ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità*
di Fabio Francario
Indice: 1. Premessa. Oggetto e limiti dell’indagine - 2. Sul concetto di demanio necessario - 2.1. La nozione tradizionale di demanio marittimo come specie del demanio necessario - 2.2. Lo “scorporo” teorico del demanio portuale dal demanio marittimo - 2.3. Dal quadro tradizionale allo scenario contemporaneo - 3. I fattori di crisi della ricostruzione tradizionale - 3.1. La “patrimonializzazione” dei beni demaniali - 3.2. Il trasferimento delle funzioni di gestione dallo Stato agli enti territoriali - 3.3. La pianificazione di settore (i piani delle coste) - 4. Il problema della mancata o incompleta pianificazione - 5. Riepilogo.
1. Premessa. Oggetto e limiti dell’indagine
Affrontare il tema dei rapporti tra pianificazione e discrezionalità amministrativa con riferimento al demanio costiero richiede di chiarire preliminarmente due questioni di più ampio respiro. La prima riguarda la precisazione dell’oggetto, nel senso che per affrontare il problema bisogna chiarire preliminarmente se e quale senso abbia distinguere il demanio costiero nell’ambito della categoria del demanio marittimo. La seconda questione da chiarire è se e come sia eventualmente cambiato qualcosa nel regime giuridico dei beni demaniali, e in particolare di quelli costituenti il demanio cd necessario. Solo rispondendo preliminarmente a questi due principali interrogativi possono poi trovare adeguata risposta una serie di problemi per così dire applicativi, quali sono ad esempio quelli legati alla decisione da assumere in assenza di pianificazione o in presenza di una pianificazione parziale o incompleta.
La prima parte delle presenti riflessioni viene pertanto dedicata alla ricostruzione della nozione tradizionale di demanio marittimo e alla enucleazione, nel suo seno, della categoria del demanio costiero, che, come si vedrà, si ricava per esclusione della speciale categoria del demanio portuale dalla categoria generale del demanio marittimo.
La seconda parte viene invece dedicata ai fattori di crisi che più in generale investono la concezione tradizionale del demanio necessario a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso (patrimonializzazione dei beni pubblici, demanio compreso; attuazione dell’ordinamento regionale suoi sviluppi, con trasferimento dei poteri gestori del demanio marittimo agli enti territoriali; pianificazione settoriale “integrata” delle coste).
La terza parte viene infine dedicata a vedere in che termini si ponga il rapporto tra pianificazione e discrezionalità con specifico riferimento al demanio costiero, delimitato nella sua attuale consistenza di bene giuridico
Nelle conclusioni si osserverà che le aree del demanio costiero da destinare ad usi di economia balneare debbano essere necessariamente previamente individuate dalla apposita pianificazione (settoriale integrata delle coste). Ciò per una ragione molto semplice. Perché quella del demanio costiero non è una pianificazione neutra o che deve disciplinare con scopo conformativo o vincolistico usi o beni privati e conseguentemente finalizzata in primo luogo a precisare cosa non si possa fare. Ma è una pianificazione che riguarda beni pubblici, beni pubblici necessariamente demaniali, che nasce in funzione conservativa e non ha necessità di dire ciò che non si può fare perché quello che non si può fare è già in re ipsa nella natura necessaria del bene demaniale, che implica che il bene non possa essere distratto dalla propria destinazione. La pianificazione deve piuttosto dire cosa si possa fare del bene demaniale, a quali usi possa essere destinato, fermo pertanto restando che se non si realizza rimane ferma la destinazione naturale del bene all’uso pubblico. E’ una pianificazione, in sostanza, che non crea vincoli, ma libera il bene dai vincoli che altrimenti graverebbero necessariamente sullo stesso.
2. Sul concetto di demanio necessario
2.1. La nozione tradizionale di demanio marittimo come specie del demanio necessario
La tradizionale classificazione del demanio non conosce la categoria del demanio costiero, ma quella del demanio marittimo. Al pari del demanio idrico e di quello militare, il demanio marittimo è ritenuto una forma di demanio cd necessario; qualificazione che si contrappone a quella di demanio accidentale per sottolineare che il bene non è mai suscettibile di appropriazione dominicale da parte dei privati e che appartiene necessariamente allo Stato in ragione dell’importanza essenziale di tali beni per l’interesse della collettività nazionale (confini della nazione, acqua, difesa militare).
Per capire se la diversa aggettivazione (costiero e non marittimo) valga a circoscrivere diversamente l’oggetto del bene ed abbia una effettiva capacità qualificatoria bisogna pertanto necessariamente muovere dalla definizione (tradizionale) di demanio marittimo.
Secondo la voce dell’Enciclopedia del Diritto ( vol XII) redatta da Querci nel 1964, per demanio marittimo “s’intende il complesso di beni destinati a soddisfare gli interessi pubblici riguardanti la navigazione e il traffico marittimo”. La nozione così lata include una serie di beni che sono poi analiticamente elencati dal Codice civile e dal Codice della navigazione: il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti (art 822 cod.civ e art 28 cod nav.; l’art 28 cod nav aggiunge alla suddetta elencazione anche le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell' anno comunicano liberamente col mare e i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo).
È dubbio se l’elencazione abbia carattere tassativo o meno[1] e in ogni caso è risultata spesso incerta l’esatta riconduzione di un determinato bene nell’ambito del demanio marittimo. Dibattuta e tormentata è sempre stata, ad esempio, la definizione di spiaggia, in relazione sia al lido del mare che all’arenile, cose di per sé variabili in rerum natura e che il legislatore si sforza d’individuare in maniera certa in via generale e astratta[2].
È certo comunque che, una volta operata la riconduzione di un bene nell’ambito del demanio marittimo, da ciò ne deriva l’appartenenza necessaria allo Stato, con esclusione della possibilità di configurare un rapporto dominicale in capo non solo a soggetti privati, ma anche ad altri enti pubblici territoriali.
Nella ricostruzione tradizionale, la sottolineatura dell’importanza del profilo dominicale (proprietà necessariamente pubblica e statale) mette in evidenza il carattere di res extra commercium del demanio necessario e consente di concentrare l’attenzione sul regime degli usi funzionali al soddisfacimento dell’interesse pubblico primario affidato alle cure dell’Amministrazione statale[3]. La riserva dominicale allo Stato, la proprietà pubblica, ha l’effetto di garantire che il bene possa essere impiegato direttamente dall’amministrazione statale per garantire l’interesse pubblico alla navigazione e ai traffici marittimi e alla difesa e alla sicurezza dello Stato; garantendo altresì la fruizione diretta del bene da parte dei cittadini uti cives ove le suddette esigenze non sussistano, senza che si possano però accampare diritti d’uso particolare nei confronti del bene. La creazione di usi particolari, volti a consentire lo sfruttamento economico del bene demaniale, è eccezionale, perché lo sottrae all’uso generale. E per questo è consentita solo nelle forme e nei modi previsti dalla legge, secondo il principio codificato nell’art 823 cod civ.. Per il demanio marittimo, il Codice della Navigazione e il Regolamento prevedono all’uopo un procedimento concessorio, soggetto a peculiari obblighi di pubblicità e contraddittorio che non intaccano il carattere discrezionale della concessione, che rimane avulsa da un vero e proprio sistema di pianificazione. Il regime giuridico del demanio marittimo deve garantire i “pubblici usi del mare”; espressione impropria perché il demanio marittimo in realtà è “asciutto” (lido, spiaggia, rade, porti), ma efficace nel rendere l’dea che la finalità primaria che deve essere perseguita è quella di garantire le esigenze della navigazione e della difesa militare dei confini dello Stato e l’uso non commerciale (ma diretto o generale) del bene[4].
I possibili usi del bene dipendono così da una valutazione ampiamente discrezionale dell’Amministrazione proprietaria del bene e titolare dell’interesse pubblico che il bene è ritenuto per sua natura destinato a soddisfare, senza che vi sia necessità di una particolare pianificazione o di raccordo con altri interessi. Le discipline generali cedono rispetto al regime speciale del bene demaniale[5]. Basti pensare ai titoli abilitativi che si renderebbero necessari per la realizzazione di opere o strutture sull’area demaniale marittima, sostituiti e assorbiti dalla concessione demaniale (cfr. art 10, 3° co., l 6 8 1967 n 765).
2.2. Lo “scorporo” teorico del demanio portuale dal demanio marittimo
La tradizionale ricostruzione del sistema del demanio marittimo, completamente appiattita sulla teorica del demanio necessario che vuole salvaguardata la destinazione ritenuta naturale di tali beni all’uso generale o all’impiego diretto attraverso la riserva dominicale allo Stato, viene messa in discussione nella seconda metà del secolo scorso dagli studi di Acquarone (Aspetti pubblicistici della disciplina delle imprese portuali, in Riv. Dir. Nav., 1967, 3ss) e soprattutto di Benvenuti (Ordinamento giuridico dei porti, con particolare riguardo a quelli industriali, Mondo economico, XIX, 1964, 223 ora in Scritti giur., III, 2321; Il demanio marittimo tra passato e futuro, in Riv. Dir nav., 1965, 154 ss ora in Scritti giur. III, 2391ss).
Prendendo specificamente in esame l’ordinamento dei porti italiani, l’A. sottolinea come in tal caso si evidenzia nettamente l’esistenza di un interesse superiore tanto all’uso generale, quanto a quello esclusivo delle aree demaniali portuali, che è quello all’efficienza economica, rispetto al quale i primi due si profilano come serventi.
La superiorità di un interesse all’efficienza economica è quanto consente all’A. di
ricondurre a unità l’intera esperienza portuale e di teorizzare l’avvenuta divaricazione tra il regime del demanio portuale e quello degli altri beni del demanio marittimo. Secondo l’A., la disciplina unitaria dei beni demaniali marittimi, contenuta agli artt. 28 ss. del codice della navigazione celerebbe una sostanziale diversità degli oggetti da essa regolati: non solo i porti che, in virtù delle leggi speciali, sono stati formalmente “scorporati” dal demanio marittimo (e attribuiti alla gestione di enti ad hoc), ma anche tutti quelli ricadenti nel regime comune e quelli industriali, sarebbero beni ai quali l’interesse pubblico si lega in termini del tutto differenti dal resto dei beni demaniali marittimi; un interesse non tanto ancorato al valore finale, ma a quello strumentale, produttivo. L’Autore specifica i termini della distinzione chiarendo che “la categoria, in senso ampio, dei beni portuali [...] è caratterizzata dall’uso che si possa fare di tali beni come punto d’incontro tra i traffici che provengono dal mare e i traffici che si sviluppano nel territorio terrestre”. Questa funzione differenzia le aree portuali “dall’insieme degli altri beni, che pur appartenenti al demanio marittimo, e che consistono nell’insieme delle coste, cioè luoghi nei quali avviene, bensì, l’incontro del mare con la terra, ma tale incontro non è utilizzato in funzione di traffici commerciali od industriali”.
Viene così delineata una netta distinzione tra demanio portuale e demanio costiero precisando, in maniera apparentemente soltanto empirica, che “nel primo caso l’uomo utilizza i beni demaniali in quanto uomo economico; nell’altro caso, invece, essi vengono utilizzati dall’uomo nella sua qualità di persona che incontra il mare e che di esso si giova per fini esclusivamente individuali quali possono essere il diporto, lo svago, la salute ecc.”.
L’espressione demanio costiero viene così ad assumere una efficacia qualificatoria sua propria nell’ambito della più ampia categoria del demanio marittimo, individuando, per esclusione, il demanio marittimo non portuale, che continuerebbe ad essere contraddistinto dalla tradizionale destinazione al pubblico uso[6].
2.3. Dal quadro tradizionale allo scenario contemporaneo
Inizialmente la distinzione tra demanio portuale e costiero è dunque frutto essenzialmente del pensiero teorico dottrinario. Successivamente la distinzione prende più concretamente e completamente corpo anche nell’opera del legislatore, che divaricherà sempre più il regime delle due tipologie in ragione delle diverse finalità perseguite allorquando dovrà occuparsi specificamente del demanio costiero per dare attuazione dell’ordinamento regionale e per contrastare il fenomeno erosivo delle coste, causato da fattori antropici e dai mutamenti climatici.
Se il problema del rapporto tra pianificazione e discrezionalità dovesse essere dunque risolto stando al quadro tradizionale, non vi sarebbero particolari problemi. Basterebbe limitarsi ad osservare in via generale che l’effetto della pianificazione, così come di qualsiasi altro atto normativo o a contenuto generale che s’interpone tra la norma attributiva del potere all’Amministrazione e il suo concreto esercizio, limita la discrezionalità amministrativa se e in quanto restringe il margine di scelta lasciato dal legislatore all’amministrazione in ordine alla cura concreta dl pubblico interesse; per concludere agevolmente che, in assenza di pianificazione o di una pianificazione parziale o incompleta (e ovviamente di eventuali misure di salvaguardia), l’Amministrazione non rimane priva del potere di provvedere ma si riespande il potere di provvedere discrezionalmente (GIANNINI).
Il fatto è che a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso la nozione di demanio marittimo subisce una sorta di crisi d’identità, essenzialmente per l’azione combinata di tre fattori che ne mettono in discussione la ricostruzione tradizionale. Questi tre fattori di crisi sono dati dalla teorizzazione della “patrimonializzazione” dei beni demaniali; dall’attuazione dell’ordinamento regionale e dalla successiva evoluzione; dalla previsione normativa della necessità di adottare piani di settore finalizzati ad assicurare una gestione “integrata”. Mentre i primi due fattori non sembrano comunque incidere sul regime del demanio costiero come bene giuridico, lo stesso non può dirsi per il terzo, in quanto la previsione di una pianificazione di settore viene a incidere significativamente sui “modi e limiti” in cui il bene può essere oggetto di diritti da parte di terzi (art 823 cod civ), nel momento in cui, in ultima analisi, le risulta affidato il compito d’individuare, residualmente rispetto alle zone che debbono essere conservate per uso pubblico, quelle che possono essere destinate all’economia balneare; ovvero, come ho già detto, di svincolare il bene demaniale dalla sua naturale destinazione all’uso pubblico.
3. I fattori di crisi della ricostruzione tradizionale
3.1. La “patrimonializzazione” dei beni demaniali
Gli studi della dottrina maturati sul tema dei beni pubblici nel corso degli ultimi decenni hanno generalmente criticato la ricostruzione tradizionale del demanio necessario come volta a preservare la naturale destinazione del bene all’uso generale o all’impiego diretto, a favore della valorizzazione della possibilità di sfruttamento economico del bene pubblico anche se demaniale.
Il nuovo indirizzo nello studio dei beni pubblici prende corpo dall’osservazione degli interventi legislativi che si susseguono a partire dal 2001 con l’intento di perseguire obbiettivi di finanza pubblica e di realizzare immediati flussi di cassa necessari per assicurare il rispetto dei parametri imposti dal Patto di stabilità europeo. Pressato dall’esigenza di ridurre il disavanzo pubblico, il legislatore mette in campo programmi di dismissione e privatizzazione dei beni pubblici che tendono a includere non solo i beni appartenenti al patrimonio disponibile, ma anche i beni demaniali, con buona pace delle differenze teoricamente esistenti tra le diverse categorie dei beni pubblici[7]. Se nessun problema crea infatti l’alienazione del bene appartenente al patrimonio disponibile, essendo caratteristica del regime giuridico di un tale bene quella di essere impiegato economicamente per procurare risorse necessarie per consentire all’amministrazione di provvedere alla cura del pubblico interesse, il regime del bene demaniale (o patrimoniale indisponibile) è invece caratterizzato dal principio della incommerciabilità per garantire la conservazione della destinazione del bene, ritenuta connaturale al bene medesimo nel caso dei beni appartenenti al demanio necessario.
Probabilmente dimentica dell’ammonimento già di Cammeo che il vincolo alla destinazione del bene pubblico è posto “a garanzia dell’ente immutabile e a freno dell’amministratore transeunte” [8], la dottrina ha tutto sommato assecondato la suddetta tendenza del legislatore a scolorire la classica tripartizione a vantaggio di una onnicomprensiva categoria di beni ad appartenenza pubblica “suscettibili di utilizzazione economica”[9], classificazione peraltro espressamente introdotta, anche se esclusivamente ai fini della contabilità di Stato [10], dalla riforma del bilancio dello Stato operata dalla l 3 4 1997 n 94 e dal successivo d lgs 7 8 1997 n. 279[11].
A voler seguire l’approdo della più recente dottrina al principio per cui ogni bene di appartenenza soggettiva pubblica, anche demaniale, deve essere utilizzato in modo da essere redditizio (patrimonializzazione di tutti i beni pubblici) [12], si dovrebbero però necessariamente trarre, ai nostri fini, almeno due conseguenze. La prima, è che verrebbe meno in astratto la ragione di mantenere la distinzione all’interno del demanio marittimo tra demanio portuale e costiero, fondata sulla finalità di sfruttamento economico - produttiva o meno del bene. La seconda, è che il demanio costiero potrebbe essere oggetto di uno strumento di pianificazione generale come qualsiasi altro bene giuridico, in quanto la sua natura non ne vincolerebbe più destinazione e uso.
La teorizzazione è rimasta tuttavia tale, sia perché la distinzione tra demanio portuale e costiero non è affatto venuta meno, ma semmai si è accentuata; sia perché è rimasta comunque priva di concrete conseguenze sul regime giuridico. Ma, anche sul piano puramente teorico, ha mostrato tutti i suoi limiti nel momento in cui la teorizzazione che tutti i beni oggetto di proprietà pubblica sono suscettibili di utilizzazione economica è stata immediatamente controbilanciata dallo sviluppo della teoria dei beni comuni, finalizzata a recuperare l’incommerciabilità di quei beni che per loro natura non possono essere utilizzati con una logica mercantile[13]. Come dire che la quintessenza della demanialità necessaria (la proprietà pubblica come garanzia di usi non commerciali dei beni necessari per la collettività) è stata fatta uscire dalla porta ma è stata fatta poi rientrare dalla finestra teorizzando la sottrazione alla proprietà pubblica del nucleo di beni che devono per natura ritenersi extra commercium.
3.2. Il trasferimento delle funzioni di gestione dallo Stato agli enti territoriali
L’attuazione dell’ordinamento regionale e i suoi successivi sviluppi producono la separazione dei profili funzionali e gestionali del bene da quello dominicale. Lo Stato rimane proprietario del bene demaniale costiero, ma i poteri gestori vengono affidati agli enti territoriali[14]. Va sicuramente ricordato al riguardo innanzi tutto il DPR n. 616 del 24 luglio 1977, nel quale il bene costiero, individuato per sottrazione del demanio portuale dalla più ampia categoria del demanio marittimo, è oggetto di specifica e autonoma considerazione nell’ambito del complessivo disegno del trasferimento di funzioni amministrative statali alle regioni. Alle Regioni vengono delegate le “funzioni amministrative sul litorale marittimo, sulle aree demaniali immediatamente prospicienti, sulle aree del demanio lacuale e fluviale, quando l'utilizzazione prevista abbia finalità turistiche e ricreative” (art. 59), precisando che “le Regioni possono altresì provvedere alle opere destinate alla difesa delle coste interessanti il rispettivo territorio previa autorizzazione dello Stato” (art 69 co. 6) e (precisando) che sono escluse dalla delega le funzioni esercitate dagli organi dello Stato in materia di “navigazione marittima, di sicurezza nazionale e di polizia doganale” (art. 59) così come le funzioni concernenti “le opere di preminente interesse nazionale per la sicurezza dello Stato e della navigazione, nonché per la difesa delle coste” (art. 88). All’incirca vent’anni dopo, con il Decreto Legislativo n.112 del 31 marzo 1998 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni e agli Enti locali, in attuazione del capo I della Legge n. 59 del 15 marzo 1997), vengono conferite alle Regioni e agli Enti locali “tutte le funzioni relative alla programmazione, pianificazione e gestione integrata degli interventi di difesa delle coste e degli abitati costieri” (art. 89, comma 1, lettera h)[15].
Ciò ha però significato soltanto che la funzione decisionale sia stata distribuita tra più enti pubblici, facendo peraltro sorgere l’esigenza di trovare uno strumento di raccordo in grado di garantire una pianificazione e gestione integrata del demanio costiero. L’intervento legislativo ha dunque assunto il demanio costiero come oggetto di specifica considerazione, ma la considerazione normativa è rimasta comunque limitata ai profili organizzativi dell’esercizio della funzione e non ha intaccato il regime giuridico del bene, lasciando inalterato anche il profilo della titolarità dominicale[16].
In diverse occasioni la Corte costituzionale ha modo di esprimersi chiaramente sul punto. Mi limito a ricordare tra i casi più significativi quello decisi da Corte cost. 28 7 2004 n. 286 in materia di determinazione dei canoni concessori, e da Corte cost. 14 11 2008 n 370 in materia di delimitazione delle zone del demanio marittimo. Nel primo caso diverse Regioni avevano impugnato disposizioni statali che modificavano il sistema di calcolo dei canoni demaniali marittimi ad uso turistico ricreativo assumendo la propria titolarità nella determinazione dei canoni demaniali quali parti indefettibili del trasferimento delle funzioni avvenuto con il d lgs 112/1998 e i ricorsi vengono respinti affermando che determinante è la titolarità del bene e non invece quella delle funzioni legislative e amministrative in ordine alla utilizzazione e che non si deve confondere la proprietà del bene con il potere di disciplinare l’uso del bene stesso. Nel secondo caso si trattava della legge della Regione Molise che aveva appunto proceduto alla individuazione delle zone comprese nel demanio marittimo e che viene dichiarata incostituzionale ritenendo che la “la competenza della Regione nella materia non può incidere sulle facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario … che precedono logicamente la ripartizione delle competenze ed ineriscono alla capacità giuridica dell’ente secondo i principi dell’ordinamento civile” e che quindi “ la legge regionale non può derogare ai criteri fissati dal codice civile e dal codice della navigazione stabilendo linee di confine demarcazione che vengano a sottrarre il lido del mare o la spiaggia di una determinata area dai beni appartenenti al demanio marittimo”.
Né ha inciso sotto questo profilo la stessa riforma enfaticamente definita del federalismo demaniale (l. 42/2009 e d lgs 28 5 2010 n. 85), che, se è pur vero che abbia previsto la possibilità di trasferire i beni del demanio marittimo agli enti territoriali, non ha certamente prodotto tale effetto ex lege, ma si è limitata appunto a prevedere che il trasferimento possa avvenire a richiesta degli enti territoriali e solo dopo che sia stato formato dal Governo un elenco dei beni che possono essere trasferiti ed è peraltro rimasta praticamente inattuata [17].
Anche nel caso del trasferimento delle funzioni dallo Stato alle Regioni v’è dunque una specifica considerazione del demanio costiero come bene giuridico, ma che si limita ai profili organizzativi e funzionali senza innovare il regime giuridico sostanziale della demanialità.
3.3. La pianificazione di settore (i piani delle coste)
3.3.1. Il terzo elemento di novità con cui deve fare i conti la ricostruzione tradizionale è dato dall’intervento legislativo che vuole che il demanio costiero divenga necessariamente oggetto di una pianificazione di settore.
Tra le funzioni trasferite dal d lgs 112 del 1998 v’è la programmazione, pianificazione e gestione integrata degli interventi di difesa delle coste e degli abitati costieri”. Attesa la competenza regionale, oggi come oggi lo Stato si limita conseguentemente a emanare Linee Guida[18]. Dopo aver adottato nel 2006 un primo “Documento preliminare per l’individuazione degli indirizzi e dei criteri per la difesa delle coste”, nel novembre 2016 il Ministero dell’Ambiente, dopo aver sottoscritto un apposito Protocollo d’intesa con le Regioni che ha previsto l’istituzione del Tavolo Nazionale sull’Erosione Costiera, ha adottato le “linee guida nazionali per la difesa della costa dai fenomeni di erosione e dagli effetti dei cambiamenti climatici”. Le diverse leggi regionali hanno tutte generalmente previsto e disciplinato l’adozione di uno strumento di pianificazione appositamente dedicato a tal fine. Si tratta di una pianificazione settoriale, che nasce cioè per governare in maniera specifica e differenziata rispetto alla pianificazione generalista un determinato interesse pubblico (difesa della costa), ma integrata, che deve cioè al tempo stesso farsi carico della considerazione della molteplicità degli interessi pubblici coinvolti.
Non si tratta di un fenomeno tipicamente italiano, in quanto, come ricordano le citate Linee Guida, la Gestione Integrata Zone Costiere (GIZC) ubbidisce a principi che è necessario seguire “per operare con una visione unitaria, e integrata appunto, dei vari elementi antropici e naturali che interagiscono sulla costa, in particolare e con particolare enfasi anche affrontando la problematica dell’erosione e dell’adattamento delle coste ai cambiamenti climatici”, che risalgono ad un quadro normativo internazionale che impone ai singoli Stati di provvedere in tal senso; di provvedere cioè innanzi tutto alla protezione e conservazione del bene naturale costiero alla luce della crescente fenomeno erosivo. Punto di riferimento obbligato al riguardo è la Convenzione di per la protezione dell’ambiente marino e del litorale del Mediterraneo adottata a Barcellona il 16 febbraio 1976 e modificata il 10 giugno 1995 che con i suoi 7 Protocolli compone il quadro normativo del Piano di Azione per il Mediterraneo (MAP)[19]. In tale quadro s’inscrive anche il Protocollo sulla Gestione Integrata delle Zone Costiere del Mediterraneo – GIZC, ratificato dall’UE il 13 settembre 2010 con decisione del Consiglio 2010/631/UE, che indica chiaramente quale finalità prioritaria da perseguire quella della difesa dalla erosione costiera (art 23): 1.-In conformità degli obiettivi e dei principi enunciati agli articoli 5 e 6 del presente Protocollo, le parti, al fine di prevenire e mitigare più efficacemente l’impatto negativo dell’erosione costiera, si impegnano ad adottare le misure necessarie per preservare o ripristinare la capacità naturale della costa di adattarsi ai cambiamenti, includendo quelli provocati dall’innalzamento del livello del mare. 2.- Nell’esaminare nuove opere o attività nelle zone costiere, comprese le opere marittime e gli interventi di difesa costiera, le parti tengono in particolare considerazione gli effetti negativi dell’erosione costiera e i costi diretti e indiretti che potrebbero derivarne. Riguardo alle attività delle strutture esistenti, le parti adottano misure intese a ridurne al minimo gli effetti dell’erosione costiera. 3.-Le parti s’impegnano a prevenire gli impatti dell’erosione costiera attraverso la gestione integrata delle attività e segnatamente l’adozione di misure specifiche per i sedimenti costieri e le opere costiere. 4.- Le parti s’impegnano a condividere i dati scientifici atti a migliorare le conoscenze sullo stato, l’evoluzione e gli impatti dell’erosione costiera”.
Anche le già citate Linee Guida inquadrano chiaramente la tematica in un contesto che fa riferimento “ai fattori strutturali di alterazione e degrado per favorire, parallelamente alle azioni di difesa dell’erosione, anche azioni di riduzione delle cause che generano i fenomeni erosivi lungo le coste, nonché tutte le azioni di protezione e valorizzazione dei litorali che devono prescindere dai limiti amministrativi nello spirito di garantire omogenee attività di tutela e di intervento a livello nazionale”; nella chiara consapevolezza che “l’erosione della costa è il risultato diretto e indiretto di alterazioni del ciclo di sedimenti, determinate da cause naturali e antropiche (e), in particolare, la realizzazione di invasi artificiali che sottraggono ingenti volumi di sedimento al bilancio sedimentario, le escavazioni incontrollate in alveo, le sistemazioni idraulico-forestali che, proteggendo il suolo dall’erosione, necessariamente riducono la disponibilità di sedimento in alveo, nonché la perdita del sedimento trattenuto lungo i tratti terminali dei fiumi in sovralluvionamento a causa della mancata manutenzione” e che “il ridotto apporto dei sedimenti al mare, unitamente all’irrigidimento dei litorali associato alle attività antropiche, determina quindi cambiamenti delle morfologie di spiaggia emersa e sommersa e la conseguente instabilità dei litorali, principalmente riconducibile all’innescarsi di fenomeni erosivi e di arretramento della linea di riva”.
3.3.2. La necessità di predisporre un piano di settore nasce dunque per l’esigenza di assicurare la conservazione e difesa del demanio costiero dai fenomeni di erosione indotti in maniera sempre crescente da fattori antropici o dal mutamento climatico. Ma è anche vero che le stesse fonti precisano che deve comunque trattarsi di una pianificazione “integrata”, che significa che lo strumento di pianificazione settoriale deve comunque a muoversi nell’ottica di una considerazione complessiva dei diversi interessi sottesi all’uso del bene [20]. La formazione del Piano è peraltro ormai attribuita non più all’Amministrazione statale, ma agli enti territoriali; i quali, per la loro natura di enti a fini generali, tendono inevitabilmente ad introdurre essi stessi nello strumento pianificatorio gli interessi pubblici connessi all’economia balneare.
Il piano di settore finisce così per subire una evidente torsione in senso generalista che rischia di far dimenticare o far passare in secondo piano che finalità primaria di tale piano è quella di assicurare la difesa e conservazione del demanio costiero; che cioè la considerazione normativa pone chiaramente in cima alla scala degli ipotetici interessi quello alla conservazione e difesa del demanio costiero, che è quanto giustifica la necessità di una pianificazione di settore, e che gli interessi connessi all’economia balneare sono comunque secondari rispetto al primo.
In quanto espressione di una pianificazione di settore, ma “integrata”, il Piano delle coste deve dunque necessariamente farsi carico di contemperare interesse primario e interessi secondari e finisce così con assumere un ruolo insostituibile nel momento in cui la dinamica degli interessi deve tradursi in una zonizzazione del territorio che individua le zone del demanio costiero che debbono rimanere destinate all’uso pubblico, e quelle che possono essere destinate allo sviluppo dell’economia balneare.
Ai fini del nostro discorso, ciò ha un’importante conseguenza perché, differentemente dai fattori di crisi precedentemente enumerati (patrimonializzazione dei beni pubblici e trasferimento funzioni), in questo caso l’intervento legislativo che impone la pianificazione di settore incide anche sui modi e limiti in cui in cui possono sorgere diritti dei terzi sul bene demaniale costiero.
4. Il problema della mancata o incompleta pianificazione
Rispetto al quadro tradizionale, l’attuale scenario è dunque caratterizzato dalla presenza del Piano delle coste, strumento di pianificazione settoriale integrata.
Uno dei principali problemi che si è posto nel nuovo scenario è dipeso dalla mancata o incompleta pianificazione. L’esperienza della Regione Puglia, ad esempio, ha originato un notevole contenzioso derivato dal fatto che la legge regionale ha articolato la pianificazione tra livello regionale e locale e molti comuni, dopo l’adozione del PRC, non hanno adottato i PCC; contenzioso variamente e non univocamente risolto da TAR Puglia e Consiglio di Stato.
Partendo dalla necessità di individuare le zone da proteggere dall’erosione costiera, la legge rende doveroso per le Regioni pianificare gli usi del demanio costiero, sì che il piano finisce necessariamente con l’individuare le zone che non possono essere sottratte all’uso pubblico e quelle che possono essere destinate all’ economia balneare. Al di là della pura e semplice zonizzazione, tale pianificazione ha inevitabilmente anche l’effetto d’incidere sulla destinazione d’uso del bene pubblico e quindi sul suo regime giuridico.
La sottolineatura di questo profilo è essenziale per capire quid juris nel caso la pianificazione rimanga parziale o incompleta.
Il problema deve esser risolto tenendo presente che la legge consente che possano essere pianificati gli usi del demanio costiero ma che, in assenza di una specifica individuazione delle parti del demanio costiero che possono essere sfruttate economicamente, la regola sia che rimane ferma destinazione all’uso pubblico. Come detto, l’ordinamento non ha finora mai consumato alcuna scelta che permetta di considerare ormai generalmente sottratti al regime tipico demaniale i beni pubblici appartenenti a tale categoria ai sensi del codice civile e del codice della navigazione. In assenza di pianificazione (o meglio: se e fintanto che la pianificazione non specifica la destinazione dell’area demaniale) l’equivalente della “norma/zona bianca” di un PRG è che il bene demaniale non perde la sua destinazione all’uso pubblico e non può essere oggetto di diritti dei terzi.
Affinchè il bene demaniale costiero possa esser destinato all’economia balneare è pertanto necessario che il procedimento di pianificazione settoriale giunga a compimento, consumi la scelta sulla destinazione d’uso del bene pubblico non sulla base della visione particolare e fatalmente discontinua insita nella tutela meramente provvedimentale, ma sulla base di una visione anticipata e d’insieme, di una considerazione previa e obiettiva, integrale e globale della tollerabilità delle trasformazioni future distante dalla pressione condizionante del singolo progetto
Se il PCC è (ancora) necessario a tal fine, il potere concessorio non può essere esercitato perché non lo consente la perdurante destinazione ad uso pubblico del bene. Se viceversa si è in altro modo già consumata la verificazione degli usi concretamente possibili (ad es. nel PRC), il potere concessorio potrà essere esercitato anche in assenza dell’ultimo anello della PCC. Il problema va risolto guardando dunque al contenuto concreto della pianificazione, e non può essere nemmeno assorbito nelle soluzioni derivanti dalle previsioni del piano paesistico. Queste possono infatti eventualmente vincolare soltanto le modalità d’uso del bene da parte dei privati che, in base alla pianificazione di settore, abbiano acquisito diritti di sfruttamento economico del bene.
Così come lo stesso problema di rispettare i principi di concorrenza e libero mercato (Bolkestein e dintorni, per intenderci)[22] si può porre anch’esso solo una volta che si sia preliminarmente deciso di poter dare il bene in concessione. Profilo, quest’ultimo, che, ove fosse ancora necessario, aiuta a capire ancora meglio che il problema di fondo da risolvere preliminarmente da parte della pianificazione è quello di assumere la decisione SE il bene demaniale possa andare o meno sul mercato.
5. Riepilogo
La nozione di demanio costiero non compare nelle originarie classificazioni dei beni pubblici, ma viene praticamente teorizzata dalla dottrina per esclusione della categoria del demanio portuale dalla più ampia categoria del demanio marittimo ed è fatta successivamente oggetto di specifica considerazione da parte della normativa nazionale, regionale e sovranazionale.
Una volta chiarito che la nozione non equivale in toto a quella di demanio marittimo, ma individua quella parte del demanio marittimo che residua dopo aver espunto dallo stesso il demanio portuale in ragione della diversità dell’uso al quale il bene deve essere prioritariamente destinato (sfruttamento economico e non), si può osservare che il bene è oggi al centro di una pianificazione di settore che risulta in un certo senso atipica. Se è vero infatti che la ragion d’essere di una pianificazione settoriale è nel provvedere alla cura di un interesse pubblico specifico laddove quella generale deve comporre e contemplare la molteplicità degli interessi pubblici (Giannini, Casini), e se è vero – come si chiarirà - che gli strumenti di pianificazione del demanio costiero hanno nell’esigenza di protezione e difesa della costa l’interesse primario da tutelare; è anche vero che la pianificazione del demanio costiero nasce come strumento per assicurare una visione unitaria integrata degli interessi affidati alla cura delle diverse amministrazioni che ormai concorrono nella gestione di un bene la cui utilizzazione rientrava originariamente nelle attribuzioni soltanto Statali e che adesso richiede un necessario coordinamento dell’azione dei diversi attori pubblici. Come si è visto, l’emersione di una pluralità d’interessi pubblici tende a dilatare la categoria degli usi pubblici del mare aprendola inevitabilmente alle utilizzazione in funzione produttiva; tendenza sotto altro profilo confortata anche dagli indirizzi dottrinari più recenti che , sensibilizzati dall’esigenza di dover rispettare i vincoli di bilancio e dalla crescente espansione dei principi della libera concorrenza e del mercato di derivazione comunitaria, tendono a generalizzare la patrimonializzazione dei beni pubblici, beni demaniali compresi, svincolandoli dall’uso pubblico al quale si è per lungo tempo ritenuto debbano essere naturalmente destinati. Tutto ciò determina però una evidente torsione della funzione dello strumento di pianificazione settoriale verso finalità di pianificazione più generale della fascia costiera; torsione che rischia di far dimenticare che la “demanialità” del bene non è mai cessata e che la autonoma qualificazione del demanio costiero come bene giuridico non si deriva più solo per mera esclusione dal demanio marittimo del demanio portuale, ma ha oggi fondamento positivo nelle disposizioni legislative finalizzate ad assicurarne principalmente la tutela e la conservazione. Nessun concreto effetto ha prodotto nemmeno il conclamato federalismo demaniale, che si è limitato a prevedere che determinati bene potessero essere trasferiti al patrimonio di regioni e enti locali.
Tutto ciò rende peculiare il problema della discrezionalità amministrativa nei casi in cui la pianificazione settoriale abbia avuto parziale o incompleta attuazione, poiché se è vero che in via generale il ritardo o la mancanza di una pianificazione non impediscono all’amministrazione di provvedere, è anche vero che, nel caso del demanio costiero, alla pianificazione si riconduce in ultima analisi l’effetto di individuare il confine tra demanialità e patrimonialità del bene, ovvero l’accertamento che una determinata zona del territorio possa essere sottratta all’uso pubblico e destinata a finalità economico produttive tipiche dell’economia balneare. Nel mutato contesto ordinamentale, l’attribuzione agli enti territoriali della gestione del demanio costiero non ha di per sé comportato la sdemanializzazione del bene, lasciando fermo il principio (codificato ancor oggi nell’art 823 cod civ) per cui “i beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti dei terzi se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano”. Se nell’ordinamento vigente anteriormente al trasferimento di funzioni alle Regioni i modi e limiti erano praticamente solo quelli stabiliti nel Codice della Navigazione e nel relativo Regolamento, con conseguente riconoscimento di un ampio margine di discrezionalità all’Autorità statale, titolare di un potere di provvedere spendibile nella cornice di un unico procedimento caratterizzato da pubblicità e partecipazione; nello scenario attuale “i modi e limiti” prevedono necessariamente l’espletamento di un previo momento pianificatorio dei possibili usi del bene demaniale costiero volto a individuare quali zone debbano essere destinate a pubblico uso e quali possano essere invece destinate allo sviluppo dell’economia balneare. La previsione del piano settoriale deve necessariamente consumare tale effetto, rimanendo altrimenti precluso il mutamento di destinazione nell’uso del bene (e le istanze dei privati a ciò ovviamente tendono). La discrezionalità si è spostata sul momento pianificatorio, vincolando l’attività provvedimentale residuale. ***
* L’articolo, già pubblicato sul sito della Giustizia amministrativa e negli Studi in Onore di E. Picozza, riproduce il testo della relazione presentata al convegno del 18 e 19 ottobre 2019 organizzato dal TAR Lecce sul tema “Coste, paesaggio e ambiente. Quali limiti per la sovranità?”.
[1] Querci, Demanio marittimo, Enc dir., Varese, 1964, XII, 93; A.M. Sandulli, Beni pubblici, Enc dir., Varese, 1959, V, 280
[2] Sulla problematica v. F. Cammeo, Demanio, in Dig. It., Torino, 1898, IX, 881 ss; O. Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio, in Giur.it., 1898, 126 ss; G. Piola, Porti, fari, lidi e spiagge in Dig. It., XVIII, Torino, 1906, 1238 ss; L. Vassalli, Sulla condizione giuridica degli arenili, in Dir. Maritt., 1928, 63 ss; E. Guicciardi, Il demanio, Padova, 1934, 102 ss; G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, IV, Milano, 1942, 56 ss; Vallario, Il demanio marittimo, Milano, 1977;;
[3] A.M. Sandulli, Beni pubblici, in Enc dir., ; V. Cerulli Irelli, Beni pubblici, in Noviss Dig Disc pubbl, 1987; V. Caputi Jambrenghi, Beni pubblici, uso dei, in Dig Disc pubbl. 1987
[4] E. Guicciardi, Il demanio, cit., 11; O.Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico, cit., 356 ss. V. anche Corte cost 19 6 1958 n. 37 con nota critica di M. Nigro in Giur cost., 1958, 501ss.
[5] Cfr A. D’Amico Cervetti, Demanio marittimo e assetto del territorio, Milano, 1983, 170ss; M. Casanova, Demanio marittimo e poteri locali , Milano, 1986, 8ss.
[6] Per i successivi sviluppi v. M. Casanova, Gli enti portuali, Milano, 1971; M. Ragusa, Porto e pubblici poteri. Una ipotesi sul valore attuale del demanio portuale, Napoli, 2017; F, Manganaro, Il porto da bene demaniale ad azienda, in A. Police (a cura di), I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Milano, 2008, 247 ss..
[7] Amplius v. F. Francario, Privatizzazioni, dismissioni e destinazione “naturale” dei beni pubblici, in Dir amm, 1/2004,106 ss.
[8] F. Cammeo, Demanio, cit., 856.
[9] Ex multis v. A Lolli, Proprietà e potere nella gestione dei beni pubblici e dei beni d’interesse pubblico, in Dir. Amm. 1996, 51 ss; M. Renna, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2005, 96 ss; B. Tonoletti, Beni pubblici e concessioni, Padova, , 2008, 257 ss; A. Lalli, I beni pubblici, Imperativi del mercato e diritti della collettività, Napoli 2015, 118 ss; A. Giannelli, Concessioni di beni e concorrenza, Contributo in tema di compatibilità tra logica proconcorrenziale e principi di diritto interno in tema di gestione dei beni pubblici, Napoli, 25 ss; G. Fransoni, G. Della Cananea, Art. 119, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti ( a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, 2375.
[10] Che la norma di natura contabile non muti il regime giuridico del bene demaniale e che rimanga ferma la classica tripartizione tra beni demaniali, patrimoniali indisponibili e disponibili è espressamente dichiarato nella stessa legge di riforma (cfr. d. lgs. 7 8 1997 n. 279, art 14 c. 1).
[11] Per tutti M.L. Bassi Il conto del patrimonio nelle leggi di contabilità, in I beni pubblici: tutela valorizzazione e gestione, 558.
[12] Così A. Lalli, I beni pubblici. Imperativi del mercato e diritti della collettività, Napoli 2015, 308.
[13] Sul dibattito dottrinale v. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Bari, 2011, 52; S. Rodotà, Beni comuni e categorie giuridiche. Una rivisitazione necessaria, in Questione Giustizia, 2011, pp. 237; P. Maddalena, I beni comuni nel codice civile, nella tradizione ro- manistica e nella costituzione repubblicana, in Federalismi.it, n. 19/2011; S. Lieto, “Beni comuni”, diritti fondamentali e Stato sociale. La Corte di Cassazione oltre la prospettiva della proprietà codicistica, C.M. Cascione, Le Sezioni Unite oltre il codice civile. Per un ripensamento della categoria dei beni pubblici, in Giur. it., 2011, 12 ss; F. Cortese, Dalle valli da pesca ai beni comuni: la Cassazione rilegge lo statuto dei beni pubblici?, in Giorn. dir. amm., 2011, 1170 ss.; M. R. Marella, Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012; P. Chirulli, I beni comuni tra diritti fondamentali, usi collettivi e doveri di solidarietà, . Le note sentenze della Corte di Cassazione Cass., ss.uu., 16 febbraio 2011, n. 3813, nonché 14 febbraio 2011, n. 3665 sulle valli da pesca della laguna veneta conferma in maniera pressochè esemplare che la corretta lettura della demanialità necessaria rende superflua la teorizzazione della categoria dei beni comuni nel momento in cui, prendendo atto che “emerge l’esigenza interpretativa di guardare al tema dei beni pubblici oltre una visione prettamente patrimoniale-proprietaria per approdare a una prospettiva personale-collettivistica” , sottolineano che la demanialità “non è fine a se stessa e non rileva solo sul piano proprietario ma comporta per lo stesso gli oneri di una governance che renda effettive le varie forme di godimento e di uso pubblico del bene”.
[14] Cfr. G. Lami, Proprietà demaniale e gestione delle coste. Il contributo della giurisprudenza alla costruzione di nuove categorie giuridiche e alla definizione del ruolo di Regioni e enti locali, in N. Greco (a cura di), Le risorse del mare: ordinamento, amministrazione e gestione integrata, Roma, 2010, 359 ss.
[15] La legge n. 179 del 31 luglio 2002 (Disposizioni in materia ambientale) chiarirà successivamente che la competenza sulla costa deve intendersi attribuita in maniera definitiva alla Regione (cfr. in particolare l'art. 21 (Autorizzazione per gli interventi di tutela della fascia costiera): “per gli interventi di tutela della fascia costiera l'autorità competente è la Regione”
[16] Per la sottolineatura, più in generale, che la disciplina giuridica dei modi di godimento del demanio rimane comunque una prerogativa sovrana v. M. Esposito, Corte di giustizia UE e Corte costituzionale sottraggono allo Stato italiano la competenza sul regime della proprietà, in Giur. Cost., 1/2017, 37ss.
[17] Cfr A. Police, I beni di proprietà pubblica, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2015, 551 ss; M.T.P. Caputi Jambrenghi, Il federalismo demaniale e il suo (provvisorio) tramonto, in Effetti economico sociali del federalismo demaniale in Puglia, Bari, 2012, 31 ss.; L. Antonini, Il primo decreto legislativo di attuazione della legge n. 42/2009: il federalismo demaniale, in Federalismi.it, n. 25, 2009; F.Scuto, Il federalismo “patrimoniale”, in Astridonline; A. Giannelli, Beni sfruttabili o consumabili: demanio marittimo e porti, in F. Astone, F. Manganaro, R.Rolli, F. Saitta (a cura di), I beni pubblici tra titolarità e funzione, Atti del XXI convegno di Copanello, 24-25 giugno 2016, Milano, 2018, 65 ss
[18] Il legislatore nazionale già con la legge 31 dicembre 1982 n. 979 (“Disposizioni per la difesa del mare”) aveva previsto l’introduzione del Piano delle coste, concepito come strumento che “indirizza, promuove e coordina gli interventi e le attività in materia di difesa del mare e delle coste dagli inquinamenti e di tutela dell'ambiente marino, secondo criteri di programmazione e con particolare rilievo alla previsione degli eventi potenzialmente pericolosi e degli interventi necessari per delimitarne gli effetti e per contrastarli una volta che si siano determinati” (il Piano, a scala nazionale, approvato definitivamente dal C.I.P.E., doveva esser predisposto “di intesa con le Regioni”). La legge era però rimasta inattuata. Successivamente, anche la Legge del 18 maggio 1989 n. 183 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo) aveva disposto che l'attività di programmazione deve curare la protezione delle coste e degli abitati dall'invasione e dall'erosione delle acque marine ed il ripascimento degli arenili, anche mediante opere di ricostruzione dei sistemi dunosi, prevedendo la delega alle Regioni, delle funzioni amministrative statali relative alla difesa delle coste (con esclusione delle zone comprese nei bacini di rilievo nazionale, nonché delle aree di permanente interesse nazionale per la sicurezza dello Stato e della navigazione marittima). Questa legge è stata poi superata e sostituita dal d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (Norme in materia ambientale) e s.m.i. che ha mantenuto fermo (art. 56, comma 1 lettera g) che “le attività di programmazione, di pianificazione e di attuazione relativi alla difesa del suolo riguardano anche la protezione delle coste e degli abitati dall'invasione e dall'erosione delle acque marine ed il ripascimento degli arenili, anche mediante opere di ricostruzione del cordoni dunosi” (gli artt. 63 e 65 prevedono inoltre l'istituzione dell'Autorità di bacino distrettuale precisando che il Piano di Bacino deve contenere anche le indicazioni delle opere di protezione, consolidamento e sistemazione del litorali marini che sottendono il distretto idrografico; l'art. 56 dispone inoltre che “Le attività di programmazione, di pianificazione e di attuazione degli interventi [riguardano] in particolare: [.] d) la disciplina delle attività estrattive nei corsi d'acqua, nei laghi, nelle lagune ed in mare, al fine di prevenire il dissesto del territorio, inclusi erosione ed abbassamento degli alvei e delle coste”). A ciò va poi aggiunto che il d.l. 19 giugno 2015 n. 78, convertito in legge 6 agosto 2015 n. 125 all'art. 7 comma 9-septiesdecies aveva previsto che “In previsione dell'adozione della disciplina relativa alle concessioni demaniali marittime, le regioni, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, operano una ricognizione delle rispettive fasce costiere, finalizzata anche alla proposta di revisione organica delle zone di demanio marittimo ricadenti nei propri territori. La proposta di delimitazione è inoltrata al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e all'Agenzia del demanio, che nei centoventi giorni successivi al ricevimento della proposta attivano, per gli aspetti di rispettiva competenza, i procedimenti previsti dagli articoli 32 e 35 del codice della navigazione, anche convocando apposite conferenze di servizi” e che con il decreto legge 5 ottobre 1993 n. 400 (“Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi alle concessioni demaniali marittime”) convertito in legge 4 dicembre 1993, n. 494, all'art. 6 era stata prevista la delega alle Regioni anche delle funzioni amministrative nella materia concessoria (rilascio e rinnovo), per l'esercizio della quale è prevista la “predisposizione di un Piano di utilizzazione delle aree del demanio marittimo”, acquisito il parere dei Sindaci dei comuni interessati e delle associazioni regionali di categoria.
[19] Cfr.: T. Scovazzi, La gestione integrata della zona costiera negli strumenti di diritto internazionale, con particolare riferimento al Mediterraneo, in N. greco (a cura di), Le risorse del mare e delle coste: ordinamento, amministrazione e gestione integrata, Roma, 2010, 79 ss.
[20] Cfr. S. Licciardello, in A. Police (a cura di), Demanio marittimo e autonomie territoriali, in I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Milano, 2008, 265 ss; N. Greco (a cura di), Le risorse del mare e delle coste: ordinamento, amministrazione e gestione integrata, Roma, 2010 e ivi in particolare i contributi di N. Greco, P Biondini, L’approccio diversificato e tuttora immaturo di alcune Regioni costiere alla gestione integrata delle coste. Catalogo degli interventi regionali di tipo pianificatorio; E. Boscolo, La regolazione in Italia e le prospettive nella gestione integrata delle coste.
[22] Per tutti v. Lami, Colomba, Villamena, Le concessioni demaniali marittime tra presente e futuro, Padova, 2010, 46 ss.
Discutere per deliberare: da Porto Alegre (2001) alla Conferenza sul futuro dell’Europa (2021) e oltre
di Pier Virgilio Dastoli
La dimensione della democrazia partecipativa è emersa con la mobilitazione no global del cosiddetto “popolo di Seattle” in occasione del Vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1999 e si è consolidata poi a Porto Alegre in Brasile dove fu organizzato nel 2001 il primo Forum Sociale Mondiale visto in contrapposizione con il World Economic Forum che riunisce a Davos dal 1970 l’élite politica e finanziaria del mondo.
Prima di Seattle, erano tuttavia nate nell’Unione europea alcune iniziative di coordinamento della società civile legate alle nuove politiche dell’Unione europea di cui la più importante fu la rete di organizzazioni riunite dall’autunno 1995 nel Forum Permanente della Società Civile che elaborò e adottò nel marzo 1997 in Campidoglio a Roma una sua Carta dei diritti della cittadinanza europea e ottenne dal governo tedesco l’impegno a convocare la convenzione che portò alla Carta dei diritti dell’Unione europea ispirata dal progetto di Trattato sull’Unione europea approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 (www.cairn.info e https://gallica.bnf.fr).
Il fenomeno moderno o contemporaneo della globalizzazione (o mondializzazione) è iniziato alla fine degli anni settanta ma la società civile o le società civili sul pianeta hanno intrapreso con fatica la strada tortuosa del coordinamento e del tentativo di agire insieme solo vent’anni dopo cercando di creare sinergie fra coloro che si erano già impegnati a livello nazionale o regionale sui temi centrali della giustizia sociale: la pace, l’acqua, l’alimentazione, l’ambiente, la povertà, i diritti fondamentali, la parità di genere, più recentemente le non discriminazioni sessuali e ora il diritto alla salute, l’accoglienza e le politiche migratorie.
Gli stessi ritardi, a livello del processo di integrazione economica sul continente europeo o meglio della realizzazione di un mercato libero da vincoli nazionali, erano avvenuti nelle Comunità europee se si tiene conto che la prima rete delle industrie private nella “piccola Europa” della CECA nacque nel 1953 e cioè immediatamente dopo l’entrata in vigore del Trattato di Parigi e che il sindacato europeo – nella sua struttura attuale dell’ETUC che tutto è fuorché monolitica così come del resto non è monolitico Business Europe – ha tenuto il suo primo congresso europeo vent’anni dopo a Bruxelles nel 1973.
Nonostante la mobilitazione, i passi in avanti nella difesa e nello sviluppo di una vera giustizia sociale sono stati in tutti questi anni più che modesti nella conquista di quei beni comuni – collettivi più che individuali – che abbiamo indicato più sopra, sapendo che
- nel mondo 785 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile e a strutture igienico-sanitarie,
- che un decimo della popolazione mondiale soffre di fame, che i rischi globali planetari sono principalmente riconducibili ai disastri ambientali e alla distruzione dell’ecosistema,
- che novecento milioni di persone vivono in uno stato di povertà assoluta,
- che trecento milioni di persone sono state costrette a migrare per ragioni economiche, belliche, sociali, ambientali e politiche,
- che dall’8 maggio 1945 ad oggi decine sono stati i conflitti nel mondo come appare dalla mappa interattiva www.acleddata.com
- e che appare evidente il rapporto fra sviluppo e democrazia se seguiamo le riflessioni di Amartya Sen nel suo recente “Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia” (Mondadori 2020).
Le numerose convenzioni adottate dalle Nazioni Unite nel corso degli anni sono rimaste sostanzialmente disapplicate su tutti i temi che abbiamo citato perché si sono scontrate con il sistema di governance onusiano che affida ai governi il potere assoluto di decidere o di non decidere e al Consiglio di sicurezza il compito di intervenire nelle materie di sua competenza solo se non c’è il veto di uno dei suoi membri permanenti escludendo qualunque capacità di empowerment da parte delle molte organizzazioni non governative che tuttavia sono riconosciute dalle stesse Nazioni Unite.
Gli unici successi della società civile nel corso di questi anni sono avvenuti per via giudiziaria, non esistendo ancora e non potendo prevedersi che possa esistere a lungo una assemblea parlamentare delle Nazioni Unite dotata di un minimo di legittimità democratica.
Il risultato maggiore – pur nei limiti legati ai crimini di cui è competente, al fatto che essa agisce in modo complementare rispetto alla competenza degli Stati e al fatto che essa non sia stata riconosciuta ad esempio dagli Stati Uniti, dalla Russia e da Israele – è lo statuto della Corte Penale Internazionale stipulato a Roma il 17 luglio 1998 ed entrato in vigore il 1° luglio 2002.
Per via giudiziaria si ottengono risultati significativi a livello regionale come avviene con la Corte Europea dei diritti fondamentali legata al Consiglio d’Europa e alla sua Convenzione firmata a Roma nel 1950 o davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea che difende il primato del diritto europeo e il carattere vincolante della Carta dei diritti adottata a Nizza nel 2000 ed entrata nel sistema giuridico dell’Unione nel 2009.
Sui temi ambientali, la società civile è riuscita a ottenere la condanna dei governi in Francia, Italia, Irlanda, Belgio, Paesi Bassi e Germania per mancato rispetto degli impegni nella lotta al cambiamento climatico così come la Commissione europea è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell’UE per mancata applicazione della Convenzione di Aarhus che obbliga a consultare i cittadini su materie ambientali. Questo tema si porrà certamente se, su sollecitazione di alcuni governi, la Commissione vorrà riaprire il dossier della politica nucleare di tipo civile.
Nulla è stato potuto fare a livello internazionale perché non esiste una Corte Penale Internazionale sui crimini ambientali anche nello statuto della Corte istituita a Roma è stato iscritto l’art. 8 su questi crimini legati tuttavia e per ora ad azioni di guerra, né esiste un’autorità sovranazionale che abbia il potere di monitorare – da una COP all’altra – l’attuazione degli impegni presi dai governi e sanzionare il loro mancato rispetto.
La prova dei modesti passi in avanti è data dal costante monitoraggio della realizzazione dei diciassette obiettivi dello sviluppo sostenibile approvati dalla Assemblea delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015 che rientrano nella Agenda 2030 per la trasformazione del mondo che dovrebbe dunque avvenire fra poco più di otto anni.
Se vogliamo gettare le basi di un mondo fondato sulla giustizia sociale – ispirandosi alla lettera che Martin Luther King scrisse dal carcere ai vescovi statunitensi dicendo “l’ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque” – dobbiamo cambiare il sistema della governance nel mondo partendo dalle forme più avanzate di integrazione regionale come quella che è stata avviata agli inizi degli anni cinquanta in Europa occidentale per giungere alla riforma delle regole di funzionamento delle Nazioni Unite.
L’idea della democrazia partecipativa, nata a Porto Alegre nel 2001, non ha prodotto nessun cambiamento sostanziale nella governance del mondo e anche nei sistemi democratici più evoluti il principio scolpito nelle nostre costituzioni secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” trova inadeguate applicazioni pratiche con uno scarso coinvolgimento dei corpi intermedi nel governo della cosa pubblica (respublica).
Negli ultimi venti anni delle forme di democrazia partecipativa o meglio di spazi pubblici secondo la concezione di Juergen Habermas dove si apre un dialogo fra cittadini e istituzioni si sono fatte strada in Islanda, in Irlanda, in Belgio, nei Paesi Bassi e parzialmente in Francia ma anche in Canada legate alla convinzione che fosse utile coinvolgere la cittadinanza su temi di natura costituzionale andando al di là della democrazia rappresentativa.
L’idea – forse non espressa in maniera compiuta – da coloro che hanno immaginato la creazione di questi spazi pubblici di natura costituzionale era legata all’obiettivo di rafforzare la consapevolezza delle cittadine e dei cittadini nel controllo delle proprie decisioni e azioni nell’ambito della vita economica e sociale della propria comunità a livello locale, regionale o nazionale, una consapevolezza che si traduce efficacemente in inglese nell’espressione empowerment forse intraducibile in una parola nelle altre lingue.
A valle del dialogo all’interno di questi spazi pubblici ci sono stari sempre dei momenti deliberativi che hanno trasformato la consapevolezza in scelte responsabili.
Ci rendiamo perfettamente conto che sarebbe stato difficile tradurre simili forme di democrazia partecipativa a livello di un’Unione europea di ventisette stati, ventiquattro lingue e quattrocento cinquanta milioni di abitanti il dibattito che si sarebbe aperto nella Conferenza sul futuro dell’Europa, allo scopo di sollecitare le cittadine e i cittadini europei alla consapevolezza del loro essere europei oltre che appartenenti al loro stato, alla loro regione e alla loro città.
Avevamo tuttavia sollecitato come Movimento europeo (www.movimentoeuropeo.it) più volte le istituzioni europee a studiare quel che era avvenuto in quegli spazi pubblici per esaminare in che misura fosse stato possibile tradurre quegli esperimenti in scelte di democrazia partecipativa realmente innovative a livello europeo.
La Conferenza è stata invece avviata e si sta sviluppando secondo un percorso che costringe la partecipazione di un numero limitato dì cittadine e di cittadini in uno ristretto spazio di consultazione, non prevede azioni adeguate azioni di comunicazione, informazione e formazione pubblica (che Stefano Rolando ha chiamato teatro civile) per creare le condizioni di quella consapevolezza che si traduce nello empowerment, esclude la possibilità di un momento deliberativo collettivo lasciando ad un nucleo ristretto di rappresentanti delle istituzioni europee il potere di deliberare a nome di tutti – ma senza accountability – sul futuro dell’Europa.
Sarebbe necessario e urgente un atto di “ribellione” democratica del Parlamento europeo da una parte e delle reti europee della società civile dall’altra per denunciare questa forma di falsa democrazia partecipativa salvando non solo la Conferenza ma anche il dibattito sul futuro dellEuropa e creando le condizioni per aprire di nuovo il cantiere della riforma dell’Unione europea quattordici anni dopo la firma affrettata del Trattato di Lisbona.
Come un romanzo. Recensione a Elisabetta Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi
di Corrado Caruso*
1. Con il volume che qui si recensisce, Elisabetta Lamarque ha rivisitato un suo precedente saggio monografico, risalente a una decina di anni fa, e ne verifica le tesi allora sostenute alla luce del diritto giurisprudenziale sopravvenuto. Come fosse un romanzo, “Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana. Nuova stagione, altri episodi”, è una appassionata e brillante narrazione sul controllo incidentale di costituzionalità nell’esperienza repubblicana, sui protagonisti di questa gloriosa avventura e sulle loro relazioni, costellate da avvicinamenti e temporanei distacchi, da dialoghi orientati all’intesa intervallati da temporanee incomprensioni e improvvisi irrigidimenti. Un romanzo che non ha la presunzione di esaurire la storia degli interpreti di questa vicenda, ma che pure esprime una tesi fondamentale se non, forse, un lieto fine: all’esito di una approfondita analisi giurisprudenziale, Lamarque conclude che Giudice delle leggi e giudici comuni hanno «progressivamente dato vita a un unico grande potere giudiziario» (p. 43), incaricato di garantire, con strumenti e poteri diversi, la Costituzione dagli abusi della politica legislativa.
L’evoluzione del controllo di costituzionalità ha dunque riunito, nel nome della Costituzione, Corte costituzionale e giurisdizione comune, «i due fratelli separati dalla nascita» (p. 34), la prima originariamente destinata ad applicare (e intrepretare) la Costituzione, la seconda dedita all’applicazione (e interpretazione) della legge. Nel disegno voluto dai Costituenti – che istituirono un giudice ad hoc per la particolare sensibilità politica che questo avrebbe vantato nel valutare la legge (non a caso le sinistre insistettero molto, senza successo, sulla estrazione parlamentare di tutti i componenti del collegio, p. 46) – le due istituzioni avrebbero dovuto collocarsi in un regime di separazione funzionale. Un assetto, ricorda Lamarque, icasticamente evocato dal primo Presidente della Corte costituzionale, De Nicola, quando, nell’udienza inaugurale della Corte, raffigurò «la Corte […] vestale della Costituzione» e «la Magistratura […] vestale della Legge» (p. 82).
La divisione del circuito della legalità (la legalità costituzionale da un lato, quella ordinaria dall’altra) rifletteva una separazione istituzionale che lo stesso Costituente non portò però fino in fondo: l’accesso in via incidentale, introdotto ad opera della l. cost. n. 1 del 1948, approvata in tutta fretta dall’Assemblea costituente in prorogatio, insieme alla previsione di una quota di giudici eletti dalle supreme magistrature, innestarono le ammorsature necessarie alla successiva fusione di orizzonti che le giurisdizioni hanno poi realizzato nell’esperienza repubblicana.
2. Questa unione di intenti, volta a rafforzare la garanzia giurisdizionale della Costituzione, si è sviluppata, scrive Lamarque, lungo due periodi fondamentali, che conoscono al loro interno diverse fasi di sviluppo. Il primo periodo, successivo all’entrata in funzione della Corte costituzionale e capace di coprire i suoi primi quarant’anni di funzionamento, vede gli interpreti di questa storia «faticosamente alla ricerca di regole empiriche condivise per riempire le voragini lasciate dalle scarne previsioni positive sul funzionamento del sistema incidentale di controllo di costituzionalità» (p. 87). È questa la stagione delle «prove d’orchestra», con la Corte costituzionale che ricerca «con maggiore insistenza» l’appoggio dei giudici, «proponendo le soluzioni a loro più gradite e rimodulando le proprie offerte a seguito dei non infrequenti rifiuti» (p. 87). L’A. suddivide questa stagione in tre fasi, distinte a seconda del grado di coordinamento raggiunto dai due protagonisti, i quali, per approssimazioni progressive, giungono a delineare, alla fine degli anni ’90, un sistema integrato di giustizia costituzionale. Simile risultato è stato raggiunto all’esito di una stagione costellata da compromessi e riconoscimenti reciproci sul piano, soprattutto, dei poteri interpretativi sulla legge, di cui la giurisdizione comune per lunghi tratti è stata gelosa custode.
Per superare le resistenze dei giudici, la Corte costituzionale ha modulato le sue tecniche decisorie: le sentenze interpretative, di fronte alle resistenze “applicative” della giurisdizione comune, hanno lasciato il passo alle sentenze di accoglimento parziale. La scelta, ad opera del Giudice delle leggi, di agire sul testo della disposizione piuttosto che sul significato normativo dei testi legislativi sarà poi ulteriormente rafforzata con l’introduzione, in via pretoria, delle sentenze manipolative (additive e sostitutive, che non si limitano a caducare la disposizione legislativa ma integrano o sostituiscono porzioni della legge censurata). La Corte costituzionale, nella stagione delle prove d’orchestra, non ha solo riaffermato la sua posizione di fronte al sistema giurisdizionale, ma ha anche valorizzato il contributo dei giudici al sindacato di costituzionalità: così è stato, per esempio, per la funzione svolta dal cd. diritto vivente, e cioè da orientamenti consolidati della giurisdizione comune che impediscono al Giudice delle leggi di proporre interpretazioni eccentriche o «militanti» della legge censurata (p. 125). Mutata la sensibilità politico-culturale nei confronti del nuovo testo costituzionale, i giudici comuni hanno riempito gli interstizi lasciati dalla legislazione ordinaria attraverso l’applicazione diretta della Costituzione, secondo una tecnica sostanzialmente avallata dalla Corte costituzionale (con riferimento, ad esempio, alla nota vicenda del quantum retributivo prescritto dall’art. 36 Cost., alla risarcibilità del danno biologico, alla tutela del diritto all’identità personale, p. 121).
Dal canto loro, i giudici comuni hanno abbandonato l’originario atteggiamento di competizione e diffidenza nei confronti del Giudice delle leggi. È stata così riconosciuta efficacia normativa alle sentenze interpretative di rigetto, quanto meno nel senso di rinvenire, a carico del giudice a quo, un vincolo negativo, un obbligo di esclusione, dal novero delle interpretazioni possibili, del significato della legge ritenuto dalla Corte costituzionale non compatibile con la Costituzione (p. 116). La giurisdizione comune ha poi riconosciuto non solo l’efficacia retroattiva della dichiarazione di accoglimento (pur con talune, non irrilevanti oscillazioni, pp. 131-133), in conformità a quanto previsto dall’art. 30 della l. n. 87 del 1953, ma ha anche ottemperato, dopo una inziale resistenza, alle sentenze manipolative e alla formula di volta in volta inserita nel dispositivo (p. 135).
La sent. n. 356 del 1996 della Corte costituzionale segna lo zenit di questo reciproco percorso di riconoscimento e, allo stesso tempo, l’ultima tappa delle prove d’orchestra. Con tale pronuncia, la Corte costituzionale richiede al giudice, ai fini dell’ammissibilità della questione, di dimostrare l’impossibilità di una interpretazione conforme a Costituzione della norma indubbiata. L’intervento della Corte costituzionale diviene, di fatto, sussidiario: l’eventuale pronuncia di incostituzionalità giunge nei limiti in cui l’interpretazione adeguatrice dei giudici comuni trovi un ostacolo insormontabile nella littera legis.
Viene così ad essere smentita la rappresentazione del Presidente De Nicola (p. 128), che separava il circuito della legalità (costituzionale e ordinaria) e delle rispettive garanzie. A quarant’anni dell’udienza inaugurale della Corte costituzionale, è possibile affermare che i giudici comuni condividono il «potere di adeguare la legge alla Costituzione» (p. 128) e partecipano alla funzione di giudicare la legge (l’A. scrive di una loro promozione a «giudici delle leggi» p. 138). In un simile contesto, gli elementi di diffusone del sindacato di costituzionalità sono inevitabilmente rafforzati. Non va dimenticato che, qualche anno prima, la Corte costituzionale, sulla scorta della sentenza Simmenthal della Corte di giustizia, aveva sancito il potere/dovere dei giudici comuni di non dare applicazione alla legge interna contrastante con il diritto comunitario direttamente applicabile (sent. n. 170 del 1984). Interpretazione conforme, applicazione diretta della Costituzione e non applicazione della legge interna contraria al diritto sovranazionale self-executing sono gli strumenti con cui il giudice comune partecipa alla funzione di garantire la supremazia della Costituzione sull’ordinamento sottostante.
Il sistema integrato inveratosi nella prassi segna una certa discontinuità con la sua matrice originaria. I giudici comuni cessano di essere gli umili «portieri» di Palazzo della Consulta (secondo la nota immagine di Calamandrei) per divenire i co-inquilini del Giudice delle leggi nella spaziosa dimora del sindacato di costituzionalità. Il nuovo ruolo dei giudici conduce, a cascata, a variare la struttura del giudizio incidentale e la stessa posizione della Corte costituzionale. Risultano infatti «enfatizzati gli elementi di contatto tra il giudizio principale e il giudizio di costituzionale, con una duplice conseguenza: […] l’esito del giudizio costituzionale diviene maggiormente dipendente dal caso della vita che si discute nel giudizio da cui è sorta la questione e primariamente orientato alla sua risoluzione […]; «[…] l’attività della Corte costituzionale tende sempre più a somigliare all’attività quotidiana di un qualsiasi altro giudice dell’ordinamento, dato che essa viene a occuparsi, al pari di quel giudice, della difesa dei diritti delle persone più che del problema astratto di depurare l’ordinamento dalle leggi incostituzionali» (p. 141).
3. L’interazione tra Corte costituzionale e giudici comuni ha condotto, dunque, a una correzione del sindacato incidentale.
Ristrutturati gli architravi del sistema, sorge però l’esigenza di governare il nuovo assetto per mantenere gli equilibri così faticosamente raggiunti. Si apre, così il secondo, lungo periodo, in cui è tuttora immerso il giudizio costituzionale: la stagione del «tango».
In essa «si assiste a una successione di figure di danza che i due attori nel sistema incidentale mettono in scena applicando, con adattabilità e creatività, le regole giurisprudenziali da loro stessi in precedenza elaborate». Con un ruolo di guida svolto dalla Corte costituzionale: rispetto alle «prove di orchestra», quando era il Giudice delle leggi a «rincorrere i giudici, […], proponendo le soluzioni a loro più gradite e rimodulando le proprie offerte a seguito dei non infrequenti rifiuti […] negli ultimi venticinque anni le parti sono invertite, perché sono i giudici a seguire la Corte, la quale detta il ritmo e segue la danza» (p. 87).
Lamarque suddivide la danza delle giurisdizioni in due fasi: la stagione della «briglia sciolta» e quella in cui «ogni lasciata è persa» (p. 172, p. 174). Nella prima, situata tra fine degli anni Novanta del secolo scorso e il primo decennio del nuovo secolo, la Corte costituzionale «opera nei confronti dei giudici la più ampia devoluzione di funzioni di controllo sulla legge, o comunque lascia che essi facciano da soli il più possibile […] in tutti i casi in cui sembra possibile farlo, e a volte oltre, fino a forzare il dato testuale della legge». Questo laissez faire ha una giustificazione culturale e un obiettivo strategico: quanto alla prima, la Corte «sa di poter contare su una comprovata sintonia […] con la magistratura e […] confida nella propria capacità di dialogare con essa attraverso le motivazioni delle sue pronunce». Quanto al secondo, il rafforzamento della posizione dei giudici comuni consente di disinnescare la conflittualità tra Corte costituzionale e potere politico: in particolare, l’interpretazione conforme a Costituzione «presenta il vantaggio di avere un impatto molto più soft sulla sfera della politica rispetto a una sentenza che dichiara l’incostituzionalità della legge e spesso raggiunge il medesimo risultato applicativo» (p. 173).
Vari fattori inducono però la Corte costituzionale a correggere tale tendenza e a comprendere ben presto che ogni lasciata è persa. Il primo campanello d’allarme «è la netta diminuzione quantitativa delle ordinanze di rimessione a partire dal 2008 […]: a forza di delegare funzioni ai giudici e di richiedere loro di procedere sempre e comunque all’interpretazione della legge conforme alla Costituzione, sbattendo loro la porta in faccia con decisioni di inammissibilità ingiustificatamente severe quando le sue richieste non sono accolte, la Corte sembra davvero uscire di scena» (p. 173). Molte inammissibilità sono di natura processuale, e spesso si poggiano su una nozione stringente di rilevanza; non poche però le sentenze di inammissibilità sostanziale, cui il Giudice delle leggi ricorre perché la soluzione (additiva o sostituiva) prospettata dal giudice a quo è eccessivamente creativa e potenzialmente lesiva, dunque, della discrezionalità politica del legislatore. A fronte però di simili inammissibilità, che non rispondono al quesito di costituzionalità sollevata, sorge l’impressione, scrive Lamarque, che «i giudici a quibus, […] messi […] con le spalle al muro da una pronuncia della Corte costituzionale che non li aiuta a risolvere il caso concreto in modo conforme alla legge e insieme alla Costituzione, scelgono senz’altro la Costituzione e disapplicano la legge» (p. 206).
In questa nuova fase, le preoccupazioni legate a un uso distorto della interpretazione conforme, capace di varcare le soglie della disapplicazione, orientano le strategie della Corte costituzionale. Preoccupazioni accentuate dai «movimenti esterni all’ordinamento nazionale, provenienti tanto dalla Cedu che dall’Unione europea […] capaci di provocare una svolta in senso diffuso del sistema italiano di controllo sulla legge» (p. 173). Pur collocate su piani diversi del sistema delle fonti, le Carte dei diritti (internazionali o sovranazionali) sono considerate, da una parte dell’autorità giurisdizionale, repertori di valori da cui trarre argomenti knock down contro la legge, giustificandone la disapplicazione anche oltre i peculiari rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale.
Questa nuova fase risponde a una duplice esigenza: per un verso, evitare l’instaurazione surrettizia di un sistema diffuso di giustizia costituzionale (p. 175), analogo al judicial review of legislation di stampo nord-americano, ove ciascun giudice disapplica, con effetti retroattivi ed inter partes, la legge contrastante con la Costituzione; per altro verso, garantire una tutela sistemica e non frazionata dei diritti fondamentali, altrimenti lasciati alle esiziali oscillazioni delle applicazioni case by case (p. 219). Se tutte le sentenze della Corte costituzionale, a prescindere dal verso della decisione, presentano un valore indubbiamente persuasivo, solo le pronunce di accoglimento, grazie alla loro portata erga omnes, sono in grado di imporsi per forza propria su tutti i soggetti che costellano l’ordinamento.
4. Gran parte degli orientamenti più recenti possono essere spiegati, secondo Lamarque, attraverso la duplice chiave di lettura appena menzionata. In questa prospettiva, trova collocazione la lettura ampia e obiettiva della rilevanza, che consente, attraverso l’azione di accertamento esercitata nel giudizio principale, di portare davanti alla Corte qualsiasi violazione dei diritti fondamentali (arrivando persino a sindacare la legge elettorale, loi politique par excellence), così da evitare «zon[e] franc[he] dalla giustizia costituzionale e dalla giustizia tout-court» incompatibili con lo «Stato di diritto» (sent. n. 48 del 2021, ma l’orientamento risale alla nota sent. n. 1 del 2014, p. 177). Tramontano progressivamente le inammissibilità sostanziali, a favore di pronunce fortemente manipolative: la Corte costituzionale si premura di setacciare l’ordinamento per rinvenire la soluzione più adeguata a rispondere alla domanda di giustizia proveniente dai giudici a quibus, distaccandosi persino dai petita delle ordinanze di rimessione (in particolare – ma non solo – rispetto alla dosimetria della sanzione penale, p. 178). Non sempre però la risposta a un problema di costituzionalità conduce alla immediata espunzione della norma impugnata: con un meccanismo inaugurato in ambiti eticamente sensibili (il suicidio assistito), ma poi esteso ad altre ipotesi (l’ergastolo ostativo, la pena detentiva per i giornalisti), la Corte costituzionale ha dato vita alle ordinanze di incostituzionalità «differita», che rinviano al Parlamento la modifica delle legge censurata, trattenendo la causa in decisione con fissazione di un termine che, una volta spirato, porta il Giudice delle leggi alla declaratoria di incostituzionalità (p. 179).
Novità si registrano anche sul fronte delle questioni che coinvolgono le fonti esterne, ove è manifesta l’esigenza di imbrigliare le corti comuni, arginandone la creatività. Così, dopo aver affermato il rango interposto della CEDU, come interpretata dalla sua Corte, il Giudice delle leggi si è premurato di specificare che non tutte le pronunce dei giudici di Strasburgo esprimono un medesimo vincolo per gli interpreti nazionali: solo quelle che si inseriscono in un orientamento consolidato della giurisprudenza convenzionale o che intervengono a valle di una procedura pilota possiedono una forza precettiva tale da imporsi alle giurisdizioni interne (sent. n. 49 del 2015, p. 215).
Non solo Cedu, però. La «dimensione europea della giustizia italiana» (p. 211) si coglie anche nelle relazioni con la Corte di giustizia. Dal 2013 in avanti è prassi ormai, per la Corte costituzionale, servirsi del rinvio pregiudiziale, così da presentarsi sulla scena europea come «uno dei tanti giudici dell’ordinamento italiano, sia pure dotato di una speciale competenza e autorevolezza» (p. 213). Va inoltre consolidandosi la tendenza a conoscere direttamente dei contrasti tra diritto interno e diritto sovranazionale (anche self-executing) quando in gioco vi sia la tutela dei diritti fondamentali. Per evitare che l’entrata in vigore della Carta dei diritti (con il Trattato di Lisbona) e la generosa giurisprudenza della Corte di giustizia (che riconosce a molte disposizioni della Carta effetto diretto) conducano a una disinvolta disapplicazione della normativa interna, la Corte costituzionale ha ritenuto «opportuno […] che il giudice solleciti prima di tutto – e quindi prima di investire la Corte di giustizia […] e/o prima di disapplicare la legge» lo stesso Giudice delle leggi (p. 218, principio di diritto espresso dalla sent. n. 269 del 2017, affinato in seguito da decisioni successive).
Questi nuovi orientamenti, scrive Lamarque, non devono essere considerati punitivi nei confronti dei giudici comuni. Non a caso, gli stessi giudici, dopo una «prima reazione […] di rifiuto», hanno «compreso le ragioni della Corte costituzionale, e in linea di massima preferiscano ancora lasciarsi portare, nel tango, dal loro vecchio partner» (ibidem). Sembra essere passato dunque il messaggio del «valore aggiunto», per la tutela dei diritti fondamentali, della pronuncia di incostituzionalità rispetto alla puntinistica disapplicazione della legge; inoltre, «come contropartita […]», la Corte costituzionale ha comunque assicurato che, al termine del giudizio di costituzionalità, resta ferma il potere dei giudici di disapplicare la disposizione interna o di rinviare, anche per gli stessi profili, la questione alla Corte di giustizia (p. 219).
Questo atteggiamento di fiducia si spiega anche per l’apertura di credito che, in questa nuova stagione, il Giudice delle leggi ha concesso alla giurisdizione comune su altri temi. Un esame a tutto tondo della più recente giurisprudenza costituzionale smentisce la tesi di un netto accentramento del controllo di costituzionalità in capo alla Corte medesima.
Nel tango, infatti, non mancano passi «centrifugh[i]», che valorizzano gli ancheggiamenti dei vecchi compagni di balera. A questo proposito, Lamarque enumera: a) il ruolo crescente delle sentenze additive di principio, che affidano al giudice comune il compito di specificare la norma generale delineata dalla Corte; b) le pronunce che dichiarano illegittimi gli automatismi normativi, delegando ai giudici il bilanciamento in concreto, che serve a includere «anche i beni costituzionali che il legislatore aveva ignorato» (in relazione, ad esempio, alla tutela del minore di età o delle persone particolarmente fragili o, ancora, agli automatismi legislativi della custodia cautelare in carcere, pp. 181- 182).
Non siamo, dunque, di fronte a un radicale accentramento del giudizio di costituzionale, ma ad una riaffermazione della natura integrata del sistema di giustizia costituzionale e della centralità dei diritti fondamentali. Lamarque dà un giudizio positivo al rinnovato protagonismo del Giudice delle leggi e alle nuove regole di convivenza con i giudici comuni, le quali delineano un insieme corale capace di evolvere senza trasfigurare la propria identità.
5. Al termine di un lavoro che si candida ad entrare nella ristretta cerchia dei classici della giustizia costituzionale, al lettore rimangono taluni interrogativi, inevitabilmente sollecitati dall’opera.
La prima questione attiene al rapporto che la Corte costituzionale intrattiene con il suo processo. La tendenza, sempre più evidente, a manipolare le tecniche decisorie e, più in generale, a derogare alle disposizioni che attengono al giudizio costituzionale rischiano di minare la legittimazione procedurale della Corte, oscurandone quella vocazione giurisdizionale che pure l’A. ritiene, a ragione, un attributo essenziale del controllo di costituzionalità.
Vi è poi un problema di prevedibilità delle soluzioni adottate dalla Corte, sia per quanto attiene alle condizioni di accesso al giudizio incidentale sia per ciò che concerne le tecniche decisorie. In effetti, quanto più la Corte allarga o restringe, a sua discrezione, le maglie di accesso tanto più corre il rischio di scivolare in un cherry picking giurisdizionale, in una selezione occulta dei casi da decidere realizzata sulla scorta delle proprietà rilevanti della singola questione. Restano oscure le ragioni che accompagnano talune scelte: vi sono criteri oggettivi (e prevedibili) che guidano la Corte nell’individuazione, nella trama dell’ordinamento, della norma adeguata al caso concreto o si tratta di puro intuizionismo? Quali le ragioni per cui, in talune occasioni, la Corte preferisce manipolare il testo legislativo e, in altre, rinviare al Parlamento sospendendo temporaneamente il giudizio? Non vi è, anche in queste ipotesi, un problema di garanzia dei diritti situati nel limbo della sospensione? Ed è realmente rispettata la discrezionalità del Parlamento (obiettivo che pure i giudici di Palazzo della Consulta affermano di perseguire) in questa sorta di giudizio di ottemperanza, con le istituzioni rappresentative chiamate a deliberare, secondo le direttive imposte dal Giudice delle leggi, entro un termine rigido e non particolarmente disteso?
Un’ulteriore questione, di carattere generale, attiene alla posizione istituzionale dei protagonisti del sistema integrato di giustizia costituzionale. L’ascesa delle corti ha segnato una crescente gurisdizionalizzazione dei rapporti politici e sociali. Dal composito excursus tratteggiato da Lamarque emerge la metamorfosi della tradizionale funzione di garanzia giurisdizionale della Costituzione. L’apertura semantica del testo costituzionale, la sua vocazione assiologica, l’effervescenza del pluralismo (nelle sue diverse dimensioni) hanno reso il controllo di costituzionalità un eccezionale istituto di trasformazione, strumentale alla promozione e al riconoscimento delle pretese emergenti nella società. Fino a che punto però questa metamorfosi è compatibile con la centralità della legge e con l’assetto dei poteri previsti dalla Costituzione repubblicana? Il nuovo ruolo delle giurisdizioni (costituzionale, ma non solo) non corre il rischio di avallare uno spostamento di legittimazione delle Corti? La ragione d’essere di queste ultime riposa nella loro istituzionalizzazione in un testo giuridico superiore o nei risultati che sono in grado di raggiungere, nelle «risposte diversificate e al tempo stesso contingenti», per dirla con Carlo Mezzanotte, che le Corti offrono alle sollecitazioni provenienti dalla società?
Tali interrogativi rinviano al problema, altrettanto generale, dello spazio di decisione attualmente riservato agli organi democratico-rappresentativi legittimati dal principio di maggioranza (valore fondante del costituzionalismo, esso riflette il pluralismo ideologico e il diritto dei cittadini all’eguale partecipazione politica). Non va dimenticato che le decisioni di incostituzionalità (e gli argomenti portati per sostenerle) portano sempre con sé un plusvalore di politicità: ad essere sopravanzato non è solo l’interesse perseguito dalla legge dichiarata illegittima, ma anche la libertà dei fini del legislatore. Peraltro, nelle motivazioni delle sentenze, come acutamente sottolinea la stessa A. (p. 139), le norme positive, i diritti costituzionalmente posti e i principi costituzionali vengono diluiti in argomentazioni, che, se da un lato promuovono un dialogo con le istituzioni rappresentative e la comunità degli interpreti, dall’altro restringono l’universo del discorso politico, pretendendo di orientare le scelte degli altri attori istituzionali oltre le peculiarità del caso giudiziale.
La diluzione delle norme positive in argomenti interpretativi pone un problema di precettività del testo costituzionale, che rischia di smarrire la sua funzione ordinante: diluito nel diritto giurisprudenziale, esso smarrisce la capacità di conformare rapporti sociali e istituzionali. Rischia così di essere rovesciato il rapporto di strumentalità che, fin dalla nascita del judicial review of legislation, lega Costituzione (o meglio: una determinata Costituzione) e giustizia costituzionale. Quanto più si allarga il divario fra testi costituzionali ed evolutive giurisprudenze, tanto più emergono letture soggettivistiche della Costituzione, applicata non per quello che dice ma per quello che i suoi custodi affermano di trovarvi.
Il volume ripercorre l’evoluzione del sindacato incidentale in una prospettiva storica. Simile evoluzione va di pari passo con la progressiva centralità che la tutela dei diritti fondamentali ha assunto nel nostro ordinamento. In un viaggio lungo quasi settanta anni, la Corte costituzionale, sembra dirci Lamarque, ha abbondato l’asettico ruolo di giudice delle leggi per farsi custode dei diritti: a voler parafrasare una sua nota pronuncia, la Corte costituzionale giudica di leggi ma si pronuncia, ormai, su diritti.
Difficile dissentire da questa conclusione. Tra le righe del volume, traspare però una complessiva (e quasi impercettibile) sfiducia dell’A. nei confronti dell’operato del legislatore, quasi che i giudici siano riusciti, nell’esperienza repubblicana, a tutelare i diritti contro (o quanto meno nonostante) le istituzioni politiche. Questo sentimento di sfiducia, particolarmente diffuso nel ceto dei giuristi (e che trova diverse e non sempre coincidenti spiegazioni storiche e culturali), rischia di sfociare in una compenetrata apologia della giurisdizione che sottostima il contributo delle istituzioni politiche allo sviluppo dell’ordinamento costituzionale. Non può negarsi, infatti, che anche queste ultime abbiano dato un fondamentale apporto all’inveramento, in senso progressivo, dei valori della Costituzione. Come classificare, altrimenti (e per limitarsi ad alcuni esempi), la (pur parziale) riforma agraria realizzata nei primi anni ’50 del secolo passato, l’adesione alla Comunità economica europea e gli impulsi necessari alla nascita dell’Unione, lo statuto del lavoratori del 1970 (la “Costituzione nelle fabbriche”), la riforma del diritto di famiglia, la legge sull’interruzione di gravidanza, l’istituzione di un sistema sanitario universale (che va oltre le cure gratuite ai soli indigenti, di cui all’art. 32 Cost.), la legge quadro sulla disabilità del 1990 o, per venire a tempi più recenti, la legge sulle unioni civili o sul testamento biologico?
Si avverte il pericolo che il processo di trasformazione surrettizia dell’oggetto del giudizio di costituzionalità (dalla legge ai diritti) porti a una frammentazione dei diritti fondamentali, a un sostanzioso avallo di pulsioni individualistiche a detrimento della sintesi politica realizzata dalla legge. In altri termini, la Corte costituzionale rischia di cadere negli stessi difetti che essa implicitamente imputa alla Corte edu, chiamata a garantire la posizione dell’individuo contro lo Stato, a prescindere da quegli interessi, di natura pubblicistica, che cementificano l’appartenenza della persona alla comunità politica. Si va così affermando una lettura totalizzante della Costituzione o, meglio una pancostituzionalizzazione dei rapporti sociali: tutte le istanze di riconoscimento emergenti nella società pretendono di trovare una univoca ed immediata soddisfazione nella Costituzione o, più correttamente, nel diritto fondamentale ad avere diritti, che di quest’ultima diventa la norma presupposta.
D’altro canto, non può escludersi che, nella giurisprudenza costituzionale, il discorso sui diritti abbia rappresentato un abbellimento retorico per arrestare le fughe giurisdizionali dalla sovranità nazionale (e, in fondo, dalla sovranità della Costituzione). In talune occasioni, i giudici comuni hanno operato da agenti decentrati della Corte di giustizia che, dal canto suo, ha progressivamente smesso i panni del custode delle competenze dell’Unione per assumere una funzione federatrice dell’ordinamento sovranazionale (si pensi non solo al noto caso Åkerberg Fransson ma a tutte quelle pronunce che, tramite il richiamo alla CDFUE o ai suoi contenuti hanno riconosciuto effetti orizzontali alle direttive).
Queste considerazioni esorbitano dal pregevole lavoro di Elisabetta Lamarque. La profondità e la ricchezza degli argomenti portati dall’A. possono però dare inizio a feconda discussione, magari stimolata dalle nuove danze in cui i protagonisti di questa storia vorranno lanciarsi. D’altronde, il sottotitolo del volume (Nuova stagione, altri passaggi) lascia presagire che, come nelle migliori saghe, il meglio deve ancora venire.
* Professore associato di diritto costituzionale, Università di Bologna (corrado.caruso@uniboit)
*In coda la quarta di copertina del volume.
L’Adunanza Plenaria e le concessioni balneari. Guida alla lettura delle sentenze nn. 17 e 18 del 9.11.2021
Redazione
Pubblichiamo le sentenze nn. 17 e 18 del 9. 11. 2021 con le quali il Consiglio di Stato si è pronunciato sulle questioni della proroga della concessioni balneari, rimesse all'Adunanza Plenaria con decreto del Presidente del Consiglio di Stato 24 maggio 2021 n. 160.
Al fine di fornire una prima immediata guida alla lettura delle sentenze, ripubblichiamo anche il commento a firma del Prof. Ruggiero Di Pace All’Adunanza plenaria le questioni relative alla proroga legislativa delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative al decreto con il quale la questione è stata rimessa all'Adunanza Plenaria, già ospitato su questa rivista 15 luglio 2021.
Limiti alla convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio (nota a Cons. Stato, sez. VI, n. 3385/2021)
di Flaminia Aperio Bella
Sommario: 1. Premessa – 2. Il problema dell’integrazione della motivazione dell’atto amministrativo in corso di giudizio nella lettura del Consiglio di Stato – 3. La convalida del provvedimento e gli altri istituti espressivi del principio di economia dei mezzi giuridici – 4. I vizi convalidabili e la qualificazione del vizio di motivazione – 5. In cauda venenum: la convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio – 6. Digressioni alla luce della giurisprudenza successiva – 7. Considerazioni conclusive sui limiti all’applicabilità della logica del giudizio “sul rapporto”.
1. Premessa
La decisione che si annota individua le condizioni di ammissibilità della convalida in corso di giudizio del provvedimento viziato sotto il profilo della motivazione, ricercandone le differenze rispetto alla c.d. integrazione postuma della motivazione, che il Collegio ritiene sempre inammissibile.
La controversia origina dall’esposto con cui il Codacons segnalava all’AGCM che la manifestazione “Eletto prodotto dell’anno” avrebbe costituito una pratica commerciale scorretta per orientare in maniera ingannevole i consumatori verso determinati prodotti. La censura si appuntava sulle condizioni per accedere alla competizione (i.e. la presenza del prodotto nel circuito della grande distribuzione e la corresponsione di una quota di ammissione) e sul fatto che il vincitore, titolato a esporre il marchio “eletto prodotto dell’anno”, si sarebbe avvantaggiato dell’affidamento impropriamente ingenerato nei consumatori, in assenza di un completo confronto tra i prodotti in commercio.
L’Autorità comunicava al Codacons l’archiviazione per “manifesta infondatezza” dell’esposto, motivando che risultavano “assenti gli elementi di fatto idonei a giustificare ulteriori accertamenti”. Il Codacons impugnava il provvedimento, lamentandone a vario titolo l’illegittimità e in particolare l’insufficiente motivazione, richiedendo il riesame del proprio esposto.
Con successivo atto l’Autorità “confermava il non luogo a provvedere”. Anche tale secondo provvedimento veniva gravato in giudizio dal Codacons che, con motivi aggiunti, insisteva per l’annullamento dell’archiviazione come confermata dal sopravvenuto provvedimento.
Il primo giudice, dichiarata l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso introduttivo, respingeva nel merito i motivi aggiunti affermando che l’Autorità avrebbe adeguatamente motivato l’assenza della ingannevolezza nella pratica oggetto di segnalazione “in ragione della presenza di esaustive informazioni messe a disposizione sul sito internet www.prodottodellanno.it riguardanti l’iscrizione dei prodotti, il controllo dei requisiti, la ricerca di mercato e l’utilizzo del logo. Quanto all’uso del claim “Eletto Prodotto dell’Anno”, Agcm ha ritenuto che la locuzione adoperata accanto al claim “i Consumatori premiano l’innovazione” fosse sufficiente a delimitare la natura del processo di selezione, nel quale è premiata l’innovazione del prodotto e non, in termini assoluti, il miglior prodotto in ogni categoria»”.
Contro tale pronunciamento il Codacons proponeva appello, denunciando in primis l’erroneità della sentenza gravata per aver dichiarato improcedibile il ricorso. Nella ricostruzione dell’appellante il TAR avrebbe errato nel non rilevare l’inammissibile violazione del divieto di motivazione postuma perpetrata dall’Autorità con il suo secondo provvedimento, che non si limitava a confermare l’esito dell’archiviazione disposta, bensì forniva le ragioni (precedentemente non puntualmente esplicitate) a sostegno della decisione assunta.
2. Il problema dell’integrazione della motivazione dell’atto amministrativo in corso di giudizio nella lettura del Consiglio di Stato.
L’esame della censura consente al Collegio di affrontare il tema dell’integrazione della motivazione dell’atto amministrativo in corso di giudizio, questione che viene scomposta in tre diverse ipotesi: (i) la motivazione postuma fornita dall’amministrazione resistente attraverso gli scritti difensivi; (ii) la statuizione del giudice di non annullabilità dell’atto viziato da carente motivazione, qualora «sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (ex art. 21-octies l. n. 241 del 1990) e (iii) la possibilità di sanare la motivazione carente o insufficiente con un provvedimento di convalida.
Nella ricostruzione del Collegio, tanto la prima che la seconda ipotesi sarebbero da respingere secondo la giurisprudenza prevalente.
Quanto alla possibilità per la p.A. di integrare la motivazione del provvedimento tramite i propri difensori, l’orientamento della giurisprudenza è sempre stato di segno negativo. Nella ricostruzione del Collegio le pronunce più risalenti avrebbero peraltro trovato sostegno nell’art. 6, l. 18 marzo 1968, n. 249, che ammetteva la convalida nelle more del giudizio esclusivamente con riguardo al vizio di incompetenza.
Allo stesso modo, nella ricostruzione della sentenza annotata, il dibattito riacceso a partire dal 2005 tra i sostenitori dell’applicabilità del meccanismo “non invalidante” disciplinato dall’art. 21-octies l.n. 241/90 al vizio di motivazione e chi, al contrario, escludeva tale vizio da quelli “sulla forma o sul procedimento”, si sarebbe risolto nel senso dell’inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione. Tale ultimo indirizzo, avallato dalla Corte costituzionale a partire dal 2015, sarebbe ormai prevalente e consolidato nel senso che “il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti”. Nello stesso senso, puntualizza la Sezione, si è espressa la dottrina, sulla scorta le regole del giusto procedimento amministrativo come delineato dal diritto euro-unitario.
Discorso diverso è riservato all’ipotesi, in rilievo nel caso di specie, della conservazione dell’atto amministrativo operata mediante un nuovo atto integrativo della motivazione insufficiente.
La sentenza si sofferma dunque sull’istituto della convalida (art. 21-nonies, co. 2, l. n. 241/90) nei suoi caratteri generali, rintracciandone le radici nella possibilità per l’Amministrazione di concludere il riesame del proprio operato con una decisione di carattere conservativo (“convalescenza”), fenomeno da sempre ritenuto ammissibile in dottrina e tradizionalmente ancorato al principio generale di economicità e conservazione dei valori giuridici e alla garanzia del buon andamento dell’agire amministrativo.
È dunque passato in rassegna il ventaglio di atti con esito confermativo tradizionalmente ricondotti alla potestà generale dell’amministrazione di prevenire o risolvere le controversie sulla legittimità dei propri atti. Il Collegio esamina pertanto gli istituti della conferma, della ratifica, della convalida, della rettifica, della conversione e della sanatoria, evidenziandone l’elemento distintivo nel vizio da emendare. Tra questi istituti, accomunati dalla uniforme matrice di provvedimenti di carattere conservativo, la sentenza precisa però che solo la sanatoria (ovvero “l’effetto che si verifica allorquando un provvedimento viziato per mancanza nel procedimento di un atto preparatorio viene sanato dalla successiva emanazione dell’atto mancante”) e la ratifica (i.e. “l’appropriazione dell’atto, emesso da un organo incompetente (ovvero fornito di una competenza temporanea e occasionale), da parte della Autorità che sarebbe stata competente”) possono ritenersi ricompresi nella (pur ampia) formulazione dell’art. 21-nonies, co. 2, l. n. 241/90, perché ascrivibili al genus dei provvedimenti di secondo grado tesi ad eliminare il vizio da cui l’atto originario è inficiato. Medesima struttura e funzione non è invece rintracciata né nella conferma propria (in quanto, sia pur connotata dall’apertura di una nuova istruttoria a differenza dell’atto meramente confermativo, non è comunque volta a rimuovere alcun vizio), né nella rettifica (avente ad oggetto difformità che comportano solo l’irregolarità del provvedimento) né, da ultimo, nella conversione (che tiene fermo il provvedimento originario sussumendolo in una diversa fattispecie).
Così perimetrata rispetto alle nozioni contermini, la convalida è esaminata dalla sentenza nei suoi caratteri peculiari.
Trattandosi di provvedimento che “si salda” con il provvedimento convalidato, dando luogo a una fattispecie complessa, la convalida è “fonte di una sintesi effettuale autonoma” senza operare una modificazione strutturale del provvedimento viziato. La convalida, poi, opera ex tunc proprio perché si ricollega all’atto convalidato, mantenendone fermi gli effetti fin dal momento in cui esso venne emanato (in tale carattere riposa la principale differenza rispetto alla rinnovazione dell’atto, che invece non retroagisce). Il Collegio accenna, per tale via, a un importante limite al potere di convalida nelle ipotesi in cui l’esercizio del potere sia sottoposto ad un termine perentorio.
Passando ai requisiti “strutturali” del provvedimento di convalida, la sentenza abbraccia l’approccio “informale”, che ritiene superflua l’individuazione precipua del vizio da convalidare e bastevole che, dal tenore complessivo del provvedimento, “si desuma che la “causa” dell’atto è quella di dare stabilità e sicurezza a un atto invalido”, in ciò identificando, peraltro, le “ragioni di interesse pubblico”.
Quanto al requisito temporale del termine ragionevole, il Collegio si limita a notare che “lo stesso trascorrere del tempo può contribuire a corroborare il legittimo affidamento del privato che dal provvedimento invalido abbia ricavato delle utilità”.
Affrontando la più annosa questione della emendabilità tramite convalida del vizio di motivazione, la sentenza muove dalla distinzione tra vizi di tipo formale e procedimentale (compreso quello di incompetenza relativa) da ritenersi sempre sanabili, e vizi “sostanziali” (“derivanti cioè dall’insussistenza di un presupposto o requisito di legge, ovvero dall’irragionevolezza e non proporzionalità del decisum”) rispetto ai quali la convalida è priva di effetto.
A tale stregua, il Collegio verifica la convalidabilità del vizio di motivazione: ammettendola nei casi in cui si traduca in una mera “insufficienza del discorso giustificativo-formale” ovvero nel “non corretto riepilogo della decisione presa” ed escludendola in tutti i casi in cui “l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale della funzione (in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto dei presupposti)”. Merita enfatizzare la precisazione che, nel primo caso, l’amministrazione si limiterebbe a munire l’atto originario di una argomentazione giustificativa sufficiente, lasciandone ferma l’essenza dispositiva, e a “tirare nuovamente le fila delle stesse risultanze procedimentali”.
La sentenza giunge, infine, al tema della convalida in corso di giudizio.
La questione è affrontata nel prisma della contrapposizione tra un “modello processuale amministrativo primigenio” e l’impianto del “nuovo processo amministrativo”.
Nel primo modello, incentrato sull’atto, la pendenza dell’impugnativa del provvedimento da convalidare escludeva l’operatività della convalida. Per la via della convalida, infatti, l’Autorità avrebbe finito con l’eludere le garanzie predisposte a tutela del cittadino leso dal provvedimento, il quale “ha acquisito il diritto a ottenere una decisione di annullamento del provvedimento viziato” (virgolettato in sentenza). Unica eccezione espressa a tale regola (dunque confermativa della relativa vigenza) la previsione della citata l. n. 249/1968, secondo cui: “Alla convalida in corso di giudizio degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”.
Nel “nuovo processo amministrativo”, all’opposto, sarebbero venute meno tutte le ragioni a sostegno di tale preclusione. In particolare, l’istituto dei motivi aggiunti, permettendo di impugnare tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso, consente di contestare l’atto di convalida sia per vizi propri (perché autonomamente viziato in quanto inammissibile), sia per persistente illegittimità dell’atto convalidato.
La convalidabilità del provvedimento in corso di giudizio risulterebbe peraltro conforme ai principi di effettività e concentrazione della tutela (ex art. 7, co. 7, c.p.a.), inverati nel “massimo ampliamento del contenuto di accertamento del giudicato amministrativo”. Tale declinazione del principio di effettività si realizza, infatti, nelle parole del Collegio, “facendo confluire all’interno dello stesso rapporto processuale ‒ per quanto possibile ‒ tutti gli aspetti della materia controversa dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, evitando defatiganti parcellizzazioni della medesima disputa”.
Il concetto viene ulteriormente precisato attraverso la specificazione, ormai ricorrente in giurisprudenza, che, quando l’Amministrazione conserva intatto il potere di riemanare un provvedimento con dispositivo identico a quello che risulterebbe annullato per mero difetto di motivazione ‒ in quanto il giudicato non ha potuto accertare la spettanza del provvedimento favorevole ‒ la combinazione di convalida e motivi aggiunti “è in grado di accrescere le potenzialità cognitive dell’azione di annullamento consentendo di focalizzare l’accertamento, per successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere”[1]. L’affermazione contiene due importanti precisazioni: (i) che la convalida di cui si tratta potrebbe essere sia spontanea (come nella specie), sia occasionata da un ‘remand’ cautelare o da una richiesta di chiarimenti del giudice e che (ii) resta esclusa da tale schema “l’ipotesi in cui venga contestato un atto non ripetibile”, circostanza che, come detto, non consente convalida alcuna.
La soluzione prospettata, prosegue il Collegio, coniugherebbe l’inesauribilità del potere amministrativo con il diritto di difesa, agevolando tanto il ricorrente (che otterrebbe una più rapida ed efficace verifica della sua possibilità di risultato vantaggioso “perseguita attraverso la deduzione di un vizio strumentale come il difetto di motivazione”), che l’amministrazione (che eviterebbe annullamenti “del tutto ‘sovradimensionati’ rispetto alla reale consistenza dell’interesse materiale del privato, potendo dimostrare che l’insufficiente motivazione non ha alterato la fondatezza sostanziale della decisione”).
Argomento di diritto positivo che agevolerebbe una siffatta ricostruzione viene tratto, per i procedimenti a istanza di parte, nella nuova regola di preclusione procedimentale di cui all’art. 10-bis, l. n. 241/90 come novellato dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, in l. 11 settembre 2020, n. 120, che, secondo il Collegio, troverebbe applicazione anche in caso di convalida per difetto di motivazione “per evidenti ragioni sistematiche (e per evitare facili aggiramenti)”. La previsione che “in caso di annullamento in giudizio del provvedimento…nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato” imporrebbe infatti alla p.A. di esaminare l’affare nella sua interezza già nella fase del procedimento “sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati”.
Così perimetrata, la “motivazione successiva” non comporterebbe una ‘dequotazione’ dell’obbligo motivazionale, sussistendo adeguati disincentivi alla relativa inosservanza, rintracciati dal Collegio, sul piano individuale, nelle ricadute negative sulla valutazione della performance del funzionario e, sul piano processuale, nella “possibilità” per il giudice di accollare “in tutto o in parte” le spese di lite all’Amministrazione che (pur non soccombente, cionondimeno) abbia con il suo comportamento dato scaturigine alla controversia.
Applicando tali coordinate ermeneutiche al caso di specie, la sentenza qualifica il secondo provvedimento dell’Autorità non già come l’esito di una rinnovata istruttoria e di valutazioni autonome e distinte rispetto a quelle esplicitate in origine, bensì come un provvedimento diretto ad esplicitare “con maggiore chiarezza i fatti ‒ già acquisti al procedimento ‒ che a parere [dell’Autorità] escludono in radice il carattere scorretto della pratica commerciale segnalata”. Se ne fa discendere che “sul piano tecnico-giuridico”, non è corretta la declaratoria di improcedibilità del primo atto di archiviazione operata dal primo giudice, in quanto la successiva nota dell’Autorità non avrebbe sostituito l’archiviazione originariamente disposta con un nuovo provvedimento, bensì ne avrebbe semplicemente “integrato la motivazione, per convalidarne gli effetti”.
Così chiarita l’ammissibilità dell’intervenuto atto di convalida, il Collegio afferma anche la legittimità dell’atto di archiviazione come convalidato, concludendo per il rigetto dell’appello.
Le spese di lite del secondo grado vengono compensate, “in considerazione del fatto che il ricorso originario è stato inizialmente sollecitato dal difetto di motivazione dell’archiviazione”.
La pronuncia annotata, indicando la convalida come via maestra per sanare i vizi di motivazione del provvedimento in corso di giudizio, fornisce l’occasione per riflettere sui limiti applicativi dell’istituto alla luce dell’attuale quadro normativo ed ermeneutico.
3. La convalida del provvedimento e gli altri istituti espressivi del principio di economia dei mezzi giuridici
Gli approfondimenti dottrinali sugli istituti espressivi del principio di economia dei mezzi giuridici nel diritto pubblico sono, nella dottrina più risalente, autorevoli, ma relativamente scarsi[2], specialmente se confrontati alla produzione privatistica sull’argomento. La circostanza non può che sorprendere ove si condivida che proprio nel campo del diritto pubblico sia particolarmente avvertito il bisogno che “le energie dell’azione pubblica non vadano, entro i limiti consentiti dal sistema, disperse, là dove possono invece venire senza pregiudizio risparmiate”[3].
L’attenzione per il tema è stata di poi ravvivata, sia in dottrina che in giurisprudenza[4], dalla valorizzazione di politiche orientate all'economicità e all'efficacia dell'azione amministrativa[5] e successivamente dalla positivizzazione dell’istituto della convalida[6]. L’esiguità del disposto dell’art. 21-nonies, co. 2 l. n. 241/1990 ha infatti risolto solo alcuni dei problemi posti dall’istituto, lasciando agli interpreti la soluzione di gran parte dei nodi interpretativi.
Quanto al rafforzamento del parametro della conservazione dei mezzi giuridici, già ricavabile dal comma 2 dell’art. 21-nonies, che, nel fare “salva la possibilità di convalida”, impone all’amministrazione di saggiare l’eventualità dell’applicazione della misura conservativa prima di porsi sulla strada dell’annullamento[7], esso parrebbe confermato dalle più recenti riforme che, nel limitare variamente lo ius penitendi in senso caducatorio (o sospensivo), non hanno specularmente esteso tali limiti alla c.d. autotutela conservativa[8].
Vero è che, sul piano pratico, gli interventi conservativi dell’amministrazione restano numericamente inferiori rispetto a quelli caducatori, il che potrebbe aver contribuito allo sbilanciamento della produzione dottrinaria verso questi ultimi[9].
Nel quadro della letteratura, come sopra delineato, la questione terminologica viene trasversalmente percepita come problematica: i più evidenziano la necessità di fare ordine sul piano definitorio, evitando di usare le medesime parole per identificare fenomeni giuridici differenti[10].
Apprezzabile, in tale prospettiva, lo sforzo ricostruttivo operato dalla sentenza annotata che, nel passare in rassegna i diversi istituti riconducibili al principio di conservazione dei mezzi giuridici, ne mette in evidenza caratteri e peculiarità. La dovizia di argomenti spesi per tale inquadramento si spiega guardando alla rapidità con cui il primo giudice aveva respinto i rilievi della ricorrente sulla violazione del divieto di “motivazione postuma”, con conseguente necessità di fare chiarezza sulle diverse ipotesi di integrazione della motivazione al fine di evidenziare le peculiarità di quella operata mediante un nuovo atto volto a sanare una motivazione carente. A tale scopo, prima di affrontare l’ipotesi della convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio, il Collegio si sofferma sull’istituto nei suoi caratteri generali.
Appare in particolare convincente (e utilmente semplificante) lo sforzo di ricondurre all’art. 21-nonies gli istituti della sanatoria e della ratifica (intesa quale atto diretto ad eliminare il vizio di incompetenza) perché entrambi ascrivibili “al genus dei provvedimenti di secondo grado tesi ad eliminare il vizio da cui l’atto originario è inficiato”. La categorizzazione persuade meno, invece, intendendo la ratifica anche quale provvedimento che viene in rilievo in vicende di legittimazione straordinaria di un organo ad emanare un provvedimento[11]: in tali casi, infatti, il riesame concerne un atto emanato da un organo che ne è competente, sia pure in via provvisoria, sicché mancherebbe in radice il “vizio da cui l’atto originario è inficiato”[12].
L’utilità dell’intero excursus argomentativo rischia però di essere svilita dall’approccio “informale” abbracciato dal Collegio in ordine ai requisiti “strutturali” del provvedimento di convalida. Reputando superflua l’individuazione precipua del vizio da convalidare e implicitamente desumibili dal tenore complessivo del provvedimento le “ragioni di interesse pubblico” che la legge pone a presupposto dell’esercizio del potere e chiede di specificare, la sentenza sfuma i tratti distintivi dell’istituto, finendo con il favorire, sul piano pratico, la confusione tra la convalida e altri istituti contermini che si mirava a scongiurare sul piano teorico. Il rispetto del principio di legalità pare vieppiù imprescindibile ove si condivida che il potere di ritiro possa convincentemente essere ricostruito come autonomo rispetto al potere originario[13], con ciò che ne consegue sulla relativa invalidità se non conforme agli schemi normativi vigenti[14].
Al di là delle criticità rilevate, la dovizia argomentativa del Collegio contribuisce se non altro a profilare i caratteri della convalida per differenza rispetto all’attività processuale dei difensori della p.A. tesa a provare l’irrilevanza del vizio di motivazione dedotto in giudizio[15].
4. I vizi convalidabili e la qualificazione del vizio di motivazione
Quanto ai vizi suscettibili di convalida, la legge si riferisce al provvedimento “annullabile”, non già a quello nullo o meramente irregolare.
La dottrina prevalente[16], facendo leva vuoi sull’argomento letterale, vuoi sull’insussistenza in tali casi di un interesse pubblico alla convalida[17], converge nel ritenere non convalidabili i provvedimenti “non annullabili” ex art. 21-octiesco. 2. Benché l’opinione maggioritaria sia dunque nel senso che il margine di operatività dell’istituto sarebbe ridotto (benché non eliso) per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 21-octies, co. 2 l. n. 241/1990, la pronuncia annotata si muove in direzione opposta, includendo espressamente tra i vizi convalidabili quelli “non invalidanti” [18].
Sotto altro (ben più decisivo) profilo, la sentenza si allinea invece all’interpretazione assolutamente prevalente, includendo tra i vizi convalidabili solo quelli relativi agli elementi formali o procedimentali[19] e non già i vizi sostanziali[20]. Peraltro, la circostanza che il Consiglio di Stato adduca a suffragio dell’inammissibilità della convalida per i vizi sostanziali quanto recentemente precisato dall’Adunanza plenaria (sia pure nel diverso ambito della c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio[21]), potrebbe segnare una battuta di arresto al minoritario filone giurisprudenziale, specialmente di primo grado, che stava aprendo alla convalida anche per i vizi sostanziali, facendo leva sull’assenza di un espresso divieto legislativo in tal senso[22].
In tale quadro, il tema della convalida del vizio di motivazione merita, però, un trattamento particolare.
La dottrina tradizionale ammetteva la convalidabilità del vizio di motivazione[23] assumendo la relativa ascrivibilità ai vizi formali, invero da tempo discussa quanto meno nei casi in cui il vizio di motivazione fosse il “sintomo di una imperfezione del processo di formazione di volontà” e, dunque, spia di un vizio sostanziale[24].
Soccorrono in proposito i determinanti approfondimenti dedicati all’istituto della motivazione del provvedimento[25]che, pur muovendo dalla multidimensionalità del vizio per lo stretto legame tra motivazione enunciativa e sindacato giurisdizionale d’eccesso di potere[26] e dunque dallo stretto rapporto che avvince la teoria della motivazione e quella dell’eccesso di potere[27], hanno abbracciato traiettorie differenti.
In un primo senso, verso la “diluizione” del vizio di motivazione in quello di eccesso di potere, si è mossa la visione “sostanzialistica”, compendiata nell’affermazione gianniniana che “conta ciò che si è fatto, non ciò che si è dichiarato di voler fare”[28]. La nota impostazione, proposta come reazione all’aperto formalismo che caratterizzava l’approccio tradizionale al vizio in parola[29], scaturiva da una valorizzazione dalle nuove potenzialità del giudizio amministrativo che avrebbero consentito al giudice di non arrestarsi al dato “formale” del vizio di motivazione, permettendogli di ricavare l’iter logico-argomentativo seguito dalla p.A. dall’esame del dossier procedimentale e verificare la bontà sostanziale della decisione.
Diversa traiettoria è stata seguita da quella dottrina che, liberando la motivazione da ogni concezione “psicologica” e valorizzandola come segno formale, la ha qualificata come “discorso giustificativo”[30] rivolto non solo al destinatario della decisione e al giudice, bensì anche, seppur mediatamente, a una tribuna di opinione pubblica davanti alla quale la stessa motivazione è chiamata a dissipare le apparenze arbitrarie ed illogiche dell’atto autoritativo[31].
Con l’avvento dell’art. 3 l. n. 241/1990, la motivazione è descritta come elemento formale, un’esternazione, un segno linguistico avente determinate caratteristiche[32].
In tale rinnovato quadro, gli interpreti si sono fatti carico del carattere “polifunzionale” della motivazione[33](polifunzionalità che si spiega alla luce della molteplicità dei potenziali destinatari della motivazione del provvedimento[34]) e, nel ricercare la funzione principale o prevalente della stessa, l’hanno variamente rintracciata, a seconda delle interpretazioni[35], in principi e valori accomunati dalla relativa autonomia rispetto al “bene finale” rappresentato dalla pretesa collegata all’emanazione del provvedimento[36].
Sulla scorta di queste premesse può essere maggiormente compresa anche l’evoluzione giurisprudenziale sulla natura della motivazione e sui riflessi della violazione dell’art. 3 l. n. 241 sulla validità del provvedimento.
La motivazione del provvedimento amministrativo può essere alternativamente ricostruita come: 1) elemento avente rilevanza formale o procedimentale; 2) elemento sostanziale; 3) elemento essenziale del provvedimento.
L’adesione alla prima ricostruzione implicherebbe, ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2, primo alinea, che il provvedimento vincolato privo o carente di motivazione non sarebbe suscettibile di annullamento quando sia palese che, anche in assenza del vizio, il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso. Le pronunce giurisprudenziali che aderiscono a tale tesi (ammettendo, a tale stregua, scritti difensivi diretti a integrare la motivazione del provvedimento sub iudice) fanno perno sulla notazione ricorrente che l’annullamento dell’atto per vizio di motivazione si tradurrebbe in una “vittoria di Pirro” per il ricorrente, esponendolo all’emanazione di un provvedimento di identico contenuto, ma motivato in modo più adeguato[37] e che l’illustrazione, in giudizio, dell’inconfigurabilità di contenuti dispositivi alternativi non costituirebbe un’indebita integrazione postuma della motivazione, rappresentando un’applicazione dell’art. 21-octies, co. 2. Siffatte ricostruzioni trovano oggi un importante ostacolo nella posizione assunta dalla Corte costituzionale nel 2015 e ribadita nel 2017, quando, investita (in entrambe le occasioni) dalla Corte dei conti della questione di legittimità dell’art. 21-octies, co. 2 l. n. 241 per la parte in cui consentirebbe un’integrazione postuma della motivazione, con riferimento agli art. 3, 97, 24, 113 e 117 Cost., l’ha dichiarata inammissibile, richiamando l’interpretazione costituzionalmente conforme sostenuta dalla giurisprudenza amministrativa secondo la quale “il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma”[38], costituendo la motivazione del provvedimento il presupposto “il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo”.
Al polo opposto si pongono le interpretazioni che configurano la motivazione come elemento essenziale del provvedimento[39]. Benché non manchino, in giurisprudenza, incidentali affermazioni della ascrivibilità della “assenza del dispositivo o della motivazione” alla categoria della nullità[40], non risultano pronunce che ne abbiano disposto, in concreto, la declaratoria.
Ora, ove si acceda alla conclusione che il vizio di motivazione non possa più essere ricostruito alla stregua di un vizio formale o procedimentale sanabile ai sensi dell’art. 21-octies, co. 2 l. n. 241/1990[41], c’è da chiedersi quali ricadute si producano sulla convalidabilità del vizio in questione.
Per la tesi implicitamente abbracciata dalla pronuncia in commento, nessuna.
La posizione è logicamente ineccepibile ove si condivida che altro è la convalida (i.e. il provvedimento amministrativo di secondo grado che scaturisce dalla scelta di fare salvi gli effetti di un provvedimento viziato nella motivazione) altro è il meccanismo processuale che consente di far emergere la necessarietà del contenuto dell’atto viziato nella motivazione vista la vincolatezza della fattispecie. Del resto, l’affermazione che il provvedimento vincolato viziato nella motivazione non è “non annullabile” conduce, attraverso una doppia negazione, all’affermazione della ricorrenza del primo presupposto per procedere alla convalida: la presenza di un vizio suscettibile di annullamento.
Diverse conclusioni si raggiungono, tuttavia, ove dalla riferita giurisprudenza si ricavi che il vizio della motivazione si qualifichi sempre come vizio sostanziale. Ne discenderebbe un imponente ostacolo all’ammissibilità della convalida. Tale preclusione supererebbe peraltro la (invero malsicura) scomposizione del vizio di motivazione tra meramente formale e sostanziale operata dalla sentenza[42], in quanto l’esigenza di preservare la motivazione quale “essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo” precluderebbe all’amministrazione di reintervenire, sia pure al solo fine di “tirare nuovamente le fila delle stesse risultanze procedimentali”.
Una conclusione di tale rigidità potrebbe però tradire la stessa funzione della motivazione.
Se infatti si riconosca, con le posizioni più avanzate sulla garanzia dell’obbligo di motivazione, che la pretesa alla decisione motivata abbia un fondamento autonomo rispetto alla pretesa principale collegata all’emanazione del provvedimento (da ricercarsi nei “valori” della conoscibilità, della trasparenza, della assunzione della responsabilità dei propri atti ad opera della p.A., nel suo ruolo di essenza della funzione amministrativa), tanto dal dover essere assicurata anche quando il contenuto di quest’ultimo non avrebbe potuto essere diverso per la sua vincolatezza, sarebbe controproducente precludere all’amministrazione di rimediare al vizio, conformandosi a detti valori. Ciò vale a maggior ragione ove si aderisca alle posizioni che riconoscono alla motivazione un ruolo non meramente “difensivo” bensì “pubblicitario” e comunque extra-procedimentale.
La conclusione non lascia spazio per riservare trattamenti differenziati ai casi in cui la convalida incida su un provvedimento sub iudice rispetto a quelli di provvedimento non contestato nei termini e non contrastante con gli interessi di alcuno degli amministrati[43]. Si incorrerebbe infatti nell’antica obiezione che o si ammette, o si nega, l’ammissibilità della convalida da parte degli organi amministrativi dei propri atti viziati, mentre, una volta accolta la soluzione affermativa, sarebbe contraddittorio “fermarsi a mezza via”, e sostenere che la proposizione del ricorso, la sua notifica, possa impedire alla amministrazione l’esercizio di questa sua potestà[44].
Le ragioni di un eventuale regime differenziato andrebbero, pertanto, ricercate altrove.
5. In cauda venenum: la convalida del vizio di motivazione in corso di giudizio
Gli sforzi interpretativi diretti a limitare la convalida in corso di giudizio dimostrano che qui si collocano le maggiori criticità dell’istituto.
In termini generali, a fronte di una tradizionale chiusura alla convalidabilità in corso di giudizio di qualsivoglia vizio del provvedimento, fondata sulla necessità di preservare il “diritto del privato a valersi dei vizî che inficiano l’atto amministrativo”[45] nell’ottica di un processo eminentemente impugnatorio, si è registrata una apertura alla convalidabilità, dapprima, del solo vizio di incompetenza relativa (espressamente ammessa dal citato art. 6, l. n. 249/1968) e poi anche di vizi diversi, in concomitanza con l’evoluzione delle regole processuali e sostanziali.
La nuova struttura del processo amministrativo, che affida ai motivi aggiunti l’impugnativa dei provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti (peraltro oggi presupponendo che il potere conferito al difensore per proporre ricorso comprenda anche quello a promuovere tale ulteriore impugnativa ex art 24 c.p.a.), ha definitivamente avallato l'ampliamento dell'oggetto del giudizio “al futuro”, ammettendo che nel processo confluiscano, di regola, tutti gli atti espressivi della stessa vicenda di potere[46].
Del resto, la facoltà della p.A. di reintervenire sul rapporto sub iudice è tradizionalmente ammessa non solo e non tanto in ragione del carattere pacificamente non sospensivo della proposizione del ricorso, quanto soprattutto in considerazione del fatto che l’Amministrazione conservi possibilità di intervento anche all'indomani del giudicato, pur nei limiti delineati da quest’ultimo[47].
Certo è che sulla scorta dello strumentario processuale sopra citato, è stato facile gioco per gli interpreti negare l’esistenza di un principio che imponesse di “paralizzare” i poteri dell’amministrazione in dipendenza dell’esercizio da parte dei cittadini dei rimedi di tutela contro precedenti provvedimenti e, per tale via, ammettere una “motivazione successiva” [48] che consentisse al giudice un pieno sindacato della controversia nell’ottica della valorizzazione del giudizio amministrativo come giudizio di spettanza[49].
In tale quadro, i tentativi dottrinali di rivisitare i caratteri della convalida in generale[50] e di quella incidente sul vizio di motivazione in particolare[51], hanno posto mente alla necessità di favorire il “ravvedimento operoso” della p.A. anche in corso di processo, ma sempre sforzandosi di bilanciare i contrapposti interessi del ricorrente, ad esempio, attraverso la negazione della retroattività della convalida[52].
L’entrata in vigore dell’art. 21-nonies, co. 2 l. n. 241/1990 non ha, come visto, sopito il dibattito, contribuendo anzi ad alimentarlo vista la esiguità del dettato legislativo e la concomitante entrata in vigore del meccanismo non invalidante di cui all’art. 21-octies.
Nell’ambito del nutrito filone “aperturista” che ne è seguito, plaudito da parte della dottrina[53] e criticato da altra[54], solo parte della giurisprudenza ha precisato che la possibilità di intervenire per integrare una motivazione insufficiente dovesse essere riservata all’amministrazione e che non fosse possibile consentirla agli atti difensivi nella sede processuale[55].
La precisazione è di non poco momento ove si consideri che l’intervento emendativo del vizio attraverso un provvedimento dell’amministrazione resistente piuttosto che attraverso gli scritti dei suoi difensori ha il pregio di mantenere saldo il riparto di responsabilità, nel rispetto dell’art. 28 Cost., nonché l’autonomia dell’amministrazione di “assumere l’ordinaria competenza di amministrare” ex art. 118, co. 1 Cost.. Vero è che ciò non elimina il rischio, paventato in dottrina “che le “ragioni postume” della scelta siano dettate da esigenze defensionali e dal tentativo di giustificare la decisione impugnata con attività riferibili alla p.a. come parte resistente nel processo”[56]e il rischio è vieppiù elevato quando le “giustificazioni” della decisione impugnata siano filtrate dalla difesa e dal “gioco delle parti” imposto dalle regole interne al processo.
6. Digressioni alla luce della giurisprudenza successiva
La pronuncia in commento ha già ricevuto un certo seguito in giurisprudenza.
La sentenza annotata avvalora, anzitutto, la tesi dell’inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione operata attraverso gli scritti difensivi e proprio in tale prospettiva è stata richiamata dal TRGA di Trento, investito della legittimità di un provvedimento di revoca del permesso di soggiorno corredato da una motivazione superficiale e stereotipa, poi dettagliata e integrata con memoria dall’amministrazione resistente. Il Collegio ha disposto l’annullamento del provvedimento impugnato precisando che il divieto di integrazione postuma della motivazione troverebbe fondamento, inter alia, nell’istituto disciplinato dall’art. 21-nonies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, “da interpretare nel senso che, in presenza di un provvedimento discrezionale che risulti viziato per carenza di motivazione, l’impugnazione di tale provvedimento non preclude all’Amministrazione intimata la possibilità di agire in autotutela, convalidandolo”[57].
In questa prospettiva, la sentenza n. 3385/2021 concorre ad arginare una pratica criticabile per tutte le ragioni viste supra.
Per altro verso, i canoni interpretativi applicati dal Consiglio di Stato sono stati ampiamente ripercorsi per valutare gli effetti del nuovo esercizio del potere conseguente al remand cautelare in un processo diretto all’ottenimento dell’autorizzazione inizialmente negata dall’amministrazione[58].
Il TAR del Lazio[59], nel vagliare i motivi aggiunti con cui si contestava la legittimità del provvedimento con cui l’Ente parco, chiamato in via cautelare a riesaminare “avuto riguardo, in particolare, alla censura tesa a valorizzare il deficit motivazionale” il diniego di autorizzazione all’installazione di antenne telefoniche opposto alla ricorrente, confermava il diniego originario, ha ritenuto che tale nuovo provvedimento non determinasse l’improcedibilità del ricorso introduttivo, proprio alla stregua delle argomentazioni utilizzate dalla sentenza n. 3385/2021. Merita precisare che il nuovo provvedimento interveniva “in dichiarata esecuzione” del comando cautelare e che il Collegio vi riconosceva i connotati della convalida[60]. Il TAR ne fa discendere, ripercorrendo l’insegnamento della sentenza annotata, che l’integrazione della motivazione del diniego originario a opera del secondo atto “non costituisc[e] l’esito di una rinnovata istruttoria e di valutazioni autonome e distinte rispetto a quelle esplicitate in origine’, essendosi l’amministrazione limitata a esplicitare ‘con maggiore chiarezza’ i fatti, già acquisti al procedimento, idonei a fondare il diniego di nulla osta”, ciò che attribuisce al provvedimento sopravvenuto la natura di atto di convalida, con conseguente necessità di verificare “la legittimità del diniego ‘come convalidato’”, senza potersi dichiarare l’improcedibilità del ricorso introduttivo.
Senza poter affrontare compiutamente in questa sede il delicato tema del rapporto tra pronunce cautelari “atipiche” e nuovo esercizio del potere[61], preme segnalare la sentenza del TAR capitolino per aver qualificato il provvedimento esecutivo dell’ordine cautelare alla stregua di una convalida e per aver negato, per tale via, l’improcedibilità del ricorso originario per sopravvenuta carenza di interesse, difettando “una rinnovata istruttoria e di valutazioni autonome e distinte rispetto a quelle esplicitate in origine”. La decisione si pone in netta discontinuità con l’orientamento giurisprudenziale che riconosce sempre al provvedimento assunto a valle del remand l’effetto di determinare la sopravvenuta carenza di interesse alla coltivazione del ricorso originario[62], e ciò sulla scorta della configurazione dell’ordinanza propulsiva quale strumento che rimette in mano alla p.A il potere decisionale iniziale, senza pregiudicare il risultato finale[63].
Al contempo, la decisione pare allontanarsi pure dal filone interpretativo che ha guardato al grado di intensità del contenuto ordinatorio della pronuncia per stabilire se la relativa esecuzione determinasse o meno improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso originario[64]. Invero, nell’ambito di questo filone, il provvedimento meramente esecutivo della misura cautelare era considerato inidoneo a determinare la sopravvenuta carenza di interesse e suscettibile di essere automaticamente caducato (insieme alla misura cautelare) dalla eventuale decisione di merito contraria. Vero è che la distinzione che riposa sull’intensità del contenuto ordinatorio è di ardua applicazione pratica, specialmente a fronte di ordinanze propulsive[65], e che l’atteggiamento prudenziale che connota le difese in giudizio ha dato luogo a una impugnazione generalizzata dei provvedimenti non satisfattivi assunti “su riesame”, ma resta il fatto che il connubio tra il carattere meramente esecutivo del provvedimento assunto a valle dell’ordine cautelare e l’assenza di un’autonoma istruttoria deporrebbe, nel quadro interpretativo descritto, per il relativo carattere non autonomamente impugnabile[66].
Corre l’obbligo di interrogarsi sui riflessi sulla dinamica del processo generati dalla configurazione del provvedimento assunto su ordine cautelare come una convalida.
Il fatto che il nuovo provvedimento “si saldi” con quello originariamente assunto, senza dare luogo a una rinnovata istruttoria e a valutazioni autonome e distinte rispetto a quelle esplicitate in origine e senza far venir meno l’interesse al giudizio diretto a contestare il provvedimento convalidato, potrebbe consentire al ricorrente di evitare di impugnare la convalida ritenuta non satisfattiva così evitando gli oneri economici connessi?
Non sembra che le logiche del processo di tipo soggettivo, basato sul principio dispositivo, consentano di evitare l’intercessione della domanda di parte per dare ingresso nel processo alla questione della legittimità di nuovi provvedimenti[67]. Se tale domanda, però, debba fare ingresso nel processo nelle forme tradizionali è questione su cui vale la pena soffermarsi per esaminare compiutamente le conseguenze pratiche che discendono dall’adesione all’orientamento inaugurato dalla sentenza annotata.
7. Considerazioni conclusive sui limiti all’applicabilità della logica di giudizio “sul rapporto” al processo incentrato sull’atto
La sentenza della Sesta Sezione affronta varie questioni di rilievo al fine di concentrare nelle mani della p.A. il potere di sanare il vizio di motivazione, anche in corso di giudizio. La sentenza prospetta alcune soluzioni, di cui sottolinea essere fondamento l’impianto del “nuovo processo amministrativo”, in contrapposizione al “modello processuale amministrativo primigenio”. Traspare così l'intenzione di determinare un indirizzo giurisprudenziale autorevole (già ampiamente seguito, come illustrato supra) che faccia della convalida la via maestra per sanare i vizi della motivazione in corso di giudizio, ponendo così rimedio alla estrema varietà di posizioni espresse in argomento. L’attenzione riservata a soluzioni come quella affermata dalla sentenza annotata non vuole, però, significare che il dibattito debba ritenersi esaurito.
Assegnare all’amministrazione cui va imputata un’illegittimità di indubbia gravità come quella di aver assunto un provvedimento viziato nella motivazione l’ulteriore vantaggio di estendere il giudizio, sia in termini di ampliamento del thema decidendum, sia in quelli di imposizione al ricorrente di ulteriori attività processuali, può tradursi in un ingiusto pregiudizio per quest’ultimo.
L’argomento della “focalizzazione dell’accertamento” per successive approssimazioni, declamato dal filone interpretativo in cui si inserisce la pronuncia annotata, si attaglia poi con difficoltà al processo su provvedimenti ablatori. La sensazione che la ricostruzione del Collegio abbia guardato specialmente ai giudizi su interessi legittimi pretensivi sembra peraltro confermata dal passaggio in cui, nell’argomentare dell’esigenza di estendere il contenuto di accertamento del giudicato amministrativo quale postulato dei principi di effettività e concentrazione della tutela ex art. 7, co. 7 c.p.a., invoca, peraltro in modo equivoco[68], la preclusione procedimentale che discende dalla nuova formulazione dell’art. 10-bis, pacificamente applicabile ai soli procedimenti a istanza di parte.
Alla luce del ruolo proprio della motivazione, come sopra ricostruito, la denuncia del suo difetto in un giudizio rivolto alla caducazione del provvedimento impugnato non può essere sbrigativamente qualificato, come fa la Sezione, alla stregua di un “vizio strumentale”. Ciò a maggior ragione ove si consideri che la riedizione del potere a seguito dell’annullamento del provvedimento (in via di autotutela o giurisdizionale) potrebbe dare luogo a esiti procedimentali diversi, dimostrando che l’annullamento sarebbe tutt’altro che “sovradimensionato”[69].
Nell’attuale configurazione del processo amministrativo, la parte ricorrente sembra aver guadagnato il ruolo di migliore interprete del proprio interesse[70], sicché, a fronte della geometria variabile che connota il processo amministrativo permeato sull’atipicità delle azioni e sul principio della domanda, ragionare di ‘tutela sostanziale’ e di ‘tutela effettiva’ per respingere azioni meramente caducatorie può risultare paradossale. In ultima analisi, la proposizione da parte del ricorrente della sola azione caducatoria, o la proposizione di un’azione di adempimento accanto a quella di annullamento, costituiscono la legittima applicazione del principio dispositivo e attivano in modo non eguale la competenza del giudice con riferimento alla risposta che dalla sua decisione deriva e si trasferisce nella definizione del rapporto[71].
Anche non volendo accedere a una modulazione della ammissibilità della convalida del provvedimento viziato nella motivazione in corso di giudizio a seconda della pretesa azionata[72], resta il fatto che la pronuncia in commento sembra prospettare argini deboli al potere di convalida, trascurando il principio essenziale per cui nello stato di diritto l’amministrazione entra in giudizio come parte e non come autorità[73].
Debole pare, in particolare, escludere la convalida nelle sole ipotesi in cui l’esercizio del potere sia sottoposto ad un termine perentorio. Se infatti è indubbiamente condivisibile che l’atto “non ripetibile” debba ritenersi insuscettibile di convalida, è anche noto che la giurisprudenza è estremamente restrittiva nell’individuazione delle ipotesi in cui il decorso del termine per concludere il procedimento consumi il potere[74], arrivando financo a smentire la perentorietà di termini definiti come perentori dalla legge stessa[75]. E’ significativo che il legislatore abbia dovuto esplicitamente rimarcare che il provvedimento di diniego di un’istanza dopo la formazione del silenzio assenso è inefficace[76]. Specularmente risulta assai esiguo lo spazio riconosciuto alla convalida con efficacia ex nunc (equivalente, nella prospettazione del Collegio, a una rinnovazione[77]) limitata appunto ai soli casi di convalida su provvedimenti non ripetibili[78], con conseguente ostacolo al riconoscimento dell’ingiustizia del danno che costituisce necessario presupposto della tutela risarcitoria. L’ammissione della convalida del provvedimento viziato nella motivazione in corso di giudizio dovrebbe quantomeno essere bilanciata dalla ristorabilità del danno provocato dalla condotta scorretta dell’amministrazione, la quale, nell’emanare un atto legittimo, abbia ciononostante violato una regola comportamentale.
A tali considerazioni di carattere sistematico non possono non aggiungersi alcune notazioni di carattere pratico. Anche ove la riferita progressiva “focalizzazione dell’accertamento” attraverso la combinazione tra convalida e motivi aggiunti rappresenti effettivamente una preziosa risorsa per accrescere la portata conformativa della decisione del giudice amministrativo[79], essa non è senza costi per il ricorrente[80].
Ogni provvedimento che venga assunto a giudizio già instaurato dall’amministrazione resistente (spontanemente o “iussu iudicis”, a seguito di remand o di richiesta istruttoria) pertanto, pur rispettando il giusto riparto delle responsabilità, genera una sopravvenienza provvedimentale che pone il ricorrente innanzi all’annosa questione sul se e come rimodulare la propria contestazione, sobbarcandosene i relativi costi. Vero è che ciascuna di queste sopravvenienze provvedimentali concorre ad esaurire la discrezionalità dell’amministrazione[81], consentendo di giungere all’accertamento della spettanza del bene della vita, ma, nel farlo, si innesta in un processo ancora di carattere prevalentemente impugnatorio e deve fare i conti con le regole che lo governano[82].
A ciò si aggiunga che ammettere che la p.A. sani in corso di giudizio i vizi di provvedimenti precedentemente assunti significa consentirle di risultare vittoriosa di un processo generato dal suo agire contra legem. Il punto non pare risolto dalla sentenza commentata, che si limita a consentire al giudice di accollare “in tutto o in parte” le spese di lite all’Amministrazione, che pur non soccombente, cionondimeno abbia con il suo comportamento dato scaturigine alla controversia. Si tratta di una mera “possibilità” che peraltro, nella specie, ha dato luogo a una mera compensazione[83].
La considerazione dei costi sostenuti dal ricorrente non può essere trascurata in un processo permeato sul principio di effettività. A nulla servirebbe, del resto, architettare soluzioni processuali raffinate per conseguire una pronuncia “di spettanza” se poi, nel concreto, l’alternanza provvedimentale-processuale per giungervi si riveli eccessivamente onerosa per il ricorrente[84].
Con le considerazioni e digressioni che precedono si è inteso evidenziare che le questioni lasciate aperte dall’istituto della convalida sono ancora molte. C'è da sperare che l’attenzione riservata dalla sentenza annotata alla convalida del vizio di motivazione, rendendo ancora più evidenti i limiti di certe soluzioni, faccia riflettere più seriamente sulla necessità di interventi profondi.
[1] La formula, ormai ricorrente, esprime la tendenza a valorizzare la combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere quale strumento per focalizzare l’accertamento, per successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere; tendenza che, come recentemente ricordato, affonda le sue radici in una fase che precede l’entrata in vigore del c.p.a. e principia con il rinnovato assetto delle relazioni tra amministrati e p.A. inaugurato dalla l. n. 241/1990 (F. Patroni Griffi, La giustizia amministrativa tra presente e futuro (intervento al convegno «Stato a diritto amministrativo tra presente e futuro», Parma, 4 ottobre 2019), in Il processo, n. 3/2019, 587 ss.).
[2] Cfr. P. Ravà, La convalida degli atti amministrativi, Padova, 1937. Per temi affini anche P. Bodda, La conversione degli atti amministrativi illegittimi, Milano, 1935; R. Lucifredi, Inammissibilità di un esercizio “ex post della funzione consultiva”, in Scritti per Vacchelli, Milano, 1937, 283 ss. e più tardi Le. Mazzarolli, Gli atti amministrativi di conferma, I, Padova, 1964. Fra le voci enciclopediche, v. G. Santaniello, Convalida (dir. amm.), in Enc. dir., X, Milano, 1962, 503 ss.; E. Cannada Bartoli, Conferma (dir. amm.), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 856 ss.; L. Mazzarolli, Convalida (II Diritto Amministrativo), voce dell'Enc. giur., Roma, IX, 1988, 2; G. Ghetti, Conferma, convalida e sanatoria degli atti amministrativi, in Dig. disc. pubbl. III, Torino, 1989, 347.
[3] A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940, consultato nella ristampa inalterata del 1964, qui 351.
[4] Si veda, in particolare, la molto commentata TAR Lazio, Sez. I, 16 gennaio 2002, n. 398, in Foro amm. Tar, 2002, 511 ss., con nota di D.U. Galetta, Recenti novità in tema di illegittimità del provvedimento amministrativo affetto da c.d. vizi formali, in Giorn. dir. amm., 2002, 641 ss., con nota di V. Cerulli Irelli, Convalida in corso di giudizio e tutela della pretesa sostanziale, e in Urb. e app., 2002, 935 ss., con nota di L. Tarantino, Wittgenstein, Mortati e l'integrazione della motivazione in giudizio. Di poco successivo il contributo di G. Tropea, La c.d. motivazione “successiva” tra attività di sanatoria e giudizio amministrativo, in Dir. amm., 3, 2003, 531 ss..
[5] E’ affermazione ricorrente anche in giurisprudenza che il parametro della conservazione dei valori giuridici tenda a rafforzarsi e ad assumere sempre maggiore consistenza in rapporto alle regole dell'economicità e dell'efficacia dell'azione amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 3 febbraio 2000, n. 665, in Cons. Stato, 2000, I, 236 citata in G. Tropea, op. cit. 531). Sul tema più generale della declinazione del buon andamento come principio diretto a conseguire una c.d. “amministrazione di risultati” v. F. Ledda, Dal principio di legalità al principio d'infallibilità dell'amministrazione, in Foro amm., 1997, 3303; A. Romano Tassone, Sulla formula «amministrazione per risultati», in Scritti in onore di E. Casetta, II, Napoli, 2001, 813 ss.; R. Ferrara, Introduzione al diritto amministrativo. Le pubbliche amministrazioni nell'era della globalizzazione,Bari, 2002; G. Corso, Amministrazione di risultati, in Annuario AIPDA 2002, Milano, 2003, 131 ss.; M.R. Spasiano, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003; M. Immordino, A. Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultati, Torino, 2004; L.R. Perfetti (a cura di), La riforma della l. 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità e amministrazione di risultato, Padova, 2008.
[6] Tra i commentari all’art. 21-nonies, co. 2 l. n. 241/1990 come inserito con l. n. 15/2005 v. A.G. Pietrosanti, La convalida del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di) Princìpi e regole dell’azione amministrativa, 3 ed. Milano, 2020, 501 ss.; F. Costantino, La convalida del provvedimento, in A. Romano (a cura di) L’azione amministrativa, Torino, 2016, 897 ss.. In argomento si vedano R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, 2 ed., Milano, 2017, 691 ss. nonché G. Pepe, Atti giuridici e principio di conservazione, in Amministrativamente.com 1-2, 2015.
[7] In tal senso E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2015, 547; R. Villata, M. Ramajoli, cit., spec. 691 ove gli Aa. rilevano che risulta arduo, in concreto, individuare il punto di confine varcato il quale l’amministrazione deve passare dal riesame conservativo a quello eliminatorio e che i provvedimenti ad esito conservativo risultano ben più rari di quelli di annullamento (692).
[8] Il riferimento va all’art. 21 nonies, co. 1 nella formulazione risultante dalla c.d. riforma Madia (l. n. 124 del 2015), che, nel dare prevalenza alle esigenze di stabilità dei titoli rispetto al ripristino della legalità, fissa a 18 mesi (oggi 12, cfr. art 63 d.l. 31 maggio 2021, n. 77, conv. nella l. n. 108 del 29 luglio su cui v. M.A. Sandulli, Addenda 31 agosto 2021 al volume “Principi e regole dell’azione amministrativa”, Milano, Giuffrè, 3ed, 2020, in questa Rivista, 2 9 2021) il “termine ragionevole” entro cui l’amministrazione può esercitare il proprio ius penitendi in senso caducatorio (o sospensivo) su provvedimenti illegittimi attributivi di vantaggi economici, senza specularmente estendere tale limite alla convalida. Si deve invece a un intervento riformatore di poco precedente alla riforma Madia (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. nella l. 11 novembre 2014, n. 164,) la perimetrazione dell’ambito applicativo dell’annullamento d’ufficio nel senso di escluderne gli atti non annullabili ex art. 21-octies, esclusione che non si ritrova, specularmente, nella convalida.
E’ evidente che in tanto può parlarsi di rafforzamento del parametro della conservazione dei mezzi giuridici in quanto si ravveda nell’inapplicabilità dei limiti menzionati all’autotutela conservativa il frutto di una precipua scelta legislativa (ex multis S. Tuccillo, Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, Napoli, 2016, Id. Autotutela amministrativa 2. Gli istituti, in Treccani online 2019).
[9] Oltre alla dottrina citata nelle note precedenti, v. F. Benvenuti, Autotutela (diritto amministrativo), in Enc. Dir., IV, 1959, 539 ss.; G. Corso, Autotutela (dir. amm.), in S. Cassese, (a cura di), Dizionario di Diritto Pubblico, Milano, 2006. Più di recente F. Francario, Autotutela e tecniche di buona amministrazione, in A. Contieri, F. Francario, M.
Immordino, A. Zito (a cura di) L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, Napoli, 2010, II, 107 ss.. Tra i contributi monografici v. M. Immordino, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino, 1999; L. Lorello, La tutela del legittimo affidamento tra diritto interno e diritto comunitario, Torino, 1998; A. Contieri, Il riesame del provvedimento amministrativo tra annullamento e revoca. Gli interessi sopravvenuti al procedimento, Napoli, 1990.
[10] Così già P. Ravà, La convalida, cit. 74 che, proprio al fine di scongiurare la “pericolosa confusione di concetti e principî” insita nell’utilizzo del termine “conferma”, ne propone una sostituzione con quello di “convalida” che, anche per le sue radici romanistiche, pareva il più idoneo a qualificare “un provvedimento che ne fa convalescere uno precedente viziato”. Così anche L. Mazzarolli, Convalida, cit., 2.
[11] Questa la migliore definizione di ratifica per R. Villata, M. Ramajoli, op. cit., 703 ss. ché, altrimenti, sarebbe da ricondurre alla convalida. Non mancano letture che collegano la ratifica al vizio di incompetenza (di recente Cons. Stato, sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6199), mente altra parte della giurisprudenza ha affermato che “l’istituto della ratifica ricorre allorché sussista una legittimazione straordinaria di un organo ad emanare a titolo provvisorio e in una situazione d’urgenza un provvedimento che rientra nella competenza di un altro organo il quale, ratificando, lo fa proprio” (Cons. Stato, sez. V, 2 novembre 2011, n. 5834).
[12] Per l’affermazione che “la ratifica non presuppone necessariamente un atto invalido”, ex multis G. Santaniello, cit. 503. Contra B. Cavallo, Provvedimenti e atti amministrativi, Padova, 1993, 410 ss., che muove dalla premessa abbracciata in sentenza che l’atto emanato in forza di una legittimazione straordinaria sia illegittimo per incompetenza (spec. 408).
[13] Così M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018 spec. 205 ss. che, con l’obiettivo di dimostrare l’estraneità degli atti di riesame (annullamento, revoca, convalida, riforma, conferma, etc.) alla logica dell’inesauribilità del potere, ha argomentato la relativa riconducibilità a un potere autonomo sulla scorta dell’analisi del diritto positivo. Per un ulteriore appiglio normativo può oggi evocarsi il co. 8-bis dell’art. 2 l. n. 241/1990 inserito dal d.l. 76/2020, conv. nella l. n. 120/2020 che, nel sancire l’inefficacia del provvedimento di diniego espresso emanato a valle del decorso del termine per la formazione del silenzio assenso, tiene fermo quanto previsto dall’art. 21-nonies ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni.
[14] M. Trimarchi, op. cit., 205-206.
[15] La precisazione è benefica in quanto anche in tale specifico ambito si riscontrava, specialmente in passato, una notevole confusione terminologica. Emblematica, tra le molte, TAR Molise, 29 gennaio 2003, n. 41, in Foro amm. T.A.R., 2003, 227, ove si legge che la nuova struttura del giudizio amministrativo (che non s’incentra più sull’atto) “ha definitivamente legittimato anche la prassi dell’integrazione o convalida postuma del provvedimento in pendenza di giudizio”. Con specifico riferimento alla confusione terminologica che investe i provvedimenti diretti a sanare il vizio di motivazione ad es., V. Cerulli Irelli, Convalida in corso di giudizio e tutela della pretesa sostanziale, cit., 641 ss., rilevava che “una certa confusione si riscontra nel dibattito, laddove a volte non si distingue l'integrazione della motivazione mediante scritti difensivi presentati nel corso del giudizio, dall'integrazione della motivazione apportata dalla stessa amministrazione autrice del provvedimento impugnato mediante convalida di questo, cioè mediante successivo provvedimento emanato in corso di giudizio”. Particolarmente utile sembra, in tale quadro, la perimetrazione della nozione di “integrazione postuma della motivazione” ai soli casi in cui l’Amministrazione deduce, nell’ambito del processo (tramite i propri difensori o tramite la produzione di atti endoprocedimentali), ragioni non sufficientemente articolate e rappresentate nel provvedimento impugnato, allo scopo di integrarne la motivazione, fermo restando il dispositivo provvedimentale (M.A. Sandulli, Rilevanza e trasparenza dei motivi nel procedimento e nel processo, in Aa.Vv., Atti del Convegno di Brescia del 18-19 ottobre 1991, Roma, 1995, 8). La nozione, così delimitata, pare preferibile anche rispetto a ulteriori declinazioni e specificazioni terminologiche del concetto (così ad es., per la distinzione tra integrazione della motivazione, motivazione postuma e motivazione successiva v. G. Mannucci, Uno, nessuno, centomila. Le motivazioni del provvedimento amministrativo, in Dir. pubbl., 3, 2013, 837 ss., qui 858).
[16] Che lo spazio riservato alla convalida risulterebbe sensibilmente ristretto dall’art. 21-octies è sostenuto da vari autori (ex multis R. Villata, M. Ramajoli, op. cit., 696; V. Cerulli Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della L. n. 241/90, in www.giustamm.it). In punto è stato precisato (G. Mannucci, Della convalida del provvedimento amministrativo, in Dir. pubbl., 1, 2011, 201 ss.) che i dei margini di residua operatività della convalida dei vizi formali vadano verificati caso per caso e dunque che, se indubbiamente non sia convalidabile “un provvedimento adottato in violazione di una norma formale, la quale si rivela neutra rispetto al suo contenuto” (219), specularmente non sussistono ostacoli alla convalida in casi, estranei alla sfera di incidenza dell’art. 21-ocities, co. 2, in cui la violazione formale incorra in “fattispecie in cui l’effetto del provvedimento è dipendente da una valutazione discrezionale” (224)
[17] D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2010, p. 433, ripreso da G. Mannucci, Della convalida, cit. 216-217 che evidenzia come l’argomento che esclude l’interesse pubblico vale sia che si acceda alla tesi secondo la convalida sia funzionale a evitare le possibili conseguenze negative della illegittimità dell’atto, sia che la si fondi su di un interesse pubblico ulteriore rispetto a quello al mantenimento dei valori giuridici.
[18] Sul presupposto che la regola ivi sancita opererebbe solamente sul piano processuale e che l’utilità giuridica conseguita dalla p.A. in tali casi consisterebbe “al più soltanto in una maggiore certezza e stabilità del rapporto amministrativo”.
[19] Si riportano tradizionalmente gli esempi dei vizi formali e procedimentali dell’insufficienza del quorum, dell’irrituale convocazione dell’organo collegiale, dell’omissione degli accertamenti preliminari necessari o ancora, per chi acceda alla convalidabilità anche dei vizi “di contenuto”, l’esempio dell’inserzione di una condizione illegittima (A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 709).
[20] Sulla convalidabilità del provvedimento nei soli casi di vizio formale o procedimentale v. R. Villata, L'atto amministrativo, cit., 1597; E. Casetta, Manuale, cit., 518; G. Santaniello, Convalida, cit., 505; L. Mazzarolli, Convalida, cit., 2; B.G. Mattarella, Il provvedimento, cit., 837.
[21] Investita della corretta esegesi dell’art. 38 TUED, nella parte in cui consente la corresponsione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione delle opere realizzate in forza di un permesso annullato nei casi in cui non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione “dei vizi delle procedure amministrative” (o “la restituzione in pristino”), la Plenaria si è infatti soffermata sulla differenza tra vizi della procedura e altri vizi del provvedimento “che, non attenendo al procedimento, involvono profili di compatibilità della costruzione rispetto al quadro programmatorio e regolamentare che disciplina l’an e il quomodo dell’attività edificatoria”. Nel ricondurre la riferita rimozione “dei vizi delle procedure” all’attività di convalida (sub specie del permesso di costruire), il Consesso ha precisato che “La convalida per il tramite della rimozione del vizio implica necessariamente un’illegittimità di natura “procedurale”, essendo evidente che ogni diverso vizio afferente alla sostanza regolatoria del rapporto amministrativo rispetto al quadro normativo vigente risulterebbe superabile solo attraverso una modifica di quest’ultimo; ius superveniens che, in quanto riguardante il contesto normativo generale, certamente esula da concetto di “rimozione del vizio” afferente la singola e concreta fattispecie provvedimentale” (Cons. Stato, ad. plen. 7 settembre 2020, n. 17).
[22] V. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 2 febbraio 2016, n. 175 e TAR Veneto, sez. I, 22 febbraio 2018, n. 217 su cui A.G. Pietrosanti, La convalida, cit. e ivi l’appendice giurisprudenziale di L. Nadir Sersale, spec. 514.
[23] P. Ravà, op. cit., 206, A.M. Sandulli, op. loc. cit.. Invero il vizio di “errore o difetto di motivazione” veniva tradizionalmente ritenuto convalidabile in collegamento con la natura di atto di amministrazione attiva della convalida (P. Ravà, cit. 110 che, riconducendo l’istituto a “l’autotutela di cui è dotata la pubblica amministrazione” afferma che la convalida, come la revoca, rappresenta l’esercizio di una funzione di amministrazione attiva; A.M. Sandulli, op. cit. 362). Trattandosi, nel caso di vizio di motivazione, di vizio inerente all’esplicazione di quella funzione attiva, esso era ritenuto ammissibile, mentre non era ritenuto convalidabile, a contrario, il provvedimento viziato dalla circostanza che, nel porlo in essere, l’autorità emanante non si fosse attenuta al rispetto dei limiti fissati dall’ordinamento e avesse agito al di fuori della situazione nella cui coesistenza soltanto l’ordinamento le consentiva di agire (A.M. Sandulli, op. loc. cit.). La collocazione della convalida tra gli atti di secondo grado (P. Virga, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1968, 526; L. Mazzarolli, cit., 3) le ha conferito la pacifica natura di atto autonomamente impugnabile (così ad esempio P. Stella Richter, L’inoppugnabilità, Milano, 1970, ove si legge che “un procedimento di riesame del precedente, sia esso di legittimità sia…di merito, darà sempre luogo ad un provvedimento autonomamente impugnabile. Si tratterà, a seconda dei casi, di un annullamento dell’atto precedente… o infine di una convalida dell’atto precedente”, 239).
[24] Come non manca di evidenziare M. Nigro, Sulla riproduzione dell’atto amministrativo annullato in sede giurisdizionale per difetto di motivazione, in Foro it., 1958, oggi in Scritti giuridici, Milano, 1996, II, 442 ss., spec. 449, richiamando la bibliografia in R. Lucifredi, L’atto amministrativo nei suoi elementi accidentali, Milano, 1941, 25. Così M. Nigro, op. cit. 449 precisava che la motivazione può essere considerata o sul piano formale quale componente dell’atto oppure come “rappresentazione del modo di formazione e dell’esatto contenuto della volontà”. A tale ultima stregua, il vizio di motivazione è il “sintomo di una imperfezione del processo di formazione di volontà” e, dunque, spia di un vizio sostanziale (450). Se ne fa discendere che, quando il vizio di motivazione celi un vizio sostanziale, non potrà trovare accoglimento la ricostruzione giurisprudenziale secondo cui l’annullamento del provvedimento restituirebbe nelle mani della p.A. il potere “fino alla sua originaria estensione”, dovendosi invece ritenere preclusa alla p.A. la possibilità di emanare “un atto confermante, con diverso o più completo ragionamento, la soluzione precedente”.
[25] Per tutti M.S. Giannini, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 268 ss.; A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano, 1987. In argomento già C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione con speciale riguardo agli atti amministrativi, Roma, 1933; G. Miele, L’obbligo di motivazione negli atti amministrativi, in FA, 1941, 126 ss., oggi in Scritti giuridici, Milano, 1987, I, 334.
[26] A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi, cit., 178 ss., il quale fa risalire agli anni ’30 del secolo scorso la tendenza che fa della motivazione enunciativa oggetto privilegiato del sindacato giurisdizionale d’eccesso di potere.
[27] C.M. Iaccarino, Studi sulla motivazione, cit. 20 s.: “la teoria della motivazione è in rapporto molto stretto con la teoria dell’eccesso di potere, in quanto ché questo, che è spesso basato su un vizio relativo ai motivi, su un errore voluto o non voluto, si rileva facilmente attraverso la motivazione, che, come esposizione dei motivi, rende agevole vedere se essi rispondano ad esattezza oppure no”.
[28] M.S. Giannini, op. cit. 265. Lo stesso A. rilevava che la propria impostazione determinava un’attenuazione della finalità garantistica della motivazione, incentivando la p.A. a non motivare i propri atti a fronte della (ritenuta) sostanziale legittimità degli stessi (268).
[29] Così M.S. Giannini, op. cit., 262.
[30] A. Romano Tassone, Motivazione, cit..
[31] A. Romano Tassone, Motivazione, cit. 100.
[32] G. Corso, Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., Agg., Milano, 2001, 775 ss. Nel dato normativo risiederebbe peraltro una conferma della prevalenza della già vista visione formalistica della decisione, in una con quella oggettivistica, nella misura in cui il contenuto della motivazione è ancorato in modo oggettivo alle risultanze dell’istruttoria e non già ad aspetti psicologici (così G. Corso, Motivazione degli atti amministrativi e legittimazione del potere negli scritti di Antonio Romano Tassone, in Dir. amm., 2014, pp. 463 ss. rileggendo gli scritti dell’A., come ricordato in G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Dir. proc. amm., 4, 2017, 1235 ss.). I contributi dottrinali sul tema sono moltissimi e confermano la centralità della motivazione nell’azione amministrativa. Oltre a quelli citati nelle note precedenti, A. Andreani, Idee per un saggio sulla motivazione obbligatoria dei provvedimenti amministrativi, in Dir. amm., 1993, 1, 9 ss.; F. Cardarelli, La motivazione del provvedimento, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 374 ss.; A. Cassatella, Il dovere di motivazione nell’attività amministrativa, Padova, 2013; A. Cioffi, La motivazione del provvedimento amministrativo, in A. Romano (a cura di) L’azione amministrativa, cit., 199 ss.; M. De Benedetto, Motivazione dell’atto amministrativo, in EG Agg., XXIII, Roma, 2003, 1; B. Marchetti, Il principio di motivazione, in M. Renna, F. Saitta (a cura di) Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 521 ss.; B.G. Mattarella, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di) Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo generale, I, Milano, 2000, 769 ss.; M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in Dir. proc. amm., 3, 2017, 894 ss.; M.C. Romano, L’esclusione della motivazione per gli atti normativi e per gli atti a contenuto generale, in A. Romano (a cura di) L’azione amministrativa, cit., 231 ss.; A. Romano Tassone, Motivazione (dir. amm.), in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, 2006, 3741 ss.; A. Scarciglia, La motivazione dell’atto amministrativo, Milano, 1999; G. Tropea, Motivazione del provvedimento e giudizio sul rapporto, in Dir. proc. amm., 2017, 1235 ss.. Più di recente si vedano i contributi monografici M.S. Bonomi, La motivazione dell’atto amministrativo: dalla disciplina generale alle regole speciali, Roma, 2020, V. Cocozza, Contributo a uno studio sulla motivazione del provvedimento come essenza della funzione amministrativa, Napoli, 2020. Per più ampi riferimenti si veda, se si vuole, F. Aperio Bella, La motivazione del provvedimento in M.A. Sandulli (a cura di) Princìpi e regole dell’azione amministrativa, 3 ed., Milano, 2020, 313 ss.
[33] F. Cardarelli, 397 ss., B. Marchetti, 521 ss. V. Cocozza, 158. In giurisprudenza, il carattere polifunzionale della motivazione era stato già implicitamente riconosciuto da C. cost. 5 novembre 2010 che, nel vagliare la l.c. di una disposizione che sottraeva i provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriali degli ispettori del lavoro dal rispetto dell’obbligo di motivazione, ne ha affermato l’illegittimità costituzionale per ciò che elusiva di una serie di principi e canoni costituzionali, sub specie “i principi di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa, pure affermati dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, ai quali va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.)”, nonché “altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stesse amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.; sul principio di pubblicità, sentenza n. 104 del 2006, punto 3.2 del Considerato in diritto)” e, da ultimo, “l’esigenza di conoscibilità dell’azione amministrativa, anch’essa intrinseca ai principi di buon andamento e d’imparzialità, esigenza che si realizza proprio attraverso la motivazione, in quanto strumento volto ad esternare le ragioni e il procedimento logico seguiti dall’autorità amministrativa”.
[34] F. Aperio Bella, cit. spec. 320 ss. ove è evidenziato il nesso trilaterale che lega funzione della motivazione, natura dell’istituto e tipologia di invalidità che colpisce il provvedimento assunto in violazione o falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 241/1990.
[35] Così, a seconda delle interpretazioni, la motivazione è ricostruita come funzionale ad attuare il principio di trasparenza (B.G. Mattarella, 872), a tutelare il bene autonomo della conoscenza del cittadino (G. Mannucci, Uno nessuno, cit. 867) e ad affermare la “responsabilità funzionale” dell’amministrazione rispetto alle decisioni assunte (A. Cassatella, 392).
[36] In tal senso, se si è ben compreso, sembra anche convergere la posizione di V. Cocozza, op. cit. che, pur escludeno che la “pretesa alla motivazione” attenga a un bene della vita autonomo rispetto a quello finale (“l’interesse al bene della vita si fonde con la pretesa alla motivazione, essendo quest’ultima l’espressione del modo di svolgimento della funzione che a esso conduce”, 366) finisce con l’individuare comunque una “pretesa a ottenere una motivazione che incorpora il bene della vita”, tutelabile in via autonoma attraverso un’azione di accertamento-adempimento (367).
[37] Per una critica alla “ricorrente notazione” secondo cui l’annullamento dell’atto per vizio di motivazione può essere inutile per il soggetto nel caso in cui l’amministrazione emani nuovamente un provvedimento di identico contenuto ma motivato in modo più adeguato, come anche a quella secondo cui il processo amministrativo non adempirebbe la sua funzione se si esaurisse nella rilevazione del difetto formale V. Cocozza, op. cit., 262 ss. ove, passando per l’analisi dei correttivi proposti dalla giurisprudenza per evitare la reiterazione ad libitum del provvedimento non satisfattivo ma emendato del vizio di motivazione, si evidenzia il possibile valore aggiunto di un giudizio amministrativo sulla motivazione quale “essenza” della funzione.
[38] C. cost., ord. 26 maggio 2015, n. 92 ripresa dalla stessa Corte nella successiva ord. 17 marzo 2017, n. 58 che, più diffusamente, ha affermato, sia pure in forma di obiter “il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della legge n. 241 del 1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti”.
[39] Per dei cenni a tale ricostruzione v., in dottrina L. Ferrara, Motivazione e impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amm. TAR, 2008, 1197 ss. e poi anche F. Cardarelli, op. cit., 425; G. Mannucci, op. ulti, cit. 885-886 e A. Cassatella, 287 ss.. Più di recente, la tesi della nullità è stata sostenuta da V. Cocozza, op. cit., 367 ss. che tuttavia la riconosce solo “per assenza totale di motivazione” e, al più, per il caso di “presenza solo apparente” di motivazione (372).
[40] TAR Calabria, Reggio Calabria, 28 gennaio 2019, n. 47; TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, 10 aprile 2018, n. 3943; TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 26 settembre 2013, n. 2312; Cons. Stato, Sez. V, 16 febbraio 2012, n. 792. Per rintracciare una specularità con il processo, la giurisprudenza ha significativamente enfatizzato, con riferimento alla sentenza corredata da “motivazione radicalmente assente (o meramente apparente)” che il difetto assoluto di motivazione (che non si identifica con la motivazione illogica, contraddittoria, errata, incompleta o sintetica), non solo dà luogo alla relativa nullità (per il combinato disposto degli artt. 88, co. 2, lett. d) e 105, co. 1, c.p.a. anche alla luce del principio processuale di cui all’art. 156, co. 2, c.p.c.. secondo cui la motivazione rappresenta un requisito formale - oltre che sostanziale - indispensabile affinché la sentenza raggiunta il suo scopo) ma a una decisione “abnorme” che “non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato, e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi” (Cons. Stato, ad. plen. 2018, n. 10).
[41] La conclusione della non ascrivibilità del vizio di motivazione al meccanismo non invalidante di cui all’art. 21-octies è ampiamente argomentata, anche alla luce del diritto dell’Unione Europea, in P. Provenzano, I vizi nella forma e nel procedimento amministrativo. Fra diritto interno e diritto dell'Unione Europea, Milano, 2015.
[42] La sentenza distingue i casi in cui il vizio di motivazione sia meramente formale, traducendosi nel “non corretto riepilogo della decisione presa”, da quelli in cui l’inadeguatezza della motivazione rifletta “un vizio sostanziale della funzione (in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto dei presupposti)”. I vizi che alcuni vogliono definire come formali tout court, in realtà, talvolta possono divenire, in relazione alle circostanze del caso concreto, vizi di forma sostanziale, richiedendo così una differenziazione nelle forme di tutela (R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento, cit., 308).
[43] Nel testo si è inteso aggiungere il riferimento al provvedimento non contrastante con gli interessi di alcuno degli amministrati (su cui già Ravà83) a quello al provvedimento inoppugnato al fine di ricomprendere l’ipotesi, invero del tutto residuale, in cui il soggetto amministrato, pur inciso negativamente dal provvedimento, non vi reagisca confidando nella relativa disapplicazione.
[44] Ravà 217.
[45] P. Ravà, 213.
[46] Nel senso della permanenza del potere decidente della p.A. anche durante il corso della causa depongono del resto anche l’art 34, co. 5 c.p.a. sulla cessazione della materia del contendere per “piena soddisfazione” della pretesa del ricorrente nel corso del giudizio, nonché una certa lettura del co. 3 dello stesso articolo, in tutti i casi in cui la non utilità dell’annullamento derivi da una sopravvenienza provvedimentale attribuibile alla p.A. resistente.
[47] G. Virga, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell'interesse alla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato, in Dir. proc. amm., 1993, 529. Resta il tema del regime giuridico cui soggiace l’esercizio del potere che segue il giudicato, potenzialmente diverso, in caso di ius superveniens, da quello applicabile alla convalida. La corretta individuazione del limite alla rilevanza delle sopravvenienze di diritto in sede di esecuzione del giudicato amministrativo ha largamente impegnato dottrina e giurisprudenza e non può essere compiutamente affrontato in questa sede. Per qualche ulteriore riferimento v. infra nota 69.
[48] Così già TAR Veneto, sez. I, 10 giugno 1987, n. 648, in Foro amm., 1988, 1439, con nota di S. D'Alessandro, Obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo ed interesse sostanziale del ricorrente e in Dir. proc. amm. 1989, p. 470 ss., con nota di P. Bartot, La motivazione tra vizio formale e tutela sostanziale in giudizio, in cui il Collegio precisa che “oltre a non apparire assiomatico il collegamento tra l’immutabilità dell’atto impugnato e la pienezza delle garanzie di difesa del cittadino, non vi è in realtà nessun principio che in qualche modo stabilisca che i poteri dell’amministrazione debbano restare paralizzati in dipendenza dell’esercizio da parte dei cittadini dei rimedi di tutela amministrativa e giurisdizionali contro precedenti provvedimenti amministrativi”. In dottrina, la tesi si condensa nell’assunto, già confutato da P. Ravà, 216, che lo stato di diritto e di fatto (invalidità o intervenuta sanatoria) resterebbe cristallizzato ed invariabile al momento in cui il ricorso è stato proposto, e cioè notificato.
[49] In termini, ex multis CGA, 20 aprile 1993, n. 149; TAR Lazio Roma, sez. I, 16 gennaio 2002, n. 398, cit. TAR Molise, 29 gennaio 2003, n. 41 e Cons. Stato, sez. IV, 8 novembre 2005, n. 6220. Naturalmente non sono mancate conclusioni diverse e orientamenti che continuano a sostenere l’illegittimità della motivazione postuma ancorando il divieto alla tutela del buon andamento amministrativo e all’esigenza di una delimitazione dell’indagine giudiziaria (così ad es. Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2011, n. 3882, in Foro amm. CdS, 2011, 6, 2097).
[50] G. Falcon, Questioni sulla validità e sull’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo, in Dir. amm., 2003, ove si mette in discussione la retroattività della convalida confutando l’argomento tradizionale secondo cui, negandole tale carattere, essa finirebbe col realizzare un duplicato del fenomeno della sostituzione. Si argomenta, in punto che, mentre la sostituzione implicherebbe lo svolgimento ex novo del procedimento “per la convalida basta il venire in essere di un singolo atto” (26). La tesi trova un precedente in quelle posizioni intermedie, attente alle posizioni soggettive consolidate del privato destinatario dell'atto e dei terzi, secondo cui la sanatoria in corso di giudizio sarebbe stata possibile, ma la relativa efficacia sanante non avrebbe operato ex tunc proprio là dove vi potesse essere un effetto ablativo su situazioni giuridiche soggettive consolidate e costituzionalmente garantite (L. Acquarone, Attività amministrativa e provvedimenti amministrativi, Genova, 1995, 189). A differenza di quest’ultima posizione, però, nella precedente si conferisce portata generale alla irretroattività della convalida senza distinguere a seconda che essa incorra in giudizio o al di fuori (superando così l’antica obiezione di P. Ravà, 217 di cui si è già detto).
[51] G. Tropea, op. cit. che, nel ritenere sempre ammissibile la convalida del vizio di motivazione come vizio di forma del provvedimento, propone una sotto-distinzione nel caso in cui il vizio di motivazione esprima un vizio della funzione ammettendone la sanatoria in corso di giudizio. Qui la convalida non sarà ammissibile quando, da una valutazione ex post, emerga che la motivazione successiva “altera l’essenza del provvedimento” (il discorso specificamente legato all’utilizzo dello strumento del remand cautelare per sollecitare l’integrazione della motivazione, considerato “tout court ammissibile, salva la dimostrazione che in realtà il vizio di motivazione non era un mero vizio formale”). Viene nondimeno ritagliato un margine di operatività della convalida anche a fronte di vizi sostanziali nei casi in cui “nel contraddittorio fra le parti si accerti la persistente possibilità che l’amministrazione reiteri l’atto munendolo di una argomentazione giustificativa sufficiente ed idonea”. In tal caso, in sostanza, la p.A. dimostrerebbe che il vizio della motivazione non avrebbe in concreto determinato alcuno sviamento, contraddittorietà, vizio di erroneità o difetto dei presupposti. Se ne fa discendere che “ove la motivazione successiva non alteri la sostanza della statuizione…l’effetto eliminatorio [della sentenza di annullamento, n.d.r.] può considerarsi risolutivamente condizionato dalla scelta dell’amministrazione di convalidare la propria precedente determinazione”.
[52] G. Falcon, op. cit. 29 che, per tale via, rintraccia un equilibrio tra potere sanante e tutela delle situazioni soggettive nella misura in cui consente all’interessato “di far valere l’illegittimità del provvedimento per il periodo in cui essa sia esistita”, al fine di ottenere l’“annullamento per gli effetti prodotti prima della convalida”, previa verifica del suo concreto e attuale interesse. La tesi è poi ripresa e sviluppata in G. Mannucci, La convalida del provvedimento, cit. spec. 209 ss.
[53] Così ad esempio V. Cerulli Irelli, op. cit., che ha individuato nella ammissibilità della convalida in corso di giudizio di vizi formali e procedimentali la via maestra “per adattare anche l'esercizio dell'azione di annullamento a strumento di tutela di situazioni sostanziali”, in un momento storico in cui l’ordinamento non conosceva ancora il meccanismo “non invalidante” introdotto con l’art. 21-octies l. n. 241/1990. Letteralmente l’A. affermava “in attesa di una decisiva svolta, sul punto, dell'ordinamento, che riconosca al giudice la possibilità di valutare se vizi di forma o di procedimento abbiano inciso o meno sul contenuto sostanziale del provvedimento (come espressamente prevede l'art. 13-sexies, l. n. 241/1990, come modif. dall' art.4, del d.d.l. in discussione al Senato: A.S. 1281), si presenta come unica possibilità per adattare anche l'esercizio dell'azione di annullamento a strumento di tutela di situazioni sostanziali, quello di ammettere, anche in corso di giudizio, la convalida dell'atto impugnato, illegittimo in qualche sua parte (forma e procedimento) ma fondato nel suo contenuto sostanziale”. Aperture all’integrazione postuma si trovano anche in G. Greco, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 1992, 485, pur con le importanti precisazioni di cui si dirà infra.
[54] A. Zito, L’integrazione in giudizio della motivazione del provvedimento: una questione ancora aperta, in Dir. proc. amm., 1994, 3, 577 ss., spec., 591 ss. sottolineando, tra l’altro, che le impugnazioni per vizi formali non possono essere classificate come inutili e che considerare come “interessi illegittimi” quelli vantati dal ricorrente che, ottenuto un annullamento per vizi formali, ottenga una determinazione diversa da quella in origine adottata per “normale impossibilità per l’amministrazione di reintegrare con efficacia ex tunc il provvedimento annullato” ovvero avvantaggiandosi di “nuovi equilibri politico-amministrativi” (così CGA n. 149/2003, cit.) è errato perché essi si basano su un’affermazione non dimostrata, e cioè che “la non conformità del provvedimento allo schema normativo, dovuta alla presenza di vizi procedurali e formali, sia fattispecie da assumere, non nella norma che disciplina materia della impugnazione e quindi della reazione processuale, bensì in altra norma che instaura una diversa relazione fra l’atto e la sua efficacia”, tale da impedire l’annullamento.
[55] Così Cons. Stato, sez. VI, 19 agosto 2009, n. 4993 e successivamente Id., sez. V, 27 marzo 2013, n. 1808, che, operando ampi richiami alla prima pronuncia, precisa che “se è vero che, secondo le più avanzate puntualizzazioni giurisprudenziali sul tema, “una motivazione incompleta può essere integrata e ricostruita attraverso gli atti del procedimento amministrativo, così come può ipotizzarsi che l’amministrazione convalidi il provvedimento integrandone in un secondo momento la motivazione”, tuttavia, proprio secondo la stessa giurisprudenza, “l’integrazione della motivazione deve pur sempre avvenire da parte dell’amministrazione competente, mediante gli atti del procedimento medesimo o un successivo provvedimento di convalida. Invece, gli argomenti difensivi dedotti nel processo avverso il provvedimento, per non essere inseriti in un procedimento amministrativo, non sono idonei a integrare postumamente la motivazione”. Più di recente Cons. Stato, sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5984, in Foro amm., 2018, 10, 1675.
[56] A. Cassatella, cit., 333.
[57] TRGA Trento, sez. un., 17 maggio 2021, n. 81. Merita precisare che l’inciso riportato nel testo contiene la precisazione del carattere discrezionale del provvedimento la cui motivazione sia stata integrata tramite convalida in quanto l’intero iter argomentativo seguito dal Collegio muove da una netta distinzione tra il giudizio amministrativo vertente su provvedimenti vincolati e quello vertente su provvedimenti discrezionali, al punto che lo stesso “oggetto del giudizio” divergerebbe (“l’oggetto del giudizio amministrativo differisce sensibilmente a seconda che la controversia abbia ad oggetto provvedimenti che sono espressione di poteri discrezionali (come nel caso in esame), ovvero provvedimenti che sono espressione di poteri vincolati”). Nelle parole del Collegio è proprio (e solo?) nel processo avente ad oggetto provvedimenti vincolati, infatti, che si deve registrare “la progressiva evoluzione del processo amministrativo avente ad oggetto provvedimenti autoritativi di natura vincolata nella direzione del giudizio sul rapporto, desumibile non solo dalla disposizione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 … ma anche dalla disposizione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm….Da tali disposizioni si desume che, nei casi di attività vincolata, il giudice amministrativo può ben operare un sindacato teso ad accertare l’effettiva spettanza del bene della vita, …Di converso nei casi di attività discrezionale il giudice amministrativo, se chiamato ad operare un sindacato di legittimità sulla discrezionalità (pura o tecnica) dell’amministrazione, non può sostituirsi ad essa, ma deve limitarsi a svolgere il sindacato dall’esterno, ossia verificando se il potere sia stato correttamente esercitato o meno” così TRGA n. 81/2021 cit., anche richiamando i propri precedenti 19 ottobre 2020, n. 177; e 13 aprile 2017, n. 136).
[58] Si intende far riferimento alla prassi processuale con cui il Giudice amministrativo accompagna la sospensione dell'atto impugnato con l'ordine alla p.A. di riesaminare la situazione alla luce dei motivi di ricorso. In argomento, basti richiamare, oltre allo studio fondamentale di Follieri, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981; F.G. Scoca, Processo cautelare amministrativo e Costituzione, in Dir. proc.amm., 1983; R. Villata, La Corte costituzionale frena bruscamente la tendenza ad ampliare la tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi, in Dir. proc. amm., 1991, 619 ss.; M.A. Sandulli (a cura di) Le nuove frontiere del giudice amministrativo tra tutela cautelare ante causam e confini della giurisdizione esclusiva, Milano, 2004; Id., I principi costituzionali e comunitari in materia di giurisdizione amministrativa, in Foro amm. TAR, 2009; Id., La fase cautelare, in Dir. proc. amm., 4, 2010.
[59] TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 14 giugno 2021, n. 7056.
[60] Si legge in sentenza che il provvedimento interveniva a integrare e confermare, “per le motivazioni originariamente formulate con le ulteriori integrazioni di cui in premessa”, il diniego originario e “confermandone, ora per allora in conseguenza del presente provvedimento, l’efficacia, gli effetti e le conseguenze” (TAR Lazio n. 7056/2021, cit.).
[61] Tema che, come acutamente osservato, riflette più in generale i rapporti tra giudice amministrativo e pubblica amministrazione (A. Travi,Misure cautelari di contenuto positivo e rapporti fra giudice amministrativo e pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 1, 1997, 168 ss.).
[62] Da ultimo TAR Napoli, sez. V, 9 giugno 2021, n. 3909, in cui si afferma che “il provvedimento adottato all'esito del "remand", lungi dal costituire una mera integrazione della motivazione del precedente, si configura come espressione di nuove, autonome, scelte discrezionali dell'Amministrazione, in presenza delle quali non può non farsi applicazione del tradizionale e consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui la sostituzione dell'atto impugnato a mezzo di un nuovo provvedimento (che non sia meramente confermativo del precedente) rende improcedibile il ricorso (T.A.R. Lombardia - Milano, sez. I, 17/05/2013, n.1326)”. In termini, ex multis, TAR Lazio, sez. II-bis, 2014, 7 aprile 2014, n. 3758, secondo cui “essendo il remand una tecnica di tutela cautelare che si caratterizza proprio per rimettere in gioco l’assetto di interessi definiti con l’atto gravato, restituendo, dunque, all’Amministrazione l’intero potere decisionale iniziale, senza tuttavia pregiudicarne il risultato finale (…) il provvedimento sopravvenuto deve essere inteso come espressione dell’esercizio di funzione amministrativa e non di mera attività esecutiva della pronuncia giurisdizionale (cfr., tra le altre, TAR Lazio, Roma, Sez. I quater, 2 ottobre 2007, n. 9660; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, sent. 21 settembre 2004, n. 6570; da ultimo, TAR Lazio, Sez. II quater, sentenze 2 luglio 2007, nn. 5890 e 5891)”.
[63] Tra i tanti, TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 27 luglio 2015, n. 10245, secondo cui l'istituto del c.d. "accoglimento della domanda cautelare ai fini del riesame", “determina solo l'effetto di obbligare la Pubblica amministrazione a rideterminarsi formalmente, ma lascia intatta la sfera di autonomia sostanziale e la responsabilità della stessa, per cui non dà luogo ad alcuna inibitoria, consentendo l'adozione di una nuova decisione confermativa ovvero di una determinazione comunque non satisfattiva del privato” (in senso analogo, Cons. St. sez. IV, 14 maggio 2014, n. 2475 e TAR Calabria, Reggio Calabria, 11 settembre 2017, n. 762).
prassi processuale con cui il Giudice amministrativo accompagna la sospensione, nelle more, dell'atto impugnato con l'ordine all'Amministrazione di riesaminare la situazione alla luce dei motivi di ricorso
[64] Così ex multis Cons. Stato, sez. V, 9 giugno 2008, n. 2838, pur resa in un caso di sospensione del provvedimento negativo, in cui si legge “come autorevolmente precisato dalla stessa Adunanza Plenaria di questo Consiglio (27 febbraio 2003, n. 3), l’improcedibilità del ricorso può discendere solo dall’adozione da parte dell’Amministrazione di provvedimenti diversi ed ulteriori rispetto a quelli imposti dalla necessità di dare esecuzione alla misura cautelare; per contro, la mera esecuzione di un provvedimento cautelare, non presentando profili di discrezionalità nell’an, non comporta il venir meno della res litigiosa”. Con specifico riferimento al confronto tra le tecniche del remand cautelare e dell’ordinanza a contenuto positivo v. R. Garofoli, La tutela cautelare degli interessi negativi. Le tecniche del remand e dell’ordinanza a contenuto positivo alla luce del rinnovato quadro normativo, in Dir. proc. amm., 2002, 4, 857 ss.
[65] Vedi infatti TAR Lazio, Roma, sez. I-bis, 20 gennaio 2017, n. 1067, in cui si riconosce che, secondo l’orientamento da ultimo menzionato nel testo “in virtù del principio di strumentalità e del carattere di interinalità delle misure cautelari, l’esecuzione della ordinanza di sospensione di un provvedimento negativo non costituisce attività di autotutela e quindi non comporta l'improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse o la cessazione della materia del contendere – a seconda che il nuovo atto sia sfavorevole o piuttosto favorevole all’istante – trattandosi di determinazione adottata non spontaneamente, ma in doverosa esecuzione all'ordinanza di sospensione degli effetti (giuridici) del provvedimento impugnato ed in via meramente provvisoria fino alla pubblicazione della sentenza di merito”. Il Collegio aggiunge però che “Tale principio, formulato con riferimento agli atti adottati in attuazione di misure cautelari di tipo positivo o sostitutorie, il cui ambito di attuazione è completamente definito dalla portata conformativa del giudicato cautelare (Cons. St., Sez. IV n. 253 del 9.1.2001), mal si attaglia tuttavia alla diversa ipotesi dell’esecuzione delle ordinanze emesse "ai fini del riesame"”.
[66] Una apertura in tal senso in Cons. Stato, n. 2838/2008 cit., che pronunciandosi in un caso del tutto peculiare di remand in appello, afferma che “l’improcedibilità del ricorso può discendere solo dall’adozione da parte dell’Amministrazione di provvedimenti diversi ed ulteriori rispetto a quelli imposti dalla necessità di dare esecuzione alla misura cautelare; per contro, la mera esecuzione di un provvedimento cautelare, non presentando profili di discrezionalità nell’an, non comporta il venir meno della res litigiosa. Tanto più detto orientamento deve valere nella presente fattispecie in cui il riesame del provvedimento impugnato, con conferma dell’esclusione dalla gara, è intervenuto in sede di appello avverso la sentenza del TAR, per cui l’Impresa ricorrente non avrebbe potuto presentare neppure motivi aggiunti avverso la conferma dell’esclusione ai sensi dell’art. 21 L. 6.12.1971 n.1034, come modificato dall’art. 1 L. 21.7.2000 n.205, trattandosi di facoltà esercitabile solo davanti al giudice di 1° grado”. In termini diversi il più di recente TAR Lazio, Roma, sez. II-ter, 21 ottobre 2014, n. 10574 in cui il Collegio, pur ritagliando uno spazio per l’ipotesi in cui il nuovo atto assunto a valle di remand non costituisca “nuova espressione di una funzione amministrativa” essendo “meramente confermativo”, poco dopo precisa che quando la p.A. “sulla scorta di un rinnovato esame valutativo, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento, il successivo provvedimento ha valore di atto di conferma e non di atto meramente confermativo, con la conseguenza che anche in tal caso deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal provvedimento di conferma; infatti, il provvedimento di conferma, anche se frutto di un riesame non spontaneo ma indotto da un'ordinanza cautelare del giudice amministrativo, riflette nuove valutazioni dell'Amministrazione e implica il definitivo superamento di quelle poste a base del provvedimento confermato, sicché il ricorrente non ha più interesse alla coltivazione del gravame proposto avverso tale provvedimento, non potendo conseguire alcuna utilità da un eventuale esito favorevole dello stesso”.
[67] Diverso sarebbe il caso in cui si accedesse alla tesi della mera caducazione del provvedimento successivo per vizi propri di quello presupposto. Si tratta dello schema del c.d. annullamento con effetti caducanti sul provvedimento successivo, che, però, non consentirebbe di contestare la convalida per vizi propri.
[68] Il richiamo pare equivoco in quando non è chiaro in che termini il meccanismo di cui al nuovo 10-bis dovrebbe ricevere attuazione anche nel caso di convalida per difetto di motivazione “per esigenze sistematiche (e per evitare facili aggiramenti)”. Se, infatti, si condivida con il Collegio che la disposizione, nella formulazione risultante dalle modifiche apportate dal più volte citato d.l. n. 76/2020, “impone alla pubblica amministrazione di esaminare l’affare nella sua interezza ‒ già nella fase del procedimento, sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati” (così pt. 8.4 sentenza annotata) non si comprende come tale preclusione procedimentale, imponendo che tutti i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza emergenti dall'istruttoria siano illustrati nel provvedimento “così adottato” (cioè adottato a valle dell’interlocuzione prevista dall’art. 10-bis) tanto da non poter essere esplicitati ex post, nemmeno in sede di riedizione del potere a seguito annullamento giurisdizionale, possa combinarsi con una ricostruzione che ammette la convalida del vizio di motivazione che, per antonomasia, osta all’annullamento giurisdizionale per il vizio convalidato oltre a non presupporre un’istanza di parte.
[69] In sede di replica al tradizionale argomento che l’annullamento del provvedimento per vizio di motivazione (o altro vizio “formale) non erode il potere della p.A. di riemanare un provvedimento con dispositivo identico a quello annullato, esponendo il ricorrente al riesercizio del potere (pur a giudizio concluso) e ai conseguenti oneri in caso di contestazione, si oppongono una serie di, altrettanto tradizionali, contro-argomentazioni in ordine all’“effetto traumatico e dirompente dell’annullamento” cui il ricorrente può legittimamente aspirare proponendo la sola domanda di annullamento (riconosciuto dalla stessa dottrina che promuove la convergenza in un unico giudizio dell’intero conflitto sostanziale: G. Greco, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, cit. qui 492); nonché, con specifico riferimento al vizio di motivazione, che esso potrebbe celare un effettivo errore nell'iter formativo della volizione provvedimentale, con ciò non escludendo che “una volta resa edotta e consapevole, attraverso l'annullamento giurisdizionale, del proprio errore - l'amministrazione rinunci spontaneamente a reiterare il provvedimento caducato” (A. Romano Tassone, Motivazione, cit., 402-403; nella stessa direzione M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, spec. 234-235). Sul piano delle regole applicabili al nuovo esercizio del potere, la circostanza che il nuovo procedimento venga avviato sotto l’egida di una normativa sopravvenuta e di un contesto fattuale evoluto, potrebbe contribuire al raggiungimento di un diverso esito provvedimentale. Il nuovo esercizio del potere conseguente a un giudicato che lasci impregiudicati “tratti liberi dell’azione amministrativa” dovrà infatti fondarsi sui presupposti fattuali e normativi sopravvenuti (ex multis Cons. St., ad. plen n. 11/2016) che potrebbero, in astratto, risolversi in un vantaggio per il ricorrente (in dottrina, sull’individuazione della disciplina applicabile al potere amministrativo intervenuto dopo l’annullamento del provvedimento v. C.E. Gallo, Giudicato amministrativo e successione di leggi nel tempo, in Foro it., 1980, qui 103 e M. Clarich, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 1998, qui 545; F. Francario, Osservazioni in tema di giudicato amministrativo e legge interpretativa, in Dir. proc. amm., 1995, 283). Anche tali contro-argomentazioni non hanno mancato di sollevare repliche e contro-repliche (su cui supra, nota 54). Il dibattito potrebbe peraltro essere completamente superato accedendo alla tesi della preclusione procedimentale che, senza attribuire al giudicato di annullamento un’efficacia preclusiva più ampia, offre una alternativa ricostruttiva alla tesi secondo la quale dopo l’annullamento l’amministrazione può liberamente esercitare il proprio inesauribile potere in relazione a tutti gli aspetti del rapporto non interessati dall’accertamento giurisdizionale (in questa direzione M. Trimarchi, L’inesauribilità, cit. 230 ss., che, rivisitando la posizione di M. Clarich, Giudicato e potere, cit., configura il potere amministrativo come potere che, almeno in linea di principio, si esaurisce con il suo esercizio, rintracciando una base giuridica della propria ricostruzione proprio nell’art. 3 l. n. 21/1990, che, nella lettura dell’A., imporrebbe di indicare in motivazione tutti i presupposti e le ragioni di diritto, eventualmente concorrenti, sui quali si fonda la scelta effettuata in relazione alle risultanze dell’istruttoria; e non soltanto quelli sufficienti a giustificarla).
[70] Una dimostrazione emblematica del ruolo giocato dalla domanda di parte nel processo amministrativo si ricava dall’applicazione dell’art. 34, co. 3 c.p.a. fatta dal Cons. Stato, ad. plen. 13 aprile 2015, n. 4 su cui, se si vuole, F. Aperio Bella, Principio della domanda e accertamento dell’interesse a ricorrere da parte del giudice amministrativo, in S. Toschei (a cura di) L’attività Nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2016, 672 ss.
[71] In tal senso sembra potersi leggere V. Cocozza, 313.
[72] Spunti in questa direzione in L. Tarantino, Wittgenstein, cit., 949, il quale ritiene di ammettere la motivazione successiva solo nei casi di diritto soggettivo vantato dal privato o di interesse pretensivo illegittimamente colpito. Secondo l'A., infatti, nel caso del diniego illegittimo dell'accesso, sarebbe configurabile una motivazione successiva, posto che l'annullamento dell'illegittimo diniego non si potrebbe tradurre nell'accertamento di un diritto d'accesso comunque inesistente. Anche nel caso in cui sia fatto valere in giudizio un interesse pretensivo, la motivazione successiva sarebbe utile in quanto contribuirebbe al formarsi di un giudicato più ampio e vincolante per l'amministrazione. Diversamente, nel caso di interessi oppositivi e di procedimenti d'ufficio, non sarebbe ammissibile la motivazione successiva in quanto l'esercizio del potere ablativo-sanzionatorio deve svolgersi prima della fase giurisdizionale, sia per il venir meno del potere dell'amministrazione dopo il primo esercizio, sia perché nei casi di provvedimenti positivi sfavorevoli deve essere rispettata la logica dell'atto formale, visto che la giustificazione non può essere data quando la sfera del cittadino sia già stato vulnerata dal provvedimento. Tale tesi riprende da un lato le elaborazioni di M. Clarich sul termine del procedimento, dall'altro quelle di F. Ledda sulle ricadute del diverso regime degli interessi oppositivi e pretesivi sulla problematica della motivazione successiva (v. ad es. F. Ledda, Intervento, in Aspetti e problemi dell'esercizio del potere di sostituzione nei confronti dell'amministrazione locale, Atti del convegno di studi amministrativi, Cagliari, 19-20 dicembre 1980, Milano, 87).
[73] F. Ledda, Elogio della forma scritto da un anticonformista, in Foro. amm., 2000, 3449, proprio in riferimento all’orientamento che ammette l’integrazione in giudizio della motivazione.
[74] Non solo la giurisprudenza è granitica nell’affermare che il termine a conclusione del procedimento ex art. 2 l. n. 241/1990 ha carattere ordinatorio (ex multis Cons. Stato, sez.VI, 10 dicembre 2010, n. 8371), ma tende a negare la perentorietà di tutte le normative speciali che introducono “termini massimi” a conclusione del procedimento (si pensi alla definizione del procedimento di autorizzazione unica per la costruzione di impianti a energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili ex art. 12, co. del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387) ritenendo si verta in ipotesi di “assenza di espresse previsioni testuali che colleghino uno specifico effetto preclusivo all’inutile decorso del termine” (TAR Puglia, Lecce, sez. I, 28 gennaio 2013, n. 209) e ciò anche nel caso di procedimenti avviati d’ufficio, sub specie sanzionatori (ad es., per l’affermazione che il potere dell’amministrazione di ingiungere l’indennità a fronte dell’abuso ex artt. 1 e 18 l. 24 novembre 1981, n. 689 è inesauribile salvo espresse e puntuali previsioni decadenziali v. Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre 2013, n. 5615).
[75] Emblematico il caso del parere vincolante della soprintendenza, da rendersi “entro il termine perentorio di novanta giorni” ai sensi dei commi 4 e 5 dell’art. 167 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, la cui perentorietà è smentita in giurisprudenza (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 26 febbraio 2013, n. 1131 e già TAR Lazio, Roma, sez. I, 10 settembre 1990, n. 734, per ulteriori riferimenti alla dottrina e alla giurisprudenza si rinvia a M. Trimarchi, L’inesauribilità, op cit., spec. 61 ss.)
[76] Ci si riferisce evidentemente al disposto dell’art. 2, co. 8-bis come risultante dal c.d. semplificazioni n. 76/2020 convertito in legge n. 120/2020.
[77] Vedi però le obiezioni della dottrina citata supra nota 50.
[78] La sentenza afferma infatti che “La decorrenza ex tunc è connaturale alla funzione della convalida di eliminare gli effetti del vizio con un provvedimento nuovo ed autonomo” e che “La retroattività della convalida trova tuttavia un importante limite nelle ipotesi in cui l’esercizio del potere sia sottoposto ad un termine perentorio, scaduto il quale anche il potere di convalida viene necessariamente meno”. Una apertura nella direzione della risarcibilità del danno cagionato dal provvedimento oggetto di convalida si trovava invece nella celebre pronuncia TAR Lazio, Sez. I, 16 gennaio 2002, n. 398, cit., che, che, a suffragio della ammissibilità della convalida in corso di giudizio, aveva fatto ricorso all’esigenza di riconoscere alla p.A. che avesse riscontrato (anche in virtù delle censure sollevate in giudizio) un vizio di legittimità del proprio operato di porvi rimedio in corso di processo “allo scopo di limitare i possibili danni per l'erario” derivanti da una eventuale condanna al risarcimento. Rappresentando l’esigenza “di limitare” il danno tramite la convalida non si pretende di eliminarlo: non pare infatti che una convalida possa eliminare dal mondo giuridico il fatto storico che, per un certo tempo, un provvedimento illegittimo ha prodotto i suoi effetti (eventualmente forieri di danno risarcibile). In tale ottica si muovono del resto le ricostruzioni dottrinali della convalida come avente effetti ex nunc. Contra come noto la dottrina più risalente P. Ravà, 220.
[79] Per un apprezzamento del ricorso alla combinazione di ordinanze propulsive e motivi aggiunti quale strumento di accrescimento dell’effetto conformativo delle pronunce del g.a. v. M.A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo, in Ques. giust., 1/2021, 38 ss., spec. 48.
[80] Si è già visto che lo strumento messo a disposizione dall’ordinamento per impugnare provvedimenti sopravvenuti in corso di giudizio è quello dei motivi aggiunti (“impropri”) ed è noto che la relativa presentazione impone il versamento di un nuovo contributo unificato. Solo aderendo a una lettura progredita della normativa di riferimento, proposta dagli interpreti sulla scorta delle evoluzioni della giurisprudenza eurounitaria (CGUE 6 ottobre 2015, n. 61 resa nella causa C-61/14), ma non compiutamente seguita dalla giurisprudenza interna (Cass. civ. sez. trib., 27 ottobre 2020, nn. 23528 e 23530), si potrebbe ritenere esentata dall’assolvimento dell’onere contributivo l’impugnativa avente ad oggetto un provvedimento di convalida del vizio di motivazione intervenuto in corso di giudizio (G. Taglianetti, Considerazioni in tema di motivi aggiunti e contributo unificato nel processo amministrativo. Come dare un senso compiuto al criterio del «considerevole ampliamento dell’oggetto della controversia già pendente», in federalismi.it, n. 6/2019). L’interpretazione prevalente continua nondimeno a preservare le esigenze di conservazione dei mezzi giuridici sottese all’ammissibilità di interventi conservativi di provvedimenti sub iudice, a detrimento di quelle di effettività della tutela giurisdizionale. In dottrina, sulla pesante incidenza delle misure economiche di accesso al processo sull’esercizio del diritto di difesa v. M.A. Sandulli, A. Carbone, Misure economiche di deflazione del contenzioso, in Libro dell'anno del Diritto 2015, Roma.
[81] Da tempo la giurisprudenza ammette che il principio preclusivo di “esaurimento della discrezionalità” possa essere anticipato già nella fase di cognizione attraverso la richiesta di chiarimenti o l’emissione di pronunce interinali. In riferimento a tale ultima ipotesi, per un commento a una delle prime pronunce che ha anticipato alla fase di cognizione quella tesi in base alla quale il principio di preclusione si avrebbe per l'amministrazione dopo il giudicato, con la conseguenza che essa sarebbe tenuta in sede di esecuzione della sentenza ad esaminare la pratica nella sua interezza (non potendo far valere profili sfavorevoli non ancora esaminati), estendendo il principio preclusivo all'esito di una pronuncia interinale v. G. De Giorgi Cezzi, Sulla «inesauribilità» del potere amministrativo, nota a TAR Lecce, Sez. I, 7 febbraio 2002, n. 842, in Urb. e app., 955, ss.. Per una completa perimetrazione del “dogma” dell’inesauribilità del potere amministrativo M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo, cit.
[82] Sia consentito rinviare a F. Aperio Bella, L’innesto di regole del processo amministrativo di altri ordinamenti. Un possibile approccio alla comparazione, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2/2019, 227 ss., spec. 262.
[83] Una posizione più decisa in punto di spese potrebbe forse ricavarsi dall’applicazione della regola della c.d. “soccombenza virtuale”, già enunciata in caso di cessazione della materia del contendere, secondo cui il giudice deve comunque pronunciarsi sulle spese, individuando in via virtuale la soccombenza “in base ad una ricognizione della ‘normale’ probabilità di accoglimento della pretesa della parte su criteri di verosimiglianza o su indagine sommaria di delibazione del merito” (da ultimo CGA, 1 giugno 2020, n. 369). Poiché la stessa adozione del provvedimento di convalida attesta la verosimiglianza dell’accoglimento della pretesa originariamente fatta valere, occorrerebbe porre sempre a carico della p.A. quanto meno i costi sostenuti per la proposizione del ricorso introduttivo, compreso il pagamento del contributo unificato.
[84] Resta vivo il monito di autorevole dottrina secondo cui “Un sistema di giustizia amministrativa ben congegnato ed efficiente è infatti una delle condizioni essenziali per l’esistenza di un reggimento politico libero, non potendo un regime di libertà esistere se non là dove l’azione della pubblica amministrazione sia governata dal principio della legalità, e dove l’osservanza di tale principio venga garantita da giudici indipendenti e forniti di strumenti adeguati” A.M. Sandulli, La giustizia nell’Amministrazione, in Amm. Civ., 1961, 159-168, oggi in Scritti giuridici, V, Napoli, 1990, 497 ss.
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