ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
In ricordo di Onofrio Fanelli. Ci sono incontri nelle nostre vite che lasciano il segno.
di Marzia Minutillo Turtur
Ci sono incontri nelle nostre vite che lasciano il segno.
Per me è certamente stato così, da uditrice, nel corso che si tenne presso il CED, che allora si trovava nella sede della Balduina.
Eravamo emozionati, ma molto motivati, ed entrammo in contatto con il Presidente Fanelli che ci introdusse al progetto e all’uso di Italgiureweb.
Fu una bellissima esperienza e toccammo con mano la portata eccezionale dell’idea e la “visione” che era dietro la creazione di una banca dati interattiva, dinamica e risolutiva, dopo anni di faticose ricerche sulle riviste cartacee (che mantengono, sia ovvio, il loro insuperato fascino e la loro indiscussa utilità per l’approfondimento).
Credo che debba essere sottolineato il passaggio epocale relativo alla famosa ricerca in “and” o “or”, così come la dimensione di una Corte di cassazione che finalmente poteva essere nota e conosciuta ai più in una sua visione d’insieme e sistematica, con una portata espansiva eccezionale della nomofilachia.
La passione che ci è stata trasmessa nell’illustrare il progetto, la finalità, le funzionalità è qualcosa che è rimasto dentro di me, che ha lasciato una traccia indelebile in giovani entusiasti davanti ai vecchi pc con lo schermo scuro, il cursore lampeggiante e le lettere verdi.
Non voglio dimenticare le altre notevolissime qualità che sono note a tutti, giurista eccelso, umanità prorompente, produzione scientifica amplissima, tuttavia un dato per me rimane insuperato: la passione e il senso della funzione sociale che questa esperienza ci ha trasmesso.
Il sentirsi parte, con fortissima coscienza morale e senso del dovere, di un gruppo di persone poste a servizio della comunità tutta e dello Stato.
Un modo di essere magistrato inserito nella società e nel suo continuo avanzare.
La vivacità della Corte di cassazione e la sua continua evoluzione interpretativa, la forza dei giudici di merito e la possibilità di confrontarsi con i diversi orientamenti nomofilattici grazie al CED e ad Italgiure, trovano la loro origine nel progetto visionario che abbiamo visto crescere ed evolversi nel tempo.
Nell’ultimo giorno di corso ricorreva l’anniversario della strage di Capaci…
Sui nostri pc era presente un ricordo degli uomini e donne che avevano perso la loro vita per lo Stato.
Ci siamo sentiti parte dello Stato, abbiamo apprezzato lo stimolo proveniente da persone così motivate, la nostra vita è stata segnata dal senso di appartenenza e dal desiderio di conoscenza e studio.
Salvatore Veca: società giusta ed etica pubblica per una convivenza possibile
di Baldassare Pastore
Salvatore Veca (1943-2021) è stato un importante filosofo che, nel corso della sua intensa attività, ha sempre coniugato, con rigore analitico e passione argomentativa, l’impegno scientifico e quello civile, connesso alla divulgazione e alla presa di posizione nel contesto del dibattito più marcatamente politico.
Laureatosi nel 1966 con una tesi in Filosofia teoretica nell’Università statale di Milano sotto la guida di Enzo Paci e Ludovico Geymonat, docente in vari Atenei italiani, dal 1990 ha insegnato, come professore ordinario, Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia (di cui è stato, dal 1999 al 2005, preside) e successivamente, sempre a Pavia, presso L’Istituto Universitario di Studi Superiori. Ha inoltre svolto una significativa attività di consulenza e di direzione editoriale, fra l’altro come presidente della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e come componente dei comitati scientifici o delle direzioni di alcune tra le più prestigiose riviste di filosofia e di teoria politica e sociale.
Veca ha avuto il merito di introdurre nel dibattito italiano la teoria della giustizia di John Rawls (La società giusta. Argomenti per il contrattualismo, Milano 1982; Questioni di giustizia, Parma 1985), facendosi anche promotore della traduzione di A Theory of Justice (1971), pubblicata nel 1982.
Il libro di Rawls era un’opera imponente e complessa, quasi del tutto estranea alle maggiori tradizioni di ricerca in filosofia politica e sociale allora prevalenti in Italia, così come nel resto dell’Europa continentale. La convinzione che muove Veca è che la teoria della giustizia come equità rappresenti uno dei più rilevanti contributi che la filosofia contemporanea possa offrire per orientarsi nella controversia politica e nella discussione pubblica a proposito delle istituzioni, delle scelte collettive e delle pratiche sociali di una società liberal-democratica. La teoria rawlsiana – secondo Veca – offriva ragioni e argomenti per valutare l’ambito della politica alla luce di una concezione della giustizia sociale coerente con la prospettiva di un socialismo liberale, superando la stanca ripetizione di discorsi ideologici in cui si consumava il declino della vulgata marxista. Le idee centrali della giustizia come equità potevano funzionare come bussola per una politica riformista che aveva il proprio nucleo normativo nell’eguaglianza democratica centrata sui diritti di cittadinanza, all’interno della cornice dello Stato costituzionale.
La recezione delle tesi di Rawls come termine di confronto ricorrente, pur soggetto a critica e revisione, ha rappresentato un tratto peculiare della riflessione di Salvatore Veca che, comunque, con il passare degli anni, si è sempre più configurata come il giornale di bordo di una esplorazione in un gran numero di luoghi.
Non è possibile, in questa sede, dar conto in maniera esauriente dello svolgimento di un percorso di studio e di una varia e ampia produzione scientifica caratterizzati dalla curiosità intellettuale e dall’apertura verso territori di confine e discipline diverse, dove sono affrontate questioni riguardanti la teoria della conoscenza e la logica (Fondazione e modalità in Kant, Milano 1969), il pensiero di Marx in relazione alle scienze economiche, sociali e politiche (Marx e la critica dell'economia politica, Milano 1973; Saggio sul programma scientifico di Marx, Milano 1977), la teoria normativa della politica (Le mosse della ragione. Scritti di filosofia e politica, Milano 1980), il pluralismo (Una filosofia pubblica, Milano 1986; Etica e politica. I dilemmi del pluralismo: democrazia reale e democrazia possibile, Milano 1989), la cittadinanza (Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull'idea di emancipazione, Milano 1990), la verità, le forme della convivenza giusta, l’identità (Dell'incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Milano 1997), la lealtà civile (Della lealtà civile. Saggi e messaggi nella bottiglia, Milano 1998), l’interpretazione e la ricostruzione della teoria politica, principalmente contemporanea (La filosofia politica, Roma-Bari 1998), la natura dell’attività filosofica e l’importanza delle emozioni (La penultima parola e altri enigmi. Questioni di filosofia, Roma-Bari 2001), la giustizia senza frontiere (La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull'idea di giustizia, Milano 2002), il rapporto tra filosofia e pratica politica, il fondamento dei diritti umani, l’immagine della scienza e della tecnica, il principio di responsabilità (La priorità del male e l'offerta filosofica, Milano 2005), il paradigma dell’incompletezza in connessione con quello dell’incertezza e con il tema dell’immaginazione filosofica intesa come connubio tra esplorazione di connessioni e coltivazione di memorie (L'idea di incompletezza. Quattro lezioni, Milano 2011; L'immaginazione filosofica e altri saggi, Milano 2012), la laicità delle istituzioni e delle scelte sociali (Un'idea di laicità, Bologna 2013), i rapporti tra capitalismo e democrazia rappresentativa (Non c'è alternativa. Falso!, Roma-Bari 2014), il valore della democrazia e della libertà democratica, nonché la relazione tra diritti e giustizia ambientale come giustizia sociale (Libertà, Roma 2019; Il mosaico della libertà. Perché la democrazia vale, Milano 2021).
La ricerca di Veca ha riguardato temi che inevitabilmente si incrociano con il diritto, facendo riferimento all’idea di una società giusta, ben ordinata, intesa come schema equo di cooperazione nel tempo fra persone libere ed eguali, aventi pari dignità. Si tratta di temi riconducibili a ciò che si può designare come “etica pubblica”, volta a fornire criteri orientativi e ad attribuire valore a scelte tra alternative attinenti alla sfera giuridico-politico-sociale delle attività umane. Le tematiche del liberalismo politico e dei diritti umani ben esemplificano questo approccio.
Il liberalismo politico ha a che fare con i regimi di democrazia costituzionale e riguarda – come Veca sottolinea – l’indagine del campo di ciò che politicamente vale, di cui cioè apprezziamo e difendiamo le virtù, denunciandone nel contempo i vizi, le deficienze, le promesse non mantenute o i rischi involutivi di fronte alle sfide di un mondo che cambia. Il liberalismo è intrinsecamente costituzionalismo poiché consiste nella determinazione di regole che vincolano l’autorità politica in modo che il suo esercizio sia rispondente ai diritti dei cittadini e nella individuazione di una varietà di sfere che, in virtù delle idee di autonomia individuale e di pluralismo, caratterizzano la comunità politica. Il liberalismo politico rinvia ad una tesi sulla ragionevolezza della condivisione di un insieme di valori che modellano gli elementi costituzionali essenziali di una società democratica caratterizzata dal fatto del pluralismo e che si propongono come centro focale di un “consenso per intersezione” (l’espressione è mutuata da Rawls, Political Liberalism del 1993; trad. it. 1994) fra prospettive e visioni tra loro divergenti e confliggenti. Il consenso per intersezione verte sui minima moralia della cittadinanza, sottraendoli al calcolo e alle transazioni dei interessi e dei poteri nell’ottica della garanzia dell’eguale valore della libertà per chiunque e dell’eguaglianza delle opportunità per ciascuno. Centrale qui, appunto, è il ruolo dei vincoli costituzionali. Le costituzioni, infatti, incorporano princìpi di giustizia destinati a informare di sé l’intero ordinamento giuridico. “Politico”, in questo ambito di discorso, vuol dire essenzialmente “costituzionale” e rinvia alla domanda relativa alla possibilità di generare e riprodurre stabilmente nel tempo una comune lealtà civile.
Una siffatta condivisione, nell’ottica del liberalismo politico, riguarda soltanto i valori politici fondamentali (i princìpi costituzionali) riconosciuti per una varietà di ragioni e di motivazioni dipendenti da differenti lealtà e identità (memorie, religioni, culture). La presenza di plurali concezioni e visioni può produrre confronti pregnanti se si realizza una convergenza su ciò che è giusto, non su ciò che è bene. La giustizia è la virtù che dovrebbe modellare l’assetto delle istituzioni nel segno della reciprocità e del mutuo rispetto. Al diritto è affidato il compito di realizzare le condizioni di possibilità della vita comune.
I requisiti minimi di una concezione della giustizia per una società ben ordinata toccano l’assetto delle sue istituzioni basilari e riguardano: a) una lista di diritti, libertà e opportunità fondamentali; b) la priorità assegnata a questi diritti e a queste libertà rispetto alle pretese di benessere collettivo; c) la predisposizione di misure che assicurino a tutti i cittadini i mezzi per rendere effettivo il loro uso delle libertà. La specificazione di questi requisiti rinvia ad una società a democrazia costituzionale e implica l’accettazione di quella particolare classe di diritti che sono i diritti umani.
Tali diritti rappresentano condizioni necessarie per la legittimità di un regime politico e configurano il punto stabile, saldo, sottratto a variazioni, di convergenza su che cosa sia vivere vite umane.
Veca affronta questo tema fornendo una giustificazione dei diritti umani centrata sulla messa a fuoco della “priorità del male”. E invero, il riconoscimento dei diritti umani e l’impegno per la loro garanzia e promozione non possono prescindere da una giustificazione-fondazione, che serve a mostrare le buone ragioni che militano a loro favore, connettendosi alla ricerca della loro universalità.
Il linguaggio dei diritti umani, a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, è primariamente una risposta reattiva alla memoria recente dell’orrore e della crudeltà (la Shoah, in proposito, è e resta l’evento paradigmatico), grazie ad un’euristica della paura e ai criteri della prudenza. Il male è la crudeltà di esseri umani nei confronti di altri esseri umani. La priorità del male ci suggerisce la risposta alla domanda sul perché c’è bisogno dei diritti. Tale risposta è dettata dalla storia, non da idee religiose, metafisiche, etiche, e si basa sull’assunto secondo cui i diritti servono, alla fin fine, a ridurre, minimizzare e auspicabilmente azzerare il male che esseri umani infliggono, o possono infliggere, ad altri esseri umani in virtù di rapporti asimmetrici di potere e di forza. I diritti, dunque, funzionano come risorse di protezione contro la sofferenza socialmente evitabile, operando come vincoli normativi sull’esercizio dei poteri con riguardo alle vite delle persone, chiunque siano e ovunque siano. È, questa, una prospettiva che cerca di prendere sul serio le sfide connesse al rapporto tra universalismo dei diritti umani e pluralismo delle culture, nell’ottica della condivisione di un mondo incerto, in continuo mutamento, diviso, caratterizzato dal disaccordo e dalla varietà delle idee del bene umano, ma inevitabilmente interdipendente. Un mondo che sia un posto degno di essere vissuto, o almeno meno intollerabile per chi ci vive; un mondo che sia giusto, o almeno meno ingiusto, e che chiama in causa la responsabilità di chi ha a cuore la qualità della convivenza, nella necessaria consapevolezza dei limiti ma senza rinunciare al senso della possibilità, entro lo spazio che ci è concesso.
Proprio il lavoro filosofico praticato da Salvatore Veca è servito (e continuerà a servirci) per guardare la realtà in modi più perspicui e illuminanti, adottando la visuale della politica possibile, senza arrendersi alle cose così come sono e lottando per le cose così come dovrebbero essere.
Imparzialità dei magistrati, fiducia nella giustizia da parte dell’opinione pubblica, riforme dell’ordinamento giudiziario*
di Gabriella Luccioli
Sommario: 1. Il valore costituzionale dell’imparzialità dei magistrati. - 2. Contenuto e parametri dell’imparzialità. - 3. L’impegno per recuperare la fiducia in un giudice terzo e imparziale. - 4. Conclusioni.
1. Il valore costituzionale dell’imparzialità dei magistrati
Il tema centrale di questa tavola rotonda attiene al principio di imparzialità del magistrato.
Il testo riformato dell’art. 111 Cost. richiama detto principio, disponendo che il processo si deve svolgere dinanzi ad un giudice terzo e imparziale. Come è noto, il riferimento al giudice terzo ed imparziale è stato introdotto in sede di modifica dell’ art. 111 con legge costituzionale n. 2 del 1999, così che un principio sino ad allora non espresso, ma immanente nel sistema, ha acquisito il riconoscimento di requisito fondamentale dell’ attività giurisdizionale: la terzietà e l’indipendenza del giudice costituiscono elementi del diritto ad un processo equo.
Inoltre l’art. 101 Cost., nel sancire la soggezione dei giudici soltanto alla legge, pone come cardine primario dell’assetto costituzionale l’immunità del giudice da ogni forma di condizionamento politico o da influssi esterni di qualsiasi natura, collegando inscindibilmente ad esso i principi, pur concettualmente diversi, di autonomia e indipendenza della magistratura.
Ancora l’art. 97 Cost., che trova applicazione anche nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, impone a tutti gli uffici pubblici un generale dovere di assicurare il buon andamento e l’imparzialità della loro azione.
Il d.lgs. n.109 del 2006 richiama al suo primo articolo l’obbligo per il magistrato di esercitare le proprie funzioni con imparzialità e sanziona disciplinarmente nell’ articolo successivo la violazione di tale dovere primario.
Ed anche l’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e l’art. 6 della CEDU sanciscono che ogni cittadino ha diritto a che la sua causa sia esaminata da un tribunale indipendente e imparziale; infine, l’ art. 47, comma 2, della Carta di Nizza afferma il diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge.
Nella giurisprudenza costituzionale va richiamata la nota sentenza n. 224 del 2009, che nel ritenere infondata la questione di legittimità della norma disciplinare che sanziona non solo l’iscrizione, ma anche la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ha affermato che i magistrati, per dettato costituzionale, debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità.
La successiva sentenza n. 170 del 2018 della stessa Corte ha ricordato che i limiti per i magistrati all’esercizio dei diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino sono giustificati sia dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità che le caratterizzano.
La terzietà ed imparzialità sono garantite nell’ambito del processo civile dall’art. 51 c.p.c., che impone al giudice l’obbligo di astenersi in presenza di situazioni tassativamente previste, potenzialmente idonee ad influire sulla sua oggettività e serenità di giudizio e comunque ad appannarne l’immagine di terzietà.
Altre specifiche previsioni tendono a garantire detti valori di terzietà e imparzialità, come le norme sulle incompatibilità, sull’inamovibilità, sulla limitazione dell’ ambito della responsabilità civile, quelle in materia di competenza, in quanto dirette alla individuazione del giudice naturale. È invero evidente che il diritto a non esser distolti dal giudice naturale precostituito per legge integra un presupposto per l’attuazione dell’imparzialità.
Questa è la cornice sul piano normativo, a livello nazionale e sovranazionale, nella quale il principio di imparzialità si inserisce. E tuttavia è evidente, come ci ricorda nei suoi scritti Nello Rossi, che le molte indicazioni legislative a tutela dell’imparzialità e dell’indipendenza si risolverebbero in formule vuote ed inutili se non fossero assistite dalla precisa responsabilità di ogni magistrato di realizzare il disegno costituzionale divenendo il primo custode della sua imparzialità e della sua indipendenza, non ottemperando ad altri comandi che non siano quelli del legislatore ed ispirando sempre la propria condotta al disinteresse personale.
2. Contenuto e parametri dell’imparzialità
Nel tentare di delineare il contenuto dell’imparzialità, in una prima approssimazione osservo che l’imparzialità non può identificarsi in una posizione di neutrale e asettico distacco dalle vicende sottostanti al processo e dal contesto sociale e culturale in cui esso si inserisce.
Imparzialità non può voler dire lontananza o indifferenza alle vicende politiche e alle questioni di rilevanza sociale che investono il Paese, perché un magistrato non attento al dibattito politico e culturale e disinteressato ai grandi temi dell’equità sociale e della democrazia, ove pure esistesse, non sarebbe un buon magistrato né un buon cittadino. Il giudice non è e non deve essere soltanto un tecnico che fa buon uso del ragionamento sillogistico, ma è un soggetto che svolge un ruolo fondamentale nella società, che ha le sue convinzioni e i suoi orientamenti culturali, i quali non possono non influenzare il suo modo di esercitare la giurisdizione.
Io sono parziale se devo occuparmi in giudizio di una donna ferita nella sua dignità da atti di violenza o di sopraffazione o dare tutela a un minore il cui superiore interesse è stato calpestato, così come sono parziale nel raccogliere il grido di aiuto di un malato terminale che chiede di porre termine ad una vita non più degna di essere vissuta.
Io non mi sento neutrale di fronte a comportamenti lesivi dei diritti delle persone più fragili, ma mi schiero convintamente a loro favore nel ripristinare la legalità violata.
È pertanto necessario intercettare un diverso significato dell’imparzialità, che non neghi, ma rispetti i valori di parità, di solidarietà, di dignità delle persone cui il nostro ordinamento si ispira: insomma imparzialità rispetto alle parti del giudizio, e non rispetto ai valori in gioco.
Imparzialità da identificare nel rifiuto di atteggiamenti partigiani o settari o di ripiegamenti sul pensiero dominante, o anche di esercizio della funzione in termini di lotta al crimine, di missione elitaria di purificazione sociale. Imparzialità intesa come gestione del processo come strumento per il ripristino della legalità violata, nel rispetto delle garanzie difensive e del principio del contraddittorio, non già come un’arena in cui si vince o si è abbattuti.
Vuol dire insomma distacco da ogni valutazione che sia altra dall’accertamento dei fatti e dalla ricerca delle cause che in un determinato contesto li hanno determinati, e quindi dalla individuazione della migliore risposta di giustizia.
Vuol dire anche essere affrancati da contiguità o collegamenti con ogni tipo di potere, sia politico che economico o religioso o di affari o di altra natura, in quanto il cedimento in tali direzioni finisce per rendere il magistrato servile e parziale.
Imparzialità vuol dire inoltre consapevolezza del carattere probabilistico della verità fattuale emergente dagli atti del processo e della opinabilità della verità processuale, nonché disponibilità all’ ascolto ed alla considerazione di tutte le opinioni, anche di quelle più lontane dalle nostre.
Vuol dire quindi, come sempre ci ricorda Luigi Ferrajoli, coltivare l’etica del dubbio, da assumere come aspetto fondamentale della deontologia giudiziaria, come abito mentale da non dismettere mai, rifiutando ogni tipo di arroganza o supponenza nell’attività investigativa ed in quella valutativa e rendendosi sempre pronti a rivedere le proprie opinioni, perché l’errore è sempre possibile.
Vuol dire ancora porsi di fronte all’imputato come di fronte ad un cittadino che forse ha sbagliato, ma che deve considerarsi innocente fino all’accertamento definitivo della sua colpevolezza; vuol dire incanalare le proprie posizioni culturali in un giudizio sereno, capace di valutare con sguardo attento e non prevenuto il contesto in cui la vicenda si inserisce; vuol dire mantenere salda durante il processo la propria determinazione a decidere solo sulla base delle prove legittimamente acquisite, liberandosi da preconcetti che alterano l’oggettività del giudizio.
Vuol dire altresì restare lontani dall’ossessione della carriera e del successo personale, recuperando le acquisizioni e lo spirito del congresso di Gardone, che costituì una fondamentale occasione di riflessione, comune a tutte le correnti, sul ruolo dei giudici nella società e sulla valenza politica dell’attività giudiziaria, impegnando direttamente ogni magistrato nell’ elaborazione di un progetto complessivo di riforma, e smettere di utilizzare l’attività svolta in ambito associativo per trarne indebiti vantaggi professionali.
Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato racconta di un giudice che ha chiesto ad un collega di cedergli una causa ricca di belle questioni, che si presta alla redazione di una sentenza dotta, ottimamente utilizzabile come titolo da far valer nei successivi avanzamenti di carriera, e annota: questo episodio mi ha fatto venire in mente uno tra i più sorprendenti fenomeni della natura, che è quello delle emigrazioni delle anguille: le quali durante il loro ciclo di sviluppo, guidate da misteriosi istinti di amore o di riproduzione, sono spinte in certe stagioni a risalire dal mare il corso dei fiumi in cerca di acque dolci, e in altre a ridiscendere verso il mare in cerca del sale. Anche i giudici hanno i loro istinti stagionali: normalmente prediligono l’acqua dolce delle cause stagnanti; ma quando s’avvicina la stagione delle promozioni, vanno in amore, e l’istinto le costringe a emigrare, in cerca di questioni difficili, verso gli agitati flutti delle cause salate.
Ed è in queste parole, di chiara attualità, che intercetto un’altra dimensione dell’ imparzialità, come capacità di operare in silenzio, lontano dai clamori dell’ informazione e dalla tentazione del consenso popolare, che è effimero e a volte male informato e può servire forse a rassicurare gli insicuri, nonché come rifiuto di ogni forma di esibizionismo e di protagonismo o di atteggiamenti da giudice star: ricordo che in un non lontano passato è stata proprio la magistratura senza carriera e senza volto a svolgere un ruolo fondamentale nella promozione di nuovi valori, orientando la giurisprudenza verso il riconoscimento di diritti prima sconosciuti, scaturiti da grandi mutamenti sociali o dalle dirompenti innovazioni della medicina e della tecnica.
Affermava l’indimenticabile Rosario Livatino che il giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile, l’immagine di uno capace di condannare, ma anche di capire; solo così egli potrà essere accettato dalla società. Questo e solo questo è il giudice di ogni tempo; se apparirà sempre libero e indipendente, si mostrerà degno della sua funzione; se si manterrà integro e imparziale non tradirà mai il suo mandato.
L’imparzialità si sostanzia allora, in estrema sintesi, nella tensione verso una giustizia del caso concreto attenta alla tutela dei diritti, al rispetto della dignità di ogni persona, ispirata unicamente ai principi dell’ordinamento ed immune da ogni pregiudizio o condizionamento.
Parlare di pregiudizio vuol dire affrontare un problema non compiutamente esplorato al nostro interno, nonostante il codice etico dei magistrati si dia carico della forza di tale fenomeno e della sua insidiosità, lì dove all’ art. 9 chiarisce che per rendere effettivo il valore dell’imparzialità è necessario l’impegno a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull’ interpretazione ed applicazione delle norme: in tale disposto è evidente l’acquisita consapevolezza di quanto il pregiudizio, ed in particolare il gender bias, il pregiudizio di genere - che nella cultura statunitense costituisce da molti anni un fenomeno da riconoscere, da analizzare e da estirpare - può influenzare il lavoro del giudice non solo nell’ interpretazione ed applicazione della norma, ma anche nella conduzione del processo e nella acquisizione e valutazione della prova.
Il pregiudizio può identificarsi in un atteggiamento interiore, in un modo di esistere e di pensare, in un preconcetto indimostrato che deve essere rimosso attraverso la percezione di esso e la messa in discussione delle basi concettuali sulle quali si fonda: il rifiuto del pregiudizio costituisce concreta attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell’art. 3 Cost.
Norberto Bobbio definiva il pregiudizio un’opinione e un complesso di opinioni, talora anche un’intera dottrina, che viene accolta acriticamente e passivamente dalla tradizione, dal costume oppure da un’autorità i cui dettami accettiamo senza discuterli, e proprio in ragione della sua resistenza ad essere sottoposto al controllo della ragione e dell’argomentazione critica lo considerava un errore più tenace e più pericoloso di qualsiasi errore di opinione. Sono parole che dovrebbero essere ricordate in ogni caso in cui l’attività interpretativa del giudice lascia spazio a giudizi di valore.
3. L’ impegno per recuperare la fiducia in un giudice terzo e imparziale
Le cronache quotidiane ci consegnano una realtà devastante di magistrati arrestati, inquisiti, condannati per fatti di corruzione, specie in alcuni uffici del sud.
Si tratta di episodi gravissimi, perché, come dice Raffaele Cantone, il magistrato che si fa corrompere dovrebbe essere giudicato per tradimento. Tradimento della toga che indossa, tradimento della funzione che ha scelto di esercitare.
La magistratura sta vivendo un momento terribile, segnato dal precipitare del suo tasso di credibilità, purtroppo alimentato quotidianamente dalla narrazione di vicende opache o da improprie manifestazioni di protagonismo di alcuni.
Sono tante le ricette prospettate per uscire dal tunnel. Alcune di esse sono affidate a drastiche iniziative legislative che incidono sui punti nevralgici dell’attuale assetto ordinamentale e mirano ad umiliare la magistratura o a comprometterne l’autonomia, ritenuta incompatibile con il ruolo della politica. Mi riferisco alla proposta di sorteggio dei magistrati togati al CSM, all’eterna battaglia per la separazione delle carriere, alla pretesa di intervenire sull’obbligatorietà dell’azione penale, alla scelta politica di affidare all’ esito dei referendum la modifica del sistema.
Non entro - non avendone il tempo - nel merito di tali proposte e iniziative e delle ideologie che le animano, così come non mi soffermo sull’ importante azione riformatrice intrapresa dal Governo, già approvata o all’esame del Parlamento. Né aggiungerò la mia voce a quella dei tanti che denunciano come cause primarie di questa crisi comportamenti devianti delle correnti e dei loro leader o di singoli componenti del CSM o del CSM nel suo complesso, messi tragicamente in luce dalla vicenda Palamara.
Mi preme soltanto rilevare in questa sede che per superare lo smarrimento di oggi e recuperare l’autorevolezza e la fiducia che molti cittadini ci negano non potrà mai prescindersi dal rinnovato impegno da parte di ciascun magistrato a rivedere il modo di esercitare la giurisdizione e ad incarnare un modello professionale che sappia coniugare preparazione, sobrietà, umanità, facendosi testimone di quotidiani esempi positivi e di prassi virtuose, così innestando un circuito operoso verso un’ autentica rigenerazione.
So bene che non possono impartirsi lezioni di etica, non solo perché nessuno ne ha la legittimazione, ma anche e soprattutto perché l’etica non si insegna, ma si coltiva nell’agire quotidiano. Tuttavia tale consapevolezza non mi esime dall’additare comportamenti e deviazioni che a mio avviso hanno contribuito in questi anni a far perdere credibilità alla magistratura.
Occorre infatti accettare il dato di realtà che le cause di questa crisi devastante vanno ricercate in primo luogo in fattori endogeni e svolgere una severa riflessione critica ed autocritica sui guasti prodotti da un carrierismo esasperato, che troppo spesso diventa la cifra di ogni scelta professionale, e che si manifesta in una frenetica rincorsa ad incarichi, prebende, scorciatoie, che sovente non hanno nulla a che vedere con la promozione cui si aspira, secondo una logica certamente incoraggiata dalla circolare del CSM del luglio 2015, che ha in qualche misura modificato la stessa antropologia dei magistrati italiani.
Vanno al tempo stesso ricercate in quella adesione da parte di alcuni ad un modello di giudice burocrate, pigro e opaco, che riparandosi dietro lo schermo della propria indipendenza orienta la sua condotta verso l’amore per il quieto vivere e verso ogni tipo di disimpegno, fino a scadere nell’individualismo e nel conformismo più piatto ed innocuo, alimentando la tendenza alla trasformazione in senso impiegatizio della magistratura e coltivando una asfittica prospettiva sindacale di tutela della professione.
Vanno ancora ricercate nelle troppe manifestazioni di contiguità con le forze politiche cui in questi ultimi anni abbiamo assistito. E qui è inevitabile il riferimento ai magistrati che entrano in politica o si candidano alle elezioni politiche, europee o amministrative, non di rado sfruttando la visibilità ottenuta nell’ esercizio delle funzioni: un fenomeno che se pure non pone un problema di legalità in base alla legislazione vigente (sulla quale la commissione Luciani ha formulato significative proposte di modifica), è certamente deprecabile sul piano dell’opportunità e che nuoce all’immagine di imparzialità dell’intera magistratura (oltre a sollecitare una seria riflessione, anche a livello normativo, sul destino del magistrato al termine del mandato o dell’incarico politico, o anche al termine di una campagna elettorale non coronata da successo). Come ricorda la Corte Costituzionale nella richiamata sentenza n. 170 del 2018, nessun cittadino, e neppure il cittadino - magistrato, si candida da solo ed ogni candidatura a qualsiasi tipo di elezioni postula un collegamento con questa o quella forza politica e con le ideologie che la ispirano. Ed anche l’esercizio del mandato o dell’incarico politico si svolge inevitabilmente all’ interno di una dialettica dominata dal confronto tra i partiti.
Ed allora occorre prendere atto che il magistrato non può vivere la stessa vita, avere gli stessi rapporti personali e godere delle stesse libertà di un cittadino comune.
Ciò comporta che i principi di indipendenza, autonomia e imparzialità debbano essere declinati, come osserva Giovanni Canzio, assumendo nuovi modelli deontologici che arricchiscano i contenuti dello statuto professionale di ogni magistrato, avendo ben presente che l’indipendenza è posta a servizio della collettività e non costituisce un privilegio di casta e che il bene da preservare non è il prestigio del corpo dei giudici, secondo un vecchio schema proprio della cultura corporativa, ma il valore della credibilità e la fiducia dei cittadini.
Soccorrono ancora una volta le parole di Rosario Livatino: L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella libertà morale e nella fedeltà ai principi, ma anche nella trasparenza della sua condotta, anche fuori del suo ufficio, nella libertà e nella normalità delle sue relazioni, nella sua indisponibilità a iniziative e affari, nella scelta dell’amicizia.
Ciò non vuol dire rinchiudersi in una torre d’ avorio coltivando i canoni del formalismo tecnico giuridico e rivendicando una orgogliosa neutralità, ma significa riconoscere che da questa emergenza nessuno può chiamarsi fuori e saper assimilare pienamente quel formante ideale che deve permeare l’esercizio delle funzioni.
In questo impegno vanno recuperati i precetti contenuti nel codice etico dei magistrati, definito da taluni come una sorta di patto con i cittadini in quanto tende a fornire alla collettività la conoscenza delle regole cui i magistrati sono tenuti, così offrendo elementi di chiarezza sulla condotta che essi devono assumere in ogni contesto e consentendo all’ opinione pubblica ed al tribunale morale di una società giustamente esigente di pretendere il rispetto degli impegni assunti. Ma c’è un’altra funzione del codice etico da richiamare, ed è quella che indica al magistrato la costruzione di un modello ideale e la formazione di una coscienza etica attraverso il rispetto di una summa di regole di condotta non solo nell’ esercizio delle funzioni, ma anche nella vita sociale, nei rapporti con le istituzioni, con i cittadini e con gli utenti della giustizia, con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione: tale insieme di regole vale a fornire un abito mentale, uno stile intellettuale, la cifra della condotta quotidiana del magistrato in ogni contesto esperienziale, quella che fa essere rigorosi e sobri nel comportamento e riflette la piena consapevolezza della funzione costituzionale dell’ attività esercitata. In questa prospettiva il codice rompe l’isolamento di ciascun magistrato, rendendolo parte attiva di un sistema e creando un più ampio collegamento con le altre professioni legali, ed in particolare con l’ avvocatura.
Ed è importante segnalare che già nel suo primo articolo detto codice sancisce che in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità.
Sostiene Alfonso Amatucci in una bella intervista a Giustizia Insieme che occorre parlare ai magistrati, appena vinto il concorso, di deontologia prima e più ancora che di diritto; che è necessario chiarire loro che il rigoroso rispetto delle regole deontologiche è condizione della credibilità del magistrato; che autonomia e indipendenza vanno meritate e che il primo dovere del giudice - secondo l’ insegnamento di Franco Bile - è stare dentro le cose tenendosene rigorosamente fuori.
4. Conclusioni
Mi avvio alla conclusione. In una situazione così grave e complessa io credo che venga soprattutto in gioco, salva ovviamente la responsabilità dei gruppi e quella dei soggetti direttamente coinvolti, l’atteggiamento interiore ed esteriore di ogni magistrato. L’orgoglio del ruolo deve fondarsi sulla qualità del lavoro svolto; il rispetto da parte dei cittadini e degli utenti si ottiene con il sapere, la professionalità e tanta umanità, oltre che con l’esempio di una condotta irreprensibile fuori dalle aule giudiziarie, che deve essere tanto più irreprensibile quanto più è forte la perdita di fiducia dell’opinione pubblica.
Occorre allora calarsi nella prova del fuoco della realtà quotidiana e prendere atto che dalla conduzione dell’udienza, con le sue forme e i suoi tempi, dall’interlocuzione rispettosa ed attenta con le parti ed il foro, dalla redazione di provvedimenti provvisti di motivazioni chiare e comprensibili soprattutto a coloro che ne sono destinatari, dalla sobrietà nella vita privata passa il difficile percorso per il recupero della fiducia dei cittadini nel servizio che prestiamo.
Sarà questa la migliore risposta e la più efficace reazione alle proposte di soluzioni riformatrici dirette a scardinare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
*Rielaborazione dell’intervento svolto nella tavola rotonda conclusiva del corso di formazione su “L’imparzialità del magistrato: deontologia, garanzie procedimentali e responsabilità disciplinare” organizzato dalla SSM a Napoli nei giorni 11 – 13 ottobre 2021.
Tra ordine e caos. Lo stato di eccezione in Carl Schmitt
di Torquato G. Tasso
Sommario: 1. “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Il punto di partenza. - 2. Carl Schmitt. Un giurista e la sua epoca. - 3. Tra ordine e caos. L’eccezione in Carl Schmitt. - 4. Dall’eccezione della regola alla regola dell’eccezione. - 5. Per una (prima e necessariamente interlocutoria) conclusione. L’intuizione politica della tesi schmittiana. - 6. La suggestione dell’incipit o l’incipit di una suggestione. - 7. In conclusione. La parola a Carl Schmitt.
1. “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Il punto di partenza
“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” [1]. Questo celeberrimo incipit dell’opera Teologia politica di Carl Schmitt[2], in questo periodo pandemico[3], è stato molto spesso richiamato nei vari contributi pubblicati[4], al punto da poter quasi essere assunto come il manifesto dello stato emergenziale che sta flagellando l’intero globo[5].
Se non si può certo nascondere che la facilità e l’impatto emotivo ed evocativo di questa suggestiva immagine ne ha decretato un successo per certi versi non del tutto inaspettato, è anche vero che proprio questi caratteri ne hanno comportato un uso indiscriminato che rischia di far perdere l’autentico significato che Carl Schmitt voleva attribuirgli.
Senza spirito di polemica alcuno, preso atto di questa larga diffusione, riteniamo sia opportuno soffermarci proprio su questo incipit per verificare se e in che misura sia possibile coglierne l’originario significato e, quindi, comprendere se e in che misura le citazioni che hanno arricchito i vari contributi apparsi in questo periodo, hanno rispettato il pensiero schmittiano. Per fare questo sarà quindi necessario ricostruire, anche se, ai fini del presente contributo, solo brevemente, la figura di Carl Schmitt e del periodo storico in cui maturò la sua dottrina.
2. Carl Schmitt. Un giurista e la sua epoca
Ricordiamo che all’inizio del Novecento, in Europa imperava il positivismo giuridico, secondo il quale è diritto solo il diritto positivo e, quindi, unica possibile fonte del diritto è il legislatore[6].
È singolare evidenziare come i due movimenti politici che nacquero in quel periodo in Italia e in Germania, rispettivamente il fascismo e il nazionalsocialismo, che presentavano molti aspetti comuni o comunque simili da punto di vista ideologico e culturale, ebbero un rapporto ben diverso con il giuspositivismo.
In Italia si può affermare che il fascismo non ebbe e, probabilmente neppure ricercò, inizialmente, una dottrina che ne teorizzasse i caratteri, in quanto nacque come movimento prettamente politico in cui confluivano interessi di diversa estrazione e sentimenti politici a volte molto diversi, accomunati dalla volontà di un cambiamento politico che portasse alla conquista del potere. Fu solo nel 1932 che il fascismo si diede una dottrina, quando Giovanni Gentile scrisse la famosa voce dell’Enciclopedia del Diritto, dal titolo Fascismo[7], dottrina che, in gran parte, veniva a teorizzare una realtà già esistente da tempo.
Per quanto riguarda l’aspetto più squisitamente giuridico, il fascismo in gran parte sposò le posizioni del positivismo giuridico in quanto la riduzione del diritto a legge dello Stato che questi operava, fu ampiamente utilizzata dal movimento per consolidare il proprio potere.
In Germania, invece, l’analogo movimento, il nazionalsocialismo, assunse una posizione diametralmente opposta, opponendosi al giuspositivismo per realizzare una radicale trasformazione della concezione del diritto e dello Stato. Pur partendo anch’esso da una prospettiva antindividualistica, all’individuo non viene contrapposto lo Stato ma un ente che a questo è anteriore la Volksgemeinschaft ossia la “comunità del popolo”[8] che si pone come fonte primaria del diritto e che, sotto la guida di un proprio capo, il Führer, usa lo Stato come un proprio strumento. Il giuspositivismo venne quindi sostituito con una teoria del diritto libero che trovava la propria fonte nella Volksgemeinschaft il cui massimo interprete sarebbe stato proprio il Führer con la conseguenza che il giudice, per esempio, non avrebbe neppure dovuto farsi interprete della volontà generale della comunità ma avrebbe semplicemente dovuto seguire le indicazioni dello stesso Führer.
Conseguenze di questa visione è che “la comunità del popolo” viene ad escludere la possibile esistenza (che sarebbe antitetica) della comunità giuridica, la Rechtsgemeinschaft, figlia di una visione contrattualistica del diritto, e gli individui si vedono riconosciuti dei diritti solo ed esclusivamente in quanto membri della comunità prestatale, della Volksgemeinschaft appunto e nella misura in cui questa realizza i propri fini[9].
In questo clima culturale si inserisce la dottrina e l'opera di Carl Schmitt, certamente uno dei più autorevoli studiosi di diritto pubblico, che è stato considerato uno dei più importanti teorici del nazionalsocialismo[10]. Secondo il giurista tedesco, ispirato, quanto meno nella fase iniziale della propria ricerca, da Machiavelli ed Hobbes, il diritto è essenzialmente decisione politica in quanto ogni legge richiede necessariamente in ultima istanza per essere valida una decisione politica presa ed assunta da colui che è titolare del potere. Possiamo quindi dire che secondo Schmidt il diritto si risolve nella politica. La politica viene vista come indipendente dalla razionalità, non è espressione di valori di bene o di giustizia, ma è espressione di pura volontà, legata alla dialettica “amico-nemico”, cioè ricollegata al fatto che un gruppo di uomini combatte per la propria sopravvivenza contrapponendosi sempre comunque ad un altro gruppo che fa altrettanto[11]. Se l'originaria posizione di Schmitt può essere definita decisionismo, nel 1934 lo stesso autore passa ad una posizione molto più vicina alle tesi del nazionalsocialismo, quella della “concezione concreta dell'ordinamento” a cui mal si adatta il positivismo giuridico espressione di decisionismo (secondo il quale il diritto è atto di volontà personale del legislatore) e normativismo (secondo il quale il diritto è un insieme di regole astratte e generali e non riconducibile alla volontà del legislatore storico). La “concezione concreta dell'ordinamento” vede il diritto nella sua evoluzione effettiva e nella realtà della vita, il fatto che continuamente si rinnova nella concreta attuazione da parte della comunità, la quale spontaneamente sì dà ordine e nella cui prospettiva la regola e la norma che la esprime sono solo secondarie.
Questa tesi che avvicina l’autore alle posizioni istituzionalistiche di Houriou e di Santi Romano, che il giurista tra l’altro espressamente cita, allontana radicalmente Schmitt dal positivismo e, di conseguenza, dall’individualismo che questo presuppone[12]. Il giurista tedesco, infatti, supera il dualismo Stato-società in quanto lo Stato non può più essere considerato il detentore di ciò che è politico ma semplicemente uno degli ordini che costituiscono l'unità politica insieme al Movimento (nazionalsocialista) e al Popolo, alla Comunità popolare. Il diritto deve essere espressione del Movimento e della Comunità popolare, in funzione di questa che è la fonte della legittimità dell'ordinamento.
3. Tra ordine e caos. L’eccezione in Carl Schmitt
A questo punto, alla luce di quanto abbiamo anticipato ed illustrato, possiamo passare ad una lettura più attenta e contestualizzata del passo del giurista tedesco e verificare se, e in che termini, il frequente richiamo allo stesso da parte degli studiosi sia condivisibile o meno o se sia dettato da mera suggestione concettuale e stilistica[13].
Va subito detto che il famoso incipit è stato oggetto di diverse interpretazioni. Pur dovendo ammettere che l’autore non è sempre stato lineare nell’esposizione della propria tesi, creando il presupposto per possibili fraintendimenti interpretativi, ci pare di poter dire invece che il concetto di eccezione sia stato, complessivamente, delineato in maniera chiara dal giurista tedesco.
Dobbiamo focalizzare l’attenzione sul fatto che il più volte citato incipit della Teologia Politica, viene subito seguito da un ulteriore passaggio che viene a chiarirlo e che deve orientarci nella lettura dell’intero contributo di Schmitt. Dopo aver esordito con “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”[14], infatti, lo stesso immediatamente aggiunge “Questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite (…) A ciò corrisponde il fatto che la sua definizione non può applicarsi al caso normale, ma ad un caso limite” [15]. Solo in quanto questo si assuma come concetto limite. E proprio questo ci deve illuminare nel proseguo della nostra riflessione sulle tesi di Schmitt. Stato di eccezione è quindi una situazione limite. È quella situazione tale per cui le normali regole giuridiche, dettate dalle leggi statali non sono operanti, non sono osservate e, ancor di più, non sono osservabili. Si tratta di una situazione nella quale gli strumenti normativi che si erano usati all’interno di un determinato ordinamento giuridico, improvvisamente, non sono più in grado di svolgere la propria funzione regolatrice e di garantire quell’ordine che è proprio di un ordinamento giuridico. Stabilità. Certezza. Efficacia. Effettività. Tutto scompare nello stato di eccezione. “Il caso d'eccezione” - dice Schmitt è “il caso non descritto nell'ordinamento giuridico vigente” [16]. Infatti, è proprio Schmitt che precisa che “nel caso di eccezione, lo stato sospende il diritto” anche perché “non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos. Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico” [17]. Prima si riporta l’ordine. Poi ha senso parlare di ordinamento.
Schmitt non spiega quali possono essere i motivi per cui un ordinamento improvvisamente non è più in grado di garantire l’ordine attraverso le ordinarie regole. Ma, per certi versi, questo è del tutto coerente con la sua visione dell’eccezione, in quanto la stessa si pone come altro dall’ordine, come negazione dell’ordine costituito e, per questo, non prevedibile e, quindi, non regolabile. Se invece l’eccezione fosse prevedibile, sarebbe possibile prevedere preventivamente una regola che la disciplinasse ma, a questo punto, non sarebbe un’eccezione (nella prospettiva schmittiana) ma sarebbe una regola, o meglio un fatto suscettibile di regolamentazione e, per questo, non una autentica eccezione. Ecco perché l’immediata precisazione del giurista che aggiunge “non si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso di emergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento” [18].
Comincia ad emergere il motivo per cui è solo il sovrano “che decide sullo stato di eccezione” in quanto si dimostrerà sovrano colui che è in grado di decidere che sussiste lo stato di eccezione, che ci si trova in uno stato di eccezione e, all’esito, che decide “cosa si debba fare per superarlo”. Il giurista tedesco, infatti, precisa che “allora diventa automaticamente chiaro chi è il sovrano. Egli decide tanto sul fatto se sussista il fatto estremo di emergenza, quanto sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo”[19]. Quindi sovrano è colui che riesce, in questa situazione eccezionale ed emergenziale, innanzitutto a riconoscere che ci si trova in questa situazione eccezionale e, poi, a porvi rimedio con un proprio intervento. Solo questi si può dire sia Sovrano, non perché si proclami tale ma perché, nei fatti, opera come sovrano. Fa ciò che fa e deve fare un sovrano. Dimostra nei fatti di esserlo.
Secondo Schmitt, l’azione del vero sovrano non può incontrare alcun limite. Non può trovare un limite politico, perché l’individuazione dell’eccezione e la capacità di risolvere lo stato di eccezione è l’atto politico per eccellenza, in quanto è l’atto originario, il nuovo atto originario che darà vita ad un nuovo ordine, ad un nuovo ordinamento, ponendo fine al disordine. È l’atto che crea i presupposti per parlare di politica e, per traslato, che crea la nuova politica[20].
Ma l’intervento del vero sovrano e la sua decisione non può trovare nemmeno un limite giuridico. Un limite giuridico dovrebbe essere un limite fissato dall’ordinamento giuridico ma, come abbiamo appena detto, lo stato di eccezione si caratterizza proprio come una sospensione dell’ordinamento giuridico, come il necessario riconoscimento della limitatezza dell’ordinamento giuridico. L’eccezione è la negazione dell’ordinamento.
Se, per risolvere l’eccezione, si potesse ricorrere a delle regole già previste per risolverlo, allora non saremmo in uno stato di eccezione, ma ci troveremmo in una situazione prevista (e prevedibile) che l’ordinamento è in grado di risolvere proprio perché lo ha preventivamente regolato. E questo è uno dei motivi per cui, secondo Schmitt, il sovrano “sta al di fuori dell'ordinamento giuridico normalmente vigente”[21].
È anche vero che, con quella ambiguità a cui si è accennato in precedenza, Schmitt aggiunge che il sovrano “tuttavia appartiene ad esso”[22] (ossia all’ordinamento), ma in realtà, questa appartenenza è assolutamente labile e impalpabile (per non dire logicamente contraddittoria) in quanto si fonda su una originaria creazione dell’ordine e del relativo ordinamento giuridico, e quindi non è una vera appartenenza. Se sovrano è colui che ha posto le fondamenta dell’ordinamento e ha creato l’attuale ordinamento, è evidente che gli eventuali limiti che questi avesse posto a sé stesso e alla propria azione non sono dei veri limiti, perché come ha creato quei limiti, disegnandosi come appartenente (anche inteso come parte) di un determinato ordinamento, tale appartenenza potrebbe essere messa nel nulla per una sua decisione, preso atto dello stato di eccezione, che l’ordine ha scardinato. Ecco perché Schmitt, resosi forse conto che questa affermazione poteva essere fuorviante, si affretta ad aggiungere che “a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa” [23]. Se a lui tocca il compito di decidere di sospendere la costituzione da lui stesso disegnata e nella quale si è posto (e anche eventualmente vincolato) ovviamente vuol dire che quei vincoli sarebbero solamente un flatus voci e potrebbero essere liberamente sciolti.
Ma questo assunto può essere portato alle estreme conseguenze e rapportato anche alla realtà giuridica ordinaria della Costituzione. Il sovrano – per quanto siamo venuti a dire - si colloca sempre e comunque al di fuori della stessa Costituzione. Per decidere se ci si trova in uno stato di eccezione e, una volta preso atto dell’esistenza di uno stato di eccezione, per decidere cosa fare per superare questo stato di eccezione, è e sarebbe logicamente inutile far riferimento a colui che viene indicato dalla Costituzione vigente come sovrano, perché lo stato di eccezione presuppone proprio la concreta inapplicabilità e, quindi, la non vigenza della Costituzione. Il riconoscimento della sovranità, quindi, non è mai desumibile dalla Costituzione vigente né dalla normativa vigente in quel regime costituzionale dato, proprio perché l’eccezione è la negazione di quella Costituzione e di quell’ordinamento. Sovrano sarà colui che, non limitato da alcuna norma e regola, sarà in grado di decide in modo concreto ed effettivo sull’ordine. Certamente più efficaci sono le parole di Schmitt che infatti precisa “se fosse possibile stabilire le competenze che vengono attribuite per il caso d'eccezione - sia mediante un reciproco controllo, sia mediante una delimitazione temporale (…) mediante l'enumerazione delle competenze straordinarie - in tal caso il problema riguardante la sovranità compirebbe un grosso passo indietro” [24].
4. Dall’eccezione della regola alla regola dell’eccezione
Lo sviluppo del pensiero schmittiano ci conduce ad una inevitabile e già intuita conseguente conclusione che, se ben compresa, è molto più profonda di quanto le apparentemente semplici parole del giurista tedesco possono far pensare. Se l’eccezione è la negazione dell’ordinamento, se l’eccezione è la negazione sia fattuale che logica della regola, l’eccezione, vista sotto una corretta luce, diviene la vera regola. È più importante della regola stessa perché è il punto di fusione (come lo definisce Agamben[25]) della regola che porterà alla necessità di una nuova regola, dettandone l’urgenza e l’ineluttabilità. Possiamo dire che l’eccezione è il prius da cui nasce una nuova regola, è il segno di ciò che non è più e l’origine del nuovo ordinamento. L’eccezione è la regola. L’eccezione è la regola delle regole.
L’eccezione suscita maggior interesse anche per uno studioso del diritto perché è in grado di disvelare allo stesso la radicale ed essenziale natura della sovranità, è in grado di far comprendere ciò che il naturale evolversi della quotidianità giuridica, della normalità della vita quotidiana, regolata dalle norme, non è in grado di far percepire e che l’ordinamento vigente non è in grado di disvelare. L’origine. L’atto originario con cui la sovranità, con una decisione (che non vuol dire forza) pone fine al caos, alla sospensione del diritto, al disordine e si pone come nuova regola, rendendo palese la limitatezza e la non autosufficienza della precedente regola.
Ed è questo che, in fondo, ci dice Schmitt quando con quello che può sembrare una tautologia, scrive: “l'eccezione è più interessante del caso normale. quest'ultimo non prova nulla, l'eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell'eccezione. Nell'eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione” [26].
5. Per una (prima e necessariamente interlocutoria) conclusione. L’intuizione politica della tesi schmittiana
Molti autori[27] evidenziano che lo stato di eccezione comporta la necessità da parte del sovrano di intervenire e che, a seguito del suo intervento, gli si prospettano due opzioni. O restaurare, conservare (a seconda delle prospettive) l’ordinamento giuridico vigente o ristabilire l’ordine attraverso un nuovo ordinamento giuridico che si sostituisca al precedente.
Tra questi Agamben[28] il quale evidenzia come la tesi schmittiana prevede due forme diverse di dittature, entrambe riconducibili al concetto di eccezione ma distinte tra di loro dal diverso fine operativo. Da un lato, “la ‘dittatura commissaria’, che ha lo scopo di difendere o restaurare la costituzione vigente, e dall’altro la ‘dittatura sovrana’, nella quale, come figura dell’eccezione, essa raggiunge per così dire la sua massa critica o il suo punto di fusione”.
Da un punto di vista squisitamente pratico, questa tesi è del tutto condivisibile in quanto, colui che è sovrano, può ricostituire un precedente ordinamento, confermandone la vigenza o dar vita ad un nuovo ordinamento che sostituisca, in tutto o in parte, il precedente. Sovrano è colui che ha il potere di farlo, di mettere ordine nel caos, è l’unico che può ricostituire l’ordinamento e, quindi e a maggior ragione, è assolutamente libero di decidere quale sia l’ordine per il futuro.
Da un punto di vista teoretico, però, temiamo che questa conclusione, che pur trova sostegno nelle pagine di Schmitt, non colga fino in fondo il significato del concetto di eccezione che abbiamo in precedenza delineato proprio grazie ai contributi del giurista tedesco, vi è il timore che questa lettura finisca per incorrere in una possibile aporia.
Abbiamo detto che eccezione è una situazione nella quale le ordinarie regole giuridiche, di origine statale non sono in grado di operare, non vengono osservate e, in maniera ancora più pregante, non sono osservabili. È il momento storico nel quale un determinato ordinamento giuridico non è più in grado di regolare la vita dei consociati, non è più in grado di garantire l’ordine. Tutto svanisce nello stato di eccezione che è “il caso non descritto nell'ordinamento giuridico vigente” [29].
È proprio Schmitt che precisa, infatti, che “nel caso di eccezione, lo stato sospende il diritto” anche perché “non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos. Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico” [30]. Di fronte al caos, non vi è ordine e, quindi e a maggior ragione, non vi è più un ordinamento. Anzi, prima di tutto si deve ristabilire l’ordine, perché solo allora ha un senso l’ordinamento giuridico.
Richiamandoci a quanto abbiamo detto in precedenza circa la natura dell’eccezione, come il momento originario, l’origine partendo dalla quale si giungerà all’ordine e, per l’effetto, all’ordinamento, dire che il sovrano può essere chiamato a “difendere o restaurare la costituzione vigente” può apparire contraddittorio in sé e contraddittorio rispetto alla stessa tesi schmittiana.
Può apparire contraddittorio in sé perché difendere e restaurare sono due concetti tra loro molto diversi e tra loro in antitesi, che richiamano due presupposti diversi. Difendere vuol dire impedire che un elemento esterno faccia venir meno (nel nostro caso) l’ordinamento, ossia, presuppone che l’ordinamento non sia venuto meno grazie proprio anche all’intervento sovrano. Sovrano che ponendosi a baluardo dell’ordinamento ne garantisce la sopravvivenza.
Restaurare, invece, vuol dire ricostruire ciò che c’era prima, vuol dire che un elemento esterno ha fatto venir meno (nel nostro caso) l’ordinamento, ossia, presuppone che l’ordinamento sia venuto meno ma il sovrano, accertata l’eccezione e decidendo di superarla, con un ritorno all’ordine, decida di costituire come nuovo ordine, un ordine ad immagine e somiglianza del primo. Un nuovo ordine che è esattamente identico a quello precedente, restaurando il precedente.
Vediamo, quindi, che i due casi sono molto diversi l’uno dall’altro (al punto dall’essere tra loro contraddittori). Nel primo caso, vi è un’opera di difesa che garantisce la continuità dell’ordinamento, impedisce che vi sia quel punto di non ritorno e, di conseguenza, pare un’ipotesi che mal si concilia con il concetto di eccezione nel significato che, come evidenziato in precedenza, Schmitt sembra voler elaborare. Nel secondo caso, invece, vi è un’azione del sovrano che, accertata l’eccezione, ricostruisce il precedente ordine. Ma, in questo secondo caso, l’idea schmittiana di eccezione, come interruzione, sospensione dell’ordinamento, come caos che deve prima di tutto essere ordinato, per poter poi parlare di ordinamento giuridico, viene confermata, perché il sovrano, nella sua assoluta libertà, può decidere come superare l’eccezione, quale ordine ridisegnare, creando un nuovo ordine, diverso dal precedente, o, come detto, restaurando il precedente. Ma, in ogni caso, l’interruzione, l’eccezione in senso autentico vi è stata.
Ecco perché, quando si parla dell’ordine che il sovrano crea per superare l’eccezione, è giusto parlare sempre di nuovo ordine. Nuovo perché l’eccezione è sempre una interruzione. Nuovo perché non è più il precedente ordine. Nuovo perché l’eccezione è comunque l’origine del nuovo ordine. Ovviamente, però, proprio perché il sovrano è il Sovrano, ossia la figura onnipotente che garantirà l’ordine, nella sua assoluta libertà potrà decidere come configurare il nuovo ordine, se ad immagine e somiglianza del precedente (ossia restaurando il precedente) o se, invece, in un modo del tutto originale. Ma la diversa scelta dipende dalla volontà del sovrano che è sempre e comunque una volontà originaria.
6. La suggestione dell’incipit o l’incipit di una suggestione
Alla luce di quanto siamo venuti a dire, possiamo ora cercare di dare una risposta (o quanto meno una nostra valutazione relativa) alla domanda originaria, ossia se alla luce di una analisi attenta del ricordato incipit del celeberrimo passo di Schmitt, opportunamente contestualizzato all’interno della sua opera, si possa sostenere che questo sia stato correttamente citato e sia, quindi, utilizzabile e applicabile al periodo pandemico che stiamo vivendo o invece sia stato, in questo periodo, impropriamente richiamato, per far (probabilmente) leva sulla sua forza evocativa e suggestiva.
Come noto, lo stato di emergenza è stato dichiarato con Delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 e, al momento in cui scriviamo, è ancora in essere. Gli interventi normativi con cui l’ordinamento sta reagendo all’emergenza sono certamente molto numerosi e provengono da una pluralità di numerose fonti diverse. Se guardiamo agli atti di natura governativa troviamo Decreti Legge (portati poi alla conversione), Decreti del Consiglio dei Ministri, Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, Decreti Ministeriali dei vari Ministeri (Salute, Economia, Sviluppi Economico e Giustizia principalmente), Decreti del Dipartimento della Protezione Civile, Decreti del Commissario Straordinario a cui si devono aggiungere le singole circolari interpretative e applicative[31].
A queste si aggiungono gli atti emanati dalle singole Regioni e da organi della Regione quali Leggi ma anche Decreti della Giunta Regionale, Ordinanze del Presidente e Decreti dei Direttori di Direzioni, Delibere di Giunta principalmente. In maniera un po' semplicistica possiamo dire che nel periodo pandemico sono stati emanati migliaia di provvedimenti normativi, provvedimenti provenienti da fonti diverse, anche di grado diverso, e non sempre di facile ricostruzione.
La premessa che illustra il copioso intervento normativo in materia, ad opera dei diversi organi interessati, nel periodo pandemico ci evidenzia una produzione ipertrofica, che mira a dare soluzione ai problemi di volta in volta emergenti dalla contingenza, ma che inevitabilmente, si presta ad una serie di critiche. Se ci soffermiamo sugli effetti e sulle conseguenze che questa copiosa produzione può comportare, diviene inevitabile sollevare una serie di perplessità e di critiche, sia da una prospettiva pratica che giuridica.
Da un punto di vista pratico perché questa eterna rincorsa a dare una regolamentazione a fattispecie impreviste (e comunque, va detto, spesso imprevedibili), da un lato evidenzia le difficoltà che l’ordinamento sta affrontando nel porre rimedio alla pandemia e dall’altro inevitabilmente incorre in alcuni errori[32] e antinomie[33], con inevitabili conseguenti difficoltà interpretative e applicative, che si prestano facilmente a critiche.
Da un punto di vista giuridico, perché questa produzione ipertrofica, se naturale sviluppo delle tesi positivistiche, rischia però di incorrere in contraddizioni logiche rispetto alle proprie premesse teoretiche, non riuscendo a garantire la certezza del diritto, per il tramite della coerenza e della completezza dell’ordinamento giuridico[34].
Date queste premesse, possiamo comunque concludere che l’attuale stato emergenziale rientri nel concetto di stato di eccezione schmittiano o, viceversa, dobbiamo concludere che i richiami alle tesi del giurista tedesco sono sproporzionate rispetta all’autentico significato di questo concetto?
Abbiamo appena illustrato il fatto che il concetto di eccezione è un concetto estremo, che rappresenta una situazione limite (o meglio ancora ove il limite è già stato superato) in cui l’ordinamento cessa di essere applicato, perché inapplicabile, e si ha una vera e propria sospensione dell’ordinamento giuridico. Un caso in cui vi è un assoluto vuoto normativo. Riguardo a questo aspetto risulta difficile poter sostenere che questo sia ciò a cui stiamo assistendo in questo periodo. Un periodo nel quale lo Stato non solo è presente ma, in una determinata prospettiva, forse anche troppo presente, e dove l’ordinamento giuridico non è assolutamente sospeso ma, anzi, sembra quasi essere eccessivamente attivo, proprio per questa reazione ipertrofica alla difficoltà affrontata. Certo, sviluppo forse criticabile che porta a doversi porre altre questioni teoretiche, per esempio, su quale sarebbe il giusto equilibrio tra attività politica e attività amministrativa[35], che pare essere in questo periodo in parte smarrito, ma che non ci può certo portare a pensare che vi sia una paralisi e una sospensione dell’ordinamento.
Abbiamo poi detto che eccezione è una situazione costituzionale che richiede la riemersione del sovrano alla ricerca della ricostituzione di un ordine che l’ordinamento giuridico costituito non è più in grado garantire. Anche a questo proposito, risulta difficile poter sostenere teoreticamente che nell’attuale contingenza vi sia un disordine, dovuto al fatto che l’ordinamento giuridico non riesce a garantire l’ordine, al punto tale da richiedere l’intervento di un sovrano che sia in grado di riportare ordine nel caos, superandolo con un nuovo ordinamento giuridico. La reazione dell’ordinamento giuridico attuale, forse criticabile per la sua ipertroficità, certamente criticabile per le non infrequenti antinomie e contraddizioni, non si può dire che non sia applicabile e applicato, e che ad oggi ci sia un caos a cui reagire. La particolare contingenza sta certamente sottoponendo ad una forte sollecitazione il nostro ordinamento giuridico, ma non è tale da poter dire che di fatto lo stesso sia sospeso ed inapplicato perché inapplicabile.
Abbiamo inoltre sottolineato come l’eccezione sia una situazione che si pone al di fuori dall’ordinamento giuridico. Anche sotto questo aspetto diviene non credibile che la situazione attuale si ponga al di fuori dell’ordinamento giuridico; forse possiamo dire che ci troviamo in una situazione che si pone ai margini dell’ordinamento. Ma questa non è eccezione perché, invece, si tratta di vigenza dell’ordinamento che, benché messo in difficoltà dalla contingenza, è in grado di dare risposte, confermando la propria valenza ordinatoria.
E, per quanto detto e a maggior ragione, non possiamo concludere che, attualmente, ci si trovi in una situazione che richieda un atto originario, che crei un nuovo ordinamento giuridico, situazione che invece viene disegnata dalle tesi schmittiane, perché, ripetiamo, per quanto la reazione dell’ordinamento sia sotto vari profili criticabili, è pur sempre testimonianza della esistenza di un ordinamento, che reagisce alle sollecitazioni esterne, rivendicando il proprio ruolo regolatore.
Cercando di trovare un punto di contatto con chi sostiene che attualmente ci si trovi in uno stato di eccezione secondo i parametri di Carl Schmitt, possiamo riprendere la distinzione (ma anche la relativa avvertenza) su cui ci siamo soffermati in precedenza, tra difesa e restaurazione dell’ordinamento giuridico. Il sovrano, secondo alcuni, può intervenire per difendere o per restaurare l’ordinamento giuridico superato dallo iato posto dall’eccezione. Possiamo certamente dire che gli attuali organi politici stanno attivamente operando in difesa dell’ordinamento giuridico vigente, con quotidiani e numerosi interventi normativi, nel difficile e difficoltoso compito di difendere l’ordinamento giuridico esistente, ma, richiamandoci a quando ampiamente premesso, questo non è il vuoto, l’assenza dell’ordinamento secondo l’autentico senso che Schmitt voleva dare alla propria idea di eccezione. È la quotidiana lotta per la sua difesa e riconferma.
Una cosa è dunque certa. Una cosa è l’eccezione disegnata da Schmitt (intesa come sospensione dell’ordinamento giuridico, come origine del nuovo ordine) e una cosa ben diversa è la situazione contingente in cui l’ordinamento reagisce con l’ipertrofica (e certamente per questo criticabile) produzione normativa che comunque rimane nell’alveo di un ordinamento tutt’ora vigente e che, anzi, proprio con questa frequente, quasi quotidiana, produzione normativa rivendica e ribadisce il proprio ruolo (costituzionale). Nell’attuale contingenza, l’ordinamento giuridico sta reagendo, certamente evidenziando diverse criticità e difficoltà, ma sempre muovendosi all’interno dell’ordinamento giuridico esistente.
7. In conclusione. La parola a Carl Schmitt
Abbiamo quindi detto che una cosa è il vuoto, il caos. Cosa ben diversa sono i singoli provvedimenti normativi (per quanto numerosi e nel merito qualche volta criticabili) che lo Stato emana per cercare di risolvere i problemi dell’emergenza sanitaria.
Ma, a questo punto, ci si deve chiedere se questa lettura possa trovare conferma nelle pagine di Schmitt o sia frutto di un tradimento delle sue posizioni. A confortarci in questa lettura è proprio l’opera di Schmitt che, se anziché essere citato (bisogna riconoscerlo) ad pompam, fosse stato letto nella sua interezza, ci avrebbe fornito lo spunto per trovare la risposta alla nostra domanda. Abbiamo già detto che, immediatamente dopo aver affermato che “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione” lo stesso Schmitt nelle righe immediatamente successive aggiunge “Questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite (…) A ciò corrisponde il fatto che la sua definizione non può applicarsi al caso normale, ma ad un caso limite” [36].
Ma soprattutto poco dopo è lo stesso giurista di Plettenberg che precisa anticipando nelle premesse la propria tesi: “Risulterà dal seguito che qui con stato d’eccezione va inteso un concetto generale della dottrina dello Stato, e non qualsiasi ordinanza d’emergenza o stato d’assedio” [37]; quindi con eccezione non si intende identificare singoli atti o provvedimenti governativi (neppure quando questi sono molto numerosi come nel nostro caso) ma una concetto generale che affonda le radici nella dottrina dello Stato, ponendo le basi per una riflessione profonda sull’essere Stato e la sua negazione, ma non avente ad oggetto dei provvedimenti (per quanto numerosi) giustificati da emergenze specifiche.
Schmitt, tra l’altro, era probabilmente preoccupato che la sua visione potesse essere in qualche modo, volontariamente o involontariamente (?) fraintesa che, ribadisce: “infatti non ogni competenza inconsueta, non ogni misura o ordinanza poliziesca di emergenza è già una situazione d’eccezione: a questa pertiene piuttosto una competenza illimitata in via di principio, cioè la sospensione dell’intero ordinamento vigente” [38].
In definitiva conclusione, si può quindi dire che, proprio una attenta lettura dell’opera di Schmitt ci porta a concludere che il famoso incipit schmittiano è stato spesso richiamato per la sua forza evocativa e per l’inevitabile suggestione che questo poteva creare ma spesso si è caduti nell’errore di trarre da questo un significato che non aveva, non solo alla luce di un doveroso approfondimento teoretico ma anche e soprattutto proprio alla luce delle chiare lettere usate dallo stesso giurista tedesco nella medesima opera. Errore che, con una attenta lettura della sua Teologia Politica, sarebbe stato evitabile.
[1] Schmitt parla a tal proposito di Ausnahmezustand, “stato di eccezione” nel suo C. Schmitt, Teologia politica, in C. Schmitt (a cura di G. Miglio e P. Schiera), Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 33.
[2] Carl Schmitt è nato in Germania a Plettenberg, l’11 luglio 1888. Morì nella sua città natale il 7 aprile 1985.
[3] M. Luciani, Il sistema delle fonti alla prova dell’emergenza, in Liber amicorum per Pasquale Costanzo. Diritto Costituzionale in trasformazione, in Consulta on line, II (2020) p. 9.
[4] Tra le opere apparse che si sono occupate dell’emergenza c.d. Covid in una prospettiva giuridica e socioeconomica si ricordano, tra le altrie M. Cuono, F. Barbera, M. Ceretta Barbera (a cura di) L’emergenza COVID-19 : un laboratorio per le scienze sociali, Roma, Carocci, 2021; N. Abriani, Il diritto e l’eccezione : stress economico e rispetto delle norme in tempi di emergenza, Roma, Donzelli, 2020; G. Zaccaria, Dopo l’emergenza: dieci tesi sull’era post-pandemica, Padova, Padova UP, 2020; F. S. Marini e G. Scaccia (a cura di), Emergenza covid-19 e ordinamento costituzionale, Torino, G. Giappichelli Editore, 2020; O. Mazzotta (a cura di), Diritto del lavoro ed emergenza pandemica, Pisa, Pacini ed., 2021; S. Ambrosini e S. Pacchia (a cura di), Crisi d’impresa ed emergenza sanitaria, Bologna, Zanichelli, 2020; E. Lucchini Guastalla, Emanuele, and Emanuele Lucchini Guastalla (a cura di), Emergenza COVID-19 e questioni di diritto civile., Torino, Giappichelli, 2020; G. A. Chiesi e M. Santisi (a cura di), Diritto e Covid-19, Torino, Giappichelli, 2020; D. Mamone G. Castellotti, Covid e dintorni : dalle cicatrici emotive, alla ricostruzione della socialità, Roma, Unsic, 2021.
[5] L’argomento dell’emergenza è emerso con particolare vigore in questo periodo. La questione, però è da tempo al centro del dibattito giuridico. Molti gli autori che si sono occupati – anche in passato - delle problematiche giuridiche nascenti dal periodo emergenziale, tra questi A. Pace, L’instaurazione di una nuova Costituzione. Profili di teoria costituzionale, in Quad. cost., 17 (1997), pp. 10, 18 e 19; P. Pinna, L’emergenza nell’ordinamento costituzionale italiano, Giuffrè, Milano, 1988 e G. De Minico, Costituzione emergenza e terrorismo, Jovene editore, Napoli, 2016; P. Barile, Il cammino comunitario della Corte, in Giur. cost., 1973, pp. 2405 ss.; M. Cartabia, Principi inviolabili e integrazione europea, Giuffrè, Milano, 1995, pp. 6 ss.; A. Ruggeri, Trattato costituzionale, “europeizzazione” dei “controlimiti” e tecniche di risoluzione delle antinomie tra diritto comunitario e diritto interno (profili problematici), in S. Staiano (a cura di), Giurisprudenza costituzionale e principi fondamentali. Alla ricerca del nucleo duro delle Costituzioni, Giappichelli, Torino, 2006, pp. 827 ss.
[6] Ricordiamo a questo proposito come emblematico quanto avvenne in sede di redazione del nuovo Codice civile e, in particolar modo, in riferimento alla analogia iuris. Il Codice precedente, ossia quello Albertino, nell'art. 3 delle disposizioni preliminari del codice del 1865, faceva riferimento ai “principi generali del diritto”. Questo ebbe una grande eco in dottrina, lasciando spazio a numerose discussioni sul significato da dare a questo concetto, in quanto si discuteva se il legislatore intendesse richiamare i principi generali del diritto naturale concetto, peraltro, non facile da individuare - che venivano generalmente identificati con i principi supremi di ragione e di giustizia, estranei alle legislazioni positive. Peraltro, il vigente art. 12 non lascia dubbi (anche se in realtà non li risolve completamente), in quanto richiama testualmente i “principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato”.
[7] Mussolini (in realtà Gentile) voce Fascismo in Enciclopedia Italiana, XIV, p. 847.
[8] Sul punto concetto di comunità di popolo vedasi M. La Torre, Karl Larenz, giurista nazionalsocialista. Delitto e castigo nella "comunità del popolo", in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1986, pp. 389-423.
[9] Karl Larenz scriveva: “il diritto soggettivo nel senso dell'astratto potere della volontà del singolo ha perduto il suo significato come concetto centrale del diritto e come fondamentale del diritto privato. In suo luogo noi procediamo dalla situazione giuridica del consociato come sua posizione nel diritto, cioè nell'ordinamento della vita della comunità” K. Larenz, Rechtsperson und subjektives Recht in Grundfragen der neuen Rechtswissenschaft, Berlin, 1935, p. 258.
[10] Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo C. Schmitt, I principi politici del nazionalsocialismo , Sansoni, Firenze 1936; C. Schmitt, Le categorie del «Politico»: saggi di teoria politica (a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera), Il Mulino, Bologna 1972; C. Schmitt, La Dittatura, Laterza, Roma-Bari 1975 (nuova edizione, Settimo Sigillo, Roma 2006); C. Schmitt, Il custode della Costituzione, a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1981; C. Schmitt, Teoria del Partigiano, Adelphi, Milano 2005; C. Schmitt, Dialogo sul potere, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2012; C. Schmitt, Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di Giorgio Agamben, Neri Pozza, Vicenza, 2012; C. Schmitt, Il valore dello Stato e il significato dell'individuo, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna, 2013; C. Schmitt, Stato, grande spazio, nomos, a cura di G. Maschke e G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2015; C. Schmitt, Stato, Movimento, Popolo, Edizioni Si24, Palermo, 2018.
[11] Per una panoramica sui vari aspetti della dottrina di Carl Schmitt si rimanda a: J. Taubes, In divergente accordo: scritti su Carl Schmitt; Macerata, Quodlibet, 1996; J.F. Kervégan, e F. Mancuso. Che fare di Carl Schmitt?, Roma-Bari, GLF editori Laterza, 2016; J.W. Bendersky, Schmitt teorico del Reich, Bologna, Il mulino, 1989; A. Biasini e P. Pagani, Il decisionismo di Carl Schmitt, Padova, Cleup, 2011; G. Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato : Carl Schmitt, Venezia, Arsenale cooperativa, 1981; H. Meier, La lezione di Carl Schmitt : quattro capitoli sulla distinzione tra teologia politica e filosofia politica, Siena, Cantagalli, 2017; C. Galli, Lo sguardo di Giano: saggi su Carl Schmitt, Bologna, Il Mulino, 2008.
[12] C. Schmitt, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Amburgo, 1934, p. 24 “L’ordinamento giuridico è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura”.
[13] Tra gli autori che si sono occupati dell’eccezione in Carl Schmitt ricordiamo, tra gli altri, M. Croce, L’indecisionista: Carl Schmitt oltre l’eccezione, Macerata, Quodlibet, 2020; G. Schwab, Carl Schmitt: la sfida dell’eccezione, Roma-Bari, Laterza, 1986.
[14] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 33.
[15] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 33.
[16] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 39.
[17] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 39.
[18] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 34.
[19] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 34.
[20] Nel proseguo del contributo apparirà chiaro il perché l’aggettivo nuovo è così evidenziato. Si vuole segnalare che anche la novità è legata alla scelta del sovrano che può sempre decidere se il nuovo ordine è il vecchio ordine restaurato o un nuovo ordine ma, in ogni caso, sarà sempre nuovo in quanto figlio di una eccezione.
[21] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 34.
[22] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 34.
[23] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 34.
[24] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 38.
[25] Sul punto autorevole il contributo di G. Agamben, Stato di eccezione: Homo sacer, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
[26] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 40.
[27] In questo senso anche A. Salvatore, Carl Schmitt, Eccezione Decisione Politico Ordine concreto Nomos, Derive approdi, Roma, 2020, p.15.
[28] G. Agamben, Stato di eccezione, op.cit., pp. 44 e ss.
[29] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 39.
[30] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pg. 39.
[31] In questa selva di produzione normativa inevitabile e frequente l’esigenza di metter ordine. Si veda a proposito la sentita necessità di pubblicare il testo coordinato di precedenti atti normativi come nel caso de Testo Coordinato del Decreto Legge 19 maggio 2020, n. 34 Ripubblicazione del testo del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, coordinato con la legge di conversione 17 luglio 2020, n. 77, recante: «Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19». (Testo coordinato pubblicato nel S.O. n. 25/L alla Gazzetta Ufficiale n. 180 del 18 luglio 2020) il cui preambolo emblematicamente recita “Si procede alla ripubblicazione del testo del decreto-legge citato in epigrafe corredato delle relative note, ai sensi dell’articolo 8, comma 3, del regolamento di esecuzione del testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull’emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 14 marzo 1986, n. 217. Resta invariato il valore e l’efficacia dell’atto legislativo qui trascritto”.
[32] Singolare che nella normativa statale e regionale si comincia a trovare delle disposizioni il cui titolo emblematico è “errata corrige”. Vedi a tal proposito Decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29 Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, in Gazz. Uff. Serie Generale, 10 maggio 2020, n.119 - Comunicato errata corrige, in Gazz. Uff. Serie Generale, 14 maggio 2020, n.123.
Per quanto riguarda la Regione Veneto, per esempio, si veda Avviso di rettifica. Comunicato relativo all’ordinanza del Presidente della Giunta regionale n. 59 del 13 giugno 2020 “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da virus COVID-19. Ulteriori disposizioni.”, in Bollettino ufficiale, 13 giugno 2020, n. 88.
[33] Si richiama, a titolo di esempio, la sovrapposizione normativa creatasi in riferimento all’attività sportiva e motoria durante il lockdown. Sussisteva all’epoca una antinomia, dovuta alla sovrapposizione tra la normativa statale e regionale. Da un lato l’Ordinanza del Ministero della Sanità del 20 marzo 2020 che nell’articolo 1 prescriveva: “b) (…) resta consentito svolgere individualmente attività motoria in prossimità della propria abitazione, purché comunque nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona”; dall’altro però varie normative regionali che introducevano termini diversi. Ad esempio, in Veneto vi era l’Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale del 20 marzo 2020 n. 33 che introduceva un limite fisico non previsto dalla normativa nazionale e al punto 3 prevedeva: “3) (…) Nel caso in cui la motivazione degli spostamenti suddetti sia l’attività motoria (…), la persona è obbligata a rimanere nelle immediate vicinanze della residenza o dimora e comunque a distanza non superiore a 200 metri, con obbligo di documentazione agli organi di controllo del luogo di residenza o dimora”.
[34] Ci sia consentito un richiamo al nostro T.G. Tasso, L’(in)certezza del diritto nello stato di emergenza in L’Ircocervo, n. 1/2021.
[35] Sul punto non possiamo non ricordare l’insegnamento di Francesco Gentile, che distingueva tra politica intesa come “intelligenza di ciò che conviene, che è opportuno, che è necessario alla convivenza umana” che costituisce la comunità orientandola ai suoi fini propri e l’attività amministrativa che deve perseguire operativamente i fini predeterminati dalla politica ed avvertiva di quello che era il rischio connesso all’equivoco dato dal confondere il governo politico con l’amministrazione, ossia il dispotismo in F. Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Giuffrè, Milano, 1984, p. 38 e p. 125.
[36] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., p. 33.
[37] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., p. 33.
[38] C. Schmitt, Teologia politica, op. cit., pp. 38-39
Art. 27, primo comma, CCI: l’infelice “in” davanti a “amministrazione straordinaria”. Ci vorrà un intervento correttivo? (Brevi riflessioni sull’ ordinanza n. 19618 del 09/07/2021 della prima Sezione civile della corte di Cassazione)* di Paola Filippi
Sommario: 1. Qual è il Tribunale competente a decidere sulla proposta di concordato preventivo delle grandi imprese in crisi? - 2. L’infelice “in” al posto di assoggettabilità - 3.Gli effetti della scelta interpretativa sull’efficienza della giustizia.
1.Qual è il Tribunale competente a decidere sulla proposta di concordato preventivo delle grandi imprese in crisi?
L’ufficio competente a decidere sulla domanda di concordato preventivo è il tribunale nel cui circondario si trova il centro degli interessi principali della grande impresa in crisi, almeno così ha deciso la Prima Sezione con l’ ordinanza n. 19618 del 09/07/2021.
Il principio di diritto è che “ai sensi dell'art. 27, comma 1, d.lgs n. 14 del 2019 (Codice della crisi d'impresa), la competenza dell'ufficio sede della sezione specializzata in materia di imprese è riservata ai soli procedimenti di regolazione della crisi o dell'insolvenza delle imprese che siano già state ammesse all'amministrazione straordinaria”.
L’interpretazione dell’ “in” è stata risolta dunque nel senso che la competenza della sezione specializzata in materia di grandi imprese in crisi si radica solo dopo l’apertura dell’amministrazione straordinaria, mentre prima dell’apertura si applica la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 27.
2. L’infelice “in” al posto di “assoggettabilità”.
Nella motivazione dell’ordinanza si legge: “Il riferimento dell'art. 27 alle imprese "in" amministrazione straordinaria, in combinato con le regole desunte dall'art. 350, non consente esegesi diversa da questa letterale, convogliata, per la parte che qui interessa, dall'esistenza di una procedura già in atto.
Il senso specifico della previsione è nel chiarire che la richiamata (nuova) individuazione del tribunale competente in rapporto alla sede delle sezioni specializzate rileva non solo per l'accertamento dello stato di insolvenza ma anche per i procedimenti di regolazione della crisi (o dell'insolvenza) come definiti e disciplinati dal previgente titolo III della legge fall., e per le controversie che ne possano derivare se attinenti alle imprese ammesse all'amministrazione straordinaria.”
Tale interpretazione dell’infelice “in”, scelta dal collegio in quanto letterale, non spiega le ragioni della diversa interpretazione di quello stesso “in” con riferimento alla determinazione della competenza sulla domanda di apertura della procedura di ammissione straordinaria.
Anche in fase di domanda di apertura la grande impresa infatti non è ancora “in”.
La modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, CCI con riferimento all' articolo 3, comma 1, legge Prodi bis, e con riferimento all’art. 2, comma 1, legge Marzano -ove le parole «del luogo in cui ha la sede principale» sono sostituite con «competente ai sensi dell'articolo 27, comma 1, del codice della crisi e dell'insolvenza»- non avrebbe, d’altro canto, avuto senso se fosse rimasto competente il Tribunale della sede principale.
La disposizione di cui all’art. 27, primo comma, è ripetizione pedissequa della legge delega, che utilizzando quell’improprio “in” ha delegato la modifica della competenza, delega senza la quale il governo non avrebbe avuto il potere di intervenire.
Tutto questo per spiegare che, con riferimento all’apertura dell’amministrazione straordinaria, quell’in non poteva che significare “assoggettabilità” o “aventi i requisiti per essere ammesse a”.
Ma perché attribuire alla locuzione in amministrazione straordinaria un significato bivalente?
Se “in” significa “ammessa”, e certo non è “ammessa” l’impresa che chiede di esserlo, perché per la domanda di regolazione della crisi con la procedura di amministrazione straordinaria quell’in ha il significato di impresa avente i requisiti mentre nel caso di domanda di regolazione della crisi con la procedura di concordato preventivo quell’in va inteso in senso letterale?
Insomma perché darsi della stessa locuzione un’interpretazione diversa a secondo dei casi?
2.Gli effetti della scelta interpretativa sull’efficienza della giustizia.
La soluzione adotta dalla prima Sezione civile della corte di Cassazione rende tortuoso il percorso della regolazione della crisi delle grandi imprese.
La scelta di individuare un ufficio specializzato, come emerge dai lavori che hanno preceduto la formulazione dell’art. 27, comma 1- disposizione peraltro ritenuta di urgente applicazione tanto che è entrata in vigore il 30 marzo 2019- trova ragion d’essere nell’esigenza di affidare la regolazione della crisi di grandi dimensioni a uffici specializzati.
Alle grandi dimensioni dell’impresa corrispondono grandi dimensioni della crisi e, di conseguenza, significativa complessità della procedura di regolazione.
La scelta della sezione specializzata, quale ufficio competente, dipende dalle dimensioni del debitore e non già dal tipo di procedura di regolazione, la cui complessità permane perché dipende dalle qualità del debitore .
Gli effetti della doppia competenza, determinata dall’interpretazione bivalente dell’in, vanno considerati anche alla luce dell’alta probabilità di trasmigrazione del fascicolo dal Tribunale sede del COMI alla sezione specializzata, in caso di conversione della procedura di concordato preventivo in amministrazione straordinaria. La conversione delle procedure, d’altro canto, non è affatto eventualità rara, anzi tutt’altro, come emerge dall’osservazione empirica, come si desume dal dettaglio della disciplina che regola la conservazione degli effetti nonché dall’elaborazione giurisprudenziale in tema di conversione delle procedure.
E’ senz’altro produttiva di effetti negativi sull’efficienza della giustizia e sulla ragionevole durata del processo l’evenienza che una procedura di siffatta complessità inizi presso un ufficio e finisca presso un altro ufficio. Lo stesso vale per l’ufficio di Procura.
La diseconomicità e lo spreco delle risorse che ne consegue si riverbera inevitabilmente sul debitore, sui creditori ovvero sulla gestione stessa della procedura di regolazione della crisi. Il trasferimento della competenza da un tribunale all’ altro è una delle maggiori cause di diseconomicità del sistema giustizia, di sperpero delle risorse, di allungamento dei processi ovvero di inefficienza della giurisdizione.
Senza considerare i possibili intrecci di competenza che si determinano in caso di ricorsi presentati presso il Tribunale specializzato quando presso il Tribunale circondariale penda la domanda di concordato [[1]].
Sotto questo profilo la soluzione adottata dalla prima Sezione civile non sembra coerente rispetto alla necessità di orientare le decisioni giudiziarie verso l’efficienza della quale, non foss’altro per gli impegni assunti con l’Europa, dovremmo costantemente tener conto.
Anche per questo sarebbe forse opportuno che sull’infelice “in” o sulla sua interpretazione si torni a riflettere, attingendo a canoni ermeneutici che tengano conto certamente del dato lessicale, inserendolo nel – e considerandolo il - più ampio contesto della disciplina di settore.
* il presente scritto segue a Qual è il Tribunale competente a decidere sulla proposta di concordato preventivo delle grandi imprese in crisi?
[1] M. Farina La Cassazione e la competenza del Tribunale sede delle sezioni specializzate in materia di impresa ai sensi dell’art. 27, comma 1, del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza. Una restrittiva interpretazione letterale che non convince in JUDICIUM, 2021, fasc. 23.
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