La rappresentanza di genere nel CSM *
di Donatella Ferranti
Sommario: 1. Perché è necessaria una riforma – 2. Le linee di fondo dell’AC 4512 presentata il 25.05.2017 – 3. Quali prospettive di attuazione della rappresentanza di genere nell’ambito di una riforma della legge elettorale del CSM.
1. Perché è necessaria una riforma della legge elettorale
Le ragioni che mi hanno spinto a presentare nella XVII legislatura in cui ho svolgo l’incarico di Presidente della Commissione giustizia alla Camera, la proposta di legge AC 4512, che fu sottoscritta da altri 57 deputati, appartenenti a diversi gruppi parlamentari e che è stata riproposta nella XVIII legislatura, sia alla Camera che al Senato, sono facilmente intuibili, visto che è ormai da diversi anni che si dibatte sulla necessità di un maggior equilibrio di genere nella rappresentanza togata all’interno del Consiglio superiore della magistratura.
Ci sono due dati ineludibili. Il primo è un dato normativo, di principio costituzionale. L’articolo 51, primo comma, della Costituzione, così come innovato dalla legge costituzionale 30 maggio 2003 n. 1, nel sancire il principio secondo il quale tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza (secondo i requisiti stabiliti dalla legge), prevede che a tal fine la Repubblica promuova con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. Credo sia ormai pacifico, alla luce di successive pronunce della Consulta (penso in particolare alla sentenza n. 4 del 2010) che hanno ricondotto il nuovo articolo 51 al principio di uguaglianza sostanziale, ritenere che azioni positive in materia elettorale siano non solo consentite, ma esplicitamente prescritte dalla Costituzione. E’ la Costituzione, quindi, che sollecita l’impegno alla promozione fattiva delle pari opportunità, indicando una direzione pressoché “obbligata”, che impone di affrontare il problema del deficit della rappresentanza di genere nelle istituzioni democratiche. Quella della parità di genere è una battaglia certamente culturale, ma anche politica, perché in gioco sono i valori stessi della democrazia partecipativa e l’avanzamento complessivo della società.
C’è poi un dato fattuale, evidenziato in modo plastico dalle ultime statistiche (aggiornate al marzo 2017) diffuse nel documento “Distribuzione per genere del personale di magistratura” messo a punto dal Csm: su 9.408 magistrati in organico, 4.900 sono donne. Il 52 per cento: più della metà. Ma ancora più interessante è il dato sui magistrati ordinari in tirocinio, su un totale di 666 le donne sono 411, quasi il 62 per cento. Ciò significa non solo che le donne magistrato sono ormai più degli uomini e sono mediamente più giovani, ma significa soprattutto che il divario di genere è destinato a crescere. E come si traducono queste percentuali in rappresentanza all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura? I dati reali non sono consolanti. Una sola donna togata eletta nella consiliatura 2002-2006; quattro in quella 2006-2010; due in quella 2010-2014; una nella scorsa consiliatura e sei in questa attuale. Insomma, un sistema elettorale, quello introdotto con la riforma del 2002, che si è rivelato scarsamente incisivo ed inadeguato anche per quel che riguarda la rappresentanza femminile.
La proposta di legge, che fu presentata alla Camera dei deputati il 25 maggio 2017 a mia prima firma, aveva voluto dare concretezza normativa alle riflessioni che in convegni e in sedi istituzionali da anni ruotano attorno alla necessità di superare questa macroscopica ‘sottorappresentazione’ delle donne nell’organo di autogoverno della magistratura. Lo stesso Csm aveva di ciò avuto piena consapevolezza, come testimoniato da diverse risoluzioni. Nella risoluzione approvata il 26 luglio 2010 (Riflessione sulle modalità organizzative del governo autonomo in ordine alla presenza delle donne negli organi di autogoverno e sulla conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze di cure), ad esempio, si constatava che «ancora oggi sono necessarie “politiche di genere” dirette a rimuovere gli ostacoli culturali per una reale partecipazione egualitaria di uomini e donne al governo autonomo della magistratura». E si affermava che la sentenza n. 4/2010 della Corte costituzionale sulla legittimità della preferenza di genere rafforzava «il convincimento della necessità di un sereno e compiuto confronto in ordine all’opportunità di un intervento normativo, il quale, preso atto della storica sotto-rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive, non dovuta a preclusioni formali incidenti sui requisiti di ineleggibilità ma a fattori culturali, economici e sociali, introduca “misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale”».
Ma ci si spinge anche più avanti. Nella risoluzione adottata il 2 aprile 2014 (Introduzione delle quote di risultato negli organismi rappresentativi) le quote di genere sono giudicate un «indispensabile arricchimento della rappresentanza democratica» deliberando di proporre al ministro della Giustizia «una modifica del sistema di elezione del Csm che preveda: non solo la 1) la doppia preferenza di genere nella elezione della componente togata; 2) la riserva di una quota minima di genere di 1/3 per la componente togata; 3) la riserva di una quota minima di genere di 1/3 della componente laica». Aperture e prospettive ribadite nella delibera consiliare del 7 settembre 2016 (Risoluzione sulla relazione della commissione ministeriale per le modifiche alla costituzione ed al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) dove, quanto al tema della rappresentanza di genere, si esprime «apprezzamento per l’affermazione, contenuta nella relazione della Commissione Scotti, circa l’ importanza del rispetto del principio della parità di genere», rilevando però che «il sistema proposto non garantisce una necessaria rappresentanza effettivamente paritaria, che si potrebbe raggiungere solo attraverso l’adozione di quote di risultato. Tale obiettivo sarebbe conseguito con la previsione della indicazione obbligatoria di un secondo candidato di genere diverso in entrambe le fasi elettorali ipotizzate nella relazione».
E comunque, più in generale, si afferma che «la riforma dovrebbe tendere a favorire un rapporto meno rigido tra componente associativa ed eletto, da un lato, e, dall’altro, ad aumentare il ventaglio di scelte dell’elettore. In proposito, si potrebbe riflettere su un diverse meccanismo, quello del voto singolo trasferibile (che la Commissione ministeriale ammette di non avere avuto la possibilità di approfondire): in collegi plurinominali si presentano liste (con alternanza di genere) e l’elettore può indicare in ordine decrescente di preferenza i vari candidati, dando così rilievo sia al progetto di giurisdizione preferito, sia a candidati di altre liste premiati per qualità personali».
2. Le linee di fondo dell’AC 4512 presentata il 25.05.2017
La proposta di legge presentata e discussa nella XVII legislatura in Commissione Giustizia, alla Camera dei deputati, fu il frutto delle elaborazioni dell’Associazione donne magistrato italiane (Admi) e voleva essere un segnale politico in questa direzione, mettendo nero su bianco alcune modifiche alla vigente legge elettorale, fissando almeno un punto di partenza su cui dibattere, superare le accuse di inerzia del legislatore e invitare le parti interessate a dare il proprio fattivo contributo.
Si prefiggeva di introdurre misure di riequilibrio di genere e antidiscriminatorie che consentissero infatti – in attesa della più ampia riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, che è in realtà la via maestra per un compiuto riassetto anche nel senso di una reale democrazia paritaria – di superare l’attuale situazione nella quale la componente femminile del Consiglio risulta in numero assolutamente inadeguato e rimessa a una sorta di occasionalità.
Era una proposta di riforma che non giungeva a garantire direttamente il risultato della presenza paritaria fra donne e uomini nella componente togata del Consiglio, ma intendeva ottenere un incremento della presenza femminile attraverso l’introduzione di una norma di principio generale così sintetizzata: «Il sistema di elezione favorisce un’equilibrata rappresentanza di donne e di uomini» – e mediante il meccanismo della doppia preferenza di genere, già adottato e sperimentato nell'ambito della rappresentanza politica e valutato positivamente anche dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 4 del 2010. In sostanza aveva previsto una doppia preferenza facoltativa cioè la possibilità per l’elettore di esprimere tanto un voto di preferenza senza vincoli di genere quanto un doppio voto di preferenza a condizione che ne avessero beneficiato un uomo ed una donna, pena la nullità della seconda preferenza (tanto che si era suggerito di conformare la scheda con due righe numerate per l’espressione della preferenza così da rendere chiaro all’elettore e a chi avrebbe provveduto allo scrutinio quale preferenza dovesse essere considerata prima e quale seconda).
Più nel dettaglio, intervenendo sull’articolo 25, commi 3 e 5, si consente ai sottoscrittori delle candidature di presentare anche due candidature in ciascun collegio purché sia rispettata l’alternanza tra i sessi e si dispone che l’elenco dei candidati segua un ordine alternato per sesso e, per ciascun sesso, l’ordine alfabetico. In secondo luogo, sostituendo il comma 3 dell’articolo 26, si stabilisce che l’elettore esprime uno o due voti su ciascuna scheda elettorale e che l’eventuale secondo voto indichi un candidato di sesso diverso dal primo. E’ nullo il secondo voto nel caso sia attribuito a un candidato dello stesso sesso del primo. Infine, modificando il comma 2 dell’articolo 27, si dispone che, in caso di parità di voti tra candidati di sesso diverso, prevale il candidato del sesso meno rappresentato nel precedente Consiglio, prevalendo altrimenti il candidato più anziano nel ruolo.
Non si tratta, dunque, di «quote di risultato», ma di una seria misura di riequilibrio, nel rispetto della volontà degli elettori.
La doppia preferenza di genere facoltativa ha già superato, come accennavo, il vaglio della Corte costituzionale: nella citata sentenza n. 4/2010 il giudice delle leggi ha chiarito che quel particolare meccanismo non comprime la libertà dell’elettore limitandosi a fissare criteri per le scelte che questi voglia effettuare, al contrario dà a chi vota una possibilità in più rispetto alla preferenza unica e non prefigura un risultato finale( nessun genere risulta avvantaggiato dallo strumento della doppia preferenza in sé ) a differenza della doppia preferenza obbligatoria.
Quella proposta di legge pure condivisa da tutti i gruppi parlamentari e che aveva avuto la condivisione anche di autorevoli costituzionalisti in realtà poi non è giunta in Aula non solo per il finire della legislatura ma anche perché da parte degli organi rappresentativi della magistratura sono state mosse alcune perplessità, sottolineando che la doppia preferenza di genere avrebbe finito con l’avvantaggiare il gruppo di maggioranza, perché l’indicazione del secondo candidato di genere avrebbe potuto assicurare, ad esempio, solo a quel gruppo entrambi i seggi riservati ai candidati di legittimità, estromettendo così dal Csm i candidati delle altre correnti minoritarie e tale effetto poteva riguardare anche al rappresentanza dei Pubblici Ministeri.
3. Quali prospettive di attuazione della rappresentanza di genere nell’ambito di una riforma della legge elettorale del CSM
Ora sappiamo che è in corso di elaborazione da parte del Legislatore la riforma organica e complessiva del sistema elettorale del Csm. Occorre allora saper imboccare la strada giusta che rappresenti un punto di equilibrio tra l’importanza della scelta, per così dire ideologica riferibile al pluralismo culturale e l’esigenza che sia lasciata all’elettore una maggiore libertà di scegliere non solo con riferimento al ‘gruppo’, ma anche e soprattutto alle persone. Per dirla tutta, proprio la necessità – in piena attuazione del dettato costituzionale – di introdurre meccanismi di riequilibrio della rappresentanza di genere nell’organo di autogoverno della magistratura dovrebbe stimolare convergenze e iniziative, per ripensare sinergicamente il modello elettorale, superando il rigido rapporto tra elettori e dirigenza nazionale delle correnti. Ciò che a mio avviso occorre tener presente è che la questione della rappresentanza femminile nel CSM non è da inquadrare tanto nel tema della discriminazione quanto in un tema politico: si tratta di rappresentare nel modo migliore e più completo il corpo della magistratura e dunque anche la differenza di genere. Oggi la rappresentanza dei magistrati nel CSM rischia di essere soprattutto rappresentanza di gruppi che sono nati con propri connotati politico-culturali ma che a volte hanno rischiato di trasformarsi e di operare come gruppi di potere. Occorre perciò mirare a un sistema elettorale che rispecchi le caratteristiche e le diversità anche di genere presenti nel corpo della magistratura e che riesca a garantire che ciascun componente che lo rappresenta agisca nell’interesse dell’istituzione, secondo la propria competenza e sensibilità culturale.
* Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17