ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite
Commento a Sezioni Unite penali, 27 maggio 2021 (dep. 11 ottobre 2021), n. 36958, ric. Modaffari, rel. Pellegrino
di Andrea Apollonio
La pronuncia in commento, muovendo da condivisibili premesse (relative all’an dell’associazione mafiosa) e con l’apprezzabile intento di rafforzare il corollario di garanzie nella configurazione del reato di cui all’art. 416-bis, giunge a soluzioni non appaganti perché sembrano andare oltre - arricchendolo tipicamente - il dato di legge, che incrimina la mera partecipazione all’associazione mafiosa (concretamente percepibile in quanto tale): e ciò in ragione della natura di un fenomeno totalitario, che pone in serio e costante pericolo, minandole, le basi stesse delle istituzioni democratiche e della civile convivenza.
Sommario: 1. Le ragioni di una pronuncia “storica” - 2. Le modalità di estrinsecazione della mafiosità (l’associazione) - 3. L’adesione al sodalizio (il partecipe) - 4. La contraddizione in cui sembra incorrere la Corte - 5. Fenomeno mafioso e contrasto giudiziario.
1. Le ragioni di una pronuncia "storica"
La Cassazione torna a pronunciarsi sui profili applicativi del reato di associazione mafiosa e questa volta lo fa - per la prima volta e a distanza di quarant’anni dall’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 416-bis c.p. - a Sezioni Unite[1]. D’altronde la tematica mafiosa è divenuta, in specie negli ultimi anni, d’estrema complessità e di non agevole inquadramento pretorio e concettuale[2], atteso il fiorire, in specie presso la giurisprudenza di legittimità, di molteplici e del tutto inediti tipi associativo-mafiosi: mafie straniere impiantate in Italia, mafie del Sud che esportano proprie cellule operative al Nord (mafie "dislocate"), mafie politico-amministrative, mafie "silenti", mafie "inattive", e così via[3].
L’esigenza di pervenire al vaglio dell’alto consesso nomofilattico emergeva da un contrasto giurisprudenziale ormai sistematicamente insostenibile, che andava ben oltre la specifica questione rimessa relativa all’adesione alla struttura mafiosa: su un più generale piano afferente alla natura dell’associazione, tale contrasto vedeva fronteggiarsi - più che due diversi orientamenti esegetici - due diverse concezioni del reato associativo: l’una tesi, che propugna la natura di pericolo astratto del delitto, definendo l’art. 416-bis come una species di un più ampio genus individuato nell’art. 416, in cui elemento peculiare è il metodo mafioso che non necessariamente deve estrinsecarsi (vertendo quindi, la prova, sull’esistenza stessa dell’ente collettivo)[4], con estensione applicativa della fattispecie in virtù degli interessi di rango primario protetti dalla norma (compendiabili nella tenuta dell’ordinamento democratico)[5]; l’altra, che richiede la manifesta concretezza di tale pericolo, fin quasi a definire la norma una fattispecie di danno: un danno che viene individuato proprio nell’utilizzo del metodo mafioso, che deve essere interpretato nella sua dimensione oggettiva, ossia deve essere proiettato fuori la cosca, riconoscibile all’esterno e suscettibile in quanto tale di una concreta e fattuale verifica[6].
«Da qui - evidenzia la Corte - la ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di non lasciare impunite forme di reità di particolare allarme sociale e il rispetto dei principi costituzionali in materia penale»: e tale ricerca di soluzioni appaganti e sistematicamente sostenibili non può che riguardare, tenendosi tutto, i due inscindibili aspetti dell’esistenza, rilevabile e punibile, dell’associazione come della partecipazione ad essa (su cui specificamente si sollecitava la risoluzione dei contrasti interpretativi).
Con un tale sfondo, convulso e dibattuto, le Sezioni Unite venivano quindi chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito di diritto: "Se la mera affiliazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso c.d. storica, nella specie ‘ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis cp. e della struttura del reato dalla norma previsto". Il contesto empirico-criminologico in cui si inquadra la questio iuris è ben diverso da quello delle "nuove" mafie, trattato con specifici statuti esegetici dalla giurisprudenza più recente[7]: la questione involge infatti la partecipazione ad un’associazione mafiosa storica[8]; e per meglio comprendere, molto utile risulta il richiamo al caso concreto.
Due soggetti venivano attinti da misura di custodia cautelare essendo ritenuti gravemente indiziati del reato di cui all’art. 416-bis. Secondo la prospettazione accusatoria, costoro erano partecipi di un’articolazione di ‘ndrangheta operante a Sant’Eufemia d’Aspromonte, funzionalmente dipendente dal "locale" di ‘ndrangheta di Sinopoli capeggiato dalla cosca Alvaro: la cui presenza e mafiosità era stata accertata in plurime sentenze di condanna irrevocabili. La misura cautelare per i due ricorrenti veniva emanata a seguito dell’accertamento della loro rituale affiliazione, dei loro "battesimi" (detti anche "battezzi"), mediante conversazioni captate tra altri soggetti (sodali con posizioni apicali nel gruppo mafioso), da cui si evinceva chiaramente l’avvenuta affiliazione dei due. Il tribunale del Riesame, la cui ordinanza veniva impugnata innanzi la Suprema Corte, proprio sulla base di dette conversazioni riteneva dimostrata l’avvenuta affiliazione e quindi la partecipazione alla consorteria, atteso che - secondo il tribunale - tale delitto si perfeziona già attraverso l’inserimento formale della persona nell’organizzazione criminale (storica), senza che sia necessario il compimento di specifici atti attuativi del disegno criminoso.
2. Le modalità di estrinsecazione della mafiosità (l’associazione)
Sebbene il caso sotteso s’inquadri in una specifica cornice criminologica (quella appunto delle mafie storico-tradizionali), la Corte coglie l’occasione per intraprendere un percorso ricostruttivo che leghi assieme le "vecchie" e le "nuove" mafie[9], individuando incidenter tantum alcuni principi che vanno necessariamente connessi alla struttura della fattispecie di cui all’art. 416-bis. E’ insomma, quella a cui procede la Corte nel suo più autorevole consesso, un’operazione di complessivo riordino ermeneutico della materia, punto d’arrivo delle tante sollecitazioni giurisprudenziali accumulatesi negli ultimi anni.
Come detto, è preliminarmente, sull’an dell’associazione che la Corte si sofferma (soffermandosi nel punto di convergenza più dibattuto in dottrina e giurisprudenza sul terreno delle mafie diverse da quelle tradizionali)[10]: sulla modalità con cui la cosca, per essere ritenuta sussistente, e sanzionarne penalmente l’esistenza, dovrebbe estrinsecare la propria forza di intimidazione, e dunque il metodo mafioso.
Ed infatti, dopo aver ripercorso le varie tesi[11], i giudici ritengono che, per svolgere una corretta ermeneusi della locuzione normativa "si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo" occorre«riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale "forza" e di essersene avvalso: solo così può attribuirsi rilievo all’oggettività del metodo mafioso», in ossequio ai principi di materialità e offensività. Nondimeno, dalla necessità che la capacità intimidatrice«sia formata, esternata ed obiettivamente percepita va tenuto distinto il profilo relativo alle modalità, del tutto libere, con cui tale capacità si esteriorizza».
Quindi, se da un lato è inequivoco il dato letterale, che non consente di conferire rilievo alla mera intenzione di avvalersi del metodo mafioso e ne necessita, all’opposto, una concreta attivazione, dall’altro - ricorda la Corte - non possono sottacersi le differenze ontologiche, tipologiche ed operative tra i diversi tipi di mafie, ed in specie tra le mafie "vecchie" e "nuove"[12]. I giudici infatti ritengono«necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione sino a estendere su di sé un alone permanente di paura diffusa, oggettivamente percepibile, che si mantenga vivo anche a prescindere dai singoli atti di intimidazione concreti».
Come insegna l’esperienza giudiziaria e l’osservazione di taglio socio-criminologico del fenomeno, l’intimidazione e l’assoggettamento nei confronti della popolazione può derivare dalla sola presenza del sodalizio sul territorio e dalla fama criminale che il gruppo ha generato per mezzo di un pregresso e continuato utilizzo della violenza[13]. In un tale contesto di radicamento mafioso[14] la rappresentazione del metodo avviene in ragione di condotte molto meno significative sul piano normativo, dacché il sodalizio mafioso, per il sol fatto di essere tale, già è pervenuto al superamento della soglia minima che consente di utilizzare la forza intimidatrice soltanto sulla base del vincolo e del suo manifestarsi. Il metodo statico presuppone l’accumulo, nel tempo, di un patrimonio di intimidazione spendibile anche, e sopratutto, in assenza di condotte non esplicite: è proprio questa ipotesi ad afferire alle "modalità libere" con cui la capacità mafiosa si esteriorizza.
Si può quindi distinguere il metodo statico dal metodo dinamico[15], a seconda che vi sia o meno il concreto esercizio della condotta intimidatrice (il requisito della violenza o della minaccia esplicita); e dire, altresì, che tra le fila della mafia tradizionale si sfrutta ordinariamente il metodo statico, sebbene non possa escludersi un utilizzo della violenza, ovverosia del metodo dinamico. Quest’ultimo pare invece essere una linea d’azione obbligata per le "nuove" mafie, quelle di nuovo conio ed anche per le mafie storiche ma "dislocate"[16], poiché il territorio di riferimento della cosca non è più quello in cui si è radicata - e su di essa può farsi leva - la "fama criminale" della famiglia mafiosa "madre"[17].
Secondo la Corte, il metodo deve coagularsi attorno ad una comunità di riferimento e va dedotto fattualmente:«ciò che conta è che l’elemento della forza intimidatrice sia desunto da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione, e ricollegabile ad una generale percezione della sua terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica e/o morale»[18].
L’associazione insomma in tanto esiste in quanto esprime il suo metodo: che esso sia statico o dinamico, va però sempre«inteso nel suo senso oggettivo: quest’ultimo infatti non può perdere la propria consistenza fino a far degradare la fattispecie a semplice pericolo attraverso mere prospettazioni prognostiche». Il metodo, per la verifica del suo effettivo esercizio, va sempre calato«nel contesto di riferimento», derivandone che l’organizzazione deve essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica; non essendo sufficiente il mero pericolo che i suoi elementi costitutivi possano manifestarsi.
Questo ragionamento, collegato al caso sotteso e decriptato nel cifrario giurisprudenziale, ha un significato preciso: tutti i tipi mafiosi, vecchi e nuovi, proprio perché vanno fattualmente riscontrati, necessitano di essere calati nel loro contesto di riferimento, da cui deve emergere empiricamente l’esercizio ovvero la perduranza degli effetti di un già esercitato metodo mafioso; diversamente, vorrebbe dire presumere l’esistenza (e l’immanenza) di un elemento costitutivo del reato, con relativo pregiudizio dei canoni di materialità e offensività del reato[19].
È indubbio, al tempo stesso, che tale sforzo probatorio è vieppiù semplificato nei casi ordinari di esercizio di un metodo statico: ove cioé si considerino le mafie storiche nei loro contesti territoriali di riferimento, in cui omertà e assoggettamento sono appunto storicamente - e giudiziariamente - riscontrati: ed è certamente il caso della cosca Alvaro nel reggino, che fa da sfondo alla vicenda rimessa alla Corte.
3. L’adesione al sodalizio (il partecipe)
È bene precisare che la Corte non intende riscontrare l’associazione, foss’anche una mafia storico-tradizionale, sulla base di massime di esperienza: anzi, da parte dei giudici si nota una diffidenza epistemologica di fondo nell’utilizzo delle massime di esperienza, affiancato da più d’un richiamo ai rischi di un utilizzo probatoriamente scorretto delle stesse.«Invero, solo la verifica dell’applicabilità della regola prescelta consente, in definitiva, la sostituzione dell’ id quod semper necesse all’ id quod plerumque accidit, criterio che - unico - permette di raggiungere l’alto grado di probabilità logica della spiegazione causale ipotizzata permettendo il superamento del dubbio ragionevole».
E tuttavia, in una materia come quella in trattazione, non può negarsi il patrimonio giudiziario (e d’analisi scientifica) nel frattempo acquisito, e quindi«l’utilità della conoscenza esperienziale delle dinamiche e della struttura delle associazioni mafiose»; che è anzi necessario per comprendere il reale significato di fatti di nattura prettamente sociologica (quali l’affiliazione rituale) che, trattati in astratto, potrebbero non avere alcuna rilevanza giuridica: in questo senso, immancabilmente, le massime di esperienza sono utili strumenti di interpretazione, più che per l’oggetto di giudizio in sé, per il loro contesto.
È dentro questa cornice sistematico-esegetica che la Corte afferma:«Se il presupposto che "lega" l’adepto alla consorteria è il suo stabile inserimento nella stessa, è innegabile come questo vincolo possa realizzarsi o in modo formale, attraverso i classici rituali di adesione e con la comprovata "messa a disposizione" ovvero, in concreto, con il compimento di azioni, preventivamente assegnate, teleologicamente orientate alla realizzazione degli scopi associativi».
È bene chiarire che il modello di riferimento per una meccanica d’ingresso formale nel sodalizio è, sempre, quello delle mafie tradizionali, in cui il "battesimo" è notoriamente il presupposto per lo stabile inserimento nell’organigramma associativo da parte del sodale; ma non l’unico, potendosi dedurre la partecipazione anche in concreto, mediante il compimento di attività causalmente orientate a favore dell’associazione, che ne comprovino, indubitabilmente, la fidelizzazione dei comportamenti e il rispetto delle gerarchie: la "messa a disposizione", appunto. In quest’ultimo caso, l’esercizio in concreto di ciò che è (sul piano soggettivo) l’affectio societatis«non richiede altri indici probatori in ragione della loro indubbia autoevidenza», mentre«l’adesione al sodalizio in forme rituali impone la ricerca di ulteriori elementi che possono comprovare l’effettiva e stabile intraneità e rendere certa e potenzialmente duratura la "messa a disposizione" del soggetto». L’adesione formale al sodalizio, quindi, non sarebbe di per sè sufficiente ad integrare il requisito della partecipazione; neppure nel contesto di una mafia tradizionale, in cui il "battesimo" può avere un solo ed univoco significato.
Conseguentemente la Corte, in uno spirito di«irrinunciabile recupero di una dimensione probatoria», elenca quelle circostanze - recte: indici probatori in ordine alla partecipazione - che sul punto possono venire in rilievo: la "qualità" dell’adesione e il tipo di percorso che l’ha preceduta; la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando; la "serietà" del contesto ambientale in cui la decisione è maturata; il rispetto delle forme rituali anche con riferimento all’accertamento dei "poteri" di chi sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti; la tipologia del reciproco impegno preso; la misura della disponibilità pretesa e/o offerta[20].
Quindi:«l’incriminazione del fatto iniziale, non accompagnato da altri indici rivelatori della stabile adesione, significa inevitabilmente punire una mera potenzialità operativa del soggetto, in aperto contrasto con la logica di effettività e proporzione che deve regolare il rapporto tra reato e sanzione». Da qui il corposo principio di diritto[21] e l’annullamento dell’ordinanza cautelare, essendo«rimasto del tutto inesplorato il profilo relativo alle attività eventualmente svolte dai due ricorrenti in favore del sodalizio criminale di ritenuta appartenenza».
4. La contraddizione in cui sembra incorrere la Corte
Al netto del pregevole sforzo ricostruttivo, che consente il riordino esegetico di due profili assolutamente centrali, quali l’an dell’associazione mafiosa (avendo i giudici fissato la soglia di riscontro fattuale oltre la quale può dirsi integrato il reato associativo) e la partecipazione alla stessa (da accertarsi in concreto sulla base di precisi indici probatori[22] o comunque sulla scorta di ogni altro elemento di fatto), e pur dovendosi apprezzare l’ancoraggio saldo dei principi enucleati ai canoni di materialità e offensività, nonché la fuga da ogni forma di responsabilità da posizione o da status[23], si coglie un eccesso di astrazione argomentativa laddove non si ritenga sufficiente l’affiliazione rituale, in quanto tale accertata, a comprovare la partecipazione all’associazione (storica); questa circostanza andrà considerata quale indizio, seppur grave, quindi non sufficiente per sé sola ad integrare il reato, essendo appunto necessario un quid pluris«capace di rendere inequivoco e certo il contributo attuale dell’associato a favore della consorteria mafiosa».
L’astrazione del ragionamento della Corte si ravvisa, invero, nel porre un principio generale del tutto scisso dai contesti socio-criminologici di riferimento dell’associazione mafiosa: perché se lo sforzo probatorio ulteriore - ed oltre la mera affiliazione - non può omettersi nel caso delle "nuove" mafie, a struttura non tradizionale, e che in ogni caso non derivino da associazioni storiche che ritualmente utilizzano ancora il "battesimo", in cui è sempre necessaria (in assenza di dati empirici e d’esperienza storicamente consolidati) una verifica in concreto delle modalità di partecipazione, ontologicamente diversa è la valutazione da svolgere su una mafia storica[24].
Una contraddizione, in altri termini, sembra cogliersi laddove da un lato la Corte, nello sforzo di rendere intellegibile l’esercizio del metodo e la presenza sul territorio di un gruppo rientrante nel fenotipo di cui all’art. 416-bis, correttamente distingue le "vecchie" mafie dalle "nuove", riconoscendone una strutturale diversità, non solo sul piano degli effetti criminosi e dell’infiltrazione sociale ma anche su quello organizzativo-funzionale: giacché una mafia storica (ed in particolare la ‘ndrangheta, certamente quella più tradizionale e più saldamente ancorata a meccanismi di affiliazione e funzionamento che si tramandano da generazioni), proprio per essere tale, ha regole sue proprie, che costituiscono ormai patrimonio conoscitivo della collettività e degli operatori del diritto. Eppure dall’altro lato, dentro un ragionamento che sembra più accorto nel ripercorrere le argomentazioni della sentenza "Pesce" anziché compiersi del tutto, non si esegue alcuna distinzione tipologica sotto il profilo dell’adesione punibile al sodalizio; tanto che viene omesso, nel principio di diritto enucleato, ogni riferimento alla mafia storica, riferimento invece presente - perché dirimente - nel quesito sottoposto all’organo nomofilattico[25].
Di interesse, al riguardo, è la memoria depositata dal procuratore generale che ha chiesto di dichiararsi inammissibili i ricorsi. Secondo il pubblico ministero, il quesito sottoposto alle Sezioni Unite andrebbe declinato diversamente:«Non si tratta, infatti, di attribuire di per sé un significato univoco a una frazione di condotta, ma di ricondurre quella condotta al contesto criminale oggetto di prova»: da qui, l’importanza di ricostruire«in termini probatoriamente certi, la struttura del sodalizio criminoso e di conseguenza il significato che in quel contesto alla cerimonia di rituale iniziazione viene attribuito».
Posto che la giurisprudenza di legittimità è granitica nell’affermare che la partecipazione al sodalizio criminale mafioso è del tutto indipendente dalla commissione di specifici reati o da condotte attuative del progetto criminoso dell’associazione, la manifestazione di volontà deve inserirsi nella struttura dell’organizzazione, venendone riconosciuta e apportandovi un contributo effettivo, anche per la sola "messa a disposizione".«E questo - afferma il procuratore generale - è un tema di prova, solo di prova»[26].
Ora, è di tutta evidenza che nel contesto ‘ndranghetista, ed in particolare nel tradizionale contesto reggino oggetto di indagine prima e di giudizi cautelari poi, l’affiliazione rituale ha una comprovata e ineludibile valenza partecipativa; che trattasi - l’affiliazione rituale - di una chiara e non fraintendibile "messa a disposizione" e che, in questo preciso contesto storico-tradizionale, richiedere la prova di dati di fatto ulteriori vorrebbe dire avventurarsi nell’esplorazione del - diverso - tema probatorio dell’attuazione del programma criminoso, ed eludere per questa via la struttura del reato come formulato dal legislatore del 1982, che richiede la mera partecipazione.
Se tutto in effetti ruota attorno alla prova della partecipazione, e se la prova comporta l’acquisizione di dati di fatto in uno con la loro intepretazione nel concreto contesto di riferimento, non può negarsi che quest’ultimo cambi a seconda del diverso panorama criminologico: che si tratti di una mafia tradizionale, saldamente e storicamente radicata sul territorio, dalla mappatura ben intellegibile e dai chiari meccanismi di funzionamento, perché più volte giudiziariamente accertati (è il caso, appunto e sopratutto, dei locali di ‘ndrangheta), ovvero di mafie di nuovo conio, dalle strutture più diverse e per loro stessa natura inesplorate.
Cosicché, nel contesto esaminato, non può non considerarsi l’affiliazione rituale quale forma di partecipazione punibile, fatta salva, s’intende, l’eventuale emergenza di risultanze processuali idonee a smentire tale regola di esperienza.
D’altro canto anche la Corte ribadisce che«la disponibilità conclamata resa con il prestato giuramento di mafia, che può rendere ipotizzabile il contributo partecipativo del soggetto, può essere probatoriamente contraddetta» da altri dati di fatto. Da tale argomentazione, però, scaturisce una diversa conclusione; essa viene valorizzata e posta a supporto dell’esigenza di riscontrare concretamente, probatoriamente - non l’associazione, bensì - la singola partecipazione; anche al cospetto di regole mafiose interne precise, inequivoche e perpetrate da generazioni[27].
5. Fenomeno mafioso e contrasto giudiziario
La pronuncia in commento, muovendo da condivisibili premesse (relative all’ an dell’associazione mafiosa) e con l’apprezzabile intento di rafforzare il corollario di garanzie nella configurazione del reato di cui all’art. 416-bis, giunge a soluzioni non appaganti perché sembrano andare oltre - arricchendolo tipicamente - il dato di legge, che incrimina la mera partecipazione all’associazione mafiosa (concretamente percepibile in quanto tale): e ciò in ragione della natura di un fenomeno totalitario[28], che pone in serio e costante pericolo le basi stesse delle istituzioni democratiche e della civile convivenza.
Ed invero, il lignaggio di pericolo concreto di cui deve ritenersi portatrice la norma in relazione a beni giuridici di tale rilevanza, va sicuramente ricondotto, per quanto sopra detto, all’esercizio del metodo mafioso da parte dell’associazione (non potendosi punire mere entità associative prive di proiezioni delittuose all’esterno)[29], senza però utilizzare il medesimo schema inferenziale anche - come sembra suggerire la sentenza - per le forme partecipative all’ente[30], che vanno sempre coniugate alla littera legis e poi affianacate all’analisi - non dell’associazione criminale, ma - del tipo di mafia a cui si riconnettono.
Invero, in questa pronuncia solida, che si muove nel solco della giurisprudenza più attenta ai canoni dell’offensività del reato[31] e mostra piena e dettagliata consapevolezza del lungo cammino pretorio in subiecta materia, ma forse non del tutto centrata rispetto al quesito (dal preciso riferimento socio-criminologico) posto dalla sezione remittente, non colgono nel segno i riferimenti normativi sovranazionali e sistematici[32] effettuati dalla Corte, che per assoluta diversità di obiettivi politico-criminali non si attagliano al caso vagliato dell’affiliazione rituale ad un’associazione mafiosa (tradizionale).
Da un lato si richiama la nozione di partecipazione recepita in ambito U.E. dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta alla criminalità organizzata[33], la quale - benché priva di qualsivoglia riferimento alle oggettive peculiarità del fenomeno mafioso - finirebbe per«orientare l’interpretazione del dato normativo interno»; dall’altro si fa riferimento ad una fattispecie recentemente introdotta (quella di cui all’art. 270-quater, rubricato "Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale") in cui il legislatore«ha ritenuto di dover incriminare il mero reclutamento»[34], introducendo appunto una previsione incriminatrice ad hoc:«il che ulteriormente evidenzia come tale segmento del fatto, qualora non accompagnate da successive condotte di attivazione, non può ritenersi di per sé ricompreso nella nozione tipica di partecipazione».
Anche volendo valorizzare quest’ultimo dato sul piano sistematico, rimane improprio il parallelismo tra mero arruolamento per finalità terroristiche e affiliazione rituale ad una mafia[35]: che è notoriamente, ove beninteso si appuri la serietà dell’affiliazione, una scelta di vita di carattere assoluto, ove l’associato viene ad appartenere alla mafia sotto il profilo della totale soggezione alle sue regole, regole che neppure consentono una facile e agevole dissociazione; nell’affiliazione rituale, nel contesto di una mafia tradizionale, è immanente l’obbligo di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca, accrescendone così la potenzialità operativa. E ciò, va ribadito, è patrimonio empirico-conoscitivo pressoché granitico[36].
Neanche l’ampio spazio riservato alle argomentazioni delle Sezioni Unite "Mannino" del 2005, che come noto riscattano il paradigma organizzatorio "puro" sviluppandolo nella sua dimensione integrata (o mista)[37] e da cui si evincerebbe un inserimento associativo combinato con un apporto individuale causalmente orientato[38], appare dirimente, atteso che«la proiezione fattuale dell’inserimento organico nella struttura del sodalizio», tale da«implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato "prende parte" al fenomeno associativo» (questa la valutazione probatoria sollecitata dai giudici nel 2005), è adeguatamente sussunto, per le ragioni anzidette, in una condotta formalistica di assoluta rilevanza e centralità nella vita di una associazione mafiosa tradizionale. La sentenza "Mannino", che pure si occupa più in generale di distinguere concettualmente la partecipazione associativa dal concorso eventuale[39], ha come parametro di riferimento la mafia siciliana di cosa nostra; e pur astraendo il tema della partecipazione, e dell’idoneità della partecipazione alla cosca, tratteggia un quadro esattamente coincidente con ciò che in un contesto mafioso storico-tradizionale si realizza con l’affiliazione rituale.
L’art. 416-bis, a ben vedere, non è affetto da una "tipicità incompiuta"[40], come sembrano indiziare le molteplici oscillazioni interpretative sulla norma: in ogni caso, la carenza del tipo descrittivo non può ravvisarsi nel dato partecipativo, a cui si collega solo e soltanto un problema di prova dell’inserimento della struttura: che è peraltro, per antonomasia, legato all’affiliazione rituale.
Aggravare e appesantire questo passaggio configurativo di per sé chiaro - perlomeno ove si tratti di affiliazione rituale ad una mafia storica e tradizionale - rendendolo di fatto un (ulteriore) problema causale da risolvere per comprovare l’inserimento nella struttura, con la prova (ulteriore) della idoneità,«per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla "messa a disposizione" del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi», con tutto ciò che tale locuzione comporta sul piano dell’accertamento nel contesto anzitutto delle complesse indagini sulle associazioni mafiose, vuol dire contraddittoriamente problematizzare sul piano causale un profilo - quello appunto della partecipazione - dopo avere chiarificato, in premessa, quello logicamente precedente dell’ an dell’associazione.
Ed una siffatta impostazione problematica, che innalza processualmente la soglia di perfezionamento del reato associativo in capo al sodale, mero partecipe, richiedendo un’articolata prova - causalmente orientata - in ordine alla partecipazione alla cosca, rischia di generare effetti pratici di notevole portata assieme ad ulteriori incertezze applicative, come nell’esperienza giurisprudenziale accade quando si comincia ad elaborare "indici probatori" volti a rafforzare la prova di un fatto[41]; e in ultima analisi, ed è ciò che più rileva, di rendere più difficoltoso il contrasto giudiziario al fenomeno mafioso che, ancora, stringe e soffoca con i più tradizionali metodi dell’assoggettamento intere aree, specialmente (ma non solo) del Meridione.
[1] Fatte salve le tre note pronunce a Sezioni Unite sul concorso esterno, tutte peraltro richiamate nella sentenza in commento in quanto utili a lumeggiare, in termini generali, il tema della partecipazione: Sez. Un., 5 ottobre 1994 (dep. 1995), n. 16 - rv. 199386 (c.d. "Demitry"); Sez. Un., 30 ottobre 2002 n. 22327 - rv. 224181 (c.d. "Carnevale"); Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748 (c.d. "Mannino"); tra i contributi sul tema si ricordano Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo. Le ipotesi delle associazioni per delinquere e di tipo mafioso, Napoli, 2003, e Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003.
[2] Ne è riprova l’imprescindibile lavoro monografico di Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, 2015, apparso tuttavia una prima volta (con il titolo Le associazioni di tipo mafioso) nel 1984, e via via aggiornato (nel 1995, nel 2008 ed infine, appunto, nel 2015). L’autore, nella Prefazione, così giustifica l’ulteriore edizione dell’opera:«Non prive di rilievo sono, infine, le nuove emergenze circa l’apparato strutturale-strumentale di certi organismi associativi "neo-mafiosi" individuati di recente» (p. V). È indubbio, infatti, che i modelli mafiosi di nuovo conio – quelli cioè recentemente emersi nella giurisprudenza – travolgano le impostazioni teorico-applicative fin qui consolidatesi in materia. Si veda anche Basile, Riflessioni sparse su "Il delitto di associazione mafiosa". A partire dalla terza edizione del libro di Giuliano Turone. Recensione, in Dir. pen. cont. (web), 26 aprile 2016.
[3] Si guardi il ricognitivo lavoro di Santoro (a cura di), Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, Il Mulino, 2015, ed in particolare il contributo di La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, ivi, p. 95 ss.
[4] Un orientamento ben delineabile a partire da Sez. V, 25 giugno 2003, n. 38412 - rv. 227361. Peraltro, come la pronuncia in commento correttamente ricorda, questa tesi si aggancia alla relazione della proposta di legge n. 1581 (presentata il 31 marzo 1980 dai deputati Pio La Torre ed altri), da cui scaturirà la novella di cui all’art. 416-bis:«Non [è] sufficiente la previsione dell’art. 416 del codice penale a comprendere tutte le realtà associative di mafia che talvolta prescindono da un programma criminoso secondo la valenza data a questo elemento tipico dall’art. 416 del codice penale, affidando il raggiungimento degli obiettivi alla forza intimidatrice del vincolo mafioso in quanto tale: forza intimidatrice che in Sicilia e Calabria raggiunge i suoi effetti senza concretarsi in una minaccia o in una violenza negli elementi tipici prefigurati nel codice penale"». In dottrina, tra i primi a delineare una fattispecie di pericolo astratto è Flick, L’associazione a delinquere di tipo mafioso. Interrogativi e riflessioni sui problemi proposti dall’art. 416 bis c.p., in Riv. it. Dir. Proc. Pen., 1988, p. 853.
[5] In dottrina già Patalano, L’associazione per delinquere, Jovene, 1971, p. 178, rilevava come il bene protetto dalla fattispecie associativa (e, dunque, a fortiori dal reato di associazione mafiosa) sia l’ordine pubblico inteso quale "esclusività dell’ordinamento giuridico-penale". Nei medesimi termini, successivamente: Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, p. 110 e Cavaliere, Delitti contro l’ordine pubblico, in Moccia (a cura di), Trattato di diritto penale, Parte speciale, V, Napoli, 2007, p. 397.
[6] Una tesi che viene propugnata già a partire da sez. VI, 3 giugno 1993, n. 1793 (1994) - rv. 198577. E’ sicuramente l’impostazione preferita dalla dottrina: cfr. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. d. pen., vol. I, Padova, 1987, p. 309 Da ultimo, prospettano la«necessaria idoneità offensiva» Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 56.
[7] E che ha specularmente aperto un ampio dibattito in dottrina: Serraino, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art. 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 264 ss.; Pignatone-Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma-Bari, 2019; Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont. (web), 10 novembre 2015; Balsamo-Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont. (web), 18 ottobre 2013.
[8] Segnala come elemento di novità il fatto che il quesito sollevato dalla sezione remittente non riguardi il caso tipologico definito di "ultima generazione", ma viene al contrario in evidenza come punto controverso l’inquadramento nella partecipazione associativa della più arcaica delle manifestazioni di mafiosità Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, in Sistema penale, 5, 2021, p. 4.
[9] Si evoca l’imprescindibile testo di Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Roma, 2009, tra gli studiosi più attenti del fenomeno delle "nuove" mafie.
[10] Sebbene, come rileva Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord: una sfida alla tenuta dell’art. 416 bis?, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 367, la questione dell’applicabilità dell’art. 416-bis a realtà associative diverse dalle “mafie storiche” si era presentata già dopo pochi anni di vigenza del delitto di associazione di tipo mafioso.
[11] La pronuncia richiama il dibattito tra chi intende la forza di intimidazione quale un insieme di singoli, determinati, ripetuti e sopratutto attuali atti di minaccia o di violenza, chiaramente riconoscibili, e coloro invece che considerano il fenomeno mafioso come l’ instaurazione di un "clima di terrore" dettato dalla "fama" del gruppo, finendo per valorizzare una componente astratta che non necessariamente deve rivelarsi all’esterno.
[12] Lo ricorda la Corte, per esempio, laddove si sofferma sulle descrizioni delle mafie storiche, del loro funzionamento interno e della loro proiezione esterna, e di come per esse nella prassi giudiziaria siano state impiegate le massime di esperienza (p. 38 ss. della sentenza); oppure nei numerosi passaggi in cui si rammenta che la capacità mafiosa può essere patrimonio storico perpetuato nelle diverse stagioni del radicamento mafioso. Le "nuove" mafie non vengono analizzate dettagliatamente, ma è ben chiaro che si mantiene ferma una linea concettuale insuperabile, tra le une e le altre.
[13] È fondamentale ricalcare il fatto che l’attività intimidatrice si sia effettivamente svolta in precedenza, e per un periodo di tempo sufficiente all’infondere l’omertà nella popolazione. Sottolineava questo elemento De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. d. pen., vol. I, Padova, 1987, p. 309, secondo cui i requisiti dell’assoggettamento e dell’omertà si«ricollegano ad un’attività precedente, perché l’associazione ha acquistato la sua forza proprio in virtù di reiterati comportamenti di violenza e di minaccia».
[14] Il concetto di area "a tradizionale radicamento mafioso" è di matrice istituzionale: elaborato nei lavori della Commissione parlamentare antimafia, è in particolare cristallizzato in Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno dellamafia e delle altre associazioni criminali similari (XI legislatura), Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali (relatore C. Smuraglia), approvata il 13 gennaio 1994.
[15] Tale distinzione concettuale, utile per chiarire la dinamica di alcuni fenomeni delittuosi quale l’estorsione c.d. "ambientale" di tipo mafioso, è stata richiamata, volendo, in Apollonio, Estorsione ambientale e metodo mafioso, in Cass. Pen, 2018, p. 3482 ss.
[16] Sulle mafie "dislocate", con particolare riguardo alla più diffusa ipotesi delle filiali silenti formatesi nel Nord della Penisola, si veda Varese, Mafie in movimento. Percorsi e geografie del crimine organizzato, Torino, 2011, passim; Alessandri (a cura di), Espansione della criminalità organizzata nell’attività d’impresa al Nord, Torino, 2017; Visconti, Associazione di tipo mafioso e ‘ndrangheta del nord, in Libro dell’anno del diritto 2016, in www.treccani.it.
[17] Per Rubiola, Associazione per delinquere di tipo mafioso, in Enc. giur., I, Roma, 1990, p. 213, pur essendo certamente raro che si verifichi, non si può escludere che una nuova associazione nasca già temibile, in modo da rendere convincente per i terzi la sua temibilità; potrà, ad esempio, rendere noti i nomi dei suoi componenti più potenti, la cui pericolosità individuale si trasfonde nel gruppo e contribuisce a crearne la forza; o potrà vantare le altolocate protezioni di cui gode, i notevoli mezzi finanziari a sua disposizione.
[18] Viene qui citata la pronuncia Sez. Fer., 12 settembre 2013, n. 44315 - rv. 258637.
[19] Una conclusione che recentemente veniva ribadita nella nota sentenza di legittimità sulla vicenda c.d. "Mafia Capitale" (Sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125), su cui, volendo, cfr. Apollonio, Essere o non essere "Mafia Capitale". Commento a Cass., sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125, in Giustizia Insieme (web), 20 giugno 2021.
[20] In questo senso la pronuncia in commento è il completamento - ma anche la pedissequa riproduzione d’itinere - di un filone argomentativo che vede nella sentenza c.d. "Pesce" (sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359 - rv. 269040) la capofila, la quale richiede, oltre al dato formale dell’affiliazione rituale ad un’associazione di tipo mafioso,«ulteriori concreti indicatori fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto nel sodalizio con un ruolo attivo». Su tale spunto della sentenza "Pesce" si sofferma Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche, cit. p. 8 ss.; spunto che pertanto si proietta anche sulla sentenza delle Sezioni Unite.
[21]«La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi.
Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione».
[22] Va soggiunto che i giudici non si limitano ad elaborare indici probatori relativi al concreto inserimento del sodale nella cosca a seguito dell’affiliazione rituale, ma ne elaborano altri in grado, ad es., di avvalorare l’informazione pervenuta da altri soggetti diversi dall’affiliato:«fuori dai casi di intraneità confessata, diversi saranno gli statuti probatori applicabili, a seconda che il dichiarante riferisca quanto appreso da altri oppure rilevi quanto accaduto in sua presenza perché: a) ha preso parte alla cerimonia; b) il soggetto gli è stato presentato come "uomo d’onore"; c) è entrato in contatto con soggetto che si è rapportato a lui come "uomo d’onore"».
[23] Del rischio che in questa materia possano accendersi«i bagliori di un diritto penale d’autore sotto mentite spoglie» parlano Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Mezzetti-Luparia Donati (diretto da), La legislazione antimafia, Bologna, 2020, p. 42, sulla scia di una dottrina in questo senso univoca: cfr. anche Insolera, Guardando nel caleidoscopio. Antimafia, antipolitica, potere giudiziaria, in Ind. pen., 2015, p. 223.
[24] La Corte richiama la "dote" di ‘ndrangheta non solo perché il caso concreto riguarda una cosca ‘ndranghetista tradizionalmente presente, da decenni, sul territorio, ma anche perché una tale affiliazione - maggiormente qualificata - è stata parametro di giudizio nella sentenza "Pesce": eppure«non è possibile ritenere che il possesso di una "dote" equivalga ad indefinita partecipazione all’associazione, così che, una volta certificato quel possesso, non vi è alcun bisogno di un concreto accertamento in ordine alla partecipazione e al suo protrarsi nel tempo»; occorre insomma, necessariamente, la«prova della correlazione tra affiliato ed associazione [che] si rivela con riferimento al significato da attribuire al possesso della "dote"».
Invero, al netto della medesima struttura argomentativa e dei medesimi richiami, come della valorizzazione dei medesimi principi, l’unico profilo apprezzabile di divergenza dalla sentenza "Pesce" sta proprio nell’avere, quest’ultima, conferito un precipuo rilievo giuridico-probatorio ad un elemento marcatamente organizzativo-sociologico, quale è il conferimento di un "alto" grado di ‘ndrangheta come la "dote", affermando che, a differenza della mera affiliazione, il conferimento di questa implica per massima di esperienza l’avvenuta attivazione del soggetto nell’ambito associativo. Cosicché, le Sezioni Unite, non scendendo più a fondo nell’analisi socio-organizzativa del rituale di ‘ndrangheta ed omettendo per questa via l’implicazione di una chiara responsabilità partecipativa in ragione (perlomeno) della "dote", avrebbero ulteriormente rafforzato, rispetto alla sentenza "Pesce", lo statuto garantistico dell’accertamento della partecipazione alla cosca.
[25] Mentre l’ordinanza di rimessione (Sez. I, 28 gennaio 2021, dep. 9 febbraio 2021, n. 5071, rel. Centonze) muove i propri dubbi esegetici nel quadro specifico del perfezionamento del reato nel contesto delle mafie storiche, financo nominalmente elencate nell’ordinanza: cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita.
[26] Nell’udienza in camera di consiglio è intervenuto il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, depositando le richiamate e citate Note per udienza in camera di consiglio davanti alle Sezioni Unite penali (proc. n. 34566/2020).
[27] Commentando l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, Fiorucci, L’importante è partecipare?, in Arch. Pen., 1, 2021, p. 16, auspicava una soluzione "intermedia", che parallelamente adottando una prospettiva socio-organizzativa con riferimento al funzionamento interno delle mafie storiche (ampiamente accertato in sede giudiziaria), perlomeno distingua l’attribuzione formale dal conferimento di specifici ruoli (ad es. della "dote"). Come sopra detto, però, la Corte ha ritenuto di non svolgere questa distinzione, più astrattamente preferendo l’elaborazione di "indici probatori" in grado di superare l’indizio grave dell’affiliazione rituale.
[28] Di potere politico "totalitario" parla Violante, Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane, Roma-Bari, 1994, p. 7. Sui caratteri del predicato mafioso si veda, inter alia, Tranfaglia, La mafia come metodo, Milano, 2012 (nuova edizione riveduta), p. 23 ss. V. anche Zincani, La criminalità organizzata. Strutture criminali e controllo sociale, Bologna, 1989, p. 15 ss. Sviluppa un interessante modello organizzativo di crimine organizzato Fiandaca, Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. Pen., 1991, p. 7, sul quale si veda anche, più recentemente, Aleo, Delitti associativi e criminalità organizzata. I contributi della teoria dell’organizzazione, in Rass. pen. crim., 3, 2012, p. 55 ss.
[29] Si condividono al riguardo le impostazioni della dottrina, ben compendiate nei recenti lavori di Amarelli, Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 105 ss.; Id., Mafie autoctone: senza metodo non si applica l’art. 416 bis c.p., in Giur. it., 2020, p. 2249 ss.
[30] Su questo punto, peraltro, converge parte della dottrina: cfr. ad es. lo spunto di Di Vetta, Tipicità e prova, Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in Arch. Pen., 1, 2017.
[31] Canone ermeneutico primario (in specie per i reati associativi di pericolo), rinvenendo un fondamento implicito negli artt. 13, 25 comma 2 e 27, comma 3 Cost., nonché a livello codicistico nell’art. 49, comma 2 c.p. La costituzionalizzazione implicita del principio di offensività nell’attuale assetto ordinamentale è stata evidenziata, come noto, da Bricola, Teoria generale del reato, in Nov. Dig. It., XIX vol., Torino 1973, p. 81 ss. (e in Scritti di diritto penale, I, Dottrine generali, teoria del reato e sistema sanzionatorio, Milano 1997, 539 ss.); Gallo, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, 8 ss.; Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 463 ss; più recentemente, si rinvia a Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, passim.
[32] Già effettuati nella sentenza "Pesce", cit., peraltro elogiata dalla dottrina come la«presa di posizione più matura sul tema della partecipazione associativa» (Merenda-Visconti, Metodo mafioso, cit., p. 65, nt. 73).
[33] Che incrimina "il comportamento di una persona che [...] partecipi attivamente alle attività criminali dell’organizzazione, ivi compresi la fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonché qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione".
[34] Trattasi di condotta inclusiva - sotto il profilo del rilievo penale - della fase che precede l’accordo (oltre che l’effettivo inserimento nella struttura) ritenuta, in presenza del particolare finalismo, meritevole di sanzione sotto il profilo del reato consumato: Fasani, Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. Pen. Proc., 2015, 936; Presotto, Le modifiche agli artt. 270-quater e quinquies del codice penale per il contrasto al terrorismo, in Dir. Pen. Cont., 1/2017, p. 110.
[35] Sul punto non può condividersi il raffronto effettuato nella sentenza "Pesce" (e per converso nella pronuncia in commento): l’affiliazione rituale non è un«mero accordo di ingresso simile al semplice arruolamento descritto come condotta punibile nell’attuale articolo 270-bis c.p. in tema di finalità di terrorismo anche internazionale»: affiancare l’affiliazione rituale ad un accordo di ingresso, come accade per un qualsiasi ente collettivo, lecito e illecito, ivi comprese le organizzazioni terroristiche, vorrebbe dire negare le specificità criminologiche delle mafie nonché sminuire quei dati di conoscenza granitici travasati dall’esperienza giudiziaria all’analisi scientifica (e viceversa) che mostrano il grado assoluto di "messa a disposizione" del sodale: vds., per un esempio di trasfusione del sapere tra i vari ambiti, Ciconte, Riti criminali. I codici di affiliazione alla ‘ndrangheta, Soveria-Mannelli, 2015, p. 45 ss.
[36] Sul punto, ancora, le analisi sociologiche ci offrono un quadro tranciante: vd. Massari, Sacra corona unita. Potere e segreto, Roma-Bari, 1998, p. 23 ss.; mentre sulla ‘ndrangheta Malafarina, Il Codice della ‘Ndrangheta, Reggio Calabria, 1978, p. 50 ss.; Gratteri-Nicaso, Fratelli di sangue, Cosenza, 2006, passim.
[37] La struttura "mista" del reato associativo è ben illustrata nel recente lavoro di Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., p. 40 ss.
[38] Su come però la sentenza (Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748 (c.d. "Mannino") non abbia sopito i dibattiti in ordine alla configurazione dell’istituto, cfr. Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica. Considerazioni sollecitate dalla requisitoria del p.g. Francesco Iacoviello nel processo Dell’Utri, in Dir. pen. cont., I, 2012, p. 251 ss; vd. anche, utilmente, Macchia, “Concorso esterno”. Storia di una creazione giurisprudenziale, in Dir. e Giust., 2003, 22, 39.
[39] Nel quadro di quella pronuncia i giudici non procedevano ad alcuna distinzione tra i possibili fenotipi di mafia (tra "vecchi" e "nuovi" modelli) oggetto di giudizio, anche perché la distinzione assume nelle sentenze della Cassazione un preciso rilievo probatorio, di fattuale riscontro della condotta tipizzata, solo nell’ultimo decennio: per una ricognizione, sia consentito il rinvio a Apollonio, Rilievi critici su sulle pronunce di "Mafia Capitale": tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. Pen., 2016, p. 118 ss.
[40] E’ noto come la dottrina abbia parlato di "tipicità inafferrabile" della fattispecie associativa: Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, II, Napoli, 2000, 65; nello stesso senso, Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo, Napoli, 2003, 81; invero, potrebbe semmai parlarsi di "tipicità aperta" all’integrazione probatoria (su cui si guardi l’importante spunto di Gargani, Fattispecie sostanziali e dinamiche probatorie. Appunti sulla processualizzazione della tipicità penale, in De Francesco-Marzaduri (a cura di), Il reato lungo gli impervi sentieri del processo, Torino, 2016, p. 89 ss.). Ed in questo senso non può negarsi che la materia dei reati associativi , per le stesse caratteristiche criminologiche del fenomeno da regolare, risulta particolarmente permeabile alle esigenze probatorie che emergono in sede processuale (cfr. Fiandaca, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 361 ss.).
[41] Un rischio messo in evidenza, all’indomani del mero dispositivo delle Sezioni Unite, da Tredici, Rituale di affiliazione e condotta di partecipazione: la decisione delle Sezioni Unite, in Dir. Proc. Pen. (web), 27 luglio 2021, secondo cui«la ricerca garantista di ulteriori indici di colpevolezza verrebbe, infatti, rimessa ad un’attività di creazione pretoria, del tutto sganciata dal tenore della fattispecie, che finirebbe per preludere ad un’inevitabile discrezionalità giudiziaria, incompatibile con il principio di legalità formale».
Onofrio Fanelli - In memoriam
di Marco Rossetti
“Le piace Brahms?”, domandò il Presidente mentre, accortosi dal mio arrivo, abbassava con la sinistra il volume della piccola radio a transistor poggiata su una consolle accanto alla scrivania. Erano i suoi pochi momenti di riposo in una giornata intensissima, ed ero arrivato io a disturbarlo.
La domanda mi spiazzò.
Ero andato dal direttore dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione per presentarmi (era il 1994 e m’era stato concesso di fare il “massimatore volontario”, da semplice uditore con funzioni); non avevo mai messo piede in quel Palazzo, e m’attendevo sguardi indagatori e supponenza.
Invece a rivolgermi quella domanda era stato un signore sulla settantina, molto giovanile, dal volto disteso, lo sguardo vivo d’una intelligenza penetrante, un sorriso benevolo, un’espressione che in ogni cenno emanava il senso d’una grande forza - per dirla col Manzoni - passata ma non trascorsa.
Gli erano bastati pochi secondi a capire e capirmi. Mi mise a mio agio, mi spiegò il da farsi, mi offrì il suo aiuto. Non tralasciò nessuna delle parole, né delle attenzioni, che fa piacere ascoltare per essere incoraggiati.
E non lo fece quella volta soltanto.
Quell’uomo colto, generoso e disponibile era Onofrio Fanelli, venuto a mancare lo scorso 17 ottobre.
Onofrio Fanelli è stato uno dei magistrati che più hanno reso onore alla toga che hanno indossato: per come hanno lavorato, per quanto hanno lavorato, per quanto hanno insegnato.
Era nato a Castellana Grotte il 27.9.1926, ed era entrato in magistratura a 27 anni, nel 1954, diciassettesimo del suo concorso.
Magistrato di Tribunale dal 1960, poi fuori ruolo al Ministero della Giustizia dal 1962 al 1968, quindi magistrato d’appello per concorso, ed applicato al Massimario dal 1970.
Qui proseguì tutta la sua carriera: consigliere di cassazione dal 1974; dichiarato idoneo alle funzioni direttive superiori dal 1979, Presidente di Sezione dal 1993. Le sue indiscutibili capacità di giurista gli valsero la nomina a direttore dell’Ufficio del Massimario e, contemporaneamente, del Centro Elettronico di Documentazione (CED) della Corte di cassazione: un onore - e una responsabilità - concesso a pochi prima di lui, e nessun altro dopo di lui.
Lasciò la magistratura nel 1998, per limiti di età, ma la pensione non significò affatto il riposo: per altri vent’anni continuò a dirigere il Repertorio del Foro Italiano, dopo averne completamente ristrutturato ed aggiornato, da solo, lo schema di classificazione.
Il giurista Onofrio Fanelli possedeva doti che chiunque avrebbe invidiato: che si parlasse di riscatto agrario o di concorso dell’extraneus nel reato proprio, lui era perfettamente in grado di dire la sua. Possedeva la capacità rara di guardare in alto - o meglio, dall’alto, il mondo del diritto. Era in grado di cogliere subito il cuore dei problemi; di inquadrarli nel contesto generale; di individuare la soluzione corretta.
Non amava i bizantinismi dei legulei, né i voli pindarici degli idealisti. Aveva i piedi nel diritto positivo, e la testa nei princìpi.
Ha dato il suo contributo in tutte le Sezioni della Corte di cassazione, ivi comprese le Sezioni Unite, ma fu soprattutto nella Sezione Lavoro che spese la sua attività di magistrato. Sarebbe qui impossibil cosa ricordare le centinaia di decisioni cui prese parte come presidente o relatore (l’archivio “Italgiure” della Corte di cassazione ne include 3.258), ma almeno due vanno menzionate.
Onofrio Fanelli fu, innanzitutto, l’estensore di in intero “set” di decisioni che, tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, vennero abbattendo parificando in via pretoria, a fronte di una legislazione ancora incerta, la posizione delle lavoratrici a quella dei lavoratori: è il caso della estensione dell’indennità di maternità alla lavoratrice in stato di gravidanza, che, all'inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, si trovi in aspettativa politica o sindacale non retribuita (Cass. civ., sez. un., 16.3.1993 n. 3092); oppure della estensione del diritto di congedo post partum anche alla lavoratrice che riceva un minore in affidamento preadottivo, durante i tre mesi successivi all'effettivo ingresso del minore medesimo nella sua famiglia (Cass. civ., sez. un., 114.1990 n. 3073).
Ma a me piace ricordare che fu Onofrio Fanelli, in una ormai dimenticata sentenza di quasi quarant’anni fa, ad introdurre nel nostro ordinamento la risarcibilità dl danno (patrimoniale) da perdita di chance, principio destinato a grandi fortune negli anni che seguirono (Cass. civ., sez. lav., 19.12.1985 n. 6506).
Le doti di giurista di Onofrio Fanelli non rifulsero solo in sede giudiziaria.
Lui, che il diritto lo conosceva come pochi, come pochi lo maneggiava e - indirettamente - lo insegnava. La sua produzione scientifica cominciò già negli anni Settanta del secolo scorso. Pubblicò saggi sulle più svariate riviste, principalmente dell’area lavoristica (Informazione previdenziale, Il diritto del lavoro, Il lavoro nella giurisprudenza, Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Rivista degli infortuni e delle malattie professionali, Legalità e giustizia, Rassegna giuridica dell’energia elettrica, Il foro italiano).
Diresse la collana “Pratica giuridica” dell’editore Giuffrè, che raccolse in 52 volumi alcuni i più vari temi di diritto e procedura tanto civile, quanto penale.
Ma ove più e meglio spese le sue doti di studio, inquadramento ed organizzazione fu nella direzione del Repertorio del Foro italiano, la prestigiosa pubblicazione che da un secolo mezzo seleziona e raccoglie ogni anno normativa, giurisprudenza e dottrina.
Onofrio Fanelli iniziò a collaborare al Repertorio all’inizio degli anni Settanta, fino a divenirne direttore.
Essere direttore del Repertorio non è esattamente presiedere una bocciofila. Il Repertorio impone la selezione di migliaia di massime, testi normativi, contributi dottrinari. Un lavoro da far tremare i polsi, e che Onofrio Fanelli supervisionava interamente, e da solo. E lo ha fatto per anni, ancora pochi mesi prima di andarsene. Così come, da solo, concepì l’intera architettura delle voci e sottovoci del “Repertorio”: un lavoro che nell’epoca dei tanti laureati all’università di Google potrà sembrar poco, ma che per i (pochi?) giuristi ancora in circolazione è l’opera d’un Linneo.
Si è detto che Onofrio Fanelli poteva guardare “dall’alto” il diritto, per la sua capacità di tenerne insieme tutti gli ambiti. Guardava dall’alto il diritto, ma non i giuristi.
Lui, che pure ne avrebbe avuto ben donde, non manifestava mai alcuna supponenza nei confronti delle centinaia di persone con cui aveva a che fare. Aveva un sorriso per tutti, e per tutti un accento di comprensione. Possedeva un acume mai sotteso da presunzione, ed una cultura mai scostante.
Se il giurista Onofrio Fanelli fu pari a pochi, lo fu anche l’uomo Onofrio Fanelli. Ringrazio Dio per avermi concesso l’onore della sua conoscenza, lo stupore della sua competenza, il beneficio dei suoi insegnamenti.
E se è vero che “a egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti”, quella di quest’Uomo non smetterà di ispirare chi vuole fare il mestiere di magistrato come va fatto: con zelo solerte ed operoso silenzio.
Il vaccino contro l’infezione mafiosa. Note in tema di interdittiva antimafia (nota a Consiglio di Stato, sez. I, parere 18 giugno 2021, n. 1060)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa - 2. Il criterio del “più probabile che non” e la valutazione del rischio di contagio - 3. La portata preventiva dell’interdittiva antimafia e gli elementi sintomatici - 4. Riflessioni Conclusive.
1. Premessa
Nel dibattuto contesto dei provvedimenti interdittivi è da segnalare, per la sua portata chiarificatrice, il recente parere del Consiglio di Stato n. 1060 del 18 giugno 2021 sollecitato dal Ministro dell’interno in virtù del ricorso straordinario pendente dinnanzi al Presidente della Repubblica [1].
La Prima sezione è stata chiamata a rendere parere, obbligatorio e vincolante, sul provvedimento interdittivo ex art 91 d.lgs. 159/2011 della Prefettura di Reggio Calabria e del contestuale diniego di iscrizione nella white list provinciale dell’impresa individuale ricorrente.
L’illegittimità dell’interdittiva de qua è fondata, secondo il ricorrente, sulla violazione degli art. 84 e 91 del d.lgs. 159/2011 nonché sull’eccesso di potere nella figura del difetto di motivazione, in quanto viene designato un quadro indiziario non idoneo a suffragare la pericolosità sociale del soggetto coinvolto e ancorata a fatti risalenti nel tempo non sufficienti ad evidenziare il legame tra gestione dell’attività imprenditoriale e il pericolo di infiltrazione mafiosa.
In particolare, sulla violazione di legge, il ricorrente lamenta l’omissione da parte dell’autorità prefettizia dell’individuazione di indizi utili a configurare la sussistenza della pericolosità sociale. Il Prefetto avrebbe preso in considerazione fatti datati e privi di alcun legame giuridicamente rilevante, misure di prevenzione annullate in appello, procedimenti penali conclusi con assoluzione con formula piena e da ultimo due controlli di polizia in cui il ricorrente veniva segnalato in compagnia di soggetti “infetti”. Sulla scorta di tali elementi, non appare evidente alla difesa l’asserita interferenza di tali fatti con il rischio di contagio rilevato con il provvedimento prefettizio gravato.
Nella nota, il Ministero dell’Interno, evidenziando tra le altre motivazioni che l’attività svolta dall’impresa ricorrente ha ad oggetto sociale “estrazione, fornitura e trasporto terra e materiali inerti, confezionamento, fornitura e traporto di calcestruzzo e di bitume” (e dunque, rientrante tra le attività individuate dall’art. 1 comma 53 l. 190/12 (segnalate come maggiormente esposte al rischio di contagio), concludeva per l’infondatezza del ricorso.
La Prima sezione del Consiglio di Stato, investita della funzione consultiva, sostiene, nel parere in commento, che il ricorso debba essere respinto per le motivazioni che seguono.
2. Il criterio del “più probabile che non” e la valutazione del rischio di contagio
Intanto occorre rilevare come giudici di Palazzo Spada abbiano inteso esaminare congiuntamente i motivi di gravame stante la loro correlazione.
Secondo la Prima sezione, il ricorrente ha operato una scissione tra i diversi fatti che sorreggono il provvedimento prefettizio mancando una visione d’insieme, attraverso la quale, senza alcun dubbio, appare evidente il superamento della soglia del criterio del “più probabile che non” [2].
Non rileva la collocazione temporale di tali fatti data la gravità e la pluralità delle condotte [3]. Dal contatto con soggetti “infetti” è possibile, unitamente ad altri fatti indizianti, rilevare il pericolo che l’attività imprenditoriale sia esercitata in un contesto relazionale complessivamente “sintomatico di un rischio di infiltrazione della criminalità organizzata” [4].
In più, nel provvedimento interdittivo è segnalato il contenuto di alcune dichiarazioni di collaboratori di giustizia, che ritraggono il soggetto titolare di tale attività come organo di una cosca mafiosa.
Giova rammentare che seppur nel giudizio penale dette dichiarazioni non possono essere acquisite se non mediante i cd riscontri esterni (art 192.197bis e 210 cpp), in sede amministrativa, esse possono rientrare nel quadro indiziario e contribuire al vaglio fondato sul principio del “più probabile che non”.
Per tutto quanto sopra, le censure poste alla base del ricorso non scalfiscono minimamente il grave quadro indiziario e il conseguente giudizio di permeabilità mafiosa manifestato dalla prefettura. Appare ictu oculi, mediante un giudizio complessivo dei fatti in commento che l’attività del ricorrente sia inserita “in un contesto di cointeressenze economico-imprenditoriali compromesso dall’infiltrazione della criminalità organizzata di tipo mafioso” [5].
È ormai acclarato che il criterio probabilistico rispetto “l’oltre ragionevole dubbio” sia caratterizzato non da un differente procedimento logico bensì dal minore livello dimostrativo dell’interferenza logica [6]. Difatti la valutazione del giudice penale attiene ad un profilo diverso ed ulteriore rispetto alla ricognizione fondata sul principio del “più probabile che non” su cui trova fondamento invece il provvedimento prefettizio.
Per cui la regola probabilistica presuppone un giudizio a carattere empirico-induttivo che può essere fondato su fenomeni sociali (quale quello mafioso) svincolando l’attività prefettizia dalla soglia di rilevanza penale fondata sulla certezza probatoria. La previsione di un così ampio potere discrezionale trova ragione nella finalità anticipatoria del provvedimento interdittivo ovvero il prevenire il rischio di infiltrazione e non il punire la condotta penalmente rilevante.
La disciplina della prevenzione amministrativa, dunque, riveste il ruolo di frontiera avanzata [7] giacché rappresenta la più immediata barriera posta dall’ordinamento al fine di allontanare la mafia, insediata in società, dalla res pubblica.
La discrezionalità prefettizia funge così da “vaccino” a tutela del buon andamento della cosa pubblica dalla minaccia dell’infezione mafiosa che, come un virus, potrebbe compromettere l’attività polmonare di un intero Paese.
3. La portata preventiva dell’interdittiva antimafia e gli elementi sintomatici
È da segnalare la portata preventiva della legislazione antimafia, tesa ad anticipare ed evitare l’infiltrazione nel tessuto pubblico attraverso società private recidendo ogni possibile contatto con le stesse [8]. L’obiettivo è il mantenimento di un’economia pubblica e privata sana, lontana da logiche infette e da comportamenti invalidanti.
Pertanto, all’autorità prefettizia è riservata la funzione di prevenire pratiche e comportamenti che in modo diretto o indiretto possano ledere l’integrità dell’attività pubblica. L’amministrazione è chiamata a svolgere un monitoraggio perpetuo, teso ad approfondire le cangianti manifestazioni di comportamenti illeciti attraverso una attenta valutazione dei sintomi. Al contempo è richiesto all’amministrazione un intervento immediato per scongiurare ogni forma di infezione [9].
Sul punto ormai consolidata giurisprudenza sostiene la portata “cautelare e preventiva” [10] dell’interdittiva antimafia realizzata attraverso un giudizio prognostico circa le possibili declinazioni della mafia nella trama pubblica. Dunque, l’interdittiva antimafia si pone come momento anticipatorio rispetto a un possibile contagio teso a scongiurare qualsivoglia contatto tra amministrazione e impresa infetta [11].
In sede di massima anticipazione della soglia di prevenzione, l’amministrazione è chiamata a valutare il quadro degli elementi in modo complessivo e onnicomprensivo, fondando il provvedimento su ragioni sostanziali giustificatrici della misura [12]. Le motivazioni del provvedimento possono trovare ragione in diversi elementi indiziari che non costituiscono un numerus clausus e non sono rintracciabili esclusivamente in atti giudiziari o di indagine e accertamenti di Polizia, bensì rilevano elementi disparati come i legami di parentela, amicizia o rapporti di qualunque genere che per incidenza e durata possano far presuppore un rischio di permeabilità.
L’infiltrazione mafiosa, come noto, può esplicarsi anche attraverso tentativi di condizionamento delle scelte e degli obiettivi delle imprese. Il rischio non deve necessariamente essere attuale o inveratosi, all'opposto necessario è che da elementi sussistenti sia possibile prevedere un determinato evento [13].
Orbene, la discrezionalità riservata al Prefetto nella valutazione del quadro indiziario pare necessaria per un intervento immediato ed effettivamente preventivo. Il vaglio prefettizio non deve avere carattere atomistico e dunque valutativo di singoli elementi bensì inteso come giudizio unitario secondo il canone interferenziale al fine di valutare il grado di permeabilità dell’impresa a possibili tentativi di infiltrazione [14].
Giova precisare che la prevenzione dell’infiltrazione non può sostanziarsi in un mero sospetto del Prefetto o in una vaga intuizione dell’autorità giudiziaria [15] ma deve trovare ragione in diversi elementi fattuali sintomatici di condotte infette per scongiurare la deriva del “diritto della paura”. Si deve evitare che il provvedimento prefettizio diventi una pena del sospetto e medio tempore che la discrezionalità necessaria in tale sede per un’azione efficiente sconfini di fatto nel puro arbitrio [16].
Al fine di delimitare la discrezionalità amministrativa, il legislatore e la giurisprudenza [17] hanno tipizzato i comportamenti che possono far desumere il tentativo di infiltrazione. Nonostante tale sforzo, però, è rimessa all’autorità amministrativa l’emissione del provvedimento anche facendo ricorso a una clausola generale, che non va intesa quale norma in bianco né un’autorizzazione all’arbitrio del prefetto, imprevedibile per il cittadino e insindacabile per il giudice [18]. Sovente trattasi di condotte atipiche che connotano l’agere mafioso, e pertanto, nella propria discrezionalità, l’amministrazione deve arrestarsi solo nel caso di fatti inesistenti o obiettivamente non sintomatici.
D’altro canto, negare tale possibilità al prefetto comprometterebbe la natura stessa della misura di prevenzione in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale. E dunque i provvedimenti interdittivi per essere effettivamente efficaci impongono di “tenere il passo con il mutare delle circostanze secondo una nozione di legittimità sostanziale” [19].
4. Brevi riflessioni conclusive
A valle delle considerazioni esposte pare necessario soffermarsi sulle conseguenze del provvedimento prefettizio. Il soggetto raggiunto da interdittiva antimafia diviene incapace ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive che determinano rapporti con la pubblica amministrazione [20]. Si tratta di una incapacità parziale in quanto limitata ai soli rapporti con la p.a. e temporanea potendo venire meno attraverso un successivo provvedimento dell’amministrazione competente.
Il G.A. è chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario attraverso il vaglio posto dal prefetto avendo un pieno accesso ai fatti rilevatori del pericolo e dovendo apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi interferenziale che l’autorità amministrativa trae da tali fatti secondo il criterio probabilistico [21].
È fuor di dubbio la rilevanza e l’importanza delle misure di prevenzione nel minimizzare il rischio di infezione. Il provvedimento interdittivo funge in tale ottica da vaccino per le influenze mafiose nel tessuto pubblico. Come abbiamo avuto modo di verificare, in diverse occasioni, ogni vaccino ha delle controindicazioni. In questo caso, gli eventi avversi sono rappresentati da ingiuste limitazioni di diritti garantiti a livello costituzionale. Pertanto, è necessario valutare attentamente il quadro “clinico” (eventualmente patologico) prima di emettere l’interdittiva, verificando l’effettiva opportunità del provvedimento stesso, scongiurando, ad ogni costo e ad ogni livello, la deriva del libero arbitrio.
[1] Cfr. SALAMONE, La documentazione antimafia nella normativa e nella giurisprudenza, Napoli, 2019
[2] Si consiglia A. LONGO, La “massima anticipazione di tutela”. Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, in www.federalismi.it., n. 19/2019
[3] Cfr. F. G. SCOCA, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in www.giustamm.it., n. 6/2018,
[4] Consiglio di Stato, sez. I Parere n. 1060 del 18 giugno 2021
[5] ibidem.
[6] Consiglio di Stato, sez., III, 26 settembre 2017, n. 4483
[7] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informazione antimafia come “frontiera avanzata” (nota a sentenza Consiglio di Stato Sez. III n. 3641 dell’08.06.2020), in Questa rivista, 2019
[8] Cfr. P. PIRRUCCIO, L’informativa antimafia prescinde dall’accertamento di fatti penalmente rilevanti, in Giur. mer., n. 2/2009, pp. 503 e ss
[9] In questo senso Corte Cost. sentenza del 26 marzo 2020 n. 57
[10] Cfr. Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3
[11] V. ex multis Consiglio di Stato, sez. I pareri 1 febbraio 2019 n. 337 e 21 settembre 2018 n. 2241
[12] Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 27 aprile 2021, n. 3379
[13] V. Consiglio di Stato, sent. N. 8883, 2019
[14] Cfr. ex multis Consiglio di Stato, sent. N. 1049 del 2021; Cons. St., sez. III, sent. N. 759/2019
[15] V. Consiglio di Stato, sez. III, 5 settembre 2019
[16] Cfr. Consiglio di Stato, sez.III, 5 settembre 2019, n. 6105
[17] V. Consiglio di Stato, 3 maggio 2016, n. 1743
[18] Consiglio di Stato, sez. I Parere n. 1060 del 18 giugno 2021; Cfr. M. NOCCELLI, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale, inwww.giustizia-amministrativa.it, 2020
[19] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo De Tommaso c. Italia; v. G. AMARELLI, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia “generica” ex art. 84, co. 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011?, in www.dirittopenalecontemporaneo.it., n. 4/2017
[20] Cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sentenza 26 ottobre 2020, n. 23
[21] V. C. COMMANDATORE, Interdittiva antimafia e incapacità giuridica speciale: un difficile equilibrio, in Resp. civ. prev., n. 3/2019, pp. 917
La riforma Bonafede - Cartabia (prescrizione / improcedibilità) non può operare retroattivamente.
di Giorgio Spangher
Sommario: 1. Una riforma con non poche criticità - 2. Prescrizione e improcedibilità: meccanismi integrati - 3. Servono chiarimenti giurisprudenziali solleciti.
1.Una riforma con non poche criticità.
Con la pubblicazione in Gazzetta, la riforma Cartabia è diventata legge (n. 134 del 2021) e dal 19 ottobre sarà applicabile da subito, almeno per le previsioni di cui all’art. 2, mentre per quelle di cui all’art. 1 si procederà, anche da subito, ma con l’effetto della delega.
Sono numerose le questioni che si prospettano soprattutto con riferimento al novellato art. 344 bis c.p.p., dove trova disciplina la inedita sentenza di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione.
Per un verso, si tratta di questioni di costituzionalità della nuova previsione, per un altro, di profili procedurali ed operativi, stante la lacunosità delle indicazioni della riforma.
Sotto il primo profilo, si possono segnalare la stessa costituzionalità d’una decisione capace di determinare effetti pregiudizievoli sulla effettività della giurisdizione; la ragionevolezza delle fasce di termini di operatività dell’improcedibilità e dei vari reati che vi sono accorpati; il potere dello stesso giudice di prorogare o meno i termini e le loro ragioni in relazione alla mancata loro tassatività e specificità.
Sotto il secondo aspetto vanno segnalate, fra le altre, l’incerta operatività per l’appello della sentenza di non luogo e dell’appello della parte civile per gli interessi civili; l’operatività per gli appelli delle decisioni del giudice onorario; la mancata indicazione degli effetti delle proroghe sulle misure cautelari; l’operatività o meno del ne bis in idem; la mancata individuazione del termine in caso di conversione in appello nonché in caso di annullamento con rinvio solo per la determinazione della pena; mancato termine complessivo in caso di annullamento con rinvio in appello; l’incertezza sull’operatività per i rimedi straordinari ed in caso di annullamento di una declaratoria di inammissibilità; le implicazioni sulla responsabilità degli enti.
2.Prescrizione e improcedibilità: meccanismi integrati.
In questo ampio contesto una questione si può prospettare da subito, ed è quella relativa alla retroattività della nuova disposizione che per previsione normativa opererebbe solo per i procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020.
La data indicata si riferisce all’entrata in vigore della l. n. 3 del 2019 relativamente alla sospensione del decorso della prescrizione con la pronuncia della sentenza (di assoluzione o di condanna) di primo grado.
Per quanto concerne la possibilità di applicare la nuova decisione anche ai procedimenti per reati compiuti in precedenza (per i quali peraltro opera la disciplina prevista dalla riforma Orlando, cioè la l. n. 103 del 2017) al riguardo si confrontano opinioni diverse tutte ancorate alla natura sostanziale o processuale o processuale con effetti sostanziali della nuova definizione del processo. Va sottolineato che in entrambi casi si tratta di norme a effetti differiti.
La nuova formulazione di cui alla l. n. 134 del 2021 sembra suggerire un altro approccio per la soluzione della questione.
Invero, al di là della nuova formulazione dell’art. 161 bis c.p. che parla di cessazione e non più di sospensione del decorso della prescrizione (già di per sé concettualmente errata) con la riforma cambia completamente il “paradigma” della materia.
La prescrizione non potrà più (a differenza della riforma Orlando che in qualche modo lo consentiva) essere dichiarata in fase di impugnazione (appello o ricorso) nel corso della quale potrà essere dichiarata l’improcedibilità, prima non prevista che tuttavia non potrà trovare applicazione nel giudizio di primo grado. Sono note le argomentazioni relative alla irrazionalità dei due orologi, ma queste sono le scelte legislative.
Con riferimento ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, verrà meno la previsione dell’art. 129 c.p.p., che non prevede più la possibilità di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione in ogni stato e grado, ma solo eventualmente in primo grado.
Parimenti, ricondotta nella nozione di improcedibilità, neppure la nuova decisione sarà suscettibile di applicazione generalizzata, trovando applicazione solo nella fase delle impugnazioni.
Invero, sempre in relazione all’estinzione per prescrizione non trova più operatività (per i reati dopo il 1° gennaio 2020) neppure l’art. 578 c.p.p. che infatti vede l’inserimento del nuovo art. 578, comma 1 bis, c.p.p. (in attesa di un più ampio riordino della materia).
Naturalmente, l’estinzione per prescrizione maturata effettivamente in primo grado e non dichiarata potrebbe essere riconosciuta nelle fasi di gravame; l’improcedibilità non dichiarata nel corso del giudizio d’appello potrebbe essere riconosciuta in cassazione.
Appare cioè difficile che la nuova procedura, quindi, possa sostituire l’altra e parimenti appare problematico che possano operare in parallelo.
In realtà, il profondo mutamento strutturale dei sistemi Orlando e Bonfade - Cartabia induce a escludere la retroattività di quest’ultimo.
Sotto un diverso profilo, rimettendo, tuttavia, la questione alla Corte costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., andrebbe valutata la questione della durata dell’appello proposto dopo l’entrata in vigore della legge per un reato commesso antecedente al 1° gennaio 2020.
La questione si prospetta complessa in considerazione del fatto che come più volte specificato, per questi reati opera la disciplina della l. n. 103 del 2017 ma non può negarsi che – salvo particolari situazioni del caso concreto – la nuova disciplina appare favorevole e non può escludersi una irragionevolezza nel caso di due appelli presentati (per lo stesso reato commesso in tempi diversi) lo stesso giorno.
3. Servono chiarimenti giurisprudenziali solleciti.
Era facilmente prevedibile che l’inserimento nel processo penale della “prescrizione processuale” potesse determinare non pochi problemi di sistema ed applicativi, se non azioni di “rigetto”.
Forse non si era percepita la complessità del problema, nella strettoia dei tempi nei quali il “compromesso” doveva essere individuato.
Siamo in cammino, su un cammino che si prospetta complesso e problematico.
E’ necessario per questo che la giurisprudenza – supportata dalla migliore dottrina – faccia al più presto, pur nella inevitabile prospettazione di posizioni diverse – anche in relazione alla casistica che si evidenzia – chiarezza.
Corte di giustizia e obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza: nihil sub sole novum
di Fabio Ferraro*
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’obbligo di rinvio pregiudiziale e la controversa giurisprudenza Cilfit. – 3. La proposta di revirement dell’avvocato generale Bobek. - 4. La sentenza della Corte di giustizia e la conferma dei criteri Cilfit. - 5. Il rinvio pregiudiziale come meccanismo di tutela del sistema oppure come strumento di tutela dei diritti dei singoli? – 6. Gli ulteriori chiarimenti forniti dalla Corte di giustizia. - 7. Considerazioni conclusive sulle prospettive future dell’obbligo di rinvio.
1. Premessa.
Nell’ambito del rinvio pregiudiziale assume una rilevanza centrale la sua obbligatorietà per i giudici di ultima istanza, che non è frutto di una autonoma scelta della Corte di giustizia, ma trova il suo fondamento direttamente nell’art. 267, terzo comma, TFUE. Tale obbligatorietà costituisce, per le sue finalità e per le sue implicazioni, uno degli elementi principali e più qualificanti del rinvio pregiudiziale, al punto che è stato eloquentemente definito come un principio strutturale dell’ordinamento giuridico dell’Unione[1]. Il dovere di cui si discute, infatti, è finalizzato ad assicurare l’uniforme interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione negli Stati membri, consentendo così alla Corte di giustizia di esercitare la sua funzione essenzialmente nomofilattica e unificatrice sulla scorta dell’art. 19, par. 1, TUE[2].
In tale contesto si inscrivono le recenti conclusioni rese dall’avvocato generale Bobek nella causa Consorzio Italian Management[3], che hanno ravvivato il dibattito sull’esigenza, più volte sollevata in dottrina e in talune conclusioni degli avvocati generali[4], di rivedere il contenuto dell’obbligo del rinvio pregiudiziale.
È il caso di ricordare che nell’ordinamento italiano tale questione si intreccia con l’ulteriore richiesta rivolta alla Corte di giustizia di fare piena luce sui profili patologici e sulle implicazioni che potrebbero scaturire dalla violazione dell’obbligo di utilizzare questo strumento di cooperazione, poiché è stata ipotizzata una interpretazione evolutiva del ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione al fine di impugnare una sentenza con la quale il Consiglio di Stato ometta di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte, in assenza delle condizioni che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo. Il rigetto da parte della Corte costituzionale di questo orientamento[5] ha spinto la Corte di Cassazione a investire la Corte di giustizia della problematica dell’applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con il diritto dell’Unione[6].
Successivamente all’ordinanza della Corte di Cassazione, lo stesso Consiglio di Stato ha sollevato un nuovo rinvio pregiudiziale e formulato tre quesiti, di cui uno incentrato sull’istituto della revocazione[7]. L’organo giurisdizionale amministrativo di ultima istanza ha chiesto, tra l’altro, alla Corte di giustizia se sia compatibile con il diritto dell’Unione l’impossibilità di esperire questo rimedio straordinario per impugnare sentenze del Consiglio di Stato in contrasto con i principi affermati nelle sentenze pregiudiziali[8]. Questa iniziativa del Consiglio di Stato sembra avere un impatto meno traumatico nell’ordinamento interno rispetto alla soluzione ipotizzata nell’ordinanza di rinvio della Corte di cassazione[9], anche se l’ipotesi della revocazione era stata più volte prospettata, ma esclusa dalla Corte costituzionale in assenza di un intervento legislativo[10]. La Corte di giustizia non si è ancora espressa sull’eventuale possibilità di utilizzare un rimedio del sistema processuale nazionale (ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione dinanzi alla Corte di Cassazione o revocazione dinanzi al Consiglio di Stato), per evitare il passaggio in giudicato di una sentenza del Consiglio di Stato non conforme al diritto dell’Unione, fermo restando, in ogni caso, la facoltà di richiedere alla Commissione europea l’avvio di una procedura di infrazione[11], di far valere la responsabilità risarcitoria dello Stato o di proporre un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo[12].
Tutto ciò rappresenta una dimostrazione eloquente della seconda giovinezza[13], se non dell’eterna vivacità, di questo meccanismo di dialogo tra giurisdizioni[14], che si manifesta non solo in termini numerici, ma anche sotto il profilo qualitativo, visto il suo fascino e il suo carattere evolutivo.
Tuttavia, è necessario dissipare alcuni dubbi sui confini dell’obbligo del giudice nazionale per evitare che il rinvio pregiudiziale, concepito per garantire la certezza e l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione, divenga esso stesso fonte di incertezze e di applicazioni differenziate da parte degli organi giurisdizionali nazionali[15]. La preoccupazione di un ridimensionamento del rinvio pregiudiziale è reale, in quanto la richiesta di modificare la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia sulla portata dell’obbligo di rinvio rischia di snaturare la chiave di volta del sistema giurisdizionale concepito dai Trattati dell’Unione. Non sembra in discussione soltanto lo strumento pregiudiziale, bensì l’equilibrio complessivo del sistema giurisdizionale e, più in generale, del diritto dell’Unione. Tale preoccupazione è stata avvertita dalla Corte di giustizia che, anziché seguire la tesi dell’avvocato generale, ha confermato la piena validità dei noti criteri Cilfit[16], con l’aggiunta di qualche ulteriore chiarimento su alcuni nodi problematici, ma senza introdurre elementi di novità[17].
A tralasciare il merito della controversia, che non rileva in questa sede, con il presente contributo intendiamo richiamare “lo stato dell’arte” dell’obbligo di rinvio e confrontare le conclusioni dell’avvocato generale Bobek con la parte motiva della sentenza della Corte di giustizia, formulando, al tempo stesso, delle considerazioni critiche, pur condividendo il mantenimento dell’attuale configurazione di questo vincolo che grava sul giudice di ultima istanza.
2. L’obbligo di rinvio pregiudiziale e la controversa giurisprudenza Cilfit.
In via preliminare, occorre chiarire che le conclusioni dell’avvocato generale Bobek si incentrano sul rinvio d’interpretazione, che non solo ha superato di gran lunga, da un punto di vista quantitativo, il rinvio di validità, ma ha assunto un carattere preminente anche rispetto ai rimedi giurisdizionali diretti, nella definizione dei principi qualificanti e, in un certo senso, “costituzionali”, che hanno influito sullo stesso modo di essere dell’ordinamento dell’Unione e ne hanno caratterizzato l’originalità rispetto ad altre organizzazioni internazionali[18]. È ben noto che per mezzo del rinvio pregiudiziale d’interpretazione, non solo dei giudici di ultima istanza ma anche di quelli che vengono definiti giudici di provincia, sono stati elaborati dalla Corte di giustizia i noti principi del primato del diritto dell’Unione, dell’efficacia diretta di alcune delle sue disposizioni, della responsabilità risarcitoria degli Stati membri per la violazione delle norme dell’Unione, dell’effettività e dell’equivalenza.
Ad ogni modo, la scelta di circoscrivere il campo dell’analisi deriva non solo dalla formulazione materiale dei quesiti, bensì anche dal fatto che la giurisprudenza Cilfit, di cui si chiede la revisione, si applica soltanto al rinvio pregiudiziale d’interpretazione. La dicotomia facoltà/obbligo assume una diversa fisionomia nel rinvio di validità, visto che è imposto pure al giudice non di ultima istanza di rivolgersi alla Corte di giustizia nell’ipotesi in cui dubiti della legittimità di un atto dell’Unione, spettando esclusivamente alla Corte europea dichiararne l’invalidità.
Tanto premesso, è utile ricordare che l’obbligo di rinvio di cui all’art. 267, terzo comma, TFUE si riferisce al giudice di ultima istanza, che riveste una posizione di vertice negli ordinamenti giuridici nazionali e le cui pronunce non possono essere oggetto di un ricorso giurisdizionale[19]. La ratio di questa diretta correlazione tra obbligo e giudici di ultima istanza è evidentemente quella di evitare che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale contrastante con il diritto dell’Unione.
Le scarne indicazioni di diritto positivo sul rinvio pregiudiziale hanno richiesto un’intensa attività interpretativa da parte della Corte di giustizia, che ha cercato di contemperare due opposte esigenze: da un lato, consentire ai giudici degli Stati membri di utilizzare questo strumento in modo flessibile e, dall’altro lato, evitare una eccessiva discrezionalità da parte di questi organi nazionali.
Per quanto concerne la prima esigenza, la Corte di giustizia ha valorizzato il suo rapporto di cooperazione, anziché di sovraordinazione, con il giudice nazionale, manifestando, per così dire, una certa indulgenza rispetto alla lettera e allo spirito dell’art. 267, comma 3, TFUE[20]. In tal senso, si è affermato che esso non è assoluto, poiché può venire meno in presenza di determinate condizioni, individuate in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di orientamenti divergenti nella giurisprudenza all’interno dell’Unione[21]. Al riguardo la nota sentenza Cilfit[22], confermata in modo inequivocabile dalla successiva giurisprudenza[23], ha attribuito un ruolo particolarmente attivo al giudice nazionale laddove ha affermato che esso può decidere di astenersi dal sottoporre alla Corte un rinvio pregiudiziale ex art. 267, comma 3, TFUE in tre ipotesi: 1) se la questione non sia pertinente[24]; 2) se la questione sia stata già oggetto di interpretazione della Corte[25]; e 3) se la corretta applicazione del diritto comunitario (oggi dell’Unione) si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi[26].
La vivace e colorita critica dell’avvocato generale è rivolta principalmente a quest’ultima ipotesi, che è stata elaborata dalla Corte trasponendo nel sistema dell’Unione la dottrina c.d. dell’acte clair[27]. Siffatta dottrina è stata utilizzata con il duplice obiettivo di liberare dall’obbligo di rimessione il giudice posto in posizione apicale nell’ambito del sistema giurisdizionale nazionale e di chiamare quest’ultimo a svolgere una funzione di filtro per prevenire un incremento eccessivo del suo carico di lavoro ed un utilizzo distorto del rinvio pregiudiziale[28].
Nella direzione opposta alla concessione di questa flessibilità nel valutare l’obbligo di rinvio si colloca l’esigenza di definire alcuni criteri in relazione all’esistenza di un ragionevole dubbio, in modo da non lasciare ai giudici nazionali un margine eccessivo di discrezionalità[29]. Nondimeno, i caveat individuati dalla Corte del Lussemburgo si sono rivelati insoddisfacenti, poiché troppo labili e non in grado di fornire una guida sicura agli organi giurisdizionali. In particolare, l’oggettiva incertezza in cui si trovano i giudici nazionali è dettata dal fatto che ad essi è richiesto di non ricorrere al rinvio pregiudiziale solo dopo avere maturato il convincimento che l’assenza di dubbio in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione si imporrebbe con la stessa evidenza ai suoi omologhi di altri Stati membri e alla Corte di giustizia[30]. Le perplessità discendono non solo da questa probatio diabolica, bensì anche dagli altri limiti imposti alla discrezionalità del giudice nazionale, i quali consistono nel tener conto i) che vi sono differenti versioni linguistiche, che fanno fede nella stessa misura, e che risulta necessario il loro raffronto, ii) che le nozioni giuridiche non presentano necessariamente lo stesso contenuto nel diritto comunitario e nei vari diritti nazionali; iii) che ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata nel proprio contesto e interpretata alla luce dell’insieme delle disposizioni del suddetto diritto, delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi.
Per definire il perimetro dell’obbligo di rinvio possono risultare utili due ulteriori notazioni di segno diverso sui poteri del giudice di ultima istanza. Per un verso, non può essere tralasciato che la cancelleria della Corte può portare a conoscenza del giudice nazionale le pronunce che già risolvono i dubbi sollevati e comunicargli la possibilità di ritirare le questioni pregiudiziali sollevate, sicché in tal caso l’organo giurisdizionale, ivi compreso quello di ultima istanza, ha la facoltà di far cancellare la causa dal ruolo[31]. Per altro verso, è stato sostenuto che nell’ipotesi in cui non disponga di alcuna discrezionalità in ordine al rinvio pregiudiziale sulla base dei suddetti criteri e sia quindi certamente obbligato ad effettuarlo, la posizione del giudice di ultima istanza non sembra tanto dissimile da quella degli organi legislativi e amministrativi di uno Stato membro che non sono chiamati ad effettuare scelte normative, in quanto si trovano di fronte ad una competenza vincolata[32].
3. La proposta di revirement dell’avvocato generale Bobek.
Le conclusioni rese dall’avvocato generale nella causa Consorzio Italian Management hanno ricostruito in modo ampio la giurisprudenza dei giudici dell’Unione e fatto ricorso perfino a colorite metafore per sostenere un cambiamento dell’orientamento della Corte in merito all’obbligo di rinvio, suscitando grande interesse e meritando attenzione, anche in considerazione del fatto che sono condivise da una parte della dottrina e dei giudici nazionali, sia pure con diverse sfumature[33].
Come accennato, a giudizio dell’avvocato generale l’elemento più discutibile della giurisprudenza Cilfit deriverebbe dalla trasposizione della dottrina francese sull’acte clair in un contesto assai diverso come quello comunitario[34]. In proposito è stato eloquentemente rilevato che “l’aver ancorato l’uso di tale filtro a condizioni molto rigorose, apparentemente persino diaboliche, non può tuttavia eliminare il rischio di veder trasformati molti atti dell’Unione, notoriamente oscuri, in atti chiari; e molte norme chiare, interpretate in modo... oscuro”[35].
Se è corretta quindi la ricostruzione dell’avvocato generale in merito alla difficoltà dei giudici nazionali nel seguire alcuni criteri Cilfit, in quanto non agevolmente applicabili, ciò che non appare affatto convincente è la soluzione ipotizzata nelle sue conclusioni. Invero, si propone un revirement dei principi ormai sedimentati nella giurisprudenza della Corte, che consiste nel passaggio dalla mancanza di ogni ragionevole dubbio quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione nel singolo caso di specie, dimostrato dall’esistenza di un dubbio giurisdizionale soggettivo, ad un imperativo più oggettivo di garanzia di un’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione in tutta l’Unione europea.
Più nello specifico, questo orientamento propone di circoscrivere l’obbligo dei giudici nazionali di ultima istanza di effettuare un rinvio pregiudiziale vertente sull’interpretazione del diritto dell’Unione, qualora siano soddisfatte tre condizioni cumulative: (1) la causa solleva una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione; (2) il diritto dell’Unione può essere ragionevolmente interpretato in più modi possibili; (3) l’interpretazione del diritto dell’Unione non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte né da una singola sentenza della Corte, formulata in modo sufficientemente chiaro[36].
Secondo l’impostazione dell’avvocato generale, che è preordinata, nella sostanza, a far assumere al rinvio pregiudiziale un carattere teorico-astratto, la mancanza di una sola di tali condizioni dovrebbe esimere i giudici nazionali di ultima istanza dall’obbligo di coinvolgere la Corte sul piano interpretativo. Infatti, qualora decidessero di non proporre alcuna domanda di pronuncia pregiudiziale, i giudici nazionali di ultima istanza dovrebbero spiegare adeguatamente quale delle nuove condizioni sul piano interpretativo non sia stata soddisfatta. Viceversa, nelle ipotesi in cui scegliessero di procedere a un rinvio pregiudiziale nonostante l’esistenza di una giurisprudenza pertinente, i giudici nazionali sarebbero tenuti ad indicare espressamente le ragioni del proprio disaccordo e, preferibilmente, a spiegare quale dovrebbe essere, a loro avviso, l’approccio corretto.
L’avvocato generale perviene a queste conclusioni ritenendo che la logica delle eccezioni della sentenza Cilfit non corrisponda a quella della sentenza Hoffmann-Laroche[37], giacché la prima pronuncia sarebbe incentrata sulla singola controversia e sulle perplessità giudiziarie soggettive, mentre la seconda pronuncia si concentrerebbe in modo oggettivo sulla giurisprudenza in generale piuttosto che sul caso concreto dinanzi al giudice del rinvio. L’obbligo di rinvio dovrebbe quindi tornare alla impostazione originaria della giurisprudenza Hoffmann-Laroche in modo da consentire alla Corte di giustizia di soffermarsi sulle questioni ermeneutiche importanti e su quelle che possano dare luogo a interpretazioni divergenti all’interno degli Stati membri, anziché su quelle riguardanti l’applicazione del diritto dell’Unione.
Vero è che quello che veniva definito, polemicamente o provocatoriamente, a seconda dei punti di vista, “l’uso alternativo” dell’art. 234 del Trattato CE (oggi art. 267 del Trattato FUE) sia diventato l’utilizzo comune del rinvio pregiudiziale d’interpretazione[38]. È ben noto, al riguardo, che attraverso quest’ultimo rimedio vengono di solito messe in discussione norme o prassi interne di uno Stato membro non conformi al diritto dell’Unione. La terminologia utilizzata dalla Corte (il diritto dell’Unione “osta o non osta”) dimostra che il rinvio pregiudiziale consente, sia pure indirettamente, un giudizio sulla conformità di norme nazionali al diritto dell’Unione. Sennonché, la richiesta dell’avvocato generale di precludere alla Corte di giustizia tale giudizio della controversia può essere vista, anche sotto questo profilo, come un’espressione della volontà di un “ritorno al passato”, sia pure giustificata dall’esigenza di arginare l’aumento considerevole del numero dei rinvii pregiudiziali derivante dall’ampiezza dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.
4. La sentenza della Corte di giustizia e la conferma dei criteri Cilfit.
La sentenza della Corte di giustizia è stata pronunciata lo stesso giorno del leading case Cilfit, il 6 ottobre, anche se non è dato sapere se sia una mera coincidenza o una scelta voluta. Il giudice dell’Unione non ha accolto la tesi dell’avvocato generale, in particolare nell’ampia risposta al primo quesito pregiudiziale ha, di fatto, rigettato integralmente la proposta di stravolgere i criteri Cilfit. È utile ricordare che tale quesito riguarda la possibilità del giudice nazionale di ultima istanza di astenersi dall’obbligo di rinvio quando la questione di interpretazione del diritto dell’Unione “gli è sottoposta da una parte in una fase avanzata dello svolgimento del procedimento, dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione o quando è già stata effettuato un primo rinvio pregiudiziale in tale causa”[39].
Ebbene, dopo aver evidenziato le funzioni attribuite ai giudici nazionali e alla Corte di giustizia nonché le finalità di questo strumento di cooperazione “de juge à juge”[40], la trama argomentativa della sentenza si è sviluppata attorno alle ipotesi in cui il giudice nazionale può essere esonerato dall’obbligo di rinvio, ponendo poi l’accento su alcuni rilevanti profili dello strumento pregiudiziale che costituiscono il cuore della questione di cui si discute, in quanto consentono di definire la portata e il contenuto del dovere del giudice di ultima istanza.
Entrando in medias res, in primo luogo la Corte del Lussemburgo ha rammentato che tanto i giudici di ultima istanza quanto quelli non di ultima istanza dispongono dello stesso potere di valutazione nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentire loro di decidere la controversia. Sicché, non vi è alcuna esigenza per gli organi giurisdizionali in generale di rivolgersi alla Corte se la questione di interpretazione del diritto dell’Unione non sia rilevante o se non possa in alcun modo influenzare l’esito della controversia[41].
In secondo luogo, la sentenza ha sottolineato che l’autorità dell’interpretazione data dalla Corte può far cadere la causa dell’obbligo previsto dall’articolo 267, terzo comma, TFUE, e renderlo senza contenuto. Segnatamente, ciò si verificherebbe “qualora la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale o, a maggior ragione, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, o qualora una giurisprudenza consolidata della Corte risolva il punto di diritto di cui trattasi, quale che sia la natura dei procedimenti che hanno dato luogo a tale giurisprudenza, anche in mancanza di una stretta identità delle questioni controverse”[42]. Rimane ferma la possibilità di sollevare un nuovo rinvio in presenza di una giurisprudenza risolutiva su un punto di diritto, visto che l’autorità della sentenza pregiudiziale non inficia i poteri del giudice nazionale quando esso si trovi di fronte a difficoltà di comprensione della portata della pronuncia della Corte o nelle ipotesi in cui richieda di rivedere la giurisprudenza consolidata.
In terzo luogo, la Corte del Kirchberg si sofferma sui suddetti criteri che consentono al giudice nazionale di ritenere che l’interpretazione corretta del diritto dell’Unione s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi[43].
Innanzitutto, la Corte di giustizia si limita a ribadire che il giudice nazionale di ultima istanza deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe altresì ai giudici di ultima istanza degli altri Stati membri e alla Corte senza specificare accuratamente le ragioni che possono sostanziare un simile convincimento. Si può ritenere, al riguardo, che la Corte abbia perso un’occasione per fornire i chiarimenti necessari su questa discutibile e complessa valutazione che difficilmente ritroviamo nelle sentenze nazionali, poiché generalmente i giudici interni non sono nelle condizioni di realizzarla, ancorché decidano di non procedere al rinvio[44]. In particolare, rimane dubbia l’effettiva capacità dei giudici nazionali di conoscere l’orientamento non tanto della Corte di giustizia quanto dei giudici di altri Stati membri. Del resto, questo criterio è diventato una clausola di stile se si considera, per un verso, che la sua violazione appare priva di conseguenze e, per altro verso, che di norma la stessa Corte non si sofferma sul possibile convincimento dei giudici degli altri Stati membri.
Invece, sono apprezzabili i chiarimenti forniti dalla Corte sulle difficoltà che possono sorgere dall’esistenza di divergenze linguistiche, visto che le varie versioni linguistiche fanno fede nella stessa misura e che le disposizioni di diritto dell’Unione devono essere interpretate ed applicate in modo uniforme[45]. La Corte non richiede al giudice di ultima istanza di procedere ad un esame comparativo delle versioni linguistiche, bensì di tener conto delle divergenze tra le versioni linguistiche di cui è a conoscenza, in particolare quando tali divergenze sono richiamate dalle parti e comprovate.
La Corte ribadisce poi che il diritto dell’Unione impiega una terminologia che gli è propria e nozioni autonome che non necessariamente coincidono con quelle equivalenti esistenti nei diritti nazionali. Si noti, infatti, che le sentenze pregiudiziali hanno definito rilevanti nozioni che non si ritrovano nei trattati, come, ad esempio, quelle di lavoratore dipendente[46], di impresa[47] e di giurisdizione nazionale[48], al fine di evitare che le norme nazionali escludano unilateralmente persone, enti e organi dalla sfera di applicazione del diritto dell’Unione.
Inoltre, sono condivisibili le precisazioni della Corte in merito all’esigenza di collocare ciascuna disposizione nel suo contesto e interpretarla alla luce dell’insieme delle disposizioni di tale diritto, delle sue finalità e dello stadio della sua evoluzione nel momento della sua applicazione[49]. Sotto questo profilo, la Corte fornisce alcune indicazioni puntuali al giudice nazionale, innanzitutto nella parte in cui afferma che la mera possibilità di effettuare una o diverse letture di una disposizione del diritto dell’Unione non è di per sé sufficiente per ritenere soddisfatto il requisito del dubbio ragionevole. Nel contempo, viene messo in risalto che il giudice deve prestare particolare attenzione nell’ipotesi in cui siano portati a sua conoscenza orientamenti giurisprudenziali differenti tra i giudici nazionali di un medesimo Stato o di Stati diversi, che rappresentano un elemento sintomatico dell’esistenza di un dubbio quanto all’interpretazione corretta del diritto dell’Unione.
In quarto luogo, l’arrêt della Corte dedica una grande attenzione alla motivazione del giudice nazionale di ultima istanza che decida di non sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia[50]. Non vi è dubbio che la formulazione di una motivazione accurata attenua sensibilmente il rischio di successive contestazioni, anche sul piano risarcitorio. La decisione del giudice nazionale di non coinvolgere la Corte di giustizia deve esplicitare il motivo per cui è soddisfatta una delle tre condizioni per non procedere al rinvio (non rilevanza, esistenza di una giurisprudenza consolidata e assenza di un ragionevole dubbio). Tuttavia, sembra che l’obbligo di motivazione non possa rispondere a standard predeterminati e rigidi, ma sia direttamente proporzionato al grado di complessità della questione di diritto dell’Unione sollevata nel giudizio. In altri termini, si può ritenere che tanto più complessa sia la questione, tanto più occorre uno sforzo di motivazione, segnatamente in relazione all’esistenza di un ragionevole dubbio.
5. Il rinvio pregiudiziale come meccanismo di tutela del sistema oppure come strumento di tutela dei diritti dei singoli?
La sentenza si diffonde sui doveri del giudice nazionale di ultima istanza di ricorrere alla Corte ai sensi dell’art. 267, terzo comma, TFUE quando il suo coinvolgimento sia stato proposto da una parte del procedimento in una fase avanzata del procedimento, in particolare dopo un primo rinvio pregiudiziale[51]. Si ripropone in tal modo l’antico dilemma se intendere il rinvio come un meccanismo di tenuta del sistema oppure come uno strumento di tutela dei diritti degli individui[52].
La prima tesi trova sostegno nel principio consolidato secondo cui il rinvio pregiudiziale non è un rimedio nella diretta disponibilità delle parti del giudizio, poiché queste ultime possono soltanto sollecitare il giudice nazionale a sollevare dei quesiti ed esporre il loro punto di vista dinanzi alla Corte di giustizia entro i limiti delle questioni ritenuti utili dallo stesso giudice nazionale. Quest’ultimo provvede alla formulazione del rinvio, anche contro il consenso delle parti[53], le quali non possono né modificarne il tenore, né integrarli con altri[54].
Al riguardo, la sentenza in esame ribadisce un concetto che non è stato ancora pienamente compreso, vale a dire che la valutazione in merito alla “rilevanza” (o pertinenza) e “necessarietà” delle questioni pregiudiziali per la definizione del procedimento principale rientra esclusivamente nell’ambito della responsabilità del giudice che dispone il rinvio. In questa prospettiva, viene messa a fuoco l’indipendenza del giudice interno, che è il “dominus” del rinvio e non è vincolato al principio della domanda né è tenuto a formulare il quesito pregiudiziale così come richiesto dalle parti. Infatti, è ricorrente nella giurisprudenza della Corte di giustizia l’affermazione che il sistema introdotto dall’art. 267 TFUE istituisce una cooperazione diretta tra la Corte ed i giudici nazionali, attraverso un procedimento, di natura incidentale e non contenzioso, estraneo ad ogni iniziativa di parte[55].
Il corretto ed efficace funzionamento del rinvio pregiudiziale dipende soprattutto dai giudici nazionali, in quanto a loro spetta la scelta di ricorrere alla Corte, la determinazione della fase in cui sottoporre la questione pregiudiziale e della formulazione materiale dei quesiti, la decisione finale della causa dopo aver ricevuto la risposta della Corte o l’eventuale scelta di rivolgersi nuovamente al giudice dell’Unione prima di risolvere la controversia. Evidentemente, il dubbio interpretativo può permanere anche dopo una sentenza pregiudiziale d’interpretazione, sicché il giudice nazionale di ultima istanza deve constatare se ricorre o meno una delle tre situazioni che gli consentono di non sottoporre alla Corte una nuova questione pregiudiziale. Anzi, nei casi più complessi può risultare di particolare utilità procedere a un ulteriore rinvio piuttosto che “tradire” il significato e, quindi, vanificare i principi contenuti nella sentenza pregiudiziale o le eventuali verifiche di fatto e di diritto demandategli dalla Corte di giustizia ai fini della definizione della causa principale[56].
Nondimeno, occorre tener presente che il rinvio pregiudiziale ha acquisito una rilevanza fondamentale per il sistema di tutela dei diritti che il singolo vanta in forza del diritto dell’Unione, facendo sorgere delle aspettative, più o meno legittime, in ordine all’efficacia di questo istituto. È fuor di dubbio che proprio per mezzo del rinvio pregiudiziale si realizza una tutela giurisdizionale effettiva e la piena protezione dei diritti dei singoli, i quali sono considerati soggetti di diritto dell’Unione.
In definitiva, entrambe le tesi hanno un fondamento di verità e non sembrano inconciliabili tra loro, sicché l’equivoco di fondo può essere risolto nel senso di ritenere che il rinvio alla Corte di giustizia abbia la finalità di soddisfare sia la tenuta del sistema che la tutela dei diritti dei singoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione. Con riferimento alla finalità del rinvio volta a garantire questa tutela, è però d’obbligo il caveat che essa si realizza indirettamente e per mezzo dei giudici nazionali, i quali esercitano la competenza pregiudiziale sotto la propria responsabilità, in maniera indipendente e con tutta la dovuta attenzione.
6. Gli ulteriori chiarimenti forniti dalla Corte di giustizia.
Nell’ultima parte della risposta al primo quesito la Corte chiarisce i poteri del giudice nazionale in presenza di una causa di irricevibilità, ad esempio se la richiesta della parte modifica l’oggetto della controversia, in quanto formulata dopo un primo rinvio pregiudiziale. La risposta del giudice riconosce in tal caso il potere del giudice di non sollevare la questione pregiudiziale, purché siano rispettati i noti principi di equivalenza e di effettività[57].
Secondo la definizione invalsa nella giurisprudenza della Corte di giustizia, le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza o di non discriminazione)[58], né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività)[59]. Qualche perplessità discende non tanto dal principio di equivalenza quanto da quello di effettività, che richiede vuoi di tener conto del ruolo delle norme processuali nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità di quest’ultimo dinanzi ai vari organi giurisdizioni nazionali, vuoi di prendere in considerazione, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti di difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento. Vero è che l’oggetto della controversia è determinato dai motivi di ricorso sollevati al momento della sua proposizione al fine di preservare dai ritardi dovuti alla valutazione di motivi nuovi e, quindi, di garantire il regolare svolgimento del procedimento, sicché il giudice nazionale può astenersi dal sollevare un rinvio pregiudiziale per motivi inerenti al procedimento nazionale. Nondimeno, può risultare necessario il soccorso del giudice interno per garantire l’effettività della tutela giurisdizionale e dei diritti derivanti dalle norme dell’Unione, atteso che le sentenze degli organi giurisdizionali di ultima istanza passano in giudicato e sono rimediabili sul piano sostanziale soltanto in casi eccezionali ed in presenza di rigorose condizioni previste dal diritto interno. Tanto più che nell’ordinamento dell’Unione non esiste un mezzo di ricorso diretto per far rispettare l’obbligo di rinvio pregiudiziale, atteso che non fu accolta la proposta contenuta nel Progetto di Trattato del 1984 (c.d. progetto Spinelli), che all’art. 43, intitolato “Controllo giudiziario”, affidava alla Corte di giustizia il compito di svolgere un ruolo di Corte di Cassazione “contro le decisioni nazionali rese in ultima istanza che rifiutino di rivolgere ad essa una domanda pregiudiziale o non rispettino una sentenza pregiudiziale pronunciata dalla Corte”.
Vista l’incertezza sull’esito delle questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte di Cassazione e dal Consiglio di Stato, rispettivamente, sulla possibilità di utilizzare il ricorso per cassazione o il rimedio straordinario della revocazione, la proposizione di motivi nuovi rigorosamente giustificati può allo stato rappresentare l’unico mezzo per evitare la formazione (o la progressiva formazione) di un giudicato contrastante con norme dell’Unione europea, anche ricorrendo al dialogo a distanza con la Corte di Lussemburgo. In tal senso, è il caso di ricordare che la Corte di giustizia ha più volte evidenziato di non riconoscere efficacia alle regole processuali che mettano in discussione l’obbligo di rinvio da parte del giudice nazionale, con la conseguenza che quest’ultimo può di propria iniziativa disapplicare qualsiasi disposizione interna, anche di carattere procedurale, che osti all’effetto utile del diritto dell’Unione senza attendere la soppressione in via legislativa o mediante giudizio di legittimità costituzionale[60]. Il giudice nazionale deve verificare appieno la compatibilità del diritto interno con le norme dell’Unione vincolanti e fare applicazione delle medesime anche d’ufficio, di talché nel giudizio di cassazione dell’ordinamento italiano tale verifica non è condizionata alla deduzione di uno specifico motivo e le relative questioni possono essere conosciute per la prima volta durante tutto il corso del giudizio di legittimità[61].
Alla luce di questo filone giurisprudenziale, sia dell’Unione che nazionale, il punto di equilibrio tra il principio di irricevibilità e quello di effettività appare piuttosto complesso e suscettibile di oscillazioni, considerato che vi possono essere delle frizioni tra i due principi laddove, ad esempio, vi sia l’esigenza di proporre tardivamente una questione d’interpretazione fondata sul diritto dell’Unione, a causa di una sopravvenuta pronuncia della Corte.
Per completare il quadro, non possiamo esimerci dal richiamare la declaratoria di irricevibilità della Corte di giustizia in risposta al secondo e al terzo quesito, derivante dal mancato rispetto dei requisiti relativi al contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale, che sono indicati in modo puntuale nell’art. 94 del regolamento di procedura della Corte ed esplicitati nelle Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale[62]. Tale articolo non si limita a richiamare dei criteri guida da considerare in sede di redazione dell’ordinanza di rinvio, ma è diventato nella giurisprudenza dell’Unione un vero e proprio parametro di riferimento per la verifica della ricevibilità delle domande pregiudiziali[63]. Pertanto, la domanda pregiudiziale deve contenere una descrizione dei fatti rilevanti, quali accertati dal giudice del rinvio, l’indicazione delle norme nazionali applicabili alla fattispecie e della giurisprudenza nazionale in materia e l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione (o sulla validità) di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla causa principale. Come logica conseguenza della violazione delle prescrizioni contenute nell’art. 94 del regolamento di procedura, la Corte di giustizia ha censurato il comportamento del giudice nazionale, che non può limitarsi ad esporre gli interrogativi formulati dalle parti del procedimento principale. Va qui precisato che l’organo giurisdizionale può recepire appieno i dubbi delle parti, purché fornisca la propria autonomia valutazione e chiarisca i motivi che l’hanno indotta a interrogarsi sull’interpretazione delle norme dell’Unione, soprattutto se la Corte di giustizia non è competente a pronunciarsi sugli atti menzionati nelle questioni sollevate[64]. In disparte l’esigenza fondamentale di consentire alla Corte di pronunciarsi utilmente sui quesiti, da questo passaggio della sentenza sull’irricevibilità si può ricavare anche l’intento di valorizzare ulteriormente il ruolo del giudice nazionale e la sua indipendenza rispetto alla posizione espressa dalle parti, che non rappresenta una novità introdotta dalla sentenza in esame, ma una indicazione costante della giurisprudenza dell’Unione in tema di rinvio pregiudiziale, nonostante talvolta non sia correttamente intesa.
7. Considerazioni conclusive sulle prospettive future dell’obbligo di rinvio.
La sentenza della Corte di giustizia ha messo dei punti fermi sulla portata dell’obbligo del giudice nazionale di ultima istanza di sollevare un rinvio pregiudiziale, pervenendo a delle conclusioni che sono pienamente condivisibili, in quanto rigettano il tentativo dell’avvocato generale di scindere l’interpretazione dalla applicazione del diritto dell’Unione, salvaguardando in tal modo la funzione essenziale di questo strumento di cooperazione. Non si avverte in alcun modo né l’utilità né la necessità di un cambiamento così radicale che potrebbe pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri[65]. Piuttosto, appare opportuno, per un verso, imporre al giudice del rinvio un obbligo di motivazione più preciso e puntuale[66], soprattutto nelle cause particolarmente complesse, e, per altro verso, rivedere i criteri sul livello di chiarezza dell’atto, che ormai sono caduti in desuetudine poiché inapplicabili da parte dei giudici nazionali. Sennonché, la sentenza della Corte ha posto in chiara evidenza l’esigenza di una giustificazione motivazionale accurata da parte del giudice nazionale che decida di non rivolgersi alla Corte di giustizia, mentre non ha fatto chiarezza su alcuni criteri in merito all’assenza di “un ragionevole dubbio”, che erano inapplicati e verosimilmente continueranno a rimanere lettera morta.
Al di là di qualche zona d’ombra, non si può che esprimere un giudizio complessivamente positivo sulla sentenza della Corte di giustizia, che ha preservato lo strumento principale del dialogo tra giudici nazionali e Corte di giustizia, respingendo, ancora una volta, il tentativo di snaturarlo. Più in generale, mantenere l’equilibrio complessivo del sistema giurisdizionale, fondato sull’obbligo di rinvio, assume una rilevanza determinante in questo delicato momento storico caratterizzato dal diffondersi dei movimenti sovranisti e dagli orientamenti espressi da alcune Corti costituzionali, come ad esempio quella polacca[67], in merito al principio del primato del diritto dell’Unione. La centralità del rinvio pregiudiziale discende altresì dal fatto che i giudici nazionali non sono tenuti a conformarsi alle indicazioni delle Corti superiori, anche di rango costituzionale, ma sono liberi di interpellare la Corte di giustizia se dubitano della loro conformità con il diritto dell’Unione[68]. L’ipotesi di un totale abbandono della visione del rinvio pregiudiziale come strumentale alla risoluzione delle controversie non tiene conto della realtà dei fatti e della concreta possibilità di mettere in discussione principi ormai consolidati dell’Unione[69]. Il rischio cui si va incontro è che nell’intento di attribuire all’obbligo di rinvio pregiudiziale una valenza sistemica e non più legata alla singola controversia, si finisca per realizzare una singolare eterogenesi dei fini, con conseguente indebolimento del processo di integrazione europea e dei valori sui quali esso si fonda.
Peraltro, il fenomeno del c.d. “rinvio pregiudiziale difensivo” sembra discendere principalmente da una conoscenza non ottimale del rimedio risarcitorio e dei suoi limiti, sebbene sia comprensibile la preoccupazione dei giudici nazionali di essere esposti ad azioni di responsabilità civile[70]. Invero, il dilagare delle azioni di danno non deve essere sopravvalutato, poiché ritroviamo nella giurisprudenza dell’Unione l’affermazione inequivocabile che la responsabilità dello Stato di risarcire i danni causati ai singoli può sussistere solo “nel caso eccezionale” in cui l’organo giurisdizionale di ultima istanza abbia violato in modo manifesto il diritto dell’Unione[71]. L’inosservanza dell’obbligo di rinvio rappresenta soltanto uno degli elementi che il giudice interno deve considerare (unitamente ad altri, quali il margine di discrezionalità, la scusabilità dell’errore, la chiarezza della norma violata, l’intenzionalità della violazione), per accertare la sussistenza della violazione manifesta[72]. Questa condizione è da ritenere presunta soltanto allorché la decisione del giudice nazionale sia intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia[73], ma rimane talmente difficile ottenere il risarcimento dei danni che l’avvocato generale Hogan ha suggerito di rendere le condizioni per la condanna dello Stato più agevoli, ritenendo “il rimedio del tipo Francovich […] un’illusione piuttosto che una realtà”[74]. Le altre possibili reazioni all’omesso rinvio sono piuttosto deboli se si considera che i rimedi di carattere generale esperibili dalle parti (la revisione di una di una sentenza passata in giudicato, la procedura di infrazione e il ricorso alla Corte EDU) incontrano difficoltà analoghe a quelle dell’azione di risarcimento dei danni[75]. Stando così le cose, i giudici nazionali possono essere rasserenati sull’esito negativo della stragrande maggioranza delle richieste risarcitorie, così come degli altri rimedi di carattere generale. Certo è che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione e l’utilizzo appropriato del rinvio pregiudiziale, accompagnato da una rigorosa motivazione, segnatamente, nell’ipotesi di ricorso alla teoria dell’atto chiaro, sono in grado di esercitare un forte peso deterrente, eliminando o comunque riducendo notevolmente le azioni pretestuose ed infondate.
In conclusione, nell’ambito di quella che viene comunemente definita un’Unione di diritto non sembra che vi siano effettive e comprovate esigenze per recepire i suggerimenti dell’avvocato generale Bobek, che finirebbero inevitabilmente per ridimensionare e affievolire il principale strumento del sistema giurisdizionale.
* Professore ordinario di diritto dell’Unione europea – Università degli Studi di Napoli Federico II.
[1] Conclusioni dell’avv. gen. Tizzano, del 21 febbraio 2002, C-99/00, Lyckeskog, punto 64.
[2] V., G. Tesauro, La Corte costituzionale e l’art. 111, ult. comma: una preclusione impropria al rinvio pregiudiziale obbligatorio, in federalismi.it, n. 34, 2020, p. 241: “[…] l’aspetto più significativo e rilevante del controllo giurisdizionale nel sistema dell’Unione europea è certamente la procedura pregiudiziale. Fondata con sicura lungimiranza sulla sinergia costante tra il giudice nazionale e il giudice dell’Unione in funzione dell’interpretazione e l’applicazione di una norma dell’Unione che ponga qualche dubbio ermeneutico, tale procedura si collega al compito attribuito alla Corte di giustizia dagli Stati membri di indicare la corretta interpretazione della norma, con un esito non astratto ma fin troppo concreto – osta o non osta l’applicazione scelta dal giudice nazionale una volta verificata se vi sia compatibilità con la norma dell’Unione – esito che poi il giudice nazionale dovrà limitarsi a tradurre puntualmente nella decisione che definisce la controversia”.
[3] Presentate il 15 aprile 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA/Rete Ferroviaria Italiana SpA. Per un primo commento, v. P. De Pasquale, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19), in Osservatorio europeo DUE (dirittounioneeuropea.eu), 2021; E. Gambaro, I. Bellini, Rinvio Pregiudiziale e Giudice di Ultima Istanza: Occorre Ripensare i Criteri “CILFIT”?, in gtlaw.com, 29 aprile 2021; R. Torresan, La giurisprudenza CILFIT e l’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo: la proposta “ribelle” dell’avvocato generale Bobek, in rivista.eurojus.it, 19 aprile 2021.
[4] In particolare, alcuni sottolineano l’esigenza di non allentare ulteriormente il rigore dell’obbligo in questione al fine di salvaguardare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione (conclusioni Tizzano alla causa Lyckeskog, cit., punto 64), mentre altri suggeriscono di introdurre dei nuovi criteri in favore delle competenze dei giudici nazionali e di limitare l’intervento della Corte del Lussemburgo ai casi in cui venga sollevata una questione di interesse generale (conclusioni dell’avv. gen. Ruiz-Jarabo Colomer, del 30 giugno 2005, C-461/03, Gaston Schul Douane-expediteur, punto 59).
[5] Corte cost. ord. 18 gennaio 2018, n. 6. In dottrina, ex multis, v. F. Deodato, Nota a Corte Costituzionale sentenza 24 gennaio 2018, n. 6 e Corte di Cassazione - S. U. sentenza 29 dicembre 2017, n. 31226, in ildirittoamministrativo.it, 2018; M. Mazzamuto, Motivi inerenti alla giurisdizione - Il giudice delle leggi conferma il pluralismo delle giurisdizioni, in Giurisprudenza italiana, n. 3, 2018, p. 704; A. Travi, Un intervento della Corte costituzionale sulla concezione ‘funzionale’ delle questioni di giurisdizione accolta dalla Corte di cassazione, in Diritto processuale amministrativo, n. 3, 2018, p. 1111; F. Dal Canto, Il ricorso in Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione dinanzi alla Corte costituzionale, in Giurisprudenza Costituzionale, 2019, n. 3, p. 1537.
[6] Cass. UU. ord. 18 settembre 2020, n. 19598. Nella causa pendente dinanzi alla Corte di giustizia sono già state depositate le conclusioni da parte dell’avvocato generale (Hogan, 9 settembre 2021, C-497/20, Randstad Italia). Sull’ordinanza, v. F. Auletta, Ammissibilità del ricorso per “motivi attinenti alla giurisdizione” ed effetti della decisione della Corte di cassazione sulla questione pregiudiziale del giudice speciale “tenuto” al rinvio alla Corte di giustizia, in Foro italiano, 2021, n. 3, punto 1, p. 1025; F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione, 11 novembre 2020; M. Lipari, L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e la revocazione ordinaria, in giustamm.it, 2021, p. 1; B. Nascimbene, P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni grave e manifeste del diritto dell’Unione europea?, 24 novembre 2020; M. A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, 30 novembre 2020, tutti in questa Rivista; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), 7 ottobre 2020.
[7] Ord. 18 marzo 2021, n. 2327. Pende dinanzi alla Corte di giustizia la causa C-261/21. Sul tema, v. B. Nascimbene, P. Piva, Rinvio pregiudiziale e garanzie giurisdizionali effettive. Un confronto fra diritto dell’Unione e diritto nazionale. Commento all’ordinanza n. 2327/2021 del Consiglio di Stato, in questa Rivista, 30 luglio 2021; R. Pappalardo, La corsa al dialogo nella discordia sulla giurisdizione (nota a Cons. St., ord. 18 marzo 2021, n. 2327), in questa Rivista, 6 aprile 2021.
[8] Si tratta dell’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 c.p.c.
[9] Sulla possibilità di inquadrare l’omesso rinvio pregiudiziale totalmente immotivato nell’ambito della revocazione per errore sugli atti processuali, v. M. Lipari, L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e la revocazione ordinaria, cit., p. 33.
[10] Corte cost. ord. 6/2018, cit.
[11] Per il primo caso di condanna di uno Stato per violazione dell’obbligo di cui all’art. 267, comma 3, TFUE, v. Corte giust. 4 ottobre 2018, C‑416/17, Commissione/Francia (Anticipo d’imposta).
[12] V. le conclusioni Hogan alla causa Randstad Italia, cit., punto 97. Sia inoltre consentito rinviare a F. Ferraro, The Consequences of the Breach of the Duty to make Reference to ECJ for a Preliminary Ruling, in Il diritto dell’Unione europea, n. 3, 2015, p. 589.
[13] In tal senso, v. R. Mastroianni, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia tra tutela dei diritti e tenuta del sistema, in I Post di AISDUE, III, 2021, p. 1.
[14] La letteratura sul rinvio è sconfinata: senza pretese di esaustività, v. P. Pescatore, Le renvoi préjudiciel: l’évolution du système, in AA. VV., 1952-2002: cinquantième anniversaire de la Cour de justice des Communautés européennes, Luxembourg, 2003, p. 17; B. Nascimbene, Il giudice nazionale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, n. 6, 2009, p. 1675; M. Condinanzi, R. Mastroianni, Il contenzioso dell’Unione europea, Torino, 2009, p. 186; A. Barav, Études sur le renvoi préjudiciel dans le droit de l’Union européenne, Bruxelles, 2011; R. Conti, Il rinvio pregiudiziale alla Corte UE: risorsa, problema e principio fondamentale di cooperazione al servizio di una nomofilachia europea, 2014, in cortedicassazione.it.; F. Jacobs, Le renvoi préjudiciel devant la Cour de justice: un modèle pour d’autres systèmes transnationaux?, in AA. VV., La Cour de justice de l’Union européenne sous la présidence de Vassilios Skouris (2003-2015): liber amicorum Vassilios Skouris, Bruxelles, 2015, p. 271; J. P. Jacqué, Actualité du renvoi préjudiciel, in Revue trimestrielle de droit européen, n. 4, 2018, p. 707; J. Malenovský, Le renvoi préjudiciel perçu par trois cours “souveraines”, in Journal de droit européen, n. 200, 2013, p. 214; A. Tizzano, Le renvoi préjudiciel et la pratiques des juges italiens, in P. Paschalidis, J. Wildemeersch (sous la direction de), L’Europe au présent!: liber amicorum Melchior Wathelet, Bruxelles, 2018, p. 703; J. L. Da Cruz Vilaça, De l’interprétation uniforme du droit de l’Union à la “sanctuarisation” du renvoi préjudiciel: étude d’une limite matérielle à la révision des traités, in AA. VV., Liber Amicorum Antonio Tizzano. De la Cour CECA à la Cour de l’Union: le long parcours de la justice européenne, Torino, 2018, p. 247; J. Pertek, Le renvoi préjudiciel: droit, liberté ou obligation de coopération des juridictions nationales avec la CJUE, II ed., Bruxelles, 2021. Sia inoltre consentito rinviare a F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020.
[15] In tal senso, v. le conclusioni dell’avv. gen. Capotorti, del 5 maggio 1977, 107/76, Hoffmann-La Roche, punto 7.
[16] Corte giust. 6 ottobre 1982, 283/81. Per un commento alla pronuncia, ex plurimis, v. G. Bebr, The Rambling Ghost of “Cohn-Bendit”: Acte Clair and the Court of Justice, in Common Market Law Review, vol. 20, n. 3, 1983, p. 439; N. Catalano, La pericolosa teoria dell’”atto chiaro”, in Giustizia civile, I, 1983, p. 12; M. Lagrange in Revue trimestrielle de droit européen, vol. 19, n. 1, 1983, p. 159; K. Lenaerts, La modulation de l’obligation de renvoi préjudiciel, in Cahiers de droit européen, 1983, p. 471; J.-C. Masclet, Vers la fin d’une controverse? La Cour de justice tempère l’obligation de renvoi préjudiciel en interprétation faite aux juridictions suprêmes (art. 177, alinéa 3, CEE), in Revue du Marché Commun, 1983, p. 363; A. Tizzano in Foro italiano, vol. 106, n. 3, 1983, p. 63. Cfr. anche i lavori di P. Craig, D. Edwards, D. Sarmiento e A. S. Sweet, in M. Poiares Maduro, L. Azoulai (eds.), The Past and Future of EU Law, Oxford, 2010.
[17] Corte giust. 6 ottobre 2021, C-561/19. Per un primo commento, cfr. G. Capria, Sull’obbligo di rinvio pregiudiziale (nota a CGUE, Grande Sezione, sentenza 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA c. Rete Ferroviaria Italiana SpA in C-561/19), in questa Rivista, 15 ottobre 2021; . P. De Pasquale, Inespugnabile la roccaforte dei criteri CILFIT (causa C561/19), in BlogDue, 2021.
[18] M. Puglia, Finalità e oggetto del rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), op. cit., p. 1
[19] Nell’ordinamento italiano possono essere considerati organi giurisdizionali di ultima istanza la Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti (nei giudizi di appello). Si può ritenere che la Corte costituzionale abbia l’obbligo di sollevare una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia se adita in via principale, mentre vi sono opinioni discordanti in merito alla facoltà o all’obbligo della Corte costituzionale di sollevare un rinvio pregiudiziale se adita in via incidentale. Con riferimento a quest’ultimo profilo, in senso favorevole, cfr. F. Spitaleri, Facoltà e obbligo del rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), op. cit., p. 113.
[20] Cfr. le conclusioni dell’avv. gen. Tizzano alla causa Lyckeskog, cit., punto 57.
[21] Corte giust. 15 settembre 2005, C-495/03, Intermodal, punto 34.
[22] Sopra citata.
[23] Corte giust. 17 maggio 2001, C-340/99, TNT Traco, punto 35.
[24] Cfr. Corte giust. 27 giugno 2013, C-492/11, Di Donna; ord. 10 dicembre 2020, C-220/20, OO (Suspension de l’activité judiciaire), punto 26.
[25] Trattasi della c.d. questione “materialmente identica”: Corte giust. 27 marzo 1963, 28/62, 29/62 e 30/62, Da Costa, punti 5 e 6.
[26] Cilfit, sopra citata, punti 16 e 17; Corte giust. 9 settembre 2015, C-72/14, X, punto 58; 9 settembre 2015, C-160/14, Ferreira da Silva e Brito e a., punto 40.
[27] Nella letteratura, v. E. D’Alessandro, Intorno alla «Théorie de l’acte clair», in Giustizia civile, n. 11, 1997, p. 2882; D. Sarmiento, Las interpretaciones estratégicas del derecho comunitario y la crisis de la doctrina del acto claro, in Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad de Granada, n. 9, 2006, p. 75; M. P. Broberg, Acte clair revisited : adapting the acte clair criteria to the demands of the times, in Common Market Law Review, vol. 45, n. 5, 2008, p. 1383; P. Pescatore, L’interprétation du droit communautaire et la doctrine de “l’acte clair”, in Id., Études de droit communautaire européen 1962-2007, Bruxelles, 2008, p. 355; N. Fenger, M. P. Broberg, Finding light in the darkness: on the actual application of the acte clair doctrine, in Yearbook of European Law, vol. 30, 2011, p. 180; H. Rasmussen, The European Court’s acte clair strategy in C.I.L.F.I.T., or, Acte clair, of course!: but what does it mean?, in European Law Review, vol. 40, n. 4, 2015, p. 475; J. Van Meerbeeck, Arrêt “Ferreira”: le renvoi préjudiciel des juridictions suprêmes en cas d’acte clair, in Journal de droit européen, n. 224, 2015, p. 398; A. Kornezov, The new format of the acte clair doctrine and its consequences, in Common Market Law Review, vol. 53, n. 5, 2016, p. 1317; F. Croci, Nuove riflessioni sull’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo alla luce delle sentenze Ferreira da Silva e X, in Studi sull’integrazione europea, n. 2, 2017, p. 427.
[28] Cfr. M. Condinanzi, I giudici italiani «avverso le cui decisioni non possa porsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno» e il rinvio pregiudiziale, in Il diritto dell’Unione europea, n. 2, 2010, p. 295, spec. p. 323
[29] Cfr. le conclusioni dell’ avv. gen. Capotorti alla causa Hoffmann-La Roche, cit., punto 7. In tema, v. F. Pani, L’obbligo (flessibile) di rinvio pregiudiziale e i possibili fattori di un suo irrigidimento. Riflessioni in margine alla sentenza Association France Nature Environnement, in European Papers, vol. 2, n. 1, 2017, p. 384.
[30] Cilfit, sopra citata, punto 16.
[31] V. F. Spitaleri, op. cit., p. 127.
[32] Cfr. G. Tesauro (a cura di P. De Pasquale - F. Ferraro), Manuale di Diritto dell’Unione europea, Napoli, 2021, III ed., p. 275.
[33] Cfr. G. Martinico, L. Pierdominici, Rivedere CILFIT? Riflessioni giuscomparatistiche sulle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nella causa Consorzio Italian management, in questa Rivista, 17 giugno 2021.
[34] Per l’applicazione della teoria dell’atto chiaro nella giurisprudenza francese, v. Conseil d’Etat, 22 dicembre 1978, n. 11604, Cohn-Bendit e 12 ottobre 1979, n. 8788, Syndicat des importateurs des vetements.
[35] G. Tesauro, Manuale di Diritto dell’Unione europea, cit., p. 465.
[36] Punto 134 delle conclusioni.
[37] Corte giust. 24 maggio 1977, C-107/76.
[38] Cfr. A. Tizzano, La tutela dei privati nei confronti degli Stati membri dell’Unione europea, in Foro italiano, n. 4, 1995, p. 13.
[39] Punto 26.
[40] R. Joliet, L’article 177 du traité CEE et le renvoi préjudiciel, in Rivista di diritto europeo, n. 3, 1991, p. 591, spec. p. 603.
[41] Punto 33.
[42] Punto 36. V. anche Corte giust. 4 novembre 1997, C‑337/95, Parfums Christian Dior, punto 29; 2 aprile 2009, C‑260/07, Pedro IV Servicios, punto 36.
[43] Punto 39.
[44] Cfr. le conclusioni dell’avv. gen. Jacobs, del 10 luglio 1997, C-338/95, Wiener, punto 65.
[45] Corte giust. 24 marzo 2021, C‑950/19, A, punto 37.
[46] Corte giust. 3 luglio 1986, 66/85, Lawrie-Blum, punto 14; 12 maggio 1998, C-85/96, Martinez Sala, punto 32; 27 giugno 1996, C-107/94, Asscher, punto 25.
[47] Corte giust. 23 aprile 1991, C-41/90, Höfner e Elser, punto 21; 10 gennaio 2006, C-222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., punto 107; 27 aprile 2017, C‑516/15 P, Akzo Nobel e a./Commissione, punto 47.
[48] Corte giust. 30 giugno 1966, 61/65, Vaassen-Goebbels, punti 1-14; 17 ottobre 1989, 109/88, Danfoss; 17 settembre 1997, C-54/96, Dorsch Consult, punto 23.
[49] Corte giust. 28 luglio 2016, C‑379/15, Association France Nature Environnement, punto 49. Cfr. anche 17 aprile 2018, C‑414/16, Egenberger, punto 44 e giurisprudenza ivi citata.
[50] Spec. punto 51.
[51] Punto 52.
[52] Al riguardo, cfr. R. Mastroianni, Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia tra tutela dei diritti e tenuta del sistema, cit., p. 6.
[53] Corte giust. 12 febbraio 2008, C-2/06, Kempter, punto 41.
[54] Corte giust. 6 ottobre 2015, C-508/14, T-Mobile Czech Republic e Vodafone Czech Republic, punto 29.
[55] Corte giust. 1° marzo 1972, 62/72, Bollmann, punto 4; 10 luglio 1997, C-261/95, Palmisani, punto 31; 16 dicembre 2008, C-210/06, Cartesio, punto 90; 21 luglio 2011, C-104/10, Kelly, punto 62.
[56] Sul tema, v. G. Tesauro, Sui vincoli del giudice nazionale prima e dopo il rinvio pregiudiziale, in federalismi.it, n. 6, 2020, p. 189.
[57] Corte giust. 15 aprile 2008, C-268/06, Impact, punti 44 e 45; 15 gennaio 2013, C-416/10, Križan e a., punto 85 ; 13 dicembre 2017, C-403/16, El Hassani, punto 26; 26 aprile 2018, C-81/17, Zabrus Siret, punto 38; 6 luglio 2020, C-224/19 e C-259/19, Caixabank e Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, punto 83; 16 luglio 2020, C-424/19, UR (Assoggettamento degli avvocati all’IVA), punto 25; 10 marzo 2021, C‑949/19, Konsul Rzeczypospolitej Polskiej w N., punto 43; 3 giugno 2021, C-726/19, Instituto Madrileño de Investigación y Desarrollo Rural, Agrario y Alimentario, punto 47.
[58] Corte giust. 26 settembre 2018, C-180/17, Staatssecretaris van Veiligheid en justitie (effetto sospensivo dell’appello), punto 37 e seguenti; 9 settembre 2020, C-651/19, Commissaire général aux réfugiés e aux apatrides (Rigetto di una domanda ulteriore – Termine di ricorso), punto 36 e seguenti; 14 ottobre 2020, C-677/19, Valoris, punto 29; 3 giugno 2021, C-910/19, Bankia, punto 46.
[59] Corte giust. 19 dicembre 2019, C-752/18, Deutsche Umwelthilfe, punto 33; 14 maggio 2020, C-749/18, B e a. (Integrazione fiscale verticale e orizzontale), punto 69.
[60] Cfr., ex multis, Corte giust. 18 luglio 2013, C-136/12, Consiglio nazionale dei geologi e Autorità garante della concorrenza e del mercato, punti 32 e 33. Per un’affermazione recente, v. 6 ottobre 2020, C-511/18, C-512/18 e C-520/18, La Quadrature du Net e a., punto 215.
[61] Cass. 1° giugno 2006, n. 13065; Consiglio nazionale dei geologi, sopra citata, punto 36.
[62] Per una riflessione più ampia sulla disposizione, v. C. Iannone, Le ordinanze di irricevibilità dei rinvii pregiudiziali dei giudici italiani, in Il diritto dell’Unione europea, n. 2, 2018, p. 249.
[63] L. Terminiello, Le condizioni oggettive di ricevibilità del rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro, C. Iannone, (a cura di), op. cit., p. 64.
[64] Ad esempio, nel caso di specie la Carta sociale europea esula dalla sfera di applicazione del diritto dell’Unione (Corte giust. 5 febbraio 2015, C‑117/14, Nisttahuz Poclava, punto 43).
[65] Avv. gen. Tizzano, conclusioni Lyckeskog, cit.
[66] P. De Pasquale, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19), cit., p. 13.
[67] Da ultimo, si vedano due recenti sentenze del Tribunale costituzionale polacco - P 7/20 del 14 luglio 2021 e K 3/21 del 7 ottobre 2021 - le quali, rispettivamente, hanno dichiarato ultra vires un’ordinanza della Corte di giustizia e hanno ritenuto incompatibili con la Costituzione polacca le norme dei Trattati che permettono ai giudici interni di disapplicare le leggi nazionali in contrasto con il diritto dell’Unione.
[68] Cartesio, sopra citata, punto 94; 5 ottobre 2010, C-173/09, Elchinov, punto 26 e seguenti; 15 gennaio 2013, C-416/10, Križan e a., punto 69. A proposito dell’ordinamento italiano, la Corte ha ritenuto l’art. 99, 3° comma, c.p.a. incompatibile con l’art. 267 TFUE nella misura in cui obbligava una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza (nella fattispecie, il Consiglio di Stato), che non condivideva l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo, a deferire la questione all’adunanza plenaria senza consentirgli di richiedere direttamente l’intervento della Corte tramite una domanda di pronuncia pregiudiziale (5 aprile 2016, C-689/13, Puligienica).
[69] V. ad es., TAR Puglia-Lecce, sez. I, sentenza del 18 novembre 2020, n. 1321, pubblicata il 27 novembre 2020, il quale afferma che in assenza del potere dell’amministrazione e, per essa, del funzionario o del dirigente proposto di rivolgersi alla Corte di giustizia e alla Corte costituzionale, tale organo dello Stato non può applicare direttamente la disposizione dell’Unione provvista di effetto diretto, ma è tenuto ad osservare la norma di legge interna nonché ad adottare provvedimenti conformi e coerenti con la norma di legge nazionale.
[70] Cfr. M. P. Chiti, Il rinvio pregiudiziale e l’intreccio tra diritto processuale nazionale ed europeo: come custodire i custodi dagli abusi del diritto di difesa?, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, n. 5, 2012, p. 745; G. Tulumello, Sui presupposti dell’obbligatorietà del rinvio pregiudiziale per i giudici nazionali di ultima istanza: segnali (convergenti) di un’esigenza di ripensamento della giurisprudenza Cilfit, in giustizia-amministrativa.it, 28 settembre 2021.
[71] Corte giust. 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler, punto 53. V. anche 9 dicembre 2003, C-129/00, Commissione/Italia.
[72] Questo orientamento è stato recepito nel nostro ordinamento dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18, che ha introdotto l’art. 2, par. 3-bis, nella legge sulla responsabilità civile dei magistrati (legge 13 aprile 1988, n. 117), imponendo di tener conto della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio nell’ambito della valutazione della violazione manifesta. È il caso di ricordare che per ottenere il risarcimento dei danni si deve dimostrare non solo la violazione sufficientemente qualificata del diritto dell’Unione, da intendere come violazione manifesta (e grave), bensì anche che la norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli e che sussista un nesso di causalità tra la violazione e il danno.
[73] Corte giust. 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame, punto 57.
[74] Conclusioni dell’avvocato generale Hogan alla causa Randstad Italia, cit., punto 82.
[75] Al riguardo, sia consentito rinviare a F. Ferraro, Le conseguenze derivanti dalla violazione dell’obbligo di rinvio, in F. Ferraro, C. Iannone (a cura di), op. cit., p. 139.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.