ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ufficio per il Processo. Criticità costituzionali
di Sandra Leo
Sommario: 1. Premessa - 2. L’ufficio per il processo (UPP) - 3. Criticità costituzionali.
1. Premessa
La magistratura onoraria trae origine dal disposto dell'art. 106, 2 comma, della Costituzione: "la legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli".
Il decreto legislativo n. 51/1998 (cd. “Riforma del Giudice unico”) nel dare attuazione all’art. 106 Cost. istituiva due nuove figure, il Giudice Onorario di Tribunale e il Vice Procuratore Onorario, eredi di quella che era stata l'attività del Vice Pretore Onorario. La disciplina offerta dal d.lgs. in parola era molto scarna e si ricollegava a quanto previsto, in via generale, dal R.D. n. 12/1941 (cd. “legge sull’Ordinamento Giudiziario"). Avrebbe dovuto restare in vigore fino all’ introduzione di una riforma organica, prevista entro cinque anni, ma che è invece è giunta solo nel 2017, con il guardasigilli Andrea Orlando.
Nel frattempo, in quasi venti anni, l’attività dei magistrati onorari veniva scandita da umilianti proroghe annuali, e regolamentata con frammentarie e spesso contraddittorie circolari del CSM, nonché da svariati decreti ministeriali (es. i D. M. 26.09.07 "Modifica ed integrazione dei criteri per la nomina e la conferma dei vice procuratori onorari", "Modifica ed integrazione dei criteri per la nomina e la conferma dei giudici onorari di tribunale", ecc.). Le circolari del CSM sulla formazione delle tabelle per gli uffici giudiziari, anche sotto la spinta delle esigenze degli uffici giudiziari, hanno ampliato sempre di più l’apporto dei GOT, inserendoli nei collegi, nelle sezioni specializzate (lavoro, famiglia, impresa, ecc.), assegnando loro ruoli autonomi ed attribuendo agli stessi intere materie, quasi in via esclusiva (esecuzioni mobiliari, famiglia, previdenza, volontaria giurisdizione, immigrazione ecc.). Nel contempo veniva consentita -ed anzi imposta come un obbligo- la redazione di un’ enorme mole di provvedimenti, anche inconferenti con le attività d’udienza, a costo zero.
Infatti il GOT (a differenza del GdP) riceve un compenso per la sua attività in forma di gettone di presenza per ciascuna udienza svolta, a prescindere dal numero dei procedimenti trattati e dei provvedimenti emessi.
Tutti i magistrati onorari che hanno assunto le funzioni prima del 15.08.2017 sono stati reclutati nella vigenza di una normativa direttamente ispirata alla previsione di una identità funzionale tra magistrati onorari e di carriera, ribadita anche dalla Consulta (sentenza 267/2020) e dalla Corte di Cassazione:
"I giudici onorari - sia in qualità di giudici monocratici che di componenti di un collegio - possono decidere ogni processo e pronunciare qualsiasi sentenza per la quale non vi sia espresso divieto di legge, con piena assimilazione dei loro poteri a quelli dei magistrati togati, come si evince dall'art. 106 Cost., cosicchè, in ipotesi siffatte, deve escludersi la nullità della sentenza per vizio relativo alla costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c., ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all'ufficio, ossia non investita della funzione esercitata” (Cass. n. 28937/2017)
2. L’ufficio per il processo (UPP)
L’ufficio per il processo è stato introdotto dall’art. 50 del d.l. n. 90/2014 (convertito in legge n. 114/2014) con una previsione estremamente generica, intendendosi forse affidare i singoli aspetti, non solo organizzativi ma anche strutturali, ad emananda normativa ovvero alla regolamentazione (potremmo dire ad usum delphini) del CSM o dei singoli Uffici e Consigli Giudiziari.
Successivamente, l’art. 10 del d. lgs. n. 116/2017 nel disciplinare l’ufficio con riguardo all’inserimento dei GOT (mentre altre disposizioni dispongono circa l’inserimento dei VPO nell’Ufficio di collaborazione del Procuratore) ha stabilito che nel contesto dell’ufficio per il processo:
- il giudice onorario di pace coadiuva il giudice professionale e, sotto la sua direzione e coordinamento, compie, anche per i procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione collegiale, tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice professionale, provvedendo, in particolare, allo studio dei fascicoli, all’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale ed alla predisposizione delle minute dei provvedimenti;
- il giudice professionale, con riferimento a ciascun procedimento civile e al fine di assicurarne la ragionevole durata, può delegare al giudice onorario di pace, inserito nell’ufficio per il processo, compiti e attività, anche relativi a procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione collegiale, purché’ non di particolare complessità, ivi compresa l’assunzione dei testimoni, affidandogli con preferenza il compimento dei tentativi di conciliazione, i procedimenti speciali previsti dagli articoli 186-bis e 423, primo comma, del codice di procedura civile, nonché i provvedimenti di liquidazione dei compensi degli ausiliari e i provvedimenti che risolvono questioni semplici e ripetitive.
- Al giudice onorario di pace non può essere delegata la pronuncia di provvedimenti definitori, fatta eccezione per quelli elencati nella norma;
- il giudice onorario di pace svolge le attività delegate attenendosi alle direttive concordate con il giudice professionale titolare del procedimento, anche alla luce dei criteri generali definiti all’esito delle riunioni di cui all’articolo 22. Il Consiglio superiore della magistratura individua le modalità con cui le direttive concordate sono formalmente documentate e trasmesse al capo dell’ufficio. Il giudice professionale esercita la vigilanza sull’attività svolta dal giudice onorario e, in presenza di giustificati motivi, dispone la revoca della delega a quest’ultimo conferita e ne dà comunicazione al Presidente del Tribunale.
Tale assetto ordinamentale, anche per quanto riguarda i GOT in servizio, non è stato messo in discussione dalla proposta di riforma recentemente elaborata dalla Commissione ministeriale “Castelli”, che continua ad indicare come opportuno l’inserimento di tali figure nella struttura in esame.
3. Criticità costituzionali
La previsione costituzionale citata e la specifica normativa (d.lgs. n. 51/1998) vigente all’epoca del reclutamento inducono invece a ritenere che i GOT immessi in servizio prima della cd “riforma Orlando” (d. lgs. n. 116/2017) - fatta salva l’adesione volontaria - non debbano essere inseriti nell’UPP, sussistendo molteplici ragioni ostative, rappresentate dalla violazione di diverse norme e principi dell’ordinamento.
In primis l’inserimento determinerebbe sul piano lavorativo un ingiustificato demansionamento e un’evidente dequalificazione per quanti hanno svolto per anni attività giurisdizionale, talvolta reggendo - anche in solitudine - intere sezioni distaccate di tribunale. Sul piano ordinamentale darebbe luogo ad un totale stravolgimento della funzione assunta con l’incarico conferito, che comporta la piena assimilazione delle funzioni con quelle svolte dai magistrati di ruolo, senza che sia consentita alcuna subalternità dei primi rispetto ai secondi.
L’identità funzionale che connota le due categorie di magistrati richiede com’è ovvio che siano assicurate pari autonomia e indipendenza.
Ma il giudice onorario sottoposto, anche formalmente, a direttive “concordate” con il togato non sarebbe più un giudice sottoposto solo alle legge, come impone l’art. 101 della Costituzione. Sarebbe, per l’appunto, sottoposto anche a tali direttive, che non hanno valenza normativa ma possono variare da un Ufficio all’altro, o addirittura da una sezione di tribunale all’altra. Certamente non sarebbe un giudice libero, perché qualora non condividesse l’orientamento del magistrato professionale (per esempio su questioni insorte durante l’escussione dei testimoni, o relative a controversie seriali di cui gli è delegata la definizione) sarebbe obbligato ad adottare comunque un provvedimento che non lo convince, oppure a restituire o a farsi revocare la delega, esponendosi a significative decurtazioni del compenso o a possibili più gravi conseguenze. Sul punto si riporta un indicativo stralcio del parere di costituzionalità allegato alla cd. “lettera dei 110 procuratori” del 23.05.2017 (primo firmatario il dott. Armando Spataro);
“(…) il giudice onorario, pare con scrutinio non perspicuo alla Costituzione, dovrebbe poi attenersi, per gli affari allo stesso devoluti, alle direttive del giudice professionale che, diversamente (sic), ne disporrebbe la revoca dell’originaria delega con immediata comunicazione al Presidente del Tribunale, il tutto con qualche plausibile frizione con l’art. 101 Cost.”,
La sottoposizione del GOT al magistrato professionale (che impartisce le direttive, esercita la vigilanza sull’attività svolta, e se lo ritiene revoca la delega conferita) stride altresì con l’art. 107 comma 3 della Costituzione, (“I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”) e con l’art. 108 ultimo comma (“La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia”).
Forti perplessità soggiungono anche con riferimento alla salvaguardia del giusto processo (art. 111 Costituzione).
Tale tutela verrebbe meno, infatti, se il processo, o anche un segmento dello stesso, si svolgessero davanti a una figura che non sia dotata in senso proprio di indipendenza, terzietà e imparzialità, ma che, viceversa, sia condizionata da direttive, verifiche o controlli (peraltro lasciati al prudente apprezzamento del PdT) che possano incidere sulla sua retribuzione o –addirittura- giustificare la revoca dall’incarico.
Altrettanto problematici sono i profili che attengono alla tutela del diritto di difesa.
Affinché il contraddittorio sia effettivo occorre, come già ricordato, che abbia luogo davanti ad un giudice terzo e imparziale. Ma se tale giudice non ha l’autonomia di decidere, dovendosi attenere a direttive e orientamenti che potrebbe non condividere, qualora, magari all’esito dell’istruttoria espletata, ritenesse di doverli disattendere, quid iuris ? Si pensi a quei procedimenti in cui la decisione dev’essere assunta necessariamente ad horas o comunque rapidamente: in tali ipotesi il GOT potrebbe essere chiamato a dover scegliere tra la propria valutazione dei fatti (magari maturata attraverso la dialettica processuale di cui è stato diretto testimone) e le direttive che gli sono state formalmente impartite. In ogni caso, la sua non sarebbe una decisione serena, e non sarebbe dettata esclusivamente dalla legge e dal proprio intimo convincimento.
È evidente che in un simile contesto anche il ruolo difensivo dell’avvocato risulterebbe gravemente mortificato, con effetti nefasti sugli equilibri costituzionali che sovrintendono al giusto processo.
La garanzia del giudice naturale (art. 25 comma 1 Cost.) implica che sia solo la legge a dettare i criteri in base ai quali individuare, prima del giudizio, il giudice competente, inteso sia come ufficio che come singolo magistrato. Si pone invece in palese conflitto con l’anzidetta garanzia la facoltà, attribuita al giudice togato che dirige l’UPP, di delegare la trattazione e – nelle tassative ipotesi previste – la definizione dei procedimenti a singoli GOT, non in base a criteri generali ed astratti, ma con valutazione meramente soggettiva e discrezionale (si pensi ai procedimenti “di non particolare complessità”, o ai provvedimenti “che risolvono questioni semplici e ripetitive”).
Ulteriori criticità, giustamente poste in luce dal Pres. Giuseppe Minutoli[1], sono poi rappresentata dal diverso trattamento previsto per due categorie, i GOT e i GdP, che pure la riforma Orlando ha inteso unificare. In contrasto con il principio di uguaglianza dettato dall’art. 3 della Costituzione, i GOT (ex artt. 10 e 30 d, lgs. n. 116/2017) verrebbero forzosamente inseriti nell’UPP, mentre per i GdP l’inserimento sarebbe previsto solo ove ne facciano richiesta.
Permangono forti perplessità anche con riguardo all’art. 97 della Costituzione. La scelta di adibire professionisti già formati, che da decenni svolgono funzioni giurisdizionali, a compiti fungibili di assistenza e segretariato, non solo è in antitesi con il principio di inamovibilità del giudice (art. 107 comma 1 della Costituzione) ma appare del tutto irrazionale anche sotto il profilo dell’efficienza della PA, posto che certamente non concorre ad assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Al danno di una Giustizia che rischia di diventare ancora più lenta e inefficiente, si unirebbe oltretutto la beffa di mettere a rischio i cospicui fondi messi a disposizione per il PNRR e di dover pagare gravose sanzioni per la procedura d'infrazione avviata dalla Commissione europea, che proprio in questi giorni dovrebbe chiedere il deferimento del Governo italiano davanti alla Corte di Giustizia dell’UE.
Sul piano delle tutele stricto sensu giuslavoristiche, l’attività svolta nell’ambito dell’UPP fino all’effettiva entrata in vigore dell’art. 23 del d.lgs. n. 116/2017, attualmente prorogata al 31.12.21, si configura quale attività prevalentemente (se non esclusivamente) non retribuita, e ciò in aperta violazione con l’art. 36 della Costituzione, che notoriamente vieta il lavoro gratuito.
Infine l’inserimento dei GOT già in servizio nell’UPP implica la violazione dell’art. 117 della Costituzione, poiché verrebbero disattese le chiare ed univoche indicazioni relative allo status dei magistrati onorari italiani, offerte da organismi sovranazionali quali il CEDS e la CGUE.
Infatti con pronuncia del 16 novembre 2016, il CEDS (Comitato Europeo dei diritti sociali) ha rilevato la grave e reiterata violazione della carta sociale europea da parte del Governo della Repubblica italiana, e più di recente la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX ha stabilito che il magistrato onorario italiano rientra nella nozione di «giurisdizione di uno degli Stati membri» in quanto organismo di origine legale, a carattere permanente, deputato all’applicazione di norme giuridiche in condizioni di indipendenza. Con pieno diritto della categoria in questione a tutte le tutele economiche, previdenziali ed assistenziali previste per i lavoratori comparabili, dovendosi con ciò escludere anche che possa esserne disposto unilateralmente, e in assenza di valide ed oggettive motivazioni, un radicale demansionamento.
E vanno ricordate le parole della ministra Cartabia che appena nominata, delineando le linee guida del dicastero davanti ai Senatori della Commissione Giustizia, il 18 marzo scorso sull’UPP spiegava “Si è esclusa la presenza dei giudici onorari nell’ufficio per il processo. Secondo me quella era una presenza non opportuna, perché anche i vecchi giudici onorari, avendo giudicato fino al giorno prima, come potrebbero accettare di mettersi in una funzione soltanto ancillare. Secondo me non avrebbe funzionato bene. Mi sembra corretto tenere distinti i problemi. La magistratura onoraria darà il suo contributo all’alleggerimento della giustizia secondo le forme sue proprie. L’assistente è l’assistente ed è un’altra cosa”.
4. Conclusioni
Pur non entrando nel merito della validità della struttura dell’UPP, va tuttavia rilevato che l’introduzione di tale struttura è stata motivata, anche in sede parlamentare, con la comparazione ad analoghe esperienze che sarebbero presenti in altri sistemi giudiziari. Peccato si tratti di riferimenti vaghi ed approssimativi, se non del tutto impropri.
Così, per esempio, l’accostamento ad una analoga struttura che esisterebbe in un sistema abbastanza vicino al nostro, qual’è quello francese, prende in considerazione il fatto che il “juge” è assistito da un “greffier”. Ma trascura che il greffier, assimilabile al nostro assistente giudiziario o al cancelliere, è un impiegato pubblico che non ha nulla in comune né con gli stagisti e i tirocinanti, né - a maggior ragione - con il GOT con funzioni giurisdizionali di “giudice singolo”, previsto dal nostro ordinamento.
Al di là di tentativi forse frettolosi di offrire legittimazione ad una struttura operativa fortemente voluta da una parte della magistratura professionale, quel che dovrebbe essere pacificamente condiviso è che l’UPP non può sugellare l’illegittimo demansionamento dei GOT, attraverso la forzosa espropriazione delle attività giurisdizionali che l’art. 106 della Costituzione attribuisce espressamente a tali figure.
Opinione, questa, condivisa anche dal CSM, che nella delibera del 24 febbraio 2016 osservava come “appare incongrua la previsione della assegnazione di coloro che attualmente siano investiti delle funzioni di Magistrato onorario all’ufficio del processo, atteso che tale disposizione non appare compatibile con la, invero correttamente ipotizzata, prospettiva di una progressiva formazione e della acquisizione graduale di esperienza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, determinata dal passaggio dalla posizione di diretta collaborazione col giudice professionale alla assunzione di autonome funzioni giurisdizionali, seppur onorarie”.
Censure forti e circostanziate all’inserimento dei giudicanti onorari nell’UPP sono giunte in questi anni anche da autorevoli giuristi. Valga quanto espresso, senza mezzi termini, in un mirabile saggio del Prof. Giuliano Scarselli[2] che risale al 2017:
“In sostanza, il giudice professionale si trasforma in un piccolo capo di un piccolo ufficio, ovvero quello del processo, e più che lavorare farà lavorare i suoi collaboratori; il giudice onorario si trasforma invece in ancella del giudice professionale, il tutto per 16.000,00 euro lordi annui (…) E torno, allora, a porre la domanda che già posi in seno al commento della legge delega, ovvero se compito del legislatore è quello di migliorare l’efficienza della giustizia oppure le condizioni di lavoro dei giudici professionali. Questa non è la riforma dei giudici onorari; ai giudici onorari questa riforma non concede niente: né migliori retribuzioni, né minime forme di stabilizzazione del lavoro, né minime forme di assistenza e/o previdenza. Direi, nemmeno riconosce il ruolo fondamentale che questa magistratura ha avuto in tutti questi anni, dalla soppressione delle preture ad oggi (…). In ogni caso la retribuzione prevista per i giudici onorari di pace non appare conforme a quanto statuito dal Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa (CEDS) nel provvedimento pubblicato in data 16 novembre 2016, nonché dalla Commissione Europea (in relazione al caso EU PILOT 7779/15/EMPL, conclusosi con esito negativo per l’Italia) e dalla Commissione delle Petizioni del Parlamento europeo con lettera del Presidente del 23 marzo 2017. Non giova alla qualità della giustizia che il giudice professionale non abbia ormai quasi più contatti diretti con il fascicolo e assuma direttamente le decisioni solo in sporadici casi, poiché in tutti gli altri, come abbiamo visto, il compito di rendere giustizia o è di competenza del giudice di pace, o è assegnato al giudice onorario, o è delegato allo stesso all’interno dell’ufficio del processo”.
La profezia sembrerebbe sul punto di avverarsi: nel tour volto a promuovere la struttura sulla quale sono state puntate le sostanziose fiches concesse dall’Europa, e che vedrà, all’esito di un reclutamento in tempi record, l’inserimento di oltre 20.000 nuovi addetti con vari ruoli e competenze, la ministra Cartabia ha spiegato che d' ora in poi le sentenze saranno il frutto di una "decisione corale", evocando l’immagine della sala operatoria e del lavoro d'équipe che sta dietro ad un intervento.
Ma questa visione dell'iter decisorio come una sorta di catena di montaggio ove ciascuno elabora un frammento e concorre a realizzare un’opera collettiva, sia pur sotto la direzione di un capo, è compatibile con un ordinamento che sembrerebbe individuare proprio nella solitudine del giudice, nella valutazione serena, prudente e perciò personale dei fatti di causa, nel convincimento intimo, libero, e talvolta tormentato, la materia - impalpabile - che permea la responsabilità dello ius dicere?
*GOT presso il Tribunale di Milano, Direttivo AssoGOT
[1] https://www.unicost.eu/la-necessaria-riforma-della-magistratura-onoraria-e-lefficienza-della-giurisdizione/
[2] https://www.questionegiustizia.it/articolo/note-critiche-sullo-schema-di-decreto-legislativo-recante-la-riforma-organica-della-magistratura-onoraria_10-07-2017.php
Ufficio per il Processo, una opportunità o un rischio per la Giustizia?
di Massimo Morgia*
Gli assunti, per lo più neolaureati senza esperienza lavorativa, dopo avere superato un concorso che consiste in un test di 40 quesiti su diritto pubblico, ordinamento giudiziario e lingua inglese, dovrebbero coadiuvare il magistrato nella stesura delle sentenze, principalmente, secondo il Ministro della Giustizia, occupandosi delle ricerche giurisprudenziali.
Ma pensiamo davvero che ogni giorno possano essere impiegati nell’attività di ricerca giurisprudenziale? I magistrati di riferimento hanno davvero bisogno di tante ricerche? E poi, quali ricerche dovranno fare? Dovranno loro studiare i fascicoli, individuare le fattispecie normative da applicare al caso concreto, o questo resterà un compito del magistrato che poi indirizzerà l’assistente nella ricerca di giurisprudenza, ammesso che sia sempre utile? In quest’ultimo caso non si vede l’utilità dell’affiancamento, perché non è certo la ricerca giurisprudenziale ad appesantire il lavoro del magistrato sottraendogli tempo. I magistrati, infatti, sono dotati di ottime banche dati che, una volta impostata correttamente la ricerca, offrono una panoramica completa degli orientamenti della giurisprudenza, con collegamenti ipertestuali alla normativa di riferimento ed alla dottrina. Inoltre, bisogna essere in grado di impostare la ricerca ed avere una idonea preparazione giuridica per comprendere le massime e verificarne l’attinenza al caso specifico. I neoassunti sono in grado di fare tutto ciò? Hanno le competenze? Ricordiamo che vengono assunti con una verifica su materie che nulla hanno a che fare con i compiti cui vengono assegnati e che non sono avvocati e, in taluni casi, nemmeno laureati in legge. Infatti, sono ammessi al concorso, oltre ai laureati in materie giuridiche, anche con laurea triennale, i laureati in economia e commercio, scienze politiche o con titoli equiparati ed equipollenti.
Gli assistenti dovranno, quindi, essere formati dal magistrato di riferimento, che dovrà verificarne la preparazione e indirizzarli nello studio delle materie civilistiche e processualistiche attinenti ai loro compiti.
Il rischio che si profila è che i magistrati più scrupolosi debbano occupare parte del loro tempo nella formazione degli assistenti e nella correzione dei loro elaborati, sottraendolo al loro compito primario di studio e risoluzione delle controversie, mentre i magistrati più interessati all’incremento delle proprie statistiche di produttività possano delegare all’assistente la stesura delle sentenze, con tutto ciò che ne consegue in termini di qualità delle sentenze stesse e di rispondenza alla richiesta di giustizia delle parti in giudizio.
Eppure, secondo il Ministero, il nuovo ufficio del processo dovrà permettere al giudice di decidere dieci cause al giorno, con un nuovo schema di “sentenza su modulistica dove il prodotto ha una standardizzazione che fa a cazzotti con il fioretto cui siamo abituati” (dott. Andrea Montagni, direttore generale dei magistrati), trasformando, così, il magistrato in un anonimo correttore di bozze scritte da giovani laureati non formati e non competenti, con buona pace del tanto decantato prestigio della magistratura.
A questo punto bisogna chiedersi se sia ammissibile che, di fatto, la funzione giurisdizionale venga esercitata da personale non abilitato. La scrittura di “bozze di sentenza”, così come vengono definite dal Ministero, non può prescindere dallo studio della causa, dalla comprensione della fattispecie concreta e dalla conseguente applicazione della normativa confacente, attività questa che attiene alla funzione giurisdizionale e che deve competere esclusivamente al magistrato, non certo nella veste di semplice correttore di bozze, ma di unico responsabile del procedimento, al quale solo appartiene l’alta funzione del giudicare e amministrare la giustizia.
Le contraddizioni dell’ufficio del processo appaiono ancora più stridenti se rapportate al trattamento riservato ai giudici onorari, ai quali, nonostante smaltiscano più del 50% del contenzioso civile, scrivendo sentenze che, per una strana alchimia, confluiscono nelle statistiche dei magistrati cosiddetti togati, non viene riconosciuta nemmeno la qualifica di lavoratori, lasciandoli nel limbo dei “fantasmi della giurisdizione”.
A differenza degli aspiranti assistenti dell’ufficio del processo, i giudici onorari sono in gran parte avvocati che, pertanto, hanno superato gli esami di abilitazione alla professione forense, dimostrando di avere una idonea preparazione giuridica, e ogni quattro anni vengono sottoposti a verifica di professionalità da parte di una commissione formata da magistrati e avvocati. Ma, chissà per quale oscuro motivo, tutto questo non basta per inserirli in maniera stabile nella amministrazione giudiziaria, riconoscendogli i fondamentali diritti dei lavoratori.
* Got presso il Tribunale di Messina
Il caso Prokuratuur: il difficile dialogo tra le Corti e le conseguenze della sentenza della Corte di giustizia nell’ordinamento nazionale
di Giovanni Petroni
Sommario: 1. La sentenza Prokuratuur - 2. La disciplina italiana e la riforma attuata con d.l. 132/2021 - 3. Le prese di posizione della giurisprudenza italiana a seguito della sentenza Prokuratuur - 4. Il ruolo del giudice nazionale nell’ordinamento europeo e gli effetti delle sentenze della Corte di giustizia - 5. Profili di criticità della soluzione adottata dalla giurisprudenza nazionale e prospettive future.
1. La sentenza Prokuratuur
Con sentenza del 2 marzo 2021 (in prosieguo: la «sentenza Prokuratuur»), la Corte di giustizia[1], rispondendo ad un rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte suprema estone, ha affermato che il diritto dell’Unione (in particolare, l’articolo 15 della direttiva 2002/58/UE relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche, letto alla luce degli articoli 7, 8, 11 e 52 della Carta di Nizza) osta a una disciplina nazionale che:
(i) non circoscriva l’accesso da parte delle autorità pubbliche ai dati relativi alle comunicazioni telematiche o telefoniche effettuate da un utente o quelli relativi alla ubicazione delle apparecchiature da costui utilizzate alle sole ipotesi di «procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica»;
(ii) affidi, nel corso di un procedimento penale, la competenza ad autorizzare l’accesso a tali dati al pubblico ministero, organo che – per quanto garante della legalità nella fase delle indagini, dovendo esso ricercare anche gli elementi favorevoli all’indagato – non è ritenuto terzo ed imparziale in quanto è comunque parte nel procedimento.
Si tratta di un intervento che si colloca nel quadro della tendenziale espansione del diritto alla riservatezza della vita privata. Essa «quale bene in sé, è un fenomeno che ha trovato un forte elemento propulsivo nell’elaborazione estremamente avanzata, maturata in ambito eurounitario, del concetto di diritto alla privacy, come insieme di aspetti della vita delle persone che include e trascende gli aspetti tradizionali della riservatezza delle comunicazioni o del domicilio, della libera manifestazione del pensiero e, in generale, della libertà da ingerenze coattive pubbliche»[2].
In questo contesto, le decisioni della Corte di giustizia assumono un ruolo essenziale. Nelle varie tappe del percorso giurisprudenziale che ha condotto alla sentenza Prokuratuur, la Corte di Lussemburgo è, infatti, intervenuta sulla materia, contribuendo a conformare la disciplina europea, sia in relazione all’aspetto della conservazione dei dati – sotto il profilo della durata e dell’oggetto di tale conservazione – sia in relazione all’accesso ad essi da parte delle autorità pubbliche[3].
2. La disciplina italiana e la riforma attuata con d.l. 132/2021
La disciplina italiana sulla conservazione e sull’utilizzo dei dati del traffico telefonico e telematico – elementi conoscitivi riportati in quelli che nel gergo tecnico vengono chiamati “tabulati” – è contenuta nell’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
Tale norma, nella versione vigente fino al 29 settembre 2021, prevedeva che i dati potessero essere conservati per un periodo determinato[4] per finalità di accertamento e repressione dei reati e che il pubblico ministero ne potesse disporre l’acquisizione con proprio decreto motivato.
La Corte di cassazione, con orientamento costante, aveva ritenuto che tale norma fosse compatibile con l’articolo 15 della direttiva 2002/58, come interpretato dalla Corte di giustizia, poiché la deroga ivi stabilita alla riservatezza delle comunicazioni era prevista per un periodo di tempo limitato, aveva come esclusivo obiettivo l’accertamento e la repressione dei reati (la cui gravità poteva essere oggetto di apprezzamento in concreto da parte dell’autorità giudiziaria), ed era subordinata alla emissione di un provvedimento da parte del pubblico ministero, ossia di un’autorità giurisdizionale[5].
Senza soffermarsi su possibili profili di criticità di questa conclusione, va evidenziato che in tale contesto è sopraggiunta la sentenza Prokuratuur, che ha posto, in modo assai evidente, problemi di compatibilità tra il diritto unionale e l’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 nella versione all’epoca vigente, nella parte in cui esso: (i) subordinava l’acquisizione dei dati ad un provvedimento del pubblico ministero; (ii) non fissava alcun limite qualitativo, in termini di gravità, in ordine ai reati che potevano legittimare una simile intrusione nella privacy.
Pertanto, con decreto legge n. 132 del 30 settembre 2021, il Governo italiano è intervenuto su tale disciplina, in ragione della «straordinaria necessità ed urgenza di garantire la possibilità di acquisire dati relativi al traffico telefonico e telematico per fini di indagine penale nel rispetto dei principi enunciati dalla Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 2 marzo 2021, causa C-746/18, e in particolare di circoscrivere le attività di acquisizione ai procedimenti penali aventi ad oggetto forme gravi di criminalità e di garantire che dette attività siano soggette al controllo di un’autorità giurisdizionale»[6].
Modificato dal citato decreto legge, l’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 prevede oggi che l’accesso ai dati telefonici e telematici possa avvenire solamente: (i) in presenza di sufficienti indizi circa la commissione di reati puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni (salve alcune limitate eccezioni); (ii) a condizione che i dati risultino rilevanti ai fini della prosecuzione delle indagini; (iii) previa emissione di un decreto motivato del giudice che procede, su richiesta del pubblico ministero o su istanza del difensore dell’imputato, della persona sottoposta a indagini, della persona offesa e delle altre parti private[7].
È inoltre prevista la possibilità di un intervento d’urgenza del pubblico ministero, che il giudice deve convalidare entro quarantotto ore. La mancata convalida nel termine stabilito è espressamente sanzionata con l’inutilizzabilità dei dati acquisiti.
La novella legislativa, che non contiene alcuna disciplina transitoria[8], riguarda le acquisizioni di tabulati compiute a partire dal 30 settembre 2021, data di entrata in vigore del decreto legge.
Salva la possibilità di modifiche ad opera della legge di conversione – al vaglio delle Camere contestualmente alla stesura del presente articolo[9] – rimane allo stato demandata alla giurisprudenza la soluzione della questione attinente alla compatibilità tra i principi espressi dalla sentenza Prokuratuur e la precedente versione dell’articolo 132 del d.lgs. 196/2003, così come quella relativa all’utilizzabilità nel processo dei dati sulla base di tale norma acquisiti. Si tratta di problematiche che possono assumere un valore dirimente in molti procedimenti penali ora già pendenti.
3. Le prese di posizione della giurisprudenza italiana a seguito della sentenza Prokuratuur
Gli interventi giurisprudenziali che si sono occupati di tale questione possono essere distinti in due filoni: (i) da un lato, vi sono i decreti dei giudici delle indagini preliminari ai quali i pubblici ministeri, alla luce del recente arresto della Corte di giustizia, hanno avanzato una richiesta di acquisizione dei tabulati; (ii) dall’altro, vi sono i provvedimenti (ordinanze e sentenze) che si sono occupati dell’utilizzabilità processuale dei tabulati già acquisiti in conformità alla normativa ante-riforma.
In generale, può dirsi che l’orientamento fino ad ora assolutamente prevalente – ed al momento accolto anche dalla giurisprudenza di legittimità – ha “salvato” la normativa domestica e, dunque, la procedura ivi prevista e le attività di acquisizione della prova che sulla base di essa sono state compiute.
Si è affermato, infatti, che la decisione della Corte di giustizia non ha effetti applicativi immediati e diretti, a causa dell’indeterminatezza delle espressioni in essa utilizzate per legittimare l’ingerenza dell’autorità pubblica nella vita privata dei cittadini – ossia il riferimento operato ai casi di “lotta contro le forme gravi di criminalità” o di “prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica” – la cui concreta declinazione sarebbe necessariamente demandata alla legge nazionale[10].
D’altro lato, si è esclusa l’equiparabilità tra il P.M. estone e quello italiano, atteso che quest’ultimo, per il suo status ordinamentale, è organo facente parte dell’autorità giudiziaria e come tale destinatario dei doveri di imparzialità e di rispetto della legge ed anche delle guarentigie costituzionali poste a tutela della piena autonomia della funzione[11]. La Corte di cassazione, su questo secondo punto, non si è ancora espressa.
Solamente in due provvedimenti di merito si è ritenuto che la decisione della Corte di giustizia avesse dei riflessi immediati nell’ordinamento nazionale, ravvisandosi in particolare un «sopravvenuto contrasto» tra la normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di giustizia, e l’articolo 132, comma 3, del d.lgs. 196/2003, nella sua versione precedente alla riforma, nella parte in cui attribuiva la competenza ad emettere il decreto motivato di acquisizione al pubblico ministero anziché al giudice[12].
Altrettanto isolato è stato il provvedimento dell’autorità giudiziaria che ha ritenuto di dover sollevare una nuova questione pregiudiziale, chiedendo alla Corte di giustizia di esprimersi specificamente sulla compatibilità tra la previgente versione dell’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 e la normativa europea[13]. Tuttavia, a seguito della riforma di cui si è detto, tale domanda pregiudiziale è stata ritirata, con un provvedimento in cui lo stesso organo ha evidenziato che “la normativa di nuova emanazione” vale “solo per il futuro” e che, dunque, le attività di acquisizione già svolte sono da ritenere legittime.
4. Il ruolo del giudice nazionale nell’ordinamento europeo e gli effetti delle sentenze della Corte di giustizia
Prima di soffermarsi sulle perplessità che suscitano le menzionate decisioni dei giudici italiani, pare opportuno svolgere alcune riflessioni, necessariamente sintetiche, sul ruolo del giudice nazionale nell’ambito dell’ordinamento europeo e sugli effetti delle sentenze della Corte di giustizia rese in sede di rinvio pregiudiziale.
Come noto, ogni giudice nazionale è anche organo giurisdizionale dell’Unione europea, incaricato di vegliare – in virtù del principio di cooperazione previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE – sull’applicazione e sull’osservazione del diritto unionale nell’ordinamento giuridico nazionale[14].
Il giudice nazionale deve dunque: (i) fornire ove possibile una interpretazione del diritto interno conforme al diritto dell’Unione, sia esso dotato o meno di effetti diretti[15]; (ii) applicare il diritto dell’Unione dotato di effetti diretti e tutelare i diritti che questo attribuisce ai privati, disapplicando le disposizioni nazionali eventualmente contrastanti, sia anteriori sia successive alla norma europea[16]; (iii) in presenza di un contrasto, insanabile in via interpretativa, tra una norma interna ed una norma dell’Unione priva di effetti diretti, sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’articolo 117 Cost. Ulteriori articolazioni del quadro ora descritto derivano dai casi in cui vengano in rilievo i c.d. “controlimiti”[17] e di c.d. “doppia pregiudizialità”[18].
In un quadro così complesso, in presenza di un dubbio sull’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla compatibilità con esso del diritto interno, risulta fondamentale l’instaurazione di un dialogo con la Corte di giustizia[19], che si estrinseca principalmente attraverso l’istituto del rinvio pregiudiziale. Esso, infatti, garantisce una cooperazione diretta, nell’ambito della quale la Corte di Lussemburgo fornisce ai giudici nazionali (ivi inclusa la Corte costituzionale)[20], in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, gli elementi d’interpretazione di tale diritto necessari per risolvere la controversia che essi sono chiamati a dirimere[21].
Le sentenze interpretative rese in sede di rinvio pregiudiziale dalla Corte di Lussemburgo hanno normalmente effetti erga omnes ed ex tunc.
Infatti, secondo una giurisprudenza costante della Corte di giustizia[22] - avallata anche dalle superiori autorità giurisdizionali italiane[23] – l’interpretazione che essa fornisce di una norma di diritto unionale, nell’esercizio della competenza attribuitale dall’art. 267 TFUE, chiarisce e precisa il significato e la portata della norma stessa come deve o avrebbe dovuto essere intesa e applicata dal momento della sua entrata in vigore. L'interpretazione del diritto eurounitario fornita in tale contesto ha dunque efficacia vincolante per tutte le autorità (giurisdizionali o amministrative) degli Stati membri.
Ciò perché l’interpretazione di una norma di diritto unionale fornita dalla Corte di giustizia «si limita a chiarire e a precisare il significato e la portata della norma stessa, così come essa avrebbe dovuto essere interpretata sin dal momento della sua entrata in vigore», con la conseguenza che la norma interpretata – purché dotata di efficacia diretta – può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e sviluppatisi prima della sentenza, purché non esauriti[24].
In via eccezionale, e in applicazione del principio generale della certezza del diritto, è la stessa Corte – e non il giudice nazionale – a poter limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata, al fine di tutelare l’affidamento riposto in rapporti giuridici costituiti in buona fede e di bilanciare ulteriori interessi potenzialmente pregiudicati dall’interpretazione da essa fornita[25]. In questi casi alle pronunzie della Corte di giustizia è espressamente attribuita efficacia ex nunc, fermo restando la salvaguardia dei diritti dei privati che avevano già promosso azioni giudiziarie in linea con l'orientamento successivo fatto proprio dal giudice di Lussemburgo.
5. Profili di criticità della soluzione adottata dalla giurisprudenza nazionale e prospettive future
Tornando alla sentenza Prokuratuur, sembra che i giudici italiani non abbiano al momento adeguatamente valutato la portata dei principi ivi espressi, che, tenuto conto degli effetti erga omnes ed ex tunc della citata sentenza, pongono con evidenza delle questioni di compatibilità tra la normativa europea ed il diritto interno ante-riforma, così come peraltro confermato proprio dall’interpolazione della normativa effettuata in via d’urgenza dal Governo.
In questa ottica, la vicenda sembra poter essere presa ad esempio delle difficoltà che connotano il dialogo tra i due livelli giurisdizionali.
In primo luogo, la genericità del riferimento alle «forme gravi di criminalità» - sebbene effettivamente, per ragioni di certezza del diritto, non risulta risolvibile attraverso il ricorso ad una valutazione della gravità del reato da effettuarsi di volta in volta da parte dell’autorità giudiziaria procedente – non parrebbe privare la sentenza della Corte di effetti immediati rispetto all’ordinamento interno.
Da tale connotazione della disposizione della direttiva europea si potrebbe al più ricavare che essa – nell’interpretazione fornitane dal giudice europeo – è priva dei caratteri di chiarezza e precisione e che non può essere ad essa riconosciuta natura self-executing.
Tale conclusione, tuttavia, lungi dall’impedire un accertamento sull’incompatibilità della direttiva con la normativa interna ante-riforma – la quale obiettivamente non fornisce alcuna limitazione legata alla gravità dei reati – avrebbe potuto giustificare la sollecitazione di un intervento della Corte costituzionale, al fine di valutare la compatibilità tra l’articolo 132 del d.lgs. 196/2003 e la direttiva in questione, quale normativa interposta dall’articolo 117 Cost.
Si tratterebbe di un intervento additivo della Corte costituzionale – nell’ottica di individuare i reati dotati della “gravità” richiesta dalla normativa europea – la cui praticabilità appare tuttavia presentare delle criticità in quanto essa potrebbe incontrare dei limiti in ragione della necessità di preservare le attribuzioni del Parlamento. Del resto, a seguito della riforma legislativa, resterebbe da valutare se un simile intervento della Corte costituzionale possa avere ad oggetto l’eventuale mancanza di una disciplina transitoria diretta a regolare le fattispecie verificatesi sotto la vigenza della precedente formulazione normativa.
La questione sembrerebbe poter essere assai più agevolmente risolta dal legislatore attraverso l’opportuna introduzione di una norma transitoria, che consenta l’utilizzabilità dei dati solo in relazione a reati connotati da una certa gravità, ragionevolmente gli stessi contemplati dall’articolo 132, comma 3, del d.lgs. 196/2003 come attualmente formulato.
Più problematica appare la questione attinente alla previsione della competenza del pubblico ministero ad autorizzare l’acquisizione dei tabulati relativi ai dati di traffico telefonico e telematico. La Corte di giustizia, infatti, ha già considerato alcuni tra gli elementi più significativi caratterizzanti la magistratura inquirente italiana, che dunque potrebbe, nell’ottica dei giudici di Lussemburgo, essere accomunata al corrispondente organo estone quanto alla insussistenza del requisito della imparzialità[26], a prescindere dalle pur sussistenti differenze ordinamentali che li distinguono[27].
Considerato inoltre che il controllo giudiziario richiesto dalla Corte di giustizia, salve situazioni di urgenza debitamente giustificate, deve avere carattere preventivo[28], non sembra potersi ritenere legittima – neppure se fondata su una disciplina transitoria ad hoc – un’autorizzazione ex post del giudice, laddove l’acquisizione originariamente disposta dal P.M. non fosse connotata da alcuna ragione d’urgenza.
Va, tuttavia, rilevato che la stessa Corte di giustizia, pronunciandosi in materia di mandato di arresto europeo, ha ritenuto legittimo un intervento limitativo della libertà personale da parte della magistratura inquirente[29], sebbene la sua decisione debba poter formare oggetto di un ricorso giurisdizionale che soddisfi pienamente i requisiti inerenti a una tutela giurisdizionale effettiva[30]. Una trasposizione di un simile meccanismo nell’ambito della normativa in esame, quantomeno con riferimento ai tabulati acquisiti sotto la vigenza della precedente normativa, non appare ipotesi del tutto astrusa.
In questa ottica, pur potendosi configurare un certo margine di dubbio sull’interpretazione della normativa europea fornita nella sentenza Prokuratuur, parrebbe comunque auspicabile l’instaurazione di un dialogo con la Corte di giustizia, che possa specificare la propria giurisprudenza relativa al meccanismo di autorizzazione all’acquisizione dei dati da parte dell’“autorità giudiziaria”.
Vi è anche chi ha ipotizzato[31], nel caso in cui la Corte dovesse concludere per l’incompatibilità tra la normativa italiana ante-riforma ed il diritto europeo, una delimitazione della portata retroattiva degli effetti della pronuncia, dovendosi valutare, da un lato, l’innovatività dei principi in essa enunciati (che hanno precisato il significato di una disciplina europea particolarmente generica – quella contenuta nell’articolo 15 della direttiva 2002/58/UE – esaminandone i risvolti nell’ambito del processo penale) e, dall’altro, gli effetti pregiudizievoli che una sua applicazione retroattiva può avere in termini di giustizia e di sicurezza, oltre che di certezza dei rapporti giuridici.
[1] Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, del 2 marzo 2021, C-746/18, Prokuratuur (Condizioni di accesso ai dati relativi alle comunicazioni elettroniche), che ha statuito con il beneficio delle conclusioni rese dall’avvocato generale Giovanni Pitruzzella. La sentenza ha formato oggetto di vari contributi in dottrina, tra i quali possono richiamarsi: F. Resta, Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna, in Giustizia Insieme, 2021; G. Spangher, Data retention: le questioni aperte, in Giustizia insieme, 2021; Di Stefano, La Corte di giustizia interviene sull'accesso ai dati di traffico telefonico e telematico e ai dati di ubicazione a fini di prova nel processo penale: solo un obbligo per il legislatore o una nuova regola processuale?, in Cassazione Penale, 2021; F. Rinaldini, Data retention e procedimento penale. Gli effetti della sentenza della Corte di giustizia nel caso H.K. sul regime di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: urge l’intervento del legislatore, in Giurisprudenza Penale, 2021.
[2] Così la relazione al disegno di legge di conversione del decreto legge 30 settembre 2021, n. 132, ove si evidenziano alcuni aspetti fondamentali dell’evoluzione del diritto alla privacy, ossia che «la crescita dell’attenzione verso le esigenze di tutela della vita privata è avvenuta anche in ragione dello sviluppo tecnologico degli ultimi decenni, che ha consentito l’impiego su larga scala di strumenti capaci di determinare forme di compressione di quei diritti in passato non concepibili. In questa prospettiva, la diffusione di reti e mezzi di comunicazione sempre più raffinati, anche nella capacità di raccolta, conservazione ed elaborazione dei dati, e l’ampio utilizzo di questi mezzi da parte della generalità dei cittadini hanno posto all’attenzione il fatto che attraverso essi sia possibile raccogliere informazioni, anche dettagliate, sulla vita privata delle persone che ne fanno uso: un aspetto che si è amplificato in ragione del fatto che l’accesso a quei dati e, prima ancora, la loro conservazione, proprio per l’idoneità conoscitiva che garantiscono, è diventato prezioso, in vista delle ordinarie e legittime attività di prevenzione e repressione dei reati, anche per gli Stati, i quali, quindi, hanno effettuato interventi diretti a consentire la più ampia e diffusa conservazione».
[3] Può ricordarsi anzitutto la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, dell’8 aprile 2014, C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland, che ha dichiarato invalida la direttiva 2006/24/CE concernente la conservazione di dati, per violazione del principio di proporzionalità. La direttiva, in particolare, non limitava sufficientemente l’ingerenza nella privacy, non prevedendo essa alcun criterio oggettivo che permettesse di garantire che le autorità nazionali competenti avessero accesso ai dati e potessero utilizzarli soltanto a fini di prevenzione, di accertamento o di indagini penali riguardanti reati che potessero essere considerati sufficientemente gravi da giustificare siffatta ingerenza, né le condizioni sostanziali e procedurali di un tale accesso o di una tale utilizzazione. Nell’alveo tracciato da questa pronuncia è intervenuta la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, del 21 dicembre 2016, C-203/15 e C-698/15, Tele2 Sverige, che ha ulteriormente delineato l’ambito di applicazione del principio di proporzionalità, sotteso alla normativa della data retention, limitando la possibilità di accedere ai dati personali degli individui ai soli reati gravi, previa autorizzazione di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente. Successivamente, con la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, del 2 ottobre 2018, C-207/16, Ministerio Fiscal, la Corte ha riconosciuto la possibilità della data retention anche per i reati non gravi, qualora l’ingerenza nella vita privata del singolo non sia particolarmente penetrante, ossia qualora essa abbia ad oggetto dati che mirano all’identificazione del titolare di una carta SIM attivata con un telefono cellulare rubato, come il cognome, il nome e, se del caso, l’indirizzo.
[4] Segnatamente: i dati relativi al traffico telefonico per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione; i dati relativi al traffico telematico, per dodici mesi; i dati relativi alle chiamate senza risposta, per trenta giorni. In deroga a questa disciplina, per le finalità dell'accertamento e della repressione dei più gravi reati di associazione a delinquere e di terrorismo (di cui agli artt. 51, comma 3-quater, e 407, comma 2, lettera a), c.p.p.), il termine di conservazione dei suddetti dati è stabilito in settantadue mesi dall’art. 24 della legge n. 167 del 2017.
[5] Così Cass. Sez. 5, sentenza n. 33851 del 19 luglio 2018; Cass. Sez. 3, sentenza n. 48737 del 02/12/2019.
[6] Così si legge nel preambolo del decreto legge.
[7] Il decreto legge elimina poi la possibilità di richiedere l’accesso ai dati, direttamente al fornitore, da parte dei difensori in relazione alle utenze dei propri assistiti; anche in questo caso, infatti, la richiesta dovrà essere vagliata dal giudice. Sotto questo profilo, la riforma va a parziale detrimento dell’indagato, per lo meno nella parte in cui non consente un potere del difensore di acquisizione in via d’urgenza, in corrispondenza di quello attribuito al pubblico ministero.
[8] Una disciplina transitoria era invero contenuta nel testo originario del decreto-legge. Vi era, infatti, una norma intertemporale secondo cui: «i dati relativi al traffico telefonico, al traffico telematico, esclusi comunque i contenuti delle comunicazioni, e alle chiamate senza risposta, acquisiti nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere utilizzati, quando l’acquisizione è stata disposta dall’autorità giudiziaria, se ricorrono i presupposti previsti dall’articolo 132, comma 3, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, così come modificato dall’articolo 1 del presente decreto» (art. 2, comma 1). Era altresì previsto (art. 2, comma 2) che, nella prima udienza successiva alla data di entrata in vigore del decreto, il giudice provvedesse con ordinanza, sentite le parti, alla convalida del provvedimento di acquisizione dei dati. Nei procedimenti in cui non era ancora stata esercitata l’azione penale, avrebbe dovuto provvedere il giudice per le indagini preliminari all’atto di adozione del primo provvedimento successivo all’entrata in vigore del decreto. Tale disciplina intertemporale è del tutto scomparsa nella versione definitiva del decreto. Si veda in proposito F. Rinaldini, La nuova disciplina del regime di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: scenari e prospettive, in Giurisprudenza Penale, 2021.
[9] Deve infatti segnalarsi che, alla data di redazione del presente articolo, è discussa l’introduzione nell’ambito della legge di conversione di un emendamento in base al quale viene inserito un comma 1 bis all’articolo 1 del decreto legge 132/2021, recante appunto una disciplina transitoria, ai sensi della quale i dati «acquisiti nei procedimenti penali in data precedente alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere utilizzati a carico dell'imputato solo unitamente ad altri elementi di prova ed esclusivamente per l'accertamento dei reati per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, determinata a norma dell'articolo 4 del codice di procedura penale, e dei reati di minaccia e di molestia o disturbo alle persone con il mezzo del telefono, quando la minaccia, la molestia o il disturbo sono gravi». Come è evidente, rispetto alla disciplina transitoria ipotizzata in origine e riportata nella precedente nota 8, la normativa si riferisce ai soli dati utilizzabili quali elementi di prova “a carico dell’imputato”, restando rimesso alla ricostruzione giurisprudenziale il regime giuridico e l’utilizzabilità dei dati favorevoli alla tesi difensiva. Non è peraltro richiesto un intervento di convalida del giudice rispetto all’attività compiuta dal pubblico ministero. È invece introdotta la necessità – invero abbastanza scontata, considerato il limitato significato informativo dei dati di cui si discute – di valutazione di essi unitamente ad altri elementi di prova.
[10] La Corte di Cassazione si è pronunciata sugli effetti della sentenza Prokuratuur una prima volta con la sentenza della Sez. 2, n. 28532 del 22 luglio 2021, nella cui motivazione si legge che «nella specie non pare che la decisione della CGUE del 2 marzo 2021 sia idonea ad escludere la sussistenza di residui profili di incertezza interpretativa e discrezionalità applicativa in capo alla normativa interna; in sostanza la richiamata pronuncia europea sembra incapace di produrre effetti applicativi immediati e diretti a causa dell’indeterminatezza delle espressioni ivi utilizzate al fine di legittimare l’ingerenza dell’autorità pubblica nella vita privata dei cittadini: infatti, il riferimento alle «forme gravi di criminalità» ed alla funzione di «prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica», sembra necessariamente implicare un intervento legislativo volto ad individuare, sulla base di «criteri oggettivi», così come richiesto dalla stessa pronuncia della Corte europea, le categorie di reati per i quali possa ritenersi legittima l'acquisizione dei dati di traffico telefonico o telematico».
Nella successiva sentenza della Sez. 2, la n. 33116 del 07 settembre 2021, la Corte di cassazione ha ribadito che la decisione europea è del tutto generica nell’individuazione dei casi nei quali «i dati di traffico telematico e telefonico possono essere acquisiti e che dunque essa non può trovare diretta applicazione in Italia fino a quando non interverrà il legislatore italiano ed europeo».
In entrambi i casi la Corte non ha affrontato l’ulteriore tema, rappresentato dall’effettiva corrispondenza alle indicazioni europee della normativa che vede il pubblico ministero quale soggetto legittimato ad emettere il decreto di acquisizione dei dati e non il giudice.
Nella giurisprudenza di merito, si sono espressi in questo stesso senso: il decreto senza data emesso dal G.I.P. presso il Tribunale di Roma (pubblicato sulla rivista Sistema Penale, 2021); il decreto del G.I.P. presso il Tribunale di Tivoli in data 9 giugno 2021 (pubblicato sulla rivista Giurisprudenza Penale, 2021); l’ordinanza della Corte di Assise di Napoli del 16 giugno 2021 (pubblicata sulla rivista Giurisprudenza penale, 2021); l’ordinanza del Tribunale di Milano del 22 aprile 2021 (pubblicata sulla rivista Giurisprudenza Penale, 2021). Tutti i menzionati provvedimenti hanno escluso che la sentenza della Corte di giustizia abbia effetti immediati nell’ordinamento e che dunque possa incidere sulla procedura prevista dalla precedente versione dell’articolo 132 o sull’utilizzabilità delle prove in base a tale norma acquisite.
[11] Così le citate ordinanze della Corte di assise di Napoli del 16 giugno 2021 e del Tribunale di Milano del 22 aprile 2021.
[12] Si tratta del decreto del G.I.P. presso il Tribunale di Roma (decreto del 25 aprile 2021, pubblicato sulla rivista Sistema Penale, 2021), con il quale è stata accolta la richiesta del P.M. di acquisire i dati relativi al traffico telefonico e telematico, facendo ricorso, al fine di garantire il rispetto dei principi enunciati dalla Corte di giustizia, agli articoli 266 e 266 bis del codice di procedura penale, che contengono un catalogo di reati, espressione di “forme gravi di criminalità”, per i quali è ammesso il ricorso alle intercettazioni telefoniche. Nello stesso senso il decreto del G.I.P. presso il Tribunale di Bari del 1 maggio 2021 (pubblicato sulla rivista Il Penalista, 2021).
[13] Ordinanza del Tribunale di Rieti del 4 maggio 2021 (pubblicata sulla rivista Giurisprudenza Penale), che ha dato origine alla causa C-334/21.
[14] Si veda in proposito l’ordinanza della Corte di giustizia del 6 dicembre 1990, causa C-2/88 J.J. Zwartveld.
[15] La costante giurisprudenza della Corte di giustizia ha ritenuto che, dove una disposizione europea – anche se sfornita di immediata applicabilità, come ad esempio una direttiva – possa (a) esprimere una norma chiara, precisa e non condizionata dall’intervento del legislatore nazionale, e (b) riconosca un diritto ai singoli, essa deve essere applicata “direttamente”, senza attendere l’attuazione nazionale da parte dello Stato. Possono richiamarsi, in proposito, le seguenti, notissime, sentenze: sentenza della Corte di giustizia del 5 febbraio 1963, C-26/62, Van Gend & Loos; sentenza del 4 dicembre 1974, C-41/74, Van Duyn; sentenza del 19 novembre 1991, C-6 e 9/90, Francovich. Con questa ultima sentenza è stato stabilito il principio per cui il mancato recepimento di una direttiva entro la data ultima stabilita può determinare, a certe condizioni, una condanna dello Stato al risarcimento del cittadino leso dall’inadempiente comportamento.
[16] V. tra le altre la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, dell’8 settembre 2010, C‑409/06, Winner Wetten, punto 55. Alla stessa conclusione è giunta la giurisprudenza costituzionale a partire dalla fondamentale sentenza n. 170/1984 – nota come Granital dal nome della parte – che, come osservato da autorevole dottrina, sviluppa il suo ragionamento attraverso i seguenti punti: «α) l’ordinamento europeo e l’ordinamento italiano sono due ordinamenti giuridici autonomi e separati, ognuno dotato di un proprio sistema di fonti (è la c.d. “teoria dualistica”); β) la normativa europea “non entra a far parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta al regime disposto per le leggi (e gli atti con forza di legge) dello Stato”. Non esiste neppure un vero e proprio confitto tra le fonti interne e quelle europee, perché ognuna è valida ed efficace nel proprio ordinamento secondo le condizioni poste dall’ordinamento stesso; γ) con la ratifica e l’ordine di esecuzione del Trattato, il legislatore italiano ha riconosciuto la competenza delle istituzioni europee a emanare norme giuridiche in determinate materie e che queste norme si impongano direttamente nell’ordinamento italiano, non perché abbiano “forza di legge” (categoria che è tipica dell’ordinamento italiano, e che perciò non si addice alle fonti europee), ma per la “forza” che ad esse conferisce il Trattato. Quindi è il Trattato che segna la “ripartizione di competenza” tra i due ordinamenti e il regime giuridico delle fonti europee; δ) i conflitti tra norme che eventualmente sorgano vanno risolti dal giudice italiano applicando il criterio della competenza. Il giudice deve accertare se, in base al Trattato, sia competente sulla materia l’ordinamento europeo o quello italiano e deve, di conseguenza applicare la norma dell’ordinamento competente. La norma interna, se non competente, non viene né abrogata (in applicazione del criterio cronologico) né dichiarata illegittima (in applicazione del criterio gerarchico), ma viene semplicemente “non applicata”. Resta valida ed efficace, applicabile eventualmente in altri casi: ma per il caso specifico il giudice la ritiene non competente ed applica invece la norma europea» (così R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, XIX edizione, p. 447, 448).
[17] Si tratta delle clausole di salvaguardia a protezione dei valori fondamentali (i c.d. contro-limiti appunto) che definiscono l’identità costituzionale nazionale, da proteggere da ogni indebita interferenza esterna. In particolare, la Corte costituzionale ha affermato che «il diritto dell’Unione, e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordinamento costituzionale» (ordinanza della Corte Cost. n. 24 del 26 gennaio 2017 sul noto caso Taricco, con cui è stata sollevata questione pregiudiziale). In questo caso, dunque, la sola via possibile è quella di impugnare l’ordine di esecuzione del Trattato, nella parte in cui consente l’ingresso nel nostro ordinamento di quella specifica norma europea incompatibile con i principi della nostra Costituzione.
[18] La “doppia pregiudizialità” ricorre nel caso in cui si ipotizzi la violazione, da parte di una norma nazionale, di un diritto fondamentale della persona sancito contestualmente sia nella Costituzione che nella Carta di Nizza. La Corte costituzionale, con sentenza n. 269/2017, ha affermato che simili ipotesi «postulano la necessità di un intervento erga omnes» da parte della stessa Corte, «anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale».
[19] Come evidenziato da autorevole dottrina, esso può essere distinto in “dialogo culturale” e “dialogo decisorio”. Il dialogo culturale consiste nell’«aprire un continuo confronto con la giurisprudenza formatasi non solo presso le Corti internazionali, ma anche presso gli stessi giudici costituzionali di ciascun Paese, tenendone presenti gli orientamenti al fine di orientare, e semmai uniformare, la propria linea interpretativa». Nel dialogo decisorio, invece, viene sollecitato un intervento della giurisprudenza europea, mediante gli strumenti processuali a ciò destinanti, ossia, per quanto in questa sede maggiormente interessa, mediante l’istituto del rinvio pregiudiziale. In questo senso G. Lattanzi, Dialogo tra le Corte e il caso Taricco, contributo per Liber Amicorum in onore del Presidente della Corte europea dei diritti dell’Uomo Guido Raimondi, 2019.
[20] Si tratta di una possibilità ammessa dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 102/2008.
[21] V., in tal senso, sentenze della Corte di giustizia del 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito e a., C‑160/14, punto 37, nonché del 5 dicembre 2017, M.A.S. e M.B., C‑42/17, punto 23. Una dettagliata ricostruzione dei poteri e dei doveri del giudice nazionale connessi all’instaurazione di giudizi pregiudiziali è contenuta nella recente sentenza della Corte di giustizia del 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management, ove si è tra l’altro stabilito che «[L]’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione.» Tale sentenza ha costituito oggetto di un articolo di F. Ferraro, Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum, pubblicato sulla rivista Giustizia Insieme, 2021.
[22] V. tra le altre, Corte di giustizia, sentenza del 17 febbraio 2005, causa C-453/02 e C-462/02, Finanzamt Gladbeck, punto 41.
[23] La Corte costituzionale, a partire dalle sentenze 113/85 e 389/89, ha con continuità affermato che «le statuizioni interpretative della Corte di giustizia delle comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili, operatività immediata negli ordinamenti interni». Anche la Corte di cassazione ha affermato che il «dictum della Corte di giustizia costituisce una regula iuris applicabile dal giudice nazionale in ogni stato e grado di giudizio» (così Cass., Sez. 6 - 1, sentenza n. 17994 dell’11 settembre 2015. Alle sentenze emesse dalla Corte va dunque attribuito «il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità» (da ultimo in questo senso Cass. Sez. 3, ordinanza n. 29258 del 20 ottobre 2021).
[24] V. in questo senso la sentenza della Corte di giustizia del 23 ottobre 2012, C‑581/10 e C‑629/10, Nelson e a., punto 88 e giurisprudenza citata. Si veda anche, nella giurisprudenza nazionale, Cass. 25 luglio 2012, n. 13087, la quale ha precisato che la pronuncia della Corte di giustizia non può configurarsi come espressione di un overruling e, come tale, inidonea ad operare retroattivamente.
[25] V. tra le altre sul punto Corte di giustizia, 8 aprile 1976, C-43/75, Defrenne, dove l’applicazione "retroattiva" del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e femminile avrebbe rimesso in discussione tutti i rapporti di lavoro, anche tra privati. Si vedano inoltre sul punto: Corte di giustizia, 2 febbraio 1988, C-24/86, Blaizot, dove la Corte, per ragioni di "sicurezza giuridica", ha negato effetti retroattivi ad una sentenza interpretativa, sia in quanto l'interpretazione in essa adottata era frutto di una lenta progressione nell'interpretazione del Trattato riguardo al problema esaminato (sicché il contrasto con il diritto comunitario si sarebbe evidenziato solo progressivamente), sia perché tali effetti retroattivi avrebbero sconvolto il sistema di finanziamento dell'insegnamento universitario con conseguenze imprevedibili per il funzionamento delle istituzioni universitarie; Corte di giustizia, 4 maggio 1999, C-262/96, Sürül, dove l’effetto "retroattivo" viene negato a motivo dello sconvolgimento del finanziamento dei sistemi di previdenza sociale degli Stati membri che esso avrebbe determinato.
[26] Si legge infatti nella sentenza Prokuratuur, ai punti 52-56, che la necessità di un controllo preventivo richiede «che il giudice o l’entità incaricata di effettuare il controllo medesimo disponga di tutte le attribuzioni e presenti tutte le garanzie necessarie per garantire una conciliazione dei diversi interessi e diritti in gioco. Per quanto riguarda, più in particolare, un’indagine penale, tale controllo preventivo richiede che detto giudice o detta entità sia in grado di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso. (…) Dalle considerazioni che precedono risulta che il requisito di indipendenza che l’autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare (…) impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l’accesso ai dati, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna. In particolare, in ambito penale, il requisito di indipendenza implica (….) che l’autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato, non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine penale di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale. (…) Ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l’azione penale. Infatti, il pubblico ministero non ha il compito di dirimere in piena indipendenza una controversia, bensì quello di sottoporla, se del caso, al giudice competente, in quanto parte nel processo che esercita l’azione penale. (..) La circostanza che il pubblico ministero sia tenuto, conformemente alle norme che disciplinano le sue competenze e il suo status, a verificare gli elementi a carico e quelli a discarico, a garantire la legittimità del procedimento istruttorio e ad agire unicamente in base alla legge ed al suo convincimento non può essere sufficiente per conferirgli lo status di terzo rispetto agli interessi in gioco (…).»
[27] Per quanto si desume dalla stessa sentenza Prokuratuur, infatti, il pubblico ministero estone, in base alla legge del 22 aprile 1998, è soggetto alla sfera di competenza del Ministero della giustizia. In generale, sulle peculiarità ordinamentali dei sistemi giudiziari dei vari Stati membri, si veda l’analisi effettuata dalla Commissione europea denominata “EU Justice Scoreboard”.
[28] Vedi sentenza Prokuratuur, punto 58.
[29] Si è affermato che la nozione di "autorità giudiziaria emittente" comprende anche le autorità di uno Stato membro – quale appunto il pubblico ministero – che, pur non rivestendo la qualifica di organi giurisdizionali, partecipano all'amministrazione della giustizia penale di tale Stato e agiscono in modo indipendente nell'esercizio delle proprie funzioni, a condizione che sia assicurato il sindacato giurisdizionale sulla decisione relativa all’emissione del mandato. In questo senso si è espressa la Corte di giustizia, Grande Camera, sentenza del 27 maggio 2019, C-509/18, PF, che ha reso una pronuncia pregiudiziale nell’ambito di un procedimento avente ad oggetto l’esecuzione, in Irlanda, di un mandato di arresto europeo emesso dal procuratore generale lituano. Sullo stesso tema si vedano, nella giurisprudenza interna: Cass Sez. 6, sentenza n. 20571 del 9 luglio 2020; Cass. Sez. 6, sentenza n. 15922 del 26 maggio 2020.
[30] V. sentenza della Corte di giustizia del 12 dicembre 2019, C‑625/19, Openbaar Ministerie, nonché sentenza della Corte di giustizia del 13 gennaio 2021, C‑414/20, Spetsializirana prokuratura.
[31] Si veda la citata ordinanza del Tribunale di Rieti del 4 maggio 2021. Sul punto, cfr. anche Di Stefano, op. cit.
Potere amministrativo vincolato e riparto di giurisdizione (nota a Cons. giust. amm. reg. sic., 13 settembre 2021 n. 802)
di Alessandro Cioffi
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il caso e i fatti - 3. Impostazione del problema - 4. Sul potere autoritativo - 5. Interesse pubblico e interesse privato nel potere-conclusioni.
1.- Introduzione.
La sentenza in esame assume che il potere vincolato sia potere autoritativo e riafferma la giurisdizione amministrativa. In questo modo apre interrogativi profondi. Che significa potere autoritativo? Cosa resta alla giurisdizione ordinaria?
L’impostazione d’una soluzione teorica, che qui può essere solo sfiorata, poggia su acquisizioni della dottrina consolidate ma a volte dimenticate: tutto dipende dal potere giuridico e dall’interesse[1]; e, allo stesso modo, sul versante della giurisdizione ordinaria, tutto dipende dalla capacità giuridica che l’amministrazione usa[2].
2.- Il caso e i fatti.
Conviene iniziare dai fatti. Sempre più spesso la legge prevede poteri amministrativi di accertamento, che verificano l’esistenza di diritti soggettivi. Nel caso in esame, si tratta di accertare il diritto di credito di un soggetto privato verso l’Amministrazione. Difatti, l’art. 9 del decreto-legge 29 novembre 2008 n. 185 prevede che su domanda del creditore le amministrazioni pubbliche certificano “se il relativo credito sia certo, liquido ed esigibile”; l’accertamento è reso “al fine di consentire al creditore la cessione” del credito, a favore di banche o di intermediari finanziari[3].
Alla luce di questa norma, nel caso di specie, un Istituto regionale siciliano (IRVO) certifica l’esistenza di un credito a favore di una banca e, in un secondo momento, ritira la certificazione. Il ritiro è “in autotutela”: l’Istituto ritiene che non sussistano i presupposti di esistenza del credito, giacché il creditore originario ha acquisito il credito a mezzo di un contratto pubblico, che, però, veniva affidato senza gara, in via diretta.
Contro l’atto di autotutela si fa ricorso al giudice amministrativo; ma il Tar Sicilia declina la giurisdizione (Tar Sicilia Sez. I n. 1763/2021). Secondo il Tar, la certificazione verifica che il credito sia certo, liquido ed esigibile, e ciò corrisponde a un presupposto che è “integralmente e analiticamente regolato dalla legge”. Dunque, si legge nella sentenza, non vi è “discrezionalità, né amministrativa né tecnica”, bensì, solamente, il “verificare la sussistenza dei requisiti prescritti per la certificazione”; pertanto, l’attività dell’amministrazione “non è di tipo autoritativo ma meramente ricognitiva e certificativa (non costitutiva di un debito da parte dell’amministrazione medesima)”. Per questo motivo il Tar Sicilia afferma la giurisdizione ordinaria.
In appello la situazione si rovescia e il CGARS riafferma la giurisdizione amministrativa. Nella sentenza si legge che la circostanza che il potere amministrativo sia vincolato - ovvero predeterminato dalla legge nell'an e nel quomodo – “non trasforma il potere medesimo in una categoria civilistica, assimilabile ad un diritto potestativo”, perché l’atto vincolato è sempre esercizio del potere autoritativo, in quanto è “espressione di <<supremazia>> o di <<funzione>>”. Nel particolare, aggiunge il CGARS, “dal punto di vista logico e semantico”, il potere vincolato è “espressione di un motivato giudizio critico”. Dunque, l’esercizio di quel potere, che sul piano dell’oggetto è “verifica dell’esistenza e regolarità dell’obbligazione”, sul piano della direzione delle norme si configura come “finalizzazione al soddisfacimento di un interesse pubblico” e come “procedimentalizzazione dell'attività certificatoria”, delineando una “disciplina di diritto pubblico”. Ne viene, in conclusione, che si tratta di esercizio del potere amministrativo autoritativo e di giurisdizione amministrativa.
3.- Impostazione del problema.
Nei due gradi di giudizio emergono due soluzioni contrapposte, dalle quali si sviluppa una novità: per il Tar l’atto vincolato appartiene alla giurisdizione ordinaria[4], mentre per il CGARS l’atto vincolato appartiene alla giurisdizione amministrativa. Il fattore sottinteso che fa cambiare la giurisdizione è il potere amministrativo; per il Tar l’atto vincolato non è espressione di potere autoritativo, per il CGARS l’atto vincolato è espressione di potere autoritativo. Donde un interrogativo di fondo: che significa potere autoritativo?
4.- Sul potere autoritativo
Il potere autoritativo, si sa, rappresenta il vero fattore sottinteso della giurisdizione, secondo l’insegnamento reso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204/2004. Questa concezione sembra riflettersi anche nella sentenza in commento. Difatti, dal ragionamento del CGARS emerge una certa capacità giuridica del potere, che aiuta a identificarne la natura. Si legge che il potere vincolato, pur se predeterminato dalla legge, non si trasforma in “categoria civilistica” e non diventa “diritto potestativo”. Della motivazione colpisce il seguente passo: il potere vincolato resta potere autoritativo, in quanto esprime non solo “supremazia” ma “funzione”. Funzione vuol dire “finalizzazione al soddisfacimento di un interesse pubblico”. Appare così il fattore finale del potere, l’interesse. Precisamente, la funzionalizzazione all’interesse.
Questo fattore funzionale può spiegare anche il contenuto che il potere vincolato assume: si legge nella sentenza che il contenuto vincolato non si esaurisce in un atto ricognitivo e non è “una mera operazione contabile che culmina nella certificazione del credito”, ma, “dal punto di vista logico e semantico”, l’atto è “espressione di un motivato giudizio critico”; questo giudizio critico, sempre nella prospettiva della sentenza in esame, si svolge sul piano delle norme; dice il CGARS che sul piano normativo la funzione assume la forma di una “procedimentalizzazione dell'attività certificatoria”, delineando una “disciplina di diritto pubblico”[5].
In sintesi, quando il potere è vincolato a un fine pubblico, quel potere non è puro riconoscimento di un fatto, ma è giudizio sul fatto, perché verifica che quel fatto sia adeguato all’interesse. Non a caso, la sentenza dice che la valutazione si risolve in un “motivato giudizio critico”.
Questo giudizio critico, nel caso in esame, fa comprendere meglio il motivo del ritiro in autotutela: non si tratta solo di verificare che il credito sia certo, liquido ed esigibile, ma che sia sorto su di un titolo valido; difatti, nel caso di specie, il titolo sembrava malfermo, perché il credito sorgeva da un contratto affidato senza gara. Da qui il dubbio: può certificarsi un credito che nasce da un contratto nullo, quando quella certificazione serve a soddisfare anche interessi pubblici?
Il potere vincolato può spingersi a simili valutazioni?
Secondo il CGARS, la risposta è sì, perché l’estensione dell’oggetto del potere vincolato, dall’esistenza del credito alla validità, è funzionale a soddisfare interessi pubblici, ovvero, nella specie, l’interesse alla spesa pubblica e alla certezza nella circolazione del credito. Viceversa, assecondando lo schema del TAR, la risposta è no, il potere vincolato non può spingersi a tanto, perché la certificazione risponderebbe solo a interessi del creditore privato e quindi sarebbe sufficiente l’accertamento del credito in termini di liquidità, certezza, esigibilità.
Nell’ambito di questo ragionamento, tutto sembra finire all’interesse di fondo. L’interesse pubblico può essere la causa del potere amministrativo e, dunque, la chiave che spiega la giurisdizione amministrativa, e, infine, la chiave di una ricostruzione teorica del potere. In teoria, infatti, esaminando il modo in cui la legge agisce nel definire l’atto vincolato, quando per esempio essa configura il vincolo determinando i presupposti di fatto, in essi, spesso, inserisce anche un vincolo all’interesse pubblico; in questo caso la legge predetermina il potere, ma non lo “trasforma” in categoria civilistica, ovvero non riduce l’atto amministrativo a un quid proprio del diritto civile. Il potere vincolato resta potere amministrativo, perché la legge conserva il vincolo all’interesse e quindi trasfonde nell’atto l’esigenza che quel vincolo si esprima in un “motivato giudizio critico”, come dice la sentenza. Il motivato giudizio critico è l’essenza di ciò che è potere autoritativo: il giudizio sull’interesse.
In questa luce l’interesse sembra porgere al riparto qualcosa di nuovo: sinora, nella ricerca della natura vincolata di un atto, si guardava all’oggetto e all’effetto giuridico dell’atto, e, dunque, era inevitabile che l’atto vincolato venisse fuori come una pura ricognizione, avulsa dal potere e destinata alla giurisdizione ordinaria[6]; se invece si guarda al fine dell’atto, emerge l’interesse e quindi la visione cambia. E allora l’interesse, l’interesse pubblico, può essere un indice che aiuta a riconoscere quando vi sia potere autoritativo, rivelando altresì la giurisdizione amministrativa.
Questa considerazione dell’interesse, come si vedrà nelle conclusioni, ha solo bisogno di essere chiarita sul piano teorico e normativo, ma sul piano del riparto di giurisdizione già emergeva ben chiara e difatti veniva assunta a criterio dall’Adunanza plenaria n. 8/2007. L’Adunanza scioglieva il dubbio del riparto attribuendo l’atto vincolato alla giurisdizione amministrativa; nel particolare, l’Adunanza enunciava questo principio: “anche a fronte di attività connotate dall’assenza in capo all’amministrazione di margini di discrezionalità valutativa o tecnica … occorre avere riguardo, in sede di verifica della natura della corrispondente posizione soggettiva del privato, alla finalità perseguita dalla norma primaria, per cui quando l’attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l’interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo”; di conseguenza, “applicando le esposte coordinate ricostruttive, ritiene questa Adunanza Plenaria che la controversia sia stata correttamente ritenuta dal giudice di primo grado di competenza del giudice amministrativo.”
5.- Interesse pubblico e interesse privato.
Questa forza o influenza dell’interesse andrebbe precisata e resa più sicura: andrebbe tradotta in norme. Su questo piano si osserva che l’interesse orienta il potere già nelle norme che lo regolano. Non a caso il CGARS parla di una “disciplina di diritto pubblico”. Infatti, quando la legge vincola il potere non solo ai presupposti ma anche agli interessi, la lettura dei presupposti è condizionata dagli interessi. Pertanto, il giudizio contenuto nell’atto vincolato non si risolve solo nel verificare se il presupposto esista o non esista, ma si spinge a qualcosa di più, per esempio, nel caso nostro, alla validità del titolo, la quale si aggiunge, come elemento da valutare, al fine di garantire gli interessi insiti nell’atto di certificazione, ovvero, nel caso di specie, l’interesse alla spesa pubblica e alla certezza del credito. Non a caso, in dottrina, si osserva che in ogni atto di certificazione sono insiti interessi pubblici[7]. Pertanto, viene fuori un giudizio di funzionalità dell’interesse, ma deve essere voluto, pensato e derivato dalle norme stesse, altrimenti è arbitrio. Precisamente, un indice di questa funzionalità dovrebbe dedursi dalla norma stessa e, meglio, dal rango e direzione della norma; difatti, se la norma in questione è, come spesso accade, norma di regolamento, è norma di azione e di sicuro contempla interessi pubblici. In conclusione, se la norma, per natura, vincola il potere a fini pubblici, è scontato che la controversia finisca al giudice amministrativo, come già aveva stabilito l’Adunanza plenaria n. 8/2007. Se, invece, per volontà della norma, l’atto è avulso del tutto da interessi pubblici, esso è vincolato a interessi privati e quindi si tratta di rapporti, di obbligazioni, di giurisdizione ordinaria. Questa distinzione emerge chiara anche nell’Adunanza plenaria n. 8/2007, che afferma: “Sembra, infatti, che debba distinguersi, anche in seno alle attività di tipo vincolato, tra quelle ascritte all’amministrazione per la tutela in via primaria dell’interesse del privato e quelle, viceversa, che la stessa amministrazione è tenuta ad esercitare per la salvaguardia dell’interesse pubblico”.
Questa distinzione, a questo punto è chiaro, potrebbe alimentarsi dell’interpretazione funzionale delle norme e potrebbe generare due vantaggi pratici. Il primo è che evita la rottura del criterio classico, basato sull’esercizio del potere e sulla carenza di potere. Difatti, usando la tesi dell’interesse, il criterio del potere si mantiene, perché dire che il potere è vincolato a interessi pubblici vuol dire che sempre di potere amministrativo si tratta; se invece il potere è svincolato da interessi pubblici, l’atto non è espressione di potere amministrativo, ma è espressione di interessi privati e quindi, trattandosi comunque di interessi, allude a una capacità di diritto privato della p.a.; in questo modo, in fondo, il criterio del potere si mantiene.
Questa ricostruzione ha il vantaggio di spiegare anche il criterio in apparenza contrario, quello del Tar Sicilia, per cui l’atto vincolato si sottrae alla giurisdizione amministrativa. Se si osservasse alla lettera questo criterio, andrebbe in crisi il criterio generale, quello fondato su esercizio del potere e carenza di potere: difatti, al giudice ordinario andrebbe l’atto vincolato e non la carenza di potere. Qui sembra giusto aggiungere un breve richiamo allo stato delle cose e alla piega che sembra prendere il criterio in alcune materie. In alcuni casi recenti, la giurisprudenza sembra modificare leggermente il criterio generale del riparto, sostituendo alla carenza concreta del potere la figura di un atto che viene denominato ricognitivo o vincolato. Per esempio, in materia di domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari (Cass. Sez. un., ord. n. 11535/2009; Cons. St., III, 5125/2011), si dice che non vi sono poteri discrezionali dell’amministrazione, bensì solo “atti ricognitivi” dell’amministrazione, volti ad accertare i presupposti fissati dalla legge per l’emanazione del permesso; il giudice aggiunge infine la dichiarazione che in questi casi vi è un diritto soggettivo, riconducibile all’art. 2 e all’art. 10 10 della Costituzione, e per questo motivo si sposta la giurisdizione, da quella del giudice amministrativo a quella del giudice ordinario.
In questo modo, in questo orientamento, in luogo della distinzione “esercizio del potere- carenza concreta del potere”, apparirebbe la distinzione “atto discrezionale-atto ricognitivo”, oppure quella “atto discrezionale- atto vincolato”[8].
Sul piano teorico, si può osservare che l’atto dell’amministrazione, vincolato o ricognitivo che sia, risponde a interessi privati e quindi esprime una diversa capacità dell’amministrazione, una capacità di diritto privato; in questo modo il criterio generale si spiega e si mantiene, perché in fondo sempre di esercizio del potere si tratta, solo che in questo caso si tratta di un potere privato.
In conclusione, la formula dell’interesse permette di distinguere: quando il potere vincolato è finalizzato a soddisfare interessi pubblici, resta potere autoritativo e quindi resta la giurisdizione amministrativa; quando invece il potere non sia vincolato a interessi pubblici, l’atto non è esercizio del potere amministrativo, ma soddisfa interessi privati e quindi ha bisogno d’una capacità privata dell’amministrazione, che possa gestire diritti soggettivi, propri e altrui. Il che spiega la giurisdizione ordinaria.
Tutto dunque potrebbe poggiare sulla distinzione degli interessi e sull’assunto, teorico, per il quale laddove vi siano interessi c’è bisogno di potere e di capacità. Per questo motivo, tutto sta a interpretare le norme della materia alla luce del bilanciamento delle situazioni giuridiche rispetto agli interessi e alle norme. Se l’interpretazione delle norme rivela che la libertà del privato preesiste e che l’interesse prevalente è a suo favore, il potere amministrativo scompare o diviene residuale e quindi è logico parlare di atto “ricognitivo” dell’amministrazione. Purché sia chiaro che quell’atto esprime una capacità di diritto privato e per questo è devoluto alla giurisdizione ordinaria; in questo caso è chiaro che l’amministrazione non ha potere autoritativo e il suo agire è quello che la giurisprudenza chiama “atto ricognitivo”, ma, in verità, non si tratta di un atto amministrativo, ma di un fatto giuridico che manifesta interessi nel diritto civile. Qui non si può approfondire la valenza di questo fatto giuridico, ma, considerato come oggetto della giurisdizione ordinaria, e sotto il profilo della tecnica di tutela dei diritti soggettivi, è acquisito che si tratta di ipotesi in cui l’amministrazione “agisce esercitando la propria capacità di diritto privato” [9]. Si potrebbe forse aggiungere, in senso civilistico, che il fatto giuridico che qui si produce può contenere tante valenze e resta aperta la questione di cosa valga, ma, nella sua efficacia giuridica, di sicuro quel fatto non si riduce a mero fatto come la carenza di potere, ma è un fatto i cui effetti si producono per volontà della legge- effetti non negoziali- a tutela di un interesse privato, e sono determinati ed effettivi, nel concreto, a causa dell’esercizio di una diversa capacità giuridica dell’amministrazione; nel caso nostro, la capacità di diritto privato dell’amministrazione si esprime nel riconoscimento del suo debito verso il creditore privato.
In conclusione, nel fatto giuridico che qui si assume e che appartiene alla giurisdizione ordinaria, non si vede atto amministrativo perché non si vede potere amministrativo, dal momento che non c’è giudizio sull’interesse pubblico; viceversa, appare un agire che è espressione di una diversa capacità dell’amministrazione. Appare così l’importanza dell’interesse e del potere per la produzione degli effetti giuridici[10]. Quanto sia del privato in termini di capacità di produrre effetti giuridici, si apprezza come fattore sottinteso, che si manifesta nella capacità di riconoscere e di limitare i diritti soggettivi. E’ una distinzione, questa, che sembra utile per chiarire la qualità di quel che si produce e quanto si trasfonde nella pratica del criterio di riparto; ma, in fondo, rivela anche l’idea che il riparto delle giurisdizioni non risponde solo a situazioni giuridiche soggettive, ma a norme diverse e a ordinamenti giuridici diversi.
[1] L’impostazione è tratta da ALB. ROMANO, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, 113 ss.
[2] Sul versante della tutela civile dei diritti, si acquisisce l’impostazione di F. FRANCARIO, Forme e tecniche di tutela del diritto soggettivo nei confronti della P.A., ora in F. FRANCARIO, Garanzia degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, Napoli, 2019, 317 ss., spec. 318 -319, con sviluppi nelle conclusioni.
[3] Art. 9 del decreto-legge 9 novembre 2008 n. 185, convertito con legge 28 gennaio 2009 n. 2 e s.m.i.- la rubrica dell’art. 9 è intitolata “Rimborsi fiscali ultradecennali e velocizzazione, anche attraverso garanzie della Sace s.p.a., dei pagamenti da parte della p.a.”
[4] La tesi del Tar Sicilia sembra rispecchiare una tesi, ora superata, che in passato era appartenuta al C.G.A.R.S.: v. ordinanza del C.G.A.R.S. 29-1-2007 n. 21, di rimessione all’Adunanza plenaria (la n. 8/2007, di cui meglio si dirà in seguito).
[5] In dottrina cfr. V. CERULLI IRELLI, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2021, 567: “La nozione di controversie di diritto pubblico è del tutto speculare a quella di rapporti di diritto pubblico, questa seconda operante sul piano sostanziale, l’altra sul piano della tutela giurisdizionale. Ad ogni rapporto di diritto pubblico, inteso come quello che si instaura nell’ambito di un episodio di esercizio del potere da parte di una pubblica Amministrazione … possono corrispondere controversie … tra i soggetti che sono parti di quel rapporto … Queste controversie sono quelle che costituiscono, appunto, l’oggetto della giurisdizione amministrativa.”
[6] V. per esempio l’ordinanza del C.G.A.R.S. 29-1-2007 n. 21, di rimessione all’Adunanza plenaria (la n. 8/2007), che, invece, finirà col privilegiare un’altra soluzione: riteneva l’ordinanza che dovesse spettare alla giurisdizione ordinaria l’atto vincolato che sia espressione del “potere di accertamento e di valutazione (meramente) tecnica in ordine alla sussistenza di determinati requisiti, senza che residui alcun margine di discrezionalità circa la rispondenza o meno del chiesto riconoscimento all’interesse pubblico.”; in questo caso, secondo l’ordinanza, all’atto vincolato corrisponderebbe un diritto soggettivo.
[7] In questo senso, per la possibilità di configurare un atto vincolato agli interessi pubblici, v. in dottrina G. FALCON, Lezioni di diritto amministrativo, Padova, 2021, 42: “Anche i poteri vincolati sono rivolti al perseguimento dell’interesse pubblico (negli esempi fatti, alla certezza dell’identità delle persone … ): ma ogni valutazione relativa ad esso è stata assorbita dalle norme che regolano l’attività, sicché seguire le norme significa al tempo stesso perseguire l’interesse pubblico da esse definito e in esse in qualche modo incorporato.”
[8] Una notazione incidentale: tra atto ricognitivo e atto vincolato si può far subito una differenza teorica, perché l’atto vincolato presuppone un obbligo giuridico dell’amministrazione, mentre l’atto ricognitivo allude solo alla capacità giuridica e al fatto da accertare, ovvero rivela che l’amministrazione si limita a verificare l’esistenza della situazione delineata ex lege, senza che vi sia discrezionalità dell’amministrazione.
[9] L’impostazione del ragionamento è tratta da F. FRANCARIO, Forme e tecniche di tutela del diritto soggettivo nei confronti della P.A., cit., 317- 319.
[10] Cfr. F. G. SCOCA, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, Dir. amm., 1995, 1 ss., 33: “da un lato c’è il potere di figurare (o disegnare) l’effetto, determinando la disciplina (il regolamento) degli interessi; dall’altro c’è il potere di costituire l’effetto, realizzando l’assetto di interessi prefigurato.”
Nota a Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Il contenuto della sentenza - 2. I dubbi che avverso essa possono essere sollevati - 3. Alcune osservazioni di sintesi.
1. Il contenuto della sentenza
Avverso l’appello proposto da esercenti la professione sanitaria, il Consiglio di Stato, con questa pronuncia, ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’obbligo di vaccinazione contro il virus Sars-CoV-2.
Il percorso logico/giuridico della pronuncia credo possa essere sintetizzato in questo modo.
1.1. Quanto all’efficacia, la sentenza sottolinea che la commercializzazione e la messa in uso in Europa dei quattro vaccini contro il virus Sars-CoV-2, è seguita ad una autorizzazione data dalla Agenzia europea per i medicinali (EMA), dopo ogni valutazione di qualità.
Seppur l’autorizzazione in commercio sia stata data in forma “condizionata”, ciò non significa affatto che i vaccini siano, o abbiano carattere, sperimentali, poiché anche le c.d. autorizzazioni condizionate forniscono valide garanzie di un elevato livello di protezione dei cittadini.
Da considerare, inoltre, che una simile tecnica era già stata precedentemente adottata, precisamente tra il 2006 e il 2016, con l’autorizzazione condizionata all’uso di ben 30 farmaci in ambito oncologico, senza che nessuna tra queste autorizzazione venisse poi successivamente ritirata per motivi di sicurezza.
Si tratta, sostanzialmente, “di un’autorizzazione che può essere rilasciata anche in assenza di dati clinici completi a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari” (così il punto 26.3 della sentenza).
Ed ancora: “La circostanza che i dati acquisiti nella fase di sperimentazione siano parziali e provvisori…..nulla toglie al rigore scientifico e all’attendibilità delle sperimentazioni che hanno preceduto l’autorizzazione, pur naturalmente bisognose, poi di conferma mediante i cc.dd. comprehensive data post-authorisation” (punto 27.2 della sentenza).
1.2. Quanto alla sicurezza, la sentenza riconosce che l’uso di un farmaco non va mai esente da rischi: “il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato del tutto esente da rischi” (punto 28 della sentenza).
V’è, infatti, in primo luogo, il rischio da “ignoto irriducibile”, o rischio a lungo termine, inevitabile in una pandemia a fronte dell’esigenza dello Stato “di promuovere e, se necessario, di imporre, la somministrazione dell’unica terapia – quella profilattica- in grado di prevenire la malattia” (punto 30.2), poiché non è prospettabile la contrapposta soluzione di “attendere irragionevolmente un tempo lunghissimo e, potenzialmente, indefinito, per tutte le possibili sperimentazioni cliniche necessarie, tempo nel quale, intanto, la malattia continuerebbe incontrastata a mietere vittime” (punto 30.5).
E vi sono, poi, i rischi immediati, con riferimento ai quali, secondo il Consiglio di Stato, non v’è che far riferimento ai dati forniti dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA).
La sentenza richiama il rapporto AIFA del 12 ottobre 2021.
Sulla base di esso si rileva che, a fronte di 84.010.605 dosi di vaccino, si sono registrati 101.110 eventi avversi, ovvero 120 eventi avversi per ogni 100.000 dosi.
Di questi casi avversi “14,4% ha avuto ad oggetto eventi gravi……. mentre l’85,4% si riferisce ad eventi non gravi” (punto 28.5); dal che, prosegue il Consiglio di Stato: “Le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile e i danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il SARS-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi gravi e correlabili, rispondente al criterio di normalità statistica” (punto 29.1).
1.3. Sulla base di questo, ovvero sulla evidenzia dell’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile, la sentenza conclude che il consentire, o addirittura l’imporre, l’uso del vaccino è conforme ai principi costituzionali, visti “i valori in gioco” (punto 30.4); ne’: “Il margine di incertezza dovuto al c.d. ignoto irriducibile può giustificare il fenomeno della esitazione vaccinale” (punto 31).
Ciò anche in conformità ai precedenti della Corte costituzionale: “v. fra tutte, proprio la sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, ma anche la sentenza n. 258 del 23 giugno 1994, già richiamata, e la sentenza n. 307 del 22 giugno 1990” (punto 32.4).
Ed inoltre, ciò è confermato, sempre a parere del Consiglio di Stato, da una parte dal “fondamentale principio di solidarietà che pure sta a fondamento della nostra costituzione (art. 2), la quale riconosce libertà, ma al contempo richiede responsabilità dell’individuo” (punto 30.8), e dall’altra dall’impossibilità di accedere alla “logica dei cc.dd. diritti tiranni, e cioè di diritti che non entrano nel doveroso bilanciamento con egual diritti, spettanti ad altri, o con diritti diversi, pure tutelati dalla costituzione, poiché altrimenti si verificherebbe la illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, Corte Cost. 9 maggio 2013 n. 85” (punto 42.9)[1].
1.4. Dunque, sulla base di tutto ciò, e se non ho capito male, il Consiglio di Stato ritiene legittimo sotto il profilo costituzionale non solo l’art. 4 del dl n. 44 del 2021, convertito con modificazioni dalla legge n. 76 del 2021, nella parte in cui ha posto l’obbligo vaccinale al personale sanitario, ma ritiene legittimo, più in generale, che, in una situazione di emergenza pandemica quale quella attuale, il vaccino possa essere imposto a tutti, in quanto: “il potenziale rischio di un evento avverso per il singolo individuo con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società senza l’utilizzo di quel farmaco” (punto 30.7).
Questa la sentenza, che, con approfondite motivazioni, ribadisce opinioni da molti già esternate, ovvero che, in forza dell’art. 32 Cost., direttamente o indirettamente, il legislatore può imporre a tutti la vaccinazione SARS-CoV-2, e ciò nel modo più libero possibile, e quindi, direi, anche con lo strumento del green pass, il quale, seppur non citato espressamente, mi sembra implicitamente richiamato dal seguente passo, per il quale l’emergenza sanitaria in corso: “lascia (altresì) spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace delle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo, al fine di raggiungere, mediante la vaccinazione di massa, l’obiettivo della c.d. immunità di gregge” (punto 32.6).
2. I dubbi che avverso essa possono essere sollevati
Sommessamente, io dubito che possano, con questa sicurezza, affermarsi queste cose; cosicché, seppur con tutto il rispetto possibile, e seppur con tutte le riserve che una analisi giuridica sempre ha, mi permetto di segnalare le seguenti perplessità, al fine di ogni più ampia riflessione.
E cerco di farlo nel modo più semplice possibile, poiché credo che tematiche di questa importanza debbano poter essere comprese da tutti, e non solo dai giuristi.
2.1. Mi sembra, intanto, che l’esempio dei 30 farmaci oncologici autorizzati in forma condizionata non sia pertinente, perché nessuno di quei famaci costituiva per il malato un trattamento sanitario obbligatorio.
Tutto al contrario, secondo il principio del consenso informato, in quei casi si faceva presente al paziente l’opportunità di utilizzare quel farmaco, avvertendo che il farmaco era però autorizzato solo in via condizionata; dopo di che era il paziente, in libertà, che sceglieva se farne uso o meno, ai sensi della legge 22 dicembre 2017 n. 219, e nel rispetto degli orientamenti in punto di libertà di cura di cui a Corte Cost. 16 novembre 2018 n. 207 e Corte Cost. 22 novembre 2019 n. 242 (e, prima ancora, a Corte Cost.23 dicembre 2008 n. 438 e Corte Cost. 30 luglio 2009 n. 253).
È evidente la differenza che corre tra quelle ipotesi e il vaccino SARS-CoV-2: una cosa, infatti, è la sufficienza dell’autorizzazione condizionata a commercializzare e far uso di un farmaco; altra cosa la sufficienza a poterlo imporre come trattamento sanitario obbligatorio.
2.2. Ed infatti, per imporre un farmaco, non basta accertarne l’efficacia, ma serve soprattutto assicurarne la sicurezza.
Sotto questo profilo la sentenza fa riferimento, come abbiamo visto, al rapporto AIFA del 12 ottobre 2021, e il rapporto, ha detto il Consiglio di Stato, fa emergere che i rischi per chi si sottoponga alla vaccinazione sono assolutamente minimi.
In realtà, però, su questa conclusione, possono sollevarsi a mio parere dei dubbi, anche perché il Consiglio di Stato, nel richiamare i dati AIFA, non ha tenuto conto di alcune circostanze.
a) La prima è che il rapporto AIFA ha fatto riferimento anche a 608 morti in Italia a seguito di vaccinazione.
Di questo, la sentenza niente dice.
È vero che su alcune di queste morti potrebbe mancare il nesso di causalità con il vaccino, ma è parimenti vero che potrebbero sussistere altri casi di morte che non siano stati rilevati.
b) La seconda omissione concerne gli art. 3 e 3 bis del dl 1 aprile 2021 n. 44 relativi allo scudo c.d. penale, disposizioni normative mai menzionate nella sentenza, e con le quali si è previsto che nessuno, e non solo i medici, passano incorrere in responsabilità penale per morte o lesioni dei vaccinati quando l’uso dei vaccini sia stata conforme ai protocolli istituiti.
Da questa norma, fortemente voluta dai sanitari, si comprende, direi, tutto al contrario, che evidentemente dei rischi nella vaccinazione SARS-CoV-2 vi sono, se i medici, ovvero gli addetti ai lavori, hanno preteso, e per la prima volta, la totale loro esenzione di responsabilità a fronte di detta vaccinazione.
Qualcuno ha detto che si tratta di due cose diverse: uno lo scudo penale, l’altra i rischi concreti della vaccinazione; ma a me, invece, non sembra si tratti di due cose diverse, e mi pare, tutto al contrario, che se i medici, in tanto erano disposti a far partire la campagna vaccinale in quanto protetti da uno scudo, evidentemente consideravano la vaccinazione SARS-CoV-2 diversa dalle precedenti.
Soprattutto, non possiamo non accorgersi che lo scudo penale, mentre protegge i sanitari, al tempo stesso è in grado di mascherare il reale numero dei fatti avversi, poiché questi, infatti, resi irrilevanti sotto il profilo giuridico, non possono più essere oggetto di indagine, atteso che non si fanno indagini per fatti che non costituiscono reato; e l’assenza di indagini, evidentemente, impedisce una visione completa del fenomeno.
c) Infine, si comprende, che rilevare oltre 110.000 casi avversi, a taluno può sembrare fatto di alcuna consistenza, ma per altri può invece rappresentare un numero da non sottovalutare, anche per la circostanza che si tratta di misure che potrebbero essere quantificate per difetto.
E a ciò deve aggiungersi l’ulteriore rischio denominato di “ignoto irriducibile”, riferito ai possibili danni a lungo termine, dei quali, evidentemente, allo stato, niente si sa.
L’irrilevanza, o il basso rischio, dell’evento avverso, non costituisce pertanto un dato giuridico obiettivo, quanto una valutazione discrezionale, che il Consiglio di Stato ha risolto in un certo modo, ma che altri avrebbero potuto, con egual ampiezza di argomenti, risolvere in modo del tutto contrario.
2.3. Ad ogni modo, per il Consiglio di Stato, il vaccino è, nonostante tutto ciò, efficace e sicuro, cosicché il percorso logico può chiudersi asserendo che il rapporto rischi/benefici è favorevole, e il tutto rientra “nella media tollerabile degli eventi avversi già registrati per le vaccinazioni obbligatorie in uso da anni” (punto 36.7).
Io credo, però, che anche questa valutazione non sia esente da dubbi; e quanto alle “vaccinazioni obbligatorie in uso da anni”, vorrei ricordare che trattasi di obbligatorietà ben diverse da quelle odierne, se solo si pensa che, ai sensi dell’art. 1, 4° comma del dl n. 73/2017, il mancato rispetto delle vaccinazioni comporta, per quelle, una sanzione amministrativa da € 100,00 ad € 500,00, e detto mancato rispetto non ha poi conseguenze personali per i bambini da 6 anni di età, poiché l’art. 3 del medesimo decreto legge prevede che il vaccino costituisca condizione di accesso alle sole scuole dell’infanzia e agli asili, mentre “per gli altri gradi di istruzione” (ovvero già dalle scuole elementari) “la presentazione della documentazione di cui al comma 1 non costituisce requisito di accesso alla scuola e agli esami”.
Ciò posto, mi permetto di rilevare quanto segue.
2.3.1. In primo luogo, asserire che la logica del bilanciamento rischi/benefici sia conforme ai precedenti della Corte costituzionale[2], a mio parere non è completamente corretto, poiché quelle sentenze non affermavano che la vaccinazione obbligatoria è costituzionalmente legittima se il rapporto rischi/benefici è favorevole, ma statuivano, più restrittivamente, che la vaccinazione obbligatoria è possibile solo quando “esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi sia assoggettato”.
È chiaro che le due cose sono diverse: una cosa, infatti, come nella pronuncia qui annotata, è andare a vedere se in un giudizio di bilanciamento vi siano più rischi o più benefici; altra cosa, come in quelle pronunce della Corte costituzionale, è andare invece a vedere se il vaccinato possa rischiare o meno la propria salute oltre limiti tollerabili, e ritenere che il bilanciamento tra la libertà individuale e la salute collettiva è favorevole a quest’ultimo valore solo quando vi sia da escludere che il vaccino possa pregiudicare “la salute di colui che vi è assoggettato”.
Ora, se le cose stanno più precisamente così, nella misura in cui la stessa sentenza annotata ha riconosciuto che il vaccino ha una autorizzazione condizionata, che sussiste indiscutibilmente un rischio da “ignoto irriducibile”, e che la stessa AIFA indica per l’Italia 101.110 eventi avversi con 608 morti, e lo stesso art. 3 del dl. 44/2021 indirettamente ammette che dal vaccino possono conseguire morte o lesioni, si dovrebbe quanto meno avere dei dubbi sulla possibilità di trarre conclusioni certe in argomento.
2.3.2. Peraltro, anche l’esigenza di evitare “diritti tiranni” “e cioè diritti che non entrano nel doveroso bilanciamento con egual diritti”, è richiamo, a mio parere, discutibile, poiché nel caso di Corte Cost. 9 maggio 2013 n. 85, espressamente presente sul punto 42.9 dalla sentenza in oggetto, il diritto tiranno non era la libertà individuale, sotteso dalla sentenza, bensì proprio la salute.
Praticamente, si è fatto dire a Corte Cost. 9 maggio 2013 n. 85 il contrario di quello che quella sentenza diceva.
Ricordo che si trattava della vicenda dell’ILVA di Taranto.
V’era da stabilire, in quel contenzioso, se il diritto alla salute doveva o meno prevalere sugli interessi economici e il diritto al lavoro e alla produzione imprenditoriale.
La Corte costituzionale, con quella pronuncia, dava prevalenza al diritto della produzione e non alla salute, e scriveva che: "il legislatore ha ritenuto di dover scongiurare una gravissima crisi occupazionale, di peso ancor maggiore nell'attuale fase di recessione economica nazionale e internazionale”; e dunque: “la parola fondamentale di cui all'art. 32 Cost. non è rivelatrice di un carattere preminente del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona, mentre la definizione dell'ambiente e della salute come valori primari data dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 365/1993) non implica una rigida gerarchia tra diritti fondamentali”[3].
Dunque, premesso che il tema della libertà individuale non rilevava in quella vicenda, il diritto tiranno da scongiurare era proprio quello della salute, che non poteva pensarsi come diritto in grado di comprime tutti gli altri.
Una idea, peraltro, perfettamente conforme al pensiero dei costituzionalisti di un tempo.
Mi permetto di ricordare qui un costituzionalista quale Alessandro Pace, il quale scriveva nel 1974: “Va subito affermato che non sembra che l’art. 13 possa cedere all’art. 32; pertanto tutte le restrizioni coattive per motivi di sanità devono di necessità seguire la via giurisdizionale prevista da quell’articolo”. Ed ancora: “D’altro canto mai potrebbe, dall’autorità pubblica, essere invocato l’art. 32 Cost. per derogare, per motivi di salute, alla portata e alle garanzie dell’art. 13”[4].
2.3.3. Altre precisazioni vanno fatte con riferimento al dovere di solidarietà.
La sentenza ha infatti giustificato l’obbligatorietà della vaccinazione anche sulla base di detto principio, e a tal fine è arrivata ad affermare che: “Il potenziale rischio di un evento avverso per il singolo individuo con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società senza l’utilizzo di quel farmaco” (punto 30.7).
Questa affermazione pone, a mio parere, un quesito non secondario.
Nel nostro sistema, direi, non può esser chiesto a nessuno il sacrifico personale per il bene comune.
Altrimenti, nel confronto tra la situazione del singolo e quello della collettività, la valutazione del singolo risulterebbe sempre di gran lunga inferiore rispetto a quella della collettività, cosicché le libertà individuali non sarebbero più ne’ relative ne’ responsabili, come qualcuno le indica, ma semplicemente non esisterebbero, in quanto in concreto rimesse alla libera valutazione del potere pubblico.
Non a caso Corte Cost. 22 giugno 1990 n. 307 affermava che il dovere di solidarietà “non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri”.
E dubbi, ancora, a mio parere, solleva il Consiglio di Stato, laddove, affermando che “la solidarietà è la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione”, cita la pronuncia Corte Cost. 28 febbraio 1992 n. 75 (punto 30.9), perché quella vicenda aveva ad oggetto il volontariato (era in discussione la l. 11 agosto 1991 n. 266, legge quadro sul volontariato) e in quel contesto la Corte costituzionale affermava che “Della natura di tali diritti fondamentali il volontariato partecipa: e vi partecipa come istanza dialettica volta al superamento del limite atomistico della libertà individuale, nel senso che di tale libertà è una manifestazione che conduce il singolo sulla via della costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra gli uomini, al di là di vincoli derivanti da doveri pubblici o da comandi dell'autorità”.
È evidente, dunque, che una cosa è la solidarietà quale libera scelta, altra cosa la solidarietà imposta, come qui la si configura.
Se la solidarietà viene imposta, e non è più rimessa alla libertà, o alla volontarietà della persona, essa allora non può spingersi fino a comprendere il sacrificio individuale in nome della collettività.
Altrimenti si apre una stagione nuova, un nuovo equilibrio tra i rapporti tra cittadino e Stato.
2.3.4. Ed infine, più in generale, io direi che vi sono situazioni che, attenendo a valori centrali della vita, ovvero a diritti definiti dalla nostra stessa costituzione inviolabili, con difficoltà possono essere risolte sulla base di “bilanciamenti”, ovvero di operazioni del tutto soggettive e relative.
Da anni, a mio parere purtroppo, il diritto costituzionale è divenuto invece solo un diritto di bilanciamenti, liberamente esercitabili prima dal potere legislativo, e poi da quello giudiziario; cosicché, di bilanciamento in bilanciamento, tutto diventa incerto ed oscuro, e rischia di far venir meno la stessa funzione di una carta costituzionale, che è quella di assicurare al contrario l’esistenza in modo chiaro, e non discutibile, di alcuni diritti fondamentali dei cittadini.
E, direi, se la Costituzione prevede essa stessa, formalmente e testualmente, un bilanciamento, questo può esser posto in essere dal legislatore o dal giudice, seppur nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità; ma se la costituzione dà un diritto come inviolabile, qual è quello, ad esempio, della libertà personale, o di libertà di manifestazione del pensiero, o del lavoro, e non prevede per essi bilanciamenti di sorta che possano in qualche modo scalfirli, lì nessuno dovrebbe compiere operazioni di bilanciamento, a mio sommesso parere.
Un grande costituzionalista del passato quale Costantino Mortati scriveva sul punto: “Si chiede anche se, oltre ai limiti espressamente formulati dalle disposizioni costituzionali, sia da riconoscerne altri impliciti. Non sembra che esso abbia ragion di esser posto da noi, data l’ampiezza della disciplina racchiusa nel testo costituzionale. In particolare si deve rigettare l’opinione che sia consentito far ricorso, allo scopo di giustificare limiti ai diritti fondamentali, ad un generico principio di ordine pubblico all’infuori dei casi in cui la costituzione lo richiama”[5].
3. Alcune osservazioni di sintesi
Si tratta di tematiche complesse, che evidentemente non possono essere trattate in questa sede con il dovuto approfondimento.
Tuttavia, in estrema sintesi, a me sembra che un obbligo vaccinale possa darsi solo se il vaccino non presenti rischi che superino la normale tollerabilità per chi lo riceva.
La situazione attuale non sembra presentare, oltre ogni ragionevole dubbio, queste caratteristiche; e desta comunque una certa preoccupazione vedere che si possa risolvere un tema così delicato con strumenti totalmente discrezionali quali quello del bilanciamento rischi/benefici, che possono portare taluni ad affermare una cosa, ed altri ad affermarne un’altra.
E può preoccupare, poi, che si trasformi in “diritto tiranno” semplicemente quello che è un “diritto inviolabile”, ovvero la libertà personale, così come lo stesso art. 13 Cost. lo qualifica.
E preoccupa ancora che il diritto alla libertà personale sia ormai da molti relegato in uno sfondo, considerato un residuo liberale del passato, tanto che non si ha alcun imbarazzo e alcuna difficoltà a comprimerlo come mai precedentemente era avvenuto nella nostra storia della Repubblica, fino a teorizzare il sacrificio individuale in funzione dell’interesse comune.
3.1. In questi giorni si sta parlando di condizionare il mantenimento del green pass alla terza dose di vaccino, si sta valutando l’istituzione di un nuovo lockdown per i soli non vaccinati, oppure la soppressione dei test tamponi per ottenere il green pass.
Non è da escludere che, dopo la terza dose, seguirà forse la quarta, e poi una quinta, e così di seguito, e allora questa sarà la nuova regola: che l’esercizio delle libertà costituzionali è subordinato alla concessione di una autorizzazione governativa, e il Governo ti concede questa autorizzazione solo a tempo determinato, e solo dopo che tu, di volta in volta, hai provveduto all’adempimento dei precetti che ti sono stati comandati.
Ecco, avverso questa prospettiva, che credo non vi sia bisogno di sottolineare essere contraria ad ogni regola costituzionale, la vigilanza, a mio parere, diventa un dovere, e il dubbio che la questione, a questo punto, non abbia solo carattere sanitario, può legittimamente formarsi.
[1] Rilevanza marginale, al contrario, viene data, a mio parere, agli aspetti del diritto della comunità europea.
Quanto alla risoluzione del Consiglio di Europa - Assemblea parlamentare - n. 2361/2021 del 27 gennaio 2021, il Consiglio di Stato, ricordando correttamente che “non è vincolante sul piano giuridico per gli Stati” (punto 37.7), enfatizza il punto 7.3. ove si raccomanda “un’alta diffusione del vaccino”, cosa logica e condivisibile, ma omette di richiamare i punti 7.3.1. e 7.3.2, i quali affermano che, comunque, il tutto deve avvenire senza obblighi e discriminazioni.
Vale la pena richiamare questi punti omessi: “Assicurare che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno è politicamente, socialmente o altrimenti sottoposto a pressioni per farsi vaccinare; garantire che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato o per non voler essere vaccinato”.
Inoltre, la sentenza in commento, non evoca mai il Regolamento del Parlamento Europeo, questo invece vincolante, del 14 giugno 2021 n. 953, il quale. nella sua corretta e integra traduzione, asserisce al punto Considerato 36 che: “E’ necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che…….. hanno scelto di non essere vaccinate”.
Dal che, un precetto di questo genere, dovrebbe, a mio sommesso parere, escludere in radice la possibilità di introdurre un obbligo vaccinale, poiché è evidente che se vaccinarsi diventa fatto dovuto, il principio di non discriminazione di chi abbia scelto di non vaccinarsi viene meno.
Né credo possa aderirsi all’orientamento di chi afferma che i Considerato non hanno valore vincolante, poiché essi, al contrario, costituiscono le ragioni delle successive norme e hanno evidentemente valore di legge insieme a quelle norme, nessuno ha mai pensato che costituiscono solo dei “consigli”. Sarebbe come dire che di una sentenza del giudice non valgono le motivazioni ma solo il dispositivo.
Né, ancora, penso possa condividersi l’idea secondo la quale il principio di non discriminazione sarebbe posto solo in ambito transfrontaliero, perché credo che nessuno voglia giungere all’assurda conclusione secondo la quale una persona a diritto a non essere discriminata se si reca all’estero, ma può invece essere discriminata se si reca al bar o al ristorante.
[2] V. ancora Corte Cost. 22 giugno 1990 n. 307; Corte Cost. 23 giugno 1994 n. 258; Corte Cost. 18 gennaio 2018 n. 5
[3] Corte Cost. 9 maggio 2013 n. 85
[4] PACE, Libertà personale (dir. cost.), voce dell’Enciclopedia del Diritto, Milano, 1974, XXIV, 296 e 298.
[5] MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1967, II, 840.
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