ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ponti versus muri, o muri e ponti. 5) Il ponte fragile della ragione (Appunti sull’obbligo vaccinale)
di Marco Dell’Utri
[Per conoscere e consultare tutti i contributi sviluppati sul tema,
si veda l'Editoriale]
La relazione dialettica tra sicurezza e libertà rappresenta un elemento costitutivo dell’idea moderna di politica. Ed è una relazione strettamente legata al dibattito sui fondamenti del potere, polarizzato nella contrapposizione tra razionalismo e irrazionalismo politico. Si tratta di un contrasto che la natura stessa della vicenda umana rende inevitabilmente ricorrente, e che ha più di recente assunto i volti spaventosi della tecnicizzazione totale dell’esistenza e, all’opposto, del rifiuto pregiudiziale di ogni tentativo di spiegazione ragionevole, sensata e comunicabile della realtà. L’esperienza costituzionale del nostro paese tentò di esorcizzare il rischio di quelle esasperazioni attraverso il riconoscimento del valore del pluralismo, della discorsività della ragione pubblica e della solidarietà sociale come comune denominatore etico ed emotivo. Nel solco di quei principi chiede di essere affrontato l’odierno dibattito tra fautori ed oppositori dell’obbligo vaccinale in funzione di rimedio alla minaccia epidemica. Ed è un ritorno che interroga ciascuno sul significato della consapevole assunzione della responsabilità dell’altro o, tutto al contrario, dell’attesa impotente, e dunque del rassegnato abbandono alle oscure forze del destino.
Sommario: 1. Politica e cultura - 2. Vaccinazione, conflitto sociale e senso dello stato - 3. Assonanze hobbesiane - 4. La tragica parabola del ‘dio mortale’ - 5. La Costituzione ‘presa sul serio’ - 6. Tecnica, razionalità scientifica e ragione discorsiva - 7. Dibattito politico e parametri di costituzionalità - 8. Responsabilità e destino.
1. Politica e cultura
A ridosso degli anni della guerra, tra le rovine di un paese disastrato e diviso, Piero Calamandrei veniva progettando, del tessuto della società italiana logorato da vent’anni di dittatura e dalla tragedia del conflitto, il disegno di un paziente lavoro di rigenerazione.
Si trattava di rianimare, sul piano civile e culturale, e in aperta polemica con le denunciate astrattezze dell’idealistica ‘religione’ crociana della libertà, i fili concreti delle ragioni della solidarietà sociale, nel solco di quella che (ispirata dalle pagine del ‘Socialismo liberale’ di Carlo Rosselli) Guido Calogero e Aldo Capitini andavano elaborando come l’anima del pensiero liberalsocialista.
A un simile compito, Calamandrei s’era accinto attraverso la voce di una tra le più importanti e significative riviste di cultura dell’epoca, ‘Il Ponte’, che lo stesso Calamandrei aveva direttamente concepito e fondato nel vivo di quegli anni.
Alla scelta del nome (il ‘Ponte’) Calamandrei aveva affidato, simbolicamente, l’evocazione del senso della ricostruzione dell’unità morale del popolo italiano dopo gli anni della profonda crisi e della disgregazione delle coscienze; un tempo che aveva condotto, secondo il giudizio di Calamandrei, “a far considerare le attività spirituali, invece che come riflesso di un’unica ispirazione morale, come valori isolati e spesso contraddittori, in una scissione sempre più profonda tra l’intelletto e il sentimento, tra il dovere e l’utilità, tra il pensiero e l’azione, tra le parole e i fatti”.[1]
Occorreva, dunque, rinnovare “in tutti i campi la fede nell’uomo, questo senso operoso di fraterna solidarietà umana per cui ciascuno sente rispecchiata nella sua libertà e nella sua dignità la libertà e la dignità di tutti gli altri. […] Se le convinzioni morali contano solo in quanto servono ad impegnare la vita, a dirigere e a promuovere atti in coerenza con esse, gli atti contano solo in quanto sono espressione e testimonianza di convinzione morale sentita come regola di vita”.[2]
Risuonavano, nelle parole di Piero Calamandrei, il rigore morale del giurista, del raffinato cultore del processo e, insieme, la passione civile dell’intellettuale impegnato a risvegliare la ‘fede’ nell’uomo e nel valore collettivo e politico della sua opera; del suo lavoro materiale (proprio lo studio dell’economia rappresenterà, per le pagine del ‘Ponte’, una delle novità di più rilevante significato nel contesto di un’impresa di matrice umanistica), e di quello intellettuale: dell’elaborazione culturale come energia, spinta morale, forza di promozione e di cambiamento della società tutta.
Anche Norberto Bobbio - che tra il 1951 e il 1955 era venuto raccogliendo i testi poi riuniti in ‘Politica e cultura’ - volle testimoniare il valore e il significato dell’iniziativa del ‘Ponte’ a distanza di trent’anni dalla sua nascita: “Quanta acqua è passata sotto quel ponte! E l’omino col badile sulle spalle è sempre lì, non è ancora riuscito a giungere dall’altra parte. Ma il ponte costruito in fretta con alcune assi trovate fra le rovine della guerra ha resistito. Credo che a Calamandrei l’idea fosse venuta dalla pena per i ponti di Firenze distrutti dai tedeschi in fuga. C’era in questa immagine, dunque, prima di tutto, l’idea che bisognava cominciare a ricostruire ciò che era stato distrutto. Ma in questa immagine c’era anche l’idea che si dovesse dare opera a ricongiungere ciò che era stato violentemente separato, il presente col passato, l’Italia con l’Europa e col mondo. In un’Italia devastata dalla guerra, la costruzione di un ponte, infine, era un’idea di pace (così come la metafora contraria del ‘bruciare i ponti alle proprie spalle’, è una metafora di guerra). Di una pace costruttiva, per attuare la quale non bisognava lasciarsi prendere dalla nostalgia del passato ma contare solo su sé stessi, come l’omino col badile, solo sulle proprie forze. E quando Calamandrei parlava di forze, intendeva quelle forze che una guerra infame non aveva distrutto, anzi aveva ingigantito, le forze morali”.[3]
Negli anni a venire, la sensibilità di Bobbio per il tema dei rapporti tra politica e cultura (sulle cui tracce sarebbe stata in seguito composta, alla fine degli anni ’60, la rassegna del ‘Profilo ideologico del Novecento’) avrebbe assunto le forme di un impegno riflessivo condotto sulla figura dell’intellettuale e sulle sue responsabilità nel mondo contemporaneo: “Viviamo in un’età in cui, fra tanti processi degenerativi […], mi pare che uno dei più preoccupanti […] sia la progressiva deresponsabilizzazione dell’individuo, una volta diventato uomo-massa. […] Mi limito a richiamare la […] frequenza, invadenza, insistenza delle manifestazioni di massa in cui l’individuo perde la propria personalità e si identifica, si perde, si annulla nel gruppo, non parla ma grida, non discorre ma inveisce, non ragiona ma esprime il proprio pensiero nello stile primitivo dello slogan, non agisce ma si agita, e fa gesti ritmici con il braccio teso, che – meraviglia dell’immagine trasmessa con rapidità fulminea da Paese a Paese – appaiono a noi attoniti, nonostante la varietà dei costumi, dei regimi e delle civiltà, eguali, perfettamente eguali in tutto il mondo. L’etica di gruppo prevale sull’etica individuale: intendo l’etica secondo cui la mia azione è imputabile al gruppo di cui faccio parte e solo il gruppo, quindi, qualunque azione compia, anche la più efferata, e che io personalmente non condivido, ne è il responsabile”. Da qui il passaggio sulla figura dell’intellettuale: “Intellettuale e massa sono due termini incompatibili: esiste l’uomo-massa, la massa anonima, amorfa, spersonalizzata, sempre più moralmente e politicamente degradata, delle grandi città, l’edilizia di massa, che ha reso tutte le città del mondo uguali […]. Non esiste, non può esistere, l’uomo di cultura di massa. O se esiste, e purtroppo esiste, nessuno di noi sarebbe disposto ad additarlo ad esempio. Il dire che non esiste, e non può esistere, l’intellettuale-massa, significa che per nessun altro vale il principio della responsabilità, intendo della responsabilità individuale, quanto per chi si assume il compito ingrato, difficile ed esposto continuamente al rischio dell’incomprensione o del fallimento, di esercitare la propria intelligenza per muovere e smuovere l’intelligenza altrui”.[4]
Individuato nella ‘politica della cultura’ il territorio in cui si manifesta ed esprime l’azione e la responsabilità ‘politica’ dell’intellettuale, Bobbio definisce quell’espressione (‘politica della cultura’) come “un determinato modo di intendere il rapporto fra politica e cultura, e quindi la funzione degli intellettuali, perché ha un suo modo specifico di intendere la politica e di delimitare la sfera della politica (intendo la politica ordinaria) e rispettivamente della cultura, che ha, deve avere, la sua politica […]. La politica non è tutto. Chi crede che la politica sia tutto, come crede l’uomo del ‘tutto o niente’, è già sulla via della politicizzazione o statalizzazione integrale della vita in cui consiste lo Stato totalitario. […] Solo chi crede che la politica non sia tutto giunge a convincersi che la cultura svolge un’azione a lunga scadenza anch’essa politica, ma di una politica diversa. La politica ordinaria […] è la sfera dei rapporti umani in cui si esercita la volontà di potenza, anche se coloro che la esercitano credono che la loro potenza – beninteso non quella degli altri – sia a fin di bene.[…] Solo chi crede in un’altra storia – vi crede perché la vede correre parallelamente alla storia della volontà di potenza -, può concepire un compito della cultura diverso da quello di servire i potenti per renderli più potenti, o da quello ugualmente sterile di appartarsi e di parlare con sé stesso”.[5]
Nella preservazione della libertà del dialogo e delle sue stesse condizioni di possibilità - e dunque nell’impegno a garantirne la difesa, Bobbio veniva quindi individuando il principio della responsabilità ‘politica’ dell’intellettuale, e, in definitiva, della sua stessa ‘legittimazione’ politica, nel contesto di una strutturazione istituzionale di tipo democratico: il contributo che l’uomo di cultura, e la cultura stessa, avrebbe infine assicurato alla difesa e allo sviluppo delle ragioni dell’uomo nel suo rapporto con la ‘città’
2. Vaccinazione, conflitto sociale e senso dello stato
L’idea che la voce dell’uomo di cultura possa o debba contribuire a rianimare le ragioni o il significato dei legami civili e politici delle nostre società assume un suo particolare valore in questi tempi di dolorosa meditazione collettiva sui temi ‘eterni’ della malattia e della morte come fatti sociali di quotidiana ricorrenza.
In un testo composto poche settimane orsono per le pagine del Corriere della Sera, Emanuele Trevi (intellettuale e scrittore tra quelli dotati di maggiore talento delle nostre più giovani generazioni) ha provato a ricapitolare il senso di impotenza che accompagna la convivenza civile smarrita nel conflitto insorto sulla disponibilità al vaccino contro il Covid-19 e sulla legittimità del c.d. green pass. [6]
Scrive Trevi: “Dovessi campare mille anni, leggendo e analizzando una per una le argomentazioni contro i vaccini e contro quel loro necessario complemento che sono i green pass, non riuscirei ad assimilare nemmeno un minimo frammento di quella maniera di pensare e di comportarsi. […] Ci vedo all’opera un’intelligenza, sarebbe meglio dire una parodia dell’intelligenza, priva di empatia […]. Sui due fatti centrali potremmo essere tutti d’accordo: i vaccini sono uno strumento ancora lontano dalla perfezione, non garantendo l’immunità in modo totale; e i green pass non andranno impiegati un giorno più del necessario, perché è vero, l’ombra del controllo pesa su tutte le società e non è certo una cosa da prendere sottogamba. Ma è proprio di fronte a queste constatazioni elementari che il discrimine tra gli esseri umani non è più l’intelligenza, ma l’empatia. Prendiamo il sentimento più elementare e comprensibile: la paura del vaccino. Chi di noi non l’ha provata? Ebbene la finta intelligenza, lasciata sola, è capace di costruire intorno al puro e semplice fatto della paura, che è difficile accettare ed ammettere in quanto tale, tutto un reticolato di motivazioni che possiedono l’apparenza di un ragionamento conseguente e supportato da fatti. È così che ci si condanna a vivere in quello che una grande scrittrice cattolica americana, Flannery O’Connor, ha definito «un mondo che Dio non ha mai creato». L’empatia, tutto al contrario, è una consigliera più prudente e insieme più aperta alle infinite possibilità della vita. Non esige da te che superi la paura del vaccino, non zittisce le tue eventuali preoccupazioni filosofiche sull’opportunità del green pass. Ti suggerisce solo di collegare la tua singola esistenza a ciò che è umano in te come negli altri. E di adottare strumenti imperfetti perché altri, per adesso, non ce ne sono. Perché molti medici possano tornare a occuparsi di tutte le altre patologie necessariamente trascurate, per esempio. Perché sia garantita la possibilità di visitare i malati nei luoghi di cura, per dirne un’altra, che è una parte irrinunciabile dei processi di guarigione. […] Il rischio esistenziale, ovvero la perdita di connessione empatica con l’umano, peserebbe sulla bilancia molto più di un supposto effetto collaterale o di una momentanea perdita di libertà. […] Degno dell’attenzione di un grande romanziere, è uno scenario sociale in cui la mancanza di empatia, di compassione, di rispetto per il sapere autentico si infiltra nelle case, nella cerchia degli affetti, addirittura nelle relazioni d’amore. […] Conosciamo tutti persone che non si sono vaccinate, o che pensano che mostrare il green pass in treno sia un attentato alla Costituzione […] Ogni giorno che passa ci cascano le braccia alla sola idea di discutere con loro. Perché ormai, è inutile che lo neghiamo, le armi della persuasione si sono totalmente spuntate”.
Alla desolazione che accompagna il riscontro dell’appannamento della connessione empatica tra le persone, e dunque alla consapevolezza della progressiva degradazione della qualità della convivenza, segue, tuttavia, nella riflessione dello scrittore, la confessione di un’ultima speranza: “Ma l’esperienza ce lo insegna: noi non togliamo l’affetto a chi si macchia di comportamenti altrettanto incivili, se è possibile: quando mai abbiamo troncato con qualcuno perché guida in modo imprudente, e magari ci beve sopra un paio di bicchieri? Quando mai abbiamo rinunciato a frequentare qualcuno che non fa la raccolta differenziata, o si fa pagare al nero un lavoretto? Per dirla con la Bibbia, non siamo noi i guardiani dei nostri fratelli, e anche se a dirlo era Caino, in questo caso aveva ragione. Sono solo le leggi, e le istituzioni preposte a farle rispettare, che ci possono salvare. La norma è impersonale, e non distingue tra chi la ritiene giusta e chi la ritiene un sopruso. Ci solleva da discussioni, da conflitti, da silenzi addolorati che sono del tutto inutili e rischiano di trascinarsi dietro una specie di Long Covid emotivo, nel quale continueremo a voler bene a persone alle quali non riusciremo a perdonare quello che non hanno fatto, i sentimenti che non hanno provato. Tra tante scalogne inevitabili che la pandemia ha portato con sé, norme limpide e l’autorità necessaria a farle rispettare potrebbero almeno sollevarci dalle spalle l’onere di incarnare – ci mancava solo questa! – un assurdo perbenismo sanitario”.
3. Assonanze hobbesiane
Il lettore vorrà perdonare l’insistita, lunga riproposizione del testo di Emanuele Trevi: si tratta di un esercizio essenziale per comprendere come – ne fosse o meno consapevole – il ragionamento proposto dal nostro scrittore finisca col riscoprire (e dunque rievocare), nei termini di un’esemplare limpidezza, i fondamenti stessi della riflessione condotta, alle soglie dell’età moderna, sulla dimensione propriamente antropologica ed esistenziale della ‘politica’ e dello ‘stato’; un ritorno, dunque, alle radici stesse del concepimento di quelli, per come giunti e consegnatici dagli itinerari della storia.
Nel discorso di Trevi, il processo di dissoluzione della coscienza empatica sembra muovere dai goffi tentativi di mascheramento di una paura ancestrale; di una paura che spinge all’esercizio puramente egoistico dei propri diritti individuali, all’intangibilità del proprio corpo, della propria integrità personale, della propria sfera di libertà, da preservare da ogni indebita forma di limitazione, di intromissione o di controllo. In breve, di una paura destinata ad alimentare pretese insofferenti a qualsivoglia contenimento funzionale all’appagamento di possibili esigenze altrui (qualsiasi contenuto esse abbiano). Una paura per così dire ‘primordiale’, generata dalla consapevolezza di trovarsi nel vivo di un conflitto (vissuto come forma concorrenziale) in cui ‘ne va’ della vita (nel duplice senso della vita puramente biologica o propriamente umana, della zoé o del bios); perché della vita ‘ne va’ nel sottoporsi, o meno, a trattamenti sanitari dal discusso margine di sicurezza, o nel rinunciare, o meno, alla coltivazione dei propri rapporti personali negli ambiti (lavorativi, conviviali, ludici, culturali, sportivi, etc.) in cui la persona trova le occasioni concrete di esplicazione e di compimento.
La superabilità di un conflitto di tale consistenza e proporzioni è indicata, da Trevi, nell’invocazione di un intervento della legge e dello Stato; del carattere impersonale della norma e dell’autorità capace di farla rispettare; di un attore estraneo al conflitto, capace di ergersi al di sopra delle parti, in quanto espressione della collettività che si organizza in istituzione (lo Stato) al fine di esercitare la sua (individualmente non resistibile) forza, per la salvezza stessa di tutti e di ciascuno.
Appaiono sin troppo evidenti le assonanze che accostano il discorso di Emanuele Trevi ai passaggi che scandiscono la descrizione dell’abbandono dello stato di natura e la formazione dello Stato nel Leviatano di Thomas Hobbes: una figura, non a caso sovente richiamata e brandita, a mo’ di denuncia, dagli oppositori delle misure di (non troppo surrettizia) induzione legislativa al vaccino, condotta attraverso l’introduzione delle pesanti limitazioni alla capacità giuridica delle persone implicate dall’obbligo del c.d. green pass.
Il procedimento che accompagna il graduale passaggio dallo stato di natura allo stato civile, in cui è possibile dar luogo alla formazione dello Stato, è propriamente descritto nella progressiva acquisizione della razionale consapevolezza, da parte di ciascuno, del carattere inevitabilmente distruttivo del conflitto permanente; della profezia di fatale annientamento che si annida nella condizione di terrore implicita nell’angoscia di perdere ciò che rappresenta la naturale espressione dell’istinto umano: “il diritto di tutti a tutto”.
Le pagine di Hobbes sono su questo esemplari: la ‘ricerca della pace’, che rappresenta la prima legge naturale e razionale che apre la strada alla costruzione dello Stato, non può aver alcun luogo se i singoli non sono disposti a dismettere le principali ‘cause di contesa’ tra loro, che sono, “in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo, la gloria. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la terza per reputazione. [...] Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo”.[7]
In questa naturale condizione di conflitto, “ognuno è governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici, ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo. Perciò, finché dura questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno”.[8]
Ecco, dunque, l’unica via per la pace: dalla “fondamentale legge di natura che comanda agli uomini di sforzarsi alla pace, deriva questa seconda legge: che un uomo sia disposto, quando anche altri lo sono, per quanto egli penserà necessario per la propria pace e difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e che si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad altri uomini contro di lui. Infatti, finché ogni uomo ritiene questo diritto di fare ciò che gli piace, tutti gli uomini sono nella condizione di guerra. Ma se gli altri uomini non deporranno il loro diritto, come lui, allora non c’è ragione che uno solo si spogli del suo; ciò sarebbe infatti un esporsi alla preda (cosa a cui nessun uomo è vincolato) piuttosto che un disporsi alla pace. Questa è la legge del Vangelo: tutto ciò che tu richiedi che gli altri ti facciano, fallo a loro; e la legge di tutti gli uomini: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris”.[9]
La parola di Hobbes è chiara: il superamento della naturale condizione di paura ancestrale, e il conseguimento della sicurezza indispensabile per la serena conduzione della vita, è possibile solo nella preliminare dismissione della propria pretesa a tutto in una condizione di reciprocità; in assenza di una tale completa reciprocità ‘non c’è ragione che uno solo si spogli del suo; ciò sarebbe infatti un esporsi alla preda’ piuttosto che un disporsi alla pace. Quando tutti avranno dismesso la propria pretesa egoistica e individualistica a tutto, e l’avranno concordemente attribuita a un unico, terzo soggetto (lo Stato), sarà allora superato l’ancestrale, terrifico stato di natura, avendo l’uomo raggiunto lo stato civile in cui il governo politico dei rapporti è in mano a uno solo, lo Stato.[1
4. La tragica parabola del ‘dio mortale’
Il ‘dio mortale’ (lo Stato) che spinge gli uomini a spogliarsi di tutto per la sicurezza di tutti è dunque il simbolo inaugurale della modernità politica: la plastica istituzione del rapporto di proporzionalità inversa tra l’esigenza umana di sicurezza e l’aspirazione (altrettanto umana) alla libertà, un rapporto garantito (non più dall’angoscia generata dall’onnipotenza della divinità, storicamente vicariata dal potere della classe pastorale sacerdotale, ma), dal terrore originato dal potere del nuovo sovrano o, secondo l’alternativa interpretazione foucaultiana, delle catene dei poteri-saperi (politici, economici, scientifici, sociali, culturali) che si stabilizzano (quali nuovi esempi di potere pastorale) come istanze di assoggettamento.
L’intero percorso della riflessione politica moderna può allora verosimilmente sintetizzarsi (assecondando una consapevole semplificazione) nella continua ricerca e nella razionale giustificazione della più adeguata ponderazione di quella misura; nell’individuazione, cioè, di quella proporzione tra restrizione accettabile delle libertà e margine di sicurezza sociale e individuale (a quella limitazione inestricabilmente connesso); o, se si vuole, nell’individuazione di quel punto di equilibrio, tra sicurezza sociale e libertà individuali, compatibile con la conservazione degli assetti di potere consolidati.
Da questa prospettiva, la rilettura della modernità politica attraverso la lente del rapporto tra sicurezza e libertà consente di portare alla luce un’altra significativa dicotomia (a quel rapporto comunque connessa), stavolta legata alla strutturazione propriamente teorica dei fondamenti del potere.
Vuole qui alludersi a quella ricorrente contrapposizione tra l’idea del potere come risultante di una (più o meno allegorica) contrattazione sociale (evidentemente diretta ad affidare agli stessi individui la determinazione dei limiti dei propri diritti di libertà in funzione dei margini di sicurezza concretamente perseguiti), e la figurazione del potere come espressione diretta di un sentimento di appartenenza collettiva, immediatamente suscettibile di dar luogo all’unità di un corpo (non la semplice somma di volontà individuali ma il soggetto di una volontà comune, o di una volontà generale) capace di riconoscersi nella virtù, per lo più irrazionale ed emotiva (propriamente carismatica), di un’autorità o di un capo.
Si inscrivono, variamente combinate nei percorsi così sommariamente tracciati, le esperienze del pensiero contrattualista – che unisce idealmente Thomas Hobbes e John Locke alla stagione del costituzionalismo americano (e solo in parte al discorso contrattualista rousseauiano) – e quelle dell’Illuminismo francese, la cui costitutiva ambiguità, tra le corrispondenze (biograficamente) ‘inglesi’ degli scritti di Voltaire e le visioni ‘olistiche’ di Jean-Jacques Rousseau, troverà modo di esprimersi nell’articolata e complessa esperienza della rivoluzione francese, tra le primitive esaltazioni legate al riconoscimento dei diritti universali dell’uomo, alla successiva stagione del Terrore, del potere personale (tra tutti, del mito robespierriano) e dell’esito autocratico dell’età napoleonica.
Pure si addice, a questa elementare ricapitolazione delle forme moderne del potere politico consegnate alla riflessione dello storico, la contrapposizione tra l’idea della legittimità del potere fondato sul modello ‘legale razionale’, e quella del potere di fonte ‘carismatica’, alle quali Max Weber assocerà l’indicazione del c.d. potere legittimato dalla ‘tradizione’, più vicino, per sua natura, agli schemi e alle consuetudini della premodernità.
Che, nello sviluppo storico dell’Europa continentale, il coté rousseauiano (e dunque la sua visione fortemente unitaria e centrata della società quale totalità retta da un’unica logica dominante e pervasiva, entro cui si perde, tanto l’idea di stabili ‘parti’ o gruppi componenti, quanto la distinzione tra sfere parzialmente autonome) finì, lungo il corso del XIX secolo, coll’assumere un’indiscutibile prevalenza (tanto sul piano ideologico quanto su quello più propriamente storico-pratico), è fatto in relazione al quale una possibile giustificazione può utilmente ricercarsi nell’esito accentuatamente idealistico entro il quale era stata concepita e realizzata l’idea dello Stato-nazione, e dunque in coerenza ai quadri teorici della dominante sensibilità culturale tedesca.
Fu proprio a partire dall’influenza esercitata da quell’ambiente culturale (da cui trasse sicuro alimento la riflessione del nascente marxismo) che – mediate e lungamente formate dai maestri del costituzionalismo tedesco di fine Ottocento – le opposte (e reciprocamente avversate) meditazioni di due straordinari giuristi, come Hans Kelsen e Carl Schmitt, finirono col riproporre, sia pure nella singolare originalità di ciascuna delle due dottrine, i termini di quella distinzione weberiana tra legittimazione legale razionale e legittimazione carismatica del potere politico.
La contrapposta considerazione del pensiero di Hans Kelsen e di Carl Schmitt si inserisce utilmente nel quadro del discorso che si viene proponendo, là dove suggerisce, sia pure in una dimensione largamente ulteriore rispetto all’ambito d’interesse dei due giuristi di lingua tedesca, l’opportunità di delineare il profilo di almeno due tra i più rilevanti rischi che ancora incombono sulla vita politica delle nostre comunità.
Vuole qui alludersi, in primo luogo, all’esasperazione del razionalismo e della dimensione puramente logico-formale delle operazioni che presiedono al controllo e alla direzione del comportamento umano misurato sul piano delle relazioni sociali.
L’idea della riduzione dell’esperienza giuridica al dato del rapporto di coerenza logica tra norme (secondo le tracce della riflessione kelseniana), in assenza di alcun possibile riferimento, ma anzi nel rifiuto di ogni ‘impura’ contaminazione con la dimensione sostanziale di valori o interessi, finì in larga misura col contribuire (sia pure involontariamente, e certamente a dispetto delle sincere idealità democratiche del giurista austriaco) alla dispersione del significato intrinsecamente ‘qualitativo’ della persona, rivista nella concretezza esistenziale dei propri bisogni e nella viva materialità (o ‘carnalità’) dei rapporti dalla stessa istituiti sul piano sociale.
Allo stesso modo (ma in termini diametralmente opposti), le rilevanti intuizioni del decisionismo schmittiano (tra cui la riaffermazione dell’anima intimamente conflittuale dell’esperienza politica e la radice costitutivamente infondata del potere, ove considerato al di fuori da ogni connotazione ideologico-culturale) diedero modo, ai disegni più sconsiderati delle formazioni politiche d’inclinazione violenta e razzista, di giustificare la dignità teorica delle proprie vocazioni più folli o irrazionali, tra i paventati vagheggiamenti di un diritto libero e la sperimentata, incosciente teorizzazione della volontà del ‘capo’, quale fonte sovrana e indiscutibile (führer-prinzip).
Al ricorso di quelle due fatali esasperazioni vorrebbero ricondursi, tra tutte le altre concorrenti spiegazioni, le ragioni della dissoluzione storica della lunga esperienza dello stato moderno, che la fine della Seconda guerra mondiale portò a compimento.
Alla corrosiva critica della ragione illuministica avevano dedicato pagine preziose, ancora terribilmente attuali, gli studiosi della c.d. Scuola di Francoforte.
L’ambito di sviluppo della ‘teorica critica’ francofortese veniva collocandosi – in conformità alle originarie linee di impostazione segnate da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno negli anni attorno al secondo conflitto mondiale – nel quadro di un generale progetto di demistificazione delle tendenze della cultura occidentale moderna.
L’obiettivo critico dei due studiosi tedeschi si appuntava, in primo luogo, sul senso del processo storico-culturale involutivo in base al quale, a partire dall’esperienza illuminista, la ragione, avendo smarrito la propria capacità di cogliere gli aspetti dialettici, pluralistici e contraddittori della realtà, ha progressivamente assunto il senso di un principio di uniformazione e di omologazione ‘scientificizzante’ (‘matematizzante’) del reale; il ruolo di un organo di calcolo e di pianificazione, inteso alla ricerca di una ‘coerenza sistematica che annulla le differenze vitali’ , dove alla rispettosa attenzione per la ‘singolarità’ e l’‘irripetibilità’ (irriducibile al ‘paradigma’), viene a sostituirsi un impegno di ‘riduzione’ e di ‘semplificazione’ dell’esperienza destinato, in ultima analisi, a svuotare quest’ultima del proprio autentico significato a fini dominativi. Un fenomeno che appare di manifesta evidenza nella graduale ‘sterilizzazione’ del linguaggio, capace di mere ‘designazioni’ prive di ‘significati’ autentici.[11]
L’effetto ‘alienante’ di questa degradazione ‘intellettualistica’ della ragione - amplificata dagli orientamenti dell’‘industria culturale’ interessata all’omologazione e alla ‘reificazione’ dei rapporti sociali, da trasformare in prodotti/merci di agevole diffusione sul ‘mercato’ - si rappresenta nei termini di un processo di sostanziale e irrevocabile repressione dell’esperienza comunicativa e culturale: “l’abolizione del privilegio culturale per liquidazione e svendita non introduce le masse ai domini già loro preclusi, ma contribuisce, nelle condizioni sociali attuali, proprio alla rovina della cultura, al progresso della barbarica assenza di relazioni”[12]. Dalla degenerazione che offre il linguaggio a qualunque forma di manipolazione discende la possibilità della strumentalizzazione da parte delle strutture sociopolitiche: il nuovo stile imposto dall’industria culturale esprime così la struttura della violenza sociale e l’unità stilistica di un sistema di non-cultura.[13] Ogni ricerca di emancipazione dalla dimensione sociale, scopre l’individuo alle prese con i tentativi del suo forzato coinvolgimento “in forme di collettivizzazione che si nutrono di una cultura di massa, capaci di ridurre gli uomini a strumenti senza uno scopo proprio”.[14]
Se l’esatta comprensione delle implicazioni connesse alla degenerazione del razionalismo (con le sue esigenze di uniformità e di cancellazione delle differenze) richiede l’articolazione e la complessità di simili analisi e della loro raffinata sensibilità culturale, assai più immediata (quantomeno sul piano della misurazione e della valutazione degli esiti che ne discendono) si rivela l’intuizione dello sfondo catastrofico entro cui si muovono le attitudini irrazionalistiche del pensiero politico.
Per condurcene al rifiuto, basterà appena accennare alla dolente ricapitolazione delle immagini che raccontano la desolazione delle rovine della guerra, le sue macerie materiali, il dolore dei volti violentati e l’orrore dei campi di sterminio.
5. La Costituzione ‘presa sul serio’
I gruppi politici che assunsero la responsabilità del disegno costituzionale italiano concepito nel secondo dopoguerra (e il discorso qui si riannoda al progetto del ‘Ponte’ che Piero Calamandrei aveva espressamente legato all’esperienza della ‘Costituente’) avevano dimostrato di aver appreso con saggezza la lezione della storia secolare dello Stato moderno.
Il catalogo dei diritti fondamentali della persona, recepito dall’antica tradizione del giusnaturalismo, veniva adesso composto in un quadro più articolato e complesso, non più misurato, sul piano antropologico, sulla figura dell’individuo singolo, smarrito o abbandonato all’irriducibilità della sua solitudine (specchio del carattere di esclusività ed assolutezza della sua dimensione proprietaria), ma costruito a partire dalla considerazione della relazione come dimensione propriamente costitutiva della persona, e dunque dell’uomo che scopre se stesso nel vivo dei rapporti che sostanziano e alimentano la propria esperienza esistenziale.
La cultura italiana veniva scoprendo, proprio all’indomani della catastrofe bellica, i valori, fino ad allora sconosciuti sul piano del riconoscimento politico e giuridico, della solidarietà sociale come limite implicito dei diritti individuali, e del pluralismo degli ordinamenti e dei gruppi intermedi come intrinseca demarcazione del potere dello Stato, sottolineando, da un lato, il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (“sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”) e richiedendo, dall’altro l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.). Sotto un altro profilo, l’Assemblea costituente volle certificare il proprio congedo dalla storia alla quale il conflitto mondiale aveva definitivamente messo capo, non solo decretando il proprio ‘ripudio’ della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, ma consentendo, “in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 Cost.).
Sono, quelle (gli artt. 2 e 11 Cost.), due norme che sembrano risolvere lo Stato sovrano nel riconoscimento del carattere (verosimilmente ancor più) originario delle comunità (rispetto a quello) minori e, insieme, di quelle maggiori.
L’idea (forse financo abusata nella letteratura filosofica e giuridica contemporanea) della post-modernità, che Lyotard definiva, sul piano della storia del pensiero, in ragione della fine delle grandi narrazioni sul ‘senso’[15], viene declinandosi, nei termini del pensiero giuridico, come la fine della grande narrazione che identifica il diritto con la legge dello Stato.
Secondo la nuova ‘piccola’ narrazione (se può ancora valere la terminologia e il linguaggio del filosofo francese), il diritto diviene il prodotto di una serie complessa e articolata di fonti e di ‘formanti’, il cui coordinamento (seppur sempre possibile nell’impegno teorico del giurista accademico) assume un senso effettivamente rilevante, sul piano politico e sociale, solo attraverso e nel momento dell’applicazione, e dunque nel suo affidamento al giudice, cui è rimesso il compito di ricostruire e portare a una sintesi possibile la ricchezza dei materiali di formazione dell’esperienza giuridica.
Assecondando, con un vago compiacimento storiografico, una certa lettura idealistica dei processi (in termini di corsi e ricorsi o di sintesi dialettiche), potrà persino intravedersi il recupero (metodologico), in chiave contemporanea, di quell’‘ordine giuridico medievale’ che, in un certo senso, ricompare sullo sfondo di tanti degli scritti più recenti di Paolo Grossi.[16]
Secondo la pagina ricostruttiva dello storico, gli ordinamenti medievali (gli statuti comunali, il diritto feudale, le regole corporative, la tradizione del diritto comune e del diritto romano, il diritto della Chiesa, etc.) si ponevano come ordinamenti legati alla realizzazione di specifici interessi (settoriali o particolari, volendosene contrapporre le caratteristiche all’ordinamento ‘a fini generali’, come siamo abituati a definire l’ordinamento dello Stato): una fenomenologia di moltiplicazione capillare di ordinamenti particolari che pure caratterizza i segni della realtà (cosiddetta neo-corporativa) che trovano riscontro nella vita sociale e civile dei nostri giorni.
Il carattere eminentemente ‘problematico’ dell’esperienza giuridica contemporanea sembra discendere, in primo luogo, dalla circostanza della continua interferenza e dal costitutivo conflitto, non risolto a priori, tra ordinamenti diversi, ciascuno piegato alla realizzazione dei propri fini, secondo i termini delle rispettive razionalità interne. Del diritto torna a porsi in evidenza la qualità di pratica sociale, lontano dall’idea di un sistema di norme ordinato allo scopo di un’edificazione civile e politica di carattere generale.
Tra le più evidenti conseguenze della pluralizzazione delle razionalità dei diversi ordinamenti particolari trova posto – accanto e al di là dell’irriducibilità del sistema a una pregiudiziale e unitaria coerenza – la consapevolezza dell’impossibilità di risolvere i contrasti attraverso il richiamo a un unico criterio o a una coerente e unificabile, seppur articolata, organizzazione di criteri.
Si tratta di un orizzonte, o di una prospettiva di azione, in cui al giurista è affidato il compito di affrontare e districare il senso di una complessità che appare sempre più spesso declinata nei termini dell’antinomia e della contraddizione. Da qui il significato del frequente ricorso all’impiego di norme generali o di sfumate terminologie; ad espressioni che invitano all’esercizio della ‘ponderazione’ tra interessi, al ‘bilanciamento’ tra istanze contrapposte, al temperamento della ‘ragionevolezza’.
Sono queste le premesse storico-culturali che avviano il discorso alla conclusione per cui il diritto non è più in grado di attribuire, sul piano dei rapporti civili, alcuna sfera predeterminata di libertà individuale, secondo il modello o la tecnica del diritto soggettivo tradizionale, poiché deve ritenersi largamente compromessa (quando non svanita del tutto) la possibilità di riconoscere interessi cui attribuire una protezione giuridica assoluta e incondizionata.
Più che il riconoscimento di sfere di libertà o di poteri astrattamente attribuiti al singolo dall’ordinamento (secondo una tecnica o un disegno di tutela costruito o derivato dal modello proprietario della tradizione liberale), la cultura giuridica contemporanea appare incline a coltivare l’idea della costruzione degli spazi della convivenza degli interessi (e dunque della relativa tutela) secondo un archetipo che supera la visione statica dell’individuo come principio elementare attorno al quale ordinare i contenuti del proprium.
Si tratta di superare i termini di una logica meramente attributiva, per attingere il livello di una più articolata complessità delle situazioni, da cogliere nel quadro di una dinamica relazionale cui necessariamente si coniuga l’impegno di ciascuno a tener vivi e regolare nel tempo le modalità e i termini di conformazione dei propri bisogni di tutela. Da qui l’esigenza di richiedere a ciascuno la capacità di articolare fatti e prospettazioni interpretative secondo le proprie particolari visioni delle cose e del mondo, affinché il sistema delle istituzioni (di volta in volta, il legislatore, il giudice, il pubblico amministratore) sappia considerarne il peso e il valore.
L’idea del rapporto giuridico legata alle scelte dell’autonomia individuale (dalla decisione legata all’instaurazione della relazione, a quelle destinate a dar seguito, forma e contenuto ai relativi percorsi) lascia il posto al riconoscimento di una realtà sociale connaturata all’inestricabile e immanente pervasività della dimensione relazionale in cui, più spesso, accade di trovarsi.
La circostanza dell’essere o del trovarsi costitutivamente in una rete di relazioni sociali modifica il paradigma tradizionale del pensiero e della tutela giuridica, come sistema di attribuzione di diritti rivisti alla stregua di sfere intangibili di sovranità individuale, poiché nessuna situazione soggettiva può definitivamente dirsi al riparo dal destino del ripiego o del sacrificio.
Il riconoscimento del diritto soggettivo finisce quasi col consistere in una sorta di ‘peso argomentativo’ offerto al sostegno delle ragioni della persona (ora in funzione difensiva, talora, più schiettamente, in chiave emancipativa) in un quadro di bilanciamento conflittuale, senza più alcuna possibilità di ascriverne la virtù di disegnare impensabili enclosure assolute.
Discorrere del riconoscimento della tutela di diritti soggettivi può certamente assumere un valore non trascurabile, sul piano costruttivo o sul terreno della sistemazione concettuale, ma non cancella il dato reale cui la riflessione giuridica è chiamata ad accostarsi, che è quello della necessità di comprendere lo spessore di ciascuna situazione soggettiva unicamente in vivo, ossia nello specifico contesto di relazione in cui la persona è chiamata ad affermare il suo interesse in una dimensione necessariamente conflittuale o dialogica, senza alcuna pretesa di assolutezza.
6. Tecnica, razionalità scientifica e ragione discorsiva
Varrà incidentalmente accennare, nell’affrontare il tema del conflitto portato sull’esercizio dei diritti fondamentali, alle preziose meditazioni che Emanuele Severino ha consegnato alle future generazioni sui modi attraverso i quali si realizza e si perpetua il pluralismo conflittuale tra le culture e i gruppi attivi all’interno delle nostre società.
L’ammonizione del filosofo bresciano induce a individuare la radice o l’essenza del nichilismo, che caratterizzerebbe i termini della cultura contemporanea, nella dominazione ormai assunta dalla tecnica, a tutti i livelli della vita sociale.
Scrive Severino: “La tecnica è lo strumento guidato dalla scienza moderna che oggi si rivela come il più potente degli strumenti. Così crediamo tutti. Tutti ne siamo convinti. […] Il fenomeno della globalizzazione […] è un fenomeno che sussiste solo in quanto il capitalismo gestisce la potenza tecnologica. Il capitalismo oggi gestisce la ricerca scientifica e l’applicazione della scienza all’industria, cioè le varie forme di tecniche. Le forze che oggi hanno in gestione la tecnica sono tra di loro in conflitto. Quali sono queste forze? Il capitalismo, che non vive in un Olimpo, in un limbo senza nemici; ieri c’era il comunismo, che è stato eliminato. Ma la democrazia non ha come scopo ciò che costituisce lo scopo del capitalismo. Qual è lo scopo del capitalismo? L’incremento indefinito del profitto privato. Il capitalismo mira a questo: che lo scopo supremo della società sia l’incremento del profitto privato. Questo non è lo scopo della democrazia. La democrazia pensa, crede, propone, fa in modo che lo scopo della società sia la libertà e l’uguaglianza degli individui. Non è certamente lo scopo del cristianesimo l’incremento del profitto privato. Non è certamente lo scopo dell’Islam. Non era certamente lo scopo del comunismo. Non è lo scopo dei nazionalismi. […] E cosa accade quando molte forze, per esempio queste che ho elencato, sono in conflitto tra di loro e tutte si servono della tecnica? Dico ‘tutte’ perché anche il cristianesimo si serve della tecnica. Il sistema mass-mediatico del Vaticano è tra i più elaborati tra quelli oggi esistenti sulla faccia della terra. La carità cristiana planetaria, se la mano destra non sa cosa fa la sinistra, è scombussolata, non funziona. Bisogna che la mano destra sappia bene cosa fa la sinistra. Lo può sapere soltanto attraverso l’organizzazione tecnica della carità. Quindi per questo dicevo che tutte le forze, anche quelle che meno ci aspetteremmo di trovare, si servono della tecnica. Che cosa accade dunque quando tutte queste forze, essendo tra loro confliggenti, si servono – per prevalere l’una sulle altre – di una certa frazione dell’apparato scientifico-tecnologico? Se una vuole prevalere sull’altra, e poiché vuole prevalere, è necessario che rafforzi sempre di più lo strumento che le consente di prevalere. Altrimenti si arrende. Ma anche le altre non stanno a guardare questo rafforzamento e a loro volta rafforzano quelle frazioni dell’apparato scientifico-tecnologico che hanno a disposizione. Ha così luogo un progressivo crescere del potenziamento che queste forze operano dello strumento di cui si servono per realizzare i loro confliggenti scopi. Che cosa è destinato ad accadere in una situazione di questo genere? Che l’intensità del potenziamento dello strumento, per realizzare lo scopo originario della forza che di esso si serve, conduca a far sì che lo scopo non sia più lo scopo originario, che voleva servirsi dello strumento per realizzarsi, ma che sia il potenziamento dello strumento. Il capitalismo […] è destinato, per sopravvivere ai nemici che tuttora lo ostacolano e alla distruzione che la produzione economica compie della terra, a rafforzare lo strumento tecnologico anche per quanto riguarda la produzione di energia alternative alle energie inquinanti. In questo modo è costretto a lasciare sullo sfondo sempre di più il proprio scopo originario, cioè l’incremento indefinito del profitto, per porre al centro della propria intenzionalità come scopo primario la forza di quello strumento che gli consente di realizzare il proprio scopo originario, che ormai diventa obsoleto. Passa in secondo piano. Si va così verso una situazione in cui la tecnica non serve ad aumentare il capitale, ma l’aumento del capitale serve a incrementare la potenza della tecnica. Questo è uno sguardo gettato sul futuro, uno sguardo che allude al tramonto delle forze che tuttora dominano il mondo. […] Si ha tuttora la sensazione […] che i grandi gruppi industriali guidino la condotta degli Stati. […] Ma perché l’economia prevale sulla politica? Perché c’è la tecnica a sostentare l’economia, altrimenti l’economia potrebbe essere rimasta allo stato feudale, dove il potere politico del Signore guidava la produzione economica dei sottoposti e di coloro che producevano la ricchezza. Quindi, altro è che ci si serve della tecnica per incrementare il capitale, altro è che si incrementi il capitale per potenziare la tecnica. Stiamo andando verso un tempo in cui lo scopo supremo sarà quello in cui la tecnica sostituirà, perché ha la stessa anima, il vecchio dio”.[17]
Il discorso di Emanuele Severino (dietro cui sembra affacciarsi l’inquietante mistero della nietzschiana volontà di potenza) tocca un nodo critico di particolare delicatezza del modo contemporaneo di stare al mondo che caratterizza la vita delle nostre società. Si tratta di un fenomeno (quello che si nasconde dietro la progressiva sostituzione dello scopo del potenziamento tecnico, rispetto ai valori e agli interessi originari dei gruppi) che è destinato, a lungo termine, a intaccare il senso stesso dell’esperienza della relazione sociale e della dimensione qualitativa della persona, nella misura in cui, dietro l’indefinito perfezionamento della tecnica sostenuta dalla ricerca scientifica applicata, rivive l’antico rischio della regressione dei processi storico-culturali, destinati, là dove incapaci di cogliere la dimensione dialettica, pluralistica e contraddittoria della realtà, ad assumere il senso di un principio di uniformazione ‘scientificizzante’ e di alienante omologazione del reale.
Il significato propriamente ‘eversivo’ di questa trasformazione viene colto, da Habermas, nella progressiva sostituzione dell’eticità, come forma di regolazione dei rapporti strutturata attorno alla verità del ‘senso’, con l’ideologia tecnocratica, non già orientata a perseguire finalità di sviluppo umano in termini di dover essere, quanto incline a realizzare una forma di dominio totalizzante sulla natura, sulla base di ciò che di fatto è. Da qui la progressiva affermazione di una razionalità facilmente strumentalizzabile, che dà vita a quella configurazione del mondo nel senso del dominio destinata a preludere alla legittimazione dello stesso dominio dell’uomo sull’uomo.[18]
Le strutture repressive del dominio tecnocratico finiscono per disperdere l’umanità dell’uomo nella manipolazione di procedimenti tecnici finalizzati a scopi oggettivati, dal cui orizzonte è radicalmente esclusa ogni possibilità di discussione pubblica finalizzata ad una decisione. Le trasformazioni indotte dalla società dell’economia fondata sulla pubblicità commerciale finiscono col travolgere le stesse basi della comunicazione quotidiana e del linguaggio: l’effetto dei mass-media (stampa, tv, etc.) amplifica la metamorfosi della comunicazione politica, riplasmata attraverso le tecniche pubblicitarie, sottolineando il progressivo assorbimento della discussione critica pubblica, della comunicazione e della cultura nella sfera del consumo.
La reazione nei confronti di questo modello politico-culturale, di per sé caratterizzato da un elevato livello di repressione e di violenza sociale, muove, nella prospettiva habermasiana, dal tentativo di ‘rivitalizzare’ la comunicazione critica nell’ambito della sfera pubblica, dissolvendo progressivamente gli ostacoli che impediscono l’effettiva partecipazione di ciascuno alla discussione collettiva che prelude alla decisione; un ambito in cui acquista un senso preciso il riferimento alle responsabilità culturali e politiche dell’intellettuale nella prospettiva teorico-pratica dell’‘agire comunicativo’.[19]
Sulla base di queste premesse, Habermas invita a riflettere sui nessi che intercorrono tra la riflessione e il linguaggio, come terreno d’elezione della violenza e della frustrazione comunicativa (e, in questo senso, punto di partenza del processo di emancipazione), e individua, nel paradigma costituito dal modello psicanalitico, l’approccio per una graduale consapevolizzazione del significato delle forme repressive e del loro superamento. Da questo punto di vista, ricollegandosi ad alcune osservazioni di Freud, Habermas identifica nella “fuga dell’Io di fronte a sé stesso” la conseguenza di una reazione dell’Io infantile di fronte “al potere insopportabile delle norme sociali” […]. Un’operazione che è condotta nel e con il linguaggio” attraverso “una scissione di singoli simboli dalla comunicazione pubblica e la conseguente privatizzazione del loro contenuto di significato”.[20] Scopo della terapia psicanalitica è l’identificazione della rimozione e la lotta contro la stessa, attraverso l’ausilio di un interprete “che insegni ad uno stesso e identico soggetto a capire il proprio linguaggio. L’analista guida il paziente perché impari a leggere i propri testi mutilati e deformati, e a tradurre i simboli da un modo espressivo deformato del linguaggio privato nel modo espressivo della comunicazione pubblica”.[21]
La conoscenza psicanalitica fornisce così il modello dell’autoriflessione come fondamento delle possibilità di emancipazione attraverso la riconquista della dimensione comunicativa del linguaggio (luogo dell’autoriflessione e strumento di una intersoggettività ‘emancipatrice’), in cui gli uomini manipolati (per i quali vale solo la somma delle opinioni e il compromesso in vista della realizzazione di possibilità tecniche) si trasformano in uomini agenti che ricercano, nel quadro di una ricostituita ‘dialettica dell’eticità’ il consenso attraverso la pratica di una discussione illuminata.[22]
7. Dibattito politico e parametri di costituzionalità
La contrapposizione che caratterizza il dibattito politico odierno sull’esigibilità dell’adempimento vaccinale (o sulla prospettiva di introdurne l’obbligo per via legislativa) sembra dunque riproporre, sia pure sotto forme e vesti diverse, i termini di un conflitto ricorrente, dove le accuse vicendevolmente sollevate dai contendenti paiono appuntarsi sul reciproco addebito di adesione acritica a tesi pregiudiziali, e dunque di un inadeguato controllo razionale del proprio comportamento sociale.
Si tratterebbe, da un lato, dell’accusa di una passiva accettazione ideologica della potenza della tecnica (suffragata dalle incontestabili conquiste del progresso tecnologico, di cui i diversi vaccini anti-Covid-19 costituirebbero l’ultimo ritrovato), e, dall’altro, da un altrettanto acritico e ideologico rifiuto della razionalità scientifica, sostanzialmente motivato dalla rilevata incompletezza dei controlli sperimentali imposta dalla ristrettezza dei tempi trascorsi, oltre che da un elementare principio di precauzione suggerito dall’esasperato e contraddittorio pluralismo delle interpretazioni scientifiche circolate (in modo più o meno sconsiderato) nelle diverse forme di comunicazione mass-mediatica.
Lo spessore di un simile dibattito, per la verità, là dove limitato al mero dissenso sui punti indicati, finirebbe inevitabilmente con l’esaurirsi sul terreno del controllo dell’efficacia scientifica del trattamento sanitario controverso: un dissenso che il tempo e l’attenta osservazione della comunità scientifica sarebbero in grado di affrontare e risolvere, in via definitiva, una volta acquisiti tutti i dati obiettivi ritenuti necessari e sufficienti, secondo le consuetudini e le indicazioni dei più accreditati protocolli sperimentali.
Ma l’autentico nodo di quel dibattito, in realtà, una volta sottratto al dominio del giudizio tecnico-scientifico, chiede piuttosto d’essere rinvenuto sul piano, del tutto diverso, dell’opportunità politica del ricorso all’obbligatorietà per via legislativa di un trattamento sanitario preventivo le cui conseguenze sulla salute individuale appaiono, allo stato, ancora non completamente conosciute (come, peraltro, accade per una larghissima quantità di trattamenti farmaceutici pacificamente in circolazione da tempo); e ciò allo scopo di fronteggiare la diffusione di un’epidemia già capace di condurre rapidamente a morte decine di migliaia di persone, di incidere pesantemente sull’integrità dei contagiati, di paralizzare l’intera struttura del sistema sanitario nazionale (sì da comprometterne significativamente il funzionamento per la cura e la prevenzione di tutte le altre malattie), di sospendere la vita economica, sociale e scolastica delle persone (al fine di impedirne il contatto fisico), e dunque di sconvolgere l’andamento delle ordinarie condizioni di vita di un’intera popolazione.
Ricondotta a questa prospettiva, la questione che attiene all’efficacia (o alla pericolosità) del trattamento sanitario (il vaccino) astrattamente destinato a prevenire la diffusione del contagio, non assume rilievo di per sé sul piano assoluto dei valori scientifici (comunque destinati ad essere considerati e valutati dagli esponenti della comunità scientifica, secondo i paradigmi propri della razionalità scientifica), quanto alla stregua (relativa) di un singolo coefficiente di ponderazione di una più complessa analisi comparativa, destinata ad essere condotta – là dove orientata allo scopo dell’obbligazione legale – in chiave strettamente politica (secondo i paradigmi propri dell’argomentazione discorsivo-dialettica), in cui alla valutazione scientifica di quel dato di efficacia si accostano, da un lato, la considerazione del peso politico da riconoscere, nella situazione contingente, alla negazione dell’autodeterminazione sanitaria e, dall’altro, il rilievo della sicurezza collettiva e dell’insieme degli interessi pubblici potenzialmente compromessi da un’incontrollata diffusione dell’epidemia.
Si tratta di una prospettiva che la nostra Costituzione conosce e prevede, e che invita ad affrontare nello spirito del dialogo e del necessario bilanciamento tra le ragioni del singolo e l’interesse della collettività, con l’ulteriore prospettiva secondo cui un eventuale trattamento sanitario imposto per legge non valga ‘in nessun caso’ a violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana (art. 32 Cost.).
Con specifico riguardo alle vicende connesse all’imposizione per via legislativa dell’obbligo vaccinale, la nostra Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della legge n. 119/2017 (che ha reintrodotto l’originaria obbligatorietà vaccinale dei minori su scala nazionale)[23], dopo aver ribadito (in coerenza alla propria storia giurisprudenziale) come l’art. 32 Cost. postuli il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività[24], ha precisato come l’imposizione legislativa di un trattamento sanitario non sia incompatibile con l’art. 32 Cost. se lo stesso sia diretto “non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)”.[25]
Nel caso relativo alla legge impositiva della vaccinazione obbligatoria nei confronti dei minori, la Corte ha sottolineato come l’intervento legislativo si lasciasse apprezzare per la ragionevolezza e la flessibilità dell’impostazione, tanto sensibile all’interlocuzione culturale con i soggetti chiamati all’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti dei minori, quanto avvertita della natura dinamica ed evolutiva del sapere medico-scientifico. In particolare, la Corte ha evidenziato come, in caso di mancata osservanza dell’obbligo vaccinale, la legge prevedesse un procedimento volto, in primo luogo, a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l’effettuazione; “a tale scopo, il legislatore ha inserito un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, istituendo un momento di incontro personale, strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all’adesione consapevole. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione. Nel presente contesto, dunque, il legislatore ha ritenuto di dover rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, configurando un intervento non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche. Nulla esclude che, mutate le condizioni, la scelta possa essere rivalutata e riconsiderata. In questa prospettiva di valorizzazione della dinamica evolutiva propria delle conoscenze medico-scientifiche che debbono sorreggere le scelte normative in campo sanitario, il legislatore […] ha opportunamente introdotto in sede di conversione un sistema di monitoraggio periodico che può sfociare nella cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini […]. Questo elemento di flessibilizzazione della normativa, da attivarsi alla luce dei dati emersi nelle sedi scientifiche appropriate, denota che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso”.[26]
Ai fini del discorso che si conduce, in sintesi, converrà ribadire l’inesistenza di alcun impedimento di principio alla previsione di un’eventuale obbligatorietà del trattamento di immunizzazione, in presenza delle condizioni che ad ogni trattamento sanitario obbligatorio occorre si associno, secondo la lettura del sistema ricostruito in coerenza con le linee della giurisprudenza della Corte costituzionale del nostro paese.
Occorrerà, in tal caso, verificare che il trattamento obbligatorio (sperimentalmente sicuro e ragionevolmente innocuo nei limiti consentiti dalle conoscenze scientifiche disponibili pro-tempore) si presenti effettivamente alla stregua dell’unica via percorribile al fine di assicurare la tutela della salute della collettività e di terzi, fatta salva la previsione di forme indennitarie e risarcitorie in caso di eventuali conseguenze dannose sofferte dal singolo, ivi compresa la malattia contratta per il contagio causato dall’esecuzione della vaccinazione profilattica.[27]
Il discorso, al di fuori di ogni inopportuna banalizzazione, soffre dell’estrema difficoltà che affligge la complessa articolazione dei rapporti tra il diritto e la scienza. È essenziale non sottovalutare l’importanza di considerare con grande attenzione il ruolo e l’apporto delle conoscenze scientifiche nel processo di formazione delle leggi oltre che, più ampiamente, nel processo giudiziario. Da qui la difficoltà di definire confini e limiti di un rapporto complicato, che si estrinseca anche nello sforzo di coordinare il linguaggio scientifico con quello del diritto e di valutare il ‘se’ e il ‘come’ tradurre dati scientifici in obblighi giuridici. Una sfida aperta, complessa e dibattuta, che emerge con chiarezza anche nella disciplina in materia di trattamento vaccinale e nelle parole del Giudice delle leggi, là dove osserva che “nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici”.[28]
In tali affermazioni, emerge il tentativo della Corte di assumere su di sé il peso dell’evidente diversità dei due linguaggi (quello scientifico e quello giuridico) e di affievolirne in qualche modo le differenze: “si tratta di due ordini diversi, posti da scienze diverse, ma che devono interagire, e dove l’evidenza scientifica, la statistica, la scelta politico-legislativa sono chiamate a trovare un equilibrio credibile e coerente con il quadro costituzionale”.[29]
Non manca, peraltro, chi riscontra come in tali dichiarazioni si finisca con l’attribuire alla scienza medica “un ruolo eccessivo che finisce per determinare un’ibridazione di concetti giuridici (raccomandazione e obbligo) per effetto del contatto con la tecnica”.[30]
L’insieme di queste riflessioni aiutano a comprendere come la disciplina del trattamento vaccinale assuma un carattere paradigmatico, non solo della difficoltà di individuare un corretto equilibrio tra interesse collettivo e diritti dell’individuo, bensì anche del complesso rapporto tra scienza e diritto, tra progresso scientifico e linguaggio giuridico, tra valutazione dei dati tecnico-scientifici e discrezionalità legislativa.[31]
Ed è in questo peculiare contesto – di fronte a un ‘rigore’ del sapere scientifico che manifesta, nei suoi dibattiti interni e nei suoi cambiamenti (anche repentini), gli aspetti della sua sfuggente controllabilità – che il discorso della politica e del diritto è chiamato ad affrontare, con crescente difficoltà, le delicate sfide che attendono i compiti della posizione della ‘regola’ in un quadro di equità e di ragionevolezza.
8. Responsabilità e destino
L’esigenza della solidarietà non è mai a senso unico: alle richieste di apporto individuale occorre saper associare, coerentemente, il vicendevole rispetto che si manifesta nella reciproca capacità di dare e di ricevere che è propria di una comunità intera.
La scelta di affidarsi, solidalmente, alla decisione, discussa e argomentata, che esorta ciascuno a rendersi responsabile dell’altro in una comune sfida all’insondabilità del futuro, significa respingere l’attesa, nei termini di una passiva rassegnazione, del manifestarsi delle forze oscure della natura, e del destino che ferocemente le guida.
In questa eterna ricapitolazione dialettica, che oppone il coraggio della responsabilità allo sconsolante abbandono del fatalismo, vorrebbe conclusivamente riassumersi il senso condiviso di un’esperienza di vita collettiva: dove ancora mette conto di interrogarsi se le vie attraverso cui la morte ci avrà raggiunti saranno davvero la chiave che apre la strada a un credibile racconto della nostra vita.
[1] P. Calamandrei, Il Ponte, n. 1, aprile 1945.
[2] P. Calamandrei, Il Ponte, anno I, n. 1, aprile 1945.
[3] N. Bobbio, Il Ponte, anno XXXI, n. 4, aprile 1975, pp. 160-161.
Aggiunge Bobbio: “Molte riviste nacquero in quegli anni, ma quasi tutte hanno avuto vita breve. Ne ricordo alcune che pur hanno lasciato tracce non solo nel nostro ricordo ma nella determinazione di quella svolta politica e culturale che è stata l’uscita dalla guerra e dal fascismo: «Stato moderno» di Mario Paggi, «La Nuova Europa» di De Ruggiero e Salvatorelli, «Acropoli» di Omodeo, «Il Politecnico» di Elio Vittorini. «Il Ponte» nacque in quello stesso clima di tensione morale, di passione civile, di desiderio del nuovo e del diverso, in quel tempo che fu insieme facile agli entusiasmi ma anche proclive alle improvvise stanchezze, proteso verso le “grandi speranze” ma anche non immunizzato contro le grandi delusioni. Forse «Il Ponte» è stata l’unica rivista - ed è questa la ragione della sua durata, il suo punto di forza che non è mai venuta meno in questi anni, nonostante la mediocrità della nostra storia e le atrocità del fascismo nel mondo, all’impeto e all’impegno delle grandi speranze. […] «Il Ponte» può essere fiero di non avere mai disperato, anzi di essere stato in prima linea nel difendere la virtù contro il furore”.
[4] N. Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci, 2001 (1993), pp. 143 s.
[5] N. Bobbio, Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, cit., pp. 149 s.
[6] E. Trevi, L’amico no-vax e il solco incolmabile in Corriere della Sera del 19 novembre 2021 (pag. 11).
[7] Th. Hobbes, Il Leviatano, BUR Rizzoli, Milano, 2011, pp. 190-191.
[8] Th. Hobbes, Il Leviatano, cit., p. 196.
[9] Op. ult. cit., pp. 196-197.
[10] “La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno accettare e riconoscere se stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni, e sottomettere in ciò ogni loro volontà alla volontà di lui, ed ogni loro giudizio al giudizio di lui. Questo è più del consenso o della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamato uno Stato, in latino Civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso consiste l’essenza dello stato che (se si vuole definirlo) è una persona dei cui atti ogni membro di una grande moltitudine, con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa” (Th. Hobbes, Il Leviatano, cit., pp. 241-242).
[11] «Gli uomini si distanziano col pensiero dalla natura per averla di fronte nella posizione in cui dominarla. Come la cosa, lo strumento materiale, che si mantiene identico in situazioni diverse, e separa così il mondo – caotico, multiforme e disparato – da ciò che è noto, uno ed identico, il concetto è lo strumento ideale, che si apprende a tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare» (M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, pp. 47-48).
«Dal punto di vista della sua genesi la logica si presenta come tentativo di integrare e ordinare stabilmente ciò che era originariamente polisemico, come passo decisivo per la demitologizzazione. […] In forza della logica, il soggetto si sottrae alla tendenza verso ciò che è amorfo, instabile, polisemico, e imprime nell’esperienza di sé l’identità di colui che in essa si autoconserva come forma, legittimando solo quegli enunciati sulla natura che sono catturati dall’identità di tali forme» (T.W. Adorno, Zur Metakritik der Erkenntnistheorie, in Gesammelte Schriften, Bd. V., Suhrkamp, Frankfurt, p. 86).
[12] M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, cit., p.172.
[13] «Al posto dell’adeguazione fisica alla natura subentra la “ricognizione nel concetto”, l’assunzione del diverso sotto l’identico. Ma la costellazione in cui si instaura l’identità (quella immediata della mimesi come quella mediata della sintesi, l’adeguazione alla cosa nel cieco atto vitale o la comparazione del reificato nella terminologia scientifica) è sempre quella del terrore. La società continua la natura minacciosa come coazione stabile ed organizzata, che, riproducendosi negli individui come autoconservazione coerente, si ripercuote nella natura come dominio sociale su di essa. La scienza è ripetizione, elevata a regolarità accertata, conservata in stereotipi. La formula matematica è regressione impiegata consapevolmente, come già il rito magico; è la forma più sublimata del mimetismo. La tecnica realizza l’adattamento al morto ai fini dell’autoconservazione, non più, come la magia, con l’imitazione materiale della natura esterna, ma con l’automatizzazione dei processi spirituali, con la loro trasformazione in ciechi decorsi. Col suo trionfo le manifestazioni umane diventano insieme controllabili e coatte. Dell’adeguazione alla natura non resta che la sclerosi verso di essa» (M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, cit., pp. 193-194).
[14] M. Horkheimer, Eclissi della ragione, Torino, Einaudi, 1969, p. 131.
«L’umanità ha dovuto sottoporsi ad un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia. Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo» (M. Horkheimer-T.W. Adorno, op.ult.cit., p. 42).
[15] V. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, 1982.
[16] V. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma, 1997; Id., Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015; Id., L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 2017; Id., Il mestiere del giudice. Prefazione di Paolo Grossi. Introduzione di P. Filippi e R.G. Conti
[17] E. Severino, Lezioni milanesi. Il nichilismo e la terra (2015-2016), Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 75-81.
[18] Cfr. J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1969, p. 199.
[19] Espressione che dà il titolo alla monumentale opera habermasiana (cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, traduz. italiana di P. Rinaudo, a cura di G.E. Rusconi, Bologna, Il Mulino,1986).
[20] J. Habermas, Conoscenza e interesse, Bari, Laterza, 1970, pp. 251 e 236.
[21] J. Habermas, Conoscenza e interesse, cit., p. 223.
[22] Cfr. J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, cit., p. 55.
[23] Corte Cost., sentenza n. 5 del 18.1.2018, n. 5, in Giur. Cost., 2018, 1, 38.
[24] V. Corte Cost., sentenza n. 268 del 2017, in Foro it., 2018, 3, I, 742.
[25] Corte Cost., sentenza n. 5 del 18.1.2018, n. 5, cit.
[26] Corte Cost., sentenza n. 5 del 18.1.2018, n. 5, cit.
[27] V., in particolare, Corte Cost., sentenza del 14.12.2017, n. 268, in Foro it., 2018, 3, I, 742, e Corte Cost., sentenza del 18.1.2018, n. 5, cit. La stessa Corte ha avuto modo di tornare su alcuni specifici aspetti di tale questione con due decisioni, la sentenza del 6.6.2019, n. 137 e la sentenza del 18.7.2019, n. 186, adottate a poca distanza l’una dall’altra, confermando e puntualizzando quanto già in precedenza affermato. Sul tema, più di recente, L. Scaffardi, G. Formici, Vaccini obbligatori e ruolo del diritto. Un tentativo di (ri)composizione della materia partendo dalla più recente giurisprudenza costituzionale, in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, 2020, fasc. 1, pp. 379 ss.
[28] Cfr. il par. 8.2.4. della sentenza n. 5/2018, cit.
[29] M. Plutino, Le vaccinazioni. Lineamenti ricostruttivi di diritto costituzionale su un tema dominato dalle evidenze scientifiche, in BioLaw Journal, 2, 2019, p. 561.
[30] A. Iannuzzi, L’obbligatorietà delle vaccinazioni a giudizio della Corte costituzionale fra rispetto della discrezionalità del legislatore statale e valutazioni medico-statistiche, in ConsultaOnline, 1, 2018.
[31] L. Scaffardi, G. Formici, Vaccini obbligatori e ruolo del diritto, cit., p. 412.
La triangolazione penale retribuzione riparazione prescrizione*
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. Retribuzione e prevenzione - 2. La giustizia riparativa - 2.1. Riparazione economica o sociale - 2.2. Riparazione nelle relazioni personali: la mediazione penale - 2.1.1. Stato emotivi e passionali e mediazione penale - 2.1.2. Mediazione penale e reati contro la famiglia - 2.3. Il reato riparato - 3. La cornice concettuale della pena prescrittiva.
1. Retribuzione e prevenzione
Le questioni relative allo scopo della pena sono cruciali per valutare la ragioni del processo penale e dell’istituzione penitenziaria, tanto più perché si possono constatare agevolmente sia la modesta efficacia delle sanzioni penali ai fini della prevenzione generale e speciale sia i molti riverberi negativi della pena carceraria, che peraltro riguarda principalmente le fasce marginali della società (così accrescendo disuguaglianze e emarginazione sociale), gli autori di gravi reati contro la persona e gli appartenenti alla criminalità organizzata[1].
L’idea della pena come retribuzione funzionale anche alla prevenzione di nuovi reati presuppone la pienezza del libero arbitrio e il suo prevalere sui vari condizionamenti che il mondo esterno e le emozioni o le passioni possono esercitare sulla volontà dell’individuo: si assume che l’imputato fosse in grado di comportarsi diversamente da come si comportò e si presume che la pena lo indurrà a agire in modo diverso nel futuro.
Sia la retribuzione che la prevenzione speciale concentrano le loro valutazioni essenzialmente sulla figura del reo e sulla sua condotta illecita (solo nei processi nei confronti di minorenni e nella fase esecutiva della pena questo orizzonte viene in qualche misura ampliato[2]). Tuttavia, dare attenzione al rapporto fra la vittima e il reo può giovare a entrambi (e anche alla società) se conduce a forme di mediazione e di riparazione distinte dalla tutela degli interessi patrimoniali che ordinariamente consente alla persona offesa di costituirsi in giudizio.
Indubbiamente la concezione della pena come afflizione proporzionata al reato commesso è solidamente radicata nella società e costituisce − anche nella prospettiva della tendenza alla rieducazione del condannato imposta dalla Costituzione italiana − il paradigma centrale nel sistema penale. Questo risulta palese dalle norme vigenti, che sono conformi alla tradizione giuridica, agli orientamenti culturali e ai valori morali (oltre che a intense propensioni irrazionali) prevalenti. Ma nulla osta a che la giustizia riparativa e la mediazione penale si sviluppino in termini di complementarità con il permanere delle sanzioni afflittive, cosicché gli oneri complessivi per il reo nel post delictum non differiscano, in linea di principio, da quelli derivanti da una pena meramente retributiva, salvo che per specifiche situazioni non si ammetta che un compiuto esito della riparazione possa tradursi in una condizione di sopravvenuta non punibilità.
2. La giustizia riparativa
Il 16 dicembre 2021 la Conferenza dei Ministri della Giustizia dei Paesi del Consiglio d’Europa ha redatto la Dichiarazione di Venezia, che invita il Consiglio d’Europa e gli Stati membri a considerare la giustizia riparativa non come un semplice strumento nell’ambito dell'approccio tradizionale alla giustizia penale, ma come espressione di una cultura più ampia che dovrebbe permeare il sistema di giustizia penale.
2.1. Riparazione economica o sociale
In realtà, l’ordinamento giuridico prevede già svariate forme di riparazione del reato che influiscono sulla pena o sulla stessa punibilità sino alla estinzione del reato (con il rischio, per il principio di eguaglianza, che i benefici per il reo derivino dalle sue condizioni economiche o, comunque, da condizioni contestuali e non soltanto dalle sue scelte personali) e ognuna delle periodiche commissioni di riforma del sistema penale ha di fronte la prospettiva di estendere il campo della giustizia riparativa[3].
2.2. Riparazione nelle relazioni personali: la mediazione penale
Tuttavia, il paradigma della giustizia riparativa prefigura qualcosa di più ampio rispetto al risarcimento del danno patrimoniale o sociale. Non è incompatibile con la giustizia retributiva, ma segue un altro percorso, che, mentre asseconda le esigenze della prevenzione speciale e della rieducazione del reo, si occupa della persona offesa dal reato.
La mediazione fra il reo e la persona offesa riguarda propriamente i reati che ledono le persone nella loro dimensione psicologica e morale e si collega a un’idea di responsabilità che è indipendente da quella che il reo ha verso lo Stato e che non è retrospettiva (rivolta alla precedente condotta riprovevole) ma prospettica (rivolta a quel che di positivo si può fare nonostante la commissione del reato)[4].
Viene considerata la dimensione diacronica e relazionale del reato e delle sue conseguenze. Si mira a fare evolvere i rapporti in una loro estensione cronologica più ampia di quella (a volta prolungata, altre volte circoscritta a pochi istanti) in cui si colloca il comportamento penalmente rilevante, utilizzando l’oblio attivo, cioè la capacità di distaccarsi dal passato per attenuarne le conseguenze dannose. Si guarda alla vicenda complessiva nella sua realtà, nella sua durata[5].
La pena retributiva segue un criterio di proporzionalità che si concretizza nella determinazione della sanzione ma le sue conseguenze ulteriori non sono prevedibili (neanche la sua estensione cronologica è compiutamente determinata perché possono sopravvenire benefici che la riducono o cumuli che la accrescono).
Invece, le procedure di mediazione penale mirano a produrre uno specifico risultato tangibile che ricomponga in qualche modo, sia dal punto di vista del reo che dal punto di vista della vittima, lo squilibrio relazionale provocato dal reato.
L’idea della giustizia riparativa valorizza una spiegazione del reato che non si limita alla valutazione di una scelta individuale illecita ma si estende alla considerazione delle condizioni (a volte semplici, spesso complesse) che la favoriscono.
Esistono variegate forme e diversi fattori (economici, politici, psicologici) di corresponsabilità sociale nella produzione dei reati e certamente sanzionare l’individuo risulta più semplice che controllare questi fattori. Allora risulta chiaro che la giustizia riparativa veicola idee diverse rispetto a quelle che reggono la concezione della pena come afflizione proporzionata al fatto commesso, ma questo non rende incompatibili le loro rispettive applicazioni.
La concezione corrente considera il reo per le sue condotte ma trascura quel che persona offesa può, in varie forme (desiderio di vendetta, semplice rabbia o rancore, recriminazioni verso gli altri e verso noi stessi) provare per avere patito una condotta criminale. Invece, la mediazione penale considera la vittima anche come un destinatario degli effetti della incapacità dell’autore del reato di risolvere in modo positivo i suoi conflitti interni o con l’ambiente sociale. Mira a fare regredire la dimensione conflittuale del rapporto fra il reo e la vittima soprattutto mediante la rivisitazione degli accadimenti, l'evoluzione delle rispettive posizioni e una reinterpretazione del fatto che non li trovi più soltanto come soggetti in contrasto.
Evidentemente la riparazione del reato non può essere regolata da criteri generali e astratti. Tuttavia, va risolta normativamente la questione della collocazione istituzionale della figura del mediatore e della sua attività nel sistema processuale perché il suo ruolo, tanto essenziale quanto delicato, non consiste solo nel comporre il conflitto fra il reo e la vittima, ma sta anche nel valutare preliminarmente se esistono le condizioni perché ciò avvenga[6].
2.1.1. Stato emotivi e passionali e mediazione penale
A volte può risultare in concreto difficile accertare e valutare lo stato psichico della persona al momento in cui compì il reato (così da condurre il diritto penale italiano a considerare in linea di principio irrilevanti gli stati emotivi e passionali e i loro andamenti), distinguere tra normalità e patologia, registrare i meccanismi dei processi mentali e, così, riaffermare solidamente la validità che principio che fonda la responsabilità giuridica in termini soggettivi.
La giustizia riparativa si adatta particolarmente a questo genere di situazioni perché valuta la relazione fra la responsabilità individuale e la sanzione afflittiva come eventuale e non necessaria. Infatti, dal punto di vista della giustizia riparativa (non anche del suo combinarsi con quella retributiva) il nucleo della responsabilità soggettiva sta nel dovere di rispondere alla persona offesa per ciò che si è compiuto a suo danno. La risposta può anche non essere immediata ma concludere un itinerario che si svolge in un tessuto di relazioni che supera la diade reo-vittima e si muove nell’ambito della triade reo-mediatore-vittima nel contesto del rapporto Stato-reo.
2.1.2. Mediazione penale e reati contro la famiglia
La proposta (comunque già concretizzarsi nella evoluzione della giurisprudenza) della dottrina penalistica di ricollocare i reati contro la famiglia nell’ambito dei reati contro la persona agevola previsioni di mediazione soprattutto relativamente ai reati di maltrattamenti e di violazione degli obblighi di assistenza morale, per le implicazioni di carattere affettivo e psicologico che essi naturalmente presentano. Se ne hanno anticipazioni già nella sentenza della Corte costituzionale n. 357 del 20/07/1990.
In particolare, per quel che riguarda i maltrattamenti, ridurre la pena massima edittale a quattro anni (nella pratica raramente le pene sono inflitte in questa misura e, per lo più, sono inferiori ai due anni e sospese) consentirebbe la applicazione del procedimento della messa alla prova dell’imputato ex art. 168-bis cod. pen.
2.3. Il reato riparato
Sarebbe utile una raccolta compilativa delle forme riparatorie speciali (che hanno prodotto una parziale decodificazione) e delle oblazioni (frequenti in materia di contravvenzioni), perché potrebbe condurre a giustificare l’idea di una figura di parte generale del delitto riparato che riduca la pena originaria in rapporto alla riparazione dell’offesa; oppure l’avvenuta riparazione come un titolo autonomo di reato (il reato riparato con una sua pena indipendente, simmetricamente a quel che avviene con la figura del tentativo di reato).
Al riguardo è stata proposta una disequazione: delitto riparato uguale o minore al diritto tentato, “delitto riparato ≤ delitto tentato, seguendo l’idea che il disvalore e il trattamento punitivo del delitto riparato siano o meno gravi, o equivalenti a quelli del tentativo. In quest’ottica la previsione della diminuzione della pena fino a due terzi non deriverebbe dalla configurazione di una circostanza attenuante ma da un titolo autonomo di reato: il reato riparato quale analogo inverso rispetto al reato tentato[7]. Oppure il legislatore potrebbe determinare per alcuni reati, o per categorie di reati, non soltanto le sanzioni edittali ma anche i possibili strumenti riparatori connessi.
3. La cornice concettuale della pena prescrittiva
3.1. Il diritto penale deve essere giustificato sulla base di scelte valoriali fondate su principi ben intellegibili e fra loro coesi e le idee relative alla giustizia riparativa riattualizzano le questioni relative alla scopo della norma penale.
Se la pena retributiva non è più vista come unica forma di pena perché le si affianca la (eventuale) riparazione delle conseguenze del reato, allora occorre una cornice concettuale sovraordinata che ricomprenda sia la retribuzione che la riparazione, in un misto di afflizione e (eventuale) riparazione verso la collettività e/o le persone lese.
Questa cornice è offerta dalla pena prescrittiva intesa come pena principale, all’interno della quale restrizioni personali afflittive (dalle diverse forme di limitazione della libertà personale alla interdizione allo svolgimento di attività) e prescrizioni di condotte attive (anche riparatorie) possono variamente equilibrarsi secondo i tipi e la gravità dei reati, ma sempre in base a previsioni tassative nel necessario rispetto del principio di legalità delle pene e al fine di indirizzare e circoscrivere la discrezionalità dei giudici[8].
Una pena prescrittiva contenuta ma rapida − a conclusione di processi snelli nei quali siano comunque assicurate le garanzie procedurali essenziali − può risultare più efficace, con effetti personali e con impegno sociale meno drammatici, nel ridurre i rischi di recidiva, soprattutto nei casi di reati di lieve o media gravità, invece di una pena più estesa e posticipata nel tempo quando le condizioni del soggetto e del suo contesto) potrebbero essere mutate (e risultare accresciuta o, all’inverso, ormai scemata la sua tendenza a delinquere) oppure la sua stessa attuabilità potrebbe evaporare per effetto della prescrizione del reato[9].
Peraltro, una pena siffatta (vicina nel tempo al reato contestato e breve nella sua durata) renderebbe meno nefasti gli effetti di sempre possibili errori giudiziari.
3.2. I modelli di giustizia riparativa e prescrittiva derivano da elaborazioni criminologiche o da approcci empirici e esperienziali.
Invece, la materia richiede appositi approfondimenti scientifici e una sua correlata autonomia didattica nei programmi accademici, che tenga conto anche degli apporti della vittimologia, disciplina che tratta la tipologia delle vittime e il loro ruolo nella genesi del crimine, e comporta una specifica formazione professionale per i giuristi giudiziari[10].
Serve anche a una tecnica legislativa che delimiti i poteri discrezionali del giudice, il cui compito risulterebbe più agevole se il legislatore si limitasse a dare rilievo a forme materiali (oggettivabili) di riparazione, mentre sarebbe troppo largo (e potrebbe sforare in modi debordanti dai suoi limiti istituzionali) se fossero ammesse anche forme di riparazione per equivalente o a carattere ideale o simbolico.
*Relazione svolta il 10/011/2021 presso il Centro di ricerca sulla Giustizia dei minori e della famiglia dell’Università di Catania.
[1] Sul tema l’incontro organizzato a Napoli dalla Scuola Superiore della Magistratura il 14-16 luglio 2021 dal titolo Dalla giustizia sanzionatoria alla giustizia riparativa.
[2] G. Tuccillo, Linee di indiritto del Dipartimento per la Giustizia minorile in materia di Giustizia riparativa e tutela delle vittime di reato. Ministero della Giustizia minorile e di comunità, in: Giustizia News on line, Quotidiano del Ministero della Giustizia, 22 maggio, 2019.
[3] Ne sono esempi: lo scioglimento della cospirazione e della banda armata (artt. 308 e 309), la ritrattazione nei reati contro l'amministrazione della giustizia; l'adempimento che estingue l'insolvenza fraudolenta. L’art. 162-ter cod. pen. per i reati procedibili a querela soggetta a remissione prevede la estinzione del reato nel caso di riparazione integrale del danno causato (lo schema di una forma processuale della mediazione penale sta nell’art. 29 d.lgs. n. 274/2000 relativo ai reati di competenza del giudice di pace). Per il d.lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti l'eliminazione delle conseguenze pericolose e dannose del reato e il risarcimento integrale conducono alla esclusione delle pene interdittive e alla riduzione di quelle pecuniarie. Dal 2002 esistono, in materia societaria, forme di risarcimento che estinguono il reato (artt. 2627, 2628, 2633 del codice civile riformato). Similmente il pagamento del debito tributario, la riparazione integrale del danno prodotto dall’inquinamento idrico, la riguardante la bonifica dei siti producono a benefici per il reo. Relativamente alla criminalità organizzata sono previsti premi per la collaborazione poi estesi alla criminalità comune. La collaborazione processuale rileva nei reati contro il diritto d'autore, nel contrabbando, nel furto e nella ricettazione, nell'immigrazione clandestina, nella riduzione in schiavitù, nella tratta di schiavi, in materia di pedopornografia, di proprietà industriale e di reati relativi ai prodotti agroalimentari. L’attenuante ex art. 62 n. 6 cod. pen. prevede una riduzione della pena nel caso di riparazione integrale del danno prima del giudizio o dell’adoperarsi, fuori dal giudizio, per elidere o attenuare le conseguenze dannose del reato. Nel codice penale alcuni istituti sono combinati al risarcimento: la seconda sospensione condizionale, l’amnistia e gli indulti condizionati, i condoni tributari, previdenziali, urbanistici.
[4] La materia è ormai estesamente e variamente trattata. Per un approccio lucido, fra gli altri: V. Patanè, Mediazione penale (voce), in: Enciclopedia del diritto, Annali II, tomo I, Giuffrè, Milano, 2008; V. Patanè, La tutela della vittima nel procedimento di mediazione, in: Giurisprudenza italiana, 2012, 2,485 (commento alla normativa); R. BARTOLI, Il diritto penale tra vendetta e riparazione, in: Rivista Italiana di diritto e procedura penale, 2016, pp. 101ss; G. Mannozzi, Giustizia riparativa, in: Enciclopedia del diritto, Annali, X, 2017, pp. 475.
[5] Inevitabile il richiamo al pensiero di Bergson e, in particolare al suo Essai sur less données immédiates de la conscience del 1889 (trad.it. di F. Sossi, Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere, 1889-1896, Milano, Mondadori, 1986). Vale citare anche: R. Ronchi (a cura di). H Bergson- W. James, Durata reale e flusso di coscienza. Lettere e altri scritti (1902-1939), Milano, Raffaello Cortina, 2014.
[6] La mediazione autore-vittima ha terreno fertile nell’ambito della giustizia minorile (gli artt. 9, 27 e 28 del d.P.R. 448/1988 consentono alla mediazione di svolgere un ruolo in relazione agli istituti della tenuità del fatto e della sospensione del processo con messa alla prova) e potrebbe trovarlo anche in relazione ai reati di competenza del giudice di pace, dove è previsto l’obbligo per il giudice di promuovere la conciliazione fra le parti, la non procedibilità per particolare tenuità del fatto e l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (artt. 29, co. 4, 34 e 35 d.lgs. n. 274/2000). Nell’ordinamento penitenziario l’affidamento in prova ai servizi sociali ha connotati riparativi (art. 47 l. n. 354/1975), perché prevede la possibilità per l’affidato di adoperarsi in favore della vittima del reato, con effetti riparativi e risocializzanti.
Con la legge del 28 aprile 2014 n. 67 è stata introdotta la sospensione del procedimento con messa alla prova, che configura uno spazio di concreta operatività per mediazione. Invece, la legge 27 settembre 2021 n. 134 «Delega al Governo per l’efficienza del processo pena nonché in materia di giustizia riparativa» coltiva una prospettiva più ristretta e introduce una modifica dell’art. 165 cod. pen. che ampia i casi in cui la sospensione condizionale della pena può essere subordina alla riparazione del danno o a prestazioni gratuite in favore della collettività o alla partecipazione a percorsi di recupero del condannato.
[7] M. Donini, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in: Diritto penale contemporaneo, 2, 2015, pp. 236 ss.
[8] L. Eusebi, Ipotesi di introduzione della pena prescrittiva come nuova pena principale, relazione introduttiva in: Dalla giustizia sanzionatoria alla giustizia riparativa. S.S.M.N. 14-16 luglio 2021, Napoli, Castel Capuano.
[9]Per i reati meno gravi, si potrebbero aumentare le ipotesi di messa alla prova (art. 168-bis cod. pen.) e, per quelli più gravi, dove una esecuzione anche detentiva sarebbe inevitabile, di aumentare comunque le ipotesi di pene alternative al carcere. In Italia i limiti edittali inferiori delle pene sono elevati e impediscono di individualizzare la pena, sebbene criteri dell’art. 133 cp, siano tutti diretti alla individualizzazione, e quindi opposti alla prevenzione generale. In Francia non c'è il minimo edittale, ma solo il massimo; in Germania dei minimi bassissimi, tranne che per i delitti più gravi.
[10] G. Mannozzi- GA. Lodigiani, Formare al diritto e alla giustizia: per un’autonomia scientifico-didattica della giustizia riparativa in ambito universitario, in: Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1, 2014, pp.
Riduzione in schiavitù e costrizione o induzione al matrimonio: la Cassazione esclude la successione di leggi penali nel tempo
di Domenico Gaspare Carbonari
Con la sentenza n. 30538/2021, la Corte di Cassazione si pronuncia sul rapporto intercorrente tra la fattispecie di riduzione o mantenimento in schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., e il neo introdotto delitto di costrizione o induzione al matrimonio, ex art. 558 bis, comma 1, c.p. (L. n. 69/2019), escludendo la ricorrenza di un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo.
Sommario: 1. I fatti - 2. Il nuovo delitto di costrizione o induzione al matrimonio e l’armonizzazione giuridica perseguita dal legislatore italiano - 3. Le questioni affrontate dalla Corte: configurabilità del reato di riduzione in schiavitù - 4. Segue: l’assenza di un fenomeno successorio tra l’art. 600, comma 1, c.p., e l’art. 558 bis c.p. - 5. Ulteriori questioni.
1. I fatti
Con la sentenza n. 30538/2021[1], la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Firenze, con la quale un imputato di origine rom veniva condannato per il reato di cui all’art. 600 c.p., aggravato ai sensi dei commi 5 e 6 dell’art. 602-ter c.p., commesso ai danni della figlia. Invero, in assenza del consenso di quest’ultima o prescindendo da un preventivo accordo, il suddetto imputato cedeva la persona offesa al "patriarca" della famiglia cui apparteneva il soggetto promesso sposo.
Dall’istruzione dibattimentale di primo grado emergevano, in particolare, gli elementi sintomatici della sussistenza della fattispecie di riduzione in stato di schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., consistenti nella cessione della persona offesa e nella corresponsione del c.d. “prezzo della sposa”, inteso quale vantaggio economico riveniente dallo sfruttamento e dal processo di reificazione della persona offesa nel momento della cessione ad altri.
Avverso la sentenza in commento, l’imputato presentava ricorso per Cassazione, deducendo la erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla configurabilità del reato contestato, in primo luogo rilevando come la Corte territoriale non avrebbe specificato quale delle due fattispecie alternativamente previste dall’art. 600 c.p. risultasse integrata[2]. In secondo luogo, osservava come il giudice di merito non avrebbe tenuto in considerazione le c.d. motivazioni culturali, ossia le tradizioni e i costumi sociali della comunità rom e dell’ordinamento giuridico di riferimento, per il quale il “prezzo della vittima” costituirebbe un risalente istituto giuridico privo di natura corrispettiva, ma funzionale al risarcimento della famiglia di origine per la “perdita del proprio componente”. Ne inferiva l’assenza dell’elemento soggettivo, rilevando come l’adesione ai fattori culturali lo abbia generato in lui una ragionevole convinzione di comportarsi lecitamente.
Muoveva, infine, una censura in ordine alla mancata riqualificazione del fatto contestato nella fattispecie di costrizione o induzione al matrimonio, avente natura di fattispecie più favorevole al reo.
2. Il nuovo delitto di costrizione o induzione al matrimonio e l’armonizzazione giuridica perseguita dal legislatore italiano
Preliminarmente, appare opportuno soffermarsi sulla natura della nuova fattispecie, vagliando anche le ragioni politico-criminali che hanno indotto il legislatore ad introdurla nel codice penale, nella specie nel titolo XI relativo ai delitti contro la famiglia e non nel capo III, titolo XII, in materia di delitti contro la libertà individuale. Malgrado la collocazione normativa sia stata criticata da qualche commentatore, tuttavia, deve ritenersi che il nuovo delitto ha natura di fattispecie plurioffensiva, apprestando tutela all’istituzione matrimoniale e, al contempo, alla libertà di autodeterminazione della persona.
La fattispecie astratta costituisce la trasposizione normativa parziale dell’art. 37 della Convezione di Istanbul e del contenuto della Direttiva 2012/29/UE[3]. Invero, la novità legislativa assolve all’esigenza di apprestare tutela penale ai soggetti che vengono obbligati, per mezzo della violenza o della minaccia, o indotti tramite approfittamento delle condizioni di vulnerabilità, a contrarre matrimonio o unione civile. Ed infatti, in assenza di una disciplina specifica e peculiare, la precedente dottrina e giurisprudenza di legittimità hanno ipotizzato la sussumibilità della fattispecie concreta nell’ambito applicativo dei reati previsti dagli artt. 558 c.p. (induzione al matrimonio mediante inganno), 573 c.p. (sottrazione consensuale di minorenni, fattispecie attenuata nella ipotesi in cui il fatto fosse stato commesso “per fine di matrimonio”), 574 c.p. (sottrazione di persone incapaci), 605 c.p. (sequestro di persona), 574-bis (sottrazione e trattenimento di minore all’estero) e 610 c.p. (violenza privata)[4]. Fattispecie che presentano alcuni elementi costitutivi in comune con la nuova disposizione, evidenziando come tra di esse non sia stata mai annoverata la riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù. Ciò lascerebbe intendere, almeno in linea teorica, l’inesistenza di punti di contatto tra le due fattispecie, così come sostenuto dalla Corte nella sentenza in commento, nella quale si è osservato che mai in passato è stato “ipotizzato che il “matrimonio forzato e/o precoce” integrasse di per sé il reato di cui all’art. 600 comma 1 c.p.”.
Quanto alla struttura, la formulazione legislativa depone per la natura comune del reato, in quanto le condotte contestate possono essere poste in essere da chiunque; inoltre, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, che si sostanzia nella mera coscienza e volontà di costringere o indurre qualcuno a contrarre matrimonio o unione civile, a nulla rilevando le motivazioni specifiche che hanno animato la condotta del reo. Più articolato appare, invece, l’elemento oggettivo, la cui individuazione dipende dalla formulazione dell’art. 558 bis c.p. in due fattispecie: al comma 1, viene sanzionata la condotta costrittiva posta in essere con violenza o minaccia[5]; al comma 2, invece, viene punita la condotta induttiva consistente, da un lato, nell’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di necessità di una persona e, dall’altra, dall’abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile[6].
3. Le questioni affrontate dalla Corte: configurabilità del reato di riduzione in schiavitù
Nella pronuncia in commento, i giudici di legittimità hanno confermano la ricostruzione operata dai giudici di merito, ritenendo sussistenti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 600, comma 1, c.p. Sotto il profilo soggettivo, pur non negando che il reo abbia agito sotto l’impulso dell’adesione al sistema culturale di riferimento, tuttavia, la Corte ha osservato che lo stesso agiva nella consapevolezza di porre in essere un comportamento illecito per l’ordinamento giuridico italiano, deponendo in tal senso la risalente presenza sul territorio italiano e le dichiarazioni divergenti acquisite in fase di indagini[7].
Anche sul versante oggettivo la Corte conferma le argomentazioni dei giudici di merito, rilevando come il reo avesse sottoposto la vittima ad un processo di reificazione: si richiede, infatti, che la vittima sia stata “oggettivizzata” e che l’autore del fatto illecito eserciti sulla stessa i poteri corrispondenti al diritto di proprietà[8]. La cessione contro la corresponsione del c.d. “prezzo della sposa”, in particolare, è stata ritenuta espressione di quella condizione di schiavitù di fatto idonea, da un lato, a limitare la libertà di autodeterminazione della vittima e, dall’altro, a configurare l’essere umano quale mera merce di scambio.
4. Segue: l’assenza di un fenomeno successorio tra l’art. 600, comma 1, c.p., e l’art. 558 bis c.p.
Il profilo più interessante della pronuncia attiene al rapporto tra le due fattispecie, il quale è stato dedotto dal ricorrente in termini di specialità diacronica[9] e, quindi, in un rapporto di successione di leggi penali nel tempo, con presunta applicazione dell’art. 2, comma 4, c.p. In particolare, il ricorrente osservava che l’introduzione dell’art. 558 bis c.p. configurava una ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, capace di assorbire il disvalore di quelle condotte che, prima di tale innovazione legislativa, sarebbero state riconducibili al campo applicativo dell’art. 600 c.p.
La Corte di legittimità ha diversamente opinato, esprimendo il principio di diritto per cui, in applicazione del c.d. criterio strutturale in astratto, tra le due fattispecie non può predicarsi una successione di leggi penali nel tempo, difettando l’area di coincidenza strutturale tra le stesse: l’imputato non può giovarsi dell’effetto favorevole di cui all’art. 2, comma 4, c.p. Si conclude, pertanto, per l’assenza di un rapporto in termini di “specialità diacronica”, escludendosi l’applicazione dell’art. 558-bis c.p. al caso di specie.
In particolare, al fine di individuare il criterio di soluzione della presunta questione successoria, per un verso, la Corte contesta il richiamo implicito al criterio della c.d. doppia incriminabilità in concreto[10], osservando che può discutersi di fenomeno successorio tra leggi penali, ex art. 2, comma 4, c.p., quando la fattispecie prevista dalla legge successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente. Situazione, questa, che – come si vedrà – non è ritenuta ricorrente dai giudici di legittimità, per i quali non è “stato mai ipotizzato che il matrimonio forzato e/o precoce integrasse di per sé il reato di cui all’art. 600, comma 1, c.p.”.
Per altro verso, aderisce all’orientamento pacifico della giurisprudenza della legittimità e della dottrina, opinando per il c.d. criterio del confronto strutturale[11] o della doppia incriminabilità in astratto: quest’ultimo, invero, valorizza il confronto strutturale tra le fattispecie astratte e ricerca “quell’area di coincidenza tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo”. Ed infatti, in applicazione del suddetto criterio, si ha fenomeno successorio nel caso in cui, a fronte di una comparazione, si evince un rapporto strutturale di continenza tra le due fattispecie, tal per cui la norma successiva presenta elementi di specialità rispetto a quella originaria generale e sia idonea ad inglobarla.[12]
In particolare, la continuità normativa tra due fattispecie non deve basarsi meramente su “criteri valutativi, come quelli relativi ai beni tutelati e alle modalità di offesa, assai spesso incapaci di condurre ad approdi interpretativi sicuri”[13], bensì su una comparazione organizzata su due livelli: da un lato, si tiene conto del grado di specificazione della fattispecie successiva rispetto a quella originaria e, dall’altro, e si procede all’attività di sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta delineata da una delle due norme. Pertanto, solo ove la fattispecie concreta oggetto di attenzione fosse effettivamente annoverabile nella sfera di disciplina della fattispecie della costrizione al matrimonio, ex art. 558 bis c.p., allora potrà sostenersi la ricorrenza di un fenomeno di successione favorevole al reo.
Nella specie, dal confronto strutturale tra le due fattispecie emerge che “i fatti tipizzati dalle due norme incriminatrici non presentano alcun elemento di contatto”, perché la fattispecie della riduzione e mantenimento in schiavitù, ex art. 600, comma 1, c.p., non contempla gli elementi della violenza e della minaccia, intesi quali elementi costitutivi della fattispecie di matrimonio forzato e/o precoce (secondo la formulazione di cui al comma 1 dell’art. 558 bis c.p.). Ed invero, ricopre un ruolo dirimente la circostanza della cessione della vittima che, in assenza di fatti di violenza o minaccia[14], integra gli estremi della reificazione e dello sfruttamento riconducibile alla nozione di riduzione in schiavitù[15]. Inoltre, in virtù di un criterio storico, i giudici di legittimità hanno evidenziato che, anche prima dell’introduzione dell’art. 558-bis c.p., le ipotesi di matrimonio forzato e/o precoce non hanno mai integrato, di per sé, il reato di cui all’art. 600, comma 1, c.p., così come addebitato all’imputato.
In definitiva, la comparazione tra le fattispecie astratte “non può che avere esito negativo, non registrandosi alcuna coincidenza tra le fattispecie a confronto”. La soluzione scelta dalla Corte è preferibile perché, in difetto di comunanza di elementi costitutivi, non può predicarsi l’applicazione della nuova fattispecie più favorevole, anche se questa sanziona la specifica condotta della costrizione o induzione al matrimonio: non è la sola finalità, ossia la contrazione del matrimonio, a caratterizzare la specialità dell’art. 558 bis c.p. rispetto al delitto di cui all’art. 600, comma 1, c.p., in quanto quest’ultima fattispecie astratta, configurando un reato di mera condotta, è integrata in presenza dell’esercizio, su di una persona, dei poteri assimilabili a quelli del diritto di proprietà[16].
5. Ulteriori questioni
In altro passaggio della sentenza, la Corte accenna ad una ulteriore questione fondata sulla considerazione per cui la “violenza e minaccia non sono tratti costitutivi del delitto di riduzione in schiavitù […] bensì di quello di riduzione o mantenimento di persona in uno stato di soggezione continuità”. Anche se implicitamente, i giudici di legittimità sembrano accostare la fattispecie della riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa a quella di cui all’art. 558 bis c.p., caratterizzata dall’impiego della violenza, della minaccia o delle modalità induttive.
Con riferimento a questo punto, la prospettiva di analisi potrebbe non essere quella della specialità diacronica, bensì della specialità di tipo sincronico, ossia del rapporto tra due norme compresenti nel sistema giuridico, senza che si verifichi la sostituzione di una norma generale con una caratterizzata da elementi di specialità: in questo caso, si ricorre al principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. Ed invero, le classi di fattispecie che potrebbero presentarsi all’attenzione dell’interprete comprendono le ipotesi in cui il matrimonio è evento conseguente all’impiego sia della violenza o della minaccia, sia di un’attività di induzione[17]: si tratta, infatti, di condotte astrattamente riconducibili anche al delitto di riduzione e mantenimento in servitù.
In applicazione del criterio di specialità, l’attività prodromica dell’interprete consiste nell’individuazione della “stessa materia” che, in virtù del confronto strutturale tra le fattispecie astratte, conduce ad accertare la “esistenza di un’area di disvalore comune e sovrapponibile tra le condotte descritte nelle norme concorrenti”[18], area che descrive un rapporto di continenza verificabile “mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse”. In particolare, il concetto di stessa materia esula dall’identità del bene giuridico tutelato, tal per cui può risolversi il conflitto anche in favore di una fattispecie che, nonostante la diversità de bene, presenta gli stessi elementi costitutivi di altra fattispecie.
Ebbene, nella specie, il confronto strutturale tra l’art. 600, comma 2, c.p. e le ipotesi disciplinate dall’art. 558 bis c.p. sembrerebbe avere esito positivo, nel senso che la seconda fattispecie condivide parte degli stessi elementi costitutivi della prima, ossia: la celebrazione del matrimonio in stato di costrizione (violenza o minaccia) o di induzione al matrimonio, quest’ultima caratterizzata dallo sfruttamento delle condizioni o di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di una situazione di necessità. A questi si accostano ulteriori elementi specializzanti (c.d. specificazione per aggiunta), individuabili, da un lato, nella finalità della condotta costrittiva o induttiva verso la contrazione del matrimonio e, dall’altro, nell’approfittamento delle suddette condizioni congiunto all’abuso delle relazioni familiari, domestiche o derivanti dall’affidamento della persona offesa per ragioni di cura, istruzione o educazione.
L’art. 558 bis c.p., pertanto, sembrerebbe condividere gli stessi elementi, o parte di essi, della fattispecie di riduzione o di mantenimento in una condizione di servitù, con gli ulteriori elementi di specificazione dati dal tipo di relazione che connota l’abuso (approfittamento delle condizioni personali, domestiche, etc.) e dalla finalità propria dell’attività costrittiva o induttiva. Si perviene alla medesima conclusione, inoltre, anche se il bene giuridico tutelato è diverso a seconda della fattispecie che si considera.
Con specifico riferimento all’ipotesi dell’induzione al matrimonio, ad essa può ricondursi l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, in materia di riduzione e mantenimento in servitù, alle espressioni “sfruttamento delle condizioni o di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità psichica o di una situazione di necessità, anche con abuso di autorità”, ossia la compromissione della libertà di autodeterminazione della vittima rispetto alla generalità delle scelte che connotano la sua esistenza, anche se questa non risulti del tutto alterata; e ciò anche nell'ipotesi – specifica la Corte - in cui la vittima conservi una parziale libertà di autodeterminazione[19].
L’impossibilità o la ridotta capacità di resistenza può ben configurarsi anche nell’ipotesi di una vittima che, benché non opponga resistenza alla limitazione della libertà personale, vi aderisce in conformità ai costumi e alle usanze della cultura di riferimento. In altri termini, l’approfittamento della condizione può concretizzarsi anche nella induzione c.d. implicita a contrarre matrimonio, in virtù del richiamo alle tradizioni cui la famiglia della vittima aderisce, costituendo una sorta di “adesione obbligata e incondizionata e senza possibilità di scelta” (senza, dunque, che assuma efficacia scriminante il consenso o l’acquiescenza della vittima). Conseguenza, questa, resa complessa dall’inserimento della vittima in un sistema familiare caratterizzato dal patriarcato o, comunque, dall’esercizio di una radicale e rigorosa patria potestà sui figli, configurandosi un abuso delle relazioni familiari in materia di cura, educazione e vigilanza dei figli[20].
A fronte di un contesto familiare indicativo di uno “stato di soggezione implicito”, riconducibile alle indicazioni delineate dall’art. 600, comma 2, c.p., ma caratterizzato anche da un abuso sistematico dell’autorità derivante dall’affidamento della vittima ad un capo famiglia (ex art. 558 bis, comma 2, c.p.), l’interprete potrebbe aderire ad un’interpretazione evolutiva, che tenga conto della specificità del contesto delittuoso in cui le condotte si esplicano.
I vantaggi dell’impiego di questa modalità operativa rivengono dalla considerazione oggettiva dello svolgimento delle singole fattispecie e dei contesti di riferimento, al contempo, evitando i rischi connaturati ad un uso eccessivamente discrezionale o e valoriale di criteri astratti ad opera del giudice. Rilevano, dunque, il rapporto tra la vittima e l’autore del reato, il contesto familiare e quello culturale, che potrebbero deporre, anche in presenza di un contesto tipico di riduzione e mantenimento in servitù, per l’applicazione della fattispecie speciale di cui all’art. 558 bis, comma 2, c.p.[21]
In virtù di quanto su esposto, e come accennato dalla Corte, ben potrebbe in futuro porsi la necessità di definire il rapporto tra gli artt. 600, comma 2, e 558 bis c.p., per lo più in termini di specialità sincronica, con applicazione del principio di specialità.
[1] Cassazione, Sezione I, n. 30538/2021.
[2] Il ricorrente osservava che le due fattispecie alternative fossero accumunate dall’elemento deIl’asservimento della vittime ai fini dello sfruttamento: quest’ultimo individuato nel vantaggio economico che l’imputato avrebbe tratto dalla cessione della persona offesa alla famiglia cui apparteneva il soggetto a cui era stata promessa in sposa sulla base di un accordo a cui la persona offesa è rimasta estranea.
[3] L’art. 37 della Convenzione di Istanbul impone agli Stati firmatari di reprimere tutti quei comportamenti consistenti nel costringere un adulto o un minore a contrarre matrimonio e nell’attirare un adulto o un minore nel territorio di uno Stato estero diverso da quello in cui risiede, con lo scopo di costringerlo a contrarre un matrimonio. La Direttiva 2012/29/UE, volta a dettare norme minime in materia di diritti all'assistenza, informazione, interpretazione e traduzione nonché protezione nei confronti di tutte le vittime di reato, nel considerando n. 17), include nella violenza di genere anche quella posta in essere nelle relazioni strette e i cd. matrimoni forzati.
[4] In tal senso, la Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione sulla Legge 19 luglio 2019, n. 69, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. In dottrina, G. Pepe, I matrimoni forzati presto previsti come reato anche in Italia? Qualche approfondimento sul fenomeno ed un primo commento alla norma volta a contrastarlo, contenuta nel Disegno di Legge “Codice Rosso”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, maggio 2019, prima dell’approvazione della legge, ipotizzava de iure condito il ricorso alle fattispecie degli “artt. 572, 605, 610, 609-bis, 609-quater c.p., rilevando come, tuttavia, si configurasse “una tutela poco uniforme, che non si rivolge in modo puntuale allo specifico bene giuridico della libertà di autodeterminarsi sulla propria vita sentimentale e matrimoniale e non riesce a cogliere compiutamente il fatto lesivo, come invece cerca di fare, attraverso un’incriminazione specifica, la proposta di legge oggi all’esame del Senato”. Differente si mostra la tendenza di alcuni paesi europei, nello specifico, Danimarca, Germania, Spagna, Slovacchia e Regno Unito, i quali hanno provveduto in tempi celeri a criminalizzare le condotte in questione.
[5] La ratio della generica previsione della “costrizione” è quella di sanzionare, in modo incondizionato e senza categorizzazioni di sorta, qualsiasi condotta realizzata tramite violenza o minaccia. In particolare, la Corte di Cassazione ha evidenziato come il comma 1 ricalchi la formulazione dell’art. 610 c.p., in materia di violenza privata, “di cui pare costituire norma speciale”, tal per cui la nozione di “violenza e minaccia” viene a coincidere con l’interpretazione fornita dalla prassi giurisprudenziale in tema di art. 610 c.p.
[6] Ulteriori profili di disciplina attengono all’applicazione nello spazio della nuova fattispecie e all’interpretazione estensiva della nozione “matrimonio ed unioni civili”. Con riferimento al primo profilo spaziale, l’ultimo comma dell’art. 558 bis c.p. consente all’autorità giudiziaria italiana di perseguire, in deroga la principio di territorialità, le condotte commesse all’estero anche da cittadini italiani, in considerazione, da un lato, della natura transfrontaliera dei matrimoni forzati e, dall’altro, dell’eventuale trasferimento della vittima da un territorio nazionale ad un altro (artt. 36, 37, 38 e 39 della Convenzione di Istanbul). Quanto al secondo profilo, invece, la giurisprudenza di legittimità ritiene che la nozione di matrimonio o unione civile possa essere estesa anche a tutte quelle ipotesi di relazioni personali che producono gli stessi effetti di un matrimonio o unione civile, pur sotto diversa denominazione: se la volontà legislativa è quella di sanzionare una “pratica che sovente si manifesta al di fuori del territorio di appartenenza”, allora, la disposizione sembrerebbe riferirsi anche rapporti o vincoli di natura personale e riconducibili, pur se con diversità sul piano effettuale, alle ipotesi disciplinate dall’ordinamento giuridico italiano (in tal senso, Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione sulla Legge 19 luglio 2019, n. 69, Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere).
[7] La sussistenza dell’elemento soggettivo si fonda anche su altra argomentazione, ossia sull’esclusione della rilevanza del c.d. fattore culturale. Ed infatti, aderendo all’indirizzo prevalente in dottrina e in giurisprudenza, la Corte sostiene che le condotte di riduzione in schiavitù non possono essere scriminante sulla base del c.d. movente culturale, con riferimento a tutti i casi in cui l'esercizio del diritto dell'agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduca nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall'ordinamento costituzionale, presidiati dalle norme penali violate. Inoltre, ai fini dell’esclusione della rilevanza penale di un fatto, il giudice di merito è chiamato a valutare congiuntamente “la natura della regola culturale in adesione alla quale la condotta è stata posta in essere - se cioè di matrice religiosa, consuetudinaria o positiva (prevista cioè dall’ordinamento giuridico di eventuale originaria appartenenza) - nonché il suo carattere vincolante per l’agente, ma altresì il livello di integrazione di quest’ultimo nel contesto sociale dominante”. Conseguenza di questa argomentazione è quella per cui, in tema di riduzione in schiavitù, “non assume rilievo scriminante il movente culturale in tutti i casi in cui l'esercizio del diritto dell'agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario di riferimento si traduca nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall'ordinamento costituzionale, presidiati dalle norme penali violate”.
[8] La Corte, infatti, avalla una interpretazione ampia del processo di reificazione della vittima, osservando come ad esso si possa ricondurre non solo una “condizione di schiavitù di diritto, ma altresì quelle situazioni nelle quali di fatto venga esercitata su di un altro essere umano una signoria così pervasiva da risultare equivalente nel suo contenuto alle forme di manifestazione del diritto di proprietà”.
[9] Per una trattazione esaustiva della categoria e delle relative differenze con la specialità sincronica, si è ampiamente espressa sia la Corte Costituzionale (sentenze nn. 196/2004 e 324/2008) che la Corte di Cassazione (sentenze nn. 24834/2017 e 1418/2017). In dottrina, tra tutti, M. Gambardella, Specialità sincronica e specialità diacronica nel controllo di costituzionalità delle norme penali di favore, in Cassazione Penale, 2007.
[10] Tesi della doppia punibilità in concreto o del fatto concreto, per la quale si ha successione favorevole al reo se un fatto risulta concretamente punibile sia in base alla vecchia norma che alla nuova più favorevole.
[11] Il percorso si è sviluppato su tre diverse tappe: in un primo momento, veniva avallata la tesi del c.d. fatto concreto o della doppia punibilità in concreto, superata dalla posizione di altra dottrina e giurisprudenza in favore del criterio valutativo o della c.d. continuità del tipo di illecito. A questo, faceva seguito l’attuale orientamento maggioritario in favore del criterio strutturale.
[12] In giurisprudenza di legittimità, le pronunce a SS.UU. Magera del 2007, Niccoli del 2008 e Rizzoli del 2009. Di recente, SS.UU., sentenza n. 25887/2003 e SS.UU., sentenza n. 20664/2017. Nello stesso senso, Cass., Sez. VI, sentenza n. 30227/2020 e 36317/2020. In dottrina, G.L. Gatta, la Cassazione applica il 'criterio strutturale' e ribadisce: nessuna abolitio criminis del peculato commesso dall'albergatore prima del 'decreto-rilancio', www.sistemapenale.it, dicembre 2020.
[13] In aderenza al principio di diritto sancito da Sez. U, Sentenza n. 25887/2003.
[14] La figura disciplinata dal comma 1 dell’art. 600 c.p. è rappresentata dall'esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà (ipotesi corrispondente a quella descritta nella rubrica come "schiavitù"); la figura disciplinata dal comma 2 è rappresentata dalla riduzione o dal mantenimento di una persona, attuati con le modalità previste dal secondo comma, in uno stato di soggezione continuativa, nella quale la vittima venga costretta a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (ipotesi descritta dalla rubrica come "servitù").
[15] Ciò in quanto il delitto di cui all’art. 600 c.p. è configurabile anche quando il soggetto passivo non sia consapevole del suo stato, essendo, dunque, sufficiente l’esercizio sulla vittima di poteri corrispondenti al diritto di proprietà o la sua riduzione o mantenimento in stato di soggezione continuativa.
[16] Pertanto, in aderenza alla suddetta conclusione, può ben escludersi un fenomeno successorio favorevole al reo e, quindi, anche un’eventuale abolitio parziale, in virtù della diversità strutturale tra le due fattispecie e, in particolare, dell’assenza di precedenti giurisprudenziali che riconducessero le precedenti fattispecie concrete di matrimoni forzati e/o precoci nel novero delle ipotesi disciplinate dall’art. 600, comma 1, c.p.
[17] Attività di induzione consistente nell’approfittamento delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia.
[18] Cass., SS.UU., n. 1963/2011.
[19] Dirimente, per lo più, l’approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica che, insieme allo sfruttamento della condizione di vulnerabilità e dell’abuso di relazioni domestiche o familiari, viene ricondotto alla generale formula della condizione di vulnerabilità della vittima, alla quale la giurisprudenza di legittimità riconduce la “condizione di diminuita capacità di resistenza della vittima, la quale renderà irrilevante la sua eventuale acquiescenza al volere dell'agente”.
[20] A corroborare questa conclusione potrebbe dedursi la questione circa la possibilità di considerare, ai fini del concetto di “stessa materia”, l’eventuale area comune determinata dai c.d. reati culturalmente orientati. Nell’ambito di contesti delittuosi caratterizzati dall’adesione a valori o matrici culturali contrastanti con l’ordinamento giuridico, l’area comune tracciata dal criterio strutturale potrebbe essere rinvenuta nel contesto multiculturale in cui la vittima è collocata e nelle condotte materiali che la stessa subisce o cui implicitamente aderisce.
[21] A conferma di questa conclusione si possono dedurre, altresì, le intenzioni del legislatore eurounitario, per il quale le fattispecie di matrimonio forzato e/o precoce devono essere sanzionate a maggior ragione quando si innestano in contesti o ambienti caratterizzati dal costante impiego dei poteri tipici della riduzione o del mantenimento in schiavitù o servitù.
Le Sezioni unite su assegno divorzile e convivenza di fatto. La funzione esclusivamente compensativa e i persistenti margini di incertezza sulla determinazione dell'assegno di divorzio[1]
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Le ragioni della decisione - 2. L’impossibilità di applicare analogicamente l’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio - 3. L’abbandono della funzione composita e la funzione esclusivamente compensativa. Criticità - 4. Riflessioni conclusive e nuove prospettive dell’assegno divorzile.
1. Le ragioni della decisione
Con la decisione n. 32198 del 5 novembre 2021 la Corte di Cassazione a Sezioni unite ha composto il contrasto sollevato con ordinanza n. 28995 del 2020[2] in ordine alla questione del mantenimento o meno dell’assegno divorzile in caso di instaurazione di una convivenza di fatto del soggetto richiedente l’assegno, scegliendo una terza via rispetto alla secca alternativa estinzione-non estinzione dell’assegno. La terza via scelta dalla Cassazione a Sezioni unite è condensata nei seguenti principi di diritto: “L’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica e integrale del diritto all’assegno. Qualora sia giudizialmente accertata l’instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche dell’attualità dei mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, mantiene il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell’ex coniuge in funzione esclusivamente compensativa. A tal fine, il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio; dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge. Tale assegno, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita endomatrimoniale né alla nuova condizione di vita dell’ex coniuge ma deve essere quantificato alla luce dei principi suesposti, tenuto conto, altresì della durata del matrimonio.” Fondamento e supporto di questa complessa e articolata formula che porta al risultato finale di ritenere non estinto il diritto alla corresponsione dell’assegno divorzile in caso di instaurazione di una convivenza di fatto sono:
1) l’impossibilità di applicare analogicamente l’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio, che prevede l’estinzione automatica dell’assegno quando il soggetto richiedente passi a nuove nozze, data l’impossibilità di individuare la aedem ratio tra matrimonio e convivenza di fatto;
2) l’individuazione della natura esclusivamente compensativa dell’assegno divorzile, che sarebbe completamente esautorata ove si ritenesse che l’instaurazione di una convivenza determinasse automaticamente l’estinzione dell’assegno divorzile. Alla questione della natura esclusivamente compensativa dell’assegno divorzile dedicherò la maggior parte delle mie riflessioni.
Come emerge dal titolo di questa nota e come emergerà più chiaramente dalla lettura di queste pagine, questa decisione, anche se relativa ad una specifica problematica, concorre ad accrescere la perdurante incertezza sulla natura dell'assegno divorzile[3]. L'affermazione della natura esclusivamente compensativa, oltre a far emergere più punti di criticità e di incertezza, si discosta dall'orientamento più recente delle Sezioni unite che nel 2018 con la nota decisione n. 18287 aveva affermato la natura composita dell'assegno divorzile, assistenziale e in pari merito compensativa e retributiva. Il disagio dell'interprete è imputabile ad un quadro giurisprudenziale incerto che determina a cascata un sentimento di grande incertezza negli operatori professionali e in chi si trova a dover affrontare le conseguenze di una crisi familiare. Questo sentimento di incertezza risulta enfatizzato in questo caso da un diverso trattamento che viene riservato a convivenza e matrimonio. L'instaurazione di una nuova convivenza non determina l'estinzione automatica dell'assegno divorzile, mentre diversa sorte è assegnata dal legislatore a chi decide di convolare a nuove nozze. Le pagine che seguono sono dedicate all'analisi delle argomentazioni poste a sostegno dei principi di diritto prima enunciati.
2. L’impossibilità di applicare analogicamente l’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio
L’argomentazione principale addotta in motivazione per fondare il mantenimento dell’assegno divorzile anche in caso di instaurazione di una nuova convivenza di fatto è l’impossibilità di applicare analogicamente la disposizione sulla legge del divorzio che prevede l'estinzione automatica nel caso di nuove nozze, dato che “la situazione di convivenza non è pienamente assimilabile al matrimonio, né sotto il profilo della, almeno tendenziale, stabilità, né tanto meno sotto il profilo delle tutele che offre al convivente, nella fase fisiologica e soprattutto nella fase patologica del rapporto”[4]. La Corte arriva a questa inaspettata affermazione dopo aver decritto i passaggi dei vari orientamenti giurisprudenziali che nel tempo hanno attribuito rilevanza alla convivenza, affermando che “sono progressivamente aumentati, nel corso degli anni, i numeri delle separazioni e dei divorzi… e soprattutto è aumentato il numero delle convivenze di fatto”[5] rilevando “la progressiva laicizzazione della società e il venir meno di ogni avversione nei confronti delle convivenze more uxorio”[6]. In altro passaggio della motivazione emerge il passaggio da “un modello sociale unitario, che tendeva ad identificarsi nella famiglia indissolubilmente fondata sul matrimonio” ad “una realtà composita, in cui si ha una pluralità di formazioni sociali, la cui pari dignità si fonda sulla Costituzione e deve essere tutelata”. L’insieme di queste riflessioni avrebbe infatti dovuto coerentemente portare a sostenere la tesi della estinzione automatica dell’assegno divorzile, data l’innegabile equiparazione, quanto meno sotto il profilo che qui interessa, della convivenza al matrimonio[7]. Chi scrive ha da sempre sostenuto che la differenza fondamentale tra matrimonio e convivenza, che permane anche dopo la disciplina della legge n. 76 del 2016, sia fondata sulla differenza dei modelli, dato che il matrimonio e oggi, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli istituzionali, mentre la convivenza, al contrario, è modello, sì familiare, ma non a struttura istituzionale e ciò spiega perché, ad esempio, ai conviventi non sia stata riconosciuta la qualità di legittimari. Tuttavia, come ho anche scritto è innegabile che sotto il profilo che è interessato dalla decisione in commento, non c’è alcun dubbio che convivenza e matrimonio siano modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale e sono proprio questi obblighi che giustificherebbero l’estinzione dell’assegno divorzile, tanto nel caso di nuove nozze che nel caso di convivenza more uxorio[8]. È curioso come è la stessa Corte che condivide queste riflessioni affermando in modo esplicito che “l’instaurazione di una nuova convivenza stabile…comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il nuovo compagno o la nuova compagna, dai quali si ha diritto di pretendere, finchè permane la convivenza, un impegno dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quali adempimento di una obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto, anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale (come attualmente previsto dall’art. 1, comma 37 della legge n. 76 del 2016”[9]. Ma da queste affermazioni non si è tratta la necessità di prevedere per questo specifico profilo un uguale trattamento. Né appaiono convincenti le citate argomentazioni che fondano la distinzione sul differente trattamento della convivenza nella fase patologica del rapporto. Come ho già evidenziato[10], tali argomentazioni riguardano un’altra questione, quella della situazione successiva e comunque non hanno la forza di cancellare la matrice solidaristica della famiglia di fatto. Ritenere come ha fatto la Corte che solo il matrimonio determini l’estinzione automatica dell’assegno, stante l’impossibilità di applicazione analogica dell’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio, comporta una scelta obbligata dell’ordinamento, se non si vuole evitare la prevedibile e abusiva corsa alla convivenza e alla altrettanto prevedibile fuga da nuovi matrimoni, al solo fine di mantenere l’assegno divorzile che oggi viene garantito solo al richiedente che abbia instaurato una nuova convivenza di fatto. L’unica scelta obbligata sembra essere allora quella di abrogare la disposizione normativa che oggi prevede l’estinzione automatica dell’assegno divorzile. Sembra infatti discriminatorio oltre che ingiusto garantire una funzione compensativa solo a chi abbia deciso di convivere e non anche a chi abbia deciso di sposarsi, dato che la funzione compensativa, anche se qui viene intesa in senso esclusivo, rappresenta uno dei pilastri su cui si fonda l’assegno divorzile, insieme alla funzione assistenziale. Né potrebbe ipotizzarsi che la funzione compensativa, qui intesa quale “compenso” per quanto prestato durante il rapporto matrimoniale, sia assicurata solo a chi, dopo un lungo matrimonio, decida di convivere e non a chi abbia deciso di convolare a nuove nozze, dato che la funzione compensativa, come espressamente affermato dalla Corte, è diretta a saldare i conti con il passato[11] e non è vincolata al presente, ovvero alle nuove scelte di vita intraprese da uno degli ex-conugi.
3. L’abbandono della funzione composita e la funzione esclusivamente compensativa. Criticità
Credo che tuttavia il punto più debole di questa decisione sia proprio quello di aver scorporato la funzione assistenziale da un assegno cui le stesse Sezioni unite nel 2018 avevano attribuito natura composita, assistenziale e in pari merito compensativa e retributiva[12]. L’affermazione della natura esclusivamente compensativa dell’assegno divorzile cosa significa? Per cercare di capirlo occorre capire cosa si è inteso fino ad oggi per funzione assistenziale. La funzione assistenziale, in tutte le sue diverse declinazioni, che hanno scandito le diverse stagioni della natura dell’assegno divorzile[13] ha significato assicurare tutela al coniuge che, a seguito della crisi della famiglia si trova in una condizione di debolezza economica, e quindi in stato di inferiorità economica rispetto all’altro, in coerenza con la formula normativa della ‘mancanza dei mezzi adeguati’[14]. Questo dato è presente sia in chi ha creduto che la solidarietà postconiugale si spinga a garantire il pregresso tenore di vita, sia in chi ha ritenuto che l’assegno divorzile debba garantire il minimo sostentamento, equiparato all’autosufficienza economica. Non si vede infatti per quale ragione debba garantirsi l’assegno, sia pure parametrato ai meri alimenti legali, se non per dare appunto assistenza a chi si trovi in condizioni economiche svantaggiate. Se davvero la funzione assistenziale scomparisse, non sarebbe dovuta neanche la versione minimale dell’autosufficienza economica perché il soggetto richiedente non avrebbe titolo per averlo. Si tratta in entrambi casi di riconoscere la rilevanza alla solidarietà postconiugale[15]che nel primo caso trova una espressione più ampia, mentre nel secondo caso una espressione minimale. L’ulteriore passaggio della giurisprudenza e in particolare delle Sezioni unite del 2018, in ordine alla natura composita dell’assegno divorzile e alla rilevanza della natura compensativa non ha infatti significato l’abbandono della funzione assistenziale ma la sua integrazione con una funzione compensativa che ha consentito di dare rilevanza alla solidarietà postconiugale in concreto, perché valutata nella concretezza del rapporto matrimoniale pregresso, delle rinunce e dei sacrifici fatti, ma sempre sul presupposto di una funzione assistenziale, la cui mancanza determinerebbe l’inevitabile caduta della funzione compensativa[16]. Nessun assegno potrebbe infatti garantirsi a chi si trovi in uno stato di parità economica, anche se vi sono stati innegabili sacrifici e rinunce[17]. L’affermazione in ordine alla funzione esclusivamente compensativa, da intendersi come scorporo della funzione assistenziale significa invece assicurare l’assegno anche a prescindere da uno squilibrio economico. Il paradosso cui può portare questa soluzione è quello di garantire l’ultrattività dell’assegno anche a chi, più forte economicamente, abbia dedicato e fatto tanti sacrifici per la famiglia e abbia anche instaurato una nuova famiglia con un soggetto terzo, anche se nella forma della convivenza. Il risultato ultimo di questa impostazione è quello di attribuire all’assegno divorzile la funzione di mero “compenso” di quanto fatto nel corso del rapporto patrimoniale, quasi una sorta di risarcimento per la vita vissuta insieme. Questo risultato, sganciato dalla funzione assistenziale appare a chi scrive, oltre che pericoloso, foriero di ingiustizie, aggravate in questo caso dal confronto con chi abbia instaurato nuove nozze che invece si trova privato dell’assegno divorzile, senza alcuna indagine in ordine alla “compensazione” per quanto sacrificato o prestato durante il matrimonio. Per la verità, e questo è l’unico motivo di conforto, al di là del principio di diritto che afferma a chiare lettere la natura esclusivamente compensativa dell’assegno divorzile, nella motivazione la funzione assistenziale cacciata dalla porta rientra dalla finestra. L’attento lettore noterà che la funzione assistenziale cacciata dalla porta principale, e motivata dal fatto che “il nuovo legame sotto il profilo assistenziale si sostituisce al precedente” rientra dalla finestra laddove si afferma che “la carenza in capo ad uno dei coniugi di mezzi adeguati” rappresenti il “prerequisito fattuale”. La considerazione di questo elemento consente di evitare il paradosso della applicazione di una funzione meramente compensativa sganciata da ogni debolezza economica ma attraverso l’equivoco concettuale di degradare lo squilibrio economico a mero presupposto di fatto, anziché ad elemento che giustifica e legittima la natura assistenziale. Questo conforto non elimina tuttavia la contraddittorietà dell’affermazione di una natura esclusivamente compensativa, che rinuncia ed esclude la natura assistenziale. Del pari contraddittoria appare l’affermazione in ordine al valore della solidarietà postconiugale in concreto che appare monca ed orfana della funzione assistenziale. La contraddittorietà si coglie poi rispetto alla decisione a Sezioni unite del 2018 e al principio della natura composita dell’assegno divorzile che qui, almeno formalmente, viene abbandonata.
4. Riflessioni conclusive e nuove prospettive dell’assegno divorzile
La verità è che questa decisione risulta essere il compromesso tra le nuove istanze volte a salvare il vissuto del rapporto matrimoniale e l’innegabile riflessione in ordine al fatto che gli obblighi di solidarietà che nascono dalla convivenza si sostituiscono a quelli del rapporto matrimoniale, chiedendo l’estinzione dei secondi. Questa innegabile e inconciliabile tensione tra non estinzione ed estinzione dell’assegno divorzile ha trovato in questa decisione espressione nella distinzione tra funzione assistenziale che si estingue e funzione compensativa che permane, come se l’assegno divorzile fosse distinguibile in un assegno del passato e un assegno del futuro. Tuttavia è proprio questa distinzione che non pare accettabile, in quanto l’assegno del passato è dovuto solo e soltanto considerando la situazione attuale di squilibrio economico. Altrimenti l’assegno si snatura e si tramuta in una somma indennitaria data per il rapporto matrimoniale, che anche eticamente appare davvero insostenibile, data l’impossibilità di patrimonializzare le scelte di un rapporto familiare. Il vissuto del rapporto matrimoniale assume invece solo rilevanza quando si tratta di riequilibrare una situazione di disparità economica ed esistenziale[18]. Senza contare che assegnare all'assegno divorzile una funzione esclusivamente compensativa conduce inevitabilmente a renderlo oggettivamente incerto, dato l'elevato margine di discrezionalità che connota tale funzione[19]. Nonostante questi rilievi critici, sono da valutare positivamente le riflessioni in ordine alla limitazione temporale dell’assegno e al possibile accordo degli ex coniugi. Si tratta tuttavia di valutazioni che assumono una portata unicamente de jure condendo e che comunque richiedono un accordo che spesso è una chimera nella crisi dei rapporti matrimoniali. L’insieme di queste riflessioni restituisce all’interprete quella metafora del cantiere ancora aperto[20] che fa emergere l’incerto terreno della natura dell’assegno divorzile. Il disagio è dato da una sensazione di incertezza che in questo caso risulta aggravato dalla previsione di possibili abusi, forieri di grandi ingiustizie. In questa confusione concettuale, anche al fine di non perdere l’occasione per salvare importanti passi in avanti della giurisprudenza, credo che la via maestra sia l’intervento del legislatore. Questo intervento potrebbe seguire due diverse ed opposte direttive. O prevedere che la convivenza, al pari delle nuove nozze, determini l’estinzione automatica dell’assegno[21], come peraltro previsto dal progetto di legge Morani, o all’opposto abrogare la disposizione normativa che oggi prevede l’estinzione automatica solo nel caso di nuove nozze. Tertium non datur. Una revisione della legge sul divorzio dovrebbe farsi carico di prevedere in ogni caso una durata dell’assegno, come previsto in altri ordinamenti e considerare altresì tra i fattori di quantificazione dell’assegno i regimi patrimoniali e quanto già ricevuto attraverso altri meccanismi. La previsione di una durata dell’assegno sarebbe particolarmente auspicabile soprattutto ove si scelga la seconda opzione, ovvero quella di escludere l’estinzione automatica dell’assegno, oggi prevista da questa decisione che si commenta solo per il caso di instaurazione di una nuova convivenza, decisione che purtroppo fa emergere all'orizzonte rischi reali di ultrattività dell'assegno ben più gravi di quelli del passato e di quelli che vengono imputati alla funzione assistenziale.
Una soluzione diversa appare non più sostenibile data l’esigenza di assicurare alle famiglie in crisi e agli operatori professionali una navigazione sicura per evitare tentennamenti e soluzioni differenziate che comportano in ultima istanza la violazione del principio di giustizia, faro che deve guidare tutte le decisioni che riguardano il diritto delle persone e delle relazioni familiari.
[1] Dedico anche questo scritto a mio Padre, il cui pensiero si staglia sempre più nitido nella mia mente ed è per me motivo di grande conforto per qualsiasi riflessione umana e giuridica.
[2]Decisione che avevo già annotato per questa rivista: M. Bianca, Assegno divorzile e nuova famiglia di fatto: la questione alle Sezioni Unite. Estinzione automatica o valorizzazione del criterio compensativo dei sacrifici e delle scelte operate in costanza del rapporto matrimoniale? La necessità di trovare una terza via
[3]Parte del titolo di questa nota prende a prestito l'espressione del titolo di un recente saggio di mio Padre: C.M. BIANCA, Sui persistenti margini di incertezza in tema di determinazione dell'assegno di divorzio, Presentazione al volume di E. Al MUREDEN – R. ROVATTI (a cura di), Gli assegni di mantenimento tra disciplina legale e intelligenza artificiale, Torino, 2020, XVII. Più di recente ho rilevato la perdurante incertezza sulla natura dell'assegno di divorzio nel mio La perdurante incertezza sulla natura dell’assegno divorzile, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, a cura di V. Cuffaro, Milano, 2021, 325.
[4]In questo senso si era espressa parte della dottrina, C. RIMINI, in Fam e dir. 2021, 270 e ss. Sul punto avevo già espresso i miei rilievi critici nella citata nota all’ordinanza di rinvio alle Sezioni Unite, pubblicata in questa rivista.
[5]Così testualmente in motivazione.
[6] Così testualmente in motivazione.
[7]Per una interpretazione estensiva della norma sul divorzio, v. I. MARIANI, Assegno di divorzio e convivenza di fatto: brevi note critiche alla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili n. 32198/2021, in Questione giustizia 7 dicembre 2021.
[8]Per queste riflessioni si rinvia al mio citato scritto Assegno divorzile e nuova famiglia di fatto: la questione alle Sezioni Unite. Estinzione automatica o valorizzazione del criterio compensativo dei sacrifici e delle scelte operate in costanza del rapporto matrimoniale? La necessità di trovare una terza via.
[9] V. così testualmente il testo della motivazione.
[10] V. M. BIANCA, La perdurante incertezza dell’assegno divorzile, cit., 331.
[11] In questo senso appaiono significativi alcuni passaggi della motivazione che qui si riportano testualmente a proposito della quantificazione dell’assegno in funzione esclusivamente compensativa: “…Occorre procedere ad un calcolo non proiettato verso il futuro, ovvero correlato alla previsione di vita della persona, ma rivolto al passato, ovvero volto a stimare il contributo prestato in quell’arco di tempo chiuso, circoscritto alla durata della vita matrimoniale”
[12]Citata decisione dell’11 luglio 2018, n. 18287.
[13]Parla di quattro stagioni del divorzio E. QUADRI, La quarta stagione del divorzio: le prospettive di riforma, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, cit., 79 e ss.
[14] Così nel suo consueto stile cristallino C. M. BIANCA, Conseguenze personali e patrimoniali, in La riforma del divorzio, Atti del Convegno di Napoli, 22 maggio 1987, a cura di E. Quadri, Napoli, 1989, 49 e ss e ora pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma giuridica, T. 2, 743: “La natura assistenziale dell’assegno di divorzio si evidenzia ora nel dettato normativo che statuisce il diritto all’assegno da parte del coniuge che sia privo dei mezzi adeguati e che non possa procurarseli per ragioni oggettive. Questa previsione normativa pone dunque inequivocabilmente a presupposto del diritto all’assegno lo stato di bisogno del coniuge”.
[15]Il richiamo alla solidarietà postconiugale è inscindibile rispetto alla funzione assistenziale dell’assegno. V. C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1., 6° ed., Milano, 2017, 289: “la funzione assistenziale qualifica la natura dell’assegno e ne indica il fondamento nella solidarietà che permane tra coloro che sono stati uniti in matrimonio. Il matrimonio è una realtà che pur dopo il suo scioglimento rende doverosa l’assistenza economica tra coloro che di tale realtà sono stati parte. Questo dovere di assistenza non è il risultato di un’occasionale scelta legislativa ma risponde ad un’esigenza sociale di tutela del coniuge debole. Il dovere di aiutare economicamente l’ex-coniuge è precisamente un dovere giuridico fondato su quella solidarietà che alla stregua della coscienza sociale permane tra gli ex coniugi e che si qualifica come solidarietà postconiugale”.
[16]Sulla preminenza della funzione assistenziale anche a seguito della decisione a sezioni unite del 2018, v. C.M. BIANCA, Le Sezioni unite sull’assegno divorzile: una nuova luce sulla solidarietà postconiugale, in Fam e dir 2018, 956.
[17] V. C. M. BIANCA, Conseguenze personali e patrimoniali, cit., 57: “Rimane precluso l'ingresso alla tesi, fatta propria da qualche sentenza, secondo la quale i criteri di determinazione dell'assegno sarebbero anche autonome condizioni della sua attribuzione, con la conseguenza che la condanna alla corresponsione dell'assegno potrebbe prescindere dalla insufficienza del reddito dell'ex coniuge e basarsi esclusivamente sulle ragioni del divorzio, cioè sul comportamento tenuto dall'ex coniuge in violazione dei doveri matrimoniali, o con la conseguenza, ancora, che l'ex coniuge, il quale abbia una condizione economica equivalente a quella dell'altro, potrebbe pretendere da quest'ultimo l'assegno di divorzio esclusivamente quale compenso per il contributo dato alla vita familiare”. ID., Diritto civile 2. La famiglia. Le successioni, Milano, 201, nota 53, edizione del 1989, di poco successiva alla riforma del divorzio, il quale denunciando la debolezza dell'applicazione atomistica dei criteri nella natura composita, citava una decisione della Cassazione n. 4107 del 1984, in cui, proprio solo considerando il criterio compensativo, si era arrivati al paradosso di attribuire l'assegno di divorzio anche nel caso di sostanziale equivalenza delle condizioni economiche dei coniugi.
[18]Sulla funzione riequilibratrice, v. M. SESTA, Profili attuali della solidarietà post coniugale, in Divorzio 1970-2020. Una riflessione collettiva, cit., 123 e ss.
[19]Sono da condividere al riguardo i rilievi critici di M. SESTA, op. ult cit., 133 s.
[20]Ho utilizzato questa espressione richiamando la metafora che Michele Giorgianni ha utilizzato per la causa del contratto nel mio già citato scritto La perdurante incertezza sulla natura dell’assegno divorzile.
[21] Per questa soluzione v. A. MORACE PINELLI, Diritto all’assegno divorzile e convivenza more uxorio, in Nuova giur civ. comm. 2021, 1158 e ss.
Il tardivo rilascio della fideiussione nella vendita di immobili da costruire
di Emanuela Morotti
La disciplina della vendita di immobili da costruire prevede l’obbligo del venditore-costruttore di rilasciare una fideiussione bancaria o assicurativa al promissario acquirente, che potrà così recuperare agilmente le somme anticipatamente versate a titolo di caparra in caso di crisi o insolvenza dell’impresa costruttrice. La normativa indica che tale garanzia sia consegnata al momento della stipula del contratto preliminare di vendita, mentre non menziona il caso di suo tardivo rilascio, ragion per cui sono nate sul punto due diverse interpretazioni, una favorevole alla nullità, l’altra invece contraria, considerando abusiva la sua domanda in giudizio. L’obiettivo di questo contributo è quello di proporre una terza via, mostrando che la chiave di volta per interpretare correttamente la vicenda in esame risiede nell’assumere una visione complessiva del comportamento concretamente tenuto dalle parti nello svolgimento del rapporto.
Sommario: 1. La fideiussione introdotta dal d. lgs. 20 giugno 2005, n. 222 e il problema del suo tardivo rilascio - 2. Argomenti a sostegno dell'ipotesi della nullità del preliminare di vendita - 3. L'opposta tesi giurisprudenziale che configura l'abuso del prossimario acquirente - 4. Ragionevolezza di una terza via ricostruttiva.
1. La fideiussione introdotta dal d. lgs. 20 giugno 2005, n. 222 e il problema del suo tardivo rilascio
La particolare posizione di rischio e di incertezza in cui versa il compratore di immobili in costruzione[1], ossia non ultimati oppure ancora “sulla carta”[2], ha portato il nostro Legislatore a introdurne un’apposita disciplina con il d.lgs. 122/2005[3]. Nello specifico, esso prevede che la tutela del compratore sia affidata al rispetto di due diversi obblighi a carico del venditore-costruttore[4]: il primo riguarda il rilascio di una fideiussione che garantisca al compratore la restituzione delle somme versate a titolo di caparra prima della consegna dell’immobile, qualora il costruttore dovesse nel frattempo incorrere in uno stato di crisi[5]; il secondo obbligo riguarda invece il rilascio di una polizza assicurativa a copertura dei danni derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere[6]. Considerato che in questa seconda ipotesi la posizione del compratore è meno esposta, visto che non solo l’immobile è stato ultimato, ma il promissario acquirente ne è anche divenuto proprietario[7], la nostra attenzione si concentrerà principalmente sulla prima forma di tutela, che presenta maggiori profili di problematicità.
Innanzitutto si può osservare che la garanzia fideiussoria riguarda tutto l’arco di tempo intercorrente tra il preliminare di vendita e l’eventuale crisi dell’imprenditore[8], periodo nel quale la posizione del promissario acquirente si rivela particolarmente precaria. Infatti, non essendo ancora stato sottoscritto il contratto definitivo, l’effetto traslativo non si è ancora prodotto[9] e ciò significa che, se si aprisse un’eventuale procedura concorsuale, l’organo che ne è competente potrebbe decidere di sciogliersi dall’obbligo di concludere il contratto definitivo. In una simile circostanza, le conseguenze per il promissario acquirente sono di tutta evidenza, perché non solo vedrebbe per sempre sfumare ogni possibilità di diventare proprietario dell’immobile[10], ma soprattutto non gli resterebbe altra strada che presentare domanda di ammissione al passivo fallimentare, trovandosi di fatto a concorrere alla ripartizione dell’attivo quale semplice creditore chirografario[11] e a sperare di recuperare “in moneta fallimentare” le somme anticipatamente versate a titolo di caparra.
Per porre rimedio ad un simile scenario[12], il Legislatore ha previsto che all’atto della stipula del preliminare sia consegnata al promissario acquirente una fideiussione “di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso”, in modo tale che, se all’apertura del fallimento non abbia ancora conseguito la proprietà dell’immobile, egli possa almeno recuperare interamente quanto già versato al costruttore[13].
La disciplina fin qui descritta è stata ripresa dal d. lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, meglio noto come Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, che con gli artt. 385, 386, 387 e 388 ha introdotto maggiori tutele per il promissario acquirente. In particolare, in base alla nuova impostazione, la garanzia fideiussoria può essere rilasciata solo da “una banca o da un’impresa esercente le assicurazioni”[14], escludendo quindi dal novero dei soggetti abilitati a rilasciarla “gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’articolo 107 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385”[15], evidentemente ritenuti dal Legislatore soggetti meno affidabili rispetto alle banche e alle assicurazioni.
Nonostante le modifiche apportate abbiano meglio precisato alcuni aspetti della precedente disciplina, come ad esempio la descrizione delle ipotesi che consentono l’escussione della fideiussione[16], tuttavia è rimasto in ombra un particolare profilo che non è mai stato espressamente affrontato dalla normativa, riguardante il caso in cui la fideiussione venga rilasciata al promissario acquirente in un momento successivo a quello della stipula dell’atto preliminare.
2. Argomenti a sostegno dell'ipotesi della nullità del preliminare di vendita
A fronte di questa lacuna di disciplina, si possono prospettare due opposte soluzioni. La prima adotta un’interpretazione letterale della normativa in esame, che fissa il momento della consegna della fideiussione “all’atto della stipula […] ovvero in un momento precedente”[17], da cui si è dedotto che anche il caso del suo rilascio tardivo[18], pur non essendo esplicitamente menzionato, ricadesse nella sanzione di nullità[19]. Questa impostazione è stata appoggiata anche da un filone giurisprudenziale secondo il quale la norma in questione sia da interpretare nel senso che la consegna della fideiussione debba avvenire, al più tardi, all’atto della stipula del contratto preliminare e che la mancata consegna non sia “sanabile” da un successivo contegno di alcuna delle parti[20]. Ciò significa che né la consegna tardiva della fideiussione da parte del venditore-costruttore, né la sua accettazione da parte del promissario acquirente possano sanare il vizio di nullità che si sia irrimediabilmente già prodotto.
A ben guardare, questa interpretazione si allinea perfettamente con la ratio che ha spinto il Legislatore ad intervenire nel settore in esame, dove si è predisposto un quadro normativo che fornisce la più ampia tutela possibile al promissario-acquirente, considerato a priori come un soggetto meritevole di protezione fin dall’inizio dell’instaurazione del rapporto.
Prova ne è la scelta – del tutto singolare – di prevedere la più grave sanzione della nullità per quello che, a tutti gli effetti, costituisce in realtà un inadempimento del venditore: analizzando con più attenzione la norma, si può infatti osservare che l’inosservanza dell’obbligo di consegnare la fideiussione all’atto della stipula o in un momento precedente non produce – così come ci aspetteremmo in base alla disciplina generale del contratto – l’inadempimento, bensì la nullità dell’atto preliminare[21]. Una simile impostazione si rivela funzionale ad avvantaggiare il promissario acquirente, consentendogli di ottenere la restituzione di quanto precedentemente corrisposto al venditore senza dover sottostare ai più gravosi oneri probatori richiesti per domandare la risoluzione per inadempimento.
A ciò si aggiunge un’ulteriore considerazione, dato che la nullità di cui si discute configura un regime speciale detto nullità di protezione[22], che fornisce una più intensa salvaguardia degli interessi del contraente debole[23], dal momento che si caratterizza per la legittimazione relativa e la mancata parziarietà necessaria. La prima consistente nella possibilità per il solo promissario acquirente di sollevare la nullità, proprio per permettere unicamente al contraente debole di valutare l’opportunità dell’affare, consentendogli di scegliere se proseguire nel rapporto anche in mancanza della fideiussione, oppure se caducare il negozio[24]. La seconda, invece, riguarda il fatto che la nullità che consegue al mancato rilascio della fideiussione non colpisce soltanto la singola clausola nulla, ma invalida l’intero negozio, caducandolo nella sua totalità: si tratta quindi di un segnale molto chiaro dell’intenzione del Legislatore, che ha voluto salvaguardare con la maggiore tutela possibile la posizione del promissario acquirente[25].
3. L'opposta tesi giurisprudenziale che configura l'abuso del prossimario acquirente
In opposizione alla tesi appena considerata si colloca una recente sentenza della Cassazione[26], in base alla quale la proposizione della domanda di nullità del contratto preliminare per mancanza della fideiussione configura un abuso del diritto e non può quindi essere accolta al ricorrere cumulativo di due condizioni: (1) se tale garanzia sia stata comunque rilasciata, seppur in data successiva alla stipula del preliminare e (2) nelle more della consegna non si sia manifestata l’insolvenza del promittente venditore ovvero non risulti altrimenti pregiudicato l’interesse del promissario acquirente.
Tale pronuncia, a ben guardare, non nega la perdurante nullità del contratto preliminare, dato che riconosce espressamente che il diritto del promissario acquirente di proporre tale domanda in giudizio non possa trovare un ostacolo nella condotta del venditore – per di più– successiva al verificarsi della causa di nullità. A fronte quindi dell’impossibilità di configurare una sanatoria del negozio nullo a seguito del successivo rilascio della fideiussione, la questione viene spostata su un altro piano, riguardante non più quello della nullità e della sua legittima sollevazione in giudizio, ma quello della meritevolezza dell’interesse ad agire in tal senso.
Secondo questa impostazione, il rilascio della fideiussione, ancorché tardivo, riuscirebbe comunque a soddisfare l’interesse avuto di mira dalla norma, che è vòlta a proteggere il promissario-acquirente attraverso la predisposizione di una garanzia a suo favore che lo sollevi dal rischio di perdere definitivamente le somme anticipate al venditore-costruttore, nel caso in cui quest’ultimo successivamente fallisca[27]. Per questa ragione, una volta ottenuta la fideiussione, non sarebbe più meritevole di protezione l’interesse del promissario acquirente a chiedere la declaratoria di nullità, la cui domanda in giudizio configurerebbe appunto un’ipotesi di abuso del diritto.
Come noto, quest’ultima fattispecie è stata ricavata dai principi di buona fede oggettiva e di correttezza e dal più generale principio di solidarietà sociale che trova conferma anche a livello costituzionale[28]. In particolare, la clausola generale di buona fede svolge un ruolo integrativo del rapporto[29], ampliandone la portata attraverso una serie di doveri comportamentali di contenuto positivo e negativo[30]. La sua estensione riguarda sia l’ambito dell’obbligazione (art. 1175 c.c.), sia la disciplina del contratto, andando a coprire la fase delle trattative precontrattuali (art. 1337 c.c.), della pendenza della condizione (art. 1358 c.c.) e dell’esecuzione (art. 1375 c.c.), e fungendo altresì da criterio interpretativo del contratto (art. 1366 c.c.). La buona fede, inoltre, si impone come regola di condotta valida per entrambe le parti, e si specifica in particolari doveri di comportamento, riconducibili a obblighi di lealtà[31] e di salvaguardia, diretti a preservare l’utilità della controparte nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio[32]. Alla luce di queste considerazioni, si può individuare un comportamento abusivo ogni qual volta il titolare di un diritto, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale per conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti[33], trattandosi ora di indagare se tali caratteristiche ricorrono anche nel caso in esame.
4. Ragionevolezza di una terza via ricostruttiva
A ben guardare, non convince pienamente l’ipotesi di qualificare come abusivo il comportamento del promissario acquirente che domandi la dichiarazione di nullità del preliminare in conseguenza del tardivo rilascio della fideiussione, dato che tale circostanza si presta a delle riflessioni di segno opposto.
Non si dubita che in molti casi debba prevalere l’interesse del venditore-costruttore[34] al mantenimento in vita del rapporto, risultando di fatto eccessiva, in considerazione delle concrete circostanze, la nullità del preliminare dopo che sia stato adempiuto, seppur in maniera tardiva, l’obbligo di rilasciare la fideiussione. Tuttavia, è bene osservare che persistono situazioni nelle quali riemerge l’interesse del promissario acquirente ad essere tutelato e, conseguentemente, non si possa definire abusivo l’esercizio del suo diritto di chiedere la declaratoria di nullità.
Dovrebbe infatti considerarsi legittima la proposizione di tale domanda qualora il costruttore-venditore abbia colpevolmente ritardato la consegna della fideiussione, magari sperando nella dimenticanza o, addirittura, nell’ignoranza[35] del compratore in merito al suo diritto di ottenere la garanzia. Similmente non merita di essere protetto l’interesse del costruttore ogni qual volta gli sia stata espressamente domandata la fideiussione, ma ne abbia appositamente ritardato la consegna[36].
In questi casi il costruttore potrebbe chiaramente avvantaggiarsi di tutti i mesi, e forse anche degli anni, che intercorrono prima dell’effettivo rilascio della garanzia: non bisogna dimenticare, infatti, che il rilascio di una fideiussione bancaria o assicurativa ha un costo non indifferente per il costruttore,[37] che potrebbe quindi aver interesse a ritardarne la consegna, ad esempio per ridurre il tempo di copertura della fideiussione e i relativi costi verso l’istituto che la rilascia, oppure semplicemente perché considera la fideiussione come un inutile esborso e spera di ultimare la costruzione dell’immobile in tempi brevi.
Nelle ipotesi sopra viste il comportamento del venditore-costruttore non solo viola l’obbligo di consegnare la fideiussione al momento della stipula del preliminare, ma soprattutto si pone in contrasto con il dovere di buona fede e di correttezza che dovrebbe informare la propria condotta. La teoria dell’abuso del diritto serve infatti a tutelare il contraente fedele da possibili comportamenti elusivi della controparte, al fine di riequilibrare le loro reciproche posizioni: ne deriva quindi che chi per primo abusa dell’altrui buona fede, non può poi invocare tale principio solo quando si rivolge a proprio vantaggio. Di conseguenza, il venditore–costruttore che abbia colposamente o dolosamente ritardato la consegna della fideiussione non merita di essere tutelato, ma dovrà accettare le conseguenze di una situazione che, con il proprio comportamento, ha contribuito a creare.
D’altra parte, come abbiamo già visto, la richiesta del promissario acquirente di dichiarare nullo il contratto non può essere considerata diretta a “aggirare surrettiziamente gli strumenti di reazione che l’ordinamento specificamente appronta avverso le condotte di inadempimento della controparte”[38], dato che è proprio la disciplina della vendita di immobili da costruire a consentire di invocare la più forte sanzione della nullità a fronte dell’inadempimento della controparte[39].
Su questa linea, non sembra coerente nemmeno argomentare che la consegna tardiva della fideiussione valga comunque ad assicurare l’interesse che la legge voleva proteggere. Si rifletta a tal proposito sul fatto che il promissario acquirente che riceve tardivamente la fideiussione non consegue lo stesso risultato che avrebbe ottenuto se questa gli fosse stata consegnata al momento della stipulazione del preliminare: egli è infatti rimasto privo di tutela per tutto il periodo di tempo intercorrente tra la stipula del preliminare e la consegna tardiva, a rigore dovendosi attribuire ad una circostanza meramente fortunata quella di non aver subìto le conseguenze – per lui unicamente pregiudizievoli – di un’eventuale insolvenza e crisi del costruttore medio tempore [40].
Da ultimo, si ponga mente al fatto che il d.lgs. 14/2019 ha introdotto all’art. 388 una modifica all’art. 6 del precedente decreto d. lgs. 122/2005[41], disponendo che il preliminare avente ad oggetto immobili da costruire sia redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata[42]. Ciò comporta, secondo le indicazioni del Consiglio Nazionale del Notariato, che l’atto preliminare debba essere stipulato con l’intervento del notaio[43], al quale è altresì imposto di verificare ed attestare la correttezza della fideiussione, ribadendo inoltre che “il notaio non stipulerà l’atto in assenza di fidejussione”[44]. Tale innovazione è da salutare con favore, dato che l’intervento necessario del notaio avrà anche la funzione di vigilare sul corretto adempimento dell’obbligo di prestare la garanzia da parte del venditore-costruttore, impedendo di procedere alla stipula del preliminare senza di essa. Se quindi, con l’entrata in vigore della nuova disciplina, saranno sempre meno i casi di rilascio tardivo della fideiussione, questi, però, saranno ancora più gravi, perché presupporranno – oltre alla colpa o malafede del venditore-costruttore – anche la violazione da parte del notaio del divieto di ricevere l’atto[45].
Alla luce di queste considerazioni, si può quindi ritenere corretto adottare una via intermedia tra le due soluzioni sopra descritte, dal momento che non è possibile individuare un principio valido in tutti i casi, che impedisca tout court al promissario acquirente di domandare la nullità, una volta che gli sia stata consegnata la fideiussione. Come abbiamo visto, il suo tardivo rilascio non basta da solo a qualificare come abusiva la domanda di nullità, ma è da interpretare in base ad una visione più complessiva del rapporto, in cui assume rilievo il comportamento precedentemente tenuto dal venditore-costruttore. In quest’ottica, qualora emergano forti indici atti ad incrinare irrimediabilmente la fiducia tra le parti, dovrà senza dubbio considerarsi legittimo l’interesse del promissario compratore ad esercitare, in base alla legge, il suo diritto di chiedere la declaratoria di nullità.
[1] In realtà la norma prevede un’accezione molto ampia di acquirente di immobile da costruire, comprendendovi anche, all’art. 1, lett. a), d.lgs. 122/2005: “la persona fisica che sia promissaria acquirente o che acquisti un immobile da costruire, ovvero che abbia stipulato ogni altro contratto, compreso quello di leasing, che abbia o possa avere per effetto l'acquisto o comunque il trasferimento non immediato, a sé o ad un proprio parente in primo grado, della proprietà o della titolarità di un diritto reale di godimento su di un immobile da costruire, ovvero colui il quale, ancorché non socio di una cooperativa edilizia, abbia assunto obbligazioni con la cooperativa medesima per ottenere l'assegnazione in proprietà o l'acquisto della titolarità di un diritto reale di godimento su di un immobile da costruire per iniziativa della stessa”.
[2] L’espressione è di E. Sacchettini, Una disciplina a prova di sorprese per garantire le vendite su carta, in Guida al dir. Sole 24 ore, 2005, XXX, 31.
[3] Il decreto in esame è stato ampiamente trattato dalla dottrina nel periodo immediatamente successivo alla sua entrata in vigore. Ex multis, si vedano i contributi di F. Alcaro, Il sistema delle garanzie nella nuova disciplina a tutela degli acquirenti di immobili da costruire (d.leg. n. 122/2005), in Obbligazioni e contratti, 2006, 487; R. Corona, La tutela dei diritti patrimoniali dell’acquirente di immobili da costruire: prime osservazioni (commento a d.leg. 20 giugno 2005 n. 122), in Corriere giur., 2005, 1643; G. De Nova, C. Leo, M. Locati, A. Roda, L'acquisto di immobili da costruire (Decreto Legislativo 20 giugno 2005, n. 122), Giuffrè, Milano, 2005, 260; C. Leo, Le nuove norme a tutela degli acquirenti di immobili da costruire, in Contratti, 2005, 745.
[4] I profili di tutela del compratore - promissario acquirente sono stati approfonditi da A. Luminoso, L’acquisto di immobili da costruire e i presupposti delle nuove tutele legali, in Riv. giur. sarda, 2006, 191; D. Manente, La legge delega sulla tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire (l. 2 agosto 2004 n. 210), in Studium iuris, 2004, 1466; F. Silla, Delega al governo per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire (commento alla l. 2 agosto 2004 n. 210), in Guida al dir. Sole 24 ore, 2004, XXXV, 14; E. Sollini, Tutelate le persone fisiche che comprano gli immobili in costruzione, in Impresa, 2005, 1789.
[5] L’art. 2, comma 1, del decreto in esame recita “All’atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero in un momento precedente, il costruttore è obbligato, a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall'acquirente, a procurare il rilascio ed a consegnare all'acquirente una fideiussione, anche secondo quanto previsto dall'articolo 1938 del codice civile, di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall'acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento. Restano comunque esclusi le somme per le quali è pattuito che debbano essere erogate da un soggetto mutuante, nonché i contributi pubblici già assistiti da autonoma garanzia”.
[6] Precisamente, l’art. 4 del d.lgs. 122/2005 si riferisce a “una polizza assicurativa indennitaria decennale a copertura dei danni derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere a beneficio dell'acquirente e con effetto dalla data di ultimazione dei lavori a copertura dei danni materiali e diretti all'immobile, compresi i danni ai terzi, cui sia tenuto ai sensi dell'articolo 1669 del codice civile, derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, e comunque manifestatisi successivamente alla stipula del contratto definitivo di compravendita o di assegnazione”. Per un approfondimento riguardo a questo secondo tipo di tutela si fa rinvio agli studi di B. Sieff, Tutela degli acquirenti di immobili da realizzare, in Diritto e formazione, 2004, 1463; G. Vettori, La tutela dell’acquirente di immobili da costruire: soggetti, oggetto, atti, in Obbligazioni e contratti, 2006, 105; I. Ambrosi, F. Basile, Tutela degli acquirenti di immobili da costruire a norma del d. leg. 20 giugno 2005 n. 122, in Famiglia, persone e successioni, 2006, 88; R. Triola, Vendita di immobili da costruire e tutela dell’acquirente, dopo il d. leg. 20 giugno 2005 n. 122, Giuffrè, Milano, 2005, 11 ss.
[7]Precisa infatti F. Casarano, La tutela degli acquirenti di immobili in costruzione, in Immobili e proprietà, 2005, VII, p. 1 ss. Che “La polizza dovrà pertanto essere consegnata dal costruttore all’atto del trasferimento della proprietà, anche se destinata ad operare a partire dalla data di ultimazione dei lavori. La garanzia inoltre è dovuta a prescindere da una situazione di crisi in cui incorra il costruttore, essendo destinata ad operare all’emergere di vizi e difformità dell’edificio realizzato ed il momento in cui tale polizza deve essere materialmente consegnata dal costruttore all’acquirente è quello in cui avviene il trasferimento della proprietà. Gli effetti della polizza decorreranno invece dal momento dell’ultimazione dei lavori, momento che può essere anche successivo a quello del trasferimento della proprietà e quindi della consegna della polizza”.
[8] Sui rapporti tra compratore e imprenditore fallito si vedano i saggi di D. Cerini, La protezione degli acquirenti di beni immobili da costruire nel decreto legislativo n. 122/2005: prime riflessioni su finalità e strategie, in Diritto ed economia dell’assicurazione, 2005, 1247 ss.; G. De Marzo, La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti degli immobili da costruire, in Urbanistica e appalti, 2005, 1127 ss.; A. De Renzis, G. Scaliti., La nuova disciplina degli acquisti di immobili da costruire (D.Lg. 20 giugno 2005, n. 122), Giappichelli, Torino, 2006, 255; G. Rizzi, La nuova disciplina di tutela dell'acquirente di immobile da costruire, in Notariato, 2005, 433.
[9] Come spiega bene F. Toschi Vespasiani, Il trasferimento non immediato di immobili da costruire ex art. 6 d. leg. 20 giugno 2005 n. 122, in Contratti, 2006, 808.
[10] Si veda quanto sintetizzato da N. Nisivoccia, L'acquirente dell'immobile ad uso abitativo di fronte al fallimento del venditore, in Giur. Comm., 2008, IV, 826 ss.: “Ne risultava che la sorte di chi aveva acquistato beni immobili ad uso abitativo dal fallito (o meglio, da colui il quale era poi fallito) era segnata dalle norme generali, in virtù delle quali dunque il contratto: a) poteva essere revocato come atto a prestazioni sproporzionate o come atto normale (ai sensi dell'art. 67, primo comma, n. 1 e secondo comma), secondo i casi e ricorrendone i presupposti; b) se non ancora compiutamente eseguito, proseguiva o non proseguiva, secondo la scelta del curatore. Tutto qui; e le medesime norme generali erano applicate anche ai contratti preliminari”. Sulle dinamiche relative all’apertura di una procedura concorsuale si rinvia ai contributi di F. D’Ambrosio, Tutela degli acquirenti di immobili da costruire e fallimento, in Nuova giur. civ., 2006, II, 171; G. D’Amico, Vendita dell'immobile da costruire e fallimento, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2007, 213; F. Di Marzio, Crisi d'impresa e contratto. Note sulla tutela dell'acquirente dell'immobile da costruire, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2006, 31; C. Fiengo, Sulla tutela degli acquirenti d’immobili da costruire in caso di insolvenza del costruttore, in Riv. Dir. impresa, 2005, 263; G. Finocchiaro, Le forma di tutela degli acquirenti degli immobili da costruire nelle esecuzioni individuale e concorsuale, in Rass. locazione e condominio, 2006, 123; G. Guzzardi, Fallimento del venditore e acquisto di immobile da costruire, in Nuova Giur. Civ., 2019, VI, 1204; G. Visconti, La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, in Immobili e proprietà, 2019, VI, 362.
[11] Si veda sul punto F. Aprile, Acquisti di immobili da costruire: nuova tutela, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2005, 1123; F. Pascucci, La delega al Governo per la tutela degli acquirenti di immobili da costruire, in Riv. Dir. Impresa, 2004, 613; A. Zaccaria, La nuova disciplina sulla tutela degli acquirenti d'immobili da costruire: lineamenti e principali problematiche, in Studium iuris, 2006, VII-VIII, 935.
[12] Si tratta, a ben guardare, di un problema di collocazione del rischio di insolvenza, come sottolinea anche M. Imbrenda, Individuazione dell’acquirente e distribuzione del rischio nel decreto legislativo n. 122 del 2005, in Rass. dir. civ., 2006, 690.
[13] Vedi C. Caruso, La fideiussione a garanzia del pagamento del prezzo di acquisto dell’immobile, in Rass. locazione e condominio, 2006, 135.
[14] Art. 385, comma 1, lett. a), d. lgs. 14/2019.
[15] Art. 3, comma 1, d. lgs. 122/2005.
[16] A riguardo, si riprendono le parole di A. Semprini, Il deposito prezzo nell’acquisto di immobili da costruire, in Contratto e Impr., 2019, II, 680: “si richiede che tali fideiussioni presentino alcune caratteristiche «fisse», tra le quali la copertura di tutte le somme corrisposte dal compratore al venditore fino al trasferimento della proprietà, la previsione di un importo massimo fissato dai contraenti (ove redatte ai sensi dell'art. 1938 c.c.) e l'espressa rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale, di cui all'art. 1944, secondo comma, c.c.. Tale configurazione, dettata in via inderogabile dal legislatore, pone invero qualche dubbio sulla natura giuridica della fideiussione, potendo la stessa situarsi in un'area parzialmente differente da quelle occupate dalla “fideiussione a prima richiesta” e dal “contratto autonomo di garanzia”.
[17] Così letteralmente art. 2, comma 1, d.lgs. 122/2005.
[18] Vd. A. Luminoso, Sulla predeterminazione legale del contenuto dei contratti di acquisto di immobili da costruire, in Rass. dir. civ., 2005, II, 713; M.C. Paglietti, La nullità della vendita di immobili da costruire per mancata prestazione della garanzia fideiussoria, in Riv. dir. privato, 2007, 101; G. Palermo, Lo schema legale dei contratti relativi ad immobili da costruire, in Riv. not., 2006, 965; R. Triola, I requisiti del contratto di acquisto degli immobili da costruire, in Rass. locaz. e cond., 2006, 219.
[19] Come si legge all’art. 2, comma 1, d. lgs 122/2015, in base al quale “il costruttore è obbligato, a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente, a procurare il rilascio ed a consegnare all’acquirente una fideiussione”.
[20]Soluzione confermata anche dalla recente Cassazione civile sez. II, 18.09.2020, n. 19510, disponibile su il caso.it. Si veda, inoltre, la sentenza della Corte d’appello di Lecce, sez. civ. II, n. 222 del 14.5.2015, con nota di A. Busani, La fideiussione dopo il preliminare non evita la nullità, in Quotidiano del diritto, Guida al dir. Sole 24 ore, 26.01.2016.
[21] Il Legislatore ha così introdotto un caso di “nullità da inadempimento”, come osserva G. Sicchiero, Nullità per inadempimento?, in Contr. e impr., 2006, p. 368 ss.; si veda anche C.M. D’Arrigo, La tutela contrattuale degli acquirenti di immobili da costruire, in Riv. not., 2006, 911.
[22] Per il tema delle nullità di protezione si rinvia per un maggior approfondimento a M. Girolami, Le nullità di protezione nel sistema delle invalidità negoziali. Per una teoria della moderna nullità relativa, Cedam, Padova, 2008, 19 ss.; M. Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in I rimedi, a cura di Gentili, vol. IV, Trattato del contratto, Giuffrè, Milano, 2006, 11 ss.; G. Perlingieri, La convalida delle nullità di protezione e la sanatoria dei negozi giuridici, ESI, Napoli, 2010, 95 ss.
[23] La cui tutela è funzionale a proteggere anche interessi di carattere super individuale, come, nel caso in esame, quello alla corretta circolazione del bene immobile: sul punto vd. F. Macario, Il contenuto della garanzia fideiussoria ex D.Lgs. 122/2005 e le conseguenze della sua incompletezza ed erroneità, in Tutela dell’acquirente degli immobili da costruire: applicazione del D.Lgs. 122/2005 e prospettive, I quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, 2006, 109 ss.
[24] Così G. Baralis, Considerazioni sparse sul decreto delegato conseguente alla l. n. 210 del 2004; spunti in tema di: varietà di contratti "garantiti", prestazione di fideiussione “impropria”, riflessi sulla trascrizione, contenuto “necessario” del contratto, invalidità speciali, in Riv. not., 2005, 723.
[25] Nello stesso senso P. Tommasino, La nullità del preliminare per l’acquisto di immobili da costruire, in Rass. locaz. e cond., 2006, 222.
[26] Ci si riferisce a Cassazione Civile, Sez. II, 22 novembre 2019, n. 30555, Pres. Cosentino, Rel. Criscuolo. Per un commento della pronuncia si rinvia a F. Toschi Vespasiani, Compravendita: quando si può far valere la nullità di protezione senza incorrere in un abuso di diritto?, in Il quotidiano giuridico online, 2020, I, p. 1 ss.
[27] Si esprime in questi termini la sentenza da ultimo esaminata: “Parte della dottrina che ha avuto modo di occuparsi della disciplina di cui al D. Lgs. n. 122/2005, ha condivisibilmente rilevato che, ferma restando anche l'imprescrittibilità dell'azione volta a far valere la nullità di protezione in esame, e non essendo contemplata in maniera espressa alcuna preclusione all'esperimento dell'azione di nullità, ad opera dell'acquirente, successivamente al momento in cui sia stata da lui conseguita la proprietà del fabbricato, ultimato ed agibile, osta all'ammissibilità di siffatta azione la stessa finalità della nullità “di protezione”, in quanto non si vede alcuna ragione per sacrificare l'interesse del costruttore e, soprattutto, quello della successiva circolazione immobiliare, pur in assenza della fideiussione, o della conformazione del contenuto contrattuale ai sensi di legge, quando l'interesse fondamentale dell'acquirente è stato ormai soddisfatto”.
[28] Si rimanda più nel dettaglio a P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, I, 205 ss.; U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 18 ss.; U. Breccia, L’abuso del diritto, in Dir. priv.,1997, III, Cedam, Padova, 15 ss.; D. Messinetti., voce Abuso del diritto, in Enc. dir., Giuffrè, Milano, 1998, aggiornamento II, 1, 13; G. Levi., L’abuso del diritto, Giuffrè, Milano, 1993, 55 ss.; F.D. Busnelli, E. Navarretta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in L'abuso del diritto, a cura di G. Furgiuele, Cedam, Padova, 1997; M. Messina, L’abuso del diritto, Esi, Napoli, 2003, 11 ss.; F. Astone., L’abuso del diritto in materia contrattuale. Limiti e controlli all’esercizio dell’attività contrattuale, in Giur. Mer., 2007, II, 8 ss.; G. Marongiu., Abuso del diritto o abuso del potere?, in Corr. Trib., 2009, XIII, 1076 ss.; M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, in Obbligazioni e contratti, 2010, III, 54 ss.; L. Balestra, Rilevanza, Utilità (e abuso) dell’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 2017, III, 541 ss.
[29] Sulla clausola generale di buona fede si rinvia a A. Di Majo, La buona fede correttiva di regole contrattuali in Corr. giur., 2000, XI, 1111 ss.; M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, 2006, 32 ss.; e F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, 15 ss.; F. Benatti, La clausola generale di buona fede, in Banca, Borsa e titoli di credito, 2009, I, 241 ss.
[30] Così, letteralmente, G. Finazzi, voce Diligenza, in Dig. disc. Priv., 2019, 9.
[31] Si veda, a tal proposito, E. Battelli, Diritto dei contratti e questioni di razionalità economica, in Contratto e impr., 2019, 106 ss., secondo il quale “Tutta la normativa codicistica è del resto permeata della preoccupazione del legislatore di prevenire e sanzionare ogni uso improprio dello strumento contrattuale che si traduca nel comportamento di una delle parti in danno dell’altra”.
[32] L’espressione è di C. M. Bianca, Diritto Civile, L’obbligazione, 2006, 88, cui si rinvia per un maggior approfondimento. In particolare, si veda p. 93, dove parla di dovere di “salvaguardare quegli interessi socialmente rilevanti del creditore che l’adempimento dell’obbligazione espone a uno specifico rischio di danno”.
[33] Questa definizione riecheggia quella contenuta nella sentenza della Cassazione Civile, Sez. II, 22 novembre 2019, n. 30555.
[34] Per un punto di vista diverso da quello della mera tutela del compratore si veda A. Torroni, Il d.lgs. n. 122 del 2005 letto con la lente del costruttore, in Riv. Not., 2007, 879.
[35] Non è ipotesi rara nella previgente disciplina del d. lgs. 122/2005, nella quale, come vedremo, non c’era l’obbligo dell’intervento del notaio per la stipula del preliminare. Era quindi ben possibile che il compratore venisse a conoscenza dell’obbligo di rilascio della fideiussione solo nel momento in cui questa gli fosse stata effettivamente consegnata,
[36] In linea generale, non si può non riflettere sul fatto che il costruttore- promittente venditore si trova in una posizione di vantaggio rispetto al promissario acquirente fin dall’inizio del sorgere del rapporto, dal momento che la stessa disciplina di protezione dell’acquirente prevista dal d.lgs. 122/2005 si applicherà solo nei casi in cui il costruttore abbia chiesto e ottenuto il titolo abitativo. Sul punto si vedano le parole di F. Astone, Vendita di immobili da costruire: la difficile distinzione tra acquirenti da tutelare e non, in Giurisprudenza Costituzionale, 2018, III, 1435 ss.: “si è scelto di intervenire in favore degli acquirenti di immobili da costruire, ma l'operatività della tutela è stata subordinata al ricorrere di presupposti (la richiesta o il rilascio del permesso di costruire) che rientrano nella sfera di controllo del costruttore, sicché è rimesso alla sua discrezionalità decidere se e quando farli scattare”.
[37] Così A. Zoppini, La garanzia fideiussoria vista dall'angolo visuale del costruttore: costi, rischi e problemi, in I quaderni della fondazione italiana del notariato, 2006, I, 1 ss., dove afferma che “In ogni caso, pur non rientrando nella definizione di contratto atipico di garanzia "a prima richiesta", la fideiussione in esame amplifica il rischio d'impresa, sia accentuando le difficoltà per il suo rilascio (posto che il fideiussore valuterà con estrema attenzione la posizione finanziaria del debitore-costruttore), sia innalzando, inevitabilmente, i costi della polizza e, quindi, incidendo sulla strutturazione delle scelte economico-gestionali della società costruttrice. […] Quindi, può ritenersi fondato il timore che in entrambi i casi l'applicazione delle nuove norme possa tradursi in minor credito alle imprese più rischiose e a tassi più elevati”.
[38] Così si legge in Cassazione Civile, Sez. II, 22 novembre 2019, n. 30555.
[39] Si veda R. Lenzi, La tutela degli acquirenti di immobili da costruire, in Il diritto vivente nell’età dell’incertezza. Saggi sull’art. 28 ed il procedimento disciplinare riformato, a cura di S. Pagliantini, Giappichelli, Torino, 2012, 30, dove afferma proprio con riguardo all’ipotesi in esame che “L’art. 2 costituisce almeno apparentemente un manifesto caso di nullità da inadempimento e quindi di contaminazione tra regole di comportamento e regole di validità”.
[40] In una simile situazione, se si concorda con la tesi che impedisce al compratore di chiedere la nullità a causa del rilascio successivo della fideiussione, si dovrebbe altresì, per coerenza, indennizzare il compratore stesso per il periodo precedente in cui non ha goduto della protezione della garanzia fideiussoria, evitando che l’illegittimità della richiesta di nullità si traduca, a sua volta, in un indebito vantaggio del costruttore.
[41] In particolare, G. A. M. Trimarchi, Codice della crisi: riflessione sulle prime norme, in Notariato, 2019, II, 115 sostiene che “Sotto il primo aspetto merita evidenza che il rafforzamento della tutela dell'avente causa degli immobili da costruire passa attraverso il rafforzamento del controllo di legalità notarile che si esprime sia attraverso la previsione di una forma speciale (già) del contratto preliminare e più in generale di tutti quegli atti aventi analoga funzione d'ora in avanti, a pena di nullità, da redigersi per atto pubblico o scrittura privata autenticata (cfr. la nuova formulazione del comma 1 dell'art. 6 del D.Lgs. n. 122/2005) con esclusione, dunque, di ogni altra forma, e con l'obbligo conseguente di assoggettare al medesimo rigore formale anche le procure necessarie a tali atti”.
[42] Il Legislatore ha così seguito la via francese, come auspicato da anni anche dalla dottrina: si veda quanto affermava G. Petrelli, Gli acquisti di immobili da costruire. Le garanzie, il preliminare e gli altri contratti, le tutele per l’acquirente (D.Lgs. 20 giugno 2005, n. 122), Ipsoa, Milano, 2005, 158 “Non è, invece, richiesta obbligatoriamente la forma dell’atto pubblico, come avviene invece in diritto francese, il quale assicura così una tutela ben più effettiva all’acquirente, a mezzo del controllo di legalità che il notaio è tenuto ad effettuare sul contenuto del contratto e sui presupposti della sua conclusione. Questo controllo di legalità si esplica, in particolare, nella verifica del previo o contestuale rilascio della garanzia, e nell’assicurare che siano rispettate le norme sul contenuto del contratto”. Si rinvia sul tema anche a A. Barale, La tutela degli acquirenti di immobili da costruire: dall’esperienza francese alla nuova normativa italiana, in Contratto e impresa Europa, 2005, 810.
[43] Sul punto si rinvia a M. Capecchi, La protezione del promissario acquirente nel codice della crisi, in Contratto e Impr., 2020, 1, 92, dove specifica che “Il codice della crisi d’impresa e dell'insolvenza ha tentato di intervenire sul problema novellando l'art. 6 del d.lgs. n. 122 del 2005 imponendo la stipulazione del preliminare di immobile in costruzione nella forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata, allo scopo di garantire il controllo di legalità da parte del notaio sull'adempimento dell'obbligo di stipulazione della fideiussione di cui agli artt. 2 e 3 del decreto legislativo citato, nonché dell'obbligo di rilascio della polizza assicurativa indennitaria di cui all'art. 4 del medesimo decreto legislativo”.
[44] Così letteralmente si legge ne Il decalogo del Notariato sulle nuove tutele per gli acquirenti di immobili in costruzione, pubblicato in data 14/03/2019 sul sito del Consiglio nazionale del notariato, al link https://www.notariato.it/it/news/il-decalogo-del-notariato-sulle-nuove-tutele-gli-acquirenti-di-immobili-costruzione.
[45] In tale contesto sembra corretto qualificare la stipula dell’atto in mancanza della fideiussione come una violazione da parte del notaio dell’art. 28 della Legge sull’ordinamento del notariato, che proibisce al notaio di “ricevere o autenticare atti: 1. se essi sono espressamente proibiti dalla legge […]”. Questa stessa argomentazione è stata proposta anche con riferimento alla rinuncia alla consegna della fideiussione da E. M. Sironi, Immobili da costruire: le nuove tutele degli acquirenti dopo il D. lgs. n. 14/2019, in Notariato, 2019, VI, 625, in cui osserva che “Non può, tra l’altro, trascurarsi la previsione dell'irrinunciabilità alle tutele prescritte dal decreto n. 122/2005, la quale, sebbene fin qui giudicata insufficiente, si colora di un diverso e più pregnante significato alla luce della prescrizione formale ora introdotta dall'art. 388 del decreto n. 14/2019 (e dell'interesse pubblicistico sotteso a tale intervento): mi riferisco alla possibile qualificazione della mancata menzione della fideiussione quale rinuncia tacita alla consegna della fideiussione. In tale prospettiva, la previsione di nullità assoluta (ancorché parziale) di detta rinuncia potrebbe porre il notaio di fronte allo spettro della violazione dell'art. 28, n. 1, L. n. 89/1913”. Sulla responsabilità del notaio si rimanda anche a G. Rizzi, Il divieto di stipula relativo a immobili da costruire: disciplina vigente e nuove prospettive, in Notariato, 2019, IV, 391.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.