ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Machina delinquere non potest*
di Costanza Corridori
Quarta rivoluzione industriale: il dominio della digitalizzazione e dell’automazione. L’intelligenza artificiale entra nelle nostre vite e nei vari ambiti della società: che impatti può avere nel mondo del diritto penale?
Cosa significa intelligenza? Esiste una differenza tra un cervello elettronico e uno umano? Cosa accadrebbe qualora un robot causasse la morte di un individuo? L’algoritmo può commettere illeciti? Chi ne risponderebbe penalmente?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi che tale articolo mira a sottolineare. Nonostante la rapidità del progresso tecnologico ci permetta oggi di affrontare tematiche come le auto a guida autonoma, i robot chirurghi e le chatbot, il diritto (soprattutto in ambito penale) non è ancora riuscito ad adattarsi al cambiamento culturale: non esistono normative idonee a disciplinare la responsabilità penale in caso di reati commessi dall’intelligenza artificiale.
I rischi sono molti, soprattutto per i diritti fondamentali degli esseri umani: per questo, l’articolo mira a fornire un’informazione generale sull’evoluzione storico-tecnologica realizzatasi fino ad oggi in tema di intelligenza artificiale, per poi passare alla trattazione della tesi di Gabriel Hallevy, che ha come obiettivo l’introduzione di una terza categoria giuridica (la personalità elettronica) da affiancare alla persona fisica e giuridica. Infine, si affronterà specificamente il problema della interazione tra l’intelligenza artificiale e il diritto penale, principalmente in tema di responsabilità stradale, di responsabilità medica e di cybercrime “in senso ampio”.
Lo scopo dell’articolo non è quello di fornire una risposta univoca ai quesiti che, inevitabilmente, si pongono in relazione all’intelligenza artificiale. L’obiettivo è far riflettere il lettore e fornire un quadro di analisi chiaro per spingere il giurista verso un futuro non molto lontano in cui esseri umani e tecnologia collaboreranno allo scopo di migliorare la vita degli individui.
Sommario: 1. “Le macchine sono in grado di pensare?” – 2. Tra scienza e dato normativo: la problematica definizione dell’intelligenza artificiale – 3. La personalità elettronica: un terzo genus? – 4. Machina delinquere non potest – 5. I reati “robotici” – 5.1 Le self-driving cars e i reati di omicidio e lesioni stradali – 5.2 L’uso dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario e la responsabilità colposa del medico in caso di errore – 5.3 I cybercrime in senso ampio realizzati attraverso l’intelligenza artificiale – 6. Il diritto penale della società del rischio
1. “Le macchine sono in grado di pensare?”[1]
Si tratta di una delle frasi più celebri di Alan Turing: il padre dell’informatica. Siamo giunti in quella che viene comunemente denominata la quarta rivoluzione industriale, dominata da robot e macchine pensanti. Tali apparecchi informatici ed elettronici ci supportano e aiutano nella quotidianità, dagli assistenti vocali come Alexa o Siri, agli elettrodomestici che comunicano tra di loro, passando per le vetture dotate di guida autonoma.
Se di punto in bianco tutti i sistemi dotati della cosiddetta intelligenza artificiale dovessero sparire, la società rimarrebbe paralizzata. Molte attività, prima tipicamente manuali, sono state ora interamente automatizzate. Le macchine hanno sostituito gli esseri umani nel mondo del lavoro ma, al contempo, la tecnologia ha generato una richiesta continua di personale altamente specializzato che si possa occupare di realizzare ed educare l’algoritmo di machine learning contenuto all’interno di un software di intelligenza artificiale.
2. Tra scienza e dato normativo: la problematica definizione dell’intelligenza artificiale
Di recente capita sempre più spesso di assistere a conferenze di giuristi in cui si sente parlare di algoritmi, di digitalizzazione, di software e di automatizzazione, in cui si tratta di giudici robot, della integrale sostituzione degli avvocati con dei sistemi per il computer, ovvero di cybercrime, di chatbot e di deep-fake. Il mondo dell’informatica sta entrando nelle varie branche del diritto e non solo: in ambito sanitario si possono osservare robot che operano i pazienti sotto la supervisione del chirurgo[2] e algoritmi che possono suggerire al medico la migliore diagnosi e cura per il singolo soggetto. [3]
Sembra la descrizione di un mondo idilliaco in cui macchine intelligenti e esseri umani possono convivere supportandosi a vicenda.
Ma cosa succede se un veicolo autonomo dotato di intelligenza artificiale investe un pedone? Chi risponde se il robot chirurgo sbaglia l’approccio medico? E se una chatbot inizia a diffamare un utente su una piattaforma social?
Non stiamo parlando di film fantascientifici, ma di realtà attuali che presto il legislatore dovrà affrontare al fine di adottare una disciplina di diritto penale che sia idonea a tutelare i vari interessi in gioco.
La prima difficoltà riscontrabile dal legislatore e dai giuristi in generale risulta essere l’assenza di una definizione scientifica universalmente accettata di cosa sia l’intelligenza artificiale che comporta di conseguenza difficoltà di definizione normativa.
La data di nascita (convenzionale) dell’intelligenza artificiale è il 1955 quando il matematico John McCarthy introdusse tale concetto al convegno al Dartmounth College di Hanover, New Hamphsire,[4] e affidandoci alla definizione fornitaci dal matematico statunitense Marvin Minsky, anch’esso presente al convegno: l’intelligenza artificiale è “la scienza di far fare alle macchine cose che richiederebbero intelligenza se fatte dall'uomo.”[5] In realtà, l’evoluzione scientifica iniziò secoli prima, dall’abaco del 400 a.C., e proseguì oltre, fino ad arrivare al robot umanoide che forse verrà lanciato quest’anno da Elon Musk[6].
La straordinarietà dell’intelligenza artificiale è dovuta al fatto che tali sistemi hanno la capacità di interagire con il mondo esterno grazie ad un software basato su un algoritmo di autoapprendimento che trasforma gli input appresi dall’esterno in output permettendo alla macchina di migliorarsi autonomamente imparando dall’esperienza potendosi quindi discostare, in modo non sempre prevedibile, da quanto programmato dal suo creatore. L’oscurità dell’algoritmo gli garantisce la definizione di black box algorithm.
Nel mondo del diritto, queste difficoltà si riflettono a cascata, infatti, ad oggi, l’unica parvenza di testo vincolante risulta essere la Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo del 21 aprile 2021[7] che ha come obiettivo la correttezza, la sicurezza e la trasparenza dell’intelligenza artificiale dividendola in base a due livelli di rischio: intollerabile (e vietato), perché in contrasto con i valori dell’Unione Europea e ad alto rischio, permessa nel rispetto di alcuni requisiti necessari allo scopo di garantire la sicurezza nell’uso. La Proposta, però, inoltre, non tratta di aspetti di diritto penale afferenti all’intelligenza artificiale che ad oggi non viene disciplinata da nessuna norma specifica nonostante la stessa si stia facendo sempre più spazio in ambito processuale e sostanziale. Infatti, in fase di indagini, nelle operazioni polizia predittiva e di intercettazioni, l’intelligenza artificiale ricopre un ruolo di fondamentale ausilio per le operazioni di prevenzione degli illeciti e di raccoglimento delle prove; in fase di giudizio, l’intelligenza artificiale viene utilizzata (soprattutto negli Stati Uniti d’America[8] e in Cina) come sostegno e come sostituto del giudice nelle sue decisioni attraverso l’utilizzo di algoritmi per la valutazione della pericolosità sociale (non ancora ammessi in Italia per i limiti costituzionali dovuti al rischio di oscurità della motivazione e della non trasparenza della decisione); in sede di digitalizzazione della giustizia, l’intelligenza artificiale risulta risolutiva per lo scopo di velocizzare la ricerca di documenti e di facilitare l’accesso alle fonti; infine, in ambito di diritto penale sostanziale, l’intelligenza artificiale può rilevare come strumento, vittima o autore del reato (nel caso in cui venisse accettata la possibilità di riconoscere ai robot la personalità elettronica, di cui tratteremo a breve).
L’evoluzione porta con sé aspetti fortemente positivi ma al contempo, i rischi sono sempre dietro l’angolo. Proprio per questo, parlando di automazione è importante trattare del rapporto tra gli illeciti e l’intelligenza artificiale per comprendere chi debba essere considerato come penalmente responsabile per i reati commessi da tale tecnologia.
3. La personalità elettronica: un terzo genus?
Alla base di tale argomento sussiste una semplice e al contempo complessa domanda apparentemente estranea alle questioni giuridiche: cosa significa essere intelligenti? Le macchine possono realmente essere considerate tali? O si tratta di una mera razionalità connotata da un’assenza di libero arbitrio?
Le teorie di Gabriel Hallevy[9], un giurista israeliano, connesse all’ipotesi di istituire una personalità elettronica per i robot da affiancare alle comuni categorie dei soggetti di diritto (persona fisica e giuridica) al fine di affermare la sussistenza di una responsabilità penale in capo ai sistemi di intelligenza artificiale, vengono criticate[10] da questioni fondate essenzialmente sulla impraticabilità dell’analogia tra la mente umana e quella robotica, sul concetto di libero arbitrio e sull’effettiva coscienza e volontà di movimento posseduta da un sistema intelligente.
Secondo Hallevy le azioni poste in essere dall’intelligenza artificiale possono essere paragonate a quelle umane in quanto i robot sono dotati di una fisicità che gli permette di muoversi nello spazio e di modificare l’ambiente circostante e, inoltre, essi sono mossi verso un obiettivo; dunque, i robot sono dotati di autonomia e razionalità che gli consente di rappresentarsi e di volere un determinato risultato, In tal modo si va a riconoscere la soddisfazione dei requisiti oggettivi e soggettivi del reato. Considerando tale teoria positiva, sarebbe così possibile far rispondere direttamente l’intelligenza artificiale dotata di personalità elettronica delle azioni illecite che va a realizzare.
In realtà, per quanto l’algoritmo si basi sul machine learning (che permette al sistema di apprendere dall’ambiente e di modificare il proprio comportamento esteriore), allo stato attuale della tecnica, i robot sono fortemente vincolati all’algoritmo che li domina, non hanno possibilità di decidere in modo pienamente autonomo e cosciente le azioni da intraprendere. Risultano dunque entità determinate, e quindi l’elemento soggettivo riscontrato è solo apparente: comportarsi come un essere umano non significa essere un essere umano.
4. Machina delinquere non potest
Dunque, risulta veritiero il brocardo “machina delinquere non potest” (formulato sulla falsa riga di quello prima applicabile alle società)?[11] Può un sistema intelligente essere considerato responsabile per gli illeciti che realizza?
Ad oggi sembra possibile dare una risposta affermativa al primo quesito: i sistemi intelligenti non sono ancora abbastanza autonomi da poter essere considerati come responsabili delle proprie azioni. Questo non può però affermarsi come certezza per il futuro, infatti, vista la rapidità di evoluzione della tecnologia, non è possibile escludere che in pochi anni l’abilità delle macchine e la loro autonomia superi o equivalga quella dell’essere umano.
Nell’attesa, per i reati commessi dai robot intelligenti, che non possono essere considerati come titolari di diritti e di doveri e che dunque non possono essere soggetti al diritto penale, siamo chiamati a valutare le possibili forme di responsabilità in capo a soggetti umani e quindi in base agli attuali canoni normativi in tema di responsabilità penale: la sussistenza di una posizione di garanzia in capo ad un soggetto specifico, un nesso causale tra l’azione della persona fisica e l’evento realizzato dalla macchina e soprattutto, l’esistenza di un elemento soggettivo, almeno al livello della colpa, al fine di evitare di ricadere in forme di responsabilità oggettiva.
Ipotizzare una responsabilità in capo al programmatore o utilizzatore, se si procede sulla scorta di automatismi, sconta il rischio di violare il principio di personalità e colpevolezza della responsabilità penale, come sancito dall’articolo 27 della Costituzione, ricadendo in inammissibili ipotesi di responsabilità oggettiva che il diritto penale non ammette. Dunque, risulta necessario analizzare le azioni del robot, i cui meccanismi sono spesso oscuri (come una black box), per valutare se le persone fisiche che lavorano e agiscono intorno, tramite e attraverso i sistemi intelligenti, possano nel caso concreto prevedere a priori la realizzazione dell’evento lesivo.
Sarà configurabile, ovviamente, una responsabilità di tipo doloso in capo al soggetto utilizzatore o programmatore che utilizzi o programmi il sistema intelligente allo scopo di commettere illeciti.
Più complesso il tema della responsabilità colposa dell’operatore, in quanto, al fine di evitare di ricadere in forme di responsabilità oggettiva, sarà necessario valutare la sussistenza di un controllo significativo del programmatore sull’operato della macchina. Infatti, in base all’articolo 41 co.2 c.p., l’azione autonoma dell’intelligenza artificiale rientra nel concetto di causa sopravvenuta che rompe il nesso di causalità tra l’azione di programmazione posta in essere dal creatore dell’algoritmo e l’evento lesivo realizzato dal robot. Dunque, la persona fisica risponderà solo se possiede, in concreto, il potere e il dovere di evitare l’evento (articolo 40 cpv. c.p.).
In generale, invece, nel caso di responsabilità colposa del programmatore e del produttore, qualora gli stessi abbiano messo in commercio un robot intelligente consapevoli dei suoi rischi senza fare nulla per impedirli, si applicheranno, non sempre in modo chiaro e lineare, i criteri mutuati dalla responsabilità da prodotto difettoso (Direttiva 85/374/CEE)[12]. Allo stesso modo, non risulta semplice individuare un unico soggetto direttamente responsabile, in quanto, alla realizzazione di ogni singolo sistema intelligente collaboreranno un numero consistente di programmatori, ingegneri, scienziati, produttori e società.
5. I reati “robotici”
Tali disquisizioni possono risultare apparentemente solo teoriche e senza risvolti pratici. Proprio per questo è auspicabile, adesso, entrare nel vivo dei reati e del diritto penale così da comprendere a pieno che impatto l’intelligenza artificiale possa avere nella vita degli esseri umani.
Focalizzando, quindi, la nostra attenzione solo su tre tipologie di reati “robotici” (l’omicidio e le lesioni colpose stradali, la responsabilità medica e i cybercrime in senso ampio) è già possibile astrattamente immaginare le ricadute imponenti che l’intelligenza artificiale può avere sui diritti fondamentali degli individui e sui beni giuridici tutelati dall’ordinamento.
5.1. Le self-driving cars e i reati di omicidio e lesioni stradali
Infatti, con i veicoli autonomi i dubbi relativi alla responsabilità per i danni arrecati da un’autovettura non guidata da un essere umano, risultano notevoli: la possibilità di un controllo ex ante ed uno realizzato dal “guidatore-passeggero” persona fisica, l’ipotesi di realizzazione di un algoritmo del rischio che scelga lui discrezionalmente quale bene giuridico tutelare maggiormente e il tema dell’affidabilità dei sistemi intelligenti (connesso alla fiducia che la collettività può dargli). Difatti le autovetture autonome possono essere suddivise in sei livelli di automazione (da “zero” a “cinque”).[13] Fino al livello “due” non si riscontrano particolari problematiche relative all’individuazione del soggetto responsabile per i reati di cui agli articoli 589 bis e 590 bis c.p. perché non sussiste alcuna sostituzione del guidatore da parte dell’intelligenza artificiale. Ciò perché, finché è presente un guidatore effettivo sul veicolo sarà lui il titolare dell’obbligo di prudenza, di controllo del veicolo e di rispetto del codice della strada e di conseguenza sarà lui a dover essere considerato come penalmente responsabile delle azioni di omicidio o lesioni gravi o gravissime dovute alla violazione del codice della strada. Le problematiche si iniziano a scorgere a partire dal livello “tre”, ossia le vetture semi autonome in cui parte delle attività normalmente poste in essere dal guidatore, vengono delegate all’intelligenza artificiale. In tal caso, il guidatore continua ad essere presente sul veicolo e di conseguenza sarà lui a dover essere considerato come responsabile ma risulta complesso valutare l’effettivo controllo sull’autovettura che il soggetto possa esercitare: si rischia infatti di ricadere in una mera fictio iuris. Al livello “quattro” si può finalmente parlare di self-driving car in quanto il guidatore interviene solo eventualmente in situazioni di rischio, tutto il resto è delegato all’intelligenza artificiale. A tale livello, considerare il guidatore come il soggetto responsabile comporterebbe un passaggio da una condotta attiva (di guida non conforme) a una condotta passiva (di omesso controllo sul veicolo autonomo). Infine, nelle autovetture di livello “cinque”, la figura del guidatore scompare del tutto, trasformandosi in un mero passeggero. Di conseguenza, qualora dovessimo giungere a tale livello di automazione, il legislatore dovrà necessariamente valutare nuove ipotesi di responsabilità o adattare le attuali norme sulla scorta, ad esempio, della responsabilità del produttore in caso di difetto del prodotto.
5.2. L’uso dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario e la responsabilità colposa del medico in caso di errore
Passando all’ambito medico e sanitario, le scoperte tecnologiche permettono ai pazienti di riprendere la mobilità di arti paralizzati[14], di controllare il tremore del Parkinson e di mantenere sotto controllo i parametri vitali del soggetto al fine di somministrargli correttamente i farmaci. Inoltre, gli algoritmi intelligenti supportano il medico nelle sue decisioni e diagnosi. Ma in caso di errore? Le vigenti fattispecie criminose risultano idonee ad affrontare anche tali situazioni?
Infatti, i rischi di bias dovuti a dati discriminatori che si ripercuotono sulla salute dei pazienti sono notevoli e questi possono andare ad influenzare le decisioni del medico ledendo dunque i diritti fondamentali dei soggetti.
In caso di errori sanitari, basandoci sull’articolo 590 sexies c.p., per come interpretato dalla Sentenza della Cassazione Penale a Sezioni Unite n. 8770 del 22 febbraio 2018[15], l’operatore sanitario sarà esonerato da responsabilità nel caso di imperizia lieve in fase esecutiva nonostante il rispetto delle linee guida pubblicate ai sensi di legge e delle buone pratiche clinico assistenziali adeguate al caso concreto. [16]
La domanda da porsi è quindi se esistano linee guida idonee a regolare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito sanitario. Purtroppo, ad oggi non sono presenti e infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel giugno del 2021 ha realizzato un report intitolato “Ethics and Governance of Artificial Intelligence for Health” [17] in cui spinge gli Stati ad adottare delle linee guida mirate per tali situazioni andando ad elencare i principi da dover rispettare al fine di tutelare i vari interessi in gioco. All’interno del documento, suddiviso in nove sezioni, viene fornita una definizione, di intelligenza artificiale e di big data sanitari, utile per individuare le principali applicazioni di tale tecnologia in medicina (come la ricerca, la gestione dei sistemi sanitari e il monitoraggio della salute pubblica). Vengono poi trattate le leggi e i principi (tutela dei diritti fondamentali, protezione dei dati personali, norme sull’utilizzo dei dati sanitari), anche di stampo etico, da dover rispettare nell’utilizzo della tecnologia innovativa. Infine, il report fornisce linee guida pratiche che dovrebbero essere seguite da parte di programmatori, ministeri della salute e operatori sanitari.
A seguito di tale analisi, l’OMS, nel rispondere alle domande sulla responsabilità del medico che si sia affidato al suggerimento proposto dal dispositivo intelligente, successivamente tradottosi in un errore, sottolinea le problematiche relative sia all’eccessiva limitazione sia all’eccessiva liberalizzazione dell’utilizzo dei sistemi intelligenti. Infatti, qualora si dovesse penalizzare il medico a causa di un errore dovuto all’essersi affidato al dispositivo intelligente, si limiterebbe fortemente l’evoluzione scientifica e tecnologica in abito sanitario che frenerebbe lo sviluppo di tali tecnologie in campo medico. Al contempo, qualora si giustificasse sempre il medico che pone in essere un’azione lesiva sul paziente, per il solo fatto di essersi affidato all’intelligenza artificiale, si causerebbe un’eccessiva automatizzazione delle scelte mediche.
Sarebbe dunque opportuno realizzare delle linee guida accreditate specifiche per l’intelligenza artificiale per far si che il medico possa affidarsi ad esse potendosi così muovere all’interno di binari stabiliti e certi per non rischiare di ricadere in responsabilità dovendosi affidare a linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali frammentarie e non aggiornate. Allo stato attuale sembra non esserci spazio per un’esenzione della responsabilità dell’operatore sanitario dovuta ad errore del sistema intelligente, in quanto non è possibile imputarla al robot essendo effettivamente un mero strumento nelle mani del medico; salvo, naturalmente, ipotesi di responsabilità da prodotto difettoso nel caso in cui i danni siano dovuti ad un difetto del software.
In tali due tipologie di reati (omicidio e lesioni personali stradali e responsabilità medica), il soggetto (guidatore o medico) non agisce con lo scopo di commettere un reato, ma l’evento lesivo si realizza comunque: bisognerà quindi valutare, per il guidatore, l’osservanza delle disposizioni dettate in materia di circolazione stradale, e per il medico, il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziale. Solo nel caso in cui tali norme cautelari non vengano rispettate allora potrà essere ipotizzata una responsabilità colposa di tali soggetti.
5.3. I cybercrime in senso ampio realizzati attraverso l’intelligenza artificiale
Da ultimo, il tema dei reati informatici. La diffamazione e le fake-news rischiano di essere automatizzate tramite chatbot intelligenti che comunicano con gli utenti sui social network e imparano dai loro atteggiamenti: come avvenne nel 2016 con la chatbot “Tay – Thinking About You”[18] che attraverso il sistema di machine learning imparò dagli utenti della piattaforma “Twitter” a diffondere messaggi di odio e di discriminazione e per questo nell’arco di pochi giorni fu tolta dal mercato.[19] Inoltre, un fenomeno alquanto preoccupante riguarda il deep-fake, l’abilità di alcuni sistemi intelligenti di realizzare video falsi raffiguranti persone vere: possono consistere in falsi discorsi politici o in falsi video pornografici andando così a “spogliare” virtualmente un soggetto non consenziente. [20] È abbastanza evidente l’impatto che questo potrebbe avere sull’informazione e sulla vita personale delle vittime: una nuova frontiera del revenge porn. Difatti, il deep-fake è considerabile come una dual-use technology, in quanto può essere utilizzato sia per scopi leciti (come la realizzazione di film o videogiochi) che per scopi illeciti potendo rientrare in differenti fattispecie penali. Analizzando, però, attentamente l’articolo 612 ter c.p. punisce la diffusione di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso del soggetto raffigurato, è facile rendersi conto di come la norma non faccia alcun riferimento ai contenuti non reali e dunque, nel rispetto del principio di tassatività della legge penale, le azioni di diffusione di immagini sessualmente esplicite senza il consenso della vittima ma realizzate attraverso la tecnica del deep-fake, nonostante siano comunque fortemente lesive della sfera intima del soggetto offeso, non potrebbero rientrare all’interno di tale fattispecie di reato. [21] Diametralmente opposta è invece la situazione relativa all’articolo 600 quater 1 c.p. che punisce la pornografia virtuale intesa come la realizzazione di video falsi raffiguranti minori andando ad anticipare la tutela della loro libertà sessuale. Infatti, tale fattispecie contempla la tecnica del deep-fake in quanto per video falsi si intendono anche le manipolazioni delle immagini e i fotomontaggi.
Dunque, sarebbe auspicabile un intervento legislativo che possa tutelare maggiormente le vittime di tali azioni lesive commesse con dolo (a differenza della responsabilità medica o per omicidio e lesioni stradali).
6. Il diritto penale della società del rischio
Concludendo, quando si sente parlare di tali sistemi, sembra sempre che riguardino un mondo lontano, futuro e inaccessibile. Invece, non è così. Il futuro è adesso ed è bene che si inizi ad affrontarlo. Il mondo dei reati robotici è già reale. Il diritto (come sempre) arriva in ritardo (e il penale in particolar modo): è normale, esso disciplina le situazioni concrete che di volta in volta si vanno a realizzare e non può ipotizzare situazioni future. Il legislatore rincorre i fenomeni che avvengono nella quotidianità e la funzione stessa del diritto penale impone che sia così, non essendo ammissibile in una democrazia occidentale avanzata l’utilizzo del sistema penale per “correggere” e “indirizzare” le condotte dei consociati verso scopi superindividuali. Il diritto penale, e quello punitivo latamente inteso, deve rimanere l’ultima ratio.
Infatti, per quanto possiamo girare la testa dall’altra parte e non pensare alle conseguenze (positive e negative) dell’evoluzione tecnologica, queste ci coinvolgono da vicino. Ed è necessario effettuare un bilanciamento in modo tale da non frenare lo sviluppo tecnologico e al contempo tutelare i diritti degli individui. Dunque, è prospettabile ipotizzare una legislazione penale basata sul principio della società del rischio.[22] Si tratta di un passaggio da una prospettiva ex post del diritto penale ad una prospettiva ex ante grazie all’individuazione di norme cautelari che devono essere rispettate dagli operatori che risulteranno in tal caso esenti da responsabilità perché si rientrerebbe in un’area di rischio consentito, tutelando così il progresso scientifico e l’essere umano.
*Cfr. in questa Rivista sul medesimo tema Algoritmi e intelligenza artificiale alla ricerca di una definizione: l’esegesi del Consiglio di Stato, alla luce dell’AI Act di Federica Paolucci dell’8 aprile 2022; La tecnologia amica del processo: dall’eredità dell’emergenza pandemica ai sistemi di giustizia predittiva di Roberto Natoli e Pierluigi Vigneri del 16 marzo 2022; e Il draft di regolamento europeo sull’intelligenza artificiale di Antonello Soro del 6 maggio 2021.
[1] A. M. Turing, “Computing Machinery and Intelligence,” Mind 59, no. 236, 1950 (pag. 433–460).
[2] L. Mischitelli, “Così i robot aiutano i chirurghi a operare meglio: progressi e prospettive della tecnologia”, in Agendadigitale.eu, 4 giugno 2021: https://www.agendadigitale.eu/sanita/cosi-i-robot-aiutano-i-chirurghi-a-operare-meglio-progressi-e-prospettive-della-tecnologia/
[3] M. Moruzzi, “Robot sanitari alla sfida autonomia: la svolta «quinta dimensione»”, in Agendadigitale.eu, 21 ottobre 2020: https://www.agendadigitale.eu/sanita/robot-sanitari-alla-sfida-autonomia-la-svolta-quinta-dimensione/
[4]J. McCarthy, M. L. Minsky, N. Rochester e C.E. Shannon, “A proposal for the Dartmouth summer research project on artificial intelligence”, Dartmouth College, Hanover, New Hamphsire, 1955: http://jmc.stanford.edu/articles/dartmouth/dartmouth.pdf .
[5] M.L. Minsky, “Semantic information processing”, Cambridge, 1969.
[6]S. Campanelli, “2022 anno del Tesla Bot, il robot umanoide da lavoro di Elon Musk”, Huffpost, 20/08/2021: https://www.huffingtonpost.it/entry/tesla-bot-il-robot-umanoide-metallico-di-elon-musk_it_611f881ae4b0e8ac791d153d.
[7] Commissione Europea, “Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale (legge sull'intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell'unione”, COM2021/206 final, Bruxelles 21/04/2021: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/txt/?uri=celex:52021pc0206
[8] State v. Loomis, 881 N.W.2d 749 (2016) 754 (USA).
[9] G. Hallevy, “The Criminal Liability of Artificial Intelligence Entities - from Science Fiction to Legal Social Control”, Akron Intellectual Property Journal: Vol. 4: Iss. 2, Article 1: https://ideaexchange.uakron.edu/akronintellectualproperty/vol4/iss2/1
[10] C. Piergallini, “Intelligenza artificiale: da ‘mezzo' ad ‘autore' del reato?” Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 1 dicembre 2020, pag. 1745; Paragrafo 4.1 “Machina artificialis delinquere et puniri potest? Grundlinien di un (improbabile) diritto penale ‘robotico'”.
A. Cappellini, “Machina delinquere non potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale”, in Criminalia: Annuario di scienze penalistiche, Edizioni ETS, 2018, Pisa: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Cappellini-Machina-delinquere-non-potest.pdf
M.B. Magro, “Decisione umana e decisione robotica un’ipotesi di responsabilità̀ da procreazione robotica”, in La Legislazione penale, Giustizia Penale e nuove tecnologie, 2020, Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Torino, Torino: http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2020/05/Magro-Giustizia-penale-e-nuove-tecnologie.pdf
[11] A. Cappellini, “Machina delinquere non potest? Brevi appunti su intelligenza artificiale e responsabilità penale”, in Criminalia: Annuario di scienze penalistiche, Edizioni ETS, 2018, Pisa: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Cappellini-Machina-delinquere-non-potest.pdf
[12]Direttiva 85/374/CEE del Consiglio del 25 luglio 1985 relativa al “Ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi”: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:31985L0374&from=IT
[13] A. Cappellini, “Profili penalistici delle self-driving cars” (pag. 325 – 353) in “Nuove frontiere tecnologiche e sistema penale. Sicurezza informatica, strumenti di repressione e tecniche di prevenzione”, IX Corso di formazione interdottorale di Diritto e Procedura penale “Giuliano Vassalli” per dottorandi e dottori di ricerca. AIDP Gruppo Italiano, Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights – Siracusa, 29 novembre – 1 dicembre 2018. In Diritto penale Contemporaneo, Rivista trimestrale 2/2019. Paragrafo 2 (pag. 327 – 328) “Dalle auto semi-autonome a quelle totalmente self-driving: i “livelli” di automazione”.
I. Salvadori, “Agenti artificiali, opacità tecnologica e distribuzione della responsabilità penale”, Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 1 marzo 2021, pag. 83; Paragrafo 3, “Dall'automazione all'autonomia: classificazione degli agenti artificiali”.
[14] M. B. Magro, “Biorobotica, robotica e diritto penale”, in D. Provolo, S. Riondato, F. Yenisey (a cura di), Genetics, Robotics, Law, Punishment, Padova University Press, 2014, pp. 510 s.
[15] Sentenza della Cassazione Penale, Sezioni Unite, n. 8770 del 22 febbraio 2018: https://www.biodiritto.org/ocmultibinary/download/3259/31842/8/ba374071a4619dfb28edf5d0587fb316/file/cass-pen-sez-un-2018-8770.pdf
[16] F. Cembrani, “Irresponsabilità penale del medico e qualità metodologica del sapere scientifico codificato medical and methodological quality of the scientific code”, Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc.2, 1 aprile 2019.
[17] WHO, World Health Organization, “Ethics and Governance of Artificial Intelligence for Health: WHO Guidance”, Ginevra, 2021: https://www.who.int/publications/i/item/9789240029200
[18] E. Hunt, “Tay, Microsoft's AI chatbot, gets a crash course in racism from Twitter”, The Guardian, 24/03/2016: https://www.theguardian.com/technology/2016/mar/24/tay-microsofts-ai-chatbot-gets-a-crash-course-in-racism-from-twitter
[19]E. Capone, “Le intelligenze artificiali fra razzismo e questione etica”, 06/04/2021, IT Italian.Tech, Parte del gruppo GEDI e la Repubblica: https://www.italian.tech/2021/04/06/news/le-intelligenze-artificiali-fra-razzismo-e-questione-etica-299491573/
[20] F.M.R. Livelli, “Deepfake e revenge porn, combatterli con la cultura digitale: ecco come”, in Network Digital 360 – Cybersecurity 360, 8 febbraio 2021: https://www.cybersecurity360.it/nuove-minacce/deepfake-e-revenge-porn-combatterli-con-la-cultura-digitale-ecco-come/
[21] N. Amore, “La tutela penale della riservatezza sessuale nella società digitale. Contesto e contenuto del nuovo cybercrime disciplinato dall’art. 612 ter c.p.”, in Legislazione penale, 20 gennaio 2020: http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2020/01/N.-Amore-Approfondimenti-1.pdf
[22] S. Arcieri, “Percezione del rischio e attribuzione di responsabilità”, in Diritto Penale e Uomo (DPU) – Criminal Law and Human Condition, Fascicolo 10/2020, 28 ottobre 2020, Milano: https://dirittopenaleuomo.org/wp-content/uploads/2020/10/douglas_DPU.pdf.
Ambiente e Costituzione
di Alessandro Cioffi e Rosario Ferrara
Con la legge costituzionale 11 febbraio 2022 n.1 (Modifiche agli artt. 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente) l’ambiente ha fatto la sua comparsa nella prima parte della Costituzione. Le disposizioni costituzionali sono state modificate prevedendo che la Repubblica “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni” (art. 9) e che l’iniziativa economica “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali” (art. 41).
La riforma può essere letta e studiata da un punto di vista tipicamente costituzionalistico, facendo specifico riferimento al dibattito che sinora si è svolto soprattutto intorno al significato dei nuovi termini inseriti nel testo dell’art. 9 Cost., la “biodiversità”, gli “ecosistemi”, “l’interesse delle future generazioni”, sullo sfondo della questione della discendenza dell’ambiente da idee eterogenee, come l’idea antropocentrica o l’idea ecologica (v. Dossier Senato n. 405/3 7-2 2022 -sul progetto di legge cost. n. 452/3- Modifiche agli artt. 9 e 41 Cost. in materia di tutela dell’ambiente, a cura del Servizio studi del Senato; nonché il dossier n. 396 del giugno 2021- Tutela dell’ambiente in Costituzione).
Può essere letta e studiata anche sotto un profilo più prettamente amministrativistico, focalizzando l’attenzione sulla dimensione dell’ambiente come interesse pubblico. A seguito dell’inserimento negli artt. 9 e 41 Cost., l’ambiente assume il rango di interesse primario e costituisce uno specifico problema di tutela. L’analisi, dunque, potrebbe tornare ad occuparsi di due fondamentali e note questioni. La prima: ambiente e paesaggio, con le reciproche distinzioni e implicazioni, alla luce del nuovo comma dell’art. 9 Cost.; questione che, vista la forte novità, è qui impostata secondo il metodo ad essa più rispondente, quello della “integrazione” (v. F. DE LEONARDIS, La riforma “bilancio” dell’art. 9 Cost. e la riforma “programma” dell’art. 41 Cost.: suggestioni a prima lettura, in AC- Aperta Contrada, marzo 2022). La seconda: l’ambiente come limite della libertà economica; questione che, alla luce del nuovo testo dell’art. 41 Cost. e considerando la usuale forza insita nel limite, rivela una certa carica dialettica, e, quindi, sembra preferibile impostare secondo un’interpretazione ben consolidata (v. l’impostazione di M.A. SANDULLI, Tutela dell’ambiente e sviluppo economico e infrastrutturale: un difficile ma necessario contemperamento, in Riv. giur. ed., 2000, 2, 3 ss.).
Sotto il primo profilo, il tema è stato già trattato in questa Rivista nel saggio a due voci che ha espresso una profonda critica alla riforma (v. G. SEVERINI, P.CARPENTIERI, Sull’inutile anzi dannosa modifica dell’art. 9 della Costituzione, in Giustiziainsieme, settembre 2021). Il primato del paesaggio, in questo scritto, emerge in modo assai chiaro. Con esso, la distinzione del paesaggio dall’ambiente.
Questa prospettiva si rivela anche in giurisprudenza, per esempio in Cons. St. sez. VI 29 gennaio 2013 n. 535. Nel caso di specie, si trattava del vincolo paesistico imposto sull’Ambito meridionale dell’agro romano, a discapito di interessi privati e di un interesse definito “ambientale”; la decisione separa l’ambiente dal paesaggio e stabilisce che il paesaggio è l’interesse prevalente, perché è interesse “nazionale”, che ha rango primario, in quanto è fondato sull’art. 9 e, dunque, sulla prima parte della Costituzione.
Rispetto a questa tradizione, in tempi recentissimi, e sempre seguendo il filo della nostra giurisprudenza, la distinzione tra paesaggio e ambiente sembra lasciare spazio a una reciproca implicazione, che sembra molto visibile in Cons. Giust. amm. Sicilia 16 febbraio 2022 n. 215 (est. Immordino), sentenza non definitiva, che, nel caso di vincolo archeologico sulla Valle dei templi di Agrigento, rimette alla Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge regionale siciliana n. 17 del 1994: leggendo in breve il presupposto della rimessione, e isolando il significato di “ambiente”, emerge il fatto che il vincolo in questione è un vincolo archeologico, che, però, può valere come vincolo paesistico, per il suo “valore ambientale”. E il valore ambientale, a sua volta, è ritenuto “speculare” all’insieme dei valori “culturali”, “estetici” e “urbanistici” del territorio stesso (v. par. 19.1 di Cons. Giust. Amm. Sicilia, 16 febbraio 2022 n. 215).
In altre parole: l’ambiente è il riflesso del paesaggio.
Del resto, l’ambiente, in senso figurato, è il paesaggio colto nel suo aspetto visivo, come ricorda la Corte costituzionale (v. Corte cost. sen. n. 378/2007).
Certo, l’ambiente può esistere ed essere concepito anche come bene giuridico autonomo e distinto (v. Corte cost. sen. n. 225/2009); e, a questo punto, avrebbe bisogno di un continuo bilanciamento con il paesaggio (v. G. MONTEDORO,Costituzione e ambiente. Effetti sulla divisione dei poteri di una revisione largamente condivisa, in Ac- Aperta contrada, 14 marzo 2022), secondo l’impostazione qui ricevuta, che assume il punto di vista di chi legge il tema alla luce di un principio di integrazione e di sostenibilità (ex multis: E. SCOTTI, Poteri pubblici, sviluppo sostenibile ed economia circolare, Il dir. dell’economia, 2019, 493; F. FRACCHIA, I doveri intergenerazionali. La prospettiva dell’amministrativista e l’esigenza di una teoria generale dei doveri intergenerazionali, in Il dir. dell’economia, 2021, 55; F. DE LEONARDIS, La riforma “bilancio” dell’art. 9 Cost.… cit.; F. KARRER, Gli effetti della riforma dell’Art. 9 della Costituzione sulla pianificazione paesaggistica e territoriale- urbanistica: una prima interpretazione, in Ac- Aperta contrada, in corso di pubblicazione, marzo-aprile 2022).
Resta dunque aperto un interrogativo di fondo: quale sia il concetto di ambiente. Ad avviso di chi scrive, par meglio vedere l’ambiente come valore giuridico, per quel che vale come interesse. Specialmente, per la tutela che restituisce nel sistema.
La presentazione del volume Casi di diritto dell’ambiente (Giappichelli, 2021), avvenuta lo scorso 3 febbraio a Roma presso la LUISS, ha offerto lo spunto per raccogliere l’opinione al riguardo del Prof. Rosario Ferrara, curatore delvolume assieme a Francesco Fonderico e ad Alberta Milone. Il volume è suddiviso in quattro parti che seguono una progressione non casuale (Principi, Competenze, Procedimenti, Voci dall’Europa) e che raccolgono pronunce giurisprudenziali e commenti degli Autori (L. Aristei, M. Santini, P. Mascaro, A. Milone, F. Fonderico) nell’ambito di una cornice unitaria data dal nesso dell’ambiente con il diritto pubblico.
L’intervista al Prof. Rosario Ferrara è stata realizzata in occasione della presentazione del volume con la collaborazione di Alberta Milone e Maria Laura Maddalena.
A. CIOFFI Incontrando il Prof. Rosario Ferrara, che ringraziamo vivamente, la tentazione di una prima domanda che sia anche provocazione sull’idea di fondo è quasi inevitabile. Difatti, la selezione dei casi è già una scelta, è già un’idea; e un anticipo può venire al lettore scorrendo l’indice, ove s’incontra il primo titolo: Principi; titolo significativo, che evoca immediatamente la connessione del caso al sistema di tutela; del resto, in sintonia con il pensiero di Rosario Ferrara (v. R. FERRARA, Modelli e tecniche della tutela dell’ambiente: il valore dei principi e la forza della prassi, in Foro amministrativo, Tar, 2009, fasc. 6, 1945).
Un’ispirazione sottostante, e più forte, dunque, ci dev’essere e così viene la prima domanda:
L’ambiente -e il Volume- a quale criterio di ispirazione risponde?
R. FERRARA I casi sono stati scelti sia pensando ai temi in sé stessi sia all’utilità per i lettori: studenti e operatori (funzionari, avvocati, magistrati). Nel libro, è presente anche un richiamo alla giurisprudenza oltre confine, per segnalare che l’ambiente pone questioni che postulano soluzioni transnazionali.
Per ogni tipo di analisi di un settore giuridico si deve partire necessariamente dai principi, e il diritto dell’ambiente, in tema di principi, è ancora più rilevante [“Principi” è la prima sezione del volume- n.d.r.- nel suo discorso orale l’autore si diffonde anche sulle altre tre sezioni del libro- “Competenze”, “Procedimenti amministrativi in materia ambientale”, “Voci dall’Europa”].
Ad esempio, tra i principi del diritto dell’ambiente, vi è il principio di precauzione, che nasce in altro settore, ma, dopo essere stato sancito in materia ambientale, nell’Atto unico europeo, è stato esteso a molti altri settori. Condivido l’opinione di Federico Spantigati, che ha definito il diritto dell’ambiente come un “diritto sonda”. A mio parere il diritto dell’ambiente può definirsi come “il salotto buono del diritto pubblico”, nel quale nascono temi e istituti che, in seguito, tracimano in altri settori.
Per esempio, in tema di giustizia, fondamentale è stato il ruolo delle associazioni ambientaliste e delle associazioni consumeristiche, che hanno avuto il merito di aver portato ad evidenziare la necessità di innovare il sistema della giustizia amministrativa, configurato rigidamente, come hanno rilevato Franco Scoca e Alberto Romano, in funzione della tutela di situazioni individualistiche. Nell’attuale situazione di crisi della politica, e della legittimità dei tradizionali collettori degli interessi di tipo generale, come ha evidenziato Giorgio Berti, il movimento delle associazioni ambientaliste ha avuto un ruolo molto importante nel riconoscimento della tutela degli interessi sovraindividuali e nella elaborazione di nuovi istituti e concetti giuridici. Mi riferisco, ad esempio, al criterio della vicinitas, riconosciuto dalla “sentenza del chiunque” del Consiglio di Stato - con la nota straordinariamente attuale di Enrico Gucciardi - circa la legge ponte urbanistica, in base alla quale “chiunque … può ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia…”; e, poi, la successiva sentenza dell’Adunanza Plenaria del 1979, che ha approfondito il tema, confermando tale criterio. La vicinitas è un criterio nuovo, di conio giurisprudenziale. La legittimazione che deriva dalla previa qualificazione di un interesse viene costruita, infatti, non sulla base della qualificazione normativa, ma sulla base della qualificazione fattuale, che è data dal radicamento sul territorio di un certo soggetto collettivo.
Sempre in tema di principi, è necessario segnalare una importante lacuna del Testo unico ambientale: vi sono enunciati i principi di prevenzione, precauzione, chi inquina paga, ma non il principio di integrazione, che è fondamentale. È necessario anche ricordare che i Trattati europei, che sono la Costituzione di fatto dell’Unione europea e quindi degli Stati membri, impongono la tutela dell’ambiente, soprattutto, in forza del principio di integrazione, in base al quale le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono portare a riprocessare tutte le altre politiche [n.d.r. – per il discorso svolto nel testo sugli sviluppi del principio di integrazione v. anche R. FERRARA, La tutela dell’ambiente e il principio di integrazione: tra mito e realtà, in Riv.giur.urb., 2021, 12 ss.]. Ciò rende pertanto in qualche modo superflua la riforma costituzionale. Occorre tuttavia evidenziare che, a seguito della modifica degli artt. 9 e 41 della Costituzione, la Corte costituzionale, a mio parere, non potrà più affermare che gli interessi all’attività di impresa e alla tutela della salute e dell’ambiente sono pariordinati, come per esempio nella sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2013. Sotto tale profilo la riforma può considerarsi, pertanto, condivisibile.
A. CIOFFI Quest’ultimo punto, il rapporto con la riforma costituzionale, costituisce un aggancio immediato alla seconda domanda. In particolare, riprendo un passo della prima risposta, che cade in taglio con la domanda che avevo in mente: il diritto dell’ambiente – si diceva- è “il salotto buono del diritto pubblico”; del resto, il Volume inaugura la Collana Casi e materiali di diritto pubblico (sotto la direzione di Ferrara stesso e di R. Cavallo Perin) e, non a caso, nell’introduzione si legge che il diritto dell’ambiente risponde ad una certa “unitarietà del diritto pubblico”, inteso senza limiti e senza ulteriori aggettivi.
Viene dunque una domanda che solo in apparenza è retorica, perché non è limitata la risposta che ne può venire, se è messa nella luce della riforma- dunque:
Il diritto dell’ambiente è diritto pubblico?
R. FERRARA Diceva Pellegrino Rossi, nell’800, che le “teste di capitolo” di tutte le branche del diritto si ritrovano nel diritto costituzionale; oggi potremmo dire che esse si trovano nel diritto originario e derivato dell’UE, che va studiato con una attenzione speciale. Tutti i processi decisionali passano, infatti, per il diritto dell’UE.
Ma il diritto pubblico è fondamentalmente unitario: questo è un fatto autoevidente che non necessita di essere dimostrato. È solo a causa delle necessità della didattica e dell’ampiezza assoluta della materia che esso viene distinto in varie materie (anche il diritto penale, ad esempio, rientra nel diritto pubblico). E il diritto pubblico, nel suo insieme, ha ad oggetto lo Stato, il funzionamento delle istituzioni pubbliche e i rapporti tra le istituzioni e le persone. Non a caso, ai suoi massimi livelli, esso costituisce una sorta di dottrina generale dello Stato.
Il diritto amministrativo, dal canto suo, è certamente un diritto “tecnico-funzionalizzato” (come sostiene la dottrina tedesca), ma è anche e soprattutto il vero diritto costituzionale. È per questo che lo storico Fioravanti ha affermato che gli amministrativisti sono i veri costituzionalisti, perché studiano il potere. Il diritto amministrativo è in realtà una importantissima dottrina dello Stato.
In questa luce, il diritto costituzionale ci interessa come diritto positivo ed è tanto più interessante quando ha un ancoraggio in un settore specifico (per esempio, Predieri, il territorio; Amato, il diritto dell’economia; Pizzetti, il diritto degli enti locali).
Al di fuori di questi ambiti, il diritto costituzionale esce dall’ambito del diritto positivo e diventa un discorso alto, di politica del diritto. Non è un caso che Alexis de Tocqueville, il teorico del pensiero costituzionale moderno, fosse un consigliere della Corte dei conti, un amministrativista puro. Per questa ragione, fu mandato a studiare il federalismo americano. Il suo saggio (“L’ancien régime e la rivoluzione”) è tutto costruito sulla base dei documenti amministrativi e dimostra, negli atti amministrativi, la tracimazione dell’Ancient régime, che sopravvive, anzi passa, attraverso la rivoluzione.
La lente dell’amministrativista, dunque, è quella che consente di comprendere il vero funzionamento delle pubbliche istituzioni. È per questo che oltre ai casi giurisprudenziali il libro dovrebbe forse contenere anche dei materiali, ovvero la dottrina, che pure concorre alla elaborazione del diritto pubblico.
In conclusione: non c’è alcun elemento di contrarietà all’esigenza di unitarietà del diritto pubblico.
A. CIOFFI La sensazione del lettore contemporaneo è che nel diritto dell’ambiente scorra un sottinteso o meglio una necessità: l’esigenza di giustizia. Dopo aver udito quest’ultima risposta, l’esigenza sembra trovare conferma. Dunque:
La giustizia climatica è la giustizia del futuro?
R. FERRARA Il clima è il fondamentale problema dell’ambiente, in quanto è la cartina di tornasole dello stato di salute dell’ambiente. L’espressione “giustizia climatica” è forse una espressione enfatica, ma in ogni caso la realtà è che si tratta del comparto più sensibile in cui il tema delle minacce e dei danni all’ambiente trova il suo elemento di esemplificazione più importante. Sia sotto l’aspetto dell’ambiente sano (come afferma la Costituzione belga, cioè un ambiente tutelato in sé stesso), sia sotto l’aspetto dell’ambiente salubre (che viene cioè in considerazione quando ci sia un danno arrecato al diritto alla salute, ovvero come una evoluzione del diritto alla salute).
Ha perfettamente ragione Fracchia, nel suo saggio sullo sviluppo sostenibile [v. F. FRACCHIA, I doveri intergenerazionali…cit. supra -n.d.r.], quando sostiene che l’ambiente deve essere considerato fondamentalmente come dovere e non solo come diritto. Il mutamento del clima e gli inquinamenti da CO2 portano conseguenze epocali sull’ambiente, che fanno sì che vi siano molte controversie giudiziali sul tema.
Tuttavia, il processo non deve essere il terreno elettivo in cui si risolvono questi problemi, in quanto la controversia giudiziale deve essere la risposta terminale a fenomeni di degrado assoluto, ma se si vuole salvare il pianeta si deve agire prima, a livello politico - di Stati e di istituzioni- e di cittadini e di imprese, per realizzare “politiche ambientalmente sostenibili”; del resto, la formula “sviluppo sostenibile”, è solo uno “slogan fortunato”, mentre sembra preferibile l’espressione “futuro sostenibile” [n.d.r.- espressione da inserire – dice Ferrara- anche nel patto globale per l’ambiente- v. R. FERRARA, Ambiente e salute. Brevi note su due “concetti giuridici indeterminati” in via di determinazione: il ruolo giocato dal “patto globale per l’ambiente”, Diritto e società, 2019, 281].
Il problema insolubile, in relazione alla questione climatica, è dato dal conflitto tra le ragioni del lavoro e quelle dell’ambiente - pensiamo al caso ILVA. Tuttavia, va segnalato che in occasione della Cop 21, a Parigi, il segretario generale dei sindacati europei, anziché difendere le ragioni del lavoro, disse: “non ci sono posti da difendere in un Pianeta morto”.
Ha perfettamente ragione. Il conflitto tra lavoro e ambiente non può essere risolto trovando una sintesi, perché non ci si può esimere da politiche severe, non oltranziste ma severe, di tutela ambientale. Bisogna ragionare in un’ottica intergenerazionale, di solidarietà nei confronti delle generazioni future. Su questo punto la riforma costituzionale appare debole, almeno rispetto alla Costituzione tedesca, che afferma che lo Stato assume la responsabilità nei confronti delle generazioni future, anche dal punto di vista civile e risarcitorio.
Sicuramente, ci sarà un contenzioso che potrà avere carattere alluvionale riguardo ai danni all’ambiente e ai danni alle persone causate dal degrado ambientale. Sarebbe importante che questo contenzioso non si limitasse alla tutela delle situazioni soggettive individuali, ma si occupasse di contestare le scelte sbagliate fatte a livello politico o amministrativo.
A. CIOFFI Un’ultima domanda, inaspettata e veramente conclusiva.
Colpisce molto quest’ultima risposta e specie il finale sulle “scelte sbagliate” e la giurisdizione; mi permetto quindi una domanda inattesa e un’ultima provocazione:
La giurisdizione amministrativa sulle scelte ambientali è giurisdizione oggettiva o soggettiva?
R. FERRARA Sul danno ambientale sarebbe stato molto meglio mantenere una giurisdizione di diritto oggettivo, di competenza della Corte dei conti. In ogni caso, l’oggetto della giurisdizione amministrativa, come insegnava Guicciardi e come sostiene Alberto Romano, è ad oggetto misto. Nessuno può contestare la tutela di situazioni giuridiche soggettive della persona, ma certamente la tutela ha un suo contenuto di oggettività. E certamente in alcuni casi l’interesse che qualifica la legittimazione al ricorso non è tanto la situazione soggettiva individuale ma l’obiettiva legalità dell’azione amministrativa. Spesso l’evoluzione del diritto passa attraverso “finzioni giuridiche”. È il caso delle associazioni ambientalistiche. È chiaro, infatti, che non è la previsione nello statuto della tutela ambientale che vale a differenziare l’interesse fatto valere, ma il fatto che l’associazione semplicemente agisce nell’interesse della legalità.
Al riguardo Scoca scriveva: si tutelano gli interessi superindividuali camuffandoli da interessi legittimi. Ma – come diceva Alberto Romano- la dilatazione eccessiva dell’interesse legittimo porta allo svuotamento della categoria.
Le comunità per minorenni devianti: efficace alternativa alla istituzionalizzazione?
di Santo Di Nuovo, Claudia Avanzato e Rossana Smeriglio
Sommario: 1. Premessa - 2. Alcuni dati sul collocamento in comunità - 3. Cosa si può fare in comunità? - 4. Quando una comunità è efficace? - 5. Prospettive future.
1. Premessa
Le comunità, ministeriali e del privato sociale, accolgono minori sottoposti alla misura cautelare prevista dall’art. 22 del D.P.R.448/88. L’ingresso in comunità può essere disposto anche nell’ambito di un provvedimento di messa alla prova o di concessione di una misura alternativa alla detenzione o di applicazione delle misure di sicurezza, che assumono per i minori di età carattere di residualità, lasciando spazio a percorsi sanzionatori alternativi.
Negli ultimi anni si sta assistendo ad una sempre maggiore applicazione del collocamento nelle comunità - che possono ospitare anche ultradiciottenni[1] - in cui è possibile contemperare le esigenze contenitive e di controllo con quelle educative, assumendo dimensioni strutturali e organizzative connotate da una forte apertura all’ambiente esterno.
Esistono contrastanti opinioni sulla effettiva validità della soluzione comunitaria, considerate da alcuni l’unica valida alternativa alla detenzione, da altri una soluzione di ripiego in mancanza di altre opportunità, contestandone la reale alternatività alla istituzionalizzazione.
Scopo di questo articolo è valutare quanto è diffuso il collocamento in comunità, con quali modalità organizzative e per quale tipologia di utenti. E presentare alcune riflessioni sulle condizioni alle quali può essere efficace.
2. Alcuni dati sul collocamento in comunità
Le statistiche forniscono un quadro, sintetico e aggiornato al 2021[2], dei minorenni e giovani adulti (fino ai venticinque anni) che, per provvedimenti di natura penale, sono presenti all’interno di comunità sia ministeriali che private.
Dai dati emerge anzitutto una netta differenza nella distribuzione delle comunità per natura giuridica. Si contano infatti 61 collocamenti in comunità ministeriali, con una media di presenze di 14,6 al giorno, contro 1707 collocamenti in comunità private con 952 presenze medie giornaliere.
Le comunità private si trovano in tutte le regioni italiane, il maggior numero in Lombardia (473), seguita dalla Sicilia con 202; le poche comunità ministeriali sono collocate in Emilia (36) e Calabria (25).
I collocamenti presso le comunità variano significativamente in relazione all’età, al sesso, ed alla nazionalità, nonché al motivo del provvedimento.
Il numero di collocamenti cresce in relazione all’aumentare dell’età: solo 2 ragazzi infraquattordicenni, 61 quattordicenni, fino a 518 di 17 anni. Gli ultradiciottenni sono 328.
Su 1480 collocati in totale, gli italiani sono 966: 896 maschi e 70 femmine; 496 di essi (51%) in seguito a misura cautelare, 232 (24%) per messa alla prova.
Gli stranieri sono 514 (480 maschi e 34 femmine), anche in questo caso circa la metà (49%) per misura cautelare, il 18% per messa alla prova. I ragazzi stranieri sono per lo più di nazionalità africana, le ragazze provengono dai paesi dell’area dell’ex Jugoslavia e dalla Romania.
Si registra una prevalenza dei reati contro il patrimonio e, in particolare, furti e rapine. Frequenti sono anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti, mentre tra i reati contro la persona prevalgono le lesioni personali volontarie.
I collocamenti in comunità presentano negli ultimi anni un andamento discontinuo, illustrato nella figura 1, con una diminuzione dovuto all’effetto della recente pandemia.
Figura 1 - Collocamenti in Comunità negli anni dal 2007 al 2020, secondo la nazionalità.
In continua crescita invece – tranne un calo nel recente periodo di pandemia - le presenze medie giornaliere, sia degli italiani che degli stranieri (fig. 2).
Fig. 2 - Presenza media giornaliera nelle Comunità (2007- 2020), secondo la nazionalità.
Una considerazione merita lo scarso investimento del pubblico, lasciando quasi totalmente campo ai privati convenzionati, che hanno ovviamente aspetti organizzativi, metodi educativi e background socio-culturale spesso profondamente diversi anche nello stesso territorio.
Vero che esistono dettagliate “linee guida” su come gestire le comunità[3] ma esse riguardano soprattutto aspetti burocratici. Pochi studi riportano in dettaglio le tipologie di intervento psicologico effettivamente seguite nelle diverse strutture.
3. Cosa si può fare in comunità?
Al di là dei dati statistici, la tecnica “narrativa” – metodologia in uso nella ricerca qualitativa[4] - può dire molto sul lavoro che viene svolto in comunità rieducative.
Raccontare le comunità per minori significa attraversare luoghi dominati da “passioni tristi” (come le definiva Spinoza), di identità in ombra e confinate in uno stato di attesa di un cambiamento non voluto e spesso temuto. Cambiamento, spesso radicale, che va compiuto in tempi brevi e con azioni programmate e finalizzate da altri.
La legge n. 184/1983, art. 2, c. 2, sancisce la temporaneità di un percorso comunitario, eppure, sempre più spesso, accade che il passaporto identitario in ingresso di ogni giovane abitante la comunità, racconta di storie scritte “a più mani”, autografate da più servizi, e che attendono di essere riscritte in uscita.
Il minore in comunità diventa serbatoio su cui canalizzare risorse e attenzioni degli operatori, oscurando l’importanza di un lavoro sociale a rete; che invece non guarda alla persona “con il problema” in quanto tale e non opera unilinearmente su di essa (in senso clinico, educativo, assistenziale), ma considera invece il problema come se questo fosse sempre “ripartito” all’interno di una rete di relazioni e pensa sempre come se la soluzione dovesse emergere ed essere concretamente praticata attraverso la stessa rete o parte di essa o attraverso una nuova rete potenziata alla quale l’operatore si relaziona[5]. Si torna insomma ad un primato delle relazioni: ma quali relazioni?
La comunità, luogo di confine tra appartenenze identitarie e costellazioni emotive è, per chi la abita, un territorio a cui non si vuole appartenere, è un tempo di vita imposto che ha scadenza quando il cambiamento voluto e desiderato da altri diventa realtà, è un’organizzazione ibrida che ha a che fare con compiti e obiettivi non sempre chiari e con uno strumento, la relazione educativa, spesso difficile da gestire e verificare.
Citiamo qualche esempio concreto.
G., giovane collocato nella comunità, chiede tempo: “In comunità mi trovo bene, credo nel ruolo dell’educatore che vuole aiutarci, però voi dovete darci tempo, tempo per “sistemarci”…
Tempo per sentirsi cambiati, tempo per sistemare i significati emotivi della propria storia, proiettati in uno spazio condiviso, estraneo e a tratti pericoloso definito comunità.
«Il senso del tempo e dei tempi (quelli per crescere) è un concetto distorto dall’esperienza di momenti affannosi e senza pensiero: perché per un bambino è difficile pensare su se stesso e sul proprio tempo di vita e può imparare a farlo solo se c’è qualcuno che pensa per lui, che prepara per lui un immagine di adolescente e di uomo con la quale lui stesso possa scontrarsi, adattarsi e, in fondo, confrontarsi»[6]
Ancora G. dice: “Mi sento come se avessi sempre il cellulare quasi scarico e devo decidere quale ultima chiamata fare. Sento di non avere più tempo…”
I percorsi comunitari per il minore sono narrazioni da riscrivere attraversando una lettura consapevole, dolorosa e molte volte agita della propria storia.
Per molti minori, il tempo trascorso nel silenzio dell’abbandono ha aspettato a lungo il suono di una sveglia che non è mai arrivato, riconoscendo nei propri vissuti laceri di rabbia l’ingannevole e bugiarda salvezza partorita dall’abbandono.
La comunità costruisce processi di rielaborazione delle esperienze negative che non avviene con la loro cancellazione, ma con la loro rivisitazione in un ambiente protetto in un’ideale continuità tra il passato, il presente e il futuro[7].
«L’idea di comunità come ambiente terapeutico globale dove ciò che svolge una funzione terapeutica è la vita quotidiana da intendersi come luogo “pensato” nella sua globalità per realizzare l’intervento riparativo e terapeutico stesso»[8] si scontra con l’immagine riflessa all’esterno di luogo di residenza distaccato dai luoghi/servizi di tutela e cura, a cui ogni minore è puntualmente chiamato a relazionare quanto accaduto, ignorando l’importanza della costruzione quotidiana di nuovi significati identitari dentro spazi di vita vissuti investiti da aspettative ed emozioni ambivalenti.
La comunità diventa ponte che segna il passaggio dall’intenzione al processo di cambiamento, che non è garantito dalla sola permanenza da “scontare” in una comunità, ma dal cammino che ogni minore intraprende attraversando fasi di costruzione e di ricostruzione, di pace e di tormenti.
Non è un percorso lineare, di inizio e fine, ma ciclico, dove ogni inizio (costruzione) può ricongiungersi ad un’altra fine (distruzione), ed è in questo continuo percorso tra estremi in conflitto, che la comunità diventa anello di congiunzione nelle rotture evolutive deputata a « […] saper valorizzare le aurorali diversificazioni di prospettiva nella lettura dei propri vissuti emotivi come vettori della costruzione di un significato mentale che si riverbera nelle modalità interattive nel modo esterno»[9]
Quali appartenenze identitarie la comunità consente di rielaborare?
Le appartenenze identitarie dei giovani abitanti la comunità sono solchi affettivi primitivi, sono vulcani quiescenti dalla natura primitiva e automatizzata, che segnano e tracciano il passaggio ai nuovi significati vissuti, perturbando la costruzione di nuove traiettorie esperienziali.
Agli occhi di un giovane abitante la comunità, non esiste nient’altro e nient’altro viene immaginato come alternativa, “l’appartenenza non si può cancellare”[10].
È difficile provare a levarsi, dal corpo e dalla mente, i primi contenuti affettivi ricevuti: creano solchi su cui scorre ogni nuova esperienza, cosicché tutto può essere ordinato e interpretato secondo un solo senso e significato. Fino a quando i solchi affettivi canalizzeranno entro lo stesso percorso tutte le esperienze di vita, ogni storia affettiva, relazionale e sociale porterà con sé sempre lo stesso copione emotivo.
Ed ecco che la scena si ripete, inceppandosi sempre allo stesso punto.
“Ma cosa pretendete? Che io cambi? A crescere con urla e coltelli lanciati addosso da una madre, come si fa a cambiare?” G. quei solchi li sente fin sotto la pelle e non gli è restato altro che auto-medicarsi con strumenti e mezzi trovati per caso sul suo cammino.
Il percorso di cambiamento comunitario, auspicato e progettato, si attrezza di strumenti per sorreggere il passaggio da una fase di elaborazione di esperienze e legami dolorosi a quella conseguente di vuoto, di mancanza, di assenza e la successiva di ricostruzione attraversando le difese dei momenti di resistenza al cambiamento.
La comunità chiede di cambiare legami e relazioni, e questo spaventa e fa fuggire molti giovani abitanti la comunità.
«L’alternativa è la distanza protettiva affermata a tutti i costi, grazie alla quale, probabilmente, alcuni di loro sono ancora vivi o sopravvissuti alle catastrofi che hanno attraversato»[11].
Ed ecco che la comunità diventa “altro” e significativo solco affettivo e relazionale, quando svolge una funzione protettiva e perturbativa al tempo stesso, quando gli educatori, svolgendo le funzioni di adulti coinvolti in una dimensione relazionale significativa con il minore, riescono a modificarne i modelli operativi interni. Nella consapevolezza non solo della storia di cui è portatore il minore, ma anche dei significati attribuiti dallo stesso alle figure protagoniste del suo percorso di crescita, si può avviare un processo di analisi introspettiva, degli incastri funzionali o disfunzionali che potrebbero generarsi tra narrazioni di vita, al fine di costruire nuovi canali interpretativi e nuovi copioni socio-emotivi trasformati in obiettivi (ri)educativi.
In definitiva, la comunità è il luogo in cui ci prende cura dei legami: ripensandoli e ristrutturandoli all’interno di un contesto istituzionale “diverso” da quello in cui essi erano stati vissuti e che avevano portato alla soluzione di vita deviante.
“Facciamo uno sforzo, cerchiamo di comprendere di più dei disagi e delle derive andando oltre le maschere, le maschere dei mostri e dei folli. […]. Le istituzioni hanno tempi lenti per il cambiamento: uscire dalle logiche difensive sia come servizi che come professionisti non è sempre facile e, se i minori e i giovani adulti che attraversano i nostri ambiti di intervento sono sempre meno comprensibili e le loro sofferenze meno decifrabili, è evidente che i nostri codici di riferimento e le nostre procedure operative siano messe in crisi. […] E' utile recuperare il significato dell'atto violento all'interno del suo contesto d'insorgenza, coglierne l'eco di rimando. Al contempo, riconsiderare la famiglia, il territorio e la comunità sociale quali risorse atte ad attivare percorsi inclusivi e riparativi. Ad aver cura dei legami»[12].
La domanda essenziale è: quale tipo di organizzazione relazionale la comunità deve attuare perché questo percorso di ri-significazione dei legami sia efficace?
4. Quando una comunità è efficace?
Se cerchiamo dati sperimentali sull’efficacia del collocamento in comunità, troviamo poche ricerche recenti specifiche.
In uno studio sulle comunità lombarde[13] la percezione dell’efficacia dell’intervento è risultata influenzata dalla percezione di un clima positivo all’interno della comunità, più che dal livello di problematicità antisociale dei minorenni coinvolti. Veniva però rilevato che “in quattro casi su cinque, il motivo del collocamento è l’applicazione di una misura cautelare. Le esigenze alla base di questi inserimenti sono dunque legate a motivi di sicurezza sociale o di natura giuridico procedurale, prima ancora che a valutazioni psicoeducative. Gli inserimenti d’urgenza, effettuati senza la possibilità di adeguata preparazione e spesso in assenza di una reale adesione dei ragazzi, comportano un elevato rischio di fughe” (p. 215).
Per ulteriori verifiche possiamo ricorrere agli studi relativi alla messa alla prova, per la parte che è attuata in comunità, circa un quarto dei casi[14]. I dati relativi all’ultimo decennio, fino al 2019, testimoniano che l’esito positivo si mantiene intorno all’80%, mentre il tasso di revoca oscilla fra il 6 e l’8%. In una ricerca sulle recidive è emerso che tra i minori messi alla prova il tasso di recidività a 6 anni è del 20% nei minori messi alla prova, contro il 31% di chi non aveva usufruito di questo provvedimento[15]. La situazione nei diversi contesti regionali appare profondamente diversa, sin dalle prime applicazioni dell’istituto[16].
Circa un decennio fa venne compiuta una ricerca[17] finalizzata a valutare l’efficacia dell’applicazione dell’istituto della messa alla prova, attraverso l’analisi di 115 progetti attuati nelle regioni Sicilia, Calabria, Basilicata. Risultò allora che la permanenza in comunità era applicata poco (19%) ed era riservata per lo più ai recidivi, agli autori di reati più gravi e ai casi particolarmente complessi per l’assenza di un contesto familiare adeguato. Gli operatori delle strutture coinvolte indicavano il peso incisivo delle modalità organizzative della comunità sulle esigenze educative: talvolta la comunità è in grado di “contenere” gli specifici bisogni dei ragazzi, talvolta risulta invece un’organizzazione poco flessibile per gli specifici scopi educativi. Registravano, inoltre, le difficoltà di moti adolescenti ad accettare restrizioni dentro una struttura di tipo comunitario. I magistrati minorili a loro volta osservavano dentro le comunità condizioni di ipo- o iper-controllo, che incidono fortemente sulla capacità di auto-regolamentazione del ragazzo, alimentando la sua dipendenza o le sue resistenze.
L’uso “residuale” della comunità per i casi non altrimenti gestibili, esita in una maggiore difficoltà nella gestione delle attività rieducative, ed impedisce una corretta valutazione comparativa fra l’efficacia del collocamento in comunità ed altre misure, applicati con casi meno “gravi”.
La ricerca clinica con metodi qualitativi può dirci di più sull’efficacia del lavoro di comunità di recupero. Essa è maggiore quando riesce a rielaborare e modificare il tipo di legami tipici della realtà esistenziale deviante, come si è visto nel paragrafo precedente. Ma questo va fatto contrapponendosi al tempo stesso al modello di rieducazione tipico delle “istituzioni totali” come il carcere, di cui in effetti deve costituire l’alternativa.
L’Istituzione totale, secondo Goffman[18], si appropria, in modo globale, del tempo e degli interessi di coloro che vi si trovino a vivere e offre loro in cambio un tipo particolare di vita sociale e di soddisfazione dei bisogni. Questo carattere totalizzante è indotto soprattutto dalla scomparsa della separazione abitualmente esistente tra le diverse sfere di vita della vita quotidiana: lavorare, instaurare e mantenere relazioni esterne, svagarsi, dormire. Tutto si svolge sotto lo stesso tetto e sempre con le stesse persone, altri ospiti o operatori che siano.
L’aspetto comune a queste istituzioni è manipolare i bisogni obbligando tutti a fare le stesse cose nel medesimo luogo, secondo ritmi prestabiliti e sotto la sorveglianza di addetti, al fine di garantire che venga perseguito il piano razionalmente designato per adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.
L’ospite è costretto ad alcuni cambiamenti radicali nella propria esistenza consistenti nel progressivo mutare della percezione soggettiva di sé, dell’immagine di sé e del giudizio degli altri che gli sono vicini. Gli ospiti dell’istituzione sono indotti a modificare la loro identità pregressa. “Spogliati dai propri ruoli sociali, dalle proprie abitudini e dai tipici modi di interagire con gli altri; sottoposti ad una contaminazione continua della propria sfera privata; rotta la relazione significativa con i propri atti e gesti; predefiniti i tempi e le modalità di soddisfazione dei bisogni individuali; al fine di poter resistere al processo di destrutturazione del Sé, i ricoverati non possono che adattarsi al sistema di vita dell’istituto e riconoscersi nelle definizioni altrui”[19]. Così acquisiranno una serie di “adattamenti secondari”, per mezzo dei quali tenteranno di procurarsi quei sostegni e quelle gratificazioni che possano consentire di pensare di essere ancora padroni della propria vita, capaci cioè di comportamenti autonomi. Prove di autonomia che però vengono spesso frustrate dalla organizzazione, e questo per condizione strutturale, al di là della buona volontà di chi gestisce la contingenza del ‘ricovero’. Ci possono essere situazioni estreme in cui la istituzione si comporta come un lager e trascura le minime garanzie di sicurezza anche fisica; e queste sono ‘devianze’, certamente da reprimere, che però non alterano la sostanza delle condizioni strutturalmente predeterminate.
In realtà la struttura organizzativa di una istituzione totalizzante rispecchia – per necessità intrinseca – una dinamica psicologica e sociale che è quella definita “costruzione sociale della realtà” nell’omonimo saggio di Berger e Luckmann[20]. Concetti ripresi anche nella psicologia sociale italiana che le ha applicate a diverse situazioni di istituzionalizzazione per minori[21]. Secondo questa analisi, ‘istituzionalizzati’ sono i rapporti umani – a prescindere dal contesto o dalla struttura in cui vengono realizzati – caratterizzati da una forte stereotipia dei ruoli e della percezione di ruolo, in cui i significati possibili di un “incontro” tra persone sono rigidamente predefiniti, insieme agli spazi e ai tempi i cui essi si verificano. Logico che le strutture totalizzanti per loro natura siano un luogo ‘concentrato’ di rapporti istituzionalizzati, e costruiscano una realtà come quella descritta da Goffman, a prescindere spesso dalla volontà degli operatori che vi lavorano.
Il rischio è che questa condizione di relazioni istituzionalizzate si riproduca anche fuori dalle istituzioni totali tradizionali (come il carcere) e finisca per permeare anche le organizzazioni comunitarie [22]. Il rischio è ancora più grave se in comunità vengono concentrati i casi più “difficili” per i quali non si trovano alternative di altro tipo.
Questo ostacolerebbe, anziché favorire, la rimodulazione dei contenuti di vita del giovane deviante e la scoperta di una prospettiva di vita genuinamente diversa, con legami e relazioni oggetto di una nuova narrazione.
5. Prospettive future
Degli aspetti citati bisognerebbe tener conto nel valutare l’efficacia rieducativa della comunità, al fine di implementare gli interventi sfruttandone al meglio le potenzialità realmente alternative alla istituzionalizzazione detentiva, e realizzare la ri-significazione della propria identità, e l’esperienza emozionale correttiva che costituiscono l’essenza del lavoro realizzabile nella dimensione contenitiva della comunità proposta da Bion[23].
Estendere il numero delle comunità per minorenni devianti, ampliando l’offerta di quelle pubbliche, finora troppo poche in relazione al fabbisogno; in modo da non considerarle il collocamento in comunità solo come opportunità residuale per i casi senza alternativa.
Formulare delle linee guida degli interventi psico-sociali da svolgere, rendendoli omogenei e scientificamente fondati, basati sulle buone pratiche verificate empiricamente.
Assicurare una formazione continua a tutti gli operatori e possibilmente inserire figure esperte nel campo delle relazioni umane per gestire le micro-conflittualità frequenti in questo tipo di strutture residenziali con utenti particolarmente “difficili”[24].
Sono alcuni dei provvedimenti utili per valorizzare appieno la risorsa comunitaria per l’intervento psicosociale sulla devianza minorile.
Gli autori:
Santo Di Nuovo – professore emerito di psicologia, docente di “Psicologia Giuridica e Criminologica” nell’università di Catania, presidente della Associazione Italiana di Psicologia
Claudia Avanzato – psicologa e psicoterapeuta nella Comunità alloggio per minori “Il Favo” di Caltagirone
Rossana Smeriglio – dottoranda di ricerca nell’Università di Catania, cultrice della materia “Psicologia giuridica e criminologica”
[1] “Le misure cautelari, le misure penali di comunità, le altre misure alternative, le sanzioni sostitutive, le pene detentive e le misure di sicurezza si eseguono secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni anche nei confronti di coloro che nel corso dell'esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il venticinquesimo anno di età, sempre che, non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente, tenuto conto altresì delle finalità rieducative ovvero quando le predette finalità non risultano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto. L'esecuzione rimane affidata al personale dei servizi minorili. Queste disposizioni si applicano anche quando l'esecuzione ha inizio dopo il compimento del diciottesimo anno di età (art. 24 D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 272, come modificato dall’art.5, comma 1, D.L. 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n 117, e, successivamente, dall'art. 9, comma 1, D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 121).
[2] Dati acquisiti dal Sistema Informativo dei Servizi Minorili (SISM) riferiti alla situazione ed alla data del 15 dicembre 2021
[3] https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/Circ1_2013_VADEMECUM__comunita_privato_sociale.pdf; https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=4_48&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS62353#
[4] Riessman, C.K. Narrative Methods for the Human Sciences. Sage, Newbury Park 2008; Andrews M., Squire C., M. Tamboukou M., Doing Narrative Research, Sage, Newbury Park, 2013.
[5] Folgheraiter F. Interventi di rete e comunità locali. La prospettiva relazionale nel lavoro sociale, Erickson, Trento 1994.
[6] Bastianoni P., Taurino A. (a cura di), Le comunità per minori: Modelli di formazione e supervisione clinica, Milano, Unicopli 2009, p. 62.
[7] Secchi G., Lavorare con le famiglie nelle comunità per minori, Trento, Erickson, 2010..
[8] Winnicott D.W. The maturational process and the facilitating environment. Studies in theory of emotional development, International University Press, New York 1965.
[9] Carcano D., Il trattamento dei minori sottoposti a messa alla prova: griglia per i servizi psico-sociali, Cassazione Penale, 2012 n. 5.
[10] Secchi G., op. cit., p. 45.
[11] Bastianoni P., Taurino A. op. cit., p. 63.
[12] Pirrò V., Muglia L., Rupil M., La crisi della famiglia e le nuove forme di devianza minorile: oltre la maschera. GiustiziaInsieme, 21/04/2020.
[13] Castelli M., Di Lorenzo M., Maggiolini A., Ricci L., L’efficacia delle comunità di accoglienza, MinoriGiustizia, 2016, 4, 214-222.
[14] Nel 2019 la prescrizione di permanere in una comunità per tutto il periodo di prova o per una parte di esso, è stata disposta in 989 provvedimenti, circa il 25% del totale (https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/map_2019_18032020m.pdf)
[15] Aa. Vv., I numeri pensati – La recidiva nei percorsi penali dei minori autori di reato, Quaderni dell’Osservatorio sulla devianza minorile in Europa, Gangemi Editore, 2013.
[16] Mestitz A. (a cura di), Messa alla prova: tra innovazione e routine, Carocci, Roma 2007.
[17] Di Nuovo S., Castorina M.G., Coppolino P., Malara M. e Taibi T., L’efficacia della messa alla prova quale procedimento educativo e socializzante, Minori Giustizia, 2013, 23, 1, 110-118.
[18] Goffman E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, tr. it. Einaudi, Torino 1968.
[19] Goffman E., op. cit., p. 212.
[20] Berger P.L., Luckmann T. La costruzione sociale della realtà. Tr. it. Il Mulino, Bologna 1969 (ed. or. 1966)
[21] Carugati F., Casadio G., Lenzi M., Palmonari A., Ricci Bitti P.E. Gli orfani dell’assistenza, Il Mulino, Bologna 1973.
[22] Una riflessione sulla necessità di de-istituzionalizzare non solo le organizzazioni per natura “totali” (carceri, caserme, luoghi di cura fisica e mentale, ecc.), ma anche le strutture comunitarie formalmente “aperte” ma con relazioni interne istituzionalizzate, è presentata in una raccolta di articoli e saggi composti a partire dagli anni ’70: Di Nuovo S., Lamartina G., Palermo D., Piccini P.A., Dall’utopia al quotidiano: 40 anni di Prospettiva in Sicilia, ed. Cooperativa Prospettiva, Catania 2021.
[23] Gius E., Cipolletta S. Per una politica d’intervento con i minori in difficoltà, Carocci Roma 2004 (pp. 171-173).
[24] Di Nuovo, Castorina e al., op.cit., p. 118.
Interdittiva antimafia e legittimazione all’impugnazione. La necessaria partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti (nota a Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 3/2022)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini*
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa ed i quesiti posti all’Adunanza Plenaria - 2. Sulla posizione del giudice rimettente - 3. Le motivazioni dell’Adunanza Plenaria - 4. Riflessioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda contenziosa ed i quesiti posti all’Adunanza Plenaria
La compressione dei diritti coinvolti e stravolti dall’emissione di provvedimenti interdittivi trova nuovamente spazio nella giurisprudenza che sembra sempre più rivestire una posizione di chiusura nella tutela dei destinatari latu senso intesi. Qui, si vuole segnalare la recentissima Adunanza Plenaria n. 3/2022.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con pronuncia non definitiva rimetteva all’Adunanza Plenaria l’articolata questione relativa alla impugnabilità dell’informazione antimafia interdittiva da parte di soci ed amministratori dell’impresa destinataria del provvedimento, ponendo il seguente quesito: se in materia di impugnazione di interdittive antimafia vada, o meno, riconosciuta, in capo ad ex amministratori e soci della società attinta, autonoma legittimazione a ricorrere, avuto riguardo alla situazione giuridica dedotta in giudizio, e se gli stessi vadano ritenuti soggetti che patiscano “effetti diretti” dall’adozione di provvedimenti di siffatta natura.
Preliminarmente occorre ricostruire la vicenda al fine di cogliere l’intensa portata della decisione. La controversia attiene la legittimazione all’impugnazione, da parte dei soci ed amministratori, della certificazione interdittiva, emessa dal Prefetto nei confronti della società per azioni.
Gli appellanti lamentavano la perdita della gestione dell’azienda, nella quale avevano investito ingenti capitali, nonché la preclusione all’esercizio delle rispettive cariche.
Per diretta conseguenza del provvedimento impugnato, veniva risolta la convenzione in essere con la società per la gestione del servizio idrico integrato e veniva nominato un Commissario Straordinario al fine di garantire la prosecuzione delle attività, estromettendo così gli odierni appellanti dalle cariche occupate e, pertanto, dalla gestione concreta della società.
La sentenza del Giudice di prime cure che riteneva il ricorso inammissibile per carenza di legittimazione attiva in capo ai ricorrenti veniva censurata poiché, secondo gli appellanti, la legittimazione ad agire deve essere riconosciuta in presenza di un interesse connotato dall’attualità e da concretezza.
Invero, seppur formalmente il destinatario del provvedimento sia la società, l’intera motivazione attiene ai presunti condizionamenti a carico delle società ed alle persone fisiche in quanto socie che ne risultano inevitabilmente pregiudicate.
L’impossibilità di gestire la propria impresa ed i propri investimenti per un lungo lasso di tempo, non può non ascriversi, secondo gli appellanti, al concetto di lesione diretta e personale della sfera giuridica dei soci, i quali agiscono al fine di conseguire una “posizione di vantaggio che attiene ad uno specifico bene della vita”.
Inoltre, ad avviso degli appellanti, l’orientamento della sentenza gravata, non è percorribile, in quanto lesivo del diritto di difesa sancito dagli artt. 24 e 113 della Costituzione, nonché dell’art. 6 della CEDU, poiché gli stessi, altrimenti, non disporrebbero di alcun rimedio giurisdizionale per impugnare l’informativa prefettizia ed il conseguente provvedimento di commissariamento.
L’Amministrazione resistente, tra le altre eccezioni, rilevava l’inammissibilità dell’appello poiché incentrato genericamente sul profilo dell’interesse a ricorrere, anziché sulla legittimazione ad agire.
Eccezioni preliminarmente rigettate dal giudice rimettente posto che il ricorso è da ritenersi ammissibile se al momento della sua proposizione sussistono le condizioni dell'azione, cioè la possibilità giuridica dell'azione, l'interesse ad agire e la legittimazione attiva [1].
2. Sulla posizione del giudice rimettente
La complessa composizione della controversia non può che muovere dai principali orientamenti giurisprudenziali relativi ai soggetti legittimati ad impugnare le informative prefettizie.
Secondo un primo orientamento, il ricorso è inammissibile per carenza di legittimazione attiva se proposto da soggetti diversi dall’impresa destinataria dell’interdittiva, in quanto il provvedimento prefettizio può essere impugnato solo dal soggetto che ne subisce gli effetti diretti sulla sua posizione giuridica di interesse legittimo [2].
Più isolata giurisprudenza [3], ma condivisa dal giudice rimettente, invece, riconosce la legittimazione ad impugnare l’informativa, a tutela di un proprio interesse morale, in ragione della lesione concreta ed attuale della situazione professionale e patrimoniale dei soggetti che abbiano dovuto rinunciare all’incarico di amministratori della società, nonché sotto il profilo della potenziale lesione dell’onore e reputazione personale dei soggetti sui quali venga ipotizzato un condizionamento mafioso.
Qui è da ricercare la legittimazione attiva di diversi soggetti in base ad una pluralità di profili di interessi rappresentati: per gli ex amministratori, dal “pregiudizio professionale” e sulla “espunzione da una attività professionale”; per i soci, su diritti di natura patrimoniale, consistenti nella “impossibilità di effettuare scelte imprenditoriali e quindi compromissione degli investimenti economici profusi nell’azienda”; per gli ex amministratori e/o soci, sul diritto alla “dignità e reputazione”, pregiudicati ove le proprie “vicende personali e familiari costituiscano diretto oggetto di motivazione”.
Partendo dalla lettura congiunta degli artt. 84 e 91 d.lgs. n. 159/2011, si evince che l’emanazione dei provvedimenti interdittivi costituisce frutto di un procedimento amministrativo caratterizzato dalla natura preventivo- cautelare che giustifica l’allontanamento dalle rigide garanzie del contraddittorio ex l. n. 241/1990, nonostante la decisione prefettizia si fondi su accertamenti complessi esposti ad ampi margini di errore [4].
Epperò, il sacrificio delle garanzie procedimentali dovrebbe almeno essere bilanciato dalla possibilità di ottenere in sede giurisdizionale la partecipazione dei soggetti che sono immediatamente e gravemente lesi dal provvedimento prefettizio, seppur non formalmente diretti destinatari dello stesso.
Una conclusione contraria “sottopone ad evidente tensione l’applicazione dell’istituto con i principi eurounitari, oltre che con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost.”. Nella specie, il provvedimento di rimessione rileva come “proprio la caratteristica della motivazione di tali provvedimenti evidenzia un irrimediabile vulnus laddove ai soggetti le cui vicende personali, anche molto risalenti e addirittura già oggetto di valutazione favorevole in occasione di precedenti provvedimenti favorevoli, vengano rivisitate in chiave opposta, non venisse consentito di interloquire, avuto riguardo alle conseguenze esiziali che poi derivano dall’interdittiva (anche) per gli stessi sul piano individuale e patrimoniale” e dunque la partecipazione al processo avrebbe l’obiettivo di sanare la carenza di contraddittorio procedimentale [5].
Invero, seppur il provvedimento prefettizio spesso origina da atti di procedimenti penali, il suo procedimento di emissione non contempla affatto le garanzie riconosciute in sede penale ma in qualche modo, per le ragioni già indicate si tende a compensare tale vulnuscon la partecipazione giudiziale che invece, risulta esclusa nel caso che ci occupa per difetto di legittimazione attiva [6].
3. La motivazione dell’Adunanza Plenaria
L’Adunanza Plenaria ritiene necessario, ai fini della soluzione del quesito, l’individuazione della possibile sussistenza di una situazione soggettiva in capo agli amministratori ed ai soci della persona giuridica, con la precisa conseguenza che, ove tale situazione venga individuata ed abbia la consistenza di interesse legittimo, su di essa potrà fondarsi la legittimazione ad agire in giudizio e medio tempore la legittimazione all’audizione procedimentale non sussistendo, in caso contrario, né la legittimazione ad agire in giudizio né quella a partecipare al procedimento.
Va rammentato che è la stessa legge n. 241 del 1990 a distinguere il concetto di “pregiudizio” a seconda delle diverse tipologie di “interesse” cui conseguono differenti forme di partecipazione procedimentale e posizioni processuali, quali quella della legittimazione ad agire o a resistere ovvero dell’intervento ad adiuvandum o ad opponendum [7].
Anche la recentissima riforma recata dal d.l. 6 novembre 2021 n. 152 [8], amplia le forme di partecipazione del destinatario dell’interdittiva, prevedendo che allo stesso venga data tempestiva comunicazione, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa ed assegnandogli un termine per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l'audizione, esprimendo una apertura, tardiva ed ancora non pienamente satisfattiva, alla necessaria partecipazione procedimentale dei soggetti coinvolti dal provvedimento prefettizio che subiranno inevitabilmente uno stravolgimento della propria posizione ed al contempo limitando espressamente tale diritto solo al possibile soggetto destinatario della misura interdittiva (la persona giuridica) e non altri soggetti [9].
La ratio giustificatrice della legittimazione e dell’interesse al ricorso risiede nella natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, che tende a tutelare la situazione soggettiva del ricorrente, correlata ad un bene della vita coinvolto nell’esercizio dell’azione autoritativa oggetto di censura [10]. Da tanto, a parere di chi scrive, dovrebbe discendere una più ampia partecipazione proprio a tutela del bene della vita coinvolto.
Dunque, esiste un rapporto diretto ed immediato tra l’esercizio del potere amministrativo e l’interessato all’esercizio del potere medesimo che non si coglie sul piano statico bensì su quello dinamico. Tale relazione diretta si concretizza nel fatto che il provvedimento amministrativo e suoi effetti interessano direttamente il patrimonio giuridico di un determinato soggetto, in senso compressivo o ampliativo.
Il giudice è tenuto a verificare l’esistenza in capo alla parte ricorrente di una posizione qualificata e differenziata, correlata al bene della vita oggetto di esercizio del pubblico potere, idonea a distinguere il ricorrente da ogni altro consociato e della lesione concreta ed attuale subita dal ricorrente [11].
Invero, riflesso della relazione diretta ed immediata tra soggetto titolare di interesse legittimo e pubblica amministrazione è il potere di agire in giudizio per la tutela del proprio interesse legittimo compresso dall’esercizio o dal mancato esercizio del potere amministrativo.
In sede di impugnazione si tende ad assicurare un vantaggio al soggetto che si ritiene leso mediante l’annullamento del provvedimento, ottenendo la pienezza del proprio patrimonio giuridico ovvero conseguendo un ampliamento del proprio patrimonio giuridico. In tal senso, vengono in soccorso le caratteristiche di personale e diretto dell’interesse legittimo al fine di definire l’ambito della titolarità e della conseguente tutela in sede procedimentale e giudiziale, ai quali si aggiunge il requisito dell’attualità, che rileva in relazione alla proiezione processuale della posizione sostanziale ed alla emersione della esigenza di tutela per effetto di un atto concreto e sincronicamente appezzabile di esercizio di potere, che rende necessaria l’azione in giudizio.
Il ricorso, secondo l’Adunanza Plenaria, è legittimato allorquando dall’annullamento del provvedimento, il ricorrente può conseguire quella utilità di cui è, o ritiene di dover diventare, o intende diventare, “titolare”. Al contrario, ove non è individuabile tale posizione, ma sono individuabili generiche posizioni di interesse, queste ultime – che possono subire indirettamente e/o di riflesso, un pregiudizio- legittimano i loro titolari a spiegare intervento in giudizio, ma non già ad impugnare autonomamente il provvedimento lesivo della sfera giuridica del soggetto con il quale intrattengono a diverso titolo rapporti giuridici.
Alla luce delle motivazioni sinora addotte, l’Adunanza Plenaria, rinviene carenza di legittimazione attiva in capo agli amministratori ed ai soci della società destinataria del provvedimento interdittivo poiché “il decreto prefettizio può essere impugnato dal soggetto che ne patisce gli effetti diretti, e quindi, dal destinatario dell’atto, e cioè dalla società, in quanto solo il destinatario subisce la lesione immediata e diretta alla sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo che consente il ricorso dinanzi al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.” [12].
4. Riflessioni conclusive
L’Adunanza Plenaria ha omesso, nell’individuazione dei soggetti che subiscono gli effetti diretti del provvedimento, di valutare la pluralità di profili di interesse coinvolti e più precisamente rappresentati per gli ex amministratori, dal “pregiudizio professionale” derivante dalla sostituzione degli organi di gestione e dall’esclusione da una attività professionale che spesso costituisce l’unica fonte di reddito; per i soci, su diritti di natura patrimoniale, consistenti nella impossibilità di effettuare scelte imprenditoriali e quindi compromissione degli investimenti economici profusi nell’azienda.
Invero, il ricorso deve ritenersi ammissibile se nel momento in cui viene proposto sussistono le condizioni dell'azione, ovvero la possibilità giuridica dell'azione, l'interesse ad agire e la legittimazione attiva. L'interesse a ricorrere, in particolare, si concretizza nella possibilità per il ricorrente di ottenere un risultato favorevole, e sussiste se ed in quanto la lesione della posizione giuridica sia concreta e attuale, poiché solamente in questa ipotesi all'eventuale pronuncia giudiziale favorevole seguirà un'utilità personale, concreta ed attuale. Pertanto, la lesione derivante dal provvedimento deve essere diretta, cioè deve incidere in maniera immediata sull'interesse legittimo proprio della parte ricorrente.
Elementi che appaiono presenti nel caso che ci occupa e che evidenziano una chiusura dell’Adunanza Plenaria che fonda la propria decisione sull’assioma che la società è l’unico soggetto destinatario dell’atto prefettizio e pertanto, unico soggetto che si trova in rapporto di immediata inerenza con l’esercizio del potere interdittivo.
Non è chiaro il motivo per cui non possa riconoscersi in capo a soci ed amministratori la lesione diretta dei propri interessi per come sopra indicati che appaiono fortemente compromessi dall’emissione del provvedimento interdittivo.
Le deminutio subite dai soggetti ricorrenti trovano origine immediata nel provvedimento interdittivo e solo il suo annullamento può ripristinare la situazione preesistente relativa a tali soggetti.
A valle di quanto sinora esposto si esprime una riflessione aperta sulla questione, che non appare definita ma bisognosa di nuovi interventi, come del resto, l’intero apparato relativo ai provvedimenti interdittivi.
È veramente possibile trovare un effettivo equilibrio tra tutela di interessi pubblici e limitazione dei privati?
*Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire il primo paragrafo a Renato Rolli e i restanti a Martina Maggiolini.
[1] Giova al riguardo richiamare il generale principio di cui all'art. 81 c.p.c. per il quale: "Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui", applicabile anche nel processo amministrativo in forza del richiamo di cui all'art. 39 c.p.a.”. La giurisprudenza ha più volte chiarito che un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la stessa, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall'azione sostitutoria di un altro soggetto.
[2] Ex multis Cons. Stato, sez. III, 14 ottobre 2020 n. 02/02/22, 6205, 22 gennaio 2019 n. 539, 16 maggio 2018 n. 2895, 11 maggio 2018 nn. 2824 e 2829
[3] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 4 aprile 2017 n. 1559
[4] Si consenta il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Il vaccino contro l’infezione mafiosa. Note in tema di interdittiva antimafia (nota a Consiglio di Stato, sez. I, parere 18 giugno 2021, n. 1060) Giustizia insieme, 2021
[5] Sia consentito il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979), Giustizia insieme, 2020
[6] Sia consentito il rinvio a R. Rolli, M. Maggiolini, Accertamento penale e valutazione amministrativa: pluriformi verità (nota Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, decreto presidenziale n. 544 del 3 agosto 2021), giustizia insieme, 2022
[7] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 8 aprile 2021 n. 2836; sez. IV, 16 febbraio 2010 n. 887
[8] Si veda R. Rolli, M. Maggiolini, Interdittiva antimafia tra norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie (Nota a Consiglio di Stato, sez. III del 25 ottobre 2021, n. 7165), in Giustizia insieme, 2022
[9] La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte affermato che, nell’ambito del processo amministrativo impugnatorio, la legittimazione e l’interesse al ricorso integrano condizioni dell’azione necessarie per consentire al giudice adito di pronunciare sul merito della controversia, condizioni che devono esistere al momento della proposizione della domanda processuale e persistere fino alla decisione della vertenza ex multis Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9
[10] Cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4.
[11] V. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4; sez. VI, 14 giugno 2021 n. 4598
[12] Si veda Cons. Stato, sez. III, 22 gennaio 2019 n. 539
A proposito di tutela delle “altre” situazioni di vulnerabilità da tutelare: un raffronto tra Corti costituzionali
di Beatrice Magro
Sommario: 1. Premessa - 2. L’irrilevanza dei motivi nell’art. 579 c.p. - 3. La tutela dei soggetti vulnerabili nell’art. 579 c.p. - 4. La sentenza della Corte costituzionale tedesca: l’autodeterminazione è il valore primario - 5. La decisione del Tribunale costituzionale tedesco: la tutela dei soggetti vulnerabili e la prognosi di pericolo di abuso - 6. La decisione del tribunale costituzionale austriaco - 7. Per chiudere: prove tecniche di regolamentazione a garanzia dell‘autodeterminazione nei progetti di legge tedeschi presentati da SPD e dai Verdi.
1. Premessa
La Corte costituzionale, con ordinanza n. 50 del 2022, ha dichiarato l’inammissibilità del quesito referendario che prospettava l’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p.. La proposta, in sostanza, prendendo atto della sostanziale e cronica disapplicazione della norma, intendeva circoscrivere l’area della punibilità dell’omicidio del consenziente (parificato sotto il profilo sanzionatorio a quello comune) alle “sole” condotte di omicidio di vittima consenziente ma vulnerabile (perché di minore età, o il cui consenso è viziato a causa di infermità o per l’abuso di alcool o stupefacenti; oppure è estorto con violenza, minaccia o suggestione o carpito con inganno, così come indicato nel comma terzo; a contrario, intendeva lasciare nella sfera della atipicità (quindi della liceità penale) le condotte poste in essere su soggetto il cui consenso è espressione del suo pieno e libero arbitrio, in esplicazione della scriminante dell’art. 50 c.p., e quindi quale fattispecie concreta, sottratta all’applicazione sia dell’art. 575 c.p. sia dell’art. 579 c.p..
A questa iniziativa la Corte costituzionale ha risposto ritenendo che l’abrogazione dell’art. 579 del codice “avrebbe reso penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa al di fuori dei tre casi di “consenso invalido” previsti dal terzo comma dello stesso articolo 579”. Si legge in motivazione: “Non gioverebbe opporre – come fanno i promotori e alcuni degli intervenienti – che l’abrogazione dell’art. 579 cod. pen. richiesta dal quesito referendario, non essendo totale, ma solo parziale, garantirebbe i soggetti vulnerabili, in quanto resterebbero ancora puniti gli omicidi perpetrati in danno dei soggetti indicati dall’attuale terzo comma…..Le ipotesi alle quali rimarrebbe circoscritta la punibilità attengono, infatti, a casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza alle quali hanno fatto riferimento le richiamate pronunce di questa Corte non si esauriscono, in ogni caso, nella sola minore età, infermità di mente e deficienza psichica, potendo connettersi a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici); senza considerare che l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili. In tutte queste ipotesi, l’approvazione della proposta referendaria – che, come rilevato, renderebbe indiscriminatamente lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito senza incorrere nei vizi indicati, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata – comporterebbe il venir meno di ogni tutela”.
In estrema sintesi, la validità costituzionale della norma nella sua interezza e la sua tenuta in termini di efficacia sarebbero da ravvisarsi per il fatto di comprendere altre forme di vulnerabilità, diverse ed ulteriori rispetto quelle elencate nel comma 3, ovvero di tipo economico, affettivo e familiare; inoltre la norma, nella sua globalità, consentirebbe un sindacato sui motivi che spingono la vittima a prestare il suo consenso. Tali situazioni di particolare ed ulteriore vulnerabilità sarebbero quindi, secondo l’interpretazione della Corte costituzionale, tutelate dalla norma nella sua interezza, con la previsione di una sanzione più affievolita rispetto quella prevista per l’omicidio comune.
Dunque, torna incessante, a supporto della perdurante legittimità della scelta di criminalizzazione contenuta nell’art. 579 c.p., l’argomento della suicidal vulnerability, presente anche nella decisione della Corte n. 242 del 2019 in tema di suicidio assistito, ossia della necessità di porre un argine ferreo a tutela dei soggetti esposti a condotte di manipolazione e di plagio che potrebbero essere convinti e compiere scelte di cui la stessa vittima, con il senno del poi, potrebbe pentirsi. È infatti empiricamente fondato il dato che il desiderio di morte non sia, in molti casi, espressione di un’autodeterminazione libera e ben ponderata. L’abrogazione anche parziale della norma provocherebbe prevedibilmente un sensibile aumento del rischio di maggiori condizionamenti culturali, di pressioni e di interferenze psicologiche, a scapito dei soggetti più deboli e più vulnerabili, costretti a confrontarsi con la prospettiva della morte anche contro le loro reali intenzioni o condizionati da motivazioni altruistiche: la volontà di non rappresentare un peso per la famiglia o per la società potrebbe rappresentare un ulteriore fattore di condizionamento culturale e di pressione per coloro che sono già in condizioni di dipendenza. Abusi, vulnerabilità e motivi sono quindi i concetti chiave che hanno guidato il ragionamento seguito dai giudici costituzionali a sostegno della necessità della norma nella sua interezza.
Ma siamo così sicuri che l’art. 579 v.p. consenta o dia spazio ad un sindacato sui motivi dell’azione? È possibile distinguere tra situazioni di vulnerabilità, alcune delle quali richiederebbero persino un aggravamento della pena prevista per la fattispecie base, da quelle condizioni di malattia irreversibile e sofferenza, ove l’applicazione della norma sarebbe contraria ai principi enunciati dalla medesima Corte costituzionale in tema di aiuto al suicidio?
Ritengo che la norma attualmente vigente, così come è formulata e che si vuole conservare, pecca per eccesso da un lato, lì dove, nel comma 3, appiattisce il consenso di coloro che sono esposti a forme di vulnerabilità specifiche e “tipizzate” (anche quelli affetti da patologie irreversibili e che lamentano sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili), la cui tutela è affidata alla norma generale sull’omicidio, mentre, rispetto all’istanza di tutela di situazioni di vulnerabilità atipiche, diverse ed ulteriori da quelle tipizzate, pecca per difetto, non consentendo alcun sindacato sui motivi che potrebbero indurre la vittima a prestare il consenso o che hanno animato il reo a farsi interprete della sua volontà, in quanto incapace di penetrare nelle motivazioni degli attori del fatto.
2. L’irrilevanza dei motivi nell’art. 579 c.p.
Come si diceva, le ragioni dichiarate dalla Corte costituzionale sono quelle di volere garantire i soggetti fragili e vulnerabili da ogni possibile forma di interferenza nel processo motivazionale, riconducibile “a fattori di varia natura (non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici”) e che verrebbe preservata proprio dal comma primo dell’art. 579 c.p.
Tuttavia una analisi attenta della norma di cui all’art. 579 c.p. non fornisce grandi elementi a supporto dell’argomento, non consentendo affatto una valutazione dei motivi che hanno indotto a vittima a prestare il consenso.
Ed infatti, a dispetto di quanto si legge nella relazione ministeriale sul progetto del codice penale, il novum legislativo proprio dell’art. 579 c.p. non riflette l’esigenza di mitigare il rigore sanzionatorio dell’omicidio pietatis causa – quindi di dare rilevanza ai motivi che hanno spinto il reo a cagionare la morte di un uomo con il suo consenso - ma, viceversa, quella di correggere la troppo indulgente prassi liberale che si era diffusa nella vigenza del precedente codice, incline a punire la fattispecie concreta come aiuto al suicidio, piuttosto che come omicidio semplice. Tra le due norme - istigazione o aiuto al suicidio e omicidio semplice- si è quindi inserita la fattispecie speciale in commento, che presenta una cornice edittale inferiore rispetto a quella prevista per l’omicidio comune, ma che viene strutturata in modo talmente residuale, a causa dei richiami alla norma generale, da ridurne sensibilmente, in via di fatto, l’applicazione.
Il chiaro intento del legislatore emerge proprio da un’attenta analisi degli elementi costituitivi. Infatti, a ben vedere, l’omicidio con il consenso della vittima tratteggiato nel primo comma dell’art. 579 c.p. è totalmente avulso da qualunque contesto sociale e relazionale che ne denoti una minore gravità e pericolosità, dai motivi e dalle condizioni che inducono la vittima a prestare il consenso, dai motivi che animano l’agire dell’autore ad assecondare tale volere e che attenuano il disvalore del suo agire. In omaggio ad una concezione tanto formale quanto vuota della libertà negoziale, ciò che la norma punisce in modo più attenuato è – semplicemente - l’omicidio realizzato con il consenso di una persona libera, capace, perfettamente sana nella mente e nel corpo che, per qualunque motivo e in qualsiasi contesto di vita, accetti lucidamente di morire per mano altrui, prestando il suo consenso.
Questa valorizzazione dell’autodeterminazione della vittima, tale da affievolire il disvalore di un fatto di omicidio, non è affatto sintomatica di una minore colpevolezza o di una minore pericolosità del reo: nulla si specifica quanto alle condizioni della vittima né a quelle del reo; nulla trapela in ordine al contesto di vita - e psicologico - in cui matura questo insolito “accordo” tra autore e vittima, lasciando ipotizzare una fattispecie concreta in cui la pericolosità e colpevolezza del reo sia persino maggiore di quella che connota l’omicidio comune e semplice, non aggravato da circostanze.
Questa conclusione è tratta dalla lettura del comma secondo. Non possiamo trarre elementi che consentano di contestualizzare e ricostruire la drammaticità della vicenda umana sottesa - sintomatica di una minore colpevolezza e capacità a delinquere del reo - neppure dalla lettura del comma secondo, che pone il divieto di applicazione delle circostanze aggravanti di cui all’art. 61 c.p., dettato unicamente dalla ragione tecnica di consentire una effettiva diminuzione della pena che non sia compensata dal bilanciamento con eventuali circostanze aggravanti. Ne segue che l’omicidio del consenziente, quale figura speciale e attenuata rispetto quella comune, così come scolpito nel primo comma dall’art. 579, ben può comprendere tanto quello animato da motivi altruistici e/o pietistici (c.d. omicidio pietatis causa messo in atto col dichiarato fine di sottrarre la vittima ad ulteriori patimenti cagionati dallo stato patologico dal quale è affetta, e dunque con l’intima ambizione di strapparla ad una gratuita ed ineluttabile sofferenza), tanto quello che si svolge in un teatro ben diverso, innescato da un’iniziativa dell’autore, mosso da motivi egoistici, di lucro, di gioco, di sfida, di onore, abbietti o futili, sintomatico di una maggiore pericolosità, anche quando sia supportato da un assai teorico consenso libero e consapevole della vittima.
Ciò a maggior riprova, nell’ambito della struttura della fattispecie attenuata, della totale irrilevanza della condizione di sofferenza in cui si trova la vittima e, in generale, di particolari contesti di vita da cui scaturisce il fine altruistico, ben potendo, viceversa, la stessa norma essere applicata in casi di un malevolo e egoistico interesse del proponente a cagionare la morte della vittima con il suo consenso, stante la neutralizzazione delle aggravanti operata dal comma 2.
Ne risulta del tutto sconfermato l’assunto della corte costituzionale, ossia che la norma consente di accedere ai contesti di vita, familiare, economico sociale, in cui si matura l’accordo tra vittima e autore. La condotta del reo sembra comprendere un quid pluris rispetto una mera obbediente esecuzione materiale della volontà della vittima, e tratteggiare un’attività di proposta, di progettazione, di blando convincimento e suggerimento, se non ancora di violenza, minaccia, induzione in errore, istigazione, determinazione e persino di suggestione– ma ciò segna i labili confini di applicabilità della norma a favore della fattispecie generale di omicidio – a conferma dell’ipotesi ricostruttiva secondo cui la condotta del reo ben può essere animata da un interesse egoistico a cagionare la morte della vittima, e non solo da motivi altruistici o pietistici, persino espressivo un maggiore disvalore, e ciononostante sottratto all’applicazione delle circostanze aggravanti.
Inoltre, come vedremo nel paragrafo successivo, come se ciò non bastasse, qualunque forma di interferenza, di dialogo, ma anche di suggestione che incida delle “altre” condizioni di vulnerabilità della vittima, segna i labili confini di applicabilità della fattispecie attenuata con quella generale, neutralizzandone di fatto l’applicazione.
3. La tutela dei soggetti vulnerabili nell’art. 579 c.p.
Occupiamoci più dettagliatamente del comma 3 che, nel trattare le situazioni di vulnerabilità tipiche, rinvia alle disposizioni relative all’omicidio.
Invero, il maggiore disvalore dell’azione connotata da violenza, minaccia, induzione in errore e suggestione, a fronte di una compromessa autodeterminazione della vittima, costituisce il discrimen tra omicidio comune e fattispecie speciale, operando come causa di esclusione della tipicità della norma speciale che, solo allora, lascia riemergere tutte le potenzialità punitive delle circostanze aggravanti previste dall’art. 61 c.p. Sono quindi ripristinate le disposizioni dell’omicidio ogni qual volta che la manifestazione di volontà del consenziente sia viziata in conseguenza di presunzione legale o di accertamento in fatto, ovvero qualora la vittima sia minore di anni 18 o sia “inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica determinata da un’altra infermità o dall’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti”.
Inoltre, terza ipotesi di rinvio alla norma generale che punisce l’omicidio è quella in cui il consenso è l’effetto voluto dell’attività di coazione, convincimento, induzione, persuasione, promozione dell’autore, inclusa l’istigazione e la determinazione. Tra queste, si porta all’attenzione del lettore la condotta di “suggestione”, la cui genericità e vaghezza – ai limiti della costituzionalità - apre il varco ad ogni attività di interazione, qualunque forma di vulnerabilità, e la cui verifica, di fatto diabolica, ridimensiona fortemente l’applicazione del comma 1 dell’art. 579. La “suggestione”, infatti, comprende la condotta di colui che plagia e “fiacca la volontà della vittima al punto da renderla succube” (così la Relazione al codice penale, che parla di c.d. omicidio dell’apparente consenziente), in qualche modo incidendo su contesti relazionali di dipendenza e di disagio. Proprio l’inclusione delle condotte di “suggestione” - ancora più blande di quelle di istigazione o determinazione tipizzate dalla norma che punisce l’istigazione o aiuto al suicidio- sembra rimettere pericolosamente in discussione la coerenza del quadro normativo e ridefinire i rapporti tra norma generale e norma speciale, negando l’applicazione della seconda proprio ogni qual volta vi sia stata un’attività di interazione che si inneschi sulle condizioni “atipiche” di vulnerabilità della vittima, suggestionabile e persuadibile più facilmente, a prescindere da condizioni di incapacità mentale affievolita, per esempio, in ragione di condizioni di dipendenza economica, affettiva, sociale e relazionale.
Ancora una volta, risulta poco coerente l’argomento che fa perno sulla vulnerabilità e rilevanza delle condizioni della vittima, a fondamento della necessità di conservare la disposizione del primo comma.
4. La sentenza della Corte costituzionale tedesca: l’autodeterminazione è il valore primario
Dopo questa breve ricognizione della portata normativa dell’art. 579 c.p., volgiamo lo sguardo oltre l’ambito nazionale e prestiamo attenzione agli argomenti sostenuti dalle Corti costituzionali tedesca ed austriaca e i presupposti giuridico-culturali dai cui le Corti sono partite proprio in tema tutela dei soggetti vulnerabili.
Di particolare interesse è la decisione del Tribunale costituzionale tedesco del il 26 febbraio del 2020, concernente la fattispecie di aiuto negoziale al suicidio, in tema di rapporti tra autodeterminazione e tutela della vita e di soggetti vulnerabili, che ha dichiarato, senza mezzi termini, la totale illegittimità costituzionale del § 217 del StGB.
In sintesi, per il Tribunale tedesco il diritto allo svolgimento della personalità e il diritto inviolabile all’autodeterminazione offrirebbero una inequivocabile base costituzionale al diritto di morire, espressivo della decisione, assunta liberamente, di porre volontariamente fine alla propria vita e, persino, di poter fruire del supporto di terzi, che non è soggetto ad alcun sindacato, limite o condizione. Dal diritto a morire, quale estensione contenutistica dei diritti inviolabili dell’individuo, discende il diritto a stabilire le modalità della propria morte, comprese quelle che fruiscono dell’altrui assistenza. Perciò, vietare ai terzi di offrire un supporto, ponendo così l’individuo a realizzare la decisione in una condizione di inumana o irrealistica solitudine, o ad abbandonare il proposito, equivale, di fatto, a negare il diritto stesso. L’argomento centrale per affermare la incostituzionalità della norma valorizza i contenuti positivi e negativi del diritto al libero sviluppo della personalità desumibile dall’art. 2 co. 1° e 2, GG., come comprensivo, quale libertà negativa di agire, della facoltà di disporre della propria vita, quindi anche il diritto a morire. Nella sua conformazione quale diritto all’autodeterminazione alla morte il diritto generale della personalità comprenderebbe non solo il diritto dell’individuo di porre fine alla propria vita in modo autodeterminato, ma altresì la decisione di ricorrere al sostegno di terzi, che in quanto espressione dell’identità personale, non può essere sottoposto a limiti o condizioni. Si tratta di decisioni altamente personali e intimamente esistenziali, espressione dell’identità personale, connesse con il valore dell’autodeterminazione che impronta l’ordinamento. Qualunque sia il significato che l’individuo attribuisce alla propria vita, qualunque sia il motivo che induce una persona a concluderla, si tratta di rappresentazioni e di convinzioni personalissime che, in linea di principio, devono essere rispettate da parte dello Stato e della società, quale atto di autonoma autodeterminazione. Secondo la Corte costituzionale tedesca il diritto di disporre sulla propria vita non è limitato a particolari situazioni patologiche gravi od insanabili o a determinate fasi della vita e della malattia. Un restringimento dell’ambito della protezione a determinate cause e motivi equivarebbe ad una valutazione dei motivi che hanno indotto la persona a suicidarsi e ad una loro predeterminazione contenutistica, che rimane estranea alla concezione costituzionale della libertà. Al di là del fatto che tale limitazione potrebbe condurre a prassi incerte, esso si pone in contraddizione con l’idea, determinante per il Grundgesetz, della dignità dell’essere umano e del suo libero sviluppo in autodeterminazione e autoresponsabilità. Il radicamento del diritto alla morte autodeterminata nella garanzia della dignità umana di cui all’art. 1 co. 1° GG implica, appunto, che la decisione sulla conclusione della propria vita, assunta sotto la propria responsabilità, non abbia bisogno di alcun ulteriore fondamento o giustificazione.
Invero, il Tribunale costituzionale tedesco recepisce una premessa filosofico politica alla luce della quale leggere i diritti individuali tutelati nella Costituzione del 1949: il valore assoluto della autodeterminazione e della dignità (intesa in senso soggettivo e non statualistico oggettivante) dell’individuo, tanto represso e violato dal precedente assetto politico e costituzionale, perché asservito a logiche stataliste. La dignità non è un attributo ontologico e inderogabile del vivere in ogni circostanza che nessun giudizio soggettivo può mai scalfire, una dotazione coestensiva dell’essere umano che la rende un limite delle libertà, non un suo presupposto, ma la sua ragion d’essere. Questo è il leitmotiv che consente al Tribunale costituzionale di trarre, sic et simpliciter, e senza timore di incorrere in critiche, l’affermazione del diritto a morire e all’autodeterminazione alla morte quale species del generale diritto della persona, malgrado manchi nella Costituzione tedesca una esplicita base costituzionale, così come manca una espressa enunciazione del diritto a morire anche nella nostra carta costituzionale. A parità (o forte somiglianza) di norme costituzionali in tema di libertà e diritti individuali, la Corte italiana, espressione di una cultura giuridica secolare e radicata di avversione al suicidio e di repressione di ogni forma di partecipazione, ha assunto un presupposto filosofico-politico opposto, negando l’esistenza di un diritto a morire.
5. La decisione del Tribunale costituzionale tedesco: la tutela dei soggetti vulnerabili e la prognosi di pericolo di abuso
Inoltre, secondo la Corte tedesca, la libera decisione di concludere la propria vita non può rimanere confinata nella ipotetica e più assordante solitudine né relegata in una irrealistica e ristretta sfera privata. Sebbene si tratti di scelta di carattere personalissimo, essa si pone in interazione con la condotta altrui. Il diritto ad una propria morte è in stretto rapporto contenutistico e connessione funzionale con il diritto a fruire dell’aiuto e assistenza fornita da terzi perché nessuno è un’isola e l’autodeterminazione è un valore che o c’è o non c’è. L’individuo si trova in un contesto relazionale, in una fitta trama di rapporti e la vita comunitaria è il terreno di cultura dei diritti di libertà. In particolare i diritti alla personalità sono di fatto annullati se collocati fuori dal contesto sociale e relazionale.
Nell’ambito del diritto costituzionale, il sindacato sulle valutazioni prognostiche di pericolo in relazione alle condotte di abuso nei confronti dei soggetti vulnerabili, come quella posta alla base del divieto del § 217 StGB, non possono avere un valore assiologico permanente, ma puramente empirico. Quindi il legislatore è obbligato alla rettifica qualora la sua valutazione originaria qualora, in un momento successivo, alla luce dell’evoluzione del tessuto sociale, questa si rivelasse, anche solo in parte, erronea. Secondo la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale, un tale obbligo di monitoraggio permanente è ancor più necessario in ragione del valore dei beni giuridici coinvolti, in relazione al tipo della sua messa in pericolo e in base all’immanente cambiamento delle relazioni sociali.
La decisione suicida, nella sua attuazione, può dipendere dal coinvolgimento dei terzi nella fase della ideazione e progettazione e in quella della sua attuazione. I terzi quindi devono poter offrire liberamente quel supporto, sia morale che materiale, necessario per la progettazione e realizzazione del proposto suicida. Altrimenti, il diritto al suicidio verrebbe di fatto svuotato. Quando l’esercizio di un diritto fondamentale dipende dal coinvolgimento di terzi e da ciò dipende anche il libero sviluppo della persona, non è conforme ai principi costituzionali limitarne l’ambito di esercizio vietando a soggetti terzi di offrire un sostegno o un supporto.
Le esigenze di tutela dei soggetti vulnerabili trovano spazio all’interno di una normazione che assume a valore centrale l’autodeterminazione. Le prevedibili aggressioni all’autodeterminazione del suicida, eccetto i casi di palese vizio della volontà, possono giungere da due versanti: dall’esterno, a causa della diffusione di modelli culturali favorevoli all’assistenza al suicidio e alla morte su richiesta; nelle relazioni intersoggettive, in caso di «pericolosi conflitti d’interessi», emozionali e anche economici cui è esposto il singolo e di deficit informativi. Queste situazioni possono minacciare concretamente l’autonomia personale e il legislatore deve contrastarle. Si impone quindi come legittimo lo scopo di contrastare le decisioni di fine vita che non siano sostenute da una libera, responsabile e ponderata autodeterminazione, scevra da qualunque interferenza motivazionale, in un’ottica di valorizzazione della libera volontà quale presupposto del diritto ad autodeterminarsi anche nella morte.
6. La decisione del tribunale costituzionale austriaco
Altra importante tappa della estensione del diritto all’autodeterminazione terapeutica anche alle fasi finali della vita umana, è costituita dalla pronuncia del Verfassungsgerichtshof austriaco del 11 dicembre 2020 sulla legittimità dei § 77 e 78 del codice penale, norme che puniscono, rispettivamente, l’omicidio del consenziente (§ 77 StGB), l’istigazione al suicidio (§ 78 primo inciso StGB) e l’aiuto al suicidio (§ 78 secondo inciso StGB).
In sintesi, tutti i ricorrenti ritengono che i §§ 77 e 78 StGB sanzionino penalmente la violazione dell’obbligo a continuare a vivere, qualora l’individuo non sia in grado di porre fine alla loro vita in modo autonomo, costringendo così individui sofferenti a sopportare situazioni inumane e degradanti, privi anche del sollievo dell’idea di poter ricorrere all’assistenza sanitaria quando non si ha più la forza di resistere (c.d. 'suicidio prolungato') o - per evitare conseguenze penali a carico dei familiari o medici che li supportano - che li costringa a recarsi all’estero per realizzare la propria volontà. Nella pratica, secondo i ricorrenti, le norme penali esistenti limiterebbero l’accesso legale ad un farmaco di ultima generazione, il Pentobarbital sodico, in uso nelle cliniche svizzere, che consentirebbe la realizzazione di una morte sicura, non violenta, indolore e non degradante. Le disposizioni di cui ai §§ 77 e 78 StGB, dunque, nell’impedire ai sanitari e a coloro che offrono la loro assistenza, la prescrizione e la somministrazione di tale farmaco, in numerosi casi impediscono la possibilità di poter accedere ad una morte autodeterminata e dignitosa medicalmente assistita.
Ripercorriamo le tappe del ragionamento seguito dal giudice costituzionale austriaco, il quale, pur non proclamando una amplissima estensione del principio di autodeterminazione e non affermandone la intrinseca insindacabiltà, come ha fatto quello tedesco, neppure lo delimita a specifiche condizioni che ne tratteggiano l’area di non punibilità solo con specifico riferimento al caso sottoposto al vaglio costituzionale, come ha fatto la Corte costituzionale italiana.
Va immediatamente chiarito che il Tribunale costituzionale assume come valore guida il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, diritto la cui effettività comprende le fasi finali della propria vita che gode di ampia estensione e riconoscimento anche a livello di legislazione secondaria, come dimostra il § 110 StGB che punisce la fattispecie di “trattamento sanitario arbitrario” , ovvero in assenza del consenso del paziente, nonchè la legge sul Testamento biologico, la quale tuttavia circoscrive validità e vincolatività del disposizioni del paziente alle sole ipotesi di interruzione o di rinuncia di terapie. Altra norma di fondamentale importanza vigente nell’ordinamento austriaco è il § 49 della legge ÄrzteG del 1998 introdotta con la novella n. 20 del 2019. Tale norma, rubricata “Assistenza ai morenti” ("Beistand für Sterbende") stabilisce nel primo comma che «il medico ha il dovere di assistere i soggetti morenti da lui assunti in trattamento garantendo la loro dignità»[1], mentre nel secondo comma, in chiusura, dispone: « ai sensi del comma 1, è anche permesso nella cornice di indicazioni di medicina palliativa, assumere misure in favore di pazienti morenti il cui uso, finalizzato a mitigare dolori e sofferenze gravi, prevalga in relazione al rischio di un acceleramento della perdita di funzioni vitali essenziali». Sostanzialmente, con la disciplina del § 49 viene previsto un obbligo espressamente normato di assistenza farmacologica e di trattamento del dolore, ed anche se l’effetto indiretto di tale condotta possa costituire la causa della sua morte. In particolare la norma consente – o meglio obbliga - il medico ad adottare trattamenti palliativi nei confronti di pazienti morenti, anche se i benefici nell’alleviare il dolore e l’agonia superino il rischio che ciò possa accelerare la perdita delle funzioni vitali fondamentali e anche in caso di irreversibile compromissione di una o più funzioni vitali, al cui verificarsi è prevedibile il sopraggiungere della morte in breve tempo. In sostanza il comma 2 del § 49 della legge sulle professioni sanitarie consente la somministrazione di farmaci palliativi finalizzati a lenire gravissimi dolori anche se comportano un’accelerazione della perdita delle funzioni vitali, in tal modo sancendo definitivamente la legittimità della c.d. eutanasia attiva indiretta ovvero quella che si verifica come effetto non voluto, indiretto ma inevitabile di una condotta lecita, consistente nella somministrazione di terapie palliative. Nel complesso, la normativa vigente nell’ordinamento austriaco consente pacificamente di ritenere come condotta socialmente adeguata non solo l‘eutanasia mediante omissione (cd. eutanasia passiva), ma anche dell’ eutanasia attiva indiretta.
Alla luce di questo quadro normativo, il Tribunale costituzionale austriaco, nel respingere la richiesta di incostituzionalità rispetto alle prime due norme concernenti l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio, ha appuntato i suoi rilievi esclusivamente verso la condotta di aiuto al suicidio, dichiarandone l’illegittimità costituzionale. L’intervento ha quindi riguardato esclusivamente l’assistenza al suicidio, lasciando indenne il reato che punisce l’omicidio del consenziente (§77) e le condotte di induzione morale al suicidio (§78 primo inciso). Con riferimento all’impugnazione della norma che punisce l’omicidio su richiesta (Tötung auf Verlangen) e dei suoi rapporti con la norma generale che punisce l’omicidio, il Giudice delle leggi dunque ha respinto le richieste dei ricorrenti, evidenziando che una sua eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale comporterebbe l’espansione della portata applicativa della norma generale costituita dall’omicidio, con conseguente effetto di aggravamento della risposta sanzionatoria e compressione della liberta di autodeterminazione, a dispetto delle richieste dei ricorrenti. Ne consegue che in caso di un’abolizione del § 77 StGB, la condotta di un aiuto a morire (Sterbehilfe) rimarrebbe ancora punibile – ai sensi del § 75 StGB – e che il risultato cui mirano i ricorrenti –la depenalizzazione dell’eutanasia attiva – non potrebbe, di conseguenza, essere raggiunto, ma frustrato posto che l’abolizione del § 77 StGB avrebbe, quale conseguenza, addirittura un inasprimento della pena, cui i ricorrenti non mirano in alcun modo.
Peraltro, già la giurisprudenza aveva richiesto nel caso di morte su richiesta ai sensi del § 77 StGB, requisiti abbastanza stringenti: non basta un mero consenso che scaturisce da uno stato d’animo temporaneo ad integrare la norma di favore, ma occorre una seria richiesta da parte della vittima, tanto che se il suicidio in sostanza concretizza un’ipotesi di omicidio commesso dalla vittima quale autore mediato (als unmittelbare Täterschaft), la condotta non può essere sussunta ai sensi del § 77 né del §78 StGB ma costituisce omicidio vero e proprio.
Il quadro normativo nazionale e interno consente quindi al giudice costituzionale austriaco di affermare che l’ordinamento attribuisce al diritto all’autodeterminazione dell’individuo in materia di cure mediche un valore centrale e che tale valore, in quanto fondamentale, in linea di principio è ostile ad una contrapposizione o ad bilanciamento con altri interessi quali ad esempio la tutela del diritto alla vita, al contrario, costituendone una sua emanazione.
Ritiene il Bundesverfassungsgericht che, dal punto di vista dei diritti fondamentali, non fa alcuna differenza in linea di principio se il paziente sia sottoposto ad un trattamento medico e si trovi, al momento della richiesta di assistenza al suicidio, nelle condizioni di intollerabilità della sofferenza e di autodeterminazione, e quindi possa disporre per l’immediato per la sua morte, o che la decisione di fine vita sia assunta nell’ambito più ampio di un testamento biologico per il futuro, ove vengano pianificate anche le decisioni in ordine al rifiuto o interruzione di cure o in ordine alla somministrazione di terapie palliative. Piuttosto, è di cruciale importanza, in ogni caso, che la decisione sia espressione della sua libera autodeterminazione, sia radicata, autentica, persistente nel tempo.
L’indicazione è stata recepita dal legislatore austriaco che ha implementato i contenuti del testamento biologico, con inclusione anche delle condotte di assistenza materiale al suicidio mediante la somministrazione del Pentobarbital sodico nei confronti dei soggetti gravemente malati e prossimi alla morte.
7. Per chiudere: prove tecniche di regolamentazione a garanzia dell‘autodeterminazione nei progetti di legge tedeschi presentati da SPD e dai Verdi
Torniamo adesso alla decisione della Corte costituzionale federale tedesca e alle sue implicazioni.
Il punto di partenza è che la decisione dell'individuo di porre fine alla propria vita è un atto di autodeterminazione meritevole di rispetto. Decisiva è quindi la volontà del richiedente rispetto qualunque valutazione basata su criteri di ragionevolezza, su valori oggettivi e generali, insegnamenti religiosi, modelli sociali e ideologici su come affrontare la vita e la morte. I requisiti di accesso alla procedura sono differenti a seconda che il richiedente si trovi in una condizione di patologia grave e irreversibile oppure che aspiri al suicidio per motivi diversi dalla condizione patologica grave, ma in ogni caso deve essere rispettata la decisione, in quanto espressione dell’autonomia individuale, senza alcuna interferenza o giudizio o pregiudizio su come vivere e come morire.
Pertanto, secondo il Tribunale costituzionale tedesco, un divieto penale avente ad oggetto un atto di estrinsecazione dell’autonomia individuale può essere tollerato o accettato legittimamente a condizione che l'ordinamento giuridico garantisca in modo sufficientemente chiaro con regolamentazione apposita i requisiti di legittimità e le procedure di accesso a forme di assistenza al suicidio, tali da garantire al massimo che la morte sia effettivamente autodeterminata del paziente. Solo a seguito dell’introduzione di una normativa di settore che disciplina e garantisce l’accesso a sostanze stupefacenti al fine di poter realizzare la propria morte, sarà legittima la previsione di norme punitive e sanzionatorie a carattere penale o e amministrativo, poste a garanzia della libertà e autodeterminazione della volontà del paziente da pressioni esterne e interessi egoistici. La ragione e il limite dell’intervento legislativo deve essere quello di garantire che la decisione di suicidio sia basata su un autentico ed autonomo libero arbitrio.
Tuttavia, anche successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale federale e al radicarsi di una giurisprudenza favorevole del BVerwG, secondo i sostenitori del diritto all’aiuto al suicidio, in assenza di una specifica regolamentazione, esistono ancora molti ostacoli che di fatto impediscono una piena fruizione del diritto da parte di tutti gli interessati, ovvero sia coloro che aspirano ad una morte determinata sia coloro che offrono il loro supporto. Infatti, i richiedenti assistenza al suicidio devono affrontare costi ingenti e sono esposti ad un mercato senza scrupoli, e anche coloro che sono disposti a fornire il loro supporto si vedono esposti a una incertezza giuridica che scaturisce da una inadeguata regolamentazione. Ad esempio, ai medici è fatto divieto di prescrivere il pentobarbital sodico, senza incorrere nella violazione della normativa in tema di sostanze stupefacenti e molti di loro devono confrontarsi, nella maggior parte degli Stati federali tedeschi, con il divieto professionale di assistenza al suicidio.
In questo contesto culturale si collocano i due progetti di legge di regolamentazione dell’assistenza al suicidio presentati dai Verdi (BTDrucks 19Wahlp. Suizidhilfe GrünenBundnis90) e dal SPD (BTDrucks 19 Wahlp. Suizidhilfe SPD FDP) in tema di attuazione del diritto all’assistenza al suicidio, finalizzati sostanzialmente a legalizzare la prescrizione e somministrazione medicalmente assistita del pentobarbital sodico.
In particolare, il disegno di legge presentato da SPD mira a salvaguardare il diritto alla morte autodeterminata del paziente da un lato, e dall’altro anche a garantire da rischi penali colui che vuole spontaneamente e senza alcun obbligo, offrirgli assistenza, regolamentando in modo chiaro e univoco i requisiti di regolamentazione e di normalizzazione della condotta del terzo di assistenza, morale e materiale, al suicidio. L'attenzione è quindi rivolta sia all'autonomia e alla libertà e responsabilità della persona disposta a morire in modo che si formi una determinazione autonoma, consapevole, matura, informata, duratura, supportata da garanzie e scevra da interferenze di ogni tipo, in modo da limitare al massimo l’emergere di situazioni di vulnerabilità; sia ad assicurare che coloro che forniscono assistenza o consulenza, anche solo morale, non incorrano in responsabilità penale.
Inoltre, da un lato si proclama il diritto a decidere della propria morte, ma dall’altra si stabilisce che “ nessuno è obbligato ad assistere al suicidio altrui (§§ 1 e 2). Il diritto costituzionale alla morte autodeterminata assicura la libertà di fruire dell’aiuto altrui, ma non include un diritto legale positivo all'assistenza concreta da un terzo, perché non solo la decisione di morire in modo autodeterminato richiede rispetto e accettazione, anche la decisione consapevole di una persona di non assistere ad un suicidio altrui impone uguale rispetto e accettazione.
Il focus del progetto di legge parte dalla premessa che le persone che intendono porre fine alla loro vita sono attualmente in gran parte lasciate sole nel loro dolore e nelle loro decisioni di fine vita, sia all'inizio di un processo decisionale, cioè quando la volontà di voler morire non è ancora saldamente determinata, sia quando si è già manifestato nella mente un pensiero o la decisione è già stata presa.
Del resto, il progetto di legge segue le indicazioni della Corte Costituzionale Federale, la quale aveva ben posto i requisiti di validità sostanziali della decisione: che si tratti di la volontà libera e non influenzata da un disturbo psichico o una pressione esterna, che la persona interessata sia effettivamente a conoscenza di tutti gli aspetti e le informazioni rilevanti in modo che possa soppesare i pro e i contro, che possa valutare le conseguenze e prendere una decisione con cognizione di causa, permanente nel tempo e quindi convinta e radicata (BVerfG, 26 febbraio 2020 - 2 BvR 2347/15 -).
Il disegno di legge al § 4 quindi prevede l’istituzione di centri di consulenza finalizzati ad evitare, quanto più è possibile, decisioni suicidarie affrettate e non formate autonomamente, dettando requisiti e procedure volte ad assicurare che la “decisione di fine vita” si concretizzi e culmini a seguito di un processo di informazione i cui contenuti, tempistica, modalità, sono ampiamente regolamentate: che si tratti quindi di una decisione formata in modo maturo, informato, tracciabile, trasparente, persistente. Nel dettaglio è disciplinata l’attività di consulenza, la quale mai deve consistere in giudizio, pressione, indirizzo verso una soluzione o l’altra, ma deve svolgersi in modo neutrale. Le persone che vogliono morire sono spesso sole con i loro pensieri e le loro decisioni. L’istituzione di questi consultori consente loro di esternare i loro pensieri ed emozioni anche più intimi, senza pregiudizi, in modo che sia sperimentato un vero supporto nell’eventuale percorso di autodeterminazione della volontà. Non importa quale decisione qualcuno prenda, né è necessario essere d’accordo con tale decisione. C'è un solo criterio: il rispetto del diritto all'autodeterminazione di ogni individuo.
Il disegno di legge mira quindi a creare un'infrastruttura di consulenza istituzionalizzata e organizzata e obbligatoria che faccia sì che le persone abbiano l'opportunità di affrontare il tema del suicidio e dell'assistenza al suicidio tempestivamente, in modo riservato, anche anonimo, qualificato professionalmente, disinteressato, non mosso da motivi di lucro, non influenzato da una preconcetta visione ideologica, neutra sotto il profilo dei contenuti ( § 4 del progetto)[2].
Successivamente alla esecuzione di tale consulenza il medico curante potrà prescrivere il farmaco pentobarbital sodico purchè, a sua volta, fornisca la sua consulenza, in modo da convincersi dell’intimo, informato radicato volontà del paziente. È indicato espressamente che le informazioni fornite dal medico curante integrano la consulenza completa fornita dai centri di consulenza ai sensi del paragrafo 4. Il contenuto delle informazioni mediche deve includere, in particolare, la descrizione delle reazioni dell'organismo all'ingestione di un farmaco ai fini del suicidio. Inoltre, devono essere valutati i possibili rischi, tra cui il fallimento del suicidio e il verificarsi di gravi danni fisici. Se la persona suicida è affetta da una malattia, il medico deve indicare opzioni di trattamento alternative e opzioni di trattamento medico palliativo e discuterne con il paziente (§6).
La prescrizione di un farmaco ai fini del suicidio è consentita solo se il medico curante ha ottenuto il certificato di consulenza ai sensi del paragrafo 4 e che la consultazione non sia stata effettuata più di otto settimane prima. Questo periodo garantisce, da un lato, che la consulenza sia stata regolarmente effettuata e sia pertinente rispetto la condizione di vita attuale della persona che è disposta a morire e, dall'altra, che la persona che viene consigliata sia ancora a conoscenza della conversazione. Se la consulenza non è stata data o se è trascorso un periodo troppo lungo, il medico non può prescrivere il farmaco (§ 6).
Inoltre, in ossequio al principio dei il c.d. “dei quattro occhi” si impone meccanismo procedurale di garanzia che vieta che coloro che forniscono consulenza possano materialmente supportare il paziente prescrivendo o anche supportando materialmente il suicidio. La norma tende a risolvere possibili conflitti di interessi.
Un breve cenno merita anche il BTTDrucks 19Wahlp. Suizidhilfe GrünenBundnis90, presentato dai Verdi, intitolato Legge a tutela del diritto alla morte autodeterminata il quale, senza modificare la normativa in tema di stupefacenti, esplicitamente sancisce nel paragrafo 1 il diritto all’accesso controllato a stupefacenti al fine di realizzare una morte, libera, degna, autodeterminata, espressione del libero arbitrio, e che stabilisce, d’altro lato, al comma 2 che “Nessuno è obbligato ad assistere al suicidio” (§1).
Il § 2 invece stabilisce i requisiti di liceità della decisione di fine vita, e in particolare tipizza i casi in cui deve escludersi la piena consapevolezza e intima volontarietà della richiesta, rinviando alla normativa di settore, e prevendendo anche l’acquisizione di una perizia.
Particolarmente interessante è il § 3 che tratteggia la Procedura di accesso in caso di emergenza medica e che rinvia ai requisiti indicati dalla legge sull’uso di stupefacenti a scopo terapeutico, cui vengono apportate delle modifiche, in modo da consentire la prescrizione e la distribuzione del pentobarbital sodico in caso di richiesta di assistenza medica al suicidio.
La procedura richiede che la decisione di fine vita sia espressa in una dichiarazione scritta la cui efficacia nel tempo è limitata ad un solo mese e che espressamente deve recare: i motivi che supportano la decisione di morire, la durata del suo manifestarsi, l’assenza da pressioni, preoccupazioni, coercizioni e influenze simili, nonché la specifica indicazione del perché le opzioni disponibili alternative, offerte da privati o da strutture pubbliche, non siano state ritenute soddisfacenti.
Anche questo progetto prevede l’istituzione di centri di consulenza autorizzato e indipendente, anche privato, che deve sentire il richiedente almeno due volte e che certifichi l’assenza di condizioni di abusi e di vulnerabilità e eventuali dubbi. Il colloquio deve riferire delle possibili alternative e prospettive di aiuto. I richiedenti assistenza al suicidio a morire possono essere supportati dai medici o da qualsiasi terzo (persone fisiche o giuridiche) nell'attuazione della loro volontà. Tuttavia, le persone fisiche o giuridiche che offrono assistenza terminale su base professionale possono svolgere tali servizi solo se sono autorizzate dall’autorità competente e a condizione di prestare assistenza disinteressatamente. L'autorizzazione può essere revocata se vengono meno i presupposti o se i prestatori di assistenza violano le disposizioni della legge.
Il progetto mira a regolamentare la prescrizione del farmaco a scopo terapeutico in sicurezza. Pertanto è previsto un dovere di conservazione del farmaco e un divieto di cessione ad altri a carico del personale sanitario e delle persone abilitate a prestare assistenza, in modo da impedire un accesso indiscriminato da parte di terzi fuori dalla procedura.
Inoltre è previsto un dovere di restituzione dei narcotici dispensati entro quattro settimane se le persone disposte a morire si sono astenute dall’attuare il loro desiderio, o comunque entro un anno dalla somministrazione del farmaco se il suicidio non si realizza.
Particolarmente interessante è che il progetto di legge presentato dai Verdi è l’unico che prevede reati e illeciti amministrativi a garanzia della procedura di consulenza, qualora si rendano informazioni inesatte o false al fine di ottenere la prescrizione del farmaco anche per altre persone, qualora si prescriva il farmaco senza che sia stato prestato il servizio di consulenza, o qualora si fornisca assistenza al suicidio in assenza di autorizzazione.
[1] Il § 49 comma 1 ÄrzteG obbliga il medico, fra l’altro, ad assistere coscienziosamente tutti i sani ed i malati da lui accettati a fini di consulenza medica, senza differenza di persona e secondo scienza ed esperienza, così come a garantire il benessere del paziente mediante il rispetto delle prescrizioni vigenti e degli standard di qualità specifici della professione.
[2] Si riporta per comodità la traduzione del § 4 Consulenza
(1) Chiunque abbia la propria residenza o dimora abituale in Germania ha il diritto a chiedere consulenze in materia di suicidio assistito. La consulenza è a tempo indeterminato e prescinde dalla realizzazione di risultati pratici.
(2) La consulenza deve trasmettere le informazioni che consentono alla persona di essere adeguatamente informata e di acquisire una base conoscitiva per valutare realisticamente i pro e i contro della decisione di morire. Essa include soprattutto informazioni su:
1. l'importanza e la portata del suicidio;
2. l’esistenza di soluzioni alternative al suicidio, a condizione che la persona che vuole suicidarsi renda disponibili le informazioni pertinenti, anche sul proprio stato di salute e, in caso di malattia, circa la sussistenza di opzioni e alternative terapeutiche e di medicina infermieristica o palliativa;
3. i requisiti dell'assistenza al suicidio;
4. le conseguenze di un suicidio e di un tentativo di suicidio fallito anche rispetto il suo ambiente personale e familiare più stretto;
5. Opportunità di usufruire di offerte di supporto e assistenza;
6. ogni ulteriore informazione medica, sociale e legale necessaria per le circostanze.
(3) Una persona che vuole suicidarsi deve ricevere una consulenza tempestivamente.
(4) La persona disposta a suicidarsi può rimanere anonima, se lo desidera.
(5) La consulenza non può essere fornita dalla persona che in seguito è coinvolta nell'assistenza al suicidio.
(6) Per quanto necessario, viene fornita consulenza in accordo con la persona suicida
1. da medici, specialisti, psicologi, socio-pedagogici, assistenti sociali o specialisti con formazione giuridica e
2. da altre persone, in particolare i parenti stretti.
(7) Dopo che la consulenza è stata completata, il centro di consulenza deve rilasciare un certificato con nome e data attestante che la consulenza ha avuto luogo. Se il consulente nutre dubbi fondati sul fatto che il paziente agisca in modo autonomo, informato, libero arbitrio ai sensi del § 3 paragrafo 1 e paragrafo 3, deve annotarlo sul certificato.
(8) La consulenza è gratuita per la persona e per le persone coinvolte ai sensi del paragrafo 6 numero 2.
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