ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Irretroattività e regime transitorio della declaratoria di improcedibilità (l. n. 134 del 2021)
di Giorgio Spangher
La Corte d’Appello di Napoli, Sez. I, con l’ordinanza 18.11.2021, proc. pen. n. 14045/2019, R.G. App. ha dichiarato irrilevante e manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 344 bis c.p.p. e della norma transitoria di cui all’art. 2, comma 3, l. n. 134/2021 per violazione degli artt. 3, 24, 25, 27 Cost. e 6 Cedu nella parte in cui non è prevista l’applicazione ai procedimenti in corso per reati commessi in epoca antecedente il 1° gennaio 2020.
Si tratta, verosimilmente, della prima decisione in punto di operatività dell’art. 344 bis c.p.p., introdotto dalla l. n. 134 del 2021, all’art. 2, lett. a e b, con il quale è stata prevista la declaratoria di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, come delineati dai commi 1-9 del citato art. 344 bis c.p.p. (operativo dal 19 ottobre del 2021).
Con i commi 3, 4 e 5 del citato art. 2 della l. n. 134 del 2021 è previsto il regime transitorio della citata decisione di improcedibilità.
In particolare, il comma 3 prevede che le citate disposizioni di cui all’art. 344 bis c.p.p., si applichino ai reati commessi successivamente al 1° gennaio 2020; il comma 4 fissa i termini per la declaratoria di improcedibilità dall’entrata in vigore della legge, qualora gli atti siano già pervenuti al giudice delle impugnazioni; il comma 5 disciplina la tempistica dell’improcedibilità nel caso in cui l’impugnazione sia proposta entro il 31 dicembre 2024.
Il nodo interpretativo sotteso alle citate previsioni riguarda la possibilità o meno di ritenere che esse disciplinino due situazioni separate ovvero che debba essere proposta una loro lettura coordinata, di cui la più ampia (comma 5) comprende la prima (comma 4) differenziandosi solo per il termine iniziale di decorrenza.
Dovendosi riconoscere – quanto meno – che le due previsioni siano frutto di un difetto di coordinamento, la Corte d’Appello di Napoli aderisce alla interpretazione sistematica delle stesse, contenuta nella relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione del 3.11.2021 che al capo 19 suggerisce una lettura ritenuta maggiormente rispondente “alla logica ed alla ragionevolezza”. Le due previsioni saldandosi logicamente dovrebbero disciplinare il diverso termine di durata per tutti i giudizi da trattare fino al 31 dicembre 2024, siano essi o meno pendenti alla data di entrata in vigore della legge (fermo restando per quelli pendenti, la diversa decorrenza di detto termine stabilito dal comma 4).
Se si comprendono le ragioni pratiche-operative che sono sottese a questa ricostruzione, queste tuttavia non sono condivisibili.
Le due situazioni disciplinano situazioni diverse, decorrenze diverse, ma anche termini diversi, tempi diversi che sarebbe stato del tutto superfluo indicare nel comma 4 se regolati dal comma 5.
E’ possibile che nella concitazione delle mediazioni sia mancata “la lucidità” ma ciò non può indurre a stravolgere i dati normativi.
Per le indicate sottese ragioni, ci si potrebbe chiedere se i termini di cui al comma 4 siano suscettibili delle proroghe generali di cui all’art. 344 bis c.p.p. Anche in questo caso, tuttavia, la risposta dovrebbe essere negativa.
Il secondo profilo affrontato dalla Corte d’Appello di Napoli, che si sarebbe prefigurato già di per sé risolutivo, riguarda la questione della legittimità costituzionale dello sbarramento di operatività della nuova disciplina ai reati commessi antecedentemente al 1.01.2020.
Anche in questo caso il Collegio napoletano si rifà a quanto “affrontato approfonditamente” nella relazione dell’Ufficio del Massimario, aderendo alla ritenuta natura processuale e non mista (o ibrida) della declaratoria di improcedibilità e traendo indicazioni dalle sentenze della Corte costituzionale C. cost. n. 278/2020 e n. 140/2021 che proprio per i loro diversi esiti evidenziano come la disciplina di cui all’art 344 bis c.p.p. risponda ai canoni di legalità per i quali l’autore del reato deve essere posto nella condizione di conoscere la dimensione temporale del suo processo.
L’elemento “forte” del rispetto della dedotta questione di costituzionalità, risiederebbe altresì nella qualità “compensativa e riequilibratrice” della previsione, nella misura in cui intende assicurare una continuità tra l’applicazione della disciplina sostanziale e quella c.d. processuale, garantendo a tutti i processi pendenti in appello e in cassazione, per i reati commessi dal 1° gennaio 2020, un termine oltre il quale l’azione penale non può essere proseguita. Diversamente considerando, si determinerebbe una commistione tra termine di prescrizione e di improcedibilità, con conseguenti problemi di compatibilità e prevalenza dell’uno sull’altro.
Si tratta di opinione condivisibile nella misura in cui il nuovo regime imperniato sul sistema prescrizione-improcedibilità scardina l’attuale impianto processuale imperniato anche sul meccanismo dell’art. 129 c.p.p.
La decisione, naturalmente, lascia, allo stato, sullo sfondo tutte le altre questioni che la nuova previsione prospetta: dalla sua stessa costituzionalità in relazione non tanto con l’art. 112 Cost. (Ferrua), ma piuttosto con l’art. 101 Cost. e con l’effettività dell’attività giurisdizionale, sia con riferimento alla ragionevolezza, sia alla proporzionalità della declaratoria di improcedibilità; alle varie situazioni di operatività che non appaiono definite; al rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e improcedibilità; all’operatività in relazione alla responsabilità degli enti ex l. n. 231 del 2001, e solo per citare alcune questioni controverse.
Corte di giustizia, primato del diritto Ue e giudici onorari
di Roberta Calvano
Sommario: 1. Il primato del diritto Ue, tra Corti e diritti - 2. Stati membri riottosi e strumenti Ue di tutela - 3. I giudici onorari, lavoratori e magistrati secondo il diritto Ue, ma non nell’ordinamento italiano - 4. In mancanza di risposte, la Corte di giustizia rischia di arrivare prima.
1. Il primato del diritto Ue, tra Corti e diritti
Nel mese di ottobre 2021 il tema dei confini del primato del diritto Ue in relazione al diritto degli Stati membri è tornato ancora una volta alla ribalta con riferimento ad una sentenza della Corte costituzionale polacca in aperto contrasto con una importante decisione della Corte di giustizia, della quale metteva in discussione la prevalenza sul diritto interno. Lo scontro tra la Corte di giustizia ed una Corte costituzionale, non inedito per vero, se si pensa soprattutto a recenti accesi dialoghi a distanza con il BundesVerfassungsgericht e la Corte costituzionale italiana, è stato all’origine di un ampio dibattito[1]. La sentenza della Corte di giustizia tuttavia, che ad alcuni è parsa superare la lettera del Trattato Ue[2], si colloca nel solco di un contenzioso circa le garanzie di indipendenza dei giudici polacchi che prosegue da anni davanti alla Corte di giustizia[3], ma più in generale si inserisce in un risalente filone giurisprudenziale con il quale la Corte Ue ha inteso svolgere sin dai primi anni del processo di integrazione un ruolo paragonabile a quello di un giudice costituzionale, interpretando in modo ampio i propri compiti in due direzioni: verso l’ordinamento Ue, con riferimento all’equilibrio istituzionale interno della Comunità e poi dell’Ue, e verso gli Stati membri, sottolineando la rilevanza delle tradizioni costituzionali comuni e la necessità di tutelare i diritti fondamentali ben prima dell’avvento della Carta di Nizza. Nel fare ciò, il giudice Ue ha impiegato un criterio interpretativo dichiaratamente teleologico nella propria lettura del Trattato, criterio che è stato funzionale a guidare un’evoluzione dell’Ue compatibile con i paradigmi del costituzionalismo, o quantomeno atta a valorizzare i principi e le norme del trattato che a ciò si prestassero. Non va tuttavia idealizzato l’operato del giudice Ue, arrestandosi tali orientamenti sempre sulla soglia del possibile contrasto con la costruzione del mercato unico, le quattro libertà economiche fondamentali o, più in generale, “gli interessi finanziari dell’Unione”. Va poi ricordato, al fine di evitare una eccessiva enfasi ed una lettura illusoria del rapporto con le Corti nazionali come un irenico “dialogo”, come l’interpretazione teleologica si sia spinta talvolta fino a perseguire, anticipando il noto tema del whatever it takes, una pervasiva forza del diritto Ue anche oltre la lettera del Trattato, motivata con l’obiettivo della costruzione di una ever closer Union.
A seguito della sentenza polacca è quindi intervenuto il presidente del Parlamento europeo sottolineando che “Il primato del diritto UE deve essere indiscusso. Violarlo significa sfidare uno dei principi fondanti della nostra Unione. Chiediamo alla Commissione europea di intraprendere l’azione necessaria”. L’intervento del presidente Sassoli, che ha riaffermato l’indiscutibilità del primato del diritto Ue era probabilmente orientato dall’apprezzabile intento di continuare a promuovere il processo di integrazione e la costruzione costituzionale dell’Ue, che nel suo lungo percorso sembra attraversare oggi uno dei momenti più cruciali e difficili. Dal punto di vista giuridico costituzionale non parrebbe possibile concordare tuttavia con una lettura del principio del primato inteso quasi quale un “dogma indiscutibile” del processo di integrazione, a fronte di un’Unione tuttora fondata sul principio di attribuzione, nella quale l’ambito di applicazione del diritto Ue derivante dal Trattato è pur sempre ancorato ai confini delle materie rispetto alle quali gli Stati hanno acconsentito a limitare la propria sovranità.
Fatto sta, che il ruolo creativo e di law making della Corte di giustizia, e gli orientamenti giurisprudenziali finalizzati a garantire il rule of law, lo Stato di diritto e insomma il perdurante rispetto delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri torna ad apparire oggi vitale. Il giudice Ue è stato, come si sa, promotore della costruzione dell’Unione come “Comunità di diritto”. Se oggi continua ad esserlo con l’obiettivo di tenere agganciati ai cosiddetti “criteri di Copenaghen” gli Stati che aderiscono al modello delle “democrazie illiberali”, e più in generale quelli più di recente recuperati al novero delle democrazie liberali, a fronte della debolezza degli altri strumenti previsti dal Trattato (art. 7), resta fermo tuttavia il limite che tali interventi non possono che trovare nell’identità costituzionale degli Stati membri ai sensi dell’art. 4 del Tue[4].
2. Stati membri riottosi e strumenti Ue di tutela
Lo svolgimento da parte del giudice Ue di un ruolo di “motore” della tutela dei diritti fondamentali in alcuni settori, anche nell’ambito dei Paesi fondatori, come ad esempio l’Italia, rappresenta una vicenda più inattesa, sovente collegata ad una vigorosa difesa dei diritti sociali di cui talvolta la Corte di giustizia si è fatta promotrice. Ciò si è verificato nell’ordinamento italiano, dopo che in esso si sono in qualche misura cavalcate le indicazioni provenienti dalle politiche di bilancio imposte dall’Unione quale viatico per un indebolimento ed una perdita di prescrittività dei principi costituzionali relativi al lavoro, in particolare con riferimento al lavoro a tempo determinato nei diversi comparti del pubblico impiego. È avvenuto così ad esempio che la Corte di giustizia si sia trovata a richiamare il legislatore italiano e la Corte costituzionale al rispetto non solo delle direttive lavoristiche sull’abuso dei contratti a tempo determinato, ma delle stesse norme costituzionali interne sul diritto all’istruzione nel caso Mascolo, relativo ai docenti a tempo determinato nella scuola pubblica[5].
Ed è avvenuto più di recente nel caso UX, a luglio 2021, con riferimento allo status dei giudici onorari, su cui ci si soffermerà nel seguito del discorso. Sono orientamenti forieri di un innalzamento dei livelli di tutela garantiti dal legislatore che inducono a sottolineare l’importanza dell’impatto del diritto Ue per la tutela dei diritti, e la natura di pilastro del principio del primato del diritto Ue per la costruzione del processo di integrazione. In essi, le questioni pregiudiziali spesso si mostrano strumento più agevolmente percorribile rispetto alle procedure di infrazione, che nella fase precontenziosa possono finire col trovare una sede proficua di trattativa con i governi degli Stati membri, che spesso però promettono e non mantengono. Simili questioni sembrano dunque avere più di frequente uno sbocco risolutivo non grazie al ricorso per inadempimento da parte della Commissione, ma nelle questioni pregiudiziali, nel rispondere alle quali il giudice Ue censura la normativa nazionale incriminata.
Il diritto Ue andrebbe allora preso sul serio dagli Stati, ma anche dal giudice Ue, che nel suo orientarsi al mantenimento della legalità non deve smettere di garantire la puntuale applicazione del disposto del trattato, onde evitare un inasprirsi del conflitto politico con gli Stati membri, come dimostrano gli orientamenti relativi all’indipendenza del giudice. Tale fedeltà al diritto Ue va poi pretesa anche con riferimento alla normativa lavoristica, nella quale si realizzano i principi di un’Europa sociale e sostenibile, di cui pure il Trattato Ue prefigura un’immagine, anche se ad oggi essa appare alquanto sbiadita.
3. I giudici onorari, lavoratori e magistrati secondo il diritto Ue, ma non nell’ordinamento italiano
La Corte di giustizia, nel luglio 2020 ha dunque pronunciato una prima sentenza interpretativa[6] relativa allo status dei magistrati onorari italiani - giudici onorari di Tribunale, giudici di pace e vice procuratori onorari e giudici di pace -, tuttora ritenuti nell’ordinamento italiano soggetti che prestano un’attività a titolo di “volontari”, pur essendo incardinati nell’ordinamento giudiziario. Tali giudici, grazie alla cui attività viene gestito larga parte del contenzioso (non solo) civile, spesso sono in servizio da decenni, venendo i loro incarichi reiteratamente prorogati sin dai primi interventi legislativi istitutivi di tali figure. Simili a “figli di un Dio minore”, lavorando com’è noto “a cottimo”, con un’indennità simbolica, privi di tutele previdenziali, di maternità, di ferie retribuite, sono secondo la pronuncia UX, organi giurisdizionali secondo il diritto Ue, ai quali deve essere senz’altro riconosciuto lo status di lavoratori e la conseguente applicazione delle direttive Ue.[7]
A seguito della sentenza UX, e a cinque anni dall’archiviazione di un primo caso EU-Pilot[8] relativo allo status dei giudici onorari, la Commissione è ora tornata sulla questione, inviando, ai sensi dell’art. 258 TFUE, una lettera di costituzione in mora molto dura al Governo italiano, con la quale si preannuncia l’avvio di una procedura d’infrazione,[9] chiedendo di uniformare la legislazione nazionale a quella dell’Ue, in quanto il mancato riconoscimento dello status di lavoratori impedisce ai magistrati onorari di beneficiare della protezione offerta nelle direttive 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato; 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale; 2003/88/CE sull’orario di lavoro; 92/85/CEE sulle lavoratrici gestanti.
A dirla tutta, anche sul versante interno non mancherebbe la normativa rilevante, ma una riflessione sulla perdita di effettività degli artt. 36 e seguenti della Costituzione e sulle ampie sacche di inattuazione degli stessi nella normativa sul pubblico impiego a tempo determinato esulerebbe dallo spazio e dalle ambizioni di questo intervento.
Come chiarito in passato dalla Corte di giustizia in relazione agli insegnanti a tempo determinato, anche per i magistrati onorari si pone il problema della tutela contro gli abusi derivanti da una successione di contratti a tempo determinato, non avendo i giudici onorari la possibilità di ottenere un adeguato risarcimento per tali abusi. Infine la Commissione non ha mancato di rilevare come la normativa posta nel decreto legislativo n. 116 del 2017, che avrebbe dovuto riordinare la materia, non abbia fornito risposte ai ricordati problemi.
4. In mancanza di risposte, la Corte di giustizia rischia di arrivare prima
Contemporaneamente all’esplodere della questione dei giudici onorari, all’ordine del giorno del Governo giungeva la questione dell’impiego delle importanti risorse destinate nel PNRR al capitolo della giustizia. Sarebbe superfluo ricordare in questa sede come tra le più importanti condizionalità poste nel Recovery fund nel capitolo destinato all’Italia vi sia la riforma della giustizia, i cui problemi hanno un impatto sul PIL ormai ben noto.[10]
Nonostante ciò, la richiamata lettera della Commissione concernente lo status dei giudici onorari non sembra essere entrata nella discussione sull’impiego delle risorse in arrivo, né aver prodotto ad oggi una reazione da parte del legislatore, ed in particolare del Governo italiano, se non quella di ritardare al 31 dicembre 2021 l’andata a regime del richiamato decreto legislativo n. 116, prendendo tempo per sciogliere la spinosa questione[11]. Parallelamente, si assiste ad un palleggiarsi la questione della giurisdizione sui ricorsi dei giudici onorari che rivendicano l’applicazione del dictum della sentenza UX tra Corte di Cassazione e TAR del Lazio, con la conseguenza che, privi di tutela, i giudici onorari non potranno che continuare ad attenderla da parte del giudice Ue. Ed in effetti è pendente davanti alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale promossa dal Tar dell’Emilia Romagna[12] che abbraccia (e denuncia) tutte le violazioni rispetto alle già richiamate direttive Ue, derivanti dalla disciplina dello status giuridico ed economico dei nostri giudici onorari. Si prospetta allora la possibilità che, anche qualora le promesse del nostro legislatore di sanare le violazioni delle direttive riuscissero nuovamente a blandire la Commissione Ue, come già avvenuto su questa materia (e come avvenne prima del caso Mascolo su di una procedura di infrazione concernente l’abuso dei contratti a tempo determinato nella scuola), il giudice Ue si trovi oggi a dover nuovamente bacchettare il legislatore italiano. Nel farlo non dovrebbe lamentare solo la violazione della normativa Ue, ma potrebbe trovarsi a ricordare all’Italia il necessario rispetto degli artt. 24, 35, 36, 37 113, 101 c. 2, 107, 108, 111, nonché 11 e 117 c.1 Cost. E, come allora ricordò che il diritto all’istruzione richiedeva un organico di insegnanti a tempo indeterminato adeguato alla consistenza numerica (statisticamente nota e prevedibile nel tempo) della platea dei discenti, potrebbe oggi istituire analogo nesso a garanzia del diritto alla tutela giurisdizionale, con riferimento alla necessità di un organico del personale requirente e giudicante a tempo indeterminato – togato ed onorario - adeguato, almeno in linea tendenziale, rispetto alla mole del contenzioso pendente e prevedibile.
[1] Sentenza del 7 ottobre 2021, n. K 3/21, su ricorso del capo del governo Mateusz Morawiecki. La Corte tedesca aveva dichiarato ultra vires il quantitative easing con sentenza 2 BvR 859/15 - 2 BvR 1651/15 - 2 BvR 2006/15 - 2 BvR 980/16, del 5 maggio 2020; la Corte costituzionale ha dialogato con la Cgue nella nota saga “Taricco”.
[2] A. Mangia, L’Ue viola i Trattati pur di punire la Polonia, in La Verità, 10 ottobre 2021.[3] G. Repetto, Incroci (davvero) pericolosi. Il conflitto giurisdizionale sull’indipendenza dei giudici tra Lussemburgo e Varsavia, in Diritti comparati, 2018.
[4] “1. In conformità dell'articolo 5, qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri. 2. L'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell'integrità territoriale, di mantenimento dell'ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro.”
[5] Corte di giustizia, sentenza in C-22/13 del 26 novembre 2014.
[6] Corte di giustizia, caso “UX”, in C-658/18, sentenza del 16 luglio 2020.
[7]La violazione della Carta Sociale Europea è stata accertata dal CEDS (Comitato dei Diritti Sociali) con decisione del 5.07.2016 sul ricorso n. 102/2013. ll Collegio ha affermato che la normativa e i comportamenti concreti posti in essere dalla Repubblica italiana nei confronti dei magistrati onorari violano l’art. E in combinato disposto con l’art. 12§1 della Carta sociale europea e dei suoi Protocolli,
[8] Procedura Eu Pilot 7779/15/EMPL – DPE 0007062 P-4 22.17.4.5 del 10.6.2016.
[9] Procedura n. 2016/4081.
[10] Un’ultima stima in una ricerca dello studio Ambrosetti, i cui parla il Corriere della sera del 7 settembre 2020 (I ritardi della giustizia civile costano 40 miliardi di Pil) parla di una percentuale tra il 1,3% e il 2,5%.
[11]Sebbene sia sopraggiunto nel ddl di bilancio lo stanziamento di cifre destinate ad affrontare almeno parzialmente il problema (art. 196, ddl 2448 AS).
[12] Incardinata dinanzi alla Corte di giustizia come C-236/20.
La tutela collettiva: normative ed esperienze a confronto
di Silvia Vitrò
Sommario: 1. Rapporto tra vecchia e nuova Class Action – 1.1. Le criticità emerse nell'applicazione dell'art. 140-bis cod. cons. – 1.2. La riforma del 2019 – 2. Confronto con la Class Action americana – 3. La dimensione europea della Class Action – 3.1. La normativa in vari Paesi europei – 3.2. La Direttiva europea 2020/1828 – 3.3. La direzione della Direttiva e lo scenario futuro.
1. Rapporto tra vecchia e nuova Class Action
La legge 12 aprile 2019, n. 31 ha introdotto nel codice di procedura civile il nuovo titolo VIII-bis "Dei Procedimenti collettivi" che disciplina due distinte azioni: l'azione di classe (artt. 840-bis - 840-quinquiesdecies) e quella inibitoria (art. 840-sexiesdecies). E’ entrata in vigore il 19 maggio 2021.
1.1. Le criticità emerse nell'applicazione dell'art. 140-bis cod. cons.
La riforma dell'azione di classe prende le mosse dalla constatazione che l'art. 140-bis cod. cons. ha delineato un modello di azione collettiva risarcitoria che ha fallito i propri obiettivi di redress e deterrence per il numero delle azioni promosse, per il tasso di adesione dei danneggiati e per i tempi eccessivi dei processi collettivi. Le principali critiche: (i) l'ambito oggettivo di applicazione dell'azione, circoscritto ad alcuni specifici illeciti; (ii) la legittimazione ad agire attribuita solo ai singoli danneggiati ed il coinvolgimento degli enti esponenziali rappresentativi solo in forza di uno specifico mandato conferito dal consumatore danneggiato membro della classe; (iii) gli elevati costi dell'azione a partire da quelli di pubblicazione dell'ordinanza di ammissibilità a carico dell'attore, pena l'improcedibilità della domanda a fronte dell'assenza di incentivi anche economici per la promozione dell'azione; (iv) il sistema delle adesioni, risultato spesso di ostacolo alla partecipazione diffusa dei danneggiati.
1.2. La riforma del 2019
L'ambito di applicazione dell'azione di classe è regolato dall'art. 840-bis, terzo comma, che ne prevede l'esperibilità "nei confronti di imprese ovvero nei confronti di enti gestori di servizi pubblici di pubblica utilità, relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività". Si tratta di un'azione di natura generale per quanto riguarda i soggetti danneggiati, gli illeciti rilevanti ed anche, seppur con qualche limitazione, i potenziali convenuti. L'art. 840-bis, primo comma, prevede che l'azione di classe è diretta a tutelare i diritti individuali omogenei, senza alcuna limitazione o restrizione soggettiva od oggettiva. L'illecito potrà quindi avere natura contrattuale e riguardare ogni contratto stipulato con i convenuti o extracontrattuale e comprendere ogni comportamento riconducibile a tali soggetti nell'ambito delle rispettive attività, con la conseguente fine del monopolio consumerista della class action. La nuova azione di classe generalista potrà quindi essere esercitata a tutela dei diritti non solo più dei consumatori, ma anche dei lavoratori, dei cittadini che lamentino danni ambientali, dagli investitori, dalle imprese, non solo piccole e medie e anche dagli investitori istituzionali che nell'esperienza statunitense sono tra i principali protagonisti delle securities class actions, ed in generale da ogni soggetto che lamenti la lesione di un proprio diritto individuale ed omogeneo a quelli di una classe di danneggiati.
Mentre ai sensi dell'art. 140-bis cod. cons., il giudizio collettivo doveva concludersi con la liquidazione del danno, con il dubbio, rivelatosi infondato, se anche il danno dovesse essere identico o omogeneo per tutti i class members, la nuova azione, prevedendo due fasi distinte di cui la seconda, specificamente regolata per una più accurata valutazione delle questioni personali e specifiche ai singoli aderenti, si presenta del tutto compatibile con classi di danneggiati più composite ed anche con la loro suddivisione in sottoclassi.
Legittimati ad agire ai sensi dell'art. 840-bis, primo comma, sono i componenti della classe e le associazioni o le organizzazioni senza fine di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela dei diritti individuali omogenei lesi, purché iscritte in un elenco che dovrà essere istituito dal Ministero di Giustizia. Il nuovo art. 840-bis attribuisce ad "associazioni" ed "organizzazioni" una legittimazione ad agire piena e non più vincolata al mandato conferito dal singolo danneggiato.
La nuova azione di classe si articola in tre distinte fasi: (i) il giudizio di ammissibilità, (ii) la decisione della causa nel merito e (iii) la fase di liquidazione. Se la prima fase si pone in chiara linea di continuità con le scelte operate con l'art. 140-bis cod. cons., non v'è dubbio che la terza fase, diretta alla liquidazione del danno, rappresenti la vera novità per la tutela collettiva risarcitoria.
L'art. 840-quinques contiene tre disposizioni dirette ad agevolare la gestione della fase istruttoria dell'azione di classe: “Il tribunale, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all'oggetto del giudizio" (tale norma pare delineare ampi poteri istruttori e d'ufficio da parte del tribunale); la disciplina dell'ordine di esibizione, su motivata istanza del ricorrente (la disclosure rappresenta uno dei profili di maggior rilievo delle class action americane, diretto a riequilibrare, almeno sul piano probatorio, la disparità delle armi tra attore e convenuto); infine: "ai fini dell'accertamento della responsabilità del resistente il tribunale può avvalersi di dati statistici e di presunzioni semplici".
La fase di liquidazione del danno si apre con la chiusura della procedura di adesione e ruota attorno al ruolo del rappresentante comune della classe al quale è affidata la redazione del progetto dei diritti individuali omogenei degli aderenti, poi sottoposto alla valutazione del giudice delegato (nominato anch'esso con la sentenza di accoglimento), il quale, ai sensi dell'art. 840-octies, quinto comma, con decreto motivato, condanna il resistente al "pagamento delle somme o delle cose dovute a ciascun aderente a titolo di risarcimento o di restituzione".
L'intenzione del legislatore di velocizzare i tempi del procedimento viene attuata mediante due previsioni: l'applicabilità del rito sommario di cognizione di cui all'art. 702-bis c.p.c. (l'art. 840-ter, terzo comma precisa che non è ammessa la conversione) e la netta distinzione tra la fase di merito e quella di liquidazione, con l'attribuzione a quest'ultima delle decisioni sulle domande di adesione, in precedenza lasciate alla sentenza collettiva ed idonee a creare un rallentamento nella decisione del ricorso. La decisione che accoglie l'azione di classe accerta la lesione dei diritti individuali dei danneggiati, specificando i caratteri dei diritti violati e gli elementi per l'inclusione di ogni singolo danneggiato nella classe che voglia avvalersi della sentenza collettiva. Le uniche valutazioni individuali riguardano le domande proposte dal ricorrente persona fisica danneggiata che abbia proposto il ricorso che, come si è visto, vengono decise con la sentenza.
L'efficacia soggettiva della sentenza che accoglie la domanda collettiva è uno dei profili centrali della disciplina di ogni sistema di collective redress. La nuova azione di classe, seguendo la linea tracciata dall'art. 140-bis, adotta il meccanismo dell'opt-in, incentrato sull'adesione del singolo. Come precisato all'art. 840-bis, quarto comma, l'azione di classe non pregiudica l'avvio di azioni individuali e la sentenza di accoglimento può essere fatta valere nella procedura di liquidazione solo da coloro che abbiano aderito e non abbiano revocato l'adesione prima che il decreto di liquidazione sia divenuto definitivo nei loro confronti (art. 840-undecies, u.c.). La principale differenza rispetto all'azione di classe consumerista di cui all'art. 140-bis cod. cons riguarda i tempi dell'adesione che è consentita non solo successivamente al superamento del filtro di ammissibilità (art. 840-quinques,primo comma), ma anche dopo la sentenza che accoglie l'azione di classe (art. 840-sexies, primo comma, lett.e). L'intento del legislatore è chiaramente di incentivare l'adesione all'azione di classe e di renderla possibile a risultato raggiunto.
Una delle critiche mosse all'impianto dell'azione di classe disciplinata dall'art. 140-bis cod. cons. ha riguardato gli elevati costi per promuovere l'azione collettiva e l'assenza di adeguati incentivi per l'assunzione di tali costi e dei rischi connessi (per esempio i costi per la pubblicità dell’ordinanza di ammissibilità). La nuova azione di classe tiene conto di tali critiche: vengono circoscritti gli obblighi pubblicitari (ricorso, 840-ter, sec. co., ordinanza di ammissibilità. 840ter, IV comma, e sentenza, art. 840quinques u.c.) nel portale dei servizi telematici di cui all'articolo 840-ter, II comma"; è assegnato al convenuto l'obbligo di anticipare le spese e l'acconto sul compenso (art. 840 quinquies, co. 3); art. 840-novies: con il decreto che accoglie le domande di adesione il giudice delegato condanna il resistente a corrispondere uno specifico compenso dovuto al rappresentante comune degli aderenti e, inoltre, condanna il resistente al pagamento a favore del difensore del ricorrente originario di un "compenso premiale". Ai difensori dei ricorrenti spetteranno anche le ordinarie spese di soccombenza ai sensi dell'art. 91 c.p.c. e del D.M. 55/2014.
2. Confronto con la Class Action americana
Le azioni collettive negli Stati Uniti sono presenti ormai da molti anni nell’ordinamento. La disciplina è regolata, attualmente a livello federale, dalla Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure del 1938, ma essa è stata introdotta fin dal 1842. Vi sono, inoltre, norme speciali disciplinanti le azioni collettive in materie particolari, come le previsioni contenute nello Sherman Act del 1890, nel Securities Act del 1993 e nel Securities Exchange Act del 1934, nella section 27 del Private Securities Litigation Reform Act del 1995.
Per comprendere come mai l’esperienza americana della class action sia sempre stata positiva, mentre quella italiana sia stata invece fallimentare, si confrontano i due istituti (quello Usa e la riforma 2019).
Per quanto riguarda la regolazione delle parti del processo vi è una analogia di disciplina, tanto con riguardo all’attore, quanto con riguardo al convenuto, tra il sistema americano e quello italiano. Difatti, in ambedue i sistemi è legittimato ad agire qualsiasi componente della classe. Ossia, non vi è nessuna limitazione soggettiva, per cui qualunque soggetto di diritto portatore di interessi omogenei può esercitare l’azione di classe. Una differenza di disciplina, tra il modello americano e quello italiano risulta dalla novella operata nel 2019: nell’ordinamento italiano la legittimazione spetta anche ad organizzazioni o ad associazioni.
Notevoli differenze nei due modelli sussistono in ordine alla tipologia di azioni esercitabili. Negli USA con la class action è possibile esercitare sia azioni costitutive che di accertamento ed altresì di condanna (separatamente o congiuntamente). Nell’ordinamento italiano è possibile la proposizione, purché congiunta, di azioni di accertamento e di condanna e – con modalità particolari e con un rito diverso dall’azione collettiva – di azioni inibitorie.
Negli USA, tramite le tre tipologie di azioni indicate precedentemente, sono tutelabili tutti i tipi di diritti in via generale, purché aventi i requisiti fissati nella Rule 23. Con la nuova disciplina contenuta nella legge n. 31/2019, si è ampliato l’ambito soggettivo ed oggettivo delle situazioni protette, allineando – nella sostanza – la disciplina nazionale alla terza categoria (damages class action) del modello statunitense.
Le fasi essenziali del procedimento sono simili, con un primo momento dedicato alla valutazione della ammissibilità dell’azione ed un momento successivo relativo al giudizio sul merito. I due momenti hanno una diversa complessità, nei due sistemi. Nel sistema statunitense è molto complesso ed elaborato il momento dedicato alla valutazione di ammissibilità della class action (fasi della “precertification” e della “certification”. In questa fase avviene l’individuazione della classe; se la “class definition” include soggetti con domande simili, ma interessi divergenti, il giudice può ordinare una divisione in subclasses), mentre ha una minore complessità il giudizio sul merito, avente un carattere unitario. Nel sistema italiano, invece ha una minore complessità la fase di filtro, mentre è molto complesso e macchinoso il giudizio sul merito, addirittura strutturato in due distinti giudizi.
Una volta superato il filtro dell’ammissibilità, per entrambi gli ordinamenti, è disposta la pubblicità; ovvero deve essere data comunicazione a tutti i membri della classe della pendenza del giudizio.
Viene in rilievo, negli USA, la notice, la quale deve indicare: le modalità e il termine perentorio entro cui i destinatari possono far pervenire la propria dichiarazione di esclusione dal giudizio; l’avvertimento che, in mancanza, ogni pronuncia emessa nell’ambito del procedimento (favorevole o sfavorevole che sia) diverrà vincolante anche nei loro confronti. Inoltre, il componente della classe ha il diritto di effettuare un vero e proprio intervento (intervention of right) allorché vi sia un difetto di adeguatezza della rappresentanza nei suoi riguardi. Nell’ordinamento americano la proposizione di una azione di classe da parte di un soggetto non inibisce la proposizione di analoghe azioni di classe da parte di altri soggetti appartenenti alla classe. È previsto solo che nella seconda fase del procedimento – precertification– è possibile esaminare le problematiche del rapporto tra domanda di certification ed altri procedimenti pendenti, per giungere agli opportuni raccordi. Dunque, negli USA è stato adottato il sistema dell’opt-out. In Italia la pubblicità si consegue con la divulgazione dell’ordinanza ammissiva dell’azione di classe, la quale, tra l’altro, fissa un termine per l’adesione dei componenti la classe e definisce i caratteri dei diritti individuali omogenei che consentono l’inserimento nella classe. Nell’ordinamento italiano la pubblicità costituisce condizione di procedibilità della domanda. Essa ha una duplice funzione: – per chi vuole aderire all’azione, la pubblicità indica i caratteri dell’azione e le modalità dell’adesione. L’adesione comporta rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo, oltreché l’improponibilità di una autonoma azione di classe (art. 840 quater, co. 1); – per chi non vuole aderire all’azione, la pubblicità della proposizione dell’azione di classe è importante perché preclude ai componenti la classe la proposizione autonoma della stessa azione di classe. Il componente la classe può agire solo con l’ordinaria azione individuale (art. 840 bis, co. 4). Solo con l’adesione l’interessato sarà coinvolto dall’efficacia soggettiva dell’azione collettiva e dal conseguente provvedimento definitivo. All’evidenza, in Italia è stato adottato il sistema dell’opt-in.
La chiave dell’efficacia, nell’ordinamento statunitense, delle class actions è proprio il sistema dell’opt-out, che si è rivelato capace di vincere l’indifferenza dei danneggiati. I benefici dell’opt-out, prescelto nella class action americana rispetto all’opposto modello di opt-in, sono confermati da un recente studio svolto sull’esperienza americana. È apparso più alto il livello di inoperosità – la quale porta i privati, inclusi nella classe sulla base del sistema opt-out, a non esercitare la facoltà di autoesclusione dalla medesima – rispetto a quello di dinamismo – il quale spinge il singolo consumatore ad attivarsi al fine della sua inclusione nell’azione di classe.
Che cosa osta in Italia all’adozione del sistema dell’opt-out? I timori di una lesione del diritto di difesa e la decisa contrarietà del panorama industriale italiano. I predetti timori sono fondati sul principio enunciato dall’art. 24 Cost. e la regola della disponibilità dei diritti da parte del titolare. Nell’azione collettiva con il meccanismo dell’opt-out accade che un soggetto (l’attore) dispone di un diritto altrui (il componente della classe non attore). Tuttavia, la facoltà di autoescludersi, integrante un onere in capo al titolare del diritto, limita l’impatto causato dall’esercizio dell’azione altrui.
In entrambe le discipline, nel corso del processo attivato con l’azione di classe la parte proponente ed il convenuto possono conciliare la controversia e la conciliazione va ratificata dal giudice. Negli Stati Uniti – dove la maggior parte, nell’ordine dell’80-90 %, delle class actions terminano proprio con una transazione – è possibile trovare la conciliazione, definita “Certification for settlement”, solo prima della sentenza definitiva. Il giudice deve approvare ogni settlement che venga raggiunto dalle parti, con valutazione sia formale che sostanziale; a quest’ultimo riguardo andrà valutato se il settlement proposto sia “fair, adequate e reasonable”. L’approvazione dell’accordo è vincolante per tutti i membri della classe. In Italia, con la novella 31/2019, la definizione bonaria può intervenire sia prima che dopo la sentenza che accerta la condotta plurioffensiva (art. 840 quaterdecies c.p.c.).
Superato il filtro di ammissibilità, il procedimento giudiziario nei due sistemi è molto diversificato.
Più compatto negli Stati Uniti (con le fasi della discovery e del Trial e Judgement), più complesso e frammentato, specie all’esito della novella del 2019, in Italia. Invero, la novella del 2019 da una parte ha complicato il procedimento, dall’altra parte, però, ha rafforzato i poteri istruttori del giudice.
Una delle più significative differenze tra la disciplina americana e quella italiana attiene ai c.d. danni punitivi, ossia ulteriori rispetto ai danni effettivamente subiti. Una caratteristica del sistema americano sono i punitive damages, atteso anche il legame che sussiste tra l’ammontare del risarcimento e gli onorari degli avvocati. Se viene constatato un comportamento socialmente e civilmente censurabile (dolo, colpa grave), il giudice può condannare il convenuto a pagare non solo il risarcimento in senso stretto ma anche i cd. danni punitivi. I punitive damages svolgono una importante influenza sulle scelte del convenuto durante il processo, incidendo sulla valutazione del convenuto circa la convenienza di addivenire ad un accordo. Diversamente, nell’ordinamento giuridico italiano la regola è che il danno risarcibile è determinato in via primaria dal principio di causalità: il debitore è tenuto al risarcimento del danno che è conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (art. 1223 c.c., art. 2056 c.c.). L’ordinamento potrebbe tuttavia, con una legge ad hoc, introdurre – per la tutela di interessi costituzionalmente tutelati – ipotesi di danni punitivi. La Corte di Cassazione, in occasione della pronuncia sulla delibazione di sentenze statunitensi, ha riconosciuto non ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto dei risarcimenti punitivi (Cass. SU 5/7/2017 n. 16601). Tuttavia, neppure la legge n. 31/2019 ha introdotto questo istituto peculiare, probabilmente influenzata dalla Raccomandazione 2013/396/UE, che suggeriva il divieto dei risarcimenti punitivi.
Notevolmente diversa è la disciplina delle spese di lite nei due sistemi. Il governo delle spese negli USA è uno dei fattori del successo della class action. Negli USA il funzionamento del processo civile è fortemente influenzato da due regole peculiari che riguardano le spese e gli onorari degli avvocati. La prima è l’American rule che riguarda la ripartizione delle spese della causa tra il vincitore e il soccombente. Questa regola implica che ognuna delle parti sopporta le spese processuali che ha incontrato, compresi gli onorari dei suoi avvocati, salvo che regole generali dicano qualcosa di diverso. La seconda regola tipica del sistema americano è che sono ammesse le contingent fees, ossia il “patto di quota lite”. Secondo l’accordo consentito da questa regola, il difensore non riceve alcun onorario per la sua attività, salvo una percentuale concordata delle somme che vengono recuperate dalla causa. L’American rule, a parità di tutte le altre condizioni, tende a favorire gli attori che hanno limitate risorse. In Italia l’art. 2 del D.L. 4 luglio 2006, n. 233 (decreto Bersani) ha abolito il divieto del patto di quota lite. Tuttavia, esso è raro nella pratica, anche a causa di vari limiti legislativi. L’art. 840 novies, però, descrive la regolazione delle spese del procedimento per l’esclusivo esito di soccombenza del resistente, introducendo la figura del compenso c.d. quota lite, ossia la somma che l’impresa deve corrispondere al rappresentante comune degli aderenti e all’avvocato del ricorrente vittorioso. Oltre alla sorta capitale e al rimborso delle spese sostenute e documentate.
Le class actions sono un istituto di “successo” negli Stati Uniti. In Italia, invece, la normativa prevista dal Codice del Consumo non ha avuto molto successo. La nuova disciplina migliora in più punti quella contenuta nel Codice del Consumo (ad esempio sul regime dell’ambito oggettivo e soggettivo dell’azione, delle prove e degli incentivi per gli avvocati), ma nel complesso non introduce quelle radicali novità, sul modello statunitense, necessarie per la diffusione operativa dell’istituto: - solo il meccanismo dell’opt-out rende efficace il procedimento;
-il procedimento si presenta inutilmente complesso (“doppia finestra” per le adesioni dei componenti la classe; divisione del giudizio di merito in due distinte fasi);
-manca, poi, una disciplina sui danni punitivi, essenziale per la realizzazione della funzione di deterrenza rispetto a condotte dannose.
3. La dimensione europea della Class Action
3.1. La normativa in vari Paesi europei
Vari Stati hanno messo in discussione l'efficacia dei sistemi di opt-in puri. Dopo una netta presa di posizione ad opera della Raccomandazione dell'11 giugno 2013 della Commissione che individuava quale regime di default quello dell'adesione, sono emersi in alcuni ordinamenti approcci diversi che consentono che la scelta tra l'uno e l'altro sistema sia determinata in ragione delle specifiche caratteristiche del caso concreto. Per es., il Consumer Rights Act inglese approvato nel 2015 attribuisce al giudice il potere di stabilire quale sia il meccanismo di inclusione dei soggetti (opt-in o opt-out) più adeguato al caso concreto. In Francia la legge del 17 marzo 2014 ha introdotto la nuova "action de groupe", che ha sostituito l'action en representation conjointe, introdotta nel 1992 e rivelatasi fallimentare. L'action de group può essere esercitata nelle forme ordinaria e semplificata. L'azione ordinaria alla quale si è apertamente ispirata la nuova disciplina italiana prevede che l'adesione possa essere successiva alla sentenza che decide il merito dell'azione collettiva. L'azione di gruppo semplificata è invece esercitabile qualora l'identità e il numero dei consumatori danneggiati sia conosciuto, e il pregiudizio da essi subito sia identico. In tale ipotesi il giudice può decidere di condannare l'impresa a indennizzare direttamente i singoli consumatori, condannando il convenuto a comunicare loro la decisione affinché possano accettare l'indennizzo accordato nella sentenza collettiva. Si tratta di un'azione che prescinde dal tradizionale opt-in e si basa su un meccanismo (diverso anche dall'opt-out) in forza del quale i consumatori possono beneficiare di un risarcimento del danno già accertato in un processo che si è svolto senza la loro partecipazione.
3.2. La Direttiva europea 2020/1828
Si tratta della Direttiva (UE) 2020/1828 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2020, relativa alle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e che abroga la direttiva 2009/22/CE (GU L 409 del 4.12.2020, pag. 1). E’ entrata in vigore il 24/12/2020. Gli Stati membri dovranno recepire la Direttiva entro il 25/12/2022 e applicare le disposizioni dal 25/6/2023.
La Direttiva 2020/1828 legittima le organizzazioni o gli enti pubblici designati dai paesi dell’UE
a chiedere provvedimenti inibitori o provvedimenti risarcitori a tutela degli interessi collettivi dei consumatori (ai fini dei provvedimenti risarcitori, gli interessi di un gruppo di consumatori)., attraverso azioni rappresentative (comprese azioni rappresentative transfrontaliere).
Da questo punto di vista, la nuova class action italiana è più ampia, relativa ad ogni tipo di illecito.
Poiché sia i procedimenti giudiziari sia i procedimenti amministrativi potrebbero tutelare in modo efficace ed efficiente gli interessi collettivi dei consumatori, è lasciato alla discrezione dei paesi dell’Unione decidere se un’azione rappresentativa possa essere esperita tramite procedimento giudiziario o amministrativo, o tramite entrambi, a seconda del pertinente ambito giuridico o del settore economico in questione (Considerando 19). E si veda l’art. 1, co. 2: La presente direttiva non osta a che gli Stati membri adottino o mantengano in vigore i mezzi procedurali per la tutela degli interessi collettivi dei consumatori a livello nazionale. Tuttavia, gli Stati membri provvedono affinché almeno un meccanismo procedurale che consenta agli enti legittimati di intentare azioni rappresentative al fine di ottenere provvedimenti sia inibitori che risarcitori sia conforme alla presente direttiva.
- Enti legittimati (art. 4, 5, 6): i paesi dell’Unione designano gli enti (organizzazione privata o ente pubblico) che saranno autorizzati a proporre azioni rappresentative per conto dei consumatori. Gli enti possono anche chiedere di essere autorizzati a intentare azioni rappresentative in un paese dell’Unione diverso da quello in cui l’ente legittimato stesso è stato designato (azione transfrontaliera), a talune condizioni specificamente indicate. La Commissione europea pubblica l’elenco degli enti legittimati a intentare azioni rappresentative transfrontaliere su un portale online. Gli enti legittimati dovranno adempiere ad obblighi di pubblicità (anche relativi alle azioni rappresentative intraprese) e di trasparenza anche in punto di finanziamento da parte di terzi.
- Azioni rappresentative (art. 7): gli organi giurisdizionali o le autorità amministrative valutano l’ammissibilità di una specifica azione rappresentativa in conformità della presente Direttiva e del diritto nazionale. Dunque, la Direttiva approva una struttura della class action secondo cui vi sono due distinte fasi processuali (quella che valuta l’ammissibilità dell’azione e quella del merito).
Gli Stati membri garantiscono che gli enti legittimati abbiano il diritto di chiedere almeno i seguenti provvedimenti: a) provvedimenti inibitori; b) provvedimenti risarcitori. Gli Stati membri possono consentire agli enti legittimati di richiedere i provvedimenti con un’unica azione rappresentativa e che tali provvedimenti debbano essere contenuti in un’unica decisione. Pertanto, la scelta della riforma 2019 di distinguere tra azione risarcitoria e inibitoria non pare in linea con la Direttiva.
- Provvedimenti inibitori (art. 8): l’ente legittimato non è tenuto a provare le perdite o i danni effettivi subiti dai singoli consumatori lesi dalla violazione, o la condotta intenzionale o negligente del professionista.
- Provvedimenti risarcitori: un provvedimento risarcitorio impone al professionista di offrire rimedi quali un indennizzo, la riparazione, la sostituzione, una riduzione del prezzo, la risoluzione del contratto o il rimborso del prezzo pagato, a seconda di quanto opportuno e previsto dal diritto dell’Unione o nazionale. Pertanto, la gamma dei rimedi è più ampia di quella offerta dalla riforma del 2019 (solo provvedimenti risarcitori-restitutori e provvedimenti inibitori). Si può anche ipotizzare che la classe sia suddivisa in sottoclassi di consumatori che chiedono rimedi differenziati.
Gli Stati membri stabiliscono norme su come e in quale fase di un’azione rappresentativa volta a ottenere provvedimenti risarcitori i singoli consumatori interessati da tale azione rappresentativa possano esprimere esplicitamente o tacitamente la propria volontà di essere rappresentati o meno dall’ente legittimato in detta azione rappresentativa e di essere vincolati o meno dall’esito dell’azione stessa, entro un limite di tempo appropriato dopo la proposizione di detta azione rappresentativa.
Dunque, la Direttiva lascia liberi gli Stati membri di scegliere tra sistema opt in e sistema opt out.
I paesi dell’Unione garantiscono che: i consumatori che hanno espresso esplicitamente o tacitamente la propria volontà di essere rappresentati dall’ente legittimato in un’azione rappresentativa non possano essere rappresentati in un’altra azione rappresentativa o intentare un’azione individuale con la stessa causa e nei confronti dello stesso professionista; i consumatori non ricevano indennizzi più di una volta per la stessa causa.
- Finanziamento delle azioni rappresentative (art. 10): la Direttiva ammette che l’azione rappresentativa possa essere finanziata da un terzo (come nella class action americana). Al fine di evitare un conflitto di interessi nel caso in cui il provvedimento risarcitorio sia finanziato da un terzo, i paesi dell’Unione garantiscono in particolare che: le decisioni che nuocerebbero agli interessi collettivi dei consumatori interessati non siano influenzate dall’erogatore del finanziamento; l’azione rappresentativa non sia intentata nei confronti di un concorrente dell’erogatore di finanziamenti oppure di un convenuto dal quale l’erogatore di finanziamenti dipende.
- Transazioni (art. 11): i paesi dell’Unione garantiscono che: l’ente legittimato e il professionista possano proporre congiuntamente una transazione concernente il risarcimento; o l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa, dopo aver consultato l’ente legittimato e il professionista, possano invitare le parti a raggiungere una transazione entro un limite di tempo ragionevole; le transazioni approvate dall’organo giurisdizionale o dall’autorità amministrativa sono vincolanti per l’ente legittimato, il professionista e i singoli consumatori interessati, ma i paesi dell’Unione possono stabilire norme che concedono ai consumatori interessati di accettare o rifiutare la transazione.
- Termini di prescrizione (art. 16): conformemente al diritto nazionale, gli Stati membri provvedono affinché un’azione rappresentativa in corso volta a ottenere un provvedimento inibitorio o risarcitorio abbia l’effetto di sospendere o interrompere i termini di prescrizione applicabili nei confronti dei consumatori interessati da tale azione rappresentativa, di modo che tali consumatori non siano impossibilitati a intentare successivamente un’azione volta a ottenere provvedimenti risarcitori.
3.3. La direzione della Direttiva e lo scenario futuro
La riforma italiana prevede l’estensione della tutela contrattuale anche ai rapporti business to business, mentre la Direttiva Europea limita il proprio campo di applicazione ai rapporti tra consumatori e professionisti. Altri fattori di incentivo sono i «compensi premiali» per l’assistenza legale, non previsti in sede europea, e il meccanismo di adesione alla class action nella forma dell’opt-in, anche successivamente alla sentenza di accoglimento.
In questo panorama di rilancio (italiano ed europeo) dell’azione di classe, un ruolo determinante può essere giocato dal third party litigation funding (Tple), ovvero il finanziamento di un contenzioso da parte di un terzo (previsto dalla Direttiva) a fronte di una remunerazione in misura percentuale su quanto ottenuto in caso di esito favorevole. Esso garantirebbe un fondamentale sostegno economico a numerose azioni di classe che, oggi, non vengono intraprese per mancanza delle necessarie risorse.
D’altra parte, la Direttiva, prendendo atto del variegato quadro legislativo dei diversi Stati Membri, segna un chiaro ripensamento del modello dell'opt-in quale configurazione di default dell'azione di classe raccomandata agli Stati Membri. Inoltre, la Direttiva prevede rimedi più ampi (non solo inibitoria e risarcimento, ma anche indennizzo, riparazione, sostituzione, riduzione del prezzo, risoluzione del contratto o rimborso del prezzo pagato). Parrebbe quindi riconoscersi che, per consentire un'ampia tutela degli interessi collettivi, i meccanismi di collective redress possano assumere configurazioni variabili conseguenti al rapporto tra questioni comuni alla classe ed individuali ad ogni singolo danneggiato. La previsione della Direttiva di azioni rappresentative transfrontaliere, poi, è idonea a tutelare gli interessi comuni di consumatori cittadini di diversi Stati membri, come quelli nei confronti delle imprese che gestiscono piattaforme di e-commerce o offrono contenuti o servizi digitali ai consumatori europei (anche avendo sede fuori dell’UE).
Ed allora, per adeguare lo strumento della class action al principio comunitario di effettività, appare necessario rivisitare la nuova class action italiana alla luce della Direttiva 2020/1828 ed anche tenendo conto delle esperienze dei Paesi (come gli USA) nei quali questa forma di tutela collettiva ha funzionato molto bene. Modifiche opportune:
-passare al sistema opt out;
-rendere meno macchinoso il procedimento; -prevedere i finanziamenti delle azioni di classe, sia pure con attenzione ai conflitti di interesse;
-ampliare i rimedi ottenibili con l’azione di classe, anche con differenziazioni tra i gruppi di consumatori.
Nello stesso tempo, bisognerebbe evitare di perdere quei profili innovativi propri della riforma italiana (azione generale; poteri istruttori; compensi premiali).
FONTI: Giuseppe Gerardo, Comparazione tra la disciplina della class action nel diritto statunitense e l’azione di classe italiana alla luce della legge n.31 del 2019 16/9/2020, in http://www.judicium.it › Andrea Pantaleo e Giorgio Baronchelli, Gli scenari futuri della class action italiana ed europea, 9/7/2021, in https://www.assinews.it
Area persona, relazioni familiari e minorenni: la riforma Cartabia risponde alle necessità di tutela effettiva
di Maria Giovanna Ruo[1]
Riguarda anche l’area di tutela dei diritti della persona, dei minorenni e delle relazioni familiari il progetto governativo di riforma della giustizia civile, approvato dal Senato il 21 settembre 2021 e ora all’esame della Camera (DDL AC 3289). È un settore per il quale da molto tempo (oltre un ventennio) gli operatori chiedono e auspicano una riforma strutturale. Ne ha certamente avvertito l’esigenza l’avvocatura specializzata[2], impegnata quotidianamente nell’area della crisi delle relazioni familiari in tutti i ruoli e davanti a tutti i giudici, dato che gli avvocati espletano di volta in volta la funzione difensori di genitori e nonni, di persone di età minore anche come curatori speciali, di affidatari, tutori, amministratori di sostegno, davanti al tribunale per i minorenni, al tribunale ordinario e al giudice tutelare e incontrano le persone per ore e ore prima, durante e anche dopo i procedimenti, comprese quelle di età minore di cui sono curatori speciali e tutori. Gli avvocati -che danno voce alla domanda di giustizia delle persone e sono anello di congiunzione tra vita e diritto- sono testimoni e portatori del disagio e sconcerto di coloro che -loro malgrado- si trovano a doversi confrontare con l’attuale sistema di giurisdizione in questo settore che -per i suoi difetti strutturali- non assicura una risposta di giustizia celere e adeguata. Avendo la funzione costituzionale della difesa dei diritti non solo nel singolo procedimento, ma anche nella promozione del miglior sistema di giustizia, da anni auspicano una riforma sistematica e strutturale.
Sommario: 1.Le condanne della Corte EDU all’Italia in area persone, relazioni familiari e minorenni: l’incapacità di tutelare la relazione figlio minorenne-genitore non convivente. 2…segue… le condanne della Corte EDU all’Italia...: la relazione della persona di età minore con gli ascendenti. 3.…segue… condanne della Corte EDU all’Italia…: adottabilità, affidamento, adozione, de potestate, sottrazione internazionale, minorenni fragili… 4. I problemi strutturali della tutela dei diritti in area persona, relazioni familiari e minorenni: proliferazione dei riti, pluralità di giudici, prassi distorsive, difetto di disciplina dell’esecuzione dei provvedimenti e del ruolo dei servizi alla persona. 5.L’insostenibile irragionevolezza del sistema: alcuni esempi. 6.Lacune, discrasie, aporie dell’attuale sistema. 7.L’intervento sistematico e complessivo della Riforma. 8.Lo spessore della Riforma: l’inconsistenza delle critiche alla monocraticità del giudice. La riconosciuta autonomia giuridica e culturale del settore (che rende superflua quella organizzativa degli uffici).
1. Le condanne della Corte EDU all’Italia in area persone, relazioni familiari e minorenni: l’incapacità di tutelare la relazione figlio minorenne-genitore non convivente
Più volte la Corte di Strasburgo ha condannato il nostro Paese ai sensi dell’art. 8 CEDU, per procedimenti e provvedimenti alla crisi delle relazioni familiari coinvolgenti persone di età minore (adottabilità e affidamento, de potestate anche in connessione con altri procedimenti, tutela di minori vulnerabili, relazione nonni-nipoti, sottrazione internazionale, tutela di minorenni fragili) invitandolo a fornirsi di uno strumentario giuridico adeguato. Negli anni la frequenza delle condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in ambito minorile è divenuta sempre più frequente, dalle famose sentenze Scozzari e Giunta, ric. 39221/98 e 41963/98, sent. 13 luglio 2000 e Covezzi e Morselli c. Italia, ric. 52763/99, sent. 9 maggio 2003. I casi più frequenti riguardano l’incapacità di tutelare i rapporti figlio minorenne-genitore non convivente ostacolati dal genitore con il quale il primo convive: i procedimenti relativi sono talvolta connessi con separazione, divorzio, affidamento e mantenimento dei figli dei genitori non coniugati e relative modifiche ma riguardano sostanzialmente un esercizio pregiudizievole della responsabilità genitoriale da parte del genitore convivente. Secondo la Corte di Strasburgo per genitori e figli vivere insieme, avere relazioni stabili costituisce contenuto del diritto sancito dall’art. 8 della Convenzione di Roma.[3] Lo Stato ha obblighi positivi di tutelare tale relazione anche in caso di ostacoli posti dall’altro genitore convivente. Le Autorità nazionali (intese nel loro complesso: giudici, servizi, operatori sanitari, forze dell’ordine) debbono adottare in questi casi ogni misura necessaria, concreta e ragionevolmente esigibile allo scopo di facilitare il riavvicinamento tra genitore e figlio. Tale obbligo non è soddisfatto dalla sola adozione da parte delle Autorità nazionali (giudici, servizi alla persona, altri organismi coinvolti) di misure automatiche e stereotipate che risultino inidonee ad evitare il consolidarsi di una situazione di separazione di fatto irreparabilmente pregiudizievole per la relazione figlio-genitore, generata talvolta anche dall’inosservanza delle decisioni giudiziarie da parte dei servizi alla persona coinvolti nel procedimento. L’inutile decorso del tempo può avere infatti conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il figlio di età minore ed il genitore non convivente lasciando emergere e poi consolidare situazioni di rifiuto che divengono irreparabili. In questo quadro di principi si sono susseguite numerose sentenze. Senza pretesa di esaustività: Piazzi c. Italia, ric. 36168/09, sent. 02/11/2010[4]; Lombardo c. Italia, ric. 25704/11, sent. 29.01.2013[5]; Bondavalli c. Italia, ric. 35532/12, sent. 17/11/2015[6]; Strumia c. Italia, ric. 53377/13, sent. 23.06.2016[7]: Improta c. Italia, ric. 66396/14, sent. 04.05.2017[8]; Santilli c. Italia, ric. 51930/10, sent. 17.12.2013[9]; Giorgioni c. Italia, ric. 43299/12, sent. 15.09.2016[10]: Endrizzi c. Italia, ric. 71660/14, sent. 23.03.2017[11]; Luzi c. Italia, ric. 48322/17, sent. 5.12.2019[12]: A.V. c. Italia: ric. 36936/18, sent. 10.12.2020[13]. Nell’ultimo anno: R.B. e M. c. Italia, ric. 41382/19, sent. 22.04.2021[14]: lo Stato ha l'obbligo positivo di prendere tutte le misure appropriate per creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita di un genitore al di lui figlio. Pertanto viola l'art. 8 della Convenzione nel momento in cui le Autorità adottino solamente delle misure stereotipate senza utilizzare l'arsenale giuridico che, nel caso in esame, la Corte ritiene comunque essere adeguato (includendo gli strumenti di cui agli artt. 709ter e 614bis c.p.c.). La Corte censura inoltre lo Stato per il tempo trascorso tra le diverse segnalazioni dei servizi sociali e i provvedimenti del Tribunale per i Minorenni che hanno comportato una cristallizzazione della situazione, con effetti devastanti sulla relazione tra il genitore non collocatario e il di lui figlio; Strasburgo rileva altresì che la mancata nomina di un curatore speciale ha leso i diritti del minore ad essere rappresentato in maniera terza e imparziale nel procedimento. A.T. c. Italia, ric. 40910/19, sent. 24.06.2021: violano l’art. 8 CEDU le Autorità nazionali che non garantiscano il diritto di visita ed il diritto della prole minorenne ad un rapporto familiare paritario, costante, e continuativo al genitore cui il figlio è stato sottratto e trasferito in luogo differente dalla residenza originaria della famiglia e da quella del genitore non collocatario. La persona di età minore ha infatti diritto ad una relazione equilibrata e continuativa con ciascuno dei genitori, e con i relativi discendenti ed ascendenti, incombendo sullo Stato l’obbligo positivo di adottare tutte le misure idonee alla concreta realizzazione dell’esercizio di tali diritti. E’ necessario a tal fine che le Autorità nazionali garantiscano e tutelino la bigenitorialità ed il ricongiungimento familiare, attuando tutte le misure idonee, senza ritardi, e favorendo efficacemente e concretamente, la ripresa degli incontri tra le parti, fornendo altresì tempestivamente tutte le informazioni utili al mantenimento attuale del rapporto con la prole ed al corretto esercizio dei diritti genitoriali, diversamente ponendo in essere una condotta meritevole di censura per violazione del diritto alla vita familiare.
Chiude -per ora- la rassegna T.M. c. Italia, ric. 29786/19, sent. 7.10.2021. Ma è un dato di fatto che purtroppo in questi casi il sistema giustizia non abbia garantito alla persona di età minore e al genitore escluso il diritto fondamentale alla loro relazione previsto dall’art. 8 CEDU.
2.…segue… le condanne della Corte EDU all’Italia...: la relazione della persona di età minore con gli ascendenti
Per la Corte EDU anche la relazione stabile tra nonni e nipoti è tutelata dall’art. 8 della Convenzione di Roma. Lo Stato ha obblighi negativi di non interromperlo se non in circostanze eccezionali e obblighi positivi di assumere provvedimenti per il ripristino di tali rapporti adottando nel minor tempo possibile ogni misura necessaria e ragionevolmente esigibile allo scopo di ricostruire la relazione la cui interruzione comporta danni gravissimi. Rientra negli obblighi positivi dello Stato anche quello di costituire un arsenale giuridico adeguato. In particolare, sempre senza pretesa di esaustività, si segnalano le seguenti sentenze.
Solarino c. Italia, ric. 76171/13, sent. 09.02.2017: il caso riguarda non solo i rapporti del padre escluso dalla relazione con la prole minorenne, ma anche analoga esclusione degli ascendenti del ramo paterno, come spesso accade. L’Italia viene condannata per non aver tutelato la relazione di minore con padre e ascendenti paterni, in una vicenda in cui le pronunce del Tribunale per i Minorenni e del Tribunale Ordinario di Catania si sono avvicendate con diversi contenuti fino a che il Tribunale di Catania, nel pronunciare la separazione tra i coniugi, ha affermato che l’interruzione dei rapporti del minore con padre e famiglia paterna gli avevano arrecato pregiudizio.
Manuello e Nevi contro Italia, ric. n. 107/10, sent. 20.01.15: il procedimento interno relativo al diritto di visita dei ricorrenti è iniziato nel 2002 dinanzi al Tribunale per i minorenni di Torino. I ricorrenti non hanno più visto la nipote dal 2002 e, ancora alla data della decisione, era vietato loro qualsiasi contatto con la minore. Strasburgo ravvisa difetto di diligenza delle Autorità competenti.
La vicenda di cui alla sentenza Terna c. Italia, ric. 21052/18, sent. 14.01.2021 riguarda invece un caso di adottabilità nella quale non è stata correttamente valutata l’ava materna della minore, allontanata, collocata in casa famiglia e di cui sono stati sospesi i rapporti anche con la nonna: nella fattispecie la Ricorrente, cittadina italiana, nel 2001 ha contratto matrimonio con un cittadino di etnia rom. Nel novembre 2010 la figlia del marito diede alla luce una bambina, che affidò alle cure della Ricorrente e del di lei marito (padre della madre). In seguito all'arresto della Ricorrente nell'aprile 2014 e durante la sua detenzione, la minore fu affidata alla di lei sorella. Il 10 luglio 2014, la bambina è stata ricollocata presso la Ricorrente con affidamento ai Servizi Sociali, a causa dei precedenti penali della stessa: successivamente è stato nominato un Tutore e la bambina, sulla base del parere di un esperto, è stata allontanata dal Tribunale per i minorenni di Milano dal contesto familiare considerato carente da diversi punti di vista (economico, educativo, emotivo e relazionale a causa della storia criminale dei familiari), e collocata in casa famiglia. Aperto il procedimento di adottabilità, sono stati sospesi gli incontri tra la nonna e la minore che è poi stata dichiarata adottabile. La sentenza è stata appellata dalla Ricorrente sulla base delle conclusioni di tutti gli psicologi fino al marzo 2016, che ha chiesto alla Corte d'Appello di Milano anche di essere autorizzata a incontrare sua nipote. Anche i genitori della bambina hanno proposto appello. Il curatore speciale della minore, nel frattempo nominato, ha aderito alla sua richiesta di incontri al fine di preservare il legame tra nonna e nipote che sono stati disposti ma non eseguiti[15].
3.…segue… condanne della Corte EDU all’Italia…: adottabilità, affidamento, adozione, de potestate, sottrazione internazionale, minorenni fragili…
Ulteriori condanne al nostro Paese sono state in casi di procedimenti riguardanti la cd. “area del pregiudizio” e cioè tutte quelle vicende in cui ne è oggetto un esercizio della responsabilità genitoriale disfunzionale a the best interest of the child.
Adottabilità: A.I c. Italia, ric. 70896/17, sent. 1 aprile 2021: la fattispecie riguarda l’impossibilità per la ricorrente madre di due figlie di esercitare un diritto di visita a causa del divieto di contatti disposto dal tribunale nella sua decisione sullo stato di adottabilità, mentre il procedimento è ancora pendente da più di tre anni. Si tratta di madre nigeriana, vittima di tratta, e la Corte ritiene che le Autorità competenti non abbiano valutato la sua particolare vulnerabilità, durante lo svolgimento del procedimento che ha portato all'interruzione dei contatti tra la ricorrente e le sue figlie, non è stato ritenuto sufficientemente importante permettere all'interessata e alle figlie di conoscere una vita familiare. Strasburgo ritiene, pertanto, che il procedimento in causa non abbia presentato garanzie proporzionate alla gravità dell'ingerenza e degli interessi in gioco. Di conseguenza, la Corte conclude che vi è stata violazione dell'articolo 8 della Convenzione. Jiaoqin Zhou c. Italia, ric. 33773/11, sent. 21.01.2014[16]. l'articolo 8 della Convenzione protegge la relazione tra genitori e figli e prevede obblighi negativi dello Stato di non ingerenza, se non in casi estremi e nella necessità di tutela del miglior interesse del minore e obblighi positivi di ricongiungere genitori-figli al più presto, con provvedimenti di sostegno congrui ed eseguiti con concrete modalità che ne assicurino l’effettività. Pertanto la necessità di preservare, per quanto possibile, il legame tra il genitore biologico – che si trovi, peraltro, come nel caso di specie, in situazione di vulnerabilità per essere migrante– ed i figli deve esser presa debitamente in considerazione e deve essere prioritariamente attuato ogni intervento volto al pieno recupero della funzione genitoriale con percorsi di sostegno alla genitorialità fragile. Viola l'art. 8 CEDU lo Stato che, in assenza di una situazione di maltrattamento fisico o psichico e a fronte dell'esistenza di un legame, impedisca alla madre di riallacciare i rapporti con il figlio senza neppure valutare le reali possibilità di un miglioramento della sua capacità genitoriale e senza offrirle un supporto concreto sia in ragione dei suoi problemi di salute che in quanto madre single e straniera senza rete familiare ed amicale di supporto.
S.H. c. Italia, ric. 52557/14, sent. 13.10.2015. Violano l’art. 8 le Autorità nazionali che, prevedendo come unica soluzione la rottura dei legami familiari con la dichiarazione di adottabilità quando invece sono praticabili altre soluzioni e non si adoperino in maniera adeguata. Prima della definitiva rottura delle relazioni familiari, con la dichiarazione di adottabilità, lo Stato deve porre in essere tutte le misure di potenziamento necessarie nei confronti dei genitori della persona di età minore. Analoga condanna in A.I. c. Italia, ric. 70896, sent. 1.04.2021: il caso riguarda una madre nigeriana, vittima di tratta, i dui due figli sono stati dichiarati adottabili.
L’allontanamento della persona di età minore dalla famiglia con la rottura dei relativi legami, costituisce infatti misura estrema compatibile con una società democratica solo se ed in quanto non vi sia alcuna diversa ipotesi possibile per la tutela del suo sviluppo psico-fisico. Ne consegue che, quando siano state ravvisate diverse alternative che rendono possibile il rientro della persona di età minore in famiglia, questo deve avvenire con celerità e attenzione alle sue esigenze, in modo da non aggravare il danno che comunque ha già ricevuto dalla rescissione dei legami.
Viola sempre l’art. 8 CEDU lo Stato le cui Autorità nazionali, dopo aver disposto l’allontanamento di un figlio minorenne dai genitori -idonei e con i quali ha un legame di attaccamento- e dai fratelli, non attuino nel minor tempo possibile le misure atte al loro ricongiungimento, ingenerando uno stato di disagio e sofferenza e radicando tale situazione con l’inutile decorso del tempo, senza aver attuato alcun concreto sostegno. Nel caso Barnea e Caldaru c. Italia, ric. 37931/15, sent. 22/06/2017[17]: l’Italia viene condannata per non avere eseguito rapidamente il ricongiungimento della bambina, prima dichiarata adottabile e collocata “con affidamento a rischio giuridico”[18], poi oggetto di vari provvedimenti di ricollocamento nella sua famiglia di origine, con grave pregiudizio per la minore, lacerata per lungo tempo in un conflitto di lealtà tra la famiglia biologica e gli ex affidatari, peraltro di tradizioni culturali e religiose diverse.
Il caso Moretti e Benedetti c. Italia, ric. 16318/07, sent. 27.04.2010[19]: riguarda la mancata tutela dei legami di un bambino con gli affidatari con i quali aveva convissuto i primi mesi della sua vita. Poi, dichiarato adottabile, era stato inserito in una diversa famiglia in affidamento preadottivo senza che fosse nemmeno preso in considerazione dal Tribunale per i minorenni la domanda degli affidatari di adottarlo ai sensi dell’art. 44 lett. D. Altra condanna dell’Italia per una incongrua gestione di affidamento familiare è R.V. e altri c. Italia, ric. 37748/13, sent. 18.09.2019[20]. L'affidamento familiare di un minore è infatti misura temporanea che ha come fine il ricongiungimento genitore figlio e deve cessare appena le circostanze lo permettono. Trascorso un notevole lasso di tempo dal momento in cui il minore è stato collocato in affidamento, l'interesse del minore di non subire ulteriori modifiche della sua situazione familiare può infatti prevalere sull'interesse dei genitori di vedere la famiglia riunita. Nei procedimenti concernenti il rapporto genitore-figlio, le Autorità nazionali debbono agire rapidamente e con eccezionale diligenza per il ripristino della relazione affinché il decorso del tempo non la comprometta. Sempre in materia di affidamento familiare.
Sempre per non aver tutelato il legame padre-figlio in modo funzionale al suo pieno recupero, è la condanna Cincimino c. Italia, ric. 68884/13, sent. 28/04/2016: in un caso di richiesta di reintegra nella responsabilità genitoriale di un padre che ne era stato privato a seguito di perizie esperite nel procedimento conclusosi con la sua decadenza, l’Italia viene condannata per non averne il Tribunale per i minorenni di Palermo accolto la richiesta di rinnovo per accertare la sua rinnovata idoneità. La Corte ha ritenuto che non fosse legittimo basare la conferma della decadenza e della restrizione delle relazioni genitore-figlio sulla base di accertamenti risalenti nel tempo e non più attuali.
Tra i casi di condanna per negligenza delle Autorità nazionali si annoverano ulteriori condanne.
Šneersone e Kampanella c. Italia, ric. 14737/09, sent. 12/07/2011 che riguarda una fattispecie di sottrazione internazionale: Strasburgo ha ravvisato lacune nel processo decisionale del Tribunale per i minorenni di Roma che ha condotto all’adozione del provvedimento di rimpatrio di un bambino in Lettonia. Nel caso Anghel c. Italia, ric. 5968/09, sent. 25.06.2013, il nostro Paese è stato condannato ai sensi dell’art. 6 CEDU, in combinato disposto all’art. 8, per non aver garantito l’assistenza legale in un caso di sottrazione internazionale[21].
Infine V. C. c. Italia, ric. 54227/14, sent. 01.02.2018, in un caso di mancata tutela di una minore vulnerabile, in cui l’Italia è stata condannata anche ai sensi dell’art. 3 (Divieto di trattamenti disumani e degradanti) oltre che per l’art. 8 della Convenzione EDU. Le Autorità nazionali (nella fattispecie Tribunale per i minorenni di Roma) -il cui intervento a tutela era stato richiesto dai genitori ai sensi dell’art. 25 RD 1404/1934- non avevano assunto e messo in atto tempestivamente misure di protezione efficaci cosicché la giovane particolarmente vulnerabile –dipendente da sostanze stupefacenti e da alcool e borderline- era rimasta esposta a violenze e abusi (stupro di gruppo). I trattamenti disumani e degradanti debbono essere stimati in funzione anche di una serie di fattori personali che rendono la vittima soggetto vulnerabile, quale è sempre una persona di età minore, e ambientali.
La sequenza delle condanne al nostro Paese è significativa di un sistema disfunzionale quantomeno alla tutela delle persone di età minore alle relazioni familiari. Da ultimo una sentenza particolare, G.T. e M.T. c. Italia, ric. 39570/13, dec. 18.02.2016 che ha preso atto del règlement amiable ritenendolo ispirato al rispetto dei diritti dell’uomo, relativo all’indennizzo di una madre ipodotata, in alcun modo supportata dai Servizi, le cui relazioni con la figlia per anni sono state così rarefatte e incongrue (una volta al mese, in un centro commerciale per un’ora) da radicare nella figlia -lasciata peraltro per anni istituzionalizzata e solo alla fine inserita in una famiglia di affidatari- la convinzione di abbandono e indurla a rifiutare drasticamente la madre: l’Italia ha concordato un indennizzo per la povera madre di pari importo a quello riconosciuto alle vittime di Bolzaneto (Euro 45.000,00).
La breve e certamente lacunosa rassegna di condanne all’Italia da parte della Corte di Strasburgo riguarda solo i procedimenti civili sulla crisi delle relazioni familiari, non essendo ovviamente state considerate le sentenze che riguardano PMA, cognome, maternità surrogata, conoscenza delle proprie origini, violenza domestica e di genere, fine vita e altre ancora. Tuttavia la frequenza e l’incremento di tali condanne sembrano significative di un sistema di giustizia civile in ambito minorile che non riesce ad autoemendarsi e correggersi dal suo interno per i suoi difetti strutturali.
4.I problemi strutturali della tutela dei diritti in area persona, relazioni familiari e minorenni: proliferazione dei riti, pluralità di giudici, prassi distorsive, difetto di disciplina dell’esecuzione dei provvedimenti e del ruolo dei servizi alla persona
I problemi di cui soffre il settore persona, relazioni familiari e minorenni, sono infatti tre, inemendabili senza una riforma strutturale quale quella che è ora all’esame della Camera: 1) la pluralità di riti che impediscono la riunione dei procedimenti anche quando pendono dinnanzi allo stesso giudice (che spesso ho denominato “polverizzazione” dei riti, tanti sono: contenuti nella normativa speciale, nel codice di rito e anche nel codice sostanziale: basti pensare che nell’art. 250 ne sono contenuti due, difformi: IV comma -procedimento per l’autorizzazione al secondo riconoscimento- e ultimo comma -autorizzazione dell’infrasedicenne al riconoscimento del figlio); 2) la frammentazione delle competenze tra giudici diversi, diversamene composti (tribunale ordinario in composizione collegiale o monocratica -Giudice Tutelare- e Tribunale per i minorenni del cui collegio fanno anche parte esperti); 3) le “prassi distorsive” che si verificano davanti al giudice specializzato minorile, con violazione dei diritti di difesa di tutte le parti compresa la persona di età minore. Tali “prassi distorsive” hanno a loro volta le loro radici in due ordini di motivi: il primo è l’assenza di un rito che attui in pieno le garanzie del giusto processo assicurando sempre e sin dall’inizio contraddittorio pieno tra le Parti e esercizio dei diritti di difesa: il secondo è la delega costante e massiva di attività istruttoria ai giudici non togati, esperti in discipline (psicologia, pedagogia, neuropsichiatria infantile, scienze sociali etc.) che fanno parte del collegio per meglio individuare the best interest of the child. L’assenza di regole processuali adeguate a decisioni su diritti fondamentali di soggetti vulnerabili unita all’espletamento di attività istruttoria da parte di non giuristi, ha portato alla proliferazione delle cd. “prassi distorsive” che costituiscono uno dei difetti del sistema.
A ciò si aggiunga che non sono disciplinati gli interventi dei Servizi alla persona che pure in questa area hanno compiti di segnalazione, vigilanza, esecuzione, monitoraggio e possono persino allontanare i minori dalle loro famiglie senza immediato controllo successivo del giudice (art. 403 c.c.). Nemmeno normata l’esecuzione dei provvedimenti che dovrebbe essere celere ed efficace, risolvendosi altrimenti in “giustizia negata” e che ha portato a varie condanne da parte di Strasburgo.
Tale situazione di strutturale inadeguatezza ovviamente comporta l’impossibilità di presa in carico olistica dei soggetti vulnerabili, prima tra tutti la persona di età minore, che vede l’intervento giurisdizionale a sua tutela frazionato tra più giudici e più procedimenti, con l’assunzione di provvedimenti che possono essere anche difformi se non persino divergenti e contrastanti e la cui esecuzione spesso tarda a realizzarsi, rendendo inefficaci i provvedimenti stessi.
5.L’insostenibile irragionevolezza del sistema: alcuni esempi
Un esempio può valere a esplicitare l’insostenibile irragionevolezza del sistema: violenza domestica con bambini testimoni. In questi casi si può assistere a una proliferazione di procedimenti. La Vittima presenta, a tutela propria e dei propri figli minorenni, denuncia querela e si apre il procedimento penale. Ma dal punto di vista civilistico vi potranno essere più procedimenti per assicurare piena tutela: la richiesta di ordine di allontanamento, disciplinata da rito proprio (art. 736 bis c.p.c.); separazione giudiziale se è coniugata, anche essa disciplinata da un rito proprio (706 e sgg. c.p.c.); se non è coniugata, deve promuovere due procedimenti, uno per affidamento e mantenimento dei figli minorenni (rito camerale: artt. 337 ter c.c. e 737 c.p.c.) e uno per gli alimenti a sé (rito ordinario); potrà richiedere il risarcimento del danno in ulteriore procedimento (ordinario). Inoltre, prima dei procedimenti dinnanzi al Tribunale ordinario, potrà essere aperto -a iniziativa anche del Pubblico Ministero Minorile cui sarà pervenuta segnalazione dalla Procura ordinaria o dalle Forze dell’ordine o dai Servizi sociali- un procedimento per decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale dell’autore di violenza. Il quadro si complica ulteriormente se vi sono figli maggiorenni.
Presumibilmente la vittima si arrenderà, accetterà un accordo quale che esso sia, pur di porre fine allo stillicidio di procedimenti, alle spese conseguenti, alla eventuale pluralità di udienze anche di ascolto dei minori, ai tempi inconciliabili con l’effettività della tutela dei diritti in gioco, se non altro. E il tutto si risolve anche in inutili spese per l’erario e affaticamento inutile del sistema giustizia.
Non si tratta dell’unico caso: se durante un procedimento relativo alla crisi della coppia genitoriale con figli minorenni (separazione, divorzio, affidamento e mantenimento dei figli dei genitori non coniugati) ad es. viene negato il passaporto da uno dei due genitori all’altro e alla prole minorenne, bisogna aprire un procedimento dinnanzi al Giudice Tutelare per ottenere l’autorizzazione.
Se un genitore richiede l’autorizzazione al secondo riconoscimento e l’altro lo nega (competenza del Tribunale Ordinario; art. 250 c.c., IV comma), ma nei confronti di questo secondo viene aperto un procedimento per limitazione o ablazione della responsabilità genitoriale (competenza del Tribunale per i minorenni: art. 38 disp. att. c.c. e artt. 330-336 c.c.) i due procedimenti si svolgono paralleli. E si può persino verificare che un genitore impugni il provvedimento reso nel procedimento de potestate, l’altro quello reso nel procedimento ex art. 250 c.c. e i due procedimenti pendano dinnanzi alla stessa Corte di appello simultaneamente, ma non si possano riunire[22] e vengano decisi separatamente.
Quando un neonato rientra da alcuni paesi in cui è consentita la gestazione per altri con la coppia genitoriale, l’Ufficiale di stato civile deve segnalare la questione al Tribunale per i minorenni ai sensi della l. 184/1983; il Pubblico Ministero minorile chiederà l’apertura dello stato di adottabilità o di un procedimento de potestate, ma dovrà inviare notizia al Pubblico Ministero presso il Tribunale ordinario perché chieda la nomina di un curatore speciale per impugnare di veridicità il riconoscimento: intanto potranno essere trascorsi mesi e il bambino si sarà inserito nella famiglia “sociale” con quale trauma in caso di accoglimento di tale impugnazione è facile immaginarsi.
Se una minorenne infrasedicenne ha un figlio, per riconoscerlo deve richiedere l’autorizzazione al Tribunale ordinario ai sensi dell’art. 250, u.c., c.c.; nel frattempo il procedimento di adottabilità -che invece sarà aperto davanti al Tribunale per i minorenni- rimarrà sospeso ai sensi della l. 184/1983. E si potrebbe continuare ancora a lungo.
6.Lacune, discrasie, aporie dell’attuale sistema
A ciò si debbono aggiungere lacune, discrasie e aporie del sistema. Per i figli minorenni dei genitori non coniugati non è previsto un rito nel quale vengano disciplinati i loro diritti ad affidamento, mantenimento, residenza, relazione con i genitori, a differenza di quanto accade per i figli dei genitori coniugati i cui identici diritti vengono disciplinati nei procedimenti per separazione e divorzio. La conseguenza è che, non prevedendosi norme processuali ad hoc, viene utilizzato il rito camerale che è evidentemente insufficiente per la tutela di diritti fondamentali di soggetti vulnerabili: quindi, nell’assenza di norme che disciplinino il rito e nel tentativo di adeguarlo alla materia, proliferano in Italia prassi difformi da tribunale in tribunale. Se poi vi sono figli maggiorenni, ancora una volta il quadro si complica perché per gli stessi viene invece utilizzato il rito ordinario, con l’impossibilità di riunione con l’altro procedimento.
Nemmeno la procedura di negoziazione assistita è stata d’altronde prevista per i figli dei genitori non coniugati, essendo ad oggi confinata alla crisi della relazione coniugale (separazione, divorzio e relative modifiche) così come per i figli maggiorenni e gli alimenti. Si tratta di lacune per le quali da anni l’avvocatura chiede -inutilmente ad oggi- interventi legislativi.
Altra grave lacuna del sistema è quella cui si è prima accennato relativa al ruolo dei Servizi alla persona: questi di fatto hanno il compito di segnalare le situazioni di disagio al Pubblico Ministero Minorile, ma se è già stato aperto un procedimento sulla crisi della coppia genitoriale, il Tribunale per i minorenni, assunti i provvedimenti di urgenza, deve dichiararsi incompetente e il procedimento va riassunto davanti al Tribunale ordinario). I Servizi alla persona hanno poi spesso compiti di valutazione. Le Relazioni socio-psico-ambientali che vengono loro demandate dal giudice vengono svolte al di fuori del contraddittorio tra le Parti ma hanno poi ingresso nel procedimento in realtà con efficacia probatoria: la cosiddetta “prova bloccata” perché diviene impossibile provare il contrario di quanto ivi affermato. Ai Servizi vengono affidati i figli minorenni nei casi meno gravi -ma frequenti- di disfunzione genitoriale (in quelli più gravi viene disposto l’affidamento a terzi con limitazione o ablazione della responsabilità genitoriale): ma tale affidamento non specifica il loro ruolo nella gestione della responsabilità genitoriale. Ai Servizi vengono anche affidati compiti di sostegno, monitoraggio ed esecuzione di provvedimenti. Il tutto senza che via sia una normativa specifica: in definitiva la Pubblica Amministrazione si ingerisce in sfere personalissime della vita privata e familiare, su ordine troppo spesso generico del giudice, e in assenza di cornice normativa.
Altra area necessitante una normazione è quella del curatore speciale del minore: che vada nominato anche di ufficio in tutti i procedimenti nei quali vi sia conflitto di interessi tra prole minorenne e genitori esercenti la responsabilità genitoriale (o anche tutore) è chiaro dal 2011 quando la Corte Costituzionale con la sentenza n. 83 specificò che la Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori (25 gennaio 1996, rat. con l. 77/2003) ha una portata precettiva generale. Da allora la Corte di Cassazione ha ampliato progressivamente l’ambito di applicazione dell’istituto, superando vecchi schemi. Ma la giurisprudenza di merito tarda ad adeguarsi sicché, per evitare difformità di trattamento in situazioni uguali, è necessario codificare le molte pronunce della Suprema Corte prevedendo espressamente la nomina anche nei casi in cui vi è disomogeneità interpretativa. Così come è opportuno se non necessario prevedere che al curator ad processum, nominato in un procedimento, possano anche essere attribuiti compiti specifici divenendo per gli stessi curator ad acta.
I procedimenti civili in cui siano allegati agiti violenti di uno dei due partner o coniugi sono stati con severità considerati dalla Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, nonchè su ogni forma di violenza di genere: ritardi, sottovalutazione della violenza anche in caso di figli testimoni di violenza, previsione di affidamento condiviso che è evidente che in questi casi non possa funzionare nell’interesse del minore, ed è escluso espressamente dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (detta Convenzione di Istanbul). Con uguale severità sono stati considerati i procedimenti e provvedimenti in cui vi siano ostacoli posti dal genitore convivente al libero accesso del figlio minorenne all’altro genitore che spesso radica un rifiuto del figlio stesso. Si sono supra ricordate le numerose condanne all’Italia da parte della Corte di Strasburgo. Ma ad oggi non sono previsti strumenti processuali idonei né per l’una né per l’altra fattispecie.
Attualmente possono pendere contemporaneamente i due giudizi di separazione e divorzio che riguardano la medesima coppia coniugale, con inutile dispendio di risorse e di tempi.
7.L’intervento sistematico e complessivo della Riforma
La Riforma interviene su tutte queste problematiche e su altre ancora (come ad es. nella mediazione familiare) in modo sistematico, recependo le indicazioni degli operatori del settore maturate in lustri di discussione, e riportando il settore giustizia in area persone, relazioni familiari e minorenni nell’alveo costituzionale del giusto processo, assicurando la presa in carico olistica delle persone di età minore e di altri soggetti vulnerabili nelle relazioni familiari.
Opera prevedendo un rito unificato denominato “procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie” introdotto con ricorso nel quale le parti sono obbligate a riferire con esattezza fatti e situazioni e a indicare i mezzi di prova. Ma non sussistono preclusioni e decadenze per i diritti indisponibili e per i diritti disponibili vi è comunque la possibilità di modifiche di domanda e nuove istanze istruttorie laddove sia necessario per avvenuti mutamenti della situazione in fatto. Il che risponde alle caratteristiche della materia esistenziale sottostante questi procedimenti: in perenne divenire anche durante il processo.
Prevista la possibilità di assunzione di provvedimenti provvisori urgenti, che possono essere modificati in corso di causa. Tutti i provvedimenti, anche interinali, assunti da giudice monocratico, sono reclamabili davanti al collegio e tutti sono ricorribili in cassazione.
Il giudice è provvisto di poteri istruttori e decisori propri, in funzione del migliore interesse del minore e di altri soggetti vulnerabili (ad es. donne vittime di violenza). Rafforzato il contraddittorio anche nei confronti della persona di età minore, finalmente rappresentato per espressa previsione legislativa in vari procedimenti in cui sussistono prassi disomogenee, codificando gli interventi della Cassazione e prevedendo espressamente che al curatore speciale possano essere attribuiti compiti specifici anche al di fuori del processo.
Viene resa possibile la “conversione” del procedimento di separazione in divorzio, con risparmio di tempi e di costi per l’erario e le persone. Sono disciplinati con particolare attenzione gli interventi del giudice a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere così come quelli per il ripristino della relazione della prole minorenne con il genitore che ne è rifiutato.
E’ prevista la disciplina del ruolo dei servizi, dell’esecuzione e, con norma immediatamente efficace, l’ampliamento della negoziazione assistita anche ai procedimenti fino ad ora ingiustificatamente esclusi
Viene finalmente “archiviato” l’attuale intervento della Pubblica Amministrazione disciplinato dall’art 403 c.c.: resta ovviamente il potere di intervenire in casi di emergenza in cui la persona di età minore potrebbe subire gravissimo pregiudizio, ma è previsto l’immediato intervento del giudice che deve ratificare o meno l’intervento dell’amministrazione, in contraddittorio con le Parti e prevedendo anche interventi di sostegno e tutela oltre che la nomina del curatore speciale. Tale istituto viene disciplinato puntualmente, con la codificazione di vari provvedimenti della Suprema Corte e recependo indicazioni della dottrina e delle migliori prassi anche con la modifica dell’art. 78 c.p.c..
Viene previsto un unico giudice, Tribunale per le persone, i minorenni e per le famiglie, prossimo perché in sede circondariale e in composizione monocratica deciderà la maggior parte delle controversie, attualmente suddivise tra Tribunale per i minorenni e Tribunale ordinario sia in composizione collegiale sia in composizione monocratica (Giudice Tutelare). Alcuni procedimenti di particolare spessore e delicatezza (adottabilità, adozione e protezione internazionale) restano di competenza della sezione distrettuale la quale è anche giudice del reclamo dei provvedimenti assunti dal giudice monocratico in sede circondariale. La specializzazione dei giudici, anche della procura, è assicurata con specifica formazione, con la previsione che i magistrati siano addetti esclusivamente alle funzioni e che le materia siano di competenza esclusiva delle sezioni specializzate; ma anche prevedendo che i magistrati possano restare nelle funzioni oltre i limiti temporali oggi previsti. Gli esperti, che oggi non solo fanno parte del collegio giudicante ma espletano persino compiti istruttori, con la proliferazioni delle prassi distorsive di cui si è già detto, faranno parte dell’ufficio del processo e potranno espletare specifici compiti loro demandati dal giudice, ma non l’ascolto del minore, che sarebbe già di competenza del giudice togato.
Previsto l’ampliamento della negoziazione assistita e una serie di interventi ortopedici dell’art. 38 disp. att. c.c. (il rovinoso spartiacque attuale della competenza tra Tribunale per i minorenni e Tribunale ordinario che ha causato plurimi interventi della Cassazione in sede di regolamento di competenza) per consentire il miglior funzionamento della giurisdizione nel necessario periodo intercorrente tra l’entrata in vigore del nuovo giudice unico della famiglia.
Rivisitato anche l’istituto dell’affidamento familiare, vengono previste incompatibilità per evitare il ripetersi di casi “Bibbiano” e sarà possibile “convertire” su istanza delle parti il procedimento di separazione in divorzio.
8.Lo spessore della Riforma: l’inconsistenza delle critiche alla monocraticità del giudice. La riconosciuta autonomia giuridica e culturale del settore (che rende superflua quella organizzativa degli uffici)
Si tratta quindi di una riforma ampia, sistematica, che consente il superamento di difetti strutturali del sistema, rendendo finalmente il settore ispirato dai principi di ragionevolezza, speditezza, pieno rispetto del contraddittorio e dei diritti di difesa, che ha precedenti solo nella grande riforma del diritto di famiglia e nella riforma della filiazione. Tale riforma è stata preparata da decenni di confronti, discussioni, anche dialetticamente agguerrite, che hanno portato all’affinamento progressivo degli strumenti di intervento.
Di fronte allo spessore di tale riforma e alla sua adeguatezza a portare rimedio ai gravi difetti strutturali del settore, stupiscono alcune critiche. Non tanto di coloro che, non giuristi, ma operatori che hanno una prospettiva necessariamente parcellizzata della materia in quanto ne praticano solo un settore (ad es. associazioni che si occupano di affido familiare o le organizzazioni che raggruppano case famiglia e centri di accoglienza) i quali vanno a perdere punti di riferimento consolidati e che appaiono comprensibilmente disorientati e preoccupati di novità che non possono comprendere appieno nella loro ottima funzionalità a garanzie di giustizia.
Stupiscono piuttosto le critiche di coloro che conoscono le storture del sistema attuale e che sembrano non cogliere la profondità dell’intervento legislativo proposto soffermandosi sostanzialmente su aspetti marginali e recessivi rispetto alla funzionalità globale della riforma alla piena tutela di diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e, in particolare, delle persone di età minore, le cui istanze di giustizia appaiono mortificate dall’assetto attuale della giurisdizione in area persona, relazioni familiari e minorenni.
Per quanto riguarda il giudice monocratico e la perdita di collegialità, non solo non riguarda tutte le materie (restano collegiali adottabilità e adozione), ma comunque viene pienamente recuperata nel reclamo previsto per tutti i provvedimenti assunti dal giudice monocratico in sede circondariale da parte del collegio in sede distrettuale.
Chi critica la riforma afferma che tale perdita di collegialità preoccupa soprattutto nei procedimenti de potestate che per la loro delicatezza invece la richiederebbero. Le decisioni riguardanti la cd, “area del pregiudizio” (art. 330-336 c.c.) non potrebbero essere assunte dal giudice monocratico per i diritti in gioco. Tale argomentazione appare però a coloro che operano nel settore per la difesa dei diritti inidoneo a impedire l’approvazione definitiva della Riforma. Infatti il modello monocratico anche in procedimenti di tale particolare “delicatezza” è già sperimentato da anni e dà ottimi risultati.
I procedimenti “de potestate” riguardano infatti comportamenti dei genitori pregiudizievoli per i figli minorenni. Si tratta di fattispecie variegate: abusi sessuali e psicologici, violenze, dipendenze, psicopatologie, ostacoli alla libera fruizione del rapporto con l’altro genitore o con i parenti dell’altro ramo genitoriale, con il genitore sociale. Situazioni che, ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c., dal 2013 sono già di competenza del Tribunale ordinario -al cui collegio non partecipano esperti- quando pendono tra le stesse parti procedimenti di separazione, divorzio, affidamento e mantenimento dei figli dei genitori non coniugati, salvo che il procedimento dinnanzi al Tribunale per i minorenni sia iniziato prima (in tal caso, peraltro, i figli minorenni si trovano sottoposti ad approfondimenti e ascolto davanti a due giudici diversi, con assunzione di possibili provvedimenti contrastanti e ovvia vittimizzazione secondaria).
In separazione e divorzio i provvedimenti provvisori ed urgenti -che in questi casi decidono anche ex artt. 330-333 c.c.- sono assunti dal giudice monocratico nella fase presidenziale. Se comportamenti pregiudizievoli emergono nel corso del giudizio, i provvedimenti di modifica sono assunti dal monocratico giudice istruttore. La collegialità viene recuperata in sede di reclamo.
Attualmente il reclamo in Corte di appello ex art. 708 c.p.c. assicura però la revisio prioris istantiae solo per i provvedimenti presidenziali. Nella riforma il reclamo è assicurato per tutti i provvedimenti interinali e sono anche possibili immediati provvedimenti inibitori della decisione impugnata. Si può anche prevedere che, essendo le udienze condotte da giudici togati che conoscono la procedura civile (e non da giudici onorari esperti in altre materie, come oggi si verifica), i motivi di reclamo afferenti vizi procedurali si ridurranno decisamente.
Il modello del giudice monocratico è d’altronde sperimentato anche in altre situazioni non certo di minore delicatezza: il Giudice tutelare autorizza l’interruzione volontaria della gravidanza di minorenni senza limite minimo di età; autorizza cure sanitarie ex l. 219/17 per i minorenni in caso di dissidio tra i genitori; assume provvedimenti estremamente intrusivi nella sfera di libertà delle persone incapaci (anche minorenni ultradiciassettenni) in sede di nomina e di conferimento poteri agli amministratori di sostegno, persino nelle questioni di fine vita.
Sussistono situazioni sulla responsabilità genitoriale di estrema gravità: ad es. i minorenni figli di famiglie della criminalità organizzata, che vengono allontanati rendendoli “liberi di scegliere” una vita diversa (così anche il titolo del film RAI tratto dall’omonimo libro del Pres. Di Bella). Sono prassi virtuose da mettere in sicurezza. Ma sussistono soluzioni in via interpretativa e operativa: la rubricazione del comportamento pregiudizievole viene effettuata dal Pubblico Ministero Minorile nel suo ricorso; in questi casi potrà richiedere l’apertura di uno stato di adottabilità (art. 8 l. 184/1983) piuttosto che provvedimenti sulla responsabilità genitoriale (artt. 330-333 c.c.). Il procedimento di adottabilità resta di competenza del Tribunale in sede distrettuale, con la partecipazione di un Giudice onorario, anche nella riforma. Se poi nel corso del procedimento emergeranno risorse nella famiglia per assistere i figli che si vogliono affrancare dal sistema malavitoso, non ci saranno problemi a dichiarare non luogo a provvedere e il PM richiederà eventualmente provvedimenti restrittivi o ablativi nei confronti del genitore o dei genitori non collaboranti alla sezione circondariale. Insomma in via interpretativa il nuovo sistema consente di garantire le ottime prassi sviluppatesi negli anni, anzi con maggiori garanzie, mantenendo la collegialità nelle decisioni più importanti ed eliminandola in decisioni in cui non è necessaria (oggi nei procedimenti camerali vi è necessità di decisione collegiale anche per l’ammissione delle prove o per qualsiasi modifica anche marginale dei provvedimenti vigenti).
L’ulteriore argomento di critica è l’autonomia che non verrebbe conservata al giudice così come è ora per il Tribunale per i minorenni. Tale autonomia ha storicamente avuto ragion d’essere quando il settore era confuso nella giurisdizione civile tout court, concepito quasi come ancillare e senza riconoscimento e salvaguardia della sua specificità.
L’apporto di saperi diversi viene conservato nell’ufficio del processo, di cui faranno parte esperti cui sarà possibile delegare anche singoli atti ma non l’ascolto del minore. Ma ciò non esclude affatto che possano assistere il giudice togato nell’ascolto, come già avviene in molte sezioni famiglia. D’altronde che l’ascolto del minore non sia un atto delegabile dipende dalla sua stessa natura giuridica.
Ma con la Riforma viene assicurata un’autonomia che va ben al di là di quella dell’organizzazione degli uffici. La Riforma -e ciò ne costituisce uno dei grandi meriti- riconosce autonomia del settore in ragione della sua specificità garantendole un rito e un giudice ad hoc. Tale autonomia, “culturale” oltre che giuridica, si basa sulle specifiche caratteristiche di questo settore della giurisdizione, che non è “solo” di torti e ragioni ma giudica de futuro, con una forte accentuazione dei poteri del giudice in funzione della tutela rafforzata dei soggetti vulnerabili nel cui migliore interesse debbono essere ricostruite le relazioni familiari. Tale impostazione non ne consentirà più la confusione con altri settori della giustizia civile e rende inutile quella organizzativa degli uffici. Né in tal modo sarebbe preclusa la possibilità di stipulare convenzioni con organizzazioni che si occupano di infanzia e adolescenza per assicurare il sostegno e il recupero a persone e famiglie fragili: da quanto consta sezioni famiglia già operano analogamente con gli enti locali o le ASL.
Insomma gli aspetti della Riforma criticati riguardano aspetti o già sperimentati o che, in via operativa e interpretativa, possono trovare opportune soluzioni o che hanno perso rilevanza e che, nell’equo contemperamento degli interessi in gioco, per dirla con la Corte EDU, non possono pregiudicarla nella sua ottima ragionevolezza e funzionalità a the best interest of the child e a quello degli altri soggetti vulnerabili.
[1] Avvocato del Foro di Roma, Presidente di CAMMINO-Camera Nazionale per la persona, le relazioni familiari e i minorenni
[2] Si sono dichiarate a favore della Riforma Cartabia in area persona, famiglie, minorenni le seguenti associazioni forensi maggiormente rappresentative: AIAF, AMI, CAMMINO, ONDIF. Il CNF si è espresso favorevolmente anche in audizione in Commissione giustizia della Camera https://www.ildubbio.news/2021/10/27/tribunale-della-famiglia-alla-camera-ce-lok-del-cnf/
[3] Nel sito www.CEDUINCAMMINO.IT si possono trovare le schede relative alle sentenze citate, con una sintesi della fattispecie e la possibilità di scaricare il PDF della relativa sentenza. Ringrazio i Colleghi che si occupano della schedatura sistematica delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Avvocati: Rita Ceccarelli, Eleonora Finazzi Agrò, Vincenzo Lorubbio, Cetty Marcellino, Federica Mazzeo, Guido Piazzoni, Giulia Barbara Provinciali, Laura Secchi.
[4] L’Italia viene condannata per non aver saputo garantire al padre, rivoltosi al Tribunale per i minorenni di Venezia, la relazione con il figlio minore per circa 10 anni;
[5] L’Italia viene condannata per non aver saputo garantire al padre- che si è rivolto prima al Tribunale per i minorenni di Roma, poi al Giudice Tutelare di Termoli, poi alla Corte di appello di Roma, poi al Tribunale per i minorenni di Campobasso, poi alla Corte di appello di Campobasso- la relazione con il minore.
[6] L’Italia viene condannata per non aver saputo tutelare il rapporto del padre -rivoltosi al Tribunale per i minorenni di Bologna, alla Corte di appello di Bologna, al Giudice Tutelare- la sua relazione con il figlio dal 2009 al 2012
[7] L’Italia viene condannata per non aver garantito la relazione del padre -che si era rivolto al Tribunale per i minorenni di Firenze e oi al Tribunale di Pisa e poi ancora al Tribunale per i minorenni di Firenze, con la figlia dal 2007 al 2013.
[8] L’Italia viene condannata per non aver saputo garantire al padre -che si era rivolto prima al Tribunale per i Minorenni di Napoli e poi alla Corte di appello partenopea- e figlio il rapporto ostacolato dalla madre collocataria per 4 anni.
[9] L’Italia viene condannata per non aver saputo garantire al padre -che si era rivolto al Tribunale per i minorenni di Perugia e poi al Giudice Tutelare di Foligno e nuovamente al TM di Perugia- la relazione con il figlio dal 2006 al 2010.
[10] Il padre non ha praticamente incontrato il proprio bambino dal 2006 al 2010, malgrado provvedimenti giudiziari (Tribunale per i minorenni di Torino, Corte di appello di Torino, Tribunale di Torino) resi a suo favore, a causa dei comportamenti del genitore affidatario volti ad ostacolare l'attuazione dei provvedimenti giudiziari e, comunque, la realizzazione dell'armonica relazione padre - figlio; la situazione si è totalmente capovolta nel periodo 2010 - 2016, anni durante i quali con sollecitudine le Autorità hanno agito nel concreto tentando di conciliare gli interessi delle parti in nome dell'interesse del minore, pur in assenza di collaborazione da parte dei servizi sociali.
[11] Il ricorrente, tra procedimenti e provvedimenti del Tribunale per i minorenni e Corte di appello di Catania non riesce a incontrare il figlio dal 2007 al 2014.
[12] Nella fattispecie, l’Italia viene condannata in quanto le Autorità nazionali (Tribunale per i minorenni di Venezia e Corte di appello di Venezia) dal 2010 al 2018 non hanno adottato tutte le misure atte a permettere al padre di stabilire dei contatti effettivi con sua figlia tollerando l'opposizione materna a causa di: tardività delle decisioni e la loro mancata esecuzione quando assunte, non reagendo con gli strumenti possibili all'elusione materna dei provvedimenti che stabilivano il diritto di visita, consentendo che si consolidasse una situazione di pregiudizio per la bambina con danno al suo sviluppo psico-fisico, come gli esperti avevano indicato mettendo in luce la nefasta influenza della madre.
[13] l’Italia viene condannata per non aver saputo le Autorità nazionali consentire la relazione padre-figlio ostacolato dalla madre per n. 2 anni.
[14] Il caso di specie tratta di un padre che nel 2013, dopo aver ottenuto inizialmente tramite separazione consensuale l'affidamento condiviso del minore e un normale regime di frequentazione, a seguito della denuncia per abuso sessuale della moglie - del tutto pretestuoso ed archiviato in pochissimo tempo - non ha più avuto occasione di incontrare il figlio se non rarissime volte a causa dell'ostruzionismo della madre, nonostante si siano susseguiti on molta lentezza diversi provvedimenti del Tribunale per i Minorenni e della Corte d'Appello di Genova che disponevano gli incontri e il collocamento del minore in casa famiglia.
[15] La Ricorrente lamenta anche che il trattamento subito a partire dal marzo 2016 fosse dovuto alla stigmatizzazione dell'appartenenza a una famiglia rom, in violazione dell'art.14 della Convenzione. La Corte condanna l’Italia ai sensi dell’art. 8 ma non ritiene sussistente la violazione di cui all’art. 14 (divieto di discriminazione).
[16] L’Italia viene condannata per aver il Tribunale per i minorenni di Venezia dichiarato lo stato di adottabilità un bambino di una donna cinese, confermato dalla Corte di appello- affermando che Le autorità avrebbero dovuto adottare misure concrete per permettere al bambino di vivere con la madre prima di disporre il suo affidamento ed avviare la procedura di adottabilità e per non aver fornito alcuna spiegazione convincente che potesse giustificare la soppressione del legame di filiazione materna tra madre e figlio. La Corte conclude che le autorità italiane hanno violato il diritto all’unità familiare perché prima di rompere il legame familiare si sarebbero dovute adoperare in maniera adeguata e sufficiente per far rispettare il diritto della Ricorrente di vivere col figlio e ritiene pertanto che vi sia stata violazione dell’art. 8 della Convenzione e dei suoi protocolli.
[17] Strasburgo ha ritenuto che le Autorità italiane non si siano impegnate in maniera adeguata e sufficiente per far rispettare il diritto dei ricorrenti (madre, padre e fratelli) di vivere con una bambina precocemente allontanata dalla sua famiglia, tra giugno 2009 e novembre 2016, quando hanno disposto l’affidamento della minore ai fini della sua adozione (affidamento a rischio giuridico), e che le stesse Autorità non abbiano poi correttamente eseguito la sentenza della Corte d’appello del 2012 che prevedeva il ritorno di quest’ultima nella sua famiglia di origine, violando in tal modo il diritto dei Ricorrenti al rispetto della loro vita famigliare, sancito dall’articolo 8. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione.
[18] La terminologia in uso nei Tribunali per i minorenni indica la prassi di collocare una persona di età minore, per la quale sia aperto un procedimento di adottabilità, presso una famiglia che abbia dato la sua disponibilità all’adozione; la prassi ha le sue motivazioni nel tentativo di anticipare i legami adottivi, qualora l’accertamento dello stato di abbandono morale e materiale del bambino sia confermato in esito al procedimento di adottabilità in corso. Quando però tale stato di abbandono morale e materiale non è invece confermato, la lacerazione del bambino può avere effetti devastanti, tanto più se l’esecuzione non è curata con estrema attenzione e si verificano oscillazioni continue di provvedimenti in favore del rientro del bambino nella famiglia biologica o in favore della sua permanenza presso quella collocataria (affidataria a rischio giuridico).
[19] Dalla sentenza di condanna all’Italia ha origine la cd. legge sulla continuità affettiva: l. 173/2015
[20] Nella fattispecie, con provvedimenti provvisori, i minori furono affidati ad altra famiglia per oltre dieci anni. I procedimenti sono stati tutti contraddistinti da svariati ritardi; in particolare è stato ritenuto irragionevole l'arco temporale di tre anni - durante il quale i minori sono rimasti in affidamento- impiegato per il rigetto di un'istanza d'urgenza nel contesto di misure temporanee; intempestive le presentazioni delle perizie, disposte nell'ambito dei procedimenti, da cui dipendevano le decisioni delle Autorità (nel caso concreto la sentenza non specifica di quale Tribunale per i minorenni e Corte di appello si tratti). La Corte EDU ha ritenuto che la condotta delle Autorità interne non si conciliasse con i requisiti di sollecitudine e di 'eccezionale diligenza' che debbono presiedere i procedimenti concernenti il benessere di minori. Pertanto il processo decisionale è stato ritenuto incompatibile con i requisiti dell'articolo 8 CEDU, con sua conseguente violazione).
[21] Nella fattispecie, il Ricorrente lamentava che il suo diritto di presentare ricorso in cassazione contro la decisione del Tribunale per i Minorenni di Bologna che aveva negato il rientro del minore, era stato compromesso dai ritardi nel concedergli assistenza legale. Il ricorrente ha inoltre lamentato violazione dell'articolo 8 della CEDU per la decisione del Tribunale per i minorenni di negare il rientro del minore.
[22] Corte di appello di Roma, RGN 6615/2020, sentenza 11 ottobre 2021 che ha deciso l’appello della madre relativo alla sentenza emessa dal Tribunale di Roma nel procedimento ex art. 250, IV comma, c.c. E’ ancora pendente dinnanzi allo stesso ufficio l’altro procedimento di reclamo proposto dal padre per la riforma del decreto del Tribunale per i minorenni di Roma che ha invece deciso la sospensione degli incontri padre figli, RGN 51288/2021, chiamato davanti alla sezione famiglia e minori della medesima Corte di appello.
Come si dice in polacco “due pesi e due misure”? È quello che si chiedono i magistrati onorari italiani…
di Patrizia Tilli*
“La sentenza di oggi in Polonia non può restare senza conseguenze. Il primato del diritto UE deve essere indiscusso. Violarlo significa sfidare uno dei principi fondanti della nostra Unione. Chiediamo alla Commissione europea di intraprendere l’azione necessaria”. Lo ha detto il Presidente del Parlamento Europeo, On. David Sassoli, il 7 ottobre 2021 a commento della clamorosa decisione della Corte Costituzionale polacca che ha enunciato che non esiste supremazia europea sulla Costituzione nazionale.
Anche i magistrati onorari Italiani - come cittadini europei favorevoli ad una U.E. coesa e forte e desiderosi di veder affermati i principi fondanti dell’Unione in ogni Paese membro - concordano pienamente con le parole del Presidente Sassoli e con le analoghe dichiarazioni della Presidente von der Leyen.
Tuttavia i medesimi che da anni esercitano stabilmente la giurisdizione in Italia, privati di ogni diritto economico e previdenziale, si trovano costretti a denunciare purtroppo l’ipocrisia del nostro Paese che non fa seguire alle enunciazioni di principio la concretezza dei fatti.
Infatti anche il nostro Paese infrange i principi stabiliti dal diritto dell’Unione e ignora le sentenze interpretative della CGUE.
In particolare, la sentenza della CGUE cd. “UX” del 16.07.2020 ha chiarito che i magistrati onorari italiani (GOT-Giudici Onorari di Tribunale, VPO-Vice Procuratori Onorari e GDP-Giudici di Pace), da anni in servizio in ogni ufficio giudiziario, che trattano e decidono oltre la metà delle cause nazionali civili e penali, sono organi giurisdizionali secondo il diritto europeo e che ad essi deve essere senz’altro riconosciuto lo status di lavoratori. Secondo la normativa dell’Unione, richiamata nella decisione, per il principio di non discriminazione i magistrati onorari hanno quindi pieno diritto di vedersi applicato il medesimo trattamento economico e previdenziale dei lavoratori comparabili (che la CGUE individua nei magistrati di ruolo).
È passato un anno e il Governo Italiano continua a sostenere che non di “lavoratori” si tratta, ma di “volontari”, così negando qualsiasi prerogativa giuslavoristica e addirittura perseverando nel compensarli con pagamenti a “cottimo puro”, sistema abiurato e vietato da ogni trattato internazionale1. Questo comportamento viola tra l’altro la Carta Sociale Europea.
Lo scorso 15 luglio, ad oltre cinque anni dalla chiusura negativa del caso EU-Pilot (7779/15/EMPL – DPE 0007062 P-4 22.17.4.5 del 10.6.2016) la Commissione europea ha inviato una durissima lettera di messa in mora al Governo italiano, aprendo una procedura d’infrazione (n. 2016/4081) e lasciando aperte le petizioni relative inoltrate alla Commissione per le Valutazioni .
La Commissione contesta, in particolare, che il negato riconoscimento dello status di lavoratori impedisce ai magistrati onorari di beneficiare delle protezioni offerte dal diritto del lavoro dell’Unione e li espone ad abusi inaccettabili, che riguardano ogni aspetto dell’attività lavorativa.
Le violazioni riguardano la direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato; la direttiva 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale; la direttiva 2003/88/CE sull’orario di lavoro; la direttiva 92/85/CEE sulle lavoratrici gestanti.
Il mancato riconoscimento dello “status” comporta che i magistrati onorari italiani non godano della protezione offerta dal diritto del lavoro della UE e risultino penalizzati dal mancato accesso all’indennità in caso di malattia, gravidanza, infortunio, dall’obbligo di iscriversi presso il fondo INPS per i lavoratori autonomi, nonché da divari retributivi e relativi alla modalità di retribuzione, dalla discriminazione fiscale e dal mancato accesso al rimborso delle spese legali sostenute durante procedimenti disciplinari e al congedo di maternità retribuito. Non sono sufficientemente protetti contro gli abusi derivanti da una successione di contratti a tempo determinato e non hanno la possibilità di ottenere un adeguato risarcimento per tali abusi. L’Italia non ha, inoltre, istituito un sistema di misurazione dell’orario di lavoro giornaliero di ciascun magistrato onorario. Infine la Commissione rileva che la nuova normativa del 2017 non ha ancora fornito soluzioni al riguardo.
La reazione del Governo Italiano non è stata quella di adeguare immediatamente la legislazione interna a quella dell’Unione come richiesto, ma semplicemente quella di prendere (o perdere) tempo, compiendo tra l’altro un altro atto gravissimo che è stato quello di prorogare sino al 31.12.21, cioè sino ad una data successiva a quella fissata per la risposta alla lettera di messa in mora, proprio la legge regolatrice dello status dei magistrati onorari indicata dalla Commissione come contraria alla legislazione dell’Unione.
Per di più continua la superproduzione di circolari ministeriali tese a privare i m. o. di ogni minimo diritto. Ad esempio il Ministero con circolare del 5.8.21 (quindi successiva alla contestazione delle violazioni sopra riportate, inviata in data 8.9.21 alla Procura di Napoli), su richiesta di un gruppo di VPO, i quali, “sulla scorta dei rilievi degli organi giudiziari europei ed ormai di non isolate pronunce della Magistratura del Lavoro”, chiedevano che la posizione dei giudici onorari fosse considerata alla stregua del rapporto di lavoro subordinato, con il conseguente riconoscimento dell’orario di lavoro (citavano l’intervento della CGUE nel caso Matzak - C-518/15), ha escluso che sia applicabile al caso di specie la pronuncia UX né che possa essere applicata analogicamente o estensivamente (con conseguente mancato pagamento ai VPO dei periodi di attesa tra un processo e l’altro) citando per di più la sentenza della Corte Costituzionale n.172/21 del 23.7.21 (successiva anch’essa alla comunicazione della lettera di messa in mora) la quale considera non rilevanti “tutte le attività accessorie alla celebrazione dell’udienza (per i GOT) e alla partecipazione ad essa (per i VPO) se svolte fuori dalla durata dell’udienza stessa. Per entrambe le categorie di magistrato onorario, in altre parole, non dà diritto al compenso l’impegno speso in attività preliminari – in particolare, nello studio degli atti- o successive all’udienza anche se a questa strettamente legate”. Ergo: i GOT non possono essere retribuiti per le sentenze pubblicate e le riserve sciolte fuori udienza; i VPO devono restare a disposizione tra un processo e l’altro senza che tale periodo venga calcolato ai fini della determinazione della doppia indennità.
Nel frattempo, si è assistito a una inedita disputa giurisprudenziale tra la Corte di Cassazione e il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio in merito alla designazione del giudice competente sui ricorsi depositati dai magistrati onorari che lamentano proprio la violazione dei diritti indicati dalla Commissione Europea e individuati dalla “UX” della CGUE. La Cassazione ritiene competente il TAR; il TAR ritiene competente il Giudice del Lavoro; il Consiglio di Stato, investito dell’appello sulla pronuncia del TAR, ha accolto la prospettazione della parte ricorrente – che assumeva la propria equiparazione ai giudici professionali – rimandando al TAR per il merito, in riferimento al quale il TAR potrà benissimo negare la correttezza della prospettazione della parte. La conseguenza è che, in questo momento, in Italia apparentemente non c’è un giudice cui possa ricorrere un magistrato onorario per ottenere il soddisfacimento delle proprie ragioni e la definizione del proprio status.
La situazione sul versante giurisprudenziale successivo alla UX, quindi, vede una strenua resistenza del Ministero e, duole dirlo, anche delle Magistrature Superiori e della Corte Costituzionale, all’applicazione dei principi chiaramente indicati nella lettera di messa in mora.
Nelle more, davanti alla Commissione Giustizia del Senato Italiano prosegue l’esame della legge modificativa del d. Lgs. 116/17 (conosciuto come “Legge Orlando” dal nome del Ministro della Giustizia dell’epoca), identificata come DDL 1438/19 cui sono state riunite altre proposte di modifica, con relativo deposito di centinaia di emendamenti.
Nella recente seduta del 27 ottobre, il sottosegretario Sisto si è presentato davanti alla Commissione in rappresentanza del Governo chiedendo un rinvio dei lavori “per non meno di trenta giorni” asserendo che “funzionari ministeriali sono in questo momento a Bruxelles a raccogliere informazioni sulla natura del provvedimento, che la Commissione Europea starebbe considerando in funzione della contestazione dell’infrazione euro-unitaria sulla materia oggetto dei disegni di legge in titolo”. L’ex Presidente del Senato Pietro Grasso, membro della commissione, ha evidenziato “l’eterogenesi dei fini” per cui una procedura di infrazione – secondo la prospettazione che ne dà il Governo – invece di accelerare la risoluzione del problema, paradossalmente la decelera. Il sottosegretario ha replicato che la pausa servirebbe per “rimuovere efficacemente le cause della prospettata infrazione”.
Pur mantenendo la certezza che la Commissione operi in maniera corretta ed imparziale e che sia ontologicamente e istituzionalmente insensibile alle interferenze, i magistrati onorari italiani hanno espresso inquietudine a fronte di contatti impropri con rappresentanti del Governo italiano in ordine alla apertura della procedura di infrazione.
Ancora una volta, alla luce di quanto accaduto, non si può che rilevare come il Governo italiano perseveri nei pluriennali comportamenti dilatori, tanto più incomprensibili nel momento in cui sta per ricevere dall’Europa ingenti contributi del Recovery Fund alla condizione ben nota che, per quanto riguarda il settore della Giustizia, venga smaltito l’arretrato del settore civile. Il Ministero della Giustizia punta, per ottenere tale risultato, sul reclutamento di migliaia di giovani laureati non formati, da inserire nel cd. “Ufficio del Processo”, dove, senza essere cancellieri né giudici e con un contratto a tempo determinato ma ben più lauto e garantito di quello inesistente dei magistrati onorari, dovrebbero aiutare i giudici professionali, formando un team per effettuare ricerche di giurisprudenza e non si è capito cos’altro, poiché certo non hanno né possono avere la possibilità di scrivere le sentenze al posto dei giudici professionali, né tantomeno di firmarle.
L’alternativa, già esistente e molto più economica, sarebbe stata proprio quella di trattare da lavoratori ed impiegare con maggiore razionalità i magistrati onorari attualmente nelle funzioni, che, potendo emettere sentenze, potrebbero smaltire l’arretrato, ove venissero loro riconosciute tutele e giusta mercede per il lavoro svolto.
La realtà è quella colta nella sentenza UX ed è semplice; i magistrati onorari – per come sono stati utilizzati dallo Stato datore di lavoro nei tribunali – sono lavoratori e non volontari e da questa semplice premessa deve discendere ogni tipo di conseguenza, in punto di diritti giuslavoristici di rango costituzionale e di quantificazione delle retribuzioni.
Il Presidente Sassoli ha parlato in difesa della primazia del diritto Europeo, possibile che l’Italia voglia mantenere una posizione così disinvolta e palesemente lesiva dei principi e dei Trattati Europei?
Continua così, di rinvio in rinvio, di proroga in proroga, la vita come lavoro a cottimo, precario e umiliante di 5.000 lavoratori.
Fino a quando, ci si potrebbe chiedere? Il segno è stato passato da tanto tempo, e solo la misconosciuta coscienza di servitori di uno Stato che non li considera consente a questa categoria di lavoratori di andare avanti nel lavoro, senza il quale la Giustizia Italiana crollerebbe e forse crollerà, quando saranno giunti allo stremo, umiliati dallo Stato italiano.
Mentre si assiste a tutto questo, i magistrati onorari continuano a lavorare e ad emettere provvedimenti per i quali non sono pagati. “Dum differtur, vita transcurrit”, diceva Seneca. Mentre si rinvia, la vita scorre.
A patto di non incontrare Nerone.
*GOT presso il Tribunale di Terni
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