno dell’art 2 – ter, che reca i principi generali della disciplina del trattamento dei dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico o connesso all’esercizio dei pubblici poteri, con particolare riferimento alla relativa base giuridica; e che l’art. 2 sexies consente il trattamento di categorie particolari di dati per motivi d’interesse pubblico, indicando al suo secondo comma quali motivi di pubblico interesse possano ritenersi rilevanti a tal fine. Non vi sarebbe quindi ragione per ritenere che, almeno nelle ipotesi contemplate dal citato secondo comma, non debba valere la regola generale dettata per il trattamento dei dati per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri. Lo stesso art. 9 del GDPR, d’altronde, dopo aver posto il divieto di trattamento dei dati personali particolari al primo comma, al secondo comma precisa che il divieto non si applica (e che quindi il trattamento può ritenersi lecito), tra gli altri, nel caso in cui il trattamento “è necessario per motivi d’interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri”.
Sarebbe pertanto opportuno che il permanere di questa ulteriore incertezza interpretativa venisse sciolto con apposita disposizione in sede di conversione del decreto - legge, precisando se e a quali ipotesi, tra quelle contemplate dal secondo comma dell’art 2 – sexies, si applica il comma 1 bis adesso introdotto dal d.l. 139/2021.
[i] F. Francario, Protezione dati personali e pubblica amministrazione in Giustizia Insieme, 1 settembre 2021; v. anche Protezione dei dati personali e PA. Intervista al Prof. Avv. Fabio Francario, in Diritto Mercato Tecnologia, 3 settembre 2021.
[ii] Ciò implica innanzi tutto che, nel sistema disegnato dal DPGR, porta a leggere la norma primaria che attribuisce il potere di trattare i dati personali per finalità di pubblico interesse, recata dall’art. 6, primo comma lett. e) del Reg. UE 2016/679, venga letta come mera norma di rinvio a ulteriori disposizioni che precisino la specifica finalità che il trattamento deve perseguire. A seguire il medesimo canone interpretativo, si dovrebbe allora arrivare ad analoga conclusione anche nel caso in cui il GDPR ritiene il trattamento lecito quando “è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte”; nel senso che, così come non si ritiene di per sé sufficiente l’attribuzione legislativa alla pubblica amministrazione del potere di curare un dato pubblico interesse, non potrebbe ritenersi sufficiente nemmeno il solo fatto dell’esistenza del contratto tra soggetti privati, imponendosi anche in tal caso, come necessaria, l’espressa previsione della possibilità di trattamento per quella determinata finalità in seno alla regolamentazione contrattuale. Il sistema disegnato dal GDPR contempla infatti parimenti, come possibili basi giuridiche del trattamento, tanto l’ipotesi in cui esso “è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte”, quanto quella in cui in cui “il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. In entrambi i casi bisognerebbe pertanto chiarire se la norma abbia o meno carattere immediatamente precettivo. Applicata nei confronti del solo trattamento in ambito pubblico, tale lettura produce peraltro il paradosso di raddoppiare l’operatività del principio di legalità nei confronti della pubblica amministrazione. Il che sarebbe un po’ come dire che l’attribuzione del potere di espropriazione per finalità di pubblica utilità non consentirebbe all’amministrazione di valutare essa la sussistenza della pubblica utilità, ma richiederebbe una ulteriore norma che consenta di sacrificare il diritto di proprietà per la finalità specificata da quest’ultima. Ovvero, per fare un altro esempio, che l’attribuzione del potere di regolare gli usi delle strade non consentirebbe all’Amministrazione di provvedere con atti amministrativi alla collocazione di divieti di transito, di sosta o di accesso se non vi sia una ulteriore norma che predetermini le specifiche finalità per le quali può essere consentita la limitazione della libertà di circolazione.
[iii] Esemplare sotto questo profilo è la disciplina di un istituto assolutamente centrale nel sistema disegnato per la tutela del diritto al trattamento dei dati personali, qual è il diritto all’oblio. L’art 17 del GDPR si preoccupa di precisare che il diritto dell’interessato, di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali quando questi “non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o trattati”, non sussiste nei casi in cui il trattamento è necessario “per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. Nel già sopra citato scritto Protezione dati personali e pubblica amministrazione si è precisato di ritenere comunque inaccettabili, sul piano valoriale più generalmente considerato, le interpretazioni che avrebbero l’effetto oggettivo di ridurre l’evoluzione della disciplina in tema di privacy ad una patrimonializzazione del diritto alla riservatezza, finalizzata a consentirne l’uso da parte dei big data ed a conservare e riposizionare il nucleo duro della riservatezza solo laddove ve ne sarebbe minor ragione, e cioè nell’ambito pubblico, nel quale la regola è quella della trasparenza e della conoscibilità.
[iv] Così come lo è, soprattutto rispetto a quella del consenso, come si è già ricordato sub nota 2, l’ipotesi del trattamento “necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte”.
[v] "Art. 144-bis (Revenge porn). - 1. Chiunque, compresi i minori ultraquattordicenni, abbia fondato motivo di ritenere che immagini o video a contenuto sessualmente esplicito che lo riguardano, destinati a rimanere privati, possano essere oggetto di invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione senza il suo consenso in violazione dell'art. 612-ter del codice penale, può rivolgersi, mediante segnalazione o reclamo, al Garante, il quale, entro quarantotto ore dal ricevimento della richiesta, provvede ai sensi dell'articolo 58 del regolamento (UE) 2016/679 e degli articoli 143 e 144.
2. Quando le immagini o i video riguardano minori, la richiesta al Garante può essere effettuata anche dai genitori o dagli esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela.
3. Per le finalità di cui al comma 1, l'invio al Garante di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito riguardanti soggetti terzi, effettuato dall'interessato, non integra il reato di cui all'articolo 612-ter del codice penale."
[vi] Come meglio precisa il comma 1 – bis che viene inserito nell’art 2 – ter del d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (Codice della protezione dei dati personali), le previsioni concernono “Il trattamento dei dati personali da parte di un'amministrazione pubblica di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi comprese le Autorità indipendenti e le amministrazioni inserite nell'elenco di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonchè da parte di una società a controllo pubblico statale di cui all'articolo 16 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175,con esclusione per le società pubbliche dei trattamenti correlati ad attività svolte in regime di libero mercato”.
La riemissione del provvedimento amministrativo
di Carlo Emanuele Gallo
Sommario: 1. La ragione della disposizione. – 2. Le criticità del testo normativo. – 3. Proposte per una corretta interpretazione.
1. La ragione della disposizione.
L’individuazione degli effetti della sentenza di annullamento del giudice amministrativo in relazione, da un lato, alla pretesa vantata dal ricorrente risultato vittorioso e, dall’altro, alle esigenze di continuità dell’azione amministrativa, anche tenuto conto degli interessi dei controinteressati, ha provocato da sempre riflessioni in letteratura ed interventi del giudice amministrativo. Rispondono a questa esigenza sia i tentativi di delimitare gli effetti temporali delle pronunzie di annullamento sia le previsioni normative che consentono di provvedere, prima dell’annullamento, vuoi alla convalida dell’atto annullabile vuoi alla individuazione di ostacoli sostanziali alla pronunzia di annullamento.
L’orientamento più risalente anche in giurisprudenza era nel senso che l’annullamento di un provvedimento per vizi del procedimento doveva comportare la ripresa del procedimento a partire dal primo atto annullato o se si vuole dall’ultimo atto ritenuto legittimo; l’annullamento aveva così un effetto da macchina del tempo, cioè un effetto retroattivo anche all’interno del procedimento, che dev’essere necessariamente ripreso dal primo atto annullato o dall’ultimo atto valido e ricondotto innanzi nel rispetto delle regole che ne garantiscono la legittimità. Corollario di questa imposizione era che tutto quanto non era pregiudicato dall’annullamento giurisdizionale doveva essere mantenuto integro, salva la possibilità di intervento in via di autotutela ma, ovviamente, sulla base dei presupposti specifici di esercizio di questo potere. Questa impostazione è stata nel tempo superata dalla giurisprudenza a fronte di specifiche esigenze (rimanendo peraltro inalterata nella gran generalità dei casi)[1]: e così, per esempio, in materia di procedimenti per l’aggiudicazione dei contratti della pubblica amministrazione si è detto, ma con orientamento non consolidato, che, una volta conosciute le offerte da parte della commissione aggiudicatrice, l’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo oppure in autotutela non consentiva un rinnovato esame delle medesime da parte della stessa commissione, essendo venuta meno ormai la segretezza delle offerte. Occorreva perciò procedere con una commissione rinnovata[2]. Più di recente, con riferimento alle procedure concorsuali di assunzione, e segnatamente con riferimento alle procedure relative all’assunzione di professori universitari o alla acquisizione dell’abilitazione scientifica nazionale, la giurisprudenza ha spesso affermato che l’illegittimità nel contenuto del giudizio della commissione esaminatrice comporta la necessità che la nuova valutazione del candidato sia effettuata da un’altra commissione per garantire l’imparzialità di valutazione non più assicurata dal fatto che la commissione aveva già espresso in precedenza il suo giudizio, se non addirittura la rinnovazione della procedura[3].
Queste deviazioni dall’impostazione più classica del procedimento, inteso come sequenza di atti e operazioni articolata in fasi logicamente preordinate e l’una all’altra susseguenti, che non poteva consentire degli effetti rinnovatori dell’annullamento che non tenessero conto di questa sequenza, possono essere giustificate sulla base della considerazione che il procedimento è anche il luogo nel quale si contemperano gli interessi, contemperamento rispetto al quale è servente la sequenza articolata in fasi, cosicché se il contemperamento è meglio raggiungibile attraverso un’articolazione rinnovata anche di fasi diverse e con cadenze temporali nuove tutto ciò può essere accettato purché sia espressione di un prudente apprezzamento discrezionale. In altre parole, anche la sequenza procedimentale risponde a quella valutazione contemperata delle varie esigenze in gioco che è tipica dell’attività dell’amministrazione allorché non debba semplicemente porre in essere degli adempimenti tassativamente prescritti dal legislatore in modo vincolato.
Si inserisce in quest’ottica l’art. 21 decies della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 12, primo comma, lett. 1 bis del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito in legge 11 settembre 2020, n. 120 (la disposizione è stata inserita in sede di conversione, durante l’esame in Senato), perché consente all’amministrazione, letteralmente dopo l’annullamento giurisdizionale passato in giudicato di un suo provvedimento, di intervenire adottando nuovamente gli atti dai quali discende l’illegittimità del provvedimento finale, con la salvezza di tutto quanto altrimenti effettuato nel procedimento e cioè attraverso un intervento che, può dirsi, sostituisce soltanto le tesserine del mosaico procedimentale senza richiedere una rinnovazione integrale del percorso.
Il fatto è, come si vedrà, però, che, al solito, la disposizione non è così chiara e perciò insorgono problemi interpretativi che richiedono un’attenta considerazione.
2. Le criticità del testo normativo.
Come si verifica assai spesso soprattutto nella normazione più recente, le criticità del testo normativo sono numerose.
La prima è la stessa terminologia utilizzata, poiché l’espressione “riemissione” riferita a un provvedimento non corrisponde alla terminologia classica e più rigorosa, che allorché fa riferimento a provvedimenti monocratici utilizza il termine emanazione (consacrato anche a livello costituzionale dall’art. 87 Cost. con riferimento al Presidente della Repubblica) e per quanto concerne i provvedimenti degli organi collegiali utilizza il termine approvazione o deliberazione[4]. Emissione è una espressione atecnica che probabilmente è stata utilizzata dal legislatore del 2020, a voler pensare bene, per ricomprendere nella medesima appunto tutti i tipi di provvedimenti, senza impegnarsi in distinzioni terminologiche. In quest’ottica la scelta può essere accettata.
La disposizione, poi, è formulata in termini così articolati e complessi da renderne difficile la stessa lettura: si tratta, infatti, di una possibilità che letteralmente è ammessa soltanto nel caso di annullamento di un provvedimento finale in virtù di una sentenza passata in giudicato, in conseguenza di vizi inerenti ad uno a più atti emessi nel corso di un procedimento e soltanto nel caso di un procedimento di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale. Nella determinazione dei presupposti e dei limiti applicativi della riemissione vi è l’eco delle discussioni che sono state effettuate in passato in letteratura e in giurisprudenza in ordine ai limiti della convalida e alla possibilità di rinnovazione del procedimento con riferimento alla tipologia dei provvedimenti[5]. Si è detto infatti da taluno che la convalida non era possibile nei confronti di provvedimenti già annullati[6] ma soltanto di provvedimenti ancora esistenti ed annullabili e che la convalida non era possibile con riferimento a tutti i vizi ma soltanto ai vizi endoprocedimentali[7]; si è detto anche che l’esercizio del potere di rinnovazione è conseguente alla necessità di riconoscere la pretesa avanzata dal soggetto ricorrente, cosicché è possibile con riferimento a quei provvedimenti che siano adottati ad istanza di parte.
In realtà, così come è scritta, la nuova disposizione sembra creare molti problemi forse più di quanti non ne risolva: sembra infatti da un lato ammettere la convalida anche con riferimento ai provvedimenti annullati, ma dall’altro limitarla a delle ipotesi applicative molto contenute, e cioè al fatto che si tratti di provvedimenti di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale e non di altri provvedimenti anche ampliativi e per di più soltanto con riferimento a vizi esclusivamente procedimentali.
La scelta effettuata da un lato costituisce pertanto una specificazione di altre disposizioni inserite nella legge n. 241 del 1990 che non sono richiamate nel nuovo art. 21 decies, con inevitabili problemi di coordinamento[8], e dall’altro introduce delle distinzioni che sono forse giustificabili ma che comunque costituiscono possibili ipotesi di disparità di trattamento o di illogicità della disposizione.
Se l’esigenza è quella di salvaguardare l’attività amministrativa già svolta e di perseguire il pubblico interesse nel rispetto delle esigenze dei cittadini coinvolti è preferibile effettuare delle scelte di sistema chiare, che abbiano la generalità massima predicabile.
Alle medesime critiche soggiace il modulo procedimentale previsto dalla disposizione in esame, che ha una tempistica generale riconducibile all’art. 2 della legge n. 241 del 1990 laddove richiama il termine di trenta giorni per l’emanazione del provvedimento finale ma ha delle tempistiche diverse laddove individua il termine assegnato all’amministrazione competente per l’adozione del provvedimento finale, che è stabilito in quindici giorni, termine che di per sé non trova riferimento nella legge n. 241 del 1990 se non in modo indiretto in relazione all’intervento sostitutivo disciplinato all’art. 2, comma 9 ter, nel testo inserito dal decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, sul punto non modificato dal d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito in legge 29 luglio 2021, n. 108.
L’introduzione di termini sempre nuovi e diversi non può che aumentare la complessità del sistema, che negli ultimi tempi sta crescendo a dismisura come è già stato sottolineato con riferimento al settore processuale[9].
3. Proposte per una corretta interpretazione.
Riscontrata la finalità della disposizione introdotta all’art. 21 decies, le regole interpretative da seguire per risolvere le difficoltà e le antinomie risultano evidenti. Dovendosi far prevalere la ragion d’essere della disposizione rispetto alle espressioni letterali, ne discende innanzitutto che non vi è ragione di limitare la possibilità di riemissione del provvedimento soltanto all’ipotesi di annullamento in sede giurisdizionale con pronunzia passata in giudicato; la possibilità di riemissione del provvedimento, infatti, è una possibilità che sussiste anche dopo una pronunzia di annullamento non passata in giudicato ed anche dopo una pronunzia di autotutela della stessa pubblica amministrazione o anche nell’ipotesi in cui l’amministrazione intenda adottare un provvedimento di convalida prima dell’annullamento del provvedimento.
Per quanto concerne la sentenza non passata in giudicato, la conclusione raggiunta è giustificata dalla considerazione che la sentenza non passata in giudicato, a’ sensi del Codice del processo amministrativo, ha comunque una immediata efficacia caducante, cosicché la medesima pone all’amministrazione il problema di un provvedimento che non può più essere eseguito e che può richiedere la necessità di un immediato intervento per ovviare alla stasi dell’attività amministrativa ovvero per ovviare alla interruzione dell’attività del privato destinatario del provvedimento per il medesimo favorevole. La pronunzia del giudice, ancorché non passata in giudicato, legittima un intervento dell’amministrazione, che può far venire meno l’interesse a ricorrere o la materia del contendere, e che dev’essere ovviamente giustificato sulla base delle esigenze che l’amministrazione ritiene di esporre per legittimare il suo intervento. Attendere il passaggio in giudicato della sentenza può avere un senso soltanto se l’amministrazione ritiene di dovere impugnare la sentenza sfavorevole o se la situazione è talmente incerta che l’adeguamento alla pronunzia del giudice non ancora incontestabile può apparire imprudente o inopportuno.
La riemissione del provvedimento è da ritenere possibile anche nel caso in cui il provvedimento originario sia stato eliminato in sede di autotutela, poiché il provvedimento di autotutela, ferma restando la provenienza dell’autorità amministrativa e la differenza di presupposti, ha lo stesso effetto sul provvedimento eliminato della sentenza del giudice amministrativo: anche in questo caso, l’amministrazione dovrà valutare l’opportunità di intervenire salvaguardando il provvedimento finale nonostante i vizi riscontrati. Va considerato peraltro che l’intervento in sede di riemissione del provvedimento, che è sostanzialmente un intervento di convalida, sia pure a posteriori rispetto all’annullamento, è legittimato dalla idoneità del provvedimento finale a soddisfare un pubblico interesse, idoneità che di per sé non è eliminata dal fatto che si siano verificati dei vizi nel corso del procedimento e che detti vizi siano stati considerati esistenti e sufficienti per l’annullamento. Occorrerà infatti considerare se rimangano o meno corrette le valutazioni discrezionali che l’amministrazione ha compiuto allorché ha scelto quel tipo di soluzione per il problema amministrativo che aveva di fronte.
Non vi è poi ragione per escludere che questa speciale possibilità di convalida possa essere adottata anche con riferimento a provvedimenti non ancora annullati, poiché quello che può essere effettuato una volta che l’annullamento sia stato pronunciato a maggior ragione può essere effettuato allorché l’annullamento non vi è ancora, in quanto in questo modo si evita l’effetto caducatorio, che comporta l’interruzione della esecuzione del provvedimento e perciò dell’attività pubblica e privata connessa, e si raggiunge la soluzione del problema di legittimità. Le valutazioni che l’amministrazione deve compiere in questa fattispecie non sono diverse da quelle occorrenti nelle altre in punto pubblico interesse mentre ovviamente lo sono per quanto concerne l’accertamento dell’esistenza della illegittimità, che l’amministrazione deve effettuare autonomamente, come in tutte le ipotesi di autotutela, non potendo fondarsi su una pronunzia del giudice o su un precedente provvedimento di annullamento d’ufficio.
Non è ragionevole ritenere che un potere di questo tipo possa essere esercitato soltanto con riferimento ai provvedimenti di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale. Va premesso che non vi è una particolare somiglianza tra i provvedimenti di autorizzazione e le valutazioni di impatto ambientale: i provvedimenti di autorizzazione sono normalmente espressione di una vera e propria discrezionalità amministrativa, ancorché in parte molto di frequente predeterminata da atti di programmazione o di pianificazione mentre la valutazione di impatto ambientale è normalmente espressione di discrezionalità tecnica, cioè connotata da considerazioni rispetto alle quali le scelte discrezionali in senso proprio sono assenti. Volendo ricondurre la norma alla ragionevolezza, dovrebbe dirsi perciò che la medesima è applicabile a tutte le ipotesi in cui il potere esercitato è un potere amministrativo discrezionale o un potere connotato da discrezionalità tecnica. Se è così, però, evidentemente occorre far riferimento a categorie di carattere generale diverse, per evitare che vi possano essere disparità di trattamento ingiustificate: non si comprende perché sia soltanto l’ambito della discrezionalità a legittimare o meno la riemissione del provvedimento, quasi che vi possa essere una differenza per esempio nella riadozione di una concessione rispetto ad un’autorizzazione o nella riadozione di un provvedimento di valutazione di impatto ambientale rispetto a un provvedimento vincolato; non si comprende perché questa possibilità sussista soltanto con riferimento a determinati provvedimenti ampliativi della sfera del privato e non a tutti o perché non valga anche per tutti i tipi di provvedimento, dal momento che le regole dell’azione amministrativa sono uniformi.
Esigenze di parità di trattamento e di armonia di sistema impongono a questo punto di dire che con riferimento ad ogni tipo di provvedimento adottato al termine di un procedimento può essere utilizzato l’istituto della riemissione, anche perché nella legge n. 241 del 1990 dovrebbero essere disciplinati istituti di carattere generale. Del resto, in giurisprudenza, una conclusione molto simile è stata raggiunta con riferimento all’art. 21 octies e dai poteri amministrativi ivi previsti, oltre che ai poteri attribuiti al giudice amministrativo, per evitare che disposizioni specifiche ed incisive come quelle ivi richiamate possano essere riferite soltanto all’uno o all’altro tipo di provvedimento ingenerando incertezze e disparità non giustificabili.
Il problema che ancora si pone è che cosa significhi l’espressione contenuta nell’art. 21 decies circa i “vizi inerenti ad atti endoprocedimentali”: una lettura restrittiva porterebbe a ritenere che si debba trattare soltanto di vizi di violazione di legge, e cioè di quei vizi di carattere giuridico formale che possono colpire gli atti endoprocedimentali. Una conclusione di questo genere però sarebbe scarsamente giustificabile tenuto conto delle ipotesi alle quali letteralmente l’art. 21 decies fa riferimento, e cioè sia alle autorizzazioni che soprattutto alle valutazioni di impatto ambientale. Con riferimento alle prime, infatti, i vizi che possono verificarsi sono molto spesso più vizi di sostanza, e cioè di interpretazione delle norme legislative, regolamentari o di pianificazioni che vizi meramente di procedura e rispetto alle seconde il riferimento più evidente è a vizi relativi all’intervento di organi tecnici e consultivi o ad accertamenti tecnici, piuttosto che a semplici problemi di conduzione formale del procedimento. Considerazioni in termini di discrezionalità amministrativa o di discrezionalità tecnica sono quelle che di solito conducono alla eliminazione, mediante annullamento, di autorizzazioni o di valutazioni di impatto ambientale: se è possibile una riemissione del provvedimento in questi casi ciò significa che il riferimento non è a vizi meramente giuridico formali ma viceversa a vizi sostanziali. Applicando questo criterio interpretativo ne discende che in generale è ritenuta possibile dal legislatore che ha dettato l’art. 21 decies la riemanazione del provvedimento con l’eliminazione dei vizi anche sostanziali che si sono verificati nel corso del procedimento, sempre che ovviamente detti vizi siano eliminabili a posteriori.
Vi saranno senz’altro dei vizi sostanziali ineliminabili, mentre ve ne saranno degli altri che possono essere superati. Fra i primi, evidentemente, vi sarà il travisamento dei fatti, mentre invece tra i secondi potrebbe esservi l’erronea valutazione dei presupposti se si tratta soltanto di un’erronea valutazione di presupposti incontestabili perché correttamente individuati[10].
La disposizione così interpretata è per l’appunto una disposizione di carattere generale[11], che consente all’amministrazione di porre rimedio a ogni tipo di vizio nel quale sia incorsa durante il procedimento, tanto prima che dopo la sentenza di annullamento del giudice, con l’effetto vantaggioso di evitare di dovere ripercorrere tutto un procedimento anche in quelle tappe che non hanno creato alcun problema né sono affette da alcun vizio e che sono perciò scontate, e la ripetizione delle quali si rivela soltanto una ingiustificata perdita di tempo. L’amministrazione dovrà rinnovare, può dirsi in modo chirurgico, soltanto quegli atti o quelle operazioni nelle quali è incorsa in un vizio. Questi atti rinnovati si inseriranno nel procedimento già celebrato, colmandone le deficienze e le lacune o sanandone in senso proprio i vizi cioè correggendo gli aspetti giuridicamente scorretti, con effetto retroattivo[12]. Il vantaggio dal punto di vista del pubblico interesse è evidente senza che vi sia un danno per cittadino ricorrente vittorioso o per il cittadino beneficiario in senso proprio o anche per i controinteressati, poiché tutti costoro hanno interesse ad un corretto esercizio dell’attività amministrativa non ad un annullamento purchessia in relazione alle conseguenze di fatto o impreviste o eventuali dell’annullamento stesso.
Le considerazioni che si sono svolte conducono a valutare se fra gli atti che possano essere acquisiti successivamente non vi possano essere anche i pareri: come è noto, con riferimento ai pareri l’orientamento della giurisprudenza amministrativa è sempre stato molto restrittivo e anche l’Adunanza plenaria ha ribadito che addirittura l’assenza di un parere obbligatorio significa non esercizio del potere[13]. Secondo quest’orientamento, perciò, l’art. 21 decies non sarebbe utilizzabile nel caso in cui il parere non sia stato acquisito. Va osservato, però che, ferme le criticità della pronunzia dell’Adunanza plenaria con riferimento al problema dell’assorbimento dei motivi in relazione alla mancata acquisizione di un parere, la dizione ampia dell’art. 21 decies non consente di escludere la possibilità di acquisire un parere ora per allora: il parere infatti è un atto procedimentale[14]. In questo caso, però, è ancor più evidente che l’intervento ora per allora del parere che dovrà essere richiesto e non è stato richiesto non è detto affatto che possa condurre alla convalida dell’atto originariamente illegittimo e cioè alla sua riemissione. Se il parere è sfavorevole, non è possibile il suo inserimento nel procedimento perché occorrerà a questo punto che il procedimento successivo al parere venga celebrato tenendo conto del medesimo, il che può comportare un esito finale diverso e che comunque comporta l’adozione di un atto che non è identico all’atto originariamente adottato. Ma si tratta di una conseguenza che può verificarsi con riferimento a tutti i casi in cui viene ipotizzata la riemissione: non è mai detto che, individuati dei vizi procedimentali, il provvedimento finale possa essere lo stesso che è stato adottato in presenza dei vizi stessi. La possibilità di riemanazione non significa inevitabile riemanazione dello stesso atto.
Il vantaggio che ottiene l’attività amministrativa in presenza di questa norma è quello di evitare un rifacimento di fasi procedimentali in termini di atti e operazioni allorché questo rifacimento appare inutile; nel caso in cui invece il rifacimento sia utile il rifacimento dev’essere inevitabilmente effettuato.
Le opinioni qui esposte sono state parzialmente accolte da una recente sentenza del T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 26 maggio 2021, n. 3496, che ha affermato che la riemissione del provvedimento prevista dall’art. 21 decies, pur letteralmente riferita soltanto all’ipotesi di annullamento dell’atto autorizzatorio in sede giurisdizionale, “può ritenersi espressione di un principio semplificatorio” che consente l’applicazione della disposizione in vista dell’obiettivo della massima efficienza anche nel caso in cui vi sia stato un intervento in sede di autotutela amministrativa, e cioè ogni qualvolta siano stati caducati degli atti endoprocedimentali, con il risultato di ottenere “la salvezza dell’attività antecedente non viziata e la prosecuzione dell’iter teso all’emanazione del provvedimento finale, mediante il rifacimento del solo tratto di azione amministrativa viziato”.
La pronunzia del T.A.R. Campania è stata impugnata avanti il Consiglio di Stato, ma il Consiglio di Stato con l’ordinanza della IV Sezione 16 luglio 2021, n. 3919, pur pronunziandosi in sede cautelare, ha affermato che l’appello, che contrastava questa posizione del T.A.R. Campania, “non appare assistito da sufficiente fumus boni juris in relazione alla puntuale motivazione della sentenza gravata”.
Il che significa che il Consiglio di Stato condivide l’impostazione per dir così estensiva sostenuta dal T.A.R. Campania e che nelle considerazioni sopra svolte l’innovazione legislativa è stata portata ad un corretto completamento argomentativo e funzionale, che ne dimostra l’utilità.
[1] Che la rinnovazione debba interessare soltanto le fasi viziate è ribadito da T.A.R. Veneto, Sez. I, 1° aprile 2019, n. 389, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 748 ed altre conformi.
[2] Come è noto, quest’orientamento ha dato luogo ad una reazione del legislatore, prima nell’art. 84 del Codice dei Contratti del 2006, poi nell’art. 77 del Codice dei Contratti del 2016, che hanno imposto la riconvocazione della medesima commissione, ai quali si è adeguata l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 26 luglio 2012, n. 30: in tema, R. COLAGRANDE – C. FANASCA, Commissioni di gara, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, vol. III, Milano, Giuffrè, 2019, p. 418 ss.. Ma rimangono contrasti in giurisprudenza: cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 7 giugno 2021, n. 1861, Cons. Stato, Sez. III, 7 aprile 2021, n. 2819.
[3] Per tutte, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 5 aprile 2019, n. 4500; 5 ottobre 2017, n. 10064.
[4] Di riemissione si parla a proposito dei titoli di spesa: C. Conti, Sez. Controllo, 5 luglio 1996, n. 97.
[5] Un’accurata trattazione è svolta da A. G. PIETROSANTI, La convalida del provvedimento amministrativo, in Principi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M. A. SANDULLI, Milano, Giuffè, 2020, p. 501 ss..
[6] T.A.R. Veneto, Sez. II, 24 luglio 2017, n. 735; F. COSTANTINO, Commento all’art. 21 nonies, in L’azione amministrativa, a cura di A. ROMANO, Torino, Giappichelli, 2016, p. 899 e 905.
[7] C. DEODATO, Commento all’art. 21 nonies, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M. A. SNDULLI, Milano, Giuffrè, 2017, p. 1200 ss.
[8] Si consideri, ad esempio, che R. VILLATA – M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino, Giappichelli, 2006, p. 618 – 619 segnalano che dopo l’art. 21 octies la convalida per gli atti vincolati non è più necessaria.
[9] In questi termini, con riferimento al nuovo art. 72 bis del Codice del processo amministrativo, R. DE NICTOLIS, Tra (dis)proporzionalità e (in)efficienza, un nuovo giudizio immediato (art. 72 bis c.p.a.) per la giustizia amministrativa, in Giustizia insieme, 23 settembre 2021.
[10] Questo è l’approdo della giurisprudenza in tema di convalida, essendo ormai ammessa anche la convalida per difetto di motivazione purché gli elementi della medesima emergano dal procedimento, trattandosi perciò di un vizio del discorso giustificativo e non della funzione: Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385; Sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2001; T.A.R. Piemonte, Sez. II, 4 febbraio 2021, n. 122; Cons. Stato, Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6377.
[11] Come la convalida è un istituto di carattere generale: Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385.
[12] Così, F. Costantino, op. cit., p. 902 e, in giurisprudenza, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 1° settembre 2020, n. 3716.
[13] Il riferimento è alla sentenza 22 aprile 2015, n. 5.
[14] Ammettono l’acquisizione in sanatoria di un parere sia pure in ipotesi specifiche R. VILLATA – M. RAMAJOLI, op. cit., p. 618 – 619.
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