ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
A proposito di un recente libro sul centenario de La Cassazione civile di Piero Calamandrei.
J. Nieva-Fenoll, R. Cavani (a cura di), La casación hoy, cien años después de Calamandrei*
di Carlo Vittorio Giabardo
Sommario: 1. Premessa. - 2 La nomofilachia, oggi (Michele Taruffo e Sergio Chiarloni in dialogo). – 3. Presente e futuro. Note sul “fatto” e il suo controllo in Cassazione. – 4. Presente e passato. Un’ipotesi sull’origine inglese della Cassation francese. – 5. Alcune questioni classiche.
1. Premessa
A cura dei Professori Jordi Nieva-Fenoll (Catedratico di Diritto Processuale dell’Università di Barcellona) e Renzo Cavani (Profesor Ordinario della medesima materia della Pontificia Università Cattolica del Perù, Lima), è stata da poco pubblicata dal prestigioso editore Marcial Pons la raccolta di saggi - scritti o tradotti in spagnolo - intitolata “La casación hoy, cien años después de Calamandrei”. Il libro è ospitato nella collana Proceso y derecho e vi hanno collaborato alcuni tra i più autorevoli processualcivilisti del panorama internazionale odierno.
Come il titolo indica, il lavoro intende celebrare il secolo di vita de “La Cassazione civile” del Maestro fiorentino: opera di vastissimo respiro storico, comparato e culturale, pubblicata per la prima volta nel 1920 quando l’Autore – vale la pena ricordare – aveva appena trentun anni (anche se il manoscritto era già stato ampiamente preparato in precedenza)[1].
Non si tratta, però, di una celebrazione, di un omaggio fine a sé stesso; l’insieme degli studi qui radunati vuole piuttosto rappresentare un’occasione corale di riflessione, condotta con autentico spirito critico e ampiezza di prospettive, sulla complessa, e non sempre lineare, eredità de La Cassazione civile.
I saggi non si limitano solo a considerare in positivo l’enorme influenza normativa delle idee espresse dal Calamandrei, nel senso di analizzare il peso determinante che queste hanno avuto nella struttura di molte Corti Supreme, certamente in primis di quella italiana (si pensi all’unificazione, nel 1923, della Corte di cassazione a Roma, o alla formulazione dell’art. 65, comma 1, ord. giud., del 1941) e poi in molti altri Paesi appartenenti alla tradizione di civil law. Più criticamente, i contributi intendono anche evidenziare certi limiti dell’indagine dell’Autore e alcune debolezze dell’apparato teorico, concettuale e storico che egli offre, alla luce delle nuove consapevolezze acquisite in questi cento anni di cultura giuridica – a dimostrazione che la scienza giuridica avanza, eccome.
Quello che mi preme poi particolarmente sottolineare è la forte vocazione comparatistica del volume, che va ad arricchire il tuttora poco arato campo del diritto processuale civile comparato. Alla stesura hanno infatti partecipato studiosi del processo civile appartenenti alla tradizione italiana (il compianto Michele Taruffo, poi Sergio Chiarloni e Luca Passanante), spagnola (Jordi Nieva-Fenoll), peruviana (Renzo Cavani), francese (Frédérique Ferrand, dell’Università di Lione), inglese (John Sorabji, dell’University College di Londra), argentina (Leandro Giannini, dell’Università Nazionale di La Plata, sede di molti studiosi del processo) e brasiliana (Teresa Arruda Alvim, della Pontificia Università Cattolica di San Paolo), testimoniando così la perdurante vitalità di Calamandrei in tutta l’area di civil law, specialmente quella di lingua spagnola, e ora anche oltre[2].
Calamandrei stesso era genuinamente comparatista, nel senso pieno che le sue analisi, in generale, non erano solo di diritto straniero, cioè meramente descrittive o espositive di ordinamenti differenti, a mo’ di ornamento o sfoggio, ma autenticamente dirette al miglior intendimento della natura, e quindi delle funzioni, degli istituti giuridici processuali.[3]
In sintesi, il lettore troverà in questo libro non un’analisi su “La Cassazione civile” di Calamandrei, bensì con Calamandrei, un dialogo con l’opera e gli insegnamenti dell’Autore omaggiato che getta un ponte tra passato, presente e futuro. Il che – senza dubbio – è la maniera migliore per onorare i grandi classici della tradizione: non relegandoli nel cassetto di ciò che fu, come una foto d’epoca sbiadita da tirare fuori nelle occasioni di ricordo, ma facendo sì che essi parlino, e continuino a parlare, alla contemporaneità.
2. La nomofilachia, oggi (Michele Taruffo e Sergio Chiarloni in dialogo)
Non sorprende che uno dei temi ricorrenti lungo tutto l’arco del libro sia la nomofilachia: i suoi contorni, le sue trasformazioni e lo spazio che ha, o può ancora avere, negli ordinamenti giuridici contemporanei. Non sorprende perché quella della nomofilachia è, per eccellenza, l’idea centrale e uno dei lasciti maggiori del testo di Calamandrei, un aspetto sul quale egli insistette certamente con gran forza.
Il libro si apre proprio con due contributi su questa grande questione, nella prima Sezione intitolata El dialogo de dos Maestros (“Il dialogo di due Maestri”). Sezione che non esito a definire, per me, emotivamente significativa, dato che i Maestri qui in dialogo rappresentano due figure di alto riferimento anche personale: Michele Taruffo (il suo saggio è qui pubblicato postumo: uno degli ultimi - se non proprio l’ultimo – sul tema da parte del Giurista pavese), intitolato Sobre la evolución del Tribunal de casación italiano (“Sull’evoluzione della Corte di cassazione italiana”) e Sergio Chiarloni – che considero uno dei miei grandi Maestri, all’Università di Torino - su Nomofilaxis y reforma del juicio de casación (“Nomofilachia e riforma del giudizio di cassazione”).
Il cuore dello studio di Michele Taruffo sta nel chiarire i termini della mai risolta, e tuttora ben presente, tensione concettuale - l’ambiguità, diremo, ricalcando il titolo di un suo celebre libro di sulla Cassazione[4] - tra la funzione ‘retrospettiva’ delle Corti Supreme, cioè di controllo della corretta applicazione del diritto nella controversia di specie (funzione che si esplica pertanto verso il passato), e quella ‘proattiva’, diretta a guidare pro futuro le decisioni dei giudici di merito circa la corretta, giusta, vera interpretazione (l’«esatta osservanza») delle disposizioni giuridiche (ammesso, ovviamente, che possa predicarsi la correttezza, giustizia e verità delle interpretazioni, come crediamo). La prima è funzione di controllo della legalità, la seconda è funzione di uniformizzazione del diritto, questa concettualmente legata ai due valori fondanti dell’uguaglianza dei consociati di fronte alla legge e della prevedibilità delle decisioni[5]. Ancora: l’una sarebbe funzione spiccatamente privata, la seconda spiccatamente pubblica, o – come ancora si usa dire con terminologia comune, anche se non del tutto corretta – l’una è posta a tutela dello ius litigatoris, l’altra a tutela dello ius constitutionis[6].
Non c’è dubbio – rileva Taruffo, fotografando un dato di realtà – che il pendolo della storia oscilli ora dal lato di questa seconda funzione, nella direzione cioè di modelli di Corti cd. “del precedente”. Queste ultime, seppur variamente configurate nel panorama comparato, sono, quasi per natura, dotate di caratteri propri e ben riconoscibili, quali, ad es., la presenza sempre più ingombrante di forme di certiorari o di filtri, più o meno discrezionali, al fine di selezionare il contenzioso meritevole – per così dire - di “attenzione pubblica”[7].
Il problema di cosa rimane oggi della nomofilachia è la domanda centrale delle osservazioni di Sergio Chiarloni. È ancora possibile la nomofilachia – si chiede l’A. - in un contesto, come quello italiano, in cui vige la disposizione, di rango costituzionale, che garantisce sempre il ricorso per cassazione contro tutte le sentenze (rectius: pronunce che decidono su diritti), ex art. 111, comma 7, Cost.? La presenza di questa disposizione è uno dei più evidenti esempi di “eterogenesi dei fini” – concetto sul quale Sergio Chiarloni si è già più volte soffermato in vari studi precedenti – e cioè quel fenomeno per il quale alle buone intenzioni (qui, processuali) seguono effetti di segno contrario. Nel nostro caso: proprio l’introduzione della garanzia costituzionale del ricorso in cassazione, animata dal voler assicurare l’uniformità di trattamento e la prevedibilità delle decisioni a tutti (buona intenzione) è ciò ha condotto all’impossibilità pratica di attuare questi compiti (cattivo effetto), per la semplicissima ragione che l’elevatissimo numero di ricorsi causa, e non può non causare, disordine giurisprudenziale (che per giunta si va ad aggiungere al disordine legislativo)[8].
A questo proposito, è assai indicativo che Sergio Chiarloni – sempre in altri precedenti lavori dedicati al tema - abbia accostato metaforicamente, e assai criticamente, la giurisprudenza della Corte di cassazione italiana a un supermercato «nei cui scaffali i clienti - i litiganti - riescono facilmente a trovare il prodotto che cercano»[9].
Riprendiamo la domanda: è ancora possibile, quindi, parlare di nomofilachia oggi? E se sì, in quali termini? Sergio Chiarloni si oppone – anche qui, sulla scia di suoi studi anteriori – a quella che viene definita come nomofilachia tendenziale, o dialettica, dialogica (“corale” potremmo dire), intesa cioè non rigidamente dall’alto verso il basso, autoritativa, come un comando che cala da un vertice e si impone ai destinatari. Quella forma antica di nomofilachia – si dice - non solo non sarebbe più pensabile nel quadro plurale e complesso attuale, ma nemmeno desiderabile[10]. Questa che stiamo vivendo non sarebbe più l’epoca illuministica delle certezze, bensì quella delle incertezze, colte però nei loro aspetti più positivi, quasi liberatori (il riferimento, nemmeno troppo implicito, è chiaramente al vasto movimento del postmodernismo giuridico, con la sua insistenza sulla crisi, certamente benefica per coloro che lo sostengono, del paradigma della legalità e delle sue categorie fondanti[11]). Per Chiarloni, invece, l’esigenza di una nomofilachia in senso forte va rimarcata, pur nella consapevolezza che i tempi sono mutati. Anzi, proprio nella consapevolezza di questo cambiamento di paradigma. Di qui, la difesa dell’A. dall’accusa – certamente ingenerosa – di veteropositivismo (o, nelle parole dell’articolo, di conservatorismo paleopositivista[12]). È proprio in tempi di indeterminatezze, disorientamenti, che abbiamo più bisogno di una guida, di una istituzione che metta ordine al pluralismo interpretativo (peraltro fisiologico), quando questo supera una certa soglia. «Una “teoria dei cento fiori” – chiosa infine il Chiarloni, con un colto riferimento storico – non può esser applicata alla Corte di cassazione»[13].
3. Presente e futuro. Note sul “fatto” e il suo controllo in Cassazione
Nella Sezione Seconda - intitolata El presente y el futuro (“Il presente e il futuro”) – troviamo lo studio critico di Luca Passanante, che indaga su alcuni aspetti della Corte di cassazione italiana contemporanea, ma con considerazioni teoriche di più ampia portata (El tribunal supremo italiano a cien años de la «Cassazione Civile» de Calamandrei, “La corte suprema italiana a cent’anni da “La Cassazione civile” di Calamandrei”)[14], e un’analisi di Frédérique Ferrand circa l’avvenire della Corte di vertice francese (El futuro del Tribunal de casación francés, “Il futuro della Corte di cassazione francese”)[15].
Lascio al lettore il contenuto di quest’ultimo articolo, ricchissimo sia di spunti comparatistici utili per comprendere la direzione delle riforme in Italia (si pensi, ad es., all’istituto della saisine pour avis, preso a diretto modello del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione, di prossima introduzione[16]), sia di dati statistici ed empirici circa la concreta situazione oltremanica, e mi rivolgo brevemente al primo saggio, il bel contributo di Luca Passanante.
Una delle questioni teorico-istituzionali più dibattute nel corso del tempo è stata senza dubbio quella relativa al ruolo del “fatto” nel giudizio di legittimità e il sindacato della Cassazione nel controllo della logicità delle sentenze di merito. In Italia, dal punto di vista storico, questo ruolo e questo sindacato hanno conosciuto, rispetto all’inizio, prima una espansione, poi un restringimento (si veda il novellato testo dell’art. 360, n. 5 c.p.c., relativo al vizio di motivazione, come modificato dalla L. 143/2012, che ha riaffermato in buona sostanza la versione originale “ristretta” del 1942[17]). Senza dubbio, il Calamandrei del La Cassazione civile avrebbe fortemente approvato questa limitazione. Ma non significa che la sua impostazione non sia teoricamente debole, se vista con gli occhi della contemporaneità.
Uno dei fondamenti della cattedrale calamandreiana stava infatti nella rigorosa separazione tra fatto e diritto. Calamandrei scrive nel 1920, in un’atmosfera già intrisa di positivismo giuridico (la prima versione della “Reine Rechtslehre” di Kelsen è del 1934). La teoria del ragionamento giudiziale più accreditata è quella del sillogismo, dove la norma (generale ed astratta) e il fatto (particolare e concreto) sono pensati come necessariamente distinti. Calamandrei sposa con convinzione questo schema logico (è del 1914 il suo La genesi logica della sentenza civile, che pure tiene conto di molte complessità), anche se poi lo abbandonerà nella fase più matura della sua vita («Vi confesso – scriverà egli nel 1955, a 65 anni, l’anno prima di morire - che quanto più passano gli anni e si allunga la mia esperienza forense […] tanto più si accresce la mia diffidenza, che a volte si avvicina al terrore, per la logica giuridica»[18]). Alla base della sua idea di Cassazione sta appunto questa netta separazione: la Corte di vertice è giudice solo e soltanto del diritto. Il lavoro di Luca Passanante mette a nudo tutta l’artificialità, e quindi l’odierna insostenibilità, di questo assioma. È infatti ora chiarissimo in praticamente ogni teoria dell’interpretazione che il giudizio di fatto e quello di diritto si implicano reciprocamente (il fatto è già sempre fatto qualificato, o fatto normativo, e la norma è già sempre interpretata alla luce dei fatti) e che i due elementi, seppur teoricamente distinti, sono pertanto indissolubili nella realtà processuale[19]. L’originaria, fittizia, scissione logica tra i due termini serviva a Calamandrei per disegnare una Cassazione ‘pura’, lontana dagli accadimenti storici e dalla loro prova, una Cassazione cioè interessata solo all’interpretazione del diritto, e non alla giusta risoluzione del caso. Ma in una prospettiva olistica, di giustificazione cioè della decisione tout court, il contatto coi fatti rimane cruciale (e spesso la Cassazione stessa ne è stata consapevole, come l’indagine giurisprudenziale dimostra). Una decisione del tutto astratta, sconnessa dalla cornice fattuale, difficilmente sarà in grado di esser giusta.
4. Presente e passato. Un’ipotesi sull’origine inglese della Cassation francese
Nella Sezione Terza del Volume compaiono il lavoro storico-ricostruttivo sulla derivazione inglese del Tribunal de cassation francese, di Jordi Nieva Fenoll (El origen inglés de la Casación francesa, “L’origine inglese della Cassazione francese”)[20], e quello di John Sorabji, avente ad oggetto l’attività della Supreme Court oggi, nei suoi aspetti anche più pratici e operativi[21].
In particolare, merita di essere sottolineata e discussa la proposta originale e di grande interesse di Jordi Nieva-Fenoll (ricchissima di documentazioni, come sempre accade nei lavori del processualista spagnolo), circa la sottaciuta radice inglese dell’originale Tribunal de cassation francese; radice che Calamandrei, nella sua opera, non approfondisce e anzi rifiuta.
La ricostruzione proposta è certamente innovativa (nessuno la aveva avanzata prima d’ora), e ha (almeno) due grossi meriti. Da un lato, valorizza i fortissimi contatti - dovuti certamente, ma non solo, alla prossimità geografica - tra giuristi francesi e inglesi, dalle origini del common law, fino alla modernità e oltre, demitizzando così una presunta radicale incomunicabilità storica dei mondi di civil law e common law. Dall’altro, ha il pregio di mettere in discussione un elemento di conoscenza che troppe volte e troppo in fretta è dato per scontato, e cioè l’originarietà intrinseca del modello della Tribunal de cassation, inteso come prodotto esclusivo e tipico dello spirito della Rivoluzione Francese.
In realtà, l’approfondita analisi condotta da Jordi Nieva-Fenoll sulle fonti storiche dell’epoca dimostra come alcuni dei giuristi francesi di fine Settecento - e in particolare Pierre Gilbert de Voisins (1767) e Philippe-Antoine Merlin de Douai (1790) – si fossero ispirati (o è molto probabile che lo fossero) al diritto inglese, attraverso la lettura dei Commentaries di Blackstone (1765), tradotti in francese poco dopo[22]. Certi caratteri presenti nella House of Lord del tempo sembrano difatti molto simili a quelli poi caratteristici del Tribunal de cassation: uno su tutti, la possibilità di adire l’organo di vertice solo e soltanto per errori circa un punto di diritto (point of law). La House of Lords inglese - apprendiamo da Blackstone – veniva qualificata come una supreme court of judicature, che decide soltanto in caso di injustice o mistake of the law, e davanti alla quale non è possibile ammettere prove nuove né ridiscutere le questioni di fatto (lasciate, nel processo civile inglese dell’epoca, alla determinazione della giuria, la quale decideva con verdetto senza motivazione)[23]. Il parallelismo, in effetti, è significativo. Senza poi contare che una delle maggiori differenze utilizzate per rimarcare la distanza tra la corte di vertice inglese e quella francese era la presenza, solo nella prima, dell’istituto del precedente vincolante: ma anche qui, l’analisi storica ci dice che questa particolarità non si stabilizzò, almeno nella forma in cui la conosciamo oggi, fino alla seconda metà del XIX secolo, e quindi in una epoca storica già molto successiva a quella presa in considerazione da Calamandrei.
Siamo sicuri che l’articolo, che argomenta questa ipotesi tanto intrigante quanto originale, aprirà un ampio dibattito storico per la miglior comprensione di un istituto processuale così centrale.
5. Alcune questioni classiche
Chiudono il Volume, nella Sezione Quarta, tre contributi che affrontano altrettanti temi classici, rileggendo Calamandrei alla luce delle molteplici evoluzioni, bisogni sociali e nuove consapevolezze contemporanee.
Il primo (Cuestión de hecho y cuestión de derecho en los recursos ante los tribunales superiores, “Questioni di fatto e questioni di diritto nei ricorsi davanti ai tribunali supremi”) di Teresa Arruda Alvim, verte sulla separazione tra fatto e diritto, con una particolare attenzione dell’A. all’annoso problema del sindacato delle Corti di vertice qualora siano in gioco concetti vaghi, clausole generali del diritto e princìpi giuridici - questi ultimi, come noto, di uso sempre più crescente nei ragionamenti dei giudici negli ultimi anni, soprattutto a seguito della costituzionalizzazione del processo civile.[24]
Il secondo (Los filtros de acceso ante las cortes supremas, “I filtri d’accesso davanti alle corti supreme”), di Leandro Giannini, tratta della questione, di importanza ordinamentale crescente in molte giurisdizioni (Italia in testa), dei filtri d’accesso alle Corti Supreme – un tema sul quale l’Autore ha già scritto una recente monografia[25] –, offrendo importanti distinzioni analitiche utili per metter ordine nel diversificato panorama comparato sul punto. In particolare, degna di attenzione appare la suddivisione tra parametri quantitativi e qualitativi (i primi – a mio giudizio – sempre assai problematici[26]), così come le ulteriori sfumature basate sul grado di discrezionalità del giudice[27].
Il terzo saggio (Casación y precedente. Reflexiones a partir de Calamandrei, “Cassazione e precedente. Riflessioni a partire da Calamandrei”), di Renzo Cavani, si concentra sulla apparente incompatibilità tra il disegno calamandreiano e la presenza di forme di precedente (più o meno vincolanti), che Calamandrei - come noto - rifiuta[28].
Qui l’Autore, dopo aver chiarito in termini generali (a) il concetto di precedente, (b) la ratio decidendi e (c) lo stare decisis - quali componenti basilari di ogni teoria comprensiva del precedente giudiziale che aspiri ad essere tale - rilegge la funzione di uniformizzazione della giurisprudenza per sostenere che il modello di Corte di cassazione immaginato da Calamandrei non è affatto incompatibile con le funzioni tipiche di una “corte del precedente”. Se da un lato è vero che lo schema calamandreiano è inconciliabile con la vincolatività dei precedenti tipica del diritto inglese (soprattutto se intesa nella sua forma più rigida, come era anteriormente al noto Practice Statement della House of Lords del 1966[29]), dall’altro, si sostiene che dalla lettura de “La Cassazione civile” emerge una idea di corte di vertice comunque dotata di una forte funzione prospettiva, di una ideale forza proiettiva, seppur empirica, diretta cioè verso il futuro, e avente di mira una stabilità interpretativa, oltre che nello spazio, anche nel tempo: flessibile e relativa quanto si vuole, ma pur sempre da considerarsi come valore[30].
*Le presenti considerazioni appariranno, tradotte in lingua spagnola, anche sul prossimo numero della Revista de la Maestría en Derecho Procesal, della Pontificia Università Cattolica del Perù, Lima (2021).
[1] Cfr., a proposito, i sentiti ricordi della nipote, Silvia Calamandrei (ora Presidente della Biblioteca Archivio Piero Calamandrei di Montepulciano), in Attualità di Calamandrei nel centenario de La Cassazione civile, 11 novembre 2020, disponibile in https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Cassazione_civile_Calamandrei.pdf
Come noto, “La Cassazione civile” (dedicata alla «cara memoria» di Carlo Lessona, con il quale Calamandrei si laureò a Pisa) fu pubblicata originalmente dallo storico editore torinese-milanese “Fratelli Bocca”, in due volumi. Il primo (Storia e legislazione) è dedicato all’evoluzione della Corte di cassazione civile, a partire dal diritto romano (Capo I), a quello germanico antico (Capo II), da quello comune italiano e tedesco (Capo III) a quello francese prerivoluzionario (Capo IV) e postrivoluzionario (Capo V), per giungere infine all’analisi della Corte nella storia d’Italia (Capo VIII). Il secondo tomo (Il disegno generale dell’istituto) si focalizza invece sugli aspetti istituzionali della Corte di cassazione, e cioè sul suo scopo (Capo I), che altro non è se non la nomofilachia (cioè la protezione del diritto obiettivo: Capo II) e l’unificazione della giurisprudenza (Capo III), intese come funzioni eminentemente pubbliche (Capo IV). Segue poi l’analisi del ricorso per cassazione propriamente detto, ossia il mezzo attraverso cui lo scopo è raggiunto, concepito come derivazione dalla querela nullitatis del diritto intermedio (Capo III, dove si trova l’elucidazione della distinzione tra errores in procedendo ed errores in judicando). Concludono il volume l’esame della situazione italiana e riflessioni de iure condendo. L’intera opera è ora liberamente disponibile online, a cura del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, nella collana “Memoria del diritto” (Roma Tre Press, 2019), in un progetto più ampio volto alla ripubblicazione dell’Opera omnia giuridica di Piero Calamandrei, in 10 Tomi. I volumi de “La Cassazione civile” sono, rispettivamente, il sesto e il settimo (l’uno con la Presentazione di Virgilio Andrioli, scritta in occasione della ristampa delle opere giuridiche di Calamandrei a cura dell’allievo Mauro Cappelletti, nel 1976, presso l’Editore Morano di Napoli; l’altro, con breve prologo dello stesso Cappelletti, Dopo vent’anni, del medesimo anno). I volumi sono interamente accessibili a https://romatrepress.uniroma3.it/libro/opere-giuridiche-volume-vi-la-cassazione-civile-parte-prima/ e https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2019/09/Opere-giuridiche-%E2%80%93-Volume-VII-%E2%80%93-La-Cassazione-civile-parte-seconda.pdf.
[2] Per comprendere l’influenza de “La Cassazione civile” oltre i confini italiani mi pare utile ricordare che entrambi i volumi furono tradotti in lingua spagnola da Santiago Sentís Melendo (magistrato spagnolo che, a seguito della Guerra Civile, dovette esiliarsi prima in Colombia e poi, definitivamente, in Argentina; fu grande traduttore di molti patres della processualistica italiana) e pubblicati in tre Tomi nel 1945 per la Editorial Bibliográfica Argentina, con prologo di Niceto Alcalá-Zamora y Castillo (altro processualista spagnolo, anch’egli costretto all’esilio all’indomani della Guerra Civile, inizialmente in Argentina e poi in Messico, prima tornare in Spagna).
[3] Cfr., sul punto, T. E. Frosini, Piero Calamandrei comparatista, in Federalismi, 28 febbraio 2018, https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?eid=470&dpath=editoriale&dfile=EDITORIALE%5F26022018121030%2Epdf&content=Piero%2BCalamandrei%2BComparatista&content_auth=%3Cb%3ETommaso%2BEdoardo%2BFrosini%3C%2Fb%3E, testo della Relazione al Convegno Processo e Democrazia: le lezioni messicane di Piero Calamandrei, Università di Siena, 5 ottobre 2017.
[4] Ci riferiamo, naturalmente, a Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991.
[5] Lo specifica bene M. Taruffo, Sobre la evolución, cit., 17 – 18.
[6] Dico “impropriamente” perché le due espressioni, originalmente, nell’opera dei Glossatori del Digesto, non identificavano la valenza o la portata più o meno pubblica, più o meno importante, delle questioni trattate, bensì semplicemente la distinzione tra errori nella ricostruzioni dei fatti, o relativi alla sussunzione della norma al fatto (ius litigatoris) da un lato, ed errori sull’esistenza o il contenuto del diritto, dall’altro (ius constitutionis). Per questa importante precisazione storico-terminologica, G. Scarselli, Ius constitutionis e ius litigatoris alla luce della recente riforma del giudizio di Cassazione, in Riv. dir. proc., 2017, 355 ss.
[7] M. Taruffo, Sobre la evolución, cit., 21 - 22, il quale ricorda gli esempi dell’elaborazione del concetto di interés casacional in Spagna e delle corrispondenti evoluzioni in Germania e Argentina.
[8] S. Chiarloni, Nomofilaxis y reforma, cit., 27. In precedenza, già Id., Un singolare caso di eterogenesi dei fini, irrimediabile per via di legge ordinaria: la garanzia costituzionale del ricorso in cassazione contro le sentenze, in J. M. G. Medina et al. (a cura di), Os poderes do juiz e o controle das decisões judiciais: estudos em homenagem à Professora Teresa Arruda Alvim Wambier, São Paulo, 2008, 846 e seg.
[9] Così S. Chiarloni, Ruolo della giurisprudenza e attività creative di nuovo diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, 6. Per il fatto che «quanto più la giurisprudenza della corte assomiglia ad un supermercato dove il soccombente nel giudizio di merito trova precedenti anche favorevoli, tanto più aumentano i ricorsi», sempre Id., Un ossimoro occulto: nomofilachia e garanzia costituzionale dell’accesso in Cassazione, in C. Besso, S. Chiarloni (a cura di), Problemi e prospettive delle corti supreme: esperienze a confronto, Napoli, 2012, 21; v. poi ancora, Id., Ragionevolezza costituzionale e garanzie del processo, in Riv. dir. proc., 2013, 525: «i prodotti giurisprudenziali della corte suprema simili a quelli di un supermercato, dove la parte soccombente spesso trova, accanto a quelli contrari, anche i precedenti favorevoli che possono indurla a tentare la sorte».
[10] Sul dibattito, con ampiezza, F. Di Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in Giustizia Insieme, 3 marzo 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1598-giudice-e-precedente-per-una-nomofilachia-sostenibile
[11] Di cui, uno dei più importanti esponenti è Paolo Grossi. Cfr., da ultimo, P. Grossi, Il diritto civile in Italia fra moderno e postmoderno (dal monismo legalistico al pluralismo giuridico), apparso nella collana Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, 2021 (sul quale v. le osservazioni di M. Serio, Riflessioni su “Il diritto civile in Italia tra moderno e posmoderno. Dal monismo legalistico al pluralismo giuridico” di Paolo Grossi, in Giustizia Insieme, Giugno 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-civile/1822-riflessioni-su-il-diritto-civile-in-italia-tra-moderno-e-posmoderno-dal-monismo-legalistico-al-pluralismo-giuridico-di-paolo-grossi). «La cosiddetta incertezza del diritto, che non si può non cogliere quale fattore negativo se si assume un angolo di osservazione prettamente legalistico – afferma P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015, 66 - merita un capovolgimento valutativo, se la si vede come il prezzo naturale da pagare per il recupero di una dimensione giuridica che sia veramente diritto».
[12] S. Chiarloni, Nomofilaxis y reforma, cit., 30.
[13] S. Chiarloni, ult. op. cit., 31.
[14] L. Passanante, ivi, 39 ss. Cfr. anche, in italiano, Id., Il postulato del “primo” Calamandrei e il destino della Cassazione civile, in www.judicium.it, 19 Novembre 2020, https://www.judicium.it/postulato-del-primo-calamandrei-destino-della-cassazione-civile/. Sulla questione del giudizio di fatto e di diritto, si sofferma con ampiezza anche Teresa Arruda Alvim, nel saggio Cuestión de hecho y cuestión de derecho en los recursos ante los tribunales superiores, ivi, 127 e seg.
[15] F. Ferrand, ivi, 69 e seg.
[16] Avevo avuto occasione di toccare incidentalmente il punto in In difesa della nomofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in Giustizia Insieme, 22 giugno 2021, in https://www.giustiziainsieme.it/it/processo-civile/1815-in-difesa-della-nomofilachia-prime-notazioni-teorico-comparate-sul-nuovo-rinvio-pregiudiziale-alla-corte-di-cassazione-nel-progetto-di-riforma-del-codice-di-procedura-civile-di-carlo-vittorio-giabardo
[17] Il quale – ora – limita il sindacato di legittimità nel solo caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Su questo restringimento, per tutti, di recente, B. Capponi, Note brevi sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c., in Giustizia Insieme, 10 febbraio 2021, https://www.giustiziainsieme.it/it/news/121-main/processo-civile/1540-note-brevi-sul-n-5-dell-art-360-c-p-c.
[18] Così P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, ora in Opere giuridiche, Vol. I, cit., 604. Sull’articolato itinerario del pensiero calamandreiano, v. N. Trocker, Il rapporto processo-giudizio nel pensiero di Piero Calamandrei, in AA.VV., Piero Calamandrei. Ventidue saggi su grande maestro, Milano, 1990, a cura di P. Barile, 101 ss. V. poi anche P. Grossi, Lungo l’itinerario di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 865 e seg.
[19] Sull’inestricabile nesso tra fatto e diritto, recentemente, G. Ubertis, Quaestio facti e quaestio iuris, in Quaestio Facti. Revista internacional sobre razonamiento probatorio, 1, 2020, 67 e seg., anche online, in https://revistes.udg.edu/quaestio-facti/article/view/22326/26148
[20] J. Nieva-Fenoll, El origen inglés de la Casación francesa, ivi, 91 e seg. L’articolo è apparso anche sulla Revista Ítalo-Española de Derecho Procesal, 2020, 83 e seg. e, in portoghese, sulla Revista de Processo (São Paulo), 2021, 445 e seg. (A origem inglesa da cassação francesa). Il contributo è di prossima pubblicazione anche in italiano (Le origini inglesi della Cassazione) sulla Riv. trim. dir. proc. civ., 2021. Per una prima presentazione, in italiano, a cura dell’Autore, presso l’Università di Genova (3 dicembre 2021), nel corso di diritto processuale civile tenuto dal Professor Angelo Dondi, cfr. Le origini inglesi della cassazione francese, disponibile su YouTube,
[21] J. Sorabji, El tribunal supremo del Reino Unido: procedimientos, precedentes y reforma (“Il tribunale supremo del Regno Unito: procedimenti, precedenti, e riforma”), ivi, 107 e seg.
[22]J. Nieva-Fenoll, cit., 96 e seg. e poi 104 e seg.
[23] J. Nieva-Fenoll, cit., 102.
[24] T. Arruda Alvim, Cuestión de hecho y cuestión de derecho, cit., 135 e seg., e spec. 147 e seg.
[25] L. Giannini, El certiorari. La jurisdicción discrecional de las Cortes Supremas, La Plata, 2016.
[26] Per la ragione che la significatività di una questione di diritto prescinde totalmente dal valore della controversia; è ben possibile che la pronuncia della Corte di vertice sia necessaria – per es., al fine di chiarire un dissidio interpretativo, o per offrire una interpretazione di una norma più convincente di quella data finora, etc. – anche in una causa di pochi euro.
[27] L. Giannini, Los filtros de acceso, cit., 155 e seg.
[28] R. Cavani, Casación y precedente, cit., 187 e seg.
[29] [1966] 3 All ER 77. Con il Practice Statement, la House of Lords dichiarò che d’ora in avanti si sarebbe ritenuta svincolata dal rispetto dei propri precedenti, qualora lo considerasse giusto (nelle parole dell’allora giudice Lord Gardiner: “Their Lordships […] recognise that too rigid adherence to precedent may lead to injustice in a particular case and also unduly restrict the proper development of the law. They propose therefore to modify their present practice and, while treating former decisions of this House as normally binding, to depart from a previous decision when it appears right to do so».
[30] R. Cavani, ibidem
, 214 – 215.
Commento al Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali)[1] [2]
di Armando Spataro
Le modalità di pubblica comunicazione dei magistrati hanno dato luogo a frequenti critiche secondo cui essi parlerebbero per rafforzare il peso dell’accusa o la propria immagine, nonostante il dovere di riservatezza cui sono tenuti. Si tratta di accuse quasi sempre infondate, ma che traggono spunto da innegabili criticità: basti pensare alla prassi delle conferenze stampa teatrali e dei comunicati stampa per proclami, o all’autocelebrazione della proprie inchieste. Il dovere di informare è naturalmente irrinunciabile, purchè esercitato nei limiti della legge, del rispetto della privacy e delle regole deontologiche, ma è anche necessario che i magistrati si guardino bene dal contribuire a rafforzare un’ormai evidente degenerazione informativa, di cui non sono ovviamente gli unici responsabili ed alla quale contribuiscono spesso anche appartenenti alle categorie degli avvocati, dei politici e degli stessi giornalisti che spesso producono informazioni sulla giustizia prive di approfondimento e di verifiche. I contenuti del D. Lgs. n. 188/2022 sono pertanto sostanzialmente condivisibili, pur se riguardano solo le Pubbliche Autorità. Ma è anche necessaria, per venir fuori da questo preoccupante labirinto, una riflessione diffusa che coinvolga tutte le categorie interessate .
sommario: 1.Premessa. - 2. Il contenuto delle previsioni introdotte con il D. Lgs. N. 188/2022 (2.a: art. 2; 2.b: art.3; 2,c: art.4; 2.d: art. 5) - 3. Gli altri protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia. - 3.a. Avvocati e Informazione - 3.b I politici che strumentalizzano l’informazione sulla giustizia. - 3.c . I giornalisti che producono l’informazione sulla giustizia. - 4. La necessità di una riflessione comune su informazione e giustizia tra magistrati, avvocati e giornalisti. - 5. Cenni sull’ Allegato seguente
Allegato: I criteri direttivi della Procura di Torino dell’8 ottobre 2018 che hanno anticipato varie disposizioni del D.Lgs. n. 188/221.
1.Premessa
Il corretto rapporto tra giustizia ed informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri su cui si fonda la credibilità dell’amministrare giustizia. All’opposto, la comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, in sostanza disinformazione, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura e conseguente perdita della sua credibilità .
Non è per caso che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia emanato nella seduta dell’11 luglio 2018 le Linee Guida per l’organizzazione degli Uffici Giudiziari “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, quale espressione della necessità di trasparenza, controllo sociale e comprensione - da parte dei cittadini - della giustizia intesa come servizio, come funzione, come istituzione.
Del resto, come è stato osservato[3], il magistrato non è più, in sé, simbolo di prestigio sociale e, tanto meno, di autorevolezza, fiducia, credibilità. La percezione sociale del magistrato e della giustizia – e dunque la maggiore o minore fiducia, il maggiore o minore rispetto, la maggiore o minore credibilità - si nutre sempre di più anche del “costume giudiziario”, ovvero di come i magistrati si pongono, parlano, scrivono, si comportano, e si relazionano con le parti del processo e con il pubblico.
Va precisato, però, che quelle di vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione: intendo riferirmi, anche in questo caso evitando rischi di ingiuste generalizzazioni, a certi atteggiamenti che sono propri di forze di polizia giudiziaria, di avvocati, politici e di giornalisti. Se ne parlerà appresso.
Si può comprendere, pertanto, come l’approvazione del decreto legislativo n.188/ 2021 (in intestazione precisato) abbia determinato sin dalla fase di sua gestazione divisioni nei commenti, soprattutto, di magistrati (in particolare di quelli che delle conferenze stampa e delle pubbliche dichiarazioni sulle inchieste da loro condotte fanno o hanno fatto un uso inaccettabile durante le rispettive carriere) e giornalisti (specie quelli abituati a cercare e sfruttare canali privilegiati di accesso alle informazioni riservate).
Da appartenenti ad entrambe le categorie si è parlato di un inaccettabile bavaglio che con il provvedimento in questione si vorrebbe imporre a magistrati e giornalisti limitando l’informazione sui procedimenti penali, senza considerare che in discussione sono invece gli eccessi delle modalità informative allorchè, in contrasto anche con la Direttiva UE 2016/343, vanno a ledere i diritti di indagati ed imputati.
Ovviamente vi sono stati anche commenti critici di avvocati e politici, i quali, però, hanno auspicato soprattutto una ulteriore restrizione – francamente impensabile - dei contenuti delle pubbliche dichiarazioni dei magistrati sulle inchieste penali.
Il problema dei limiti da rispettare nelle modalità comunicative in tema di giustizia è comunque reale, poiché non si può ovviamente accettare alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, salvo scatenare un “mercato nero”[4] di tali notizie.
2. Il contenuto delle previsioni introdotte con il D. Lgs. N. 188/2022
E’ allora utile, a questo punto, passare all’esame delle previsioni contenute nel decreto legislativo in questione (tralasciando l’ormai abituale “clausola di invarianza”, qui inserita nell’art.6), però con una premessa: in questo intervento non saranno approfonditi gli importanti temi giuridici che derivano dalla direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, citate nell’art. 1 del D. Lgs. 188/2021 (quale “Oggetto” e fine del provvedimento), concernenti il rafforzamento di alcuni aspetti della “presunzione di innocenza”, oggetto anche della giurisprudenza della Corte Edu. Le nuove norme saranno piuttosto oggetto di commenti che chi scrive formulerà alla luce della propria esperienza professionale di pubblico ministero, maturata per tutto l’arco della propria carriera, salvo una pausa quadriennale di esercizio delle funzioni di componente eletto del CSM (1998-2002).
A tal fine saranno comunque di seguito riprodotti i testi delle norme oggetto di commento
2.a - L’art. 2 del D. Lgs. 188/2021 (Dichiarazioni di autorità pubbliche sulla colpevolezza delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale) prevede quanto segue:
1.È fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l'imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.
2. In caso di violazione del divieto di cui al comma 1, ferma l'applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonchè l'obbligo di risarcimento del danno, l'interessato ha diritto di richiedere all'autorità pubblica la rettifica della dichiarazione resa.
3. Quando ritiene fondata la richiesta, l'autorità che ha reso la dichiarazione procede alla rettifica immediatamente e, comunque, non oltre quarantotto ore dalla ricezione della richiesta, dandone avviso all'interessato.
4. L'autorità che ha reso la dichiarazione è tenuta a rendere pubblica la rettifica con le medesime modalità della dichiarazione oppure, se ciò non è possibile, con modalità idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica.
5. Quando l'istanza di rettifica non è accolta, ovvero quando la rettifica non rispetta le disposizioni di cui al comma 4, l'interessato può chiedere al tribunale, ai sensi dell'articolo 700 del codice di procedura civile, che sia ordinata la pubblicazione della rettifica secondo le modalità di cui al comma 4.
Le previsioni dell’art. 2 appaiono corrette in quanto, al di là delle modalità di comunicazione di cui si dirà appresso, sono ispirate dall’elementare principio di “presunzione di innocenza”, peraltro espressione che ha finito anche per denominare il D. Lgs. 188/2021 nel dibattito pubblico che lo ha riguardato.
La norma ovviamente rispetta quanto previsto nella direttiva (UE) 2016/343 e si riferisce al dovere delle pubbliche autorità (dunque, non solo dell’Autorità Giudiziaria ma, ad es., anche di Ministri: non possono dimenticarsi, a tal proposito, le premature esternazioni in ordine ad una delicata inchiesta del Ministro dell’Interno Salvini che, alla fine del 2018, determinarono contrasti con la Procura di Torino) di non forzare, fino alla decisione definitiva, il modo di presentare alla pubblica opinione gli indagati o imputati anche nel caso in cui le stesse autorità siano pervenute a precisi convincimenti presenti nei provvedimenti emessi nel corso delle varie fasi processuali.
Personalmente, pur dando per scontati vizi e pessime abitudini di cui si parlerà, non credo affatto che sia diffusa tra i pm la convinzione che, incrementando il rilievo mediatico delle proprie inchieste e presentandoli come colpevoli dei reati loro ascritti, sia possibile far crescere le probabilità di ottenere la condanna degli imputati, specie in processi complessi.
Ma è giusto che si preveda un divieto legislativo in materia, così come è giusto prevedere una procedura di rimedio – in caso di violazione del divieto stesso – attivabile dall’interessato il quale potrà richiedere la rettifica della comunicazione, che dovrà intervenire "immediatamente e, comunque, non oltre quarantotto ore dalla ricezione della richiesta", venendo resa pubblica "con le medesime modalità della dichiarazione" o comunque con "modalità idonee", pur se nulla si dice sul connesso dovere di provvedervi da parte degli organi di informazione. In caso di diniego, invece, l'interessato potrà sempre rivolgersi al tribunale in via d'urgenza ex art. 700 c.p.c. .
La norma evoca anche, in caso di violazione del divieto, oltre al risarcimento del danno, l'applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari. A tale ultimo proposito, vanno ricordato le previsioni di cui alle lettere “u”, “v” ed “aa” dell’ art. 2, comma 1 del D. L.vo 109/2006, secondo cui:
1. 1. Costituiscono illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni:
u) la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui;
v) pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (2);
aa) il sollecitare la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio ovvero il costituire e l'utilizzare canali informativi personali riservati o privilegiati.
Dunque, se le previsioni dell’art. 2 del D. Lg.s. 188/2021 non riguardano le tecniche di redazione dei provvedimenti giudiziari, quanto i confini lessicali imposti alla loro redazione, è giusto che venga ricordato il doveroso contrasto sul piano disciplinare di diffuse propensioni dei magistrati ad accrescere, per quelle vie, la popolarità della propria immagine.
Se infatti l’informazione serve ai cittadini, essa va data con misura e quando lo sviluppo delle indagini lo consente, con connesso dovere dei dirigenti di assicurare che essa avvenga in forma corretta per fatti di pubblico rilievo, specie quanto i fatti sono oggetto di indagine e non ancora di una sentenza, sia pure di primo grado. Per i dirigenti degli Uffici Giudiziari, in particolare per i Procuratori della Repubblica, esiste anche il dovere di intervenire per correggere, anche di propria iniziativa e senza istanza degli interessati, imprecisioni e fake news: serve farlo con misura e precisione per evitarne l’enfatizzazione, così come per far fronte al rischio di “pregiudizio alle indagini, e per la dovuta attenzione ai diritti delle persone coinvolte (tra cui quello di non essere presentato alla pubblica opinione come colpevole di reati), all’immagine di imparzialità e correttezza del singolo magistrato, dell’ufficio giudiziario e, nei casi più gravi” della stessa funzione giudiziaria”[5]
Per chiudere sull’art. 2, si potrebbe ipotizzare la non applicabilità del divieto di cui al co. 1, nel caso di indagato arrestato in flagranza di reato e/o immediatamente reo-confesso: ma anche in questo caso, ove sussista un interesse pubblico alla notizia, il comunicato stampa potrebbe dare atto delle modalità dell’arresto e di altre circostanze non coperte dal segreto investigativo, ma non potrebbe parlare di un “colpevole” prima della sentenza definitiva, tra l’altro essendo possibile anche in quei casi, come è noto, il riconoscimento di avere agito per legittima difesa o in presenza di altre circostanze che rendono non punibile l’autore del fatto.
2.b - L’art. 3 del D. Lgs. 188/2021 (Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 ) prevede quanto segue:
1. All'articolo 5 del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, dopo la parola «informazione», sono inserite le seguenti: «, esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa. La determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano»;
b) dopo il comma 2 è inserito il seguente: «2-bis. La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell'imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.»;
c) dopo il comma 3 sono inseriti i seguenti:
«3-bis. Nei casi di cui al comma 2-bis, il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. L'autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano. Si applicano le disposizioni di cui ai commi 2-bis e 3.
3-ter. Nei comunicati e nelle conferenze stampa di cui ai commi 1 e 3-bis è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza.».
2. All'articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, dopo la parola «preposti,», sono inserite le seguenti: «oltre che dei doveri di cui all'articolo 5,».
Leggendo la lett. a), può dunque dedursi che l’informazione corretta non è quella delle conferenze stampa teatrali e dei comunicati stampa per proclami che ben abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, ma quella comunque sobria in presenza di due condizioni, cioè possibile quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o quando ricorrono altre specifiche ragioni di ordine pubblico. Disposizione valida anche quando il Procuratore autorizzi gli ufficiali di p.g. a fornire l’informazione.
Proprio in tale prospettiva, mi permetto subito un riferimento personale: per il periodo in cui ho diretto la Procura della Repubblica di Torino, cioè dalla fine del mese di giugno del 2014 a metà del dicembre 2018, ho tenuto solo tre conferenze stampa: la prima per denunciare pubblicamente, insieme agli Avvocati (da me invitati a parteciparvi), il grave deficit di personale amministrativo dell’Ufficio; la seconda per illustrare i risultati ostensibili delle indagini sui gravi fatti verificatisi in Torino, in Piazza San Carlo, il 3 giugno 2017 (che avevano scosso l’intera città) e l’ultima per presentare pubblicamente le direttive emesse il 9 luglio 2018 in tema di priorità da accordare alla trattazione dei reati connotati da odio razziale ed al fine di velocizzare le procedure relative ai ricorsi avverso il rigetto delle richieste di protezione internazionale (argomenti, cioè, che richiamavano attualità e diritti fondamentali delle persone). Nel lungo periodo precedente di servizio alla Procura di Milano, ho partecipato solo ad altre due conferenze: la prima nel 1988, insieme al collega Pomarici, in occasione della scoperta dell’ultimo “covo” della Brigate Rosse a Milano che segnò la fine degli “anni di piombo” (fu peraltro una conferenza tenuta dai Carabinieri cui noi, che l’avevamo autorizzata, assistemmo quasi silenti) ed un’altra di cui mi sono pentito, in epoca più recente.
Sarà chiaro, dunque, che non apprezzo in alcun modo la pratica delle conferenze stampa che vedono appartenenti alle forze di polizia schierati in divisa al fianco dei magistrati o dietro di loro. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce.
Quanto ai comunicati ed alle conferenze stampa, è però inaccettabile la prassi di quei pubblici ministeri che, presentando pubblicamente le proprie indagini, usano lanciare veri e propri proclami del tipo “si tratta della più importante indagine antimafia del secolo” o “finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord”, così proponendosi come icone - categoria purtroppo in espansione - per le piazze plaudenti. Per non parlare della logica sottesa alla esaltazione di certi presunti misteri in relazione ai quali certi magistrati spesso richiamano responsabilità di imprecisate entità esterne e dei soliti “poteri forti”, senza nome e senza volto, così rinforzando il motto che i giornalisti inglesi usano per stigmatizzare quei loro colleghi che rifiutano di accertare/accettare il reale andamento dei fatti pur di non indebolire le loro fantasiose ipotesi: «Non permettere ai fatti di rovinare una bella storia!».
Recentemente, sono stati anche diffusi comunicati in forma non condivisibile: troppo lunghi nel testo e perfino contenenti, da un lato, brani oggetto di conversazioni registrate durante le indagini preliminari, dall’altro spunti critici verso giudici o avvocati, oppure affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pm esposte nei comunicati rappresentino la verità inconfutabile, definitivamente accertata, insomma un anticipo di sentenza. Niente di più lontano, insomma, dal senso del limite e dall’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero prima della decisione del giudice.
I comunicati stampa, invece, oltre a dover essere ovviamente chiari, sintetici ed efficaci, non possono che riguardare informazioni di effettivo interesse pubblico e contenere brevi riferimenti alla natura dei reati per cui si procede, alla provvisorietà delle valutazioni del giudice (oltre che del PM) sulle responsabilità delle persone sottoposte a misura cautelare, evitando citazione di nomi e diffusione di fotografie o comunicazione di dati sensibili almeno ove tali nomi ed immagini non siano noti per altri fatti oggettivi (ad es., arresti in flagranza o diffusione di notizie, come è avvenuto, da parte degli stessi indagati).
Particolare attenzione va riservata alla necessità di evitare in qualsiasi modo che notizie segrete o comunque riservate possano essere anche indirettamente propalate o intuite: i danni alle indagini sono in questi casi evidenti e finiscono con il legittimare le accuse sistematicamente rivolte ai magistrati – in quanto detentori delle notizie – di determinarne le cd. “fughe”.
E’ doveroso anche (come previsto nella lett. “c” dell’art. 3 prima riportato) che i Pubblici Ministeri, anche per dare ulteriore concretezza al principio della direzione della Polizia Giudiziaria che la Costituzione ed il Codice di rito loro attribuiscono, debbano sempre ricevere preventivamente dai vertici dei presidi di polizia giudiziaria operanti nel circondario o, a seconda delle competenza, nel Distretto, i comunicati stampa che essi intendono diffondere in ordine a rilevanti indagini effettuate e, in caso di necessità, sottoporli alle valutazioni del Procuratore. Tale prassi è utile anche per pervenire a contenuti, modalità e tempi della diffusione della notizie di interesse pubblico improntati anche al rispetto dei diritti e delle garanzie spettanti agli indagati per qualsiasi reato.
In sostanza, vanno evitati eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni. Queste, infatti, non si esauriscono nel momento dell’arresto di un ricercato o dell’avvenuta effettuazione di controlli e perquisizioni: talvolta, ad es., l’arrestato può chiedere di essere interrogato ed occorre che il PM vi provveda subito se l’atto si presenta utile. Altre volte il materiale sequestrato può determinare ulteriori urgenti attività. E gli esempi potrebbero continuare. E’ importante, dunque, che PM, Polizia Giudiziaria e vertici delle strutture operanti condividano la cultura della informazione appropriata per contenuto e tempistica, che può persino essere frutto di oculata elaborazione di strategie investigative, quando, ad es., si diffonde ad hoc una specifica notizia perché ciò può determinare utili ed importanti sviluppi.
Sia permesso riportare di seguito la parte concernente questo tema che figura nei Criteri organizzativi della Procura di Torino dell’8 ottobre del 2018 (pag. 221), principio già dettato in precedenza (con analoghe direttive del 23.6.2015) e che la Polizia Giudiziaria del Circondario ha condiviso e sempre rispettato:
Pag. 221 dei Criteri Organizzativi dell’8 ottobre 2018
Direttive per i magistrati dell’Ufficio, con particolare riferimento ai rapporti con la Polizia Giudiziaria
Sempre per quanto riguarda la direzione delle indagini, i Pubblici ministeri dovranno raccomandare alla polizia giudiziaria, ogniqualvolta ciò risulti utile o necessario, quanto segue:
…omissis…
- evitare, specie in caso di indagini delicate, conferenze e comunicati stampa relativi ad attività di polizia giudiziaria, senza previo assenso del magistrato che le coordina.
Anche il contenuto dell’art. 3 del D. Lgs. 188/2021, dunque, è condiviso da chi scrive salvo nella parte in cui si prevede (co.1, lett. “a”) che, al comma 1 del D. lgs. 20 febbraio 2006 n. 106 (Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150) venga aggiunta la frase “La determinazione di procedere a conferenza stampa è assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano”.
Si tratta francamente di una previsione di tipo burocratico, quella dell’atto motivato, che allude ad un controllo di tipo gerarchico sulle decisioni del Procuratore della Repubblica: non a caso, con l’ultimo capoverso dell’art. 3 D. Lgs. 188/2021, si prevede che “All'articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (ndr.: Attività di vigilanza del procuratore generale presso la corte di appello), dopo la parola «preposti,», sono inserite le seguenti: «oltre che dei doveri di cui all'articolo 5,”. Il procuratore generale presso la corte di appello, cioè, dovrà acquisire anche dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto sulle conferenze stampa e sugli atti motivati con cui sono state autorizzate, ed inviarle al procuratore generale presso la Corte di cassazione con relazione almeno annuale.
Francamente troppo: non vi è bisogno di un atto scritto per motivare una conferenza stampa (salvo quando si tratti di un’autorizzazione diretta alla polizia giudiziaria): il Procuratore della Repubblica, infatti, è comunque responsabile delle decisioni adottate anche quanto alla valutazione della necessità per la prosecuzione delle indagini o delle specifiche ragioni di pubblico interesse che facciano ritenere doverose le conferenze stampa, di cui comunque può dare spiegazione nei casi e nei tempi in cui ciò gli venga richiesto.
Si dovrebbe evitare di “immettere sul mercato”, insomma, altri formalismi inutili e relativi “moduli” da cui è già gravata la vita quotidiana delle Procure, prevedendo, semmai, la redazione facoltativa di tali atti motivati.
E’ anche condivisibile il divieto (ex punto 3-ter della lett. “c”) di assegnare ai procedimenti pendenti, in comunicati e conferenze stampa, denominazioni lesive della presunzione di innocenza: un’altra pessima abitudine conosciuta per valorizzare la teatralità della comunicazione relativa a determinate indagini.
In ogni caso, ai sensi della lett. b) del co. 1 della norma, le informazioni devono far riferimento alla fase in cui si trova il processo e rispettare le prescrizioni del già citato art. 2 del D. lgs. 188/2021.
La regola non scritta rimane comunque, anche in questo caso, quella secondo cui i Procuratori, comunque, ed i loro delegati, devono adoperarsi perché sia diffusa all’interno ed all’esterno degli uffici che dirigono la consapevolezza della delicatezza e importanza della comunicazione relativa alle procedure giudiziarie, pur se – sul punto - i magistrati rimarranno sempre esposti a critiche spesso strumentali quando indagati ed imputati apparterranno alle note “categorie protette”. Molto raramente, invece, è dato rilevare critiche ad altri protagonisti di una deriva insopportabile che ormai si manifesta sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione : intendo riferirmi, anche in questo caso evitando rischi di ingiuste generalizzazioni, a certi atteggiamenti che sono propri anche di avvocati, politici e perfino, se non soprattutto, di giornalisti.
Il tema in questione va comunque affrontato considerando che l’informazione sulla giustizia è certamente necessaria, rivestendo anzi la dimensione di un dovere da parte di chi deve diffonderla e di un diritto da parte di chi ne è destinatario.
2.c - L’art. 4 del D. Lgs. 188/2021 (Modifiche al codice di procedura penale) prevede quanto segue:
1. Al codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo l'articolo 115, è inserito il seguente:
«Articolo 115-bis (Garanzia della presunzione di innocenza). -
2. Salvo quanto previsto dal comma 2, nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell'imputato, la persona sottoposta a indagini o l'imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. Tale disposizione non si applica agli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato.
3. Nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell'imputato, che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, l'autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione del provvedimento.
4.. In caso di violazione delle disposizioni di cui al comma 1, l'interessato può, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nelprocesso.
5. Sull'istanza di correzione il giudice che procede provvede, con decreto motivato, entro quarantotto ore dal suo deposito. Nel corso delle indagini preliminari è competente il giudice per le indagini preliminari. Il decreto è notificato all'interessato e alle altre parti e comunicato al pubblico ministero, i quali, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi, possono proporre opposizione al presidente del tribunale o della corte, il quale decide con decreto senza formalità di procedura. Quando l'opposizione riguarda un provvedimento emesso dal presidente del tribunale o dalla corte di appello si applicano le disposizioni di cui all'articolo 36, comma
4.»;
b) all'articolo 314, comma 1, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «L'esercizio da parte dell'imputato della facoltà di cui all'articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo.»;
c) all'articolo 329, comma 2, dopo le parole «Quando è», è inserita la seguente: «strettamente»;
d) all'articolo 474 del codice di procedura penale, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente:
«1-bis. Il giudice, sentite le parti, dispone con ordinanza l'impiego delle cautele di cui al comma 1. È comunque garantito il diritto dell'imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili. L'ordinanza è revocata con le medesime forme quando sono cessati i motivi del provvedimento.».
Assolutamente condivisibili sono le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 del nuovo art. 115 bis cpp. : la giustizia, infatti, viene comunicata quotidianamente all’esterno con anche con vari atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, ma fino al momento in cui sia emesso il provvedimento definitivo, non può essere consentito ai magistrati - specialmente se pubblici ministeri - di utilizzare tali provvedimenti per finalità diverse da quelle cui sono direttamente destinate, ad es. per rafforzare il peso dell’accusa e delle proprie convinzioni, anche indirettamente, attraverso la loro pubblicità o mediante improprie modalità di redazione.
Un esempio, certamente estremo ma significativo, può essere utile: riguarda il cd. «derby del Sud», cioè il noto scontro tra la Procura della Repubblica di Salerno e quella di Catanzaro risalente al 2008. Prescindendo dal merito e dall’esito del processo, intendo qui ricordare che il 2 e il 3 dicembre di quell’anno, il procuratore di Salerno «vistava», e due suoi sostituti firmavano, un decreto di perquisizione di oltre millecinquecento pagine nei confronti, tra gli altri, di sette magistrati di Catanzaro, compreso il procuratore generale. Costoro risultavano indagati per reati che andavano dalla corruzione in atti giudiziari all’omissione di atti d’ufficio, dal falso ideologico al favoreggiamento personale e alla corruzione.
Il decreto di perquisizione non rientra tra gli atti destinati a porre l’indagato in condizione di difendersi, ma serve solo a motivare la scelta di cercare qualcosa in un certo luogo; per questa ragione consta normalmente di poche pagine: tre o quattro al massimo. Non mi è mai capitato di firmarne uno più lungo, pur se è accaduto anche a me di condurre qualche indagine delicata. Il decreto di perquisizione emesso dai pm di Salerno venne subito pubblicato su un sito web ricevendo così ampia diffusione: vi si riproducevano pressoché integralmente dichiarazioni rese da persone informate sui fatti contenenti opinioni ed apprezzamenti personali di dubbia compatibilità con le re-gole procedurali e di ancor più dubbia pertinenza con l’oggetto dell’indagine, quali ipotesi di scarsa sensibilità istituzionale, di comportamenti omissivi e sospette relazioni formulate nei confronti di personalità politiche, componenti del Csm, un pubblico ministero della Cassazione, nonché vertici ed esponenti dell’Associazione magistrati.
Provvedimenti così costruiti presentano un altro grave limite, questa volta intrinseco, quello di far «evaporare» le responsabilità penali su cui si indaga, che così rischiano di annegare in un mare di affermazioni non pertinenti e di ipotesi indimostrate.
I commi 1 e 2 del nuovo art. 115 bis cpp, dunque, richiamano il dovere di sobrietà dell’Autorità Giudiziaria e quello di non motivare gli atti giudiziari in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti.
Comprensibili e conseguenti le previsioni di cui ai successivi commi 3 e 4 che disciplinano la procedura di correzione dei provvedimenti e di connessa autotutela degli interessati.
Le altre previsioni (lett. “b”, “c” e “d” dell’art. 4 del D. lgs. in esame) rispettivamente riguardano:
-il tema della equa riparazione in caso di assoluzione (art. 314 c.p.p.), rispetto alla quale non incide il diritto ad esercitare la facoltà di non rispondere : si tratta dell’assestamento legislativo di una questione spesso dibattuta;
-la modifica all’art. 329 co. 2 cpp (obbligo del segreto) con la possibilità per il pubblico ministero – in deroga a quanto previsto dall’art. 114 cpp in tema di divieto di pubblicazione di atti e di immagini – di consentire con decreto motivato la pubblicazione di singoli atti o parti di essi solo quando ciò è strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini (ove la novità è l’introduzione nella norma dell’avverbio “strettamente”, che – comunque – non potrà che essere oggetto di valutazione esclusiva del magistrato inquirente su cui neppure il CSM può interferire). Si tratta comunque di modifica dovuta all’esigenza di rispettare l'articolo 4, paragrafo 3, della Direttiva europea già citata;
-l’aggiunta del co. 1 bis all’art. 474 c.p.p. (“Assistenza dell’imputato all’udienza”) che meglio disciplina il diritto alla partecipazione “da libero” dell’imputato all’udienza, anche se detenuto, mediante l’impiego delle cautele di cui al comma 1 e garantendo il diritto dell’imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l’impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili, certamente essenziale ai fini del pieno esercizio del diritto alla difesa. Si tratta di disciplina formale di prassi che normalmente sono da tempo già attuate nel corso delle udienze, conseguente comunque all’art. 5 della Direttiva che impone agli Stati membri di adottare «le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica», consentite ove «necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi».
2.d - L’art. 5 del D. Lgs. 188/2021 (Rilevazione, analisi e trasmissione dei dati statistici) prevede quanto segue:
1. Alla rilevazione, all'analisi e alla trasmissione alla Commissione europea dei dati di cui all'articolo 11 della direttiva provvede il Ministero della giustizia.
2. Ai fini di cui al comma 1, sono oggetto di rilevazione, tra gli altri, i dati relativi al numero e all'esito dei procedimenti anche disciplinari connessi alla violazione degli articoli 2, 3 e 4 del presente decreto e dei procedimenti sospesi per irreperibilità dell'imputato ovvero nei confronti di imputati latitanti, nonchè dei procedimenti per rescissione del giudicato ai sensi dell'articolo 629-bis del codice di procedura penale.
Non vi è qui necessità di particolari commenti, salvo ricordare che, ai sensi dell’art. 11 della Direttiva, la trasmissione di tali dati dovrà avvenire ogni tre anni.
3. Gli altri protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia
Si è già detto che protagonisti necessari della comunicazione relativa alla giustizia non sono solo i magistrati ma anche la polizia giudiziaria (di cui si è già parlato), gli avvocati, i politici ed i giornalisti.
Avviandomi alla conclusione di questo intervento, qualche osservazione in merito è necessaria anche per porre in evidenza il fatto che sarebbero utili interventi legislativi ulteriori o una severa applicazione dei codici etici o deontologici delle citate categorie professionali, così come dei partiti politici che ne dispongono.
La Ministra Cartabia, nel ricordare la spinta al Governo frutto della Direttiva Europea 2016/343 che sin qui non era stata attuata, ha dichiarato[6] che “oggi è cambiato il contesto: il solo fatto di una notizia di indagini…se viene immediatamente proposto sulla stampa come se si fosse già individuato l’esito di quel processo, può pregiudicare nei fatti quel principio che noi vogliamo garantire, cioè il fatto che la persona non è considerata colpevole fino alla fine della sentenza di condanna. Se posto male dal punto di vista mediatico, il processo può arrecare un danno alla reputazione...alla vita di una persona… Questo non vuol dire che non serve parlare delle indagini, ma bisogna farlo con delle nuove garanzie per preservare questo che è un caposaldo del rapporto tra il cittadino e il potere giudiziario...occorre un equilibrio diverso”.
Parole certo condivisibili, che ad avviso di chi scrive devono però intendersi riferibili alle molteplici strumentalizzazioni delle nuove modalità di comunicazione sulla giustizia addebitabili a larghi settori del mondo forense, del ceto politico e dello stesso giornalismo.
3.a. Avvocati e informazione
Ricordo quando Virginio Rognoni, da ex vice presidente del CSM, ebbe a definire virtuoso il protagonismo dei magistrati e degli avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità.
Ma, così come è stato sin qui fatto per le criticità comunicative dei magistrati, non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano.
Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati – diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato. Senonchè, come ha scritto Luigi Ferrarella[7], “su questo piano nessuno si salva, perché nel processo mediatico vince comunque il più scorretto, a prescindere dal lavoro che fa. Vince il magistrato più ambizioso o più vanitoso, come viene lamentato spesso; ma vince anche l'avvocato più aggressivo e scorretto; vince l’imputato (se mi si concede l’errore) più "eccellente", vince il poliziotto-carabiniere-finanziere meglio introdotto nel circuito mediatico ai fini della sua progressione in carriera o della sua logica di cordata interna; e vince il giornalista più spregiudicato. Con un risultato micidiale anche sul modo in cui in una collettività democratica viene amministrata la giustizia”.
Ed a ciò deve anche aggiungersi che il consenso popolare viene televisivamente ricercato da qualche avvocato anche quale mezzo per favorire la espansione della propria clientela
Inesistente, o comunque rara, è peraltro qualsiasi forma di autocritica della categoria anche rispetto a quegli avvocati che, subito dopo la pronuncia di una sentenza di condanna dei loro assistiti, anziché formulare, come è ben possibile, legittime critiche in modo pacato ed eticamente consentito, si lasciano andare a commenti delegittimanti nei confronti dei giudici che hanno emesso la sentenza e dei Pm che hanno condotto le indagini.
Senza questo tipo di atteggiamenti i talk-show non avrebbero seguito e le telecamere non avrebbero ragione di popolare le aule di giustizia, ma il prestigio e dignità della classe forense ne trarrebbero vantaggio.
3.b I politici che strumentalizzano l’informazione sulla giustizia
Non intendo qui far riferimento alle conosciute modalità di reazione a processi, condanne e assoluzioni da parte di politici a vario titolo incriminati. Il tema mi interessa poco anche perché è ovviamente prevedibile che un imputato, a qualsiasi categoria appartenente, ben difficilmente potrà essere riconoscente nei confronti di quanti lo hanno incriminato e condannato.
Mi interessa invece qualche breve cenno al comportamento di quei politici, con incarichi governativi o meno, che sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto: come si dirà appresso, si moltiplicano giornalisti inclini non tanto all’approfondimento della notizia dai politici propalata con insopportabile retorica, ma a determinarne comunque il massimo clamore .
Basti pensare a come, per mero scopo di supporto populista alle proprie scelte e posizioni, esponenti di rilievo di vari Governi hanno presentato ai cittadini i famosi “pacchetti sicurezza” del 2008 e del 2009, o i “decreti sicurezza” del 2018 e 2019, o a come sono stati diffusi infondati allarmi sui rischi derivanti per l’Italia dal terrorismo internazionale (notizie riguardanti inesistenti scuole di kamikaze; inesistenti progetti di attentati a seggi elettorali, alla cattedrale di Bologna, alle stazioni metropolitane; o, ancora, la massiccia presenza dell’IS a Roma, i numeri esagerati di foreign fighters espulsi, la balla del marocchino arrestato in provincia di Milano – e poi scarcerato dai Giudici - perché complice dell’attentato al Bardo di Tunisi), così come va ricordata la propalazione di pulsioni xenofobe nei confronti degli immigrati, in particolare di quanti arrivano in Italia sui barconi, tra i quali si dice – contrariamente al vero – vi sarebbero terroristi ed aspiranti kamikaze .
Insomma, negli esempi fatti, la notizia che dovrebbe informare correttamente serve in realtà ad enfatizzare il problema sicurezza, così da allarmare i cittadini ed insieme rassicurarli grazie a continui riferimenti alla capacità di chi governa di saperli tutelare attraverso apparati di intelligence e leggi sapienti. Zygmunt Bauman ci aveva già avvertito in odine al senso di questa strategia politica che serve a far passare in second’ordine – rispetto all’abusato tema della sicurezza - problemi sociali ed economici, doveri costituzionali ed incapacità di guida politica del paese. E per tutto questo, ora, basta un tweet o un sms di 160 caratteri: forse lo stesso Bauman non l’aveva immaginato!
E la stessa strategia è utilizzata nel periodo che stiamo vivendo per ogni procedimento che vede indagato o imputato un politico o un suo parente o persone a lui vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge !
3.c . I giornalisti che producono l’informazione sulla giustizia
I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria, la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili.
Cito un altro episodio personalmente vissuto circa trent’anni fa allorchè effettuai un lungo viaggio di studio negli Stati Uniti, trovandomi a discutere, a Chicago, con il locale Prosecutor federale, in ordine al livello di indipendenza possibile dei Procuratori designati dal Presidente degli Stati Uniti (nel sistema di giustizia federale) o eletti (nel sistema di giustizia statale). Gli chiedevo se i pubblici ministeri non fossero condizionati dalla fonte politica della loro nomina. La risposta fu “Caro collega, qui c’è la stampa!”. Non disse “..la stampa libera”. Alludeva al famoso ruolo di cane da guardia del giornalismo d’inchiesta, forse troppo citato, ma che, come è noto, ha consentito – negli Stati Uniti – di far venire alla luce scandali di portata storica.
Il giornalismo d’inchiesta, in sostanza, negli Stati Uniti e dovunque, grazie ad approfondimenti seri, documentati e soprattutto liberi, dovrebbe ricercare la verità dei fatti, come spetta al PM nelle sue indagini giudiziarie: Julian Assange e Wikileaks ne sono un altro esempio, pure nella bufera che stanno vivendo da anni.
E’ così anche in Italia? Purtroppo non è sempre così. Ho prima citato, a proposito dei politici, i vizi originati della moderna informazione, in modo particolare di quella ormai dominante (o quasi) sul web, che impone assoluta rapidità di diffusione delle notizie. Ma se ciò avviene senza approfondimenti e senza le dovute precisazioni, non è affatto una buona informazione, specie ove si pensi che, nei frequenti casi di diffusione via web di informazioni imprecise e superficiali, è molto difficile che l’indomani, i quotidiani titolari del siti web possano correggere ed ammettere l’errore.
Si sono però diffuse altre modalità poco corrette di interlocuzione ed informazione nel settore della giustizia (al quale mi limito): una parola di saluto e commento informale di un magistrato diventa intervista mai rilasciata o autorizzata, titoli in rilievo e virgolettati lasciano pensare a contenuti degli articoli ad essi conformi ed a dichiarazioni rilasciate da persona intervistata, mentre quasi mai quelle parole sono state pronunciate da alcuno e spesso i contenuti degli articoli ne smentiscono i titoli.
Parlandone con qualche autorevole giornalista amico, mi è stato risposto che quella è ormai la moderna tecnica utilizzata dai giornali per attirare l’attenzione del lettore.
E c’è molto altro: presenza di telecamere non autorizzate nei palazzi di giustizia, i cui utilizzatori sono pronti a riprendere persone che si recano negli uffici dei magistrati per essere esaminati o interrogati, con conseguente violazione della privacy; giornalisti che pretendono di dar vita a rapporti confidenziali con i magistrati per avere accesso prioritario a notizie riservate o che nelle interviste pongono domande dai toni e contenuti provocatori per generare imbarazzo negli intervistati e perché ne resti traccia nei servizi televisivi; articoli che tendono ad assecondare le peggiori pulsioni populiste dei lettori etc. . A tal proposito ricordo quando, da Procuratore Aggiunto a Milano, ebbi a ricevere nel mio ufficio un giovane giornalista che, presentandosi come nuovo addetto della sua importante testata alle cronache giudiziarie milanesi, mi rassicurò sul fatto che avrebbe mantenuto segreta la fonte di ogni notizia riservata che gli avrei passato. Mentre lo sbattevo fuori dall’ufficio, pensai che qualcuno doveva avergli detto che così si fa con i magistrati e che i magistrati lo accettano e magari lo gradiscono. E non è difficile ipotizzare che, purtroppo, ciò possa effettivamente avvenire fino a determinare l’ “abbandono” di uno dei più importanti obiettivi che le corrette modalità di comunicazione impongono, cioè quello della massima spersonalizzazione delle notizie : ciò significa, ad es., che si può ben dare informazione – nei limiti sin qui precisati – circa un’indagine di pubblico interesse, ma questa deve essere attribuita all’Ufficio e non al singolo pubblico ministero che l’ha condotta.
Sono questi i principali vizi del giornalismo moderno che si occupa della giustizia, fermo restando che non intendo spendere una sola parola sui professionisti disonesti. Ce ne sono infatti anche tra magistrati, avvocati e politici e non vi è necessità di alcun commento in proposito. Onore, invece, ai tanti giornalisti che fanno il loro dovere con assoluta professionalità e correttezza, senza sconti per alcuno. Ed onore a coloro che, in ogni parte del mondo, sono morti o sono stati perseguitati nell’adempimento del loro dovere.
Il mio sogno è di vedere il nostro mondo della giustizia popolato da giornalisti “factcheckers” che, anziché cercare documenti in modo scorretto, provvedano ad eventualmente richiederli con formali istanze. A tal proposito, mi permetto di citare ancora una volta disposizioni e prassi esistenti presso la Procura di Torino (ma anche presso altre Procure come quella di Napoli), ove, in base a direttive specifiche, anche giornalisti ed altre persone interessate possono proporre istanza ai sensi dell’art. 116 c.p.p.[8] di accesso agli atti e di eventuale rilascio di copie, illustrando il loro interesse e la relativa rilevanza.
Meglio ancora sarebbe, come da anni proposto da Luigi Ferrarella, disciplinare legislativamente il loro accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti.
Lo stesso giornalista, noto per la qualità delle sue osservazioni, ha posto in evidenza[9] quelle che a suo parere sono le criticità del D. lgs. N. 188/2021, che potrebbe amplificare il “mercato nero della notizia…propellente del processo mediatico”. Nel ricordare che le nuove norme non intervengono sul lavoro del giornalista (come sarebbe stato meglio: ndr) e che i guasti nel sistema di informazione sulla giustizia sono dovuti alle scomposte vanterie di magistrati e forze dell’ordine, si dichiara contrario alla stretta delle conferenze stampa che consentirebbe al giornalista scrupoloso di verificare una notizia non più coperta dal segreto di Stato. I giornalisti, conseguentemente, saranno spinti a coltivare nell’ombra rapporti per forza di cose opachi con le varie fonti negate, magari interessate a fornire solo frammenti di notizie. Ferrarella, inoltre, denuncia il rischio insito nel riconoscimento della competenza unicamente in capo ai dirigenti delle Procure della valutazione di cosa sia o non sia di “interesse pubblico” (con la prevedibile accusa di fare politica attraverso tali scelte), compito che invece – alla luce della giurisprudenza della Corte Edu – spetterebbe proprio ai giornalisti.
Certamente osservazioni come queste, specie se provenienti da una fonte così autorevole, devono far riflettere, ma è mia opinione che esse riguardino possibili criticità nell’applicazione delle norme sin qui citate, piuttosto che aspetti negativi dei loro contenuti. Vi è sempre il rischio che una qualsiasi legge non venga rispettata o venga applicata strumentalmente rispetto ad interessi ed obiettivi personali.
In realtà è giusto che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo? Ma se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo ed il diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i responsabili dei reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili e – come è sperabile – con possibilità di accesso legale a quelle documentali.
4. La necessità di una riflessione comune su informazione e giustizia tra magistrati, avvocati e giornalisti.
Sono da tempo intervenuti codici deontologici per magistrati, avvocati e giornalisti, cioè per tre delle principali categorie protagoniste del rapporto tra comunicazione e giustizia: tali codici sono sempre più mirati a disciplinare diritti e doveri connessi all’esercizio delle rispettive citate funzioni, ma i vizi sin qui esposti – ed altri ancora - permangono ed anzi rischiano di amplificarsi.
Non occorre – allora – invocare nuove regole deontologiche e sanzioni, quanto applicare quelle esistenti e comunque dar luogo ad un confronto diffuso, serrato e sincero tra le categorie interessate a dar luogo a prassi corrette d’informazione. Rammento, ad esempio, i vari incontri organizzati a Torino negli ultimi anni con giornalisti ed un’assemblea anche con gli avvocati per discutere dell’irrinunciabile importanza della informazione sulla giustizia e dei connessi diritti – doveri, di cui, però, vanno anche conosciuti i confini, diversi a seconda delle fasi del processo e comunque giustamente condizionati dal rispetto delle regole poste a tutela della privacy delle persone e della presunzione di innocenza di indagati e imputati.
L’auspicio è che tutti i magistrati, qualunque sia la funzione da loro svolta (ma in particolare i pubblici ministeri, categoria cui chi scrive ha appartenuto per tutta la sua carriera), siano ben consapevoli che la propria autorevolezza e credibilità non dipendono dallo spazio e dal rilievo eventualmente riservati dalla informazione alla loro attività professionale, ai loro volti ed ai loro nomi, ma dai risultati attestati nelle sentenze definitive. E’ anche questo che dà corpo alla fiducia nella Giustizia.
Il magistrato, dunque, sia protagonista virtuoso di corretta comunicazione e di ogni utile interlocuzione nel dibattito sui temi della giustizia! Ma sia capace di esserlo con misura, anche in questo difficile contesto storico in cui qualsiasi intervento tecnico, persino in ordine ad un disegno di legge che concerna il tema di diritti fondamentali, genera in automatico sempre la stessa risposta: “il magistrato taccia o scenda in politica”, come se a tale tipo di interlocuzione fossero abilitati solo i politici ! Deve essere ben chiaro, allora, che dipenderà soprattutto dai magistrati stessi se i cittadini comprenderanno quali sono le ragioni per cui nessuno può farli tacere e quali i limiti del loro diritto-dovere di informare.
Ben venga, a tal fine, il Decreto Legislativo 8 novembre 2021, n. 188 !
5. Cenni sull’allegato riguardante i criteri direttivi della Procura di Torino dell’8 ottobre 2018 che hanno anticipato varie disposizioni del D.Lgs. n. 188/221.
Le osservazioni fin qui formulate non devono essere considerate meramente discorsive e volte a stimolare solo dibattito teorico e dialettica sul tema in intestazione. Chi scrive, infatti, ritiene che, unitamente agli spunti tratti dal D. Lgs. N. 188/2021, esse possano costituire la base di precise direttive nella formulazione di circolari e criteri organizzativi degli Uffici Giudiziari di competenza dei rispettivi dirigenti (in particolare dei Procuratori della Repubblica presso i Tribunali).
Per tale ragione, nella consapevolezza della delicatezza della materia e solo per contribuire a possibili ulteriori riflessioni, lo scrivente ritiene utile allegare al presente intervento le parti dei Criteri di organizzazione della Procura della Repubblica di Torino (che ha varato l’8 ottobre 2018 e che, composto da 242 pagine e 25 allegati, è consultabile sulla homepage del sito web dell’ufficio: www.procura.torino.it) concernenti le direttive in tema di rapporti dei magistrati e della polizia giudiziaria con gli organi di informazione.
All’evidenza, tali direttive, che si pongono in linea con quanto previsto dalla citata delibera del CSM dell’11 luglio 2018 che prevede che il Procuratore della Repubblica “..assicura l’informazione sull’organizzazione e sull’attività della procura nel quadro della generale esigenza di trasparenza dell’organizzazione giudiziaria.”, hanno anticipato di vari anni molte delle condivisibili previsioni del Decreto Legislativo n. 188/2021 .
Si rimanda, dunque, alle pagine allegate.
[1] Il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 284 del 29 novembre 2021 (Suppl. Ordinario n. 40) con l'indicazione della vigenza dal 14 dicembre 2021
[2] Questo intervento contiene richiami e riferimenti a valutazioni già formulate dall’autore in occasione di Incontri di studio ed aggiornamento professionale organizzati dalla SSM del CSM (da ultimo in quello del 19 gennaio 2021 su “Il dovere di riservatezza nell’attività giudiziaria”), nonché contenuti in articoli pubblicati in Riviste giuridiche, tra cui si richiama, in particolare, quello intitolato “Comunicazione della giustizia sulla giustizia. Come non si comunica”, pubblicato su Questione Giustizia n. 4/2018.
[3] Documento di presentazione di un Corso di studi tenutosi nel giugno 2017 presso la Scuola Superiore della Magistratura di Scandicci
[4] Efficace definizione di Luigi Ferrarella in “Processo vero o mediatico? Le insidie delle nuove norme” (Corriere della Sera, 27 novembre 2021).
[5] Citata delibera del CSM dell’11 luglio 2028
[6] Intervista a Il Foglio del 3 dicembre 2021
[7] L. Ferrarella : “Proposta minoritaria di ecologia giornalistica” (2007)
[8] Per le parti che qui interessano si ricorda che l’art. 116 c.p.p. (Copie, estratti e certificati) prevede che:
1. Durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti.
2. Sulla richiesta provvede il pubblico ministero o il giudice che procede al momento della presentazione della domanda ovvero, dopo la definizione del procedimento, il presidente del collegio o il giudice che ha emesso il provvedimento di archiviazione o la sentenza.
3. Il rilascio non fa venire meno il divieto di pubblicazione stabilito dall’articolo 114.
3-bis. ..omissis..
[9] “Processo vero o mediatico? Le insidie delle nuove norme” (Corriere della Sera, 27 novembre 2021)
La Riforma prossima ventura del giudizio di legittimità - note a lettura immediata sulla legge 206/21.
di Franco De Stefano*
Sommario: 1. Premessa e delimitazione del campo d’indagine. - 2. Gli interventi di recepimento di prassi interpretative. - 3. L’ampliamento dei provvedimenti ricorribili per cassazione. - 4. Gli interventi sulla struttura del giudizio di legittimità. - 4.1. Nuovi contenuti del ricorso per cassazione. - 4.2. L’uniformazione del rito camerale. - 4.3. L’ordinanza camerale contestuale. - 4.4. Il procedimento accelerato monocratico. - 4.5. Il rinvio pregiudiziale. - 5. Gli interventi di impatto organizzativo generale. - 5.1. La sistematizzazione del processo telematico. - 5.2. L’Ufficio per il Processo in Cassazione e Procura Generale. - 6. Brevi spunti conclusivi.
1. Premessa e delimitazione del campo d’indagine.
Pubblicata il 9 dicembre ed in vigore dalla prossima Vigilia di Natale del 2021, la Riforma del processo civile indotta dal PNRR è per la maggior parte un’ampia legge di delegazione ai sensi dell’art. 77 Cost., ma non manca (ai commi da 27 a 36 dell’unitario articolo su cui è strutturata) di contenere alcune norme immediatamente applicabili, sia pure con differimento della relativa applicabilità al centottantesimo giorno successivo a quello dell’entrata in vigore della legge (art. 1, co. 37) e, quindi, al 22 giugno 2022.
L’obiettivo della legge è “il riassetto formale e sostanziale del processo civile, mediante novelle al codice di procedura civile e alle leggi processuali speciali, in funzione di obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile, nel rispetto della garanzia del contraddittorio” e degli specifici ulteriori principi e criteri direttivi analiticamente enunciati nell’unitario successivo articolo.
Per quanto riguarda il giudizio di legittimità, occorre fare riferimento principalmente al comma 9, ma alcune altre norme significative, sebbene su profili marginali, si trovano anche altrove.
I risultati eccellenti del 2021 (a tutto il 10 dicembre 2021, l’inedito assoluto primato di complessivi 39.398 provvedimenti pubblicati, dei quali: 3.962 decreti, 1.531 ordinanze interlocutorie, 30.926 ordinanze e 2.979 sentenze, secondo i dati ricavabili da Italgiure) non devono indurre alla conclusione che questi ritmi di lavoro siano ottimali o anche soltanto sostenibili: la qualità del giudizio di legittimità e del suo prodotto è invece inconciliabile con la quantità abnorme di provvedimenti continuamente sollecitati alla Corte suprema.
Occorre invece insistere sull’idea (sulla quale ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Giudice e precedente: per una nomofilachia sostenibile, in questa Rivista dal 3 marzo 2021) che una moderna Corte di cassazione non può e non deve inseguire livelli di “produttività” (ammesso che tale terminologia si confaccia al giudizio ed al processo e soprattutto a quello di legittimità) incompatibili con l’effettività della tutela del diritto, inteso sia in senso oggettivo che soggettivo; ipotizzare un indefinito incremento dell’offerta di giustizia è una fallimentare illusione, occorrendo piuttosto tentare di incidere sul contenimento della domanda di giustizia, soprattutto di legittimità, mediante risposte tempestive e coerenti, idonee ad offrire una almeno tendenziale certezza nelle soluzioni e così non solo scoraggiare gli eccessi nel ricorso al giudice, ma anche e soprattutto circoscrivere la necessità di tale ricorso, offrendo affidamento su di una efficace ed efficiente tutela dei diritti, a cominciare da quelli fondamentali.
Se il disegno complessivo della Riforma del 2022, come già si può ellitticamente definire, nutre chiaramente un’ambizione verso questo obiettivo, per il giudizio di legittimità gli effetti degli interventi non appaiono però univoci: nel complesso, essi sono chiaramente mirati a conseguire una maggiore speditezza anche del giudizio di legittimità, ma non ne mancano altri che, evidentemente in funzione di una prevalente razionalizzazione dell’intero processo civile, di quello invece comportano un potenziale aggravio; al contempo, alcuni interventi strutturali, cioè non direttamente incidenti sul giudizio, potranno rivelarsi forieri di positivi effetti di sistema.
In occasione di queste sommarie note a lettura immediata, quindi, esclusivamente per comodità di disamina gli interventi oggetto di analitica previsione possono così raggrupparsi:
A)in quelli di sostanziale mero recepimento di prassi interpretative già invalse: l’estensione del rito camerale all’improcedibilità; la regolamentazione dei casi di trattazione in udienza pubblica e delle facoltà delle parti;
B)in quelli sull’ambito del giudizio di legittimità: la revisione della disciplina degli artt. 348-bis e 348-ter cpc; l’introduzione della specifica nuova fattispecie di revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; la previsione del ricorso in cassazione contro i provvedimenti delle corti d’appello in materia di esecutività di decisione straniera in relazione ad alcuni regolamenti unionali o di riconoscimento ed esecuzione previsti da altri regolamenti, oppure per analoghe ipotesi disciplinate da convenzioni internazionali; la ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti anche provvisori del neoistituito Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie;
C)in quelli sulla struttura stessa del giudizio di legittimità: una nuova disciplina sul contenuto del ricorso per cassazione; l’uniformazione dei riti camerali, con soppressione della Sesta Sezione civile e del relativo rito; introduzione dell’ordinanza camerale immediatamente depositata; introduzione di un procedimento accelerato monocratico; introduzione del rinvio pregiudiziale da parte del giudice del merito;
D)in quelli di impatto organizzativo sulle attività ad esso serventi: l’ampia digitalizzazione del processo e dell’accesso al giudice imposta in tutti gli uffici giudiziari; l’istituzione anche in Cassazione e Procura Generale dell’Ufficio per il processo, con analitica menzione delle relative funzioni.
Nessuna di queste modifiche è di immediata applicazione; ad ognuna, peraltro, si dedica qualche riflessione eminentemente pratica od operativa, nell’auspicio che, se non altro nel periodo di vigenza della delegazione, possa costituire un contributo per l’elaborazione dell’impegnativo testo normativo delegato che ci si attende.
A tutte le notazioni una preliminare considerazione: la stessa legge delega consente [art. 1, co. 22] di curare il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme del codice di procedura civile, del codice civile e delle norme contenute in leggi speciali non direttamente investite dai principi e criteri direttivi di delega, comprese le disposizioni del testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici, di cui al regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, in modo da renderle ad essi conformi, operando le necessarie abrogazioni e adottando le opportune disposizioni transitorie; il primo auspicio è che si limitino, per quanto possibile, quindi le interpolazioni di norme preesistenti con numerazioni complesse e sovente perfino di ardua percorribilità, provvedendosi se del caso ad una riedizione dell’articolato, non dissimile a quella che nel 1973 il legislatore adottò per il rito del lavoro, fino ad un nuovo ed agile testo consolidato aggiornato e moderno (a cui gli interpreti ben potranno riferirsi con “n.t.” o simili ed equivalenti espressioni), a similitudine anche dei testi normativi sovranazionali e delle relative rifusioni.
Per brevità si tralascia poi una specifica menzione di alcuni altri interventi in materia processuale, ma con immediata possibilità di ricaduta anche sul giudizio di legittimità, quale la disciplina sulle impugnazioni in generale (con equiparazione della notifica di un’impugnazione alla decorrenza del termine breve per proporne altra ed estensione dell’inefficacia dell’impugnazione incidentale tardiva in caso di improcedibilità di quella principale), quella sulla responsabilità aggravata (con previsione di sanzioni a favore della Cassa delle ammende, identificata l’Amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato), quella sulla correzione di errore materiale (con previsione di trattazione anche solo scritta e di estensione del procedimento ai casi di attribuzione, sia pure entro un anno dal provvedimento), quella sulla limitazione della rilevabilità del difetto di giurisdizione (in recepimento delle soluzioni della giurisprudenza delle Sezioni Unite sul punto consolidate) e così via.
2. Gli interventi di recepimento di prassi interpretative.
Si tratta di alcune previsioni che, in concreto, adeguano il tenore testuale delle norme processuali a prassi interpretative assolutamente invalse e pacifiche nella giurisprudenza di legittimità: l’estensione esplicita del rito camerale alle ipotesi di improcedibilità (Cass., Sez. 6 – 3, 18/10/2011, n. 21563) e la facoltà, anche per il Pubblico Ministero, di depositare memorie in vista della pubblica udienza (con un termine di quindici giorni, anticipato rispetto a quello analogo per le parti); rispettivamente previste al comma 9 dell’art. 1 della legge in esame, alle lettere c) ed f).
Quanto alla prima, la previsione può dirsi anzi pleonastica, visto che già ora l’ultimo comma dell’art. 375 c.p.c., come sostituito dal d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. con modif. dalla l. 25 ottobre 2016, n. 197, riserva al rito camerale anche “ogni altro caso”, diverso da quelli analiticamente indicati in precedenza: e, quindi, con ogni evidenza anche quello dell’improcedibilità. Potrebbe rivelarsi opportuna una formulazione che ribadisca l’ordinaria cameralità della pronuncia di improcedibilità dinanzi a ognuna delle sezioni, semplici o unite, della Corte, con la consueta salvezza dei casi in cui la questione rivesta particolare rilevanza.
La seconda si caratterizza per il mantenimento della previsione della pubblica udienza ai casi di particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta dal ricorso e, dall’altro, per l’ampliamento a quaranta giorni del termine dilatorio tra la fissazione dell’udienza e la data di questa. Se può convenirsi sull’opportunità dell’uniformazione del termine dilatorio tra avviso ed adunanza e pubblica udienza, deve però rilevarsi l’ingiustificabilità e l’incongruità della persistente diversificazione dei termini a ritroso per le sole attività ancora consentite alle parti nei relativi riti ed in quello dei regolamenti di giurisdizione e competenza.
Resta quindi intatto il problema, di obiettiva grande rilevanza pratica, dell’identificazione dei presupposti della scelta tra i due riti, quello camerale e quello in pubblica udienza: scelta che rimane rimessa alla discrezionalità pressoché totale del Presidente titolare della sezione (o, se del caso, del singolo Presidente del Collegio, su sua delega anche solo implicita), ma che effettivamente dovrebbe risultare sostanzialmente neutra e quindi irrilevante – o inidonea ad incidere negativamente – rispetto alle garanzie di piena estrinsecazione delle difese consentite dall’assoluta peculiarità del giudizio in Cassazione, dinanzi alla sempre maggiore uniformazione dei relativi snodi procedimentali.
3. L’ampliamento dei provvedimenti ricorribili per cassazione.
Con una serie di norme non inserite, come del resto è intuitivo che sia, nel comma 9 dell’art. 1, specificamente dedicato al giudizio di legittimità, si introducono innovazioni ad altri istituti in relazione alla ricorribilità per cassazione.
Sono, in primo luogo, modificati gli artt. 348-bis e 348-ter cpc [art. 1, co. 8, lett. e)]: ciò da cui dovrebbe derivare l’abolizione del ricorso c.d. per saltum contro la sentenza di primo grado l’appello avverso la quale sia dichiarato inammissibile per insussistenza di ragionevole probabilità di accoglimento, visto che tale evenienza dovrebbe condurre all’adozione di una sentenza, benché succintamente motivata, quindi ordinariamente ricorribile ex se.
È introdotta una nuova fattispecie di revocazione a seguito di sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo [art. 1, co. 10]: la quale dovrebbe sì – e beninteso – riguardare la sentenza di merito di cui quella della Corte di cassazione determini il passaggio in giudicato, ma anche quella che sia pronunciata dalla Corte di cassazione con decisione nel merito, a tutela dei diritti delle parti da questa coinvolti ed a riprova della delicatezza eccezionale della fattispecie, da ritenersi – se non residuale, almeno – riservata a casi di certa esclusione di valido alternativo sviluppo nell’eventuale giudizio di rinvio.
Benché non risultino affetti da una frequenza statistica considerevole, è introdotta espressamente la previsione della ricorribilità per cassazione [art. 1, co. 14, lett. g)] dei provvedimenti delle corti d’appello in materia di:
- esecutività di decisione straniera in relazione ad alcuni regolamenti unionali: il Reg. (CE) n. 2201/2003, il Reg. (CE) n. 4/2009, il Reg. (UE) 2016/1103, il Reg. (UE) 2016/1104, il Reg. (UE) n. 650/2012];
- riconoscimento ed esecuzione previsti da altri regolamenti: il Reg. (UE) n. 1215/2012, il Reg. (UE) 2015/848, il Reg. (UE) 2019/1111];
- analoghe ipotesi disciplinate da convenzioni internazionali [art. 1, co. 14, lett. h)];
Infine, con un impatto potenzialmente notevole per la frequenza prevedibile, si introduce la generalizzata ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti anche provvisori del neoistituito Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie [art. 1, co. 24, lett. p)]: riguardo ai quali molto dipenderà dalla concreta ampiezza che sarà disegnata dai relativi decreti delegati e si giocherà in gran parte l’effettività della tutela dei relativi diritti.
4. Gli interventi sulla struttura del giudizio di legittimità.
Si tratta di una serie di interventi in astratto idonei ad incidere sia sulla domanda che sull’offerta di giustizia di legittimità, ma l’intensità del cui impatto varia sensibilmente già in sede di identificazione dei relativi presupposti nella legge di delegazione.
4.1. Nuovi contenuti del ricorso per cassazione.
La lett. a) del co. 9 dell’art. 1 della legge in esame prevede che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione: in sostanza, rispetto all’attuale tenore testuale dei nn. 2 e 3 dell’art. 366 c.p.c., si aggiunge la necessità di chiarezza e sinteticità.
L’innovazione corre il rischio di risultare formale ed ineffettiva, per il carattere indistinto e sfuggente delle nozioni introdotte, del resto significativamente oggetto di pluridecennale dibattito nella dottrina processualcivilistica e di elaborazione non sempre univoca nella stessa giurisprudenza di legittimità.
Non si è scelto di affidarsi né agli approdi del c.d. Protocollo del 2015 tra la Corte di cassazione ed il CNF in merito alle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria, né alle conclusioni della “Commissione Luiso” (https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/commissione_LUISO_relazione_finale_24mag21.pdf), di sostanziale estensione al processo civile delle scelte già operate per il processo amministrativo (“le parti redigano il ricorso, il controricorso e gli atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del primo presidente della Corte di cassazione, sentiti il procuratore generale della Corte di cassazione, il Consiglio nazionale forense e l’avvocato generale dello Stato”).
Se è vero che, come si accennerà più oltre, l’art. 1, co. 17, lett. d), prevede l’introduzione negli atti del processo di campi necessari all’inserimento di informazioni nei registri del processo “nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense”; e se è vero che, di conseguenza, mediante l’espressa previsione di tali “campi strutturati”, sarà possibile rendere obbligatorio l’inserimento delle informazioni già previste in sede di analisi ed attuazione degli schemi informatici degli atti di parte in cassazione; tuttavia, si tratterà di informazioni o dati indispensabili e non già di previsioni cogenti sulla formulazione strutturale nel suo assetto complessivo. Perciò, si potrà certamente stabilire cosa non deve mancare nel ricorso o al massimo imporre perfino una standardizzazione nella redazione dei campi obbligatori, ma non anche stabilire come esso debba essere strutturato. Probabilmente, anche in questo caso avvalendocisi dell’esperienza delle Corti sovranazionali, potrebbe però puntarsi a disciplinare analiticamente il contenuto minimo del ricorso, da imporsi a pena di inammissibilità, affinché esso sia in grado di offrire ogni dato utile per la decisione – non ultimo un “abstract” o sintesi di ciascun motivo, con indicazione delle norme violate e soprattutto con un numero massimo di caratteri per ognuno – ed in questo caso introducendo stringenti limiti quantitativi e qualitativi, riservando allo sviluppo meramente eventuale – una più diffusa “relazione” ad esso allegata o con essa facente corpo – ogni elucubrazione ulteriore.
In mancanza di scelte decise in tal senso deve temersi la riproposizione di accese diatribe interpretative sui caratteri della chiarezza e della sinteticità: dibattito al quale non offre sostanziali chiavi di lettura neppure la recente presa di posizione della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nella celebre sentenza Succi c/ Italia del 28 ottobre 2021, la quale ha, da un lato, ammesso la piena legittimità del più formalistico dei criteri di valutazione dei requisiti di contenuto-forma del ricorso, cioè del principio di autosufficienza, ma, dall’altro, precluso un’interpretazione troppo formalistica.
4.2. L’uniformazione del rito camerale.
Dal “triplo binario” del 2016 la Riforma del 2022 vira decisamente ad un rito a doppio binario nel giudizio di legittimità, attraverso la soppressione della Sesta Sezione civile, nata dalla felice esperienza dei primi anni del millennio della c.d. Struttura centralizzata istituita dalla Prima Presidenza per lo spoglio preliminare dei ricorsi destinati ad una più celere definizione.
L’intuizione fu particolarmente felice in relazione ai tempi e ai contesti, perché consentiva di individuare con relativa immediatezza, all’esito di uno spoglio mirato a questo fine e concentrato in capo a Consiglieri e Presidenti di sezione specificamente destinati e quindi specializzati, quella parte della pendenza della Corte suscettibile di essere definita con rapidità e con forme agili e snelle. La stessa Sesta Sezione, nell’originaria versione dell’ipotesi di soluzione articolata su di una ampia relazione e in quella successiva fondata sulla ben più snella proposta secca (o, secondo altro strumento di soft law, sommariamente motivata) del relatore, ha visto del resto una progressiva evoluzione della sua impostazione, fino a divenire, anche a causa del crescente incremento della pendenza, una duplicazione dell’attività camerale della sezione ordinaria e, quindi, ad implicare un dispendio di risorse ormai non più compensato dai vantaggi della maggiore “produttività” consentita dalla relativa semplicità delle questioni da affrontare.
Divenuta oramai prevalente la soluzione applicativa della coassegnazione dei consiglieri alla sezione ordinaria ed alla corrispondente sottosezione della Sesta Sezione, il rito camerale di questa si è rivelato anzi in grado di complicare e rendere più gravoso il processo proprio nei casi in cui quello avrebbe potuto essere più semplice, siccome riservato ai casi di inammissibilità e manifesta fondatezza o infondatezza (cui, come si è detto, si è aggiunta in via pretoria l’improcedibilità): e per di più senza che la previa relazione prima (che anzi non infrequentemente sollecitava ulteriori prese di posizione delle parti) o la previa proposta – più o meno ampia – poi abbiano causato sensibili riduzioni della pendenza attraverso più o meno spontanei abbandoni della parte per la quale si prospettava la soccombenza. A tanto si aggiunga che i passaggi tra le diverse cancellerie e spesso pure la prassi applicativa delle normative anche secondarie per la disamina da parte del singolo relatore, per quanto encomiabile sia stato l’impegno di tutti i funzionari ed i presidenti titolari e di molti dei consiglieri via via succedutisi per renderli fluidi e celeri, hanno comportato troppo spesso l’aggravio di tempi morti di diversi mesi anche soltanto prima che il ricorso potesse, non di rado all’esito di attività di spoglio singolarmente ed inutilmente replicate, essere preso in considerazione per la fissazione in adunanza camerale o pubblica udienza. Infine, c’è stata obiettiva discontinuità nella percezione, da parte dei suoi stessi interpreti, della Sesta Sezione civile come quella delle decisioni effettivamente semplici e celeri, visto che l’impostazione culturale prevalente è presto divenuta quella della legittima possibilità di rendervi provvedimenti anche assai complessi e su questioni che poi potevano obiettivamente qualificarsi di particolare rilevanza: al riguardo potendosi forse concludere che, nel suo complesso, la “scommessa” di un ripensamento profondo sul ruolo della motivazione nel giudizio di legittimità – avviata da oltre dieci anni – non è stata (ancora?) vinta.
In questo contesto, non tanto l’esigenza di aumentare il numero di provvedimenti in grado di essere resi, quanto quella di evitare appunto queste ingenti dispersioni di risorse, la soppressione della Sesta Sezione civile non può che dirsi un risultato apprezzabile e, con essa, l’eliminazione almeno di uno dei due riti camerali, singolarmente coesistenti a seguito della Riforma del 2016.
Diviene ora la regola che l’attività di spoglio prima devoluta alla Sesta Sezione civile sarà direttamente attratta, in ragione della ripartizione tabellare delle materie, a ciascuna delle sezioni, ordinarie o unite: che dovranno, unitariamente o comunque con criteri condivisi o almeno in parte comuni, attrezzarsi per procedervi con gli uffici spoglio sezionali, al fine di individuare comunque i ricorsi destinati a più celere definizione e di dedicarvi, con modalità che bene potranno essere precisate con una variazione tabellare infratriennale, le adunanze camerali della singola sezione (con la consueta eccezione della questione, anche in rito e cioè in punto di inammissibilità o improcedibilità, di particolare rilevanza, da rimettere alla pubblica udienza).
L’unicità del rito camerale si modella su quello attualmente previsto per la sezione ordinaria dall’art. 380-bis.1 c.p.c.. Rimane in vita il diverso modello per i regolamenti di giurisdizione e competenza, singolarmente esclusi dalla ventata razionalizzatrice, benché l’uniformazione del rito camerale bene potesse estendersi anche a questi ultimi, con la sola imposizione della immancabilità delle conclusioni del Pubblico Ministero.
I tratti salienti del procedimento camerale “ordinario” restano quindi non tanto la mancata partecipazione delle parti alla camera di consiglio (che era anzi comune ai due riti camerali ed aveva segnato nel 2016 la prima profonda trasformazione anche esteriore del giudizio di legittimità, con l’esclusione dal momento decisionale vero e proprio della diretta possibilità di interlocuzione delle parti con il giudice di legittimità), quanto soprattutto, rispetto all’altro rito camerale, l’assenza di una istituzionale proposta (o, in origine, relazione) del relatore, in qualche modo anticipatoria della soluzione prospettata al collegio.
A queste caratteristiche fanno quasi da contrappeso i due istituti, parzialmente innovativi, di cui subito appresso.
4.3. L’ordinanza camerale contestuale.
La lett. d) del co. 9 dell’art. 1 della legge in esame prevede, quale forma ordinaria di pronuncia dell’ordinanza in esito all’adunanza camerale (ormai unificata, secondo l’unitario rito camerale dell’attuale art. 380-bis.1 c.p.c. o del contiguo art. 380-ter c.p.c.), che, al termine della camera di consiglio, quell’ordinanza, con succinta motivazione, possa essere immediatamente depositata in cancelleria, rimanendo ferma la possibilità per il collegio di riservare la redazione e la pubblicazione della stessa entro sessanta giorni dalla deliberazione.
Si tratta di una innovazione di impatto operativo di non grande momento: se il provvedimento contestuale ha un senso in esito ad un’udienza pubblica alla quale le parti almeno avrebbero potuto presenziare per l’immediatezza del contatto del giudicante con quelle e della percezione quanto meno sommario dell’esito della decisione, molto minore significato lo ha in un procedimento camerale a cui le parti hanno esaurito ogni modalità di accesso nei dieci giorni precedenti la data della camera di consiglio e nel quale nulla impedisce al collegio di adottare già di per sé tempi di decisione, redazione e collazione del provvedimento assai stretti, se appunto non sostanzialmente contestuali alla camera di consiglio. Ancora, per la sentenza la modalità contestuale ha un senso in quanto essa fa corpo con un verbale di udienza, se con gli altri atti di causa ivi richiamati: mentre per l’ordinanza contestuale di legittimità manca istituzionalmente un verbale della camera di consiglio, le attività svolte nella quale restano riservate e documentate dalla sola sottoscrizione immediata del dispositivo. E neppure si vorrebbe che l’introduzione di una alternativa – tra il deposito contestuale e quello nei sessanta giorni successivi – possa indurre la necessità di un’esplicita indicazione della relativa opzione del collegio e comportare senza apprezzabile utilità lo sviluppo del relativo procedimento.
4.4. Il procedimento accelerato monocratico.
L’innovazione sembra l’esito dell’interazione di una sorta di ultrattività del rito camerale di Sesta Sezione (che sopravvivrebbe, subendo però una mutazione genetica soggettiva, all’estinzione dell’ambiente in cui era stato previsto) con l’influenza di ordinamenti stranieri.
Si prevede infatti che il “giudice” (con espressione davvero singolare per la Corte di cassazione, dove istituzionalmente è previsto solo un nutrito numero di Presidenti e Consiglieri), in presenza di ricorsi inammissibili o improcedibili o manifestamente infondati (quindi, resta esclusa l’ipotesi del ricorso manifestamente fondato), possa formulare una “proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni dell’inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata, da comunicare agli avvocati delle parti e tale che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato e il giudice pronunci decreto di estinzione, liquidando le spese, con esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1-quater, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.
Sembra di trovarsi dinanzi all’attuale proposta di Sesta Sezione civile, solo che in questo caso occorre:
-in primo luogo, individuare il “giudice” che, impegnando la Corte in una assolutamente inedita composizione monocratica di innovatività però preoccupante, formulerà la proposta: al riguardo, nulla vietando, a similitudine delle linee guida per il funzionamento della Sesta Sezione civile adottate nel 2016, una individuazione del titolare del potere nel Primo Presidente, con facoltà di delega ai singoli Presidenti titolari e di subdelega da questi ai singoli Consiglieri, se del caso estesa pure alla pronuncia, in mancanza di successivo riscontro della proposta di definizione, del finale provvedimento (verosimilmente nella forma del decreto, come previsto dagli artt. 390 e 391 c.p.c.); e comunque, a parziale temperamento della riscontrata monocraticità, con previsione di un visto o controfirma del delegante, a sostanziale condivisione della proposta;
-in secondo luogo, chiedersi la ragione per la quale tale “giudice” dovrebbe prescegliere di affrontare un non semplice lavoro di formulazione – che per di più nemmeno è prevista come sommaria, ma, ben più impegnativamente, come sintetica – delle ragioni a sostegno della proposta e di “discovery” della sua analisi infausta del ricorso, destinata oltretutto a sfociare in un mero decreto di estinzione con liquidazione di spese, quando la medesima articolazione motivazionale ben potrebbe giustificare un’agilissima motivazione (pure semplificata, secondo le disposizioni dei Primi Presidenti del 2011 e del 2016) di ordinanza camerale, adottata dal Collegio e con le garanzie del relativo procedimento pure in punto di contraddittorio.
Sul punto, sarà importante un’approfondita riflessione di tutti i soggetti coinvolti ed anche dell’Accademia e dell’Avvocatura, per le implicazioni potenzialmente dirompenti della monocraticizzazione del rito di legittimità che ne potrebbe derivare e le ricadute di sistema sulla ricostruzione della struttura e della funzione della Corte di cassazione.
4.5. Il rinvio pregiudiziale.
La vera, grande innovazione della Riforma del 2022, coerente con l’ambizione di restituire almeno in parte alla Corte di cassazione il ruolo nomofilattico finora sommerso e paralizzato dall’abnormità del contenzioso che si è lasciato che la investisse, potrà essere il rinvio pregiudiziale, disciplinato dalla lett. g) del co. 9 dell’art. 1 della legge in commento, certo influenzato dagli istituti più propriamente nazionali del rinvio pregiudiziale ad altro giudice o perfino, come nel caso dell’art. 420-bis c.p.c., alla stessa Corte di cassazione, ma in questo caso ispirato ai modelli di altri ordinamenti, quale quello francese, da tempo caratterizzato dalla saisine pour avis.
Quest’ultima è prevista dagli artt. 1031-1 a 1031-7 n.c.p.c. francese; artt. L. 441-1 a L. 441-4 e R. 441-1 codice dell’organizzazione giudiziaria francese; e, tra gli interpreti è corrente l’identificazione degli scopi dell’istituto in quelli di permettere l’unificazione più rapida dell’interpretazione della regola – o delle regole – di diritto di nuova introduzione e di prevenire il contenzioso, soprattutto delle impugnazioni, per l’immediata definizione della portata della legge da parte della giurisdizione di ultima istanza.
Appunto nell’ottica di offrire una tempestiva risposta nomofilattica e di deflazionare per il futuro il contenzioso potenziale, il procedimento consente l’immediato intervento della Corte di cassazione su questioni che siano: esclusivamente di diritto; nuove, non essendo state ancora da essa esaminate; di particolare importanza; con gravi difficoltà interpretative; tali da riproporsi in numerose controversie.
Si tratta di una serie di presupposti di una certa serietà e consistenza, la necessità della cui compresenza, sebbene rimessa istituzionalmente alla stessa Corte suprema adita, dovrebbe preservarla dal rischio di una indiscriminata attivazione del rimedio con conseguente esito inflattivo delle pendenze, anziché deflattivo.
Il procedimento è analiticamente disciplinato dalla norma di delegazione e vale la pena ricordarlo, attesa la sua novità: esso è iniziato con ordinanza dal “giudice di merito” (senza specificazione se ordinario o meno; ma l’ampiezza della formula dovrebbe consentire di adire la Corte di cassazione in tutti i casi in cui pure le decisioni dei giudici speciali sono controllabili in sede di legittimità, quand’anche solo per determinate questioni), che sospende il corso del giudizio davanti a sé; un primo, ma potenzialmente decisivo, vaglio di ammissibilità è rimesso al Primo Presidente, che può escluderla se ne ritiene insussistenti i presupposti (se del caso, o verosimilmente, avvalendosi dell’ufficio preparatorio per le sezioni unite civili, oppure delegando uno o più tra i presidenti di sezione, titolari o meno, a seconda della materia coinvolta); superato positivamente tale vaglio, che la norma non pare indicare suscettibile di successiva riconsiderazione da parte del collegio, lo stesso Primo Presidente assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente; la Corte di cassazione decide enunciando il principio di diritto in esito ad un procedimento ibrido, in quanto lo si prevede sì in pubblica udienza, ma con requisitoria scritta del pubblico ministero e facoltà per le parti di depositare brevi memorie entro un termine assegnato dalla Corte stessa; il provvedimento con il quale la Corte di cassazione decide sulla questione è vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e conserva tale effetto, ove il processo si estingua, anche nel nuovo processo che è instaurato con la riproposizione della medesima domanda nei confronti delle medesime parti.
Spetterà al decreto delegato la più puntuale disciplina di dettaglio, con opzione tra le previsioni già formulate per l’analogo rinvio pregiudiziale dell’art. 420-bis c.p.c. e quelle in tema di principio di diritto nell’interesse della legge su iniziativa del Pubblico Ministero; ma sarà opportuna un’adeguata considerazione delle facoltà (od anche degli eventuali oneri) delle parti a similitudine di quanto previsto per i regolamenti di competenza o di giurisdizione di ufficio. Ma spetterà alla Tabella di organizzazione della Corte, in mancanza, individuare le modalità operative di concreta trattazione di quegli affari, a cominciare dallo spoglio e dalla scelta se centralizzarlo oppure no, per proseguire con la devoluzione alle diverse sezioni, non apparendo necessario, almeno in astratto e a priori, investire sempre e comunque le Sezioni Unite, visto che i requisiti per il rinvio pregiudiziale non paiono coincidere necessariamente con quelli della rimessione ad esse e che, comunque e al di fuori di peculiari e limitati casi, altrettanto discrezionale è la scelta del Primo Presidente sulla devoluzione di un qualunque ricorso a quella particolare formazione.
5. Gli interventi di impatto organizzativo generale.
Si tratta qui di interventi che non incidono in maniera immediata sulla disciplina del rito di legittimità, ma possono avere un impatto notevole o sull’assetto generale del processo civile oppure sull’organizzazione di attività generalmente ad esso serventi: di essi dovrà qui bastare un cenno ancora più sommario, riservata ad approfondimenti settoriali ogni ulteriore riflessione.
5.1. La sistematizzazione del processo telematico.
Nell’economia del PNRR la digitalizzazione del settore giustizia rappresenta un intervento di valenza strategica per il raggiungimento dell’obiettivo di abbattimento della durata media dei processi civili. Nella legge appena approvato in via definitiva dalla Camera, al comma 17 dell’art. 1, sono previste diverse disposizioni intese allo sviluppo del cd. processo civile telematico (p.c.t.); basti qui, riservati ad altri interventi ogni opportuno approfondimento, ricordarne:
- l’obbligatorietà del deposito telematico degli atti di parte (anche se non anche dei provvedimenti giurisdizionali);
- la sinteticità e chiarezza degli atti informatici, che, come visto, può preludere ad una standardizzazione o “formularizzazione” idonee a stimolare la qualità, fruibilità e completezza delle informazioni somministrate alla controparte e, tramite il sistema informatico, al giudice anche di legittimità;
- il riordino delle disposizioni in materia di processo civile telematico, a cominciare da una adeguata regolamentazione delle cause di invalidità (ed auspicabilmente da un deciso loro ridimensionamento) nel cui ambito potranno trovare adeguata considerazione anche le proposte del “Gruppo di informatica giudiziaria della Corte di cassazione”, coordinato dal Direttore del CED (tra l’altro attente ad attenuare gli oneri di deposito a carico delle parti, sia in ordine alla copia del provvedimento impugnato sia in ordine ai documenti posti a fondamento del ricorso);
- la “stabilizzazione” delle udienze a distanza o a trattazione scritta, di cui pare opportuno auspicare una cautissima applicazione al giudizio di legittimità, per l’assoluta peculiarità di quest’ultimo ed il rischio di conseguente vanificazione della distinzione tra adunanza camerale – già svolta nel chiuso della camera di consiglio – ed udienza pubblica;
- la razionalizzazione delle modalità di versamento del contributo unificato;
- la tendenziale generalizzazione dell’obbligatorietà della notifica telematica a mezzo PEC.
5.2. L’Ufficio per il Processo in Cassazione e Procura Generale.
Nell’ambito degli obiettivi del PNRR è centrale l’Ufficio per il Processo: che la legge di delegazione in esame disciplina espressamente anche per la Cassazione e la Procura generale [art. 1, co. 18, rispettivamente lett. c) e lett. d)].
È impossibile soffermarsi analiticamente sul complesso di norme che si sta formando al riguardo e pertanto occorre rinviare all’ampia elaborazione anche dottrinale (per tutte e con specifico riferimento all’UPP per la Cassazione, si v. ad es. A. Di Florio, Il nuovo ufficio per il processo: proposte per la Corte di Cassazione, in www.questionegiustizia.it, 27 settembre 2021) ed al relativo corpus, ad iniziare dall’art. 16-octies del d.l. n. 179 del 2012, introdotto dall’art. 50, comma 1, del d.l. 4 giugno 2014, n. 90, conv. con modif. in l. 11 agosto 2014, n. 114; e segnalando la normazione secondaria già intervenuta, come la delibera al riguardo adottata dal C.S.M. il 13 ottobre 2021 o la Circolare del 3 novembre 2021 a firma del Capo Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi del Ministero della giustizia.
La legge delega, con specifico riferimento all’UPP per la Cassazione, prevede che esso, sotto la direzione e il coordinamento del presidente o di uno o più magistrati da lui delegati, previa formazione degli addetti alla struttura, abbia compiti: di assistenza per l’analisi delle pendenze e dei flussi delle sopravvenienze; di supporto ai magistrati, comprendenti, tra l’altro, la compilazione della scheda del ricorso, corredata delle informazioni pertinenti quali la materia, la sintesi dei motivi e l’esistenza di precedenti specifici, lo svolgimento dei compiti necessari per l’organizzazione delle udienze e delle camere di consiglio, anche con l’individuazione di tematiche seriali, lo svolgimento di attività preparatorie relative ai provvedimenti giurisdizionali, quali ricerche di giurisprudenza, di legislazione, di dottrina e di documentazione al fine di contribuire alla complessiva gestione dei ricorsi e dei relativi provvedimenti giudiziali; di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici; di raccolta di materiale e documentazione anche per le attività necessarie per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.
La stessa legge prevede che l’analogo ufficio presso la Procura generale della Corte di cassazione sia denominato ufficio spoglio, analisi e documentazione, con compiti, sotto la supervisione e gli indirizzi degli avvocati generali e dei magistrati dell’ufficio, previa formazione degli addetti alla struttura: di assistenza per l’analisi preliminare dei procedimenti che pervengono per l’intervento, per la formulazione delle conclusioni e per il deposito delle memorie dinanzi alle sezioni unite e alle sezioni semplici della Corte; di supporto ai magistrati comprendenti, tra l’altro, l’attività di ricerca e analisi su precedenti, orientamenti e prassi degli uffici giudiziari di merito che formano oggetto dei ricorsi e di individuazione delle questioni che possono formare oggetto del procedimento per l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge previsto dall’articolo 363 del codice di procedura civile; di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici; di raccolta di materiale e documentazione per la predisposizione dell’intervento del Procuratore generale in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
6. Brevi spunti conclusivi.
Meritano ampia condivisione le conclusioni dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, il quale, con la sua pregevole relazione tematica n. 111 del 25 novembre 2021, dopo un ampio ed approfondito esame dei diversi istituti e delle ricadute pratiche ed operative, ha rilevato che “il complesso delle previsioni normative analizzate prevede l’introduzione di rilevanti novità, di notevole impatto sia sul piano strettamente processuale, con riferimento al giudizio in cassazione, sia sul piano ordinamentale-organizzativo, quanto all’istituzione degli UPP per il raggiungimento degli obiettivi prioritari di smaltimento dell’arretrato e riduzione dei tempi dei procedimenti civili”.
I profili messi in luce come degni di attenzione “in sede di attuazione delle disposizioni in commento” sono anzi, in particolare, meritevoli di attenta considerazione anche durante il non breve iter di approvazione dei decreti delegati, al fine di somministrare al legislatore delegato, con ogni opportuno strumento istituzionale, dati e riflessioni provenienti dagli operatori pratici e forti della specifica esperienza del giudizio di legittimità.
Pertanto, sarà necessario sottolineare al legislatore delegato la delicatezza e l’importanza:
-di un’adeguata disciplina transitoria per la soppressione della Sezione Sesta civile;
-di una dedicata considerazione delle specifiche esigenze del giudizio in cassazione, quanto ai principi di delega in tema di processo civile telematico e di chiarezza e sinteticità degli atti;
-di seri interventi di effettiva e completa digitalizzazione dell’arretrato e la previsione di un’azione sinergica per assicurare lo spoglio delle sopravvenienze ed il recupero di conoscenza della composizione della pendenza (il cd. “magazzino”) per l’efficace formazione dei ruoli di udienza;
-di avvalersi appieno delle potenzialità offerte dalla generalizzata obbligatorietà del deposito telematico e, più in generale, dalla diffusione del p.c.t. in cassazione;
Dal canto loro, gli Organi apicali della Corte e della Procura generale e, ciascuno nell’ambito delle rispettive attribuzioni, i loro Organi ausiliari e consultivi sono chiamati, in questo momento, alla massima cooperazione possibile: per la predisposizione del piano organizzativo per l’istituzione dell’UPP in Cassazione in coerenza con gli obiettivi del PNRR; per la predisposizione delle variazioni tabellari conseguenti all’istituzione ed alla strutturazione dell’UPP in Cassazione; per il coordinamento fra il piano organizzativo per l’istituzione dell’UPP ed il programma di gestione per l’anno 2022, sia pure in un’ottica di graduale raggiungimento degli obiettivi di cui al PNRR; per l’urgente adeguamento dei sistemi informativi della Corte in esito all’approvazione delle riforme processuali.
È uno sforzo eccezionale, come eccezionale è il momento e forse irripetibile è l’evenienza di una tale disponibilità di risorse; la progettualità di ciascuno è coinvolta e doveroso è il contributo anche del singolo: sarebbe davvero disastroso mancare questa opportunità priva di precedenti.
*presidente di sezione della Corte di cassazione
Recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: è davvero la fine dei processi mediatici?
di Valentina Angela Stella, giornalista del Dubbio News e del Riformista
Sommario: 1. Le novità principali - 2. Profili critici rilevati in fase di dibattito parlamentare - 3. Era necessario questo cambiamento? - 4. Se e come cambieranno i processi mediatici paralleli.
1. Le novità principali
Con ben cinque anni di ritardo, l'Italia ha recepito la direttiva 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul «rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali». Era stata la stessa Ministra della Giustizia Marta Cartabia a spronare il Parlamento in tal senso durante la condivisione delle linee programmatiche alle Camere. Il nostro Consiglio dei Ministri ha dato il via libero definitivo al decreto legislativo lo scorso 4 novembre, preceduto da un iter travagliato di discussione parlamentare: i due schieramenti che si sono fronteggiati sono stati quello del Partito Democratico e del Movimento Cinque Stelle da un lato e quello della destra insieme ad Azione ed Italia Viva dall'altro lato. Il primo gruppo avrebbe voluto un recepimento soft, il secondo limitare al massimo la comunicazione delle Procure. Alla fine, dopo diversi rinvii per l'emanazione dei pareri non vincolanti nelle Commissioni giustizia di Camera e Senato, i partiti hanno trovato un accordo e hanno inviato al Governo un testo (relatori: il senatore leghista Andrea Ostellari e il responsabile giustizia di Azione, l'onorevole Enrico Costa) che è stato recepito in pieno. La norma è in vigore dal 14 dicembre di quest'anno. Vediamo quali sono le novità principali.
L'articolo 2 prevede il divieto per le «autorità pubbliche» (magistrati, forze di polizia, ma anche Ministri) di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini. In caso di violazione di tale divieto, la norma prevede il diritto di rettifica in capo all’interessato, ferme restando le sanzioni penali e disciplinari e il risarcimento del danno.
Secondo l'articolo 3 invece il Procuratore della Repubblica può comunicare con i media solo tramite comunicati stampa. Nei casi di «particolare rilevanza pubblica dei fatti» ci sarà la possibilità di indire da parte del Procuratore, o un magistrato delegato, conferenze stampa ma la decisione di convocarle «deve essere assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano». L' «atto motivato» ha rappresentato un punto cruciale della discussione parlamentare ed ha costituito l'approdo di mediazione, rispetto a chi avrebbe voluto vietare sempre le conferenza stampa.
Lo stesso principio vale per la comunicazione delle forze di polizia giudiziaria: «il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia a fornire, tramite propri comunicati ufficiali oppure proprie conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato»; «l’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano».
Il medesimo articolo prevede anche di non «assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza».
L’articolo 4 prevede invece che nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato (ad esempio quelli cautelari, secondo l'interpretazione di alcuni giuristi), la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza definitiva.
Un ulteriore aspetto molto importante è che «sia specificato all’articolo 314 del codice di procedura penale che la condotta dell'indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere non costituisce, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subìta».
2. Profili critici rilevati in fase di dibattito parlamentare
Prima di arrivare al testo definitivo, le Commissioni parlamentari hanno tenuto un ciclo di audizioni con giuristi, magistrati, avvocati da cui sono emerse alcune problematicità. Ad esempio il dottor Giuseppe Santalucia, Presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, sebbene abbia detto che «il testo complessivamente può trovare condivisione perché il bisogno di rafforzare la presunzione di innocenza è certamente un bisogno meritevole di considerazione», ha però rilevato delle criticità, soprattutto sull'art. 3: «Si sono voluti irrigidire, attraverso l'esclusivo riferimento ai comunicati ufficiali e alle conferenze stampa, i rapporti tra l'ufficio di Procura e la stampa. Ritengo che questa sia una eccessiva ingessatura che bandisce qualsiasi possibilità che il Procuratore della Repubblica possa rendere una dichiarazione ad un giornalista fuori da una conferenza stampa». Santalucia si era chiesto poi «perché le modifiche debbano valere solo per gli uffici di procura e non anche per i giudici». Insomma, aveva concluso: «Mi rendo conto della necessità di richiamare l'attenzione, soprattutto della magistratura requirente, a sobrietà e continenza con i rapporti con la stampa ma credo che questa eccessiva formalizzazione dei canali di comunicazione possa rivelarsi in concreto più lesiva del bisogno di una corretta informazione». Se per l'Anm i paletti erano stati ritenuti troppo rigidi, di parere contrario si era mostrata l'Unione Camere Penali Italiane intervenuta in audizione con gli avvocati Giorgio Varano e Luca Brezigar: « Le norme, così come formulate, rischiano di essere dei meri desiderata che non avranno mai concreta applicazione». Inoltre avevano tacciato la norma di essere troppo indeterminata nel non elencare nel dettaglio le «autorità pubbliche». In aggiunta, avevano stigmatizzato il fatto che a decidere la rilevanza pubblica di un fatto degno di conferenza stampa è la stessa Procura che ha condotto le indagini, la stessa che «decide l’eventuale iscrizione di notizie di reato in tema di diffamazione e l’esercizio dell’azione penale sullo stesso tipo di reato - sulla base magari dell’assenza di rilevanza pubblica della notizia». In generale, per l'Ucpi, « affidare in via esclusiva alla magistratura la tutela del diritto alla presunzione di innocenza » non rappresenta il giusto rimedio che invece potrebbe essere quello di « un Garante per i diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo che potrebbe realmente diventare quel soggetto “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico e di chi viene potenzialmente esposto allo stesso da atti della magistratura violativi dei principi declinati dalla direttiva europea»[1].
3. Era necessario questo cambiamento?
È la domanda che in molti si stanno ponendo. Da un punto di vista formale, e per evitare una possibile procedura di infrazione, il nostro Paese ha dovuto adeguarsi alla prospettiva europea. Tuttavia c'erano diversi modi per farlo. L'articolo 27 della Costituzione recita: « L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Quindi per alcuni commentatori sarebbe potuto bastare ribadire in qualche modo questo concetto per impedire una comunicazione colpevolista da parte, tra l'altro, delle autorità pubbliche fino ad una sentenza passata in giudicato. Ma sappiamo che in molte circostanze lo spirito costituzionale è stato tradito. È innegabile infatti che una fetta della magistratura e un'altra della polizia giudiziaria in questi anni si siano rese protagoniste di scomposte autocelebrazioni pubbliche attraverso reboanti conferenza stampa in pompa magna e mediante produzione audiovideo di materiali d'indagine a mo' di fiction giudiziarie confezionate su misura per i media. Un esempio su tutti: il video confezionato dal Ris del furgone bianco di Massimo Bossetti, che continuava a girare intorno alla palestra di Yara Gambirasio il giorno della scomparsa della 13enne. Fu dato alla stampa prima del processo e descritto come una delle prove decisive della colpevolezza del muratore di Mapello ma poi ci fu un vero colpo di scena. Durante il processo di primo grado, il comandante del Ris ammise, incalzato da uno dei difensori di Bossetti, che il realtà era un montaggio di un unico frame del furgone dell'imputato con molti altri di diversa provenienza, usato solo a scopo mediatico e privo di qualsiasi rilevanza probatoria, tanto è vero che non fu inserito nel fascicolo. A tal proposito qualche mese fa il gip del Tribunale di Milano Fabrizio Filice ha archiviato, come chiesto dal pm, un procedimento penale per diffamazione, partito da una denuncia del comandante dei Ris, a carico di ben sedici giornalisti che avevano definito quel video «un filmino tarocco», una «patacca». Nelle sue motivazioni il gip è lapidario: «è quindi chiaro che la cronaca e la critica giornalistica, nel caso di specie, non solo si sono inserite su un fatto obiettivo, di indubbio interesse pubblicistico e certamente non frutto di loro invenzione o di artefatto, ma siano state anche mosse dal fondamentale principio della presunzione di innocenza dell'imputato che, in base alla direttiva UE n. 343 del 2016, oggetto di recente recepimento da parte dell'Italia, deve proteggere le persone indagate o imputate in procedimenti penali da sovraesposizioni mediatiche deliberatamente volte a presentarli all'opinione pubblica come colpevoli prima dell'accertamento processuale definitivo».
È evidente che servissero delle regole più stringenti per normare la comunicazione di chi indaga, accusa, arresta. In realtà alcune regole già esistevano prima del recepimento della direttiva. Il decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, modificato appunto dall'articolo 3 spiegato all'inizio di questo articolo, già prevede ai comma 2 e 3 dell'articolo 5 che ogni informazione inerente l'attività della Procura deve essere impersonale e che è vietato per i magistrati della Procura rilasciare dichiarazione sull'attività giudiziaria dell'ufficio. Inoltre il Procuratore della Repubblica ha l'obbligo, secondo il comma 4, di segnalare al consiglio giudiziario chi trasgredisce la norma. Questa norma, pensata per i sostituti in cerca di visibilità, è stata chiaramente disattesa. E allora cosa dovremmo aspettarci in merito alla nuova disciplina? Solo il tempo potrà fornire una risposta. Certamente occorrerà osservare se la norma verrà rispettata: è prevista una rilevazione dei procedimenti disciplinari tuttavia, come ha evidenziato in una intervista l'onorevole Enrico Costa, uno dei massimi promotori del recepimento della direttiva, in una intervista: « Io sarò il primo a vigilare e spero che anche gli altri lo facciano, soprattutto gli avvocati»[2]. Sta anche predisponendo moduli perché tutti possano segnalare al Ministero della Giustizia ogni violazione.
4. Se e come cambieranno i processi mediatici paralleli
I grandi sostenitori del recepimento della norma europea hanno cantato vittoria, mettendo in luce che con un fermo stop al processo mediatico si ripristineranno principi di civiltà giuridica che diventano regole di comportamento. Ma è davvero così?
Intanto il 6 dicembre il Procuratore della Repubblica di Perugia Raffaele Cantone, muovendosi in anticipo rispetto all'entrata in vigore della norma, ha emanato una direttiva, indirizzata al Questore e ai comandanti provinciali dei carabinieri e della guardia di finanza, sulle «modalità con cui vanno comunicate ai mass media le informazioni sui procedimenti penali e sugli atti d'indagine». In essa ricorda che le informazioni sui procedimenti penali sono di «esclusiva competenza del Procuratore» che sarà l'unico organo «legittimato a fornire informazioni» o tramite sintetico comunicato stampa o tramite conferenza stampa, specificando che i «provvedimenti, se adottati in fase di indagine, non implicano alcuna responsabilità dei soggetti sottoposti ad indagini. I nomi delle persone raggiunte da misure cautelari personali e reali saranno contenuti nel documento solo quando tale dato si renderà necessario per garantire una effettiva completezza delle informazioni». Poi un passaggio importante che viene letteralmente sottolineato nel documento: «al di fuori di queste informazioni fornite ufficialmente non è consentito ad alcuno, né ai magistrati né agli appartenenti alla polizia giudiziaria, di dare ulteriori notizie ai mezzi di informazione».
Infatti, in teoria, tutto quello che verrà comunicato al di fuori di quanto esplicitato in un comunicato stampa della Procura o condiviso in una conferenza stampa sarebbe da configurarsi come una fuga di notizie, contra legem. Come ha scritto Luigi Ferrarella «si creeranno le condizioni perfette per incrementare, anziché contrastare, il mercato nero della notizia, giacché la nuova norma spingerà i giornalisti all'unica alternativa possibile, e cioè a coltivare nell'ombra rapporti per forza di cose opachi con le varie fonti 'negate' alla luce del sole»[3]. E quando ciò accadrà le Procure indagheranno? La domanda è di per sé oziosa.
Proviamo però a vedere anche noi un lato positivo. Qualche tempo fa il professor Giorgio Spangher descrisse così le conseguenze del processo mediatico il cui seme viene piantato nella fase delle indagini preliminari: «gli imputati sono morti che camminano perché su di loro si posa lo stigma sociale scaturito dal racconto che il pubblico ministero costruisce intorno a loro e che la stampa replica all'infinito. Il pm costruisce una sua notitia criminis che resta storicizzata, anche se il processo farà un altro corso»[4]. Probabilmente adesso, venendo limitata la comunicazione della magistratura requirente e delle forze di polizia, ed essendo richiesto un linguaggio rispettoso della presunzione di innocenza quello stigma di cui parla Spangher sarà fortemente ridimensionato e, seguendo il pensiero dell'ex magistrato Nello Rossi, «si affermerà il principio che c’è un “onore” dell’imputato presunto innocente che non può essere violato impunemente. La novità inciderà perciò anche sui media, abbassando sensibilmente la soglia oltre la quale vi è diffamazione e spostando la frontiera della tutela della reputazione».[5]
Sempre in teoria, poi, non dovremmo più leggere, tra l'altro, tweet di Ministri della Repubblica che, solo per l'apertura di un fascicolo di indagine o per l'applicazione di misure cautelari in carcere ad un indagato, aizzano il pubblico social con espressioni del tipo «brutto bastardo, marcisci in galera».
Dovrebbe essere finito anche il tempo del nome suggestivo dato alle inchieste inaugurato con Mani pulite e proseguito con Angeli e demoni, Mafia capitale, Bocca di Rosa, Terminator 3, solo per citarne alcuni. Ma attenzione: la disciplina di cui stiamo parlando si rivolge principalmente ai magistrati, e non incide tecnicamente sui comportamenti dei media. Pertanto, nulla impedirà alla stampa di assegnare in maniera autonoma un nome all'indagine, che potrebbe cristallizzarsi nel tempo in riferimento al fatto di cronaca specifico.
Per di più, la nuova norma non potrà forse porre un freno, come ha detto il pm Eugenio Albamonte, «alle esternazioni che alcuni magistrati fanno soprattutto nei talk show, in cui spesso vengono espresse delle considerazioni che non fanno onore alla magistratura e danno una idea della categoria investita di un qualche ruolo morale, come fustigatrice dei costumi, che dà giudizi sommari sui fatti del giorno, tradendo l'idea di ponderazione che la comunicazione di un magistrato dovrebbe sempre soddisfare».[6]
Inoltre, la nuova disciplina interviene principalmente sulla fase delle indagini preliminari ma cosa accade nelle fasi successive? Resta l'annoso problema della pubblicazione di atti del fascicolo di indagine o coperti da segreto, o non pubblicabili o non pertinenti con il quadro probatorio.
Prendiamo due esempi tratti dalla recente cronaca giudiziaria.
- Caso Renzi/Open/Fatto Quotidiano. Il contesto lo riassumiamo brevemente: sul giornale diretto da Marco Travaglio sono stati pubblicati ad inizio novembre i contenuti dei verbali delle indagini della Procura di Firenze sui conti della Fondazione Open, tra cui una informativa del 10 giugno 2020 della Guardia di Finanza che contiene anche gli estratti del conto corrente intestato a Renzi. I cronisti del Fatto nell'articolo del 6 novembre specificano che «Gli incassi dell'ex premier non sono oggetto di indagine: non è per questo che Renzi è finito sotto inchiesta»[7]. Senza entrare nel merito della vicenda, non essendo questa la sede per discuterne, ci siamo però chiesti se la norma sulla presunzione di innocenza, non ancora in vigore in quei giorni, avrebbe potuto impedire quella macchina del fango nei confronti di un indagato. La risposta è chiaramente no, al di là del fatto che in questo caso c'è un personaggio politico al centro della discussione. Se al posto di Matteo Renzi ci fosse stato Mario Rossi, nulla avrebbe potuto fermare la stampa nel pubblicare quegli atti. In questo caso le indagini sono state chiuse e gli atti sottoposti alla discovery. Forse ancora una volta la criticità l'ha centrata il professor Giorgio Spangher: «il problema non riguarda tanto la pubblicabilità o meno degli atti, ma la pertinenza delle acquisizioni al fascicolo. Mentre per le intercettazioni si è riusciti a far inserire nell'archivio riservato quelle irrilevanti ai fini delle indagini, il legislatore ancora non si è posto il tema dell'irrilevanza rispetto all'attività di acquisizione di materiale da perquisizione e sequestro, soprattutto in materia bancaria. Questo episodio dunque deve indurre il legislatore a ripensare la norma».
- Caso plusvalenze Juventus. La Procura di Torino a fine novembre ha diramato un comunicato stampa di poche righe in cui, tra l'altro, informava che «i finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria Torino, delegati alle indagini, sono stati incaricati di reperire documentazione e altri elementi utili relativi ai bilanci societari approvati negli anni dal 2019 al 2021». Il problema è quello che è successo dopo: dopo qualche giorno su quasi tutti i media sono stati pubblicati ampi stralci del decreto di perquisizione. Addirittura una grossa testata nazionale ha aggiunto proprio foto delle pagine originali del decreto. Per alcuni, come l'onorevole Catello Vitiello (IV), autore di una proposta di legge che estenderebbe il segreto istruttorio all'arco temporale in cui gli atti di indagine sono conosciuti dalle parti, cioè fino a quando non inizia il processo vero e proprio, «che l'atto di perquisizione venga notificato agli indagati, non significa che cade il segreto investigativo. C'è un errore tecnico di fondo in quanto si confonde la conoscenza dell'atto da parte del soggetto interessato con l'opponibilità dell'atto erga omnes. La conoscibilità non riguarda tutti e in più siamo ancora nella fase dell'indagine preliminare». Per altri invece entra poi in gioco l'interpretazione dell'articolo 114 cpp, forse uno dei più ambigui e peggio scritti del codice: che ci si riferisca ad atti coperti da segreto (art. 114 comma 1) o ad atti non più coperti da segreto ma non divulgabili (art. 114 comma 2) quel decreto di perquisizione non andava reso noto integralmente o parzialmente sulla stampa[8].
C'è poi tutto un altro filone che, a parere di chi scrive, non subirà alcuna limitazione, ed è quello della cronaca giudiziaria che si trasforma in voyeurismo. Era il 1983 e i militari, per trasferire Enzo Tortora, accusato ingiustamente di associazione camorristica, nel carcere di Regina Coeli, aspettarono che fosse mattina presto per garantire ai fotografi la prima fila davanti all'Hotel Plaza e riprendere il giornalista con i ceppi ai polsi. Da allora è stato un susseguirsi di processi mediatici, che sempre più hanno invaso quella sfera che dovrebbe rimanere circoscritta nelle aule giudiziarie o almeno dovrebbe essere trattata sulla stampa spiegando i termini della questione, non imbastendo un criminal show[9]. Salvatore Ferraro, Giovanni Scattone, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi, Annamaria Franzoni, la famiglia Ciontoli, Cosima Serrano, Sabrina Misseri, Antonio Logli, Massimo Bossetti, il generale Mario Mori, Mario Oliverio, Clemente Mastella, Nunzia De Girolamo: sono solo alcuni dei nomi più noti di persone che hanno subìto nel nostro Paese i più morbosi processi mediatici. Non importa se tanti di loro siano stato poi condannati: nel momento in cui erano presunti non colpevoli sono stati attenzionati da un voyeurismo giudiziario senza precedenti, che ha costruito mostri da prima pagina, rovinando carriere e relazioni personali. Il fenomeno del processo mediatico è complesso e, come scrive il professore avvocato Vittorio Manes in un contributo dal titolo ‘La “vittima” del “processo mediatico”: misure di carattere rimediale’, alla base «si pone il conflitto, difficilmente superabile, tra diritti contrapposti: il diritto di cronaca giudiziaria, da un lato, e dall’altro i diversi diritti che fanno capo a chi lo subisce (vita privata, riservatezza, presunzione di innocenza), oltre a più generali istanze di imparzialità del giudizio». Molti sono gli studiosi che da anni analizzano la questione e cercano delle soluzioni per bilanciare tutte le esigenze in gioco. Il professore avvocato Ennio Amodio, in un documento pubblicato dalle Camere Penali, descrive una situazione allarmante: «L’onda impetuosa dei media si abbatte sul processo penale e ne deforma lo scenario fino a renderlo irriconoscibile persino a chi, come difensore, ha vissuto in prima persona le vicende giudiziarie che la stampa e la televisione scelgono di raccontare». Ecco il nodo della questione: la norma di recepimento della direttiva europea, come abbiamo visto, agisce principalmente sulla fase delle indagini preliminari non su quella del processo che potrà comunque essere raccontato in maniera distorta. Certo, se la comunicazione colpevolista verrà effettivamente limitata e sgonfiata, forse qualche giornalista dovrà impegnarsi maggiormente nel suo lavoro e frequentare di più le aule di tribunale, fino ad ora quasi sempre disertate. E potremmo così sperare nel racconto del contraddittorio delle parti, che non ha mai quasi interessato la nostra categoria, impegnata molto spesso a fare da cassa di risonanza alle ipotesi delle Procure e a presentarsi in Tribunale solo il giorno della sentenza, con pesanti conseguenze sulla narrazione del processo. A me personalmente, ad esempio, è capitato di confrontarmi durante l'ultima udienza di un processo dal clamore nazionale con una collega di una emittente nazionale che non sapeva distinguere gli avvocati di parte civile da quelli della difesa.
In ogni modo, a delineare quasi scientificamente le differenze tra processo penale e processo mediatico ci ha pensato il professor Glauco Giostra in un elaborato dal titolo ‘Processo penale e mass media’: «il processo giurisdizionale ha un luogo deputato, il processo mediatico nessun luogo; l’uno ha un itinerario scandito, l'altro nessun ordine; l'uno un tempo (finisce con il giudicato), l'altro nessun tempo; l’uno è celebrato da un organo professionalmente attrezzato, l’altro può essere “officiato” da chiunque. Ma vi sono anche differenze meno evidenti e più profonde. Il processo giurisdizionale seleziona i dati su cui fondare la decisione; il processo mediatico raccoglie in modo bulimico ogni conoscenza che arrivi ad un microfono o ad una telecamera: non ci sono testi falsi, non ci sono domande suggestive, tutto può essere utilizzato per maturare un convincimento. Il primo, intramato di regole di esclusione, è un ecosistema chiuso; il secondo invece è aperto, conoscendo soltanto regole d’inclusione; la logica dell’uno è una logica accusatoria, quella dell’altro, inquisitoria».
Ma tutto questo può inficiare il giudizio della Corte? Per la Cassazione non esiste questo pericolo: «le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza» (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). Si tratta dello stereotipo del giudice con la corazza: ma è davvero così? La diffusione al di fuori del processo degli atti di indagine, coperti da segreto o non pubblicabili, costituisce certamente un ostacolo all’esercizio del diritto di difesa a causa del forte pregiudizio che arreca all’indipendenza psicologica del giudice. Quest'ultimo dovrebbe conoscere il materiale probatorio solo durante la sua formazione nella dialettica tra le parti. Qualche giurista sostiene che in realtà i giudici sono strutturati in modo da non farsi condizionare, tuttavia una volta un famoso avvocato, durante una cena, partecipò ai commensali che un magistrato gli aveva confessato che in realtà si lasciano in parte influenzare. Nondimeno, cosa accade invece per le giurie popolari, molto spesso composta da persone prive delle adeguate conoscenze giuridiche e facilmente influenzabili? Se la risposta è che in fin dei conti decidono i giudici togati, allora discutiamo seriamente affinché vengano soppresse. Se, invece, il loro giudizio ha un peso allora pensiamo a come metterli al riparo dall'influenza della stampa colpevolista.
Tutto questo purtroppo non avrà mai fine se non cambierà la cultura di tutti i protagonisti. I magistrati e le forze di polizia dovranno chiudere i rubinetti tramite i quali passano gli atti alla stampa nelle fasi in cui gli stessi non sono conoscibili; la stampa dovrebbe cominciare a rispettare il proprio codice deontologico. Pensiamo all'articolo 8 del Testo Unico dei doveri del giornalista che da solo se rispettato, come l'articolo 27 della Carta costituzionale, basterebbe a far andare le cose in maniera corretta: «Il giornalista: a) rispetta sempre e comunque il diritto alla presunzione di non colpevolezza. In caso di assoluzione o proscioglimento, ne dà notizia sempre con appropriato rilievo e aggiorna quanto pubblicato precedentemente, in special modo per quanto riguarda le testate online; [...] d) nelle trasmissioni televisive rispetta il principio del contraddittorio delle tesi; [...] cura che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi». Queste regole vengono rispettate? Altra domanda oziosa. Anche gli avvocati hanno la loro parte di responsabilità: talvolta per convenienza personale - un lauto gettone di presenza in una trasmissione, o per farsi pubblicità, o per creare empatia intorno alle presunte vittime - alimentano la gogna mediatica. Forse sarebbe il caso anche di cominciare a chiudere le porte dei salotti televisivi ai familiari delle vittime che, animati da comprensibile vendetta punitiva, si esibiscono in un coro colpevolista contro indagati impotenti. Volendo allargare il campo visivo dovremmo cominciare seriamente a interrogarci sulla qualità del pubblico che ci legge, ci ascolta, ci vede. Siamo un Paese in cui l'emotività e la paura hanno il sopravvento sull'analisi dei fatti, l'angoscia collettiva reclama pene sempre più severe nonostante i crimini siano in calo, e dove appunto processi pubblici e gogne mediatiche hanno perfettamente preso il posto delle tricoteuses settecentesche. Inoltre «siamo in presenza - come mi disse in una intervista il sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi[10] - di un circuito chiuso dove quello che lei chiama il Tribunale del Popolo alimenta il sistema dell’informazione, e quest’ultimo incentiva gli umori e i rancori del Tribunale del Popolo. L’uno giustifica l’altro. Il primo asseconda e accende, eccita e rinfocola il secondo, e ne viene, a sua volta, stimolato e blandito. Senza sottovalutare nemmeno per un attimo le responsabilità dei media, non si deve dimenticare che una domanda di giustizia sommaria e di rivalsa sociale cova nel profondo dell’animo umano. E si alimenta di relazioni private e scambi domestici, di frustrazioni personali e di sentimenti familiari persino prima di entrare in rapporto con il sistema dell’informazione».
È chiaro che la nuova normativa sulla presunzione di innocenza è inerme dinanzi a questa gigantesca rappresentazione che può essere ridisegnata in chiave garantista, costituzionale solo con un cambiamento culturale che parta dalle scuole. Anche per frenare un fenomeno che dovrebbe preoccuparci, ossia l'analfabetismo funzionale, che oggi è la «più grande emergenza» secondo il report 'Ridisegnare l’Italia. Proposte di governance per cambiare il Paese' a cura del The European House-Ambrosetti[11].
Insomma, questo quadro, che non pretende affatto di essere esaustivo della questione, fa capire che il recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza è stato sì necessario ma non rappresenta la panacea di tutti i mali che affliggono la narrazione dei processi nel nostro Paese.
[1] Tratto da un articolo del Dubbio del 29 settembre 2021
[2] Intervista a Enrico Costa, Il Riformista 6 novembre 2021
[3] Corriere della Sera, 27 novembre 2021
[4] Intervista a Giorgio Spangher, Il Dubbio 17 maggio 2021
[5] Intervista a Nello Rossi, Il Dubbio 27 ottobre 2021
[6] Intervista ad Eugenio Albamonte, Il Riformista 7 dicembre 2021
[7] Tratto da un articolo del Dubbio del 9 novembre 2021
[8] Tratto da un articolo del Dubbio del 30 novembre 2021
[9] Tratto da un articolo del Dubbio del 15 ottobre 2021
[10] Intervista a Luigi Manconi e Federica Graziani, Il Dubbio 15 ottobre 2020
[11] Fonte: https://www.ambrosetti.eu/news/ridisegnare-litalia-proposte-di-governance-per-cambiare-il-paese/
Il “compiuto” adeguamento alla direttiva 2016/343/UE sulla presunzione d’innocenza
di Federica Resta*
Al fine di determinare il “compiuto adeguamento” dell’ordinamento interno alla direttiva 2016/343/UE, il dlgs 188 del 2021 introduce innovazioni importanti nello statuto delle garanzie del processo penale e nella disciplina della comunicazione giudiziaria. Si prevedono, infatti, non soltanto un articolato sistema di tutele del diritto dell’indagato o dell’imputato a non essere indicato “pubblicamente come colpevole” finché non ne sia definitivamente accertata la responsabilità penale, ma anche nuove modalità di gestione del rapporto tra giustizia e informazione. Parallelamente a queste garanzie extraprocessuali della presunzione d’innocenza, si introducono poi ulteriori garanzie specificamente intraprocessuali, rilevanti (anche) quali parametri di redazione degli atti e regola di “trattamento” dell’indagato e dell’imputato, nella fase anteriore all’accertamento definitivo di responsabilità.
Sommario: 1. La scelta in favore della delega – 2. Le innovazioni del decreto- 2.1. Il diritto a non essere indicato pubblicamente come colpevole- 2.2. Presupposti e forme della comunicazione giudiziaria – 2.3.2.3. Garanzie e rimedi procedimentali
1.La scelta in favore della delega
Il dlgs 188 del 2021, in vigore dal 14 dicembre, segna un passaggio importante nello statuto delle garanzie del processo penale e nel rapporto- complesso tanto quanto centrale per la democrazia – tra giustizia e informazione.
Sotto il profilo del metodo, rileva anzitutto la scelta parlamentare (derivante dall’accoglimento di un emendamento dell’On. Costa) di conferire al Governo una nuova delega per l’attuazione della direttiva (UE) 2016/343(il cui termine di recepimento era scaduto il 1^ aprile 2018). Una prima delega era, infatti, stata già prevista dalla l. 163 del 2017, ma non era stata esercitata ritenendosi l’ordinamento interno già conforme alla direttiva. La valutazione è tuttavia mutata con la prima Relazione della Commissione europea, del 31 marzo scorso, sullo stato di attuazione della direttiva, rendendo così opportuna anche ad avviso del Governo (che ha reso parere favorevole sull’emendamento) la reintroduzione della delega legislativa all’interno del d.d.l. di delegazione europea e, successivamente, l’emanazione del decreto legislativo in tempi celeri.
E che si tratti di un tassello ulteriore (non certo l’unico) nel mosaico di norme interne a tutela della presunzione d’innocenza è evidente sin dal titolo del decreto legislativo, che individua nel “compiuto adeguamento” della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva l’obiettivo delle norme introdotte. Gli aspetti più innovativi della direttiva che il Governo ha ritenuto necessario recepire con disposizioni specifiche riguardano, in particolare, il diritto dell’indagato e dell’imputato:
-a non essere oggetto di dichiarazioni di autorità pubbliche o di decisioni giudiziarie diverse da quelle relative alla responsabilità penale, in cui egli venga pubblicamente presentato come colpevole, nonostante la mancata conclusione del processo (art. 4);
-a non essere sottoposto a mezzi di coercizione fisica anche in aula di udienza, durante il processo, o comunque in altre circostanze pubbliche, salva la necessità per specifiche esigenze di sicurezza (art. 5):
-a disporre in caso di violazione di tali garanzie di un ricorso effettivo (art. 10), ovvero di un rimedio processuale tale da “porre l'indagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa” (C 44).
Benché “integrative” rispetto al quadro normativo vigente (art. 1 del d.lgs.), quelle previste dal d.lgs. 188 sono, tuttavia, disposizioni di notevole rilevanza. Esse, infatti sanciscono non soltanto un articolato sistema di tutele (anche remediali) del diritto dell’indagato o dell’imputato a non essere indicato “pubblicamente come colpevole” finché non ne sia definitivamente accertata la colpevolezza, ma anche nuove modalità di gestione della comunicazione giudiziaria, suscettibili di avere effetti importanti sulla qualità dell’informazione. Parallelamente a queste garanzie extraprocessuali della presunzione d’innocenza[1] (intesa non solo “come canone di giudizio ma anche come “canone di trattamento” dell’indagato e dell’imputato nella fase antecedente ad una pronuncia definitiva”[2]) l’articolo 4 introduce poi ulteriori garanzie specificamente intraprocessuali, rilevanti (anche) quali parametri di redazione degli atti. Essa declina dunque, in rigorosi canoni di continenza espressiva, il “senso del limite e [..]l’etica del dubbio[3]” cui devono conformarsi le asserzioni dell’autorità giudiziaria prima dell’accertamento definitivo di responsabilità.
2.Le innovazioni del decreto
2.1Il diritto a non essere indicato pubblicamente come colpevole
Sotto il primo profilo rileva, in particolare, l’articolo 2 del d.lgs. 188, che vieta alle “autorità pubbliche” di “indicare pubblicamente” l'indagato o l'imputato come "colpevole", prima dell’adozione di un provvedimento definitivo di condanna. Il ricorso alla nozione lata di “autorità pubbliche” è diretto specificamente ad includere ogni autorità, anche esterna all’ambito giudiziario, titolare di un pubblico potere, conformemente a quanto sancito dalla giurisprudenza della Corte EDU (che ha esteso anche ad autorità politiche, amministrative, elettive l’obbligo del rispetto della presunzione d’innocenza) oltre che dal C 17 della direttiva.
Quali rimedi attivabili in caso di violazione (ferme le eventuali responsabilità penali e disciplinari dell’autore), la norma prevede la tutela risarcitoria per equivalente (rispetto al danno, da ritenersi sia patrimoniale che non) e in forma specifica, da attuarsi nelle forme della rettifica, mediante un procedimento speciale rispetto a quello previsto in via generale dalla legge sulla stampa. A fronte dell’istanza di rettifica avanzata dall’interessato, l’autorità pubblica, ritenendo la richiesta fondata, è tenuta a disporre la rettifica (avvisandone l’interessato) entro 48 ore, con le stesse modalità proprie della dichiarazione contestata o, in caso d’impossibilità, con modalità tali da garantire alla rettifica lo stesso rilievo e lo stesso grado di diffusione che hanno caratterizzato la dichiarazione. In caso di mancato accoglimento dell’istanza o di esecuzione della rettifica con modalità diverse da quelle prescritte (proprio per assicurare corrispondenza e omogeneità formale della prima alla dichiarazione originaria), l’interessato ha facoltà di richiedere al tribunale, ex art. 700 c.p.c., l’ordine di pubblicazione della rettifica. Pur nel silenzio della norma, un’interpretazione della direttiva volta a garantirne l’ “effetto utile” impone di ammettere l’esperibilità di tale rimedio anche nel caso di inerzia, dell’autorità adita, rispetto all’obbligo di provvedere sull’istanza.
La norma presenta alcune affinità con altre già proposte in passato, in particolare nella XVI legislatura con l’emendamento a prima firma Casson n.1.287 al disegno di legge in materia di intercettazioni, AS 1611 e il sub-emendamento 1.0.4 all’ AS 3491, in materia di diffamazione. Tuttavia, diversamente dalla norma attuale che circoscrive il proprio ambito applicativo alle dichiarazioni dell’autorità pubblica, le proposte Casson riferivano il diritto di “chiunque” a non essere indicato come autore di reato, prima della definizione del relativo giudizio, genericamente alle dichiarazioni rese “a mezzo della stampa o di qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. La proposta Casson (che pure introduceva una tutela remediale attivabile ex art. 700 c.p.c., oltre a quella risarcitoria espressamente estesa anche al danno non patrimoniale) si caratterizzava, dunque, per uno spettro applicativo più ampio, tale da onerare del dovere di rispetto della presunzione d’innocenza anche i giornalisti. In senso analogo si muovevano anche le proposte di revisione del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica discusse, su impulso del Garante per la protezione dei dati personali nel 2014, ma senza esito risolutivo.
La limitazione (conforme alla direttiva) della norma attuale alle sole comunicazioni rese dalle autorità pubbliche non esclude, tuttavia, l’autonomo dovere delle testate (in particolare telematiche) di aggiornare, alla sopravvenuta rettifica, la notizia eventualmente riportata sulla base della dichiarazione scorretta degli inquirenti. Tale dovere autonomo deriva, infatti, dall’osservanza del principio di esattezza nel trattamento dei dati (art. 5, p.1, lett.d) Reg. Ue 2016/679), in base al quale una consolidata prassi del Garante per la protezione dei dati personali impone alle emeroteche on line di segnalare l’evoluzione subita dalla notizia (cfr., ad es, provv. n. 286 del 10.12.2020).
L’assenza di una espressa clausola di salvaguardia (presente invece nel C 17 della direttiva) in favore delle prerogative immunitarie previste dall’ordinamento (si pensi all’insindacabilità dei parlamentari) non osta, comunque, alla loro applicazione. Essa è, infatti, dovuta secondo un’interpretazione sistematica delle norme, che tenga conto anche del rango normativo (in particolare, costituzionale) delle garanzie considerate.
2.2. Presupposti e forme della comunicazione giudiziaria
Particolarmente rilevante è, poi, l’articolo 3 che novella il decreto legislativo n. 106 del 2006, in relazione ai rapporti del procuratore della Repubblica con gli organi di informazione, innovandone la disciplina sull’an e sul quomodo. In particolare, si introduce un vincolo di esclusività nelle forme da osservare per la gestione di tali rapporti, circoscrivendole ai soli comunicati ufficiali o, nei casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, alle conferenze stampa, in quest’ultima ipotesi previa determinazione assunta con atto motivato in ordine alle “specifiche ragioni di pubblico interesse” legittimanti l’iniziativa[4]. Con le stesse modalità, la polizia giudiziaria può essere autorizzata dal procuratore della Repubblica a fornire al pubblico informazioni sugli atti di indagine compiuti. Tale previsione induce a ritenere che la polizia giudiziaria debba ottenere la prescritta autorizzazione in tutte le fasi in cui opera, sia autonomamente ex artt. 347, comma 1, e 348, comma 1, c.p.p. sia dopo l’intervento del Pubblico Ministero ex art. 348, comma 3, c.p.p..
Le sole forme di comunicazione ammesse divengono, dunque, quelle ufficiali, con assunzione in capo allo stesso Procuratore della Repubblica della responsabilità in ordine alla scelta di attivare o meno la via, a maggiore risonanza, della conferenza stampa in ragione di specifiche ragioni di interesse pubblico che sono oggetto di un peculiare onere motivazionale.
In ordine all’an della comunicazione, lo stesso articolo subordina l’ammissibilità della “diffusione di informazioni sui procedimenti penali” a presupposti di stretta necessità (della diffusione stessa) per la prosecuzione delle indagini ovvero alla ricorrenza di “altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Si introduce anche un vincolo contenutistico all’informazione, precisando che le informazioni fornite alla stampa debbano chiarire la fase in cui il procedimento si trova e assicurare, in ogni caso, il diritto dell’indagato e dell'imputato a non essere indicati come colpevoli fino a condanna definitiva. Come rileva il Consiglio superiore della Magistratura nel parere del 3 novembre 2021 sullo schema di decreto, il riferimento alla fase procedimentale è particolarmente importante per far comprendere, soprattutto in sede d’indagini preliminari, l’eventuale provvisorietà e transitorietà di alcuni atti e conclusioni.
Si vieta infine l’assegnazione ai procedimenti penali pendenti, nell’ambito delle comunicazioni ufficiali, di denominazioni lesive della presunzione di innocenza. Si tratta di un criterio di sobrietà comunicativa (applicabile anche alle comunicazioni ufficiali della polizia giudiziaria) che, se osservato nella lettera e nella ratio, potrebbe essere utile a contenere, di riflesso, anche la tendenza al sensazionalismo che spesso caratterizza la cronaca giudiziaria.
Naturalmente, resta valida per i giornalisti la possibilità di acquisizione di specifiche informazioni sul procedimento penale, non coperte da segreto investigativo, in virtù di istanza di accesso ex art. 116 c.p.p. (ancorata al parametro dell’interesse), valorizzata in particolare da alcuni uffici giudiziari. La Procura di Napoli, ad esempio, con ordine di servizio n. 118/2019 (e dapprima la Procura di Torino, con provvedimento dell’8 ottobre 2018), ha chiarito che l’ostensione di provvedimenti non coperti da segreto investigativo, agli organi di informazione che ne facciano richiesta, deve considerarsi «funzionale ad assicurare, da un lato, il corretto esercizio del diritto di cronaca e, dall’altro, il soddisfacimento dell’interesse pubblico ad un’informazione obiettiva e trasparente in relazione a fatti di rilevanza ed interessi collettivi, fermo restando il divieto di pubblicazione del testo dei provvedimenti giudiziari di cui all’art. 114 c.2 c.p.p.»[5]. Può, anzi, ragionevolmente ipotizzarsi che proprio la limitazione dei casi e dei modi nei quali è ammessa la comunicazione da parte degli uffici giudiziari, valorizzi ulteriormente lo strumento dell’accesso, da parte dei giornalisti, agli atti procedimentali ex art. 116 c.p.p. Questa soluzione potrebbe contribuire, in particolare, ad evitare il rischio che al “possibile arbitrio della parola si sostituisca un “arbitrio del silenzio”, che sottragga, per tempi più o meno lunghi, alla conoscenza ed al controllo dell’opinione pubblica informazioni non coperte da alcun segreto, che vengono mantenute riservate solo per valutazioni di opportunità compiute dagli inquirenti”[6].
In linea generale, attraverso la riduzione delle possibilità di comunicazione “della giustizia sulla giustizia” ai soli canali ufficiali e formali, si riduce significativamente “il rischio di trascinamento del pubblico ministero in sistemi di relazione non coerenti con il suo statuto di imparzialità[7]”.
2.3. Garanzie e rimedi procedimentali
L’articolo 4 interviene, invece, sulla dimensione processuale della presunzione di innocenza, rendendola più espressamente criterio di redazione anche degli atti processuali[8]. Con uno specifico articolo (il 115-bis, inserito tra le disposizioni generali del Libro II del codice di rito e rubricato "Garanzia della presunzione di innocenza"), si vieta l’indicazione come colpevole dell’indagato o dell’imputato, prima della condanna definitiva, nei provvedimenti adottati nel corso del procedimento, diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale e dagli atti con i quali il Pubblico Ministero tende a dimostrare la colpevolezza del soggetto.
Il rimedio attivabile in caso di ritenuta violazione del suddetto divieto consiste nell’istanza di correzione, necessaria alla salvaguardia della presunzione d’innocenza, da presentare- a pena di decadenza entro dieci giorni dalla conoscenza del provvedimento- al giudice procedente (il gip per le indagini preliminari), che provvede con decreto motivato entro 48 ore. Il decreto, che è notificato all'interessato e alle altre parti e comunicato al Pubblico Ministero, è opponibile (a pena di decadenza entro dieci giorni) al Presidente del Tribunale o della Corte (ovvero, ove siano opposti provvedimenti di questi ultimi, rispettivamente, al presidente della Corte d’appello o al Presidente della Corte di cassazione), che decide “con decreto senza formalità di procedura”. La norma è stata così modificata, rispetto alla versione originaria del decreto (che prevedeva l’opposizione dinanzi alla stessa autorità procedente) sulla scorta dei rilievi contenuti nei pareri parlamentari, al fine di assicurare maggiore conformità alla garanzia, di cui all’art. 10 della direttiva, di effettività del ricorso attivabile in caso di violazione.
Il rimedio endo-procedimentale introdotto dal d.lgs. 188 si aggiunge, dunque (escludendone, per il principio di specialità, la concorrenza) a quello previsto in via generale dall’art. 14 del d.lgs. 51 del 2018 per la rettifica, limitazione (del trattamento) o cancellazione di dati (di “chiunque”) illegittimamente trattati nell’ambito del procedimento penale. Prima dell’introduzione, da parte del d.lgs. 188, dello specifico rimedio su descritto, la procedura (modulata su quella per la correzione degli errori materiali) di cui al citato art. 14 ben avrebbe potuto, infatti, prestarsi alla rettifica del dato (trattato appunto illegittimamente perché in violazione della presunzione di innocenza) relativo a un’anticipazione di giudizio di colpevolezza dell’indagato o dell’imputato.
Come ulteriore criterio di continenza espressiva, relativamente agli atti (ad esempio quelli in materia cautelare) che presuppongono la valutazione di prove o di indizi di colpevolezza, si impone di limitare i riferimenti alla colpevolezza dell'indagato o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti previsti dalla legge per l'adozione del provvedimento stesso.
In ottemperanza ai rilievi delle Commissioni parlamentari, conformemente all’articolo 7 della direttiva sul diritto al silenzio e a non autoincriminarsi, l’art. 4, comma 1, lettera b) del d.lgs. 188 novella l’articolo 314 c.p.p. precisando che l’esercizio del diritto al silenzio ex art. 64, comma 3, lett. b), c.p.p. non incide sul diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. La previsione supera, dunque, un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui «la condotta dell'indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell'accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, poiché è onere dell'interessato apportare immediati contributi o riferire circostanze che avrebbero indotto l’autorità giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare» (cfr., Cass. pen., 18 dicembre 2020, Gallo, Ced Cass. n. 280082; Cass. pen., 30 maggio 2018, Stamatopoulou, ivi, n. 273744; Cass. pen. 29 novembre 2011, Messina e altro, ivi, n. 251325). La norma valorizza, dunque, gli effetti pur extraprocessuali del diritto al silenzio, sviluppando così in senso ulteriormente garantista le norme della direttiva.
L'articolo 4 novella, inoltre l’articolo 329 c.p.p. limitando- in aderenza alla previsione dell'articolo 4, par. 3, della direttiva -ai soli casi di “stretta” necessità per la prosecuzione delle indagini l’ammissibilità della pubblicazione di singoli atti relativi alle indagini preliminari in deroga al segreto investigativo. La norma è evidentemente funzionale a ridurre quanto più possibile l’ammissibilità della discovery di atti interni ad indagini ancora in corso e, dunque, “potenzialmente idonei a fornire [ dell’indagato] un’immagine in contrasto con la presunzione di innocenza” (parere CSM, cit.).
Viene inoltre modificato l’articolo 474 c.p.p., in ordine al diritto dell'imputato di assistere all'udienza libero nella persona, anche se detenuto, salve in questo caso le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenza. Sul punto, il d.lgs. 188 precisa che le eventuali cautele sono disposte dal giudice con ordinanza, sentite le parti e devono essere rimosse con revoca quando ne siano cessati i presupposti. Si impone, poi, di garantire sempre il diritto dell'imputato e del difensore (dunque anche laddove il primo sia allontanato dal secondo perché sottoposto a misure restrittive) di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili.
Tali ultime modifiche muovono dall’esigenza di garantire una maggiore conformità al diritto – sancito dall’articolo 5 della direttiva in capo all’imputato e all’indagato- di non essere presentato come colpevole, in tribunale o in pubblico, mediante il ricorso a misure di coercizione fisica. Si tratta di un’implicazione delicatissima della presunzione d’innocenza, che attiene a una prassi – più volte denunciata dal Garante per la protezione dei dati personali, nei confronti degli organi d’informazione ma anche, talora, della stessa polizia giudiziaria- fortemente lesiva della dignità, anche in ragione dell’eco mediatica che hanno le riprese della persona soggetta a misure restrittive[9]. I divieti già previsti agli articoli 114, c.6-bis, c.p.p., 42-bis, comma 4, l. 354 del 1975 e 8, c.3 delle Regole deontologiche relative al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica non hanno, infatti, sinora rappresentato un argine significativo alla tendenza alla spettacolarizzazione della cronaca giudiziaria, che si esprime anche mediante l’esibizione dell’indagato o dell’imputato in vinculis.
La previsione si lascia comunque apprezzare anche e soprattutto perché, procedimentalizzando forma e presupposti per l’adozione del provvedimento limitativo della libertà personale dell’imputato in udienza, impone una precisa e motivata assunzione di responsabilità dell’autorità procedente, nel confronto con le parti, in ordine alla disposizione di mezzi coercitivi. Ciò dovrebbe servire a eradicare una prassi secondo cui tali scelte (e in particolare la collocazione dell’imputato nelle gabbie o in “banchi dedicati” che ancora caratterizzano molte aule di giustizia) sono spesso assunte, secondo automatismi dettati da mere esigenze facilitative, dagli agenti di scorta.
Fra l’altro, la circostanza che l’intero intervento normativo in esame riconosca specificamente come lesivo del diritto dell’imputato ogni intervento illegittimamente lesivo della presunzione di innocenza, comporterà probabilmente effetti espansivi, interni al processo, dell’eventuale accertamento, anche successivo, di tale lesione. Con riferimento alla norma sui mezzi coercitivi in udienza, ad esempio, l’accertamento, anche successivo, dell’assenza di ragioni legittimanti l’adozione degli stessi potrebbe determinare conseguenze processuali non irrilevanti. La naturale forza espansiva del concetto di “intervento” dell’imputato, di cui all’art. 178, comma 1, lett. c) c.p.p. sembra, infatti, poter includere il momento decisivo della sua partecipazione all’udienza, di cui all’art. 474 c.p.p. Del resto, anche la previsione del diritto dell'imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l'impiego di strumenti tecnici idonei- in modo analogo a come oggi previsto in caso di partecipazione all’udienza da remoto- induce a ritenere leso il diritto di assistenza dell’imputato da parte del suo difensore, ancora una volta tutelato dall’art. 178, comma 1, lett. c) c.p.p., laddove non gli sia garantita la possibilità di consultazione riservata.
Anche sotto questo profilo, dunque, il d.lgs. 188 potrebbe indurre, effettivamente, un mutamento importante nella comunicazione sulla giustizia; non solo per le disposizioni introdotte ma anche per le ragioni che sottendono e la “cultura” che intendono promuovere.
In un contesto di costante trasposizione in rete non soltanto dell’informazione, ma anche della stessa vita, pubblica e privata, uno dei maggiori rischi del “trial by media” è infatti quello di indurre una generale sottovalutazione delle garanzie proprie del processo penale: dalla presunzione d’innocenza al regime di pubblicità degli atti, volto a coniugare esigenze informative, investigative e neutralità conoscitiva del giudice. Come osserva Nello Rossi, infatti, i “pregiudizi” (certo alimentati dalla mediatizzazione dei processi) rischiano di “sminuire, offuscare, compromettere il valore delle procedure legali di accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità (…). Come la CEDU ha più volte avvertito «il costante spettacolo di pseudo-processi condotti dai media potrebbe nel lungo periodo, avere nefaste conseguenze quanto all’accettazione, da parte dell’opinione pubblica, dei tribunali ufficiali come reale e unico foro per la determinazione della colpevolezza o dell’innocenza dei singoli”[10]. La rete rischia, in altri termini, di divenire quel giudice “che infligge ciecamente destino” cui alludeva Walter Benjamin.
Naturalmente, non saranno solo le norme a poter garantire un equilibrio, democraticamente sostenibile, tra diritto di (e all’) informazione, dignità dei soggetti coinvolti nel processo, presunzione d’innocenza ed esigenze di accertamento dei reati. Molto dipenderà da come, magistratura e organi d’informazione, interpreteranno il loro ruolo, prescindendo la prima dalla ricerca del consenso e i secondi da quello che Luciano Violante definisce “giornalismo per trascrizione”. Ma alla promozione di questa cultura (della giurisdizione e dell’informazione e del loro rapporto reciproco), norme quali quelle introdotte dal decreto sono certo funzionali.
* le opinioni contenute nel contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza
[1]La presunzione d’innocenza si riferisce, già nella direttiva, esclusivamente alle persone fisiche, ritenendone allo stato attuale “prematura” – precisa il Considerando 14- l’estensione alle persone giuridiche.
[2] N. Rossi, Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questionegiustizia.it
[3]A. SPATARO, “Processi in tv, troppi magistrati tra i nuovi “mostri”, in Il dubbio, 5 novembre 2021; dello stesso Autore v. anche il contributo sul d.lgs. 188 pubblicato su questa Rivista.
[4] Quest’onere procedurale è stato introdotto nella versione finale del decreto legislativo, in recepimento di specifico rilievo contenuto nel parere delle Commissioni parlamentari.
[5] L’ordine di servizio indica, inoltre, quali parametri in base ai quali valutare la meritevolezza di accoglimento dell’istanza i seguenti: il rilascio della copia non deve interferire con le investigazioni in corso e con l’esercizio dell’azione penale e deve avere luogo nel rispetto del segreto delle indagini e del principio di riservatezza; ii) il rilascio della copia non deve ledere la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi; iii) il rilascio della copia è effettuato evitando ogni ingiustificata comunicazione di dati sensibili ed assicurando l’osservanza del divieto di diffusione delle generalità di minori e, più in generale, dell’obbligo della loro protezione; iv) il rilascio della copia è effettuato evitando ogni ingiustificata diffusione di notizie ed immagini potenzialmente lesive della dignità e della riservatezza delle vittime e delle persone offese dai reati, in particolari se minori.
[6]N. Rossi, op.loc.ult.cit.
[7]G. MELILLO, La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero, in questa Rivista.
[8]Riferimenti in questo senso erano comunque contenuti già nelle Linee guida del CSM dell’11 luglio 2018.
[9]Cfr., ad es., Garante per la protezione dei dati personali, provv. n. 80 del 2021, nonché Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, circolare 19.12.2017, diretta tra l’altro alle autorità di polizia, secondo cui “le SS.LL. vorranno assicurare – impartendo ogni opportuna disposizione agli uffici e ai comandi dipendenti – la più scrupolosa osservanza del divieto di indebita diffusione di fotografie o immagini di persone arrestate o sottoposte ad indagini nell’ambito di procedimenti la cura dei quali competa a questo Ufficio, segnalando preventivamente le specifiche istanze investigative o di polizia di prevenzione ritenute idonee a giustificare eventuali, motivate deroghe al principio sopra richiamato”.
[10] Il diritto a non essere “additato” come colpevole prima del giudizio. La direttiva UE e il decreto legislativo in itinere, in Questionegiustizia.it
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