ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Nelle scienze sociali si usa pesare, contare e misurare, per non dover pensare”
Nicolàs Gòmez Davila, Escolios a un texto implicito, I, trad. it., pag. 88.
Sommario: 1. La mesiteiafilia ovvero la “passione per il compromesso” - 2. Bilanciamento dei diritti fondamentali? - 3. Una giurisprudenza strabica - 4. Dignità della persona e originaria unitarietà dei diritti fondamentali.
1. La mesiteiafilia ovvero la “passione per il compromesso”.
Non si dice nulla di nuovo affermando che la nostra sembra lasciarsi cogliere – oltre diversi paradigmi possibili - come l’epoca del compromesso, della mediazione e, in definitiva, della vocazione insopprimibile al bilanciamento degli interessi in gioco, esteso perfino ai principi fondamentali.
Basti por mente non solo alle vicende politiche, in realtà da sempre e per loro natura luogo di emergenza di tutti i compromessi possibili; ma anche, in sede giuridica, agli istituti della negoziazione assistita o della mediazione, intesa quale specifico assetto giuridico processualcivilistico oggi capillarmente diffuso e il cui mancato esperimento conduce addirittura all’improcedibilità dell’azione; o, ancora, alla giustizia riparativa, come si va diffondendo nell’esperienza e nella riflessione penalistica degli ultimi anni, quale alternativa alla prospettiva tradizionalmente retributiva.
Ma il settore ove la prospettiva che potrei definire - con un termine aulico ma di indubbia efficacia - di autentica mesiteiafilia[1] (letteralmente, “passione per il compromesso”, perchè mesiteia in greco antico vale “mediazione”, “compromesso”) risulta particolarmente presente, soprattutto negli ultimi anni, è di certo quello dell’esperienza giurisdizionale riferita ai giudizi di legittimità sulle leggi.
In questa prospettiva, territorio particolarmente fertile per far attecchire questo paradigma interpretativo è stato poi il fiorire e l’intensificarsi delle decisioni di “incostituzionalità differita”: sono i casi, ben noti, in cui la Consulta – quasi fosse una terza Camera[2] - si è arrogata il potere – sprovvisto invero di qualsivoglia fondamento normativo – di “bilanciare” gli effetti di una immediata pronuncia caducatrice con quelli derivanti dal mantenimento in vita della norma, benché dichiarata illegittima, dando la preferenza ai secondi, attraverso un differimento ad tempus della abrogazione della norma e subordinandola ad un intervento del legislatore che si muova nel solco indicato dalla Consulta stessa.
Chiunque abbia a che fare con l’esperienza giuridica sa bene insomma come e quanto la Corte Costituzionale, seguita poi a ruota dalla Cassazione e infine dai giudici di merito, abbia avuto cura, da parecchi anni a questa parte, di leggere i principi consacrati nella Carta in modo da combinarne gli effetti operando un ormai noto “bilanciamento” fra quelli che sembravano porsi in una sorta di reciproca contraddizione.
Gli esempi sono talmente numerosi e noti che mi considero qui esentato dal compito di riproporli sia pure in parte.
Ebbene, se il bilanciamento – termine invero poco felice visto che evoca per assonanza la pesatura di formaggi e salami o, nella migliore delle ipotesi, quella messa in opera dall’orefice ( perché invece non parlare di “armonizzazione” ?) – non sembra porre particolari problemi, allorché ad esso si voglia ricorrere quando i “beni della vita” da bilanciare appartengano al regno del disponibile, al contrario, esso solleva molti e gravi interrogativi quando lo si voglia applicare alle dimensioni caratterizzate da una piena indisponibilità.
Quanto appena osservato gode già di buone ragioni quando si tratti in sede giuridica di “principi”, dal momento che il “principio” – ogni “principio” – come già notava Aristotele nella Metafisica[3], è ciò che dà forma all’essere, è ciò da cui scaturisce l’essere delle cose e del mondo e non si vede proprio come si possa bilanciare ciò che non appartiene a questo mondo, perché viene prima e abita altrove - perché delle cose del mondo è la scaturigine - con altro elemento identico quanto alla propria sostanza: sarebbe come pretendere l’assurdo, una cosa oggettivamente non fattibile e illusoria, al modo di chi volesse bagnare l’acqua: certo, costui potrà effondere acqua sull’acqua di un recipiente, ma di certo non potrà mai bagnarla, perché pensare di poterlo fare sarebbe ridicolo.
E dunque come l’acqua è già bagnata di suo perché la sua essenza consiste proprio nell’esserlo, senza che possa bagnarsi “di nuovo”, ogni “principio” è tale di suo, senza che possa mescolarsi con altri “principi” né per nutrirsene né per bilanciarsi con qualcuno di essi.
Insomma - e chiedendo venia per l’insistito paragone - così come l’acqua non può esser bagnata perché è essa stessa a bagnare le cose del mondo, allo stesso modo il principio non può esser bilanciato perché è esso stesso a bilanciare i beni della vita.
Ciò accade propriamente perché ogni principio si lascia cogliere come un “assoluto”, vale a dire – è cosa ben nota - come una dimensione sciolta da qualunque condizionamento, del tutto priva di vincoli di sorta, pena un destino di dissoluzione.
Orbene, i nostri testi di legge, le disposizioni costituzionali e anche quelle dei trattati internazionali adoperano in realtà un lessico diverso, in quanto l’aggettivo in uso è quello di “fondamentale”, declinato di solito al plurale allorché si chiamano in causa i “diritti fondamentali”.
Tuttavia, pare di tutta evidenza che con tale locuzione si voglia fare riferimento proprio alla “assolutezza” di tali diritti, al fatto che essi, in quanto svincolati da qualunque sorta di condizionamento e di compromissione possibile, sono posti a “fondamento” di tutti gli altri e dell’intero sistema dello Stato di diritto.
Prova ne sia che i diritti umani – l’affermazione indiscussa dei quali in tutte le sedi nazionali e internazionali può considerarsi il tratto caratterizzante dell’epoca contemporanea a partire dal secondo dopoguerra – vengono abitualmente qualificati come “fondamentali”, proprio allo scopo dichiarato di sottrarli ad ogni possibile compromissione, decretandone una inviolabilità di sapore addirittura sacrale[4].
Eppure, ciononostante, sbarazzandosi in modo tutto sommato abbastanza disinvolto di una pur necessaria cautela teoretica e giuridica, la giurisprudenza costituzionale, quella di legittimità e quella di merito da circa un ventennio hanno individuato, utilizzandolo come criterio ermeneutico privilegiato, l’ormai celeberrimo “bilanciamento dei diritti fondamentali”.
Ma questa opzione interpretativa così spesso e così spregiudicatamente messa in opera è giuridicamente ammissibile? In che senso i diritti fondamentali si possono impunemente bilanciare?
2. Bilanciamento dei diritti fondamentali?
Non essendo certamente questa le sede per censire le varie posizioni che si sono evidenziate nella nutrita riflessione che nel tempo si è affaticata nel tentativo di rispondere a questi interrogativi[5], mi limito ad osservare come meritevole di particolare attenzione sia la conclusione offerta per un verso da Luigi Ferrajoli[6] e per altro verso da Riccardo Guastini, il quale giunge, non senza ragione, ad affermare che il termine “bilanciamento” sarebbe soltanto un sinonimo di “soppressione”, in quanto produrrebbe semplicemente, in relazione al caso concreto, la scomparsa di un diritto (fondamentale) a vantaggio di un altro ( parimenti fondamentale).[7]
Entrambi questi studiosi, sia pure attraverso un diverso itinerario logico-giuridico, mettono dunque radicalmente in dubbio che fra diritti fondamentali possano esistere autentici conflitti da sciogliere attraverso un appropriato bilanciamento.
E in effetti, il punto da problematizzare pare proprio questo, dal momento che ogni bilanciamento suppone logicamente un conflitto fra diritti fondamentali e, implicitamente, la possibilità di individuare una sorta di gerarchia mobile – in quanto da adattare di volta in volta alle esigenze del caso concreto – capace di risolvere ogni contrapposizione.
Alla domanda se perciò possa ipotizzarsi un simile conflitto, mi pare tuttavia si debba rispondere in modo risolutivamente negativo: no, fra diritti fondamentali non è possibile ipotizzare alcuna forma di conflitto né, di conseguenza, rapporti di gerarchia che facciano prevalere l’uno a scapito dell’altro (neppure parzialmente), quale esito di un possibile bilanciamento.
Si tratta ovviamente di spiegare perché.
Il conflitto – ogni conflitto – suppone infatti che gli elementi che confliggono siano fra di loro separati in punto di fatto o almeno separabili concettualmente, in modo tale da contrapporli l’uno all’altro in chiave antagonista, delegando poi alla capacità di chi ne operi il bilanciamento il potere di sancire la priorità del primo o del secondo.
Nulla di più accattivante per la mentalità – anche giuridica – contemporanea, avvezza ormai da tempo ad assumere quale paradigma epistemologico tendenzialmente esclusivo quello proprio della conoscenza scientifica, a scapito di una prospettiva genuinamente filosofica, abbandonata e stigmatizzata, anche dai giuristi, quale inutile relitto metafisico di un passato ormai superato.
Infatti, dal momento che la scienza, per conoscere, seziona e suddivide l’oggetto della propria indagine – ed è bene che così faccia (si pensi all’anatomia o alla biologia) – anche i giuristi, sulla scorta di tale insegnamento e forse mossi dal desiderio di reperire una irraggiungibile certezza del diritto attraverso il paradigma scientifico, si sono avviati sullo stesso sentiero in tema di diritti fondamentali (e non solo).
Per questa ragione, li hanno considerati – seguendo il solco tracciato dalla Corte Costituzionale – come monadi isolate e irrelate, l’una all’altra contrapposta o comunque contrapponibile, in modo che la prima si possa espandere a patto soltanto di comprimere la seconda e viceversa: si pensi per esempio al diritto di riunione contrapposto al diritto alla sicurezza pubblica; oppure, per citare un caso a noi ancora molto vicino, al diritto a non subire trattamenti terapeutici contro la propria volontà contrapposto al diritto alla salute della collettività.
In simili casi, i giuristi hanno messo in opera un “bilanciamento” fra i contrapposti diritti fondamentali, finendo naturalmente col farsi orientare vistosamente dalle emergenze politiche del contesto sociale nel cui ambito si evidenziasse il problema da risolvere.
Così, dopo l’attacco terroristico alle “torri gemelle”, seguito da altri attentati a Londra e a Madrid, per un certo tempo il diritto alla sicurezza pubblica ebbe la meglio – negli Stati Uniti - su quello di riunione, che subì per questo una notevole compressione[8].
Allo stesso modo, a causa del diffondersi del virus, l’emergenza pandemica ha indotto il legislatore italiano e spesso anche i giudici di merito a far “pesare” il diritto alla salute della collettività assai di più del diritto a non subire trattamenti terapeutici contro la propria volontà, sancendo addirittura un obbligo vaccinale esteso indiscriminatamente a tutti, senza distinzione alcuna e assistito da apposite forme sanzionatorie[9].
Tutto ciò è stato possibile proprio in quanto i diritti fondamentali sopra menzionati sono divenuti oggetto di un “bilanciamento” - che in definitiva ne elude la fondamentalità – il quale si basa sulla loro contrapposizione, sulla irreale separatezza di ciascuno di essi rispetto a tutti gli altri: qui potenziarne uno significa comprimerne un altro e viceversa.
Ma davvero i diritti fondamentali sono correttamente pensabili in questa prospettiva di irrelata solitudine? Davvero il giurista può seriamente maneggiarli come fossero tessere di un domino che assegni la vittoria e la sconfitta a seconda di quella che di volta in volta venga deposta sul tavolo da gioco?
3. Una giurisprudenza strabica.
Nutro molti dubbi in proposito.
A ben guardare, infatti, i diritti fondamentali non possono in alcun modo essere considerati quali autosufficienti e separati ciascuno dall’altro, se non a patto di operare un pericoloso riduzionismo che, non rendendo affatto ragione della loro reale sostanza umana e giuridica, apre la strada a gravi equivoci esiziali per la tutela dei diritti delle persone.
Errore, questo, in cui purtroppo ormai cade spesso la giurisprudenza non solo ordinaria ma anche amministrativa.
Si veda per tutte quelle della giurisdizione amministrativa (ex uno disce omnes) la recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. III, 28/2/2022, n. 1381), secondo la quale (pag. 8 della sentenza) “In disparte quanto già osservato sul tema della sicurezza dei vaccini, dette censure si svolgono su una linea di ragionamento che manca di considerare la peculiare posizione dei sanitari e, quindi, la specifica ratio dell'obbligo vaccinale loro imposto, la quale a sua volta rende ragione del punto di equilibrio che il legislatore ha individuato nel bilanciamento tra la libertà di autodeterminazione del singolo e le esigenze di interesse pubblico e tra queste, in primis, quelle concernenti la "tenuta" dei presìdi ospedalieri e la garanzia, per chi necessita di cura ed assistenza, di poterle ricevere in condizioni di massima sicurezza e di minor rischio di contagio possibile (v. par. 31.2 -31.9 della sentenza n. 7045/2021)”.
Ora, tacendo l’uso sgangherato – ma evidentemente frutto di un subdolo refuso - della locuzione avverbiale “in disparte”[10], foriero di un possibile equivoco semantico, siamo in presenza del paradigma qui criticato, in forza del quale si tenta ( senza riuscirvi) di legittimare un bilanciamento fra libertà di autodeterminazione terapeutica del singolo, da un lato – destinata a cedere - e interesse pubblico a ricevere le cure necessarie in condizioni di sicurezza e di ridotto rischio di contagio, dall’altro – destinato a prevalere.
Nulla di più errato, in quanto, così opinando, ci si basa su di una visione astratta delle cose, frutto compiuto ma irrisolto di un intellettualismo post-illuminista tanto autoreferenziale, quanto distante dalla realtà e perciò privo di ragione: eppure, è proprio questo che Tribunali e Corti hanno spesso fatto nel caso in esame, qui assunto come paradigma ermeneutico di riferimento.
Pochi giorni fa è incorsa nel medesimo errore la Consulta, la quale in due recentissime sentenze circa la legittimità dell’obbligo vaccinale, afferma:
“È costante, nella giurisprudenza costituzionale, l’affermazione della centralità di tale principio ( quello del bilanciamento: n.d.r.), soprattutto in ambito sanitario, in considerazione del «rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività» (sentenza n. 307 del 1990): «in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno può essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico» (ancora sentenza n. 307 del 1990, richiamata anche dalla sentenza n. 107 del 2012)” (sentenza n. 14 del 2023).
E ancora:
“Il bilanciamento dei principi sottesi agli artt. 4, 32 e 35 Cost., realizzato dal legislatore nella individuazione dei tempi e dei modi della vaccinazione, risulta perciò esercitato negli artt. 4, comma 7, e 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in modo non irragionevole” ( sentenza n. 15 del 2023).
In sostanza, sia il Consiglio di Stato che la Corte Costituzionale hanno adottato una prospettiva strabica che si è conformata al modello epistemologico della scienza, la quale, per conoscere – come ho già notato – ha bisogno di segmentare le cose del mondo, di parcellizzarle allo scopo di analizzarle una per una, mentre poi soltanto raramente e con fatica esse saranno riunificate in una visione d’insieme, che tuttavia sarà compito di un'altra scienza o di una sensibilità genuinamente filosofica e insieme giuridica inaugurare[11].
L’errore epistemico di quella giurisprudenza appare in tutta la sua evidenza sol che si ponga mente ad una celeberrima riflessione di Hegel, qui assunta non quale riferimento filosofico universale, ma come semplice paradigma conoscitivo di carattere non strettamente scientifico.
Ebbene, il pensatore di Stoccarda, in una pagina assai nota, scrive: “Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello viene confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono, ma ciascuna di esse dilegua sotto la spinta dell’altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell’unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intero”[12].
Sicché Hegel può concludere che “Il vero è l’intero”[13].
Cosa vuole dirci con queste dense considerazioni il filosofo tedesco?
Egli intende rimarcare evidentemente come ogni verità umanamente rilevante ( e quella del diritto lo è per definizione ) non possa che lasciarsi cogliere nella necessaria dialettica di tutti gli elementi che contribuiscono a costituirla, perché, mancandone uno soltanto, essa si dissolve in una astratta parcellizzazione che, della verità, non è che la sterile controfigura, il controcanto stonato e nullificante.
Ne viene che, nell’esempio qui adottato, ritenere che l’interesse della collettività alla tutela della pubblica salute, da un lato, sia cosa diversa del diritto della singola persona a non ricevere trattamenti sanitari contrari alla sua volontà, dall’altro, al punto da ipotizzare un conflitto fra le due dimensioni, risolvibile soltanto tramite l’espediente tecnico del bilanciamento, significa oltrepassare la soglia del reale, per perdersi nelle nebbie dell’indeterminato, del non rappresentabile[14].
Infatti, come senza il fiore non ci potrà mai essere il frutto, allo stesso modo, senza la tutela reale e specifica della salute del singolo (anche nella forma indiretta del diritto a non subire trattamenti obbligatori) non ci potrà mai essere quella della collettività; e come il fiore è contenuto nel frutto, allo stesso modo, la salute del singolo è insita in quella della collettività.
Operare come se così non fosse, simulando una opposizione fra le due dimensioni da risolvere tramite un ipotetico bilanciamento, significa ripudiare la verità dei rapporti umani e giuridici per seguire il loro fantasma[15], al modo di chi si ostinasse ingenuamente ad affermare – contro ogni evidenza della realtà – che la verità della pianta risieda tutta e soltanto nel frutto, mentre il fiore le sarebbe del tutto estraneo ed anzi sarebbe da contrapporre al frutto: conclusione, questa, tanto irreale quanto botanicamente insostenibile.
Eppure, è proprio questo che è accaduto, come in modo esauriente dimostrano non solo la sentenza del Consiglio di Stato e quelle della Consulta sopra richiamate ma anche numerose altre, sia della giurisdizione amministrativa che di quella ordinaria, che si pongono sulla stessa linea e che qui si danno per conosciute.
In altri termini, tali decisioni hanno uniformemente affermato, sia pure con qualche lieve distinzione, che il diritto fondamentale del singolo deve cedere – in sede di bilanciamento – rispetto a quello della collettività, perché questo va riconosciuto essere, per varie ragioni, “più fondamentale” di quello ( il che induce al sorriso).
Ora, pure a prescindere dalle suggestioni che in via sub-liminale può aver prodotto La fattoria degli animali di Orwell - nella quale, come è noto, alcuni animali sono “più eguali” degli altri[16]- solo immaginare possibile una gerarchia fra diritti fondamentali da individuare e far valere in sede giuridica, tramite il meccanismo del bilanciamento, stupisce per la fragilità teoretica che vi è sottesa[17].
E ciò perché, come sopra si è argomentato, i diritti fondamentali sono consustanziali l’uno all’altro, al punto che chi ne nomina uno li contempla indistintamente tutti: libertà in tutte le sue declinazioni ( di pensiero, di culto, di espressione, di movimento ecc.), eguaglianza, lavoro, salute ecc. simul stabunt, simul cadent.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, dal momento che tutti i diritti fondamentali, senza eccezione alcuna, trovano la loro scaturigine, e ne sono ciascuno la compiuta espressione, nella dignità della persona umana. Ciascuno di essi, in modo diverso, dice totalmente quella dignità: per questa ragione - e non per altra – si appellano come fondamentali, che vale assoluti, cioè insopprimibili, incomprimibili, non negoziabili e perciò non gerarchizzabili[18].
Non essendo qui possibile scandagliare il tema abissale della dignità personale quale origine dei diritti fondamentali, basterà limitarsi ad alcune considerazioni critiche.
Innanzitutto, è indubbio che la nostra Costituzione si radichi sul principio personalista come origine e fonte indiscussa dei diritti fondamentali in essa consacrati, principio disseminato in molte previsioni normative della Carta tanto numerose quanto conosciute.
Ciò si traduce nella necessità di considerare la singola persona umana – e non una sua astratta ipostasi – come fine ultimo e sovrano della organizzazione statuale in tutte le sue articolazioni.
In altre parole, nell’ambito della cornice dello Stato di diritto costituzionale, lo Stato è in funzione della persona e non la persona in funzione dello Stato.
Naturalmente, queste sono ovvietà consacrate da molto tempo in dottrina e in giurisprudenza, ma occorre ribadirle senza infingimenti perché a volte sono proprio le porte dell’ovvio che vanno tenute ben aperte, per evitare di intraprendere sentieri che – al modo degli Holzwege di Heidegger – non conducono da nessuna parte.
4. Dignità della persona e originaria unitarietà dei diritti fondamentali.
Se dunque è sempre lo Stato che deve porsi l’obiettivo di tutelare la persona umana, in quanto questa è naturalmente connotata da una intangibile dignità, principio e origine di tutti i diritti fondamentali della persona, conviene mettere brevemente in chiaro, di questa, le caratteristiche essenziali.
Sia che si voglia considerare la dignità come il portato della comune creaturalità, propria di tutti gli esseri umani, in quanto ciascuno di noi è imago Dei[19], sia che la si voglia vedere come il proprium dell’uomo in quanto ente morale[20], essa è infatti connotata da precise caratteristiche che qui mi limito ad accennare.
La dignità umana si lascia cogliere quale originaria, indisponibile, irrinunciabile, inviolabile, imperdibile.
Originaria, perché connota, fin dalla sua origine, ogni essere umano in quanto tale.
Indisponibile, perché nessuno può disporne, neppure il suo portatore, sia pure per fini eticamente o socialmente rilevanti.
Irrinunciabile, perché chi ne sia il portatore non può in alcun modo dismetterla.
Inviolabile, perché nessuno e per nessuna ragione, pur offendendola, può eliminarla.
Imperdibile, perché nessuna evenienza, di nessun tipo e di nessuna gravità, può cagionarne la perdita[21].
Quanto precede basta a comprendere come la dignità umana si lasci cogliere quale un assoluto e come di questa assolutezza partecipino in modo pieno e completo tutti i diritti fondamentali che ne siano espressione, al punto che, come già accennato, chi ne nomini uno li contempla tutti[22], in quanto tutti e ciascuno sono appunto elementi costitutivi di quella medesima dignità.
Prova ne sia che Kant – per ribadire tale assolutezza – annotava che ciò che ha un prezzo non ha dignità, mentre ciò che ha dignità non ha prezzo[23].
Ne viene che, in questa prospettiva, soltanto immaginare un bilanciamento fra tali diritti si presenta come operazione oggettivamente impossibile e destinata al fallimento ancor prima di aver inizio[24].
Ecco perché pensare si possa ampliare la sfera di uno dei quei diritti comprimendone un altro in misura corrispondente – che in sostanza è ciò che la dottrina e la giurisprudenza qui criticate hanno fatto e continuano a fare – manifesta soltanto un disagio del pensiero.
Per meglio intendere un tale disagio, rendendolo immediatamente comprensibile, possiamo fare riferimento alle tre virtù teologali – Fede, Speranza e Carità – come predicate dalla tradizione teologica patristica a partire da San Paolo[25].
Ebbene, seguendo la teoria del possibile bilanciamento dei diritti fondamentali, qualcuno ( sprovveduto) potrebbe affermare in sede teologica – per similitudine argomentativa – che ampliando e fortificando la dimensione della Fede, quella della Speranza e quella della Carità ne verrebbero ridimensionate e viceversa.
Ovviamente, nulla di più falso e grottesco: il vero è invece che a misura che si fortifica la Fede, si alimentano Speranza e Carità e viceversa.
Infatti, la Fede alimenta la Speranza e la Carità; la Speranza sostiene la Fede e la Carità; la Carità conferma la Fede e la Speranza: il crescere di ciascuna propizia e implica immancabilmente lo sviluppo delle altre due e giammai un loro grottesco e irreale depotenziamento[26].
E ciò perché le tre virtù teologali – in quanto elargite da Dio - sono dimensioni assolute, sottratte alla disponibilità di chicchessia, così come assoluti, pro modo suo, sono i diritti fondamentali costitutivi della dignità di ogni essere umano, che ne rappresentano l’originaria e inscindibile unitarietà: l’assoluto non tollera alcun tipo di bilanciamento.
Sicché occorre concludere – oltre ogni forma di sofisma argomentativo in cui certa giurisprudenza eccelle - che vista la impossibilità radicale di ogni bilanciamento giuridicamente fondato per le ragioni sopra esposte, sia pure in modo rapido e a volte approssimativo, una tale operazione non fa altro che propiziare la nascita di una sorta di alibi interpretativo, utile a far valere un diritto fondamentale – quello che la casualità dell’emergenza politica mette in luce di volta in volta come più bisognoso di tutela – a scapito di un altro, che al primo viene più o meno arbitrariamente sacrificato, ma senza apertamente ammetterlo (neanche a se stessi).
In questo modo, al pari del medico che, soddisfatto dell’intervento operatorio, perfettamente riuscito, deve però constatare il decesso del paziente, il giurista, soddisfatto della decisione sul bilanciamento, politicamente funzionale, deve constatare l’estinzione dello Stato di diritto, piegato alla ragion politica ( in attesa della successiva, forse urgente ma giuridicamente esiziale, emergenza collettiva)[27] e, con esso, della persona umana, anche in tal modo avviata verso il trans-umanesimo[28], cioè verso il suo definitivo tramonto.
Il fatto è che entrambi hanno visto una parte, ma hanno tragicamente trascurato l’insieme: persuasi di attingere il tutto, son naufragati nel nulla. E, quel ch’é peggio, noi con loro.
[1] Cfr. J. Urbanik, Compromesso o processo? Alternativa risoluzione dei conflitti e tutela dei diritti nella prassi della tarda antichità, in E. Cantarella - J. Mélèze Modrzejewski - G. Thur, Symposion 2005. Vortrage zur griechischen und ellenistischen Rechtsgeschichte , Wien, 2007, pp. 377-400.
[2] E per di più “Alta” o “Altissima” rispetto alle altre due, in quanto queste vengono vincolate a seguire le indicazioni di quella, sotto pena della caducazione di una norma già dichiarata illegittima, ma che, assurdamente lasciata in vita anche per uno o due anni, circola liberamente nell’Ordinamento in qualità di Zombie giuridico, cioè quale entità insieme morta ( perché incostituzionale) e viva ( perché lasciata sopravvivere). A questo orizzonte spettrale siamo ormai giunti, nel silenzio quasi unanime dei giuristi, avvezzi senza rimedio al progressivo smantellamento dello Stato di diritto. Sulla rischiosa espansività della funzione normogenetica della Consulta, mi permetto di rinviare ad un mio studio certo datato, ma ancora significativo, anche perché allora ampiamente discusso con Vezio Crisafulli e pubblicato sulla rivista da lui diretta: Natura e legittimità del giuramento nel processo penale, in “Giur. Costituzionale”, 1981, pp. 2123 – 2161.
[3] IV, 16-19.
[4] Cfr. V. Mathieu, Valori fondamentali del diritto tra protezione e promozione, in Luci ed ombre del giusnaturalismo, Torino, Giappichelli, 1989, pag. 95 ss..
[5] Per una esauriente panoramica sul punto, rinvio a G. Pino, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, in “Etica & politica / Ethics & Politcs”, 2006, 1, pp. 1-57.
[6] Cfr. I fondamenti dei diritti fondamentali, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 277-369.
[7] Cfr. L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, pag. 219.
[8] Cfr. C. Bassu, La legislazione antiterrorismo e la limitazione della libertà personale in Canada e negli Stati Uniti, in Democrazia e terrorismo. Diritti fondamentali e sicurezza dopo l’11 settembre 2001, a cura di Tania Groppi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006.
[9] Cfr. Aldo Rocco Vitale, All’ombra del Covid-19. Guida critica e biogiuridica alla tragedia della pandemia, Il Cerchio, Rimini, 2022, soprattutto i capitoli VI e XI.
[10] Il refuso – probabilmente dovuto ad un correttore automatico - è davvero maligno perché propone questa locuzione avverbiale (come sono per esempio: “in ritardo”, “da sempre” ecc.), che significa “isolatamente”, “in modo isolato”, come fosse una preposizione destinata ad introdurre i termini successivi (“…quanto già osservato…” ), cosa che grammaticalmente non è e non può essere. Probabilmente, si intendeva scrivere “A parte quanto già osservato…”. Ne viene che il correttore automatico – come spesso accade - è incorso non in un uso linguistico innovativo, ma in un solenne strafalcione. Sulla nefanda pervasività degli errori, amo ricordare un delizioso aforisma di Goethe, per il quale “Chi sbaglia la prima asola, non si corregge abbottonandosi”.
[11] Per meglio spiegare quanto affermo, si pensi per esempio al caso delle specializzazioni del sapere medico contemporaneo, nel cui ambito l’una ignora tendenzialmente le emergenze dell’altra, sicché, per armonizzarne gli esiti in chiave terapeutica, occorre l’intervento di un sapere di rango superiore destinato a fare ciò che esse non sono in grado di fare: cfr. sul punto le illuminanti pagine di H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, tr. It., Milano, 1994, soprattutto il saggio dal titolo Apologia dell’arte medica (anche perché, detto per inciso, la medicina ha dimenticato come suo compito specifico sia curare il malato e non debellare la malattia).
[12] Fenomenologia dello Spirito, tr. It., Firenze, 1988, vol. I, pag. 2.
[13] Op. cit., pag. 15.
[14] Non è da escludere che proprio a questa indeterminatezza, a questa non rappresentabilità siano da ascrivere le molte polemiche nate in epoca pandemica fra diversi schieramenti dell’opinione pubblica, l’uno favorevole ad una vaccinazione di massa ed obbligatoria, l’altro nettamente contrario.
[15] Intendo dire che qualsivoglia sia la determinazione che si voglia dare al diritto a non ricevere trattamenti sanitari non voluti, a seconda del punto di vista da cui lo si osservi – diritto di libertà, diritto alla salute o altro – il succo del discorso non cambia: la tutela del diritto fondamentale della singola persona umana era e rimane il luogo archimedeo dal quale prendere le mosse per giungere, alla fine del percorso, alla tutela della collettività. Invece, le norme varate e le sentenze che le hanno avallate, tramite il ricorso al bilanciamento, hanno seguito il percorso inverso, dimenticando – ed ecco la pura e perniciosa astrazione – che senza le persone la collettività non esiste, perché questa è composta da quelle e non viceversa.
[16] Il che condurrà poi, alla conclusione del racconto – pour cause - alla completa indifferenziazione fra uomini e animali.
[17] Coglie la seria problematicità della questione, ma senza individuarne in pieno la matrice teoretica, F. Rescigno, La gestione del coronavirus e l’impianto costituzionale. Il fine non giustifica ogni mezzo, in “Osservatorio costituzionale”, 2020, n. 3, pag. 1 ss..
[18] Prevengo una scontata obiezione. Si potrebbe infatti ritenere che spesso, contrariamente a quanto affermato nel testo, i diritti di libertà, pur essendo fondamentali, vengono compressi o limitati da norme di legge perfettamente legittime. Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso assai frequente in cui il diritto alla manifestazione del pensiero venga limitato dalle norme che puniscono la diffamazione a mezzo stampa. In casi del genere, a ben guardare e per quanto essi siano socialmente frequenti, nessun diritto fondamentale viene tuttavia limitato o compresso. Infatti, prevedere la punizione della diffamazione non significa in alcun modo comprimere la libertà di manifestazione del pensiero, dal momento che diffamare altri non esprime alcun pensiero autentico e degno di questo nome: esprime, al contrario, il nulla del pensiero e perciò non residua alcunché di fondamentale da limitare o da comprimere. Anzi, può dirsi di più. E cioè che i limiti che l’Ordinamento giuridico pone, non essendo destinati alla manifestazione del pensiero, ma al suo contrario – vale a dire al tralignare in altro da se, appunto in diffamazione – risultano assai utili allo scopo di individuare con maggiore chiarezza come e quanto il vero pensiero sia intangibile da chicchessia: essi perimetrano il pensiero autentico versus quello fasullo, difendendo il primo con l’arginare il secondo.
Quanto qui precisato ovviamente vale, mutatis mutandis, per ogni altro diritto fondamentale.
[19] Si tratta della prospettiva teologicamente tralatizia e sviluppata, fra gli altri, da Wilfried Harle, Dignità. Pensare in grande dell’essere umano, trad. it., Brescia, 2013.
[20] Dotato cioè di libertà e responsabilità. Cfr. qui la la nota interpretazione di F. Schiller, nel delizioso saggio - che va ben oltre un confronto con Kant - dal titolo Grazia e dignità, trad. it, 2010, Milano, pag. 59, per il quale “ Dominio degli istinti attraverso la forza morale è libertà dello spirito, e dignità si chiama la sua espressione nel fenomeno” ( corsivi non miei).
[21] Seguo la linea interpretativa di R. Spaemann, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, trad. it., Torino, 2011. In esito a queste caratteristiche, va notato come sia ingenuo predicare – come oggi si suol fare con una disinvoltura pari all’insipienza - l’estinzione della dignità in capo a chi sia rimasto disoccupato, a chi si trovi in situazione di precarietà sociale o economica, a chi abbia subito violenza morale o materiale: tutti costoro conservano infatti indistintamente la pienezza della dignità umana loro consustanziale, mentre invece eventualmente a causare un vulnus alla propria dignità saranno stati i comportamenti – appunto indegni - di coloro che siano responsabili di quelle situazioni di particolare fragilità umana e sociale. La vittima non perde mai la propria dignità: indegni sono invece gli atti del suo carnefice (e non il carnefice).
[22] Cfr. V. Mathieu, Privacy e dignità dell’uomo. Una teoria della persona, Torino, 2004, pag. 103 e ss..
[23] Nella Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Roma-Bari, 2005.
[24] Ancor più della riflessione filosofico giuridica, come spesso accade, è la pagina della grande letteratura a dischiuderci in modo inequivocabile la percezione certa della inconsistenza teoretica, morale e giuridica di ogni possibile bilanciamento fra i diritti di un solo essere umano, da un lato, e quelli dell’umanità intera, dall’altro. Cfr. F Dostojevskij, I fratelli Karamazov, tr. It., vol. I, Milano, 1964, pag. 314:
“Disse Ivan…:
- Supponi che fossi tu stesso a innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno una sola minuscola creatura, per esempio proprio quella bambinetta che si batteva col piccolo pugno sul petto, e sulle sue invendicate povere lacrime fondare questo edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni? Parla senza mentire.
- No, non consentirei, disse piano Alioscia”.
Con il che abbiamo posto una pietra tombale su ogni possibile bilanciamento. Tuttavia, si lasci ovviamente alla bravura dei nostri architetti del diritto la soluzione del dilemma del bilanciamento dei diritti fondamentali di un solo essere umano, da un lato, e della umanità intera, dall’altro, dal momento che – posti sui piatti di una bilancia – i primi pesano ben più dei secondi: almeno, nello Stato di diritto. Negli Stati totalitari, no. E comunque costoro dovranno prima vedersela non certo con me, ma con… Dostojevskij ( cosa, questa, teoreticamente abbastanza complicata).
[25] Corinzi, I.
[26] Cfr. D. Mongillo, voce Virtù teologali, in “Nuovo Dizionario di Teologia Morale”, Cinisello Balsamo, 1990, pag. 1474 ss..
[27] A null’altro che alla estinzione dello Stato di diritto conducono le recenti sentenze della Consulta citate nel testo in tema di obbligo vaccinale, semplicemente perché adottano il principio che le narrazioni evangeliche riconducono a Caifa: “ E’ meglio che muoia un uomo solo, anziché perisca tutto il popolo” ( Gv., 11, 45-56); mentre il principio assoluto che regge l’intera impalcatura dello Stato di diritto è proprio l’opposto, come sopra letterariamente rappresentato dal grande scrittore russo : “mai è lecito sacrificare o mettere a rischio un solo essere umano, sia pure allo scopo di salvare l’intera umanità”. E ciò perché dentro ogni essere umano, nessuno escluso, viene custodito l’infinito e a nessuno, per nessuna ragione, è lecito disconoscerlo o vulnerarlo. Aggiungo che la Consulta sembra aver pericolosamente dimenticato l’insegnamento che essa stessa aveva impartito con diverse sentenze degli ultimi decenni e soprattutto con la sentenza 19 Aprile 1996, n. 118, secondo la quale “nessuno può essere chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”. In altre sentenze – la n. 218 del 1994 e la n. 5 del 2018 - la Corte Costituzionale, in applicazione del principio di precauzione, afferma che il necessario rispetto dovuto alla persona umana non identifica un valore da bilanciare con altro valore, ma un criterio che presiede al bilanciamento tra l’interesse collettivo alla salute e il diritto personale alla stessa, segnando il limite oltre il quale il legislatore non può comprimere la libertà individuale, fosse anche in funzione dell’interesse collettivo. Oggi purtroppo dobbiamo contemplare una Consulta immemore di se medesima, al punto da smentire le proprie sentenze. Ne viene che per agire in conformità ai precedenti insegnamenti della Corte, l’opera di vaccinazione avrebbe dovuto essere affidata ai medici di base, i soli a poter discernere in scienza e coscienza, tenendo conto della storia clinica di ciascuno, quali soggetti vaccinare e quali no. In tal modo, sarebbe stata assicurata la salute delle persone in prima battuta e, alla fine e concretamente, della collettività intera. Invece, si è fatto il contrario, vaccinando decine di migliaia di persone al giorno, condotte presso gli hub vaccinali, come greggi al pascolo: una massa informe di soggetti – senza nome e senza volto – vaccinati da medici che, al riparo di un apposito scudo penale, nulla sapevano di loro. In tal modo, non solo si è rinnegata la scienza – inorridita da tale procedimento antiscientifico - ma si pretendeva, illudendosi, di giungere alle persone, muovendo dalle masse. In realtà, per ragioni ideologiche, spezzando l’originaria unità fra persone e legame sociale, si è spregiata la dignità umana, per privilegiare l’anonimia astratta delle masse. Un effetto inumano, oggi antigiuridicamente benedetto dalla Consulta, che, lo si sappia o no, ci avvia verso il trans-umanesimo, cioè verso la progressiva irrilevanza, fino alla scomparsa, della persona umana, come già preconizzato nelle pagine di Camus, di Chesterton, di Heidegger, di Anders e di molti altri pensatori contemporanei. Inascoltati.
[28] Vedi nota precedente.
Focus sui programmi di scambio internazionale tra magistrati - 3. La magistratura rumena tra recente passato e immediato futuro
di Andrea Apollonio
[L’articolo segue a Focus sui programmi di scambio internazionale tra magistrati - 2. Il tirocinio presso il desk italiano di Eurojust “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, I programmi di scambio internazionali tra le Autorità Giudiziarie di Marco Alma e all’Editoriale dedicato all'iniziativa]
Se è vero che la magistratura è lo specchio della società, questo vale sopratutto per quei Paesi che hanno vissuto fino a non pochi anni fa una dittatura, di qualsiasi colore essa sia stata. È vero però che, storicamente, i regimi autoritari che da ultimo sono caduti in Europa sono quelli socialisti: volendone citare i più significativi esempi, nella Germania dell'Est, in Polonia, in Bulgaria, in Romania. Proprio questo è forse il caso più interessante, essendo stato l'ultimo Paese in ordine di tempo ad approdare finalmente ad una pur embrionale democrazia, ed essendo stato l'unico ad avere bagnato nel sangue la transizione, con una rivoluzione (che è stata quasi una guerra civile) scoppiata nel dicembre del 1989 dal bilancio di oltre mille morti. Tra questi, vanno conteggiati anche Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena, monarchi assoluti di un popolo da loro stessi ridotto alla fame, fucilati dopo un processo-farsa durato appena qualche ora, con cui è stato calato il sipario su uno dei regimi più aspri e sanguinari della galassia socialista.
Come tutti gli altri corpi sociali, anche la magistratura rumena ha dovuto ben presto fare i conti con un passato ignominioso. Essa era infatti completamente soggiogata al regime, sotto il tallone di un costante ricatto: la famigerata Securitate, il corpo speciale "di sicurezza" che rispondeva direttamente a Ceausescu e spiava sistematicamente buona parte della società rumena, non esitava a rapire, torturare e far sparire tutti coloro che esprimevano un dissenso, giudici compresi. Dissenso che, in ogni caso, nella magistratura era quasi del tutto inesistente; la dobbiamo infatti immaginare come un grigio corpo burocratico parte integrante del regime, chiamato ad applicare lo spirito (socialista) della legge, più che la legge stessa; ed era notorio che la pubblica accusa fosse espressione diretta del Partito, e che tramite i pubblici ministeri si esprimesse la volontà degli oligarchi, e da ultimo dello stesso Ceausescu (una dinamica molto ben descritta, rispetto al periodo fascista, nel romanzo di Sciascia "Porte aperte" e ancor di più nel rispettivo film di Gianni Amelio). Ma questo, in Romania, accadeva fino a ieri l'altro.
Oggi, nel 2022, tra le fila del potere giudiziario non sono più annoverati i magistrati che hanno esercitato le loro funzioni nell'ultimo scorcio del regime. In Romania si può andare in pensione dopo 25 anni di servizio (e molti lo fanno, perché pare convenga), mentre dopo i 60 anni occorrono speciali permessi concessi dal Consiglio Superiore della Magistratura per prolungare, di anno in anno, la loro attività. Oggi, a conti fatti, non rimangono nella magistratura rumena né testimonianze né scomode eredità, direttamente scaturenti da quel periodo. Anche anagraficamente, essa ha chiuso col suo passato, ed appare una magistratura europea a tutti gli effetti, forse anche "più europea" di quella dei Paesi c.d. "occidentali" o comunque fondatori della Comunità. Con poche eccezioni, le toghe conoscono approfonditamente la giurisprudenza sovranazionale (CEDU e UE), la praticano consapevolmente, e quasi a riprova vengono attivati con frequenza i rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia.
Oltre il Danubio si avverte, tuttavia, una certa distanza tra le diverse generazioni che compongono il potere giudiziario. Sopratutto la "nuova" magistratura, composta dalla classe degli Ottanta, da coloro cioè che il regime non l'hanno mai davvero conosciuto e non si trascinano le zavorre culturali di un vissuto gramo e privo di aperture all'esterno, da quei giovani che praticano le lingue, che hanno fatto l'Erasmus nelle capitali europee, che conoscono bene la storia di Falcone e Borsellino, che aderiscono in massa agli scambi promossi dall'EJTN e hanno appuntato sul bavero della giacca, molti di loro, la spilla delle bandiere europea e rumena accostate: sopratutto questa magistratura difende con tenacia la propria indipendenza da un potere politico che non esita a legiferare in senso opposto.
Sotto questo profilo, molte toghe criticano aspramente (ed apertamente) una legge del 2018 che accumula un eccessivo potere sui procuratori generali della Corte d'Appello nei meccanismi di avanzamento verso i più alti livelli della magistratura. È infatti principalmente tramite le valutazioni fornite da costoro che può essere dato corso all'avanzamento in carriera. Secondo alcuni si tratterebbe di un ritorno alla procedura con cui i "superiori gerarchici" fissano i punteggi per ciascun percorso professionale, procedura antecedente all'ingresso della Romania nell'Unione Europea. Del pari, si critica la possibilità di intervento del procuratore generale nazionale sui singoli casi investigativi.
È nel confronto su questi punti (cruciali, per un potere giudiziario inquirente) che si scorge una profonda differenza - culturale, diremmo - tra "vecchia" e "nuova" magistratura. Una spaccatura tra giovani e meno giovani, che come detto si spiega anche anagraficamente e sempre attraverso la cifratura di un buio passato socialista (di per sé estremamente conservatore), che alcuni hanno vissuto, altri no.
La stessa dinamica (lo stesso confronto, lo stesso scontro tra "alta" e "bassa" magistratura: distinzione che in Italia suona anacronistica ma che in Romania, invece, esiste e si avverte) si registra rispetto ad una previsione disciplinare certamente anomala nel contesto europeo, quella cioè che consente al Consiglio Superiore della Magistura di sanzionare una decisione presa da un organo giurisdizionale in difformità alle statuizioni della Corte Costituzionale. Su questo aspetto è intervenuta, censurandola come sostanziale limitazione all'indipendenza dei giudici, tanto la Commissione Europea quanto la Corte di Giustizia, cui è seguita una pronuncia - evidentemente autoreferenziale - della stessa Corte Costituzionale, che rispediva al mittente quei rilievi e coglieva l'occasione per mettere in discussione il primato della legge europea su quella nazionale di rango costituzionale. Un dejà vu, è vero; in molti altri ordinamenti europei (compreso quello italiano) il Giudice delle Leggi - pur con varie sfumature e diversi toni - si è soffermato sulla problematica coesistenza delle Carte, nazionali e comunitarie. Solo che in questo caso il corto circuito involge l'universale principio di indipendenza della magistratura, dal potere politico e dalle sue indirette espressioni. Perché in questo modo, senza troppi giri di parole, è vista, sopratutto dai magistrati più giovani, la Corte Costituzionale di Bucarest (i cui nove membri sono eletti dal Parlamento per due terzi e nominati dal Presidente della Repubblica per il restante terzo): una sorta di moderna evoluzione dell'incestuoso rapporto tra politica e giurisdizione che affonda le sue venefiche radici nella tormentata storia del socialismo rumeno.
Rende l'idea una immagine certamente suggestiva: sia l'intero Parlamento (Camera e Senato), sia la Corte Costituzionale, coabitano la mastodontica Casa Poporului, il mastodontico edificio (il secondo più grande al mondo per estensione, dopo il Pentagono americano) fatto elevare da Ceausescu a sua immagine e somiglianza, per dare sfogo al culto della propria persona, sulle macerie del centro storico di Bucarest.
Ma la legislazione rumena presenta anche aspetti molto evoluti. Colpisce, in particolare, il modo in cui sono stati impostati i principi di trasparenza e comunicazione delle notizie di pubblico interesse negli uffici giudiziari. Come per ogni soggetto pubblico, anche per questi è richiesta la nomina di un portavoce per garantire ai media l'accesso alle informazioni; e nella prassi si organizzano periodicamente conferenze stampa con le quali vengono presentate informazioni sui procedimenti giudiziari più rilevanti. Così, in molti uffici possono trovarsi degli angoli dedicati alla comunicazione, attrezzati in tutto e per tutto: con i podi, i microfoni e i pannelli istituzionali sullo sfondo (su cui campeggia il principio costituzionale di indipendenza: "judecātori sunt independenti si se supun numai legii"). E sempre in ossequio alla trasparenza, in tutti gli uffici pubblici vengono distribuiti all'ingresso depliant e vademecum che spiegano al cittadino il modo con cui egli può accedere alle informazioni di interesse: e la giurisdizione non fa eccezione, al punto che nelle sedi giudiziarie più grandi (es. nelle Corti d'Appello) vi sono dei totem touchscreen che forniscono con estrema facilità le informazioni di tutti i procedimenti pendenti (penali, civili, amministrativi e fiscali, questi ultimi assegnati a sezioni specializzate ma sempre coltivati dalla magistratura ordinaria), ad eccezione dei procedimenti che presentano dati sensibili (es. relativi a violenze di genere o alla sicurezza dello Stato); informazioni che pure possono essere acquisite comodamente da casa, soltanto accedendo al portale dell'ufficio giudiziario (tutti hanno il loro sito web).
Queste conquiste volte ad edificare una casa di vetro in cui il potere giudiziario possa esplicarsi nel solo interesse collettivo sono il risultato, a ben vedere, della fortemente perseguita adesione all'Europa avvenuta nel 2007, punto di arrivo (e relativo punto di partenza) di un progressivo avvicinamento agli ideali democratici che l'Occidente - anche grazie agli esempi dei numi tutelari della giustizia italiana - ha espresso nel tempo. Si è fatto cenno a Falcone e Borsellino, ebbene: nei documenti istituzionali della DIICOT (Direcția de Investigare a Infracțiunilor de Criminalitate Organizată și Terorism), ufficio inquirente specializzato nel contrasto al crimine organizzato e nella cooperazione internazionale, modellato sulla scorta dell'italiana Direzione Nazionale Antimafia ed istituito proprio al fine di rendere più concreto l'obiettivo di aderire all'Unione, si celebrano apertamente i due magistrati italiani quali "eroi" della seconda metà del ventesimo secolo. Non è, la loro, una inutile enfasi, ma la scoperta (dopo il lungo sonno di regime) di un senso di giustizia che, se contrapposto ai poteri criminali d'ogni genere e specie, può e deve essere portato avanti; condotto finanche alle sue estreme conseguenze. D'altronde, non è un mistero che i rumeni da sempre guardino all'Italia come Paese dalle comuni pietre miliari, e con una (talvolta ingiustificata) ammirazione. E dal 2007 questo sguardo si è fatto molto più ampio.
Come l'Europa ha cambiato la vita dei rumeni, essa parimenti ha forgiato, quasi ex novo, un sistema giuridico, che proprio per le sue origini ed il suo sviluppo può essere analizzato come una cartina di tornasole: quale direzione indica la modernità al diritto e ai suoi operatori? Una direzione che, comunque la si giudichi, passa attraverso le più recenti pulsioni della Storia e delle sue complessità: del rapporto tra politica e magistratura da un lato, e tra magistratura e società dall'altro.
Non è e non può essere, ovviamente, la Romania, un luogo di pellegrinaggio per i dogmatici alla ricerca dei grandi edifici concettuali (come può essere l'Italia o la Germania), né dei filosofi del diritto che ricercano il "naturale" spirito della legge (come può essere la Spagna o la Germania), né, ancora, dei pragmatici devoti al parametro aziendalista ed efficientista delle indagini e del processo (come possono essere i Paesi scandinavi): ma da tutti questi Paesi della "vecchia" o comunque dell' "attempata" Europa partono direttrici che confluiscono, oggi, nella grande centrifuga dell'Est: la nuova e più fragile frontiera europea, che da oggi assume come noto il significato di barriera nei confronti delle autocrazie, delle dittature. E il mondo del diritto, come anche l'esperienza rumena dimostra, non è certo chiamato fuori da questa sfida epocale.
*Andrea Apollonio ha frequentato, dal 7 al 18 novembre 2022, un general exchange EJTN in Romania, organizzato dagli uffici del pubblico ministero presso l'Alta Corte di Cassazione e Giustizia di Bucarest e presso la Corte d'Appello di Brasov.
Riforma della giustizia tributaria tra giudici professionali e giudici supplenti
di Alessia Vignoli
La riforma della giustizia tributaria, e la scelta di un giudice professionale, hanno lasciato immutati i termini del problema su quale debba essere il ruolo del giudice rispetto ai vizi degli atti dell’amministrazione finanziaria. Anche con un giudice professionale resterà quindi l’ambigua collocazione della giurisdizione tributaria in una zona grigia tra quella civile e amministrativa, secondo l’equivoca formula dell’impugnazione merito, peraltro superabile anche a legislazione vigente.
Sommario: 1. Giudice professionale e giudice supplente: spunti di riflessione dalla riforma della giustizia tributaria - 2. Dal contenzioso tributario al processo amministrativo, oltre l’impugnazione-merito - 3. I vantaggi di una giurisdizione non sostitutiva sul modello amministrativo.
1. Giudice professionale e giudice supplente: spunti di riflessione dalla riforma della giustizia tributaria
Dopo che con la riforma della giustizia tributaria si è deciso di introdurre la figura del giudice professionale, emerge con maggior evidenza il vero tema trascurato dalla legge n.130/2022, ossia quale debba veramente essere il ruolo del giudice tributario.
L’opzione in favore del giudice professionale è stata netta e anche se troverà ostacoli lungo la sua strada[1], prima o poi troverà attuazione; tuttavia nell’individuare i tratti caratteristici del ruolo del giudice tributario, quello che va tenuto presente, al di là delle indicazioni procedurali che continuano a ricalcare il modello del processo civile, è che, comunque, si tratta di un giudice che valuta l’esercizio di una funzione pubblica (quella impositiva) e ciò dovrebbe condurre a volgere di più lo sguardo verso il modello del giudice amministrativo.
La creazione della nuova magistratura tributaria potrebbe rappresentare l’occasione per rimeditare il tema dell’impugnazione – merito, in cui il giudice tributario ha finito per assumere il ruolo di supplente dell’ufficio fiscale, sostituendosi a quest’ultimo nella rideterminazione della pretesa impositiva. Numerose sono le decisioni della Corte di Cassazione che esprimono e danno attuazione a questo principio; si consideri a mero titolo esemplificativo l’ordinanza n.39660/2021 in cui si legge che: … “In ragione della natura di impugnazione-merito del processo tributario, e del rispetto dei principi del giusto processo diretti a contenere i tempi della giustizia di cui agli artt.111 Cost., 47 CDFUE e 6 CEDU, il giudice, adito in una causa di impugnazione di cartella di pagamento, ove sia accertata l'esistenza di un titolo giudiziale definitivo che abbia ridotto la pretesa impositiva originariamente contenuta nell'avviso di accertamento presupposto, con conseguente insussistenza parziale, rispetto alle originarie pretese, del suo presupposto legittimante, non può invalidare "in toto" la cartella, ma è tenuto a ricondurre la stessa nella misura corretta, annullandola solo nella parte non avente più titolo nell'accertamento originario (Fattispecie avente ad oggetto anche riprese per tributi armonizzati)”.
Certamente nel caso di specie, riferendosi all’impugnazione della cartella di pagamento e dunque ad un atto successivo alla formazione della pretesa impositiva, la decisione è in sé condivisibile; tuttavia il riconoscimento di un ruolo “supplente” del giudice, se applicato in tutte le ipotesi in cui si deve rideterminare una pretesa in contestazione sulla base delle richieste delle parti, rischia di alterare completamente i compiti delle parti nell’attuazione della pretesa impositiva e, soprattutto, di deresponsabilizzare gli uffici fiscali.
L’approdo indiscriminato all’impugnazione-merito si è probabilmente autoprodotto per una serie di concause, a partire dalla tradizione storica del contenzioso amministrativo, riguardante la determinazione dell’imposta, e dalla sua giurisdizionalizzazione avendo riferimento al giudice civile, che forniva rispetto ad esse maggiori garanzie di indipendenza e di terzietà.
Sotto il primo profilo, la remota tradizione amministrativa delle commissioni tributarie consentiva loro la rideterminazione della base imponibile (si parlava infatti di questioni estimative), senza necessità di tornare all’ufficio fiscale; anche le commissioni erano infatti portatrici di un pubblico interesse, e non avevano alcun bisogno di rinviare la vicenda controversa ad un altro organo; ben poteva infatti l’organo amministrativo contenzioso, sovraordinato, sostituirsi al precedente, proprio grazie alla funzione che è chiamato ad esercitare con imparzialità.
Del resto l’evoluzione e le oscillazioni che la giustizia tributaria ha incontrato nel suo lungo cammino sono state messe in evidenza già in altra occasione su questa rivista[2] dove, guardando alle origini del problema, si parla del binomio giudice ordinario-organi del contenzioso, con l’autorità giudiziaria ordinaria che ad esempio nelle prime leggi post Unità d’Italia ha competenza in materia di imposte indirette (salva la possibilità di ricorrere in via amministrativa prima di proporre l’azione giudiziaria), mentre le imposte dirette sono restano riservate agli organi speciali, di natura amministrativa.
Progressivamente, spinti dall’esigenza di chiedere tutela ad un organo indipendente, e terzo e di far riconoscere natura giurisdizionale alle originarie Commissioni tributarie per ovviare alle censure di cui all’art.102 Cost., non è restato che rivolgersi al modello consolidato che consentiva di confrontarsi con la prima autorità indipendente di riferimento, individuata nel giudice civile; si è così realizzato quello che in altra sede e con altra finalità è stato definito il passaggio dal contenzioso al processo[3].
Sarebbe stato più ragionevole il passaggio dal contenzioso amministrativo al processo amministrativo, anziché al processo civile; il giudice, nella determinazione dei presupposti economici d’imposta, ha infatti assunto il suddetto ruolo sostitutivo dell’ufficio mentre, invece, detta ri-determinazione dovrebbe restare riservata all’ambito amministrativo, con le precisazioni che seguono.
2. Dal contenzioso tributario al processo amministrativo, oltre l’impugnazione-merito
È evidente come il modello dell’impugnazione-merito rischia commistioni tra funzione sostanziale e funzione giurisdizionale che nel diritto amministrativo sono ben distinte.
Come rilevato da Lupi[4], il modello più efficiente quando la controparte è un soggetto che esercita una pubblica funzione è la forma del reclamo all’autorità politica, da cui ha preso le mosse la giurisdizione amministrativa; essa infatti individua errori, senza sostituirsi alle conoscenze e alle esperienze multiformi dei diversissimi sottostanti uffici pubblici.
Nel lavoro di F.G. Scoca sull’interesse legittimo[5], la “separazione” tra il ruolo del giudice e quello dell’amministrazione mi pare ben evidenziata nella formula secondo cui: …I giudici non curano interessi; li tutelano, se ingiustamente lesi. Questo perché la cura dell’interesse pubblico spetta all’amministrazione che ne è responsabile, nel nostro caso agli uffici tributari nella determinazione dei presupposti economici d’imposta.
Sempre in ambito amministrativo la “confusione” (intendendo per tale il concentrarsi in un unico soggetto delle due suddette funzioni), quella sostanziale e quella giurisdizionale, è una ipotesi assolutamente eccezionale, come confermato dal codice del processo amministrativo; quest’ultimo all’art.7, comma 6, del D.lgs. n. 104/2010 stabilisce infatti, espressamente, che: “Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie indicate dalla legge e dall’articolo 134. Nell’esercizio di tale giurisdizione il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione”. Si tratta di ipotesi molto limitate come ad esempio in materia di contenzioso elettorale, dove vi sono delle esigenze di celerità e necessità di particolare indipendenza che rendono più opportuna tale soluzione[6].
Esiste, dunque, come autorevolmente messo in evidenza[7], una specifica disposizione che legittima, in via del tutto eccezionale, la giurisdizione di merito ossia quella in cui il giudice si sostituisce all’amministrazione.
In ambito tributario il legislatore non si è soffermato sul punto, ma questo non può essere certo interpretato come l’indiscriminata eventualità che, nel silenzio della legge, il giudice possa sostituirsi all’ufficio fiscale.
Certo la recente riforma della giustizia tributaria avrebbe potuto cogliere l’occasione per affrontare anche il tema della sostituzione del potere giurisdizionale a quello impositivo, invece di soffermarsi prevalentemente sulla figura e sull’inquadramento di carriera del giudice. Si sarebbe potuto riflettere non solo su chi deve essere il giudice tributario, ma soprattutto cosa deve fare. Tuttavia non è affatto imprescindibile un intervento del legislatore, che spesso anzi porta più danni che vantaggi, come si vede a proposito delle modifiche all’art.7 del D.lgs. n.546/1992 con l’inserimento del comma 5 bis[8]. sull’onere della prova[9].
L’inadeguatezza a sostituirsi agli uffici tributari non non è tanto questione di attitudine o professionalità del giudice, che riesce a districarsi agevolmente con questioni di liquidazione dei dati dichiarati (come ad esempio il mancato versamento di imposte dichiarate, deducibilità di oneri e spese personali, detrazioni varie, redditi non dichiarati da contratti registrati, o segnalati dai sostituti) oppure nelle controversie su “tributi minori” o con la determinazione delle rendite catastali o con le c.d. questioni di rito (ad esempio riguardanti la corretta notifica degli atti impositivi)
Spesso si tratta di pratiche di importi di ammontare non elevato, ma che sono le più numerose in materia tributaria o che comunque possono essere agevolmente risolvibili attraverso riscontri documentali o basandosi su una formazione giuridica di base per ovvie ragioni richieste a chi ricopre una carica giurisdizionale. Anche se ad onor del vero la maggior parte di queste cause non dovrebbero neanche arrivare ad impegnare la funzione giurisdizionale, potendo benissimo essere affrontare nella sede più opportuna ossia quella amministrativa in fase di riesame.
La mediazione ai sensi dell’art. 17 bis del D.lgs. n.546/1992 ha cercato di rimediare a tale fenomeno di “ingolfamento” della giustizia tributaria, ma ancora una volta non ha fatto altro che testimoniare la necessità di un intervento legislativo, anche quando le cose potrebbero essere gestite, proprio perché vi è coinvolto un soggetto pubblico, attraverso il corretto esercizio di una funzione, con il giudice che interviene solo in via residuale come clausola di salvaguardia.
Considerare l’intervento del giudice come una tappa obbligata, può andare bene nel caso della risoluzione delle controversie privatistiche, comprese quelle che coinvolgono amministrazioni pubbliche nella loro attività contrattuale. L’intervento del giudice rappresenta invece un appesantimento nel momento in cui il privato si confronta con una pubblica funzione, nel nostro caso quella impositiva.
La necessità di distinguere la funzione giurisdizionale da quella sostanziale impositiva è più evidente nelle controversie in cui si tratta di stimare l’evasione per le piccole attività di commercio e servizi al consumo finale o quando si tratta di affrontare le questioni interpretative specialistiche delle grandi aziende. E sono proprio questi gli ambiti in cui il giudice incontra le maggiori difficoltà, finendo per orientarsi in favore del fisco (che comunque è e resta la parte “pubblica” della vicenda).
Infatti, se il giudice in un processo sbrigativo come quello tributario (che ricordiamolo si esaurisce spesso in un’unica udienza) per giudicare deve sostituirsi all’ufficio che dalla sua magari avrà effettuato le indagini come riportate nel PVC, sarà naturalmente e comprensibilmente orientato a dare ragione alla parte pubblica se il contribuente non riesce ad evidenziare un vizio “forte” dell’atto impositivo.
Trovo evocativa un’espressione frequentemente contenuta nei testi di Lupi secondo cui: giudice frastornato ricorso rigettato; perché nell’impugnazione-merito se il giudice non è in grado di sostituirsi agli uffici fiscali nella determinazione dell’imposta, finirà per avallare l’atto impositivo.
Non è un caso se le controversie specialistiche o in cui si tratta di compiere valutazioni siano quelle con un alto tasso di vittoria del fisco e questo accade anche dinanzi alla Corte di Cassazione, circostanza che sta a testimoniare il giudice a tempo pieno non sia una variabile determinante quando il giudice è sotto una pressione quantitativa senza che gli sia chiaro il retroterra della causa.
Questo stato di cose non viene minimamente scalfito da espressioni come la parità delle parti, la nuova concezione dell’onere della prova ecc, in quanto si tratta di condizionamenti ambientali comprensibili, evitabili solo rimeditando il pregiudizio dell’impugnazione-merito.
3. I vantaggi di una giurisdizione non sostitutiva sul modello amministrativo
Gli inconvenienti di cui al termine del punto precedente sarebbero molti di meno se la giurisdizione tributaria si limitasse al controllo della determinazione dell’imposta, senza la suddetta sostituzione dei giudici agli uffici; sarebbe una soluzione in linea col resto della giurisdizione sulle altre funzioni pubbliche, laddove è doveroso, emettere un nuovo atto, tenendo conto delle indicazioni della sentenza di annullamento[10]. I pratici del diritto tributario a questo punto obiettano che il potere dell’ufficio fiscale deve essere esercitato entro un termine stabilito a pena di decadenza, tuttavia se l’atto (sebbene annullato) sia provvisto degli elementi essenziali, compresa la motivazione, non vi è nessuna disposizione che ne vieti la riemissione.
Questa soluzione consentirebbe anche di dare attuazione concreta a tutte quelle norme procedurali (ad esempio diritto al contraddittorio, rispetto di termini procedurali, l’obbligo di valutazione delle osservazioni al PVC) che finiscono per restare lettera morta perché altrimenti rischierebbero di travolgere un accertamento fondato nel merito. Questi passaggi “procedurali”, di cui il contribuente lamenta la mancanza, potrebbero avvenire anche a posteriori, con una rideterminazione dell’imposta nei limiti della motivazione del primo atto.
L’impugnazione merito impone, invece, all’interno dell’atto impugnato, rielaborazioni troppo articolate e fuori dalla portata del giudice sia come competenze che come tempi. Per questa ragione sarebbe auspicabile che il giudice, resosi conto dei vizi, annulli l’atto, e l’ufficio tributario proceda a una rideterminazione dell’imposta dovuta nei limiti nella materia del contendere così come determinata dalla parti (con motivazione e motivi di ricorso).
La giurisdizione sulle funzioni non giurisdizionali, come quella tributaria, deve in sostanza correggere ed orientare l’azione amministrativa, in funzione di efficienza e correttezza. Annullando gli atti, o comunque rispedendoli al mittente suggerendogli la strada corretta da seguire il giudice tributario porrebbe le basi per una amministrazione finanziaria migliore.
[1] Si pensi ad esempio all’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della CGT di Venezia n. 408/2022 con la quale sono stati sollevati diversi profili di legittimità costituzionale della riforma tributaria (primo fra tutti la dipendenza amministrativa e strutturale dal MEF).
[2] Cfr. D. Pellegrini, La giustizia tributaria tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali: le oscillanti scelte di politica giudiziaria e i motivi della diffidenza verso la giurisdizione ordinaria, in Giust.insieme del 17/12/2020. Ad esempio è stato evidenziato che la legge sull’imposta di ricchezza mobile del 14 luglio 1864, n. 1830 ha istituito il doppio ordine di commissioni tributarie. Tali organi, anche se esteriormente assomigliano alle odierne commissioni tributarie, sono indubitabilmente organi amministrativi per di più preposti all’accertamento delle imposte piuttosto che alla risoluzione del contenzioso. E contro i loro provvedimenti non era possibile il ricorso all’autorità giudiziaria (possibilità di ricorso che verrà introdotta un anno dopo, e per la prima volta, solo nella legge sui fabbricati del 26 gennaio 1865, n. 2136).
[3] C. Consolo, Dal contenzioso al processo tributario. Studi e casi, Milano, 1992.
[5] Mi riferisco a F.G. Scoca, L’interesse legittimo: storia e teoria, Torino, Giappichelli, 2017, 185.
[6] Per i profili essenziali del contenzioso elettorale cfr. P. Sandulli, Il contenzioso elettorale (regolato dal Codice del processo amministrativo) in Judicium del 9/12/2020.
[7] Sul carattere eccezionale della giurisdizione di merito e i suoi contenuti salienti cfr. per tutti A. Police, Le forme della giurisdizione in F. G. Scoca (a cura di), Giustizia Amministrativa, Torino, 2020, 110 ss.
[8] Sul tema si veda G. Moschetti, Il comma 5 bis dell’art.7 D.lgs. n.546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo, Riv. Dir. trib. – supplemento telematico 28 gennaio 2023.
[9] Sul tema, senza pretesa di esaustivitá e per i richiami ad altra dottrina, si rinvia a F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, p. 81, ora in Scritti scelti di diritto tributario, vol. II, Torino, 2022, 272 e S. Muleo, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 603ss.
[10] È il caso ad esempio della rivalutazione nei concorsi pubblici.
Gli approfondimenti della riforma Cartabia - 9. L’imputato del giusto processo (ovvero degli articoli 581, commi 1-ter e 1-quater, cod. proc. pen.) di Carlo Citterio
Il presente articolo si inserisce nella serie di approfondimenti dedicati da Giustizia Insieme (v. Editoriale) alle novità introdotte dalla riforma Cartabia nella materia penale. Di seguito i precedenti contributi:
1. Le nuove indagini preliminari fra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità
3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
6. Riforma Cartabia e pene sostitutive: la rottura “definitiva” della sequenza cognizione-esecuzione
8. Prime riflessioni sulla nuova “revisione europea”
Sommario: 1. I ‘tipi’ dei soggetti del procedimento secondo il giusto processo: qual è il tipo/imputato del giusto processo. - 2. La dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. - 3.1. Lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale (art. 571, comma 3, seconda parte, testo originario). - 3.2. La grande dimenticata: la procura speciale per l’impugnazione (571, comma 1). - 3.3. Le conseguenze del contrasto SU/Corte costituzionale sulla consumazione del diritto dell’imputato ad impugnare. - 4. Obbligo deontologico, responsabilità professionale e impugnazione in favore dell’imputato inconsapevole. Il ‘colloquio’ tra giudice e difensore sui contatti con l’imputato? - 5. L’imputato consapevolmente disinteressato e il giusto processo.
1. I ‘tipi’ dei soggetti del procedimento secondo il giusto processo: qual è il tipo/imputato del giusto processo.
Quando parliamo di giusto processo (art.111.1 Cost.) il pensiero corre subito alle norme del procedimento e del processo.
Credo utile anche una riflessione sui ruoli: imputato, pubblico ministero, difensore, giudice, persona offesa.
In particolare: esiste per ciascuno di questi ruoli un ‘tipo’ considerabile alla luce del giusto processo o, in termini diversi, quando enuncia i propri principi il giusto processo si parametra ad un determinato ‘tipo’ di imputato, pubblico ministero, difensore, giudice, persona offesa?
Ed allora, qual è l’imputato del giusto processo, in altre parole l’imputato/parametro che i principi del giusto processo presuppongono? Quali le sue caratteristiche ‘normali’? (e sarebbe interessante domandarsi poi quale sia il parametro/tipo di pubblico ministero, difensore, giudice, che i principi del giusto processo presuppongono).
2. La dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio.
Uno dei punti della riforma Cartabia che ha suscitato le maggiori reazioni dell’Avvocatura è quello di due delle condizioni che i nuovi commi 1-ter e 1-quater dell’art. 581 pongono per l’ammissibilità dell’atto di impugnazione (appello e ricorso per cassazione). Con l’atto di impugnazione delle parti private e dei loro difensori deve essere depositata la dichiarazione o l’elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio. Quando nel grado precedente del processo si è proceduto nei confronti dell’imputato ‘assente’ l’atto di impugnazione del difensore deve essere accompagnato sia dalla dichiarazione/elezione di domicilio che da un mandato specifico ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (per tale dovendosi intendere ovviamente già la mera pubblicazione del dispositivo).
Per la dichiarazione/elezione di domicilio la norma non prevede invece che il rilascio sia successivo alla pronuncia della sentenza.
Le due norme dispongono quindi il deposito contemporaneo dei due documenti atto di impugnazione e dichiarazione o elezione di domicilio/mandato speciale ad impugnare), con la conseguenza che, in ogni caso, solo se il secondo documento sarà depositato entro la scadenza del termine per impugnare l’impugnazione sarà (quanto a questo aspetto) ammissibile.
Va preso atto che, condivisibilmente, la scelta del legislatore è stata quella di evitare alcun automatismo con una imposta/presunta elezione di domicilio presso il difensore che assiste l’imputato, quantomeno se di fiducia, dopo la proposizione dell’impugnazione, perché comunque foriero di potenziali problematiche sull’effettiva conoscenza della successiva citazione per quanto attiene all’evoluzione possibile del rapporto e ad un efficace contatto tra difensore (pur diligente) ed assistito.
Si è già ricordato che per la dichiarazione o elezione di domicilio (che appunto va depositata anche quando l’atto sia materialmente redatto e depositato dal difensore) non è prevista l’acquisizione dopo la pronuncia della sentenza. In realtà, per logica sistematica, essa dovrebbe essere successiva alla deliberazione della sentenza impugnata o, comunque, essere rilasciata da imputato consapevole della sua destinazione alla trattazione del processo di appello : infatti è appunto finalizzata a consentire la efficace e tempestiva citazione per quel giudizio di appello che proprio dall’imputato e nel suo interesse è espressamente richiesto.
È stato detto che nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado è lo Stato che deve cercare la persona nei cui confronti si procede e informarlo dei passaggi essenziali in particolare della fase processuale, ma quando appellante è la parte privata, che è pertanto il soggetto processuale che attiva il secondo grado di giudizio, che era e rimarrebbe, ovviamente su tale piano sistematico, francamente poco comprensibile che l’ ‘attore’ possa discrezionalmente sottrarsi al tempestivo rintraccio per atti che sono indispensabili per giungere a quel giudizio rivisitante che proprio, ed eventualmente solo, lui ha chiesto. Si è risposto con il principio che difendendosi comunque da un esercizio di azione penale, anche nel giudizio di appello, sarebbe improprio richiedere la ‘collaborazione’ dell’imputato pur solo per la trattazione del secondo grado di giudizio.
Pare opportuno in proposito osservare che, depurata la questione da approcci sostanzialmente ideologici, qui il tema dell’imputato/tipo considerato dal giusto processo mostra tutta la sua attualità ed autonomia: la domanda infatti diviene se pretendere che chi propone appello o ricorso [i] indichi dove può essere trovato per la necessaria convocazione sia norma davvero incoerente, o addirittura ostile, ai principi del giusto processo nella prospettiva anche dei canoni e della giurisprudenza europei.
In realtà, la complessiva disciplina della citazione al e della trattazione del giudizio di appello rende palese che l’onere per chi chiede il giudizio di impugnazione di indicare il suo recapito effettivo ed efficace per l’ulteriore corso, oltre che pretesa certo non palesemente illogica è la precondizione del funzionamento del complesso del nuovo articolato sistema. Si pensi infatti al deposito solo informatico dell’atto di impugnazione o sua presentazione cartacea a cura della parte o suo incaricato presso l’ufficio che ha pronunciato la sentenza che si impugna [ii]; all’aumento di quindici giorni dei termini per impugnare nel caso di imputato assente; ai quaranta giorni quale termine per comparire; ai due anni o all’anno – a regime – entro i quali tendenzialmente deve intervenire la definizione; al fatto che l’inizio del decorso di tale termine di durata massima del giudizio di impugnazione probabilmente avverrà spesso quando il fascicolo non è ancora pervenuto al giudice di appello o di cassazione. Sono tutte norme e previsioni che presuppongono la possibilità di immediato contatto dell’appellante.
È noto che sul tavolo del ministro Nordio pende già un’articolata richiesta di modifica di tale disciplina. Sul punto quindi quanto mai attuali degli approfondimenti.
3.1. Lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale (art. 571, comma 3, seconda parte, testo originario).
È utile ricordare che il codice Vassalli prevedeva, già dal testo originario, proprio lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale [571, comma 3, seconda parte: “Tuttavia, contro una sentenza contumaciale, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste]. Si tratta quindi di esigenza già sentita e condivisa fin dall’impostazione di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo avanzato processo di parti, il processo accusatorio: nell’impostazione teorico sistematica di quel processo accusatorio quindi si era considerato pienamente coerente l’onere per l’imputato di conferire il mandato speciale per l’impugnazione che apriva un nuovo grado del giudizio su sua richiesta.
È significativo che la ragione dell’introduzione del mandato speciale ad impugnare, nel caso di impugnazione in favore dell’imputato contumace, era stata indicata nella relazione accompagnatoria, e da alcuna dottrina, nell’intento di evitare effetti preclusivi in danno dell’imputato per la sua volontà di impugnare autonomamente la sentenza (Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.46).
La necessità del mandato speciale venne esclusa dopo dieci anni, dall’art. 49 della legge 479/1999.
È interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione non fu un ripensamento della correttezza sistematica dell’istituto ma, solo, di consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato. Quindi non venne affatto messa in discussione la coerenza sistematica del principio che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale ma, pare evincersi, si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad uno specifico atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, poteva non modificare la natura ufficiosa dell’assistenza legale limitandosi a legittimare il difensore al singolo atto), appariva almeno potenzialmente difficoltosa. Da qui l’eliminazione del mandato per tutti i difensori, anche nominati di fiducia [iii].
3.2. La grande dimenticata: la procura speciale per l’impugnazione (571, comma 1).
Credo davvero utile che il confronto sul tema si apra anche a considerare l’impatto, su di esso, della procura speciale tuttora prevista dall’art. 571, primo comma.
Tale norma, riprendendo del resto la disciplina dell’art. 192, primo comma, del codice di procedura penale del 1930, stabilisce che l’imputato possa proporre impugnazione anche per mezzo di un procuratore speciale, nominato anche prima della emissione del provvedimento.
Quindi, oggi, l’appello, nel caso di imputato presente, può essere proposto dall’imputato personalmente o dall’imputato a mezzo procuratore speciale o dal difensore. Nel di imputato nei cui confronti si è proceduto in assenza, dall’imputato personalmente o dall’imputato a mezzo procuratore speciale nonché dal difensore se munito di mandato speciale [iv].
Già nel 1995 la Corte di cassazione aveva evidenziato la differenza tra mandato speciale a proporre impugnazione, rilasciato al difensore, e procura speciale per proporre (in proprio) impugnazione.
Sez. 6, Sentenza n. 2320 del 07/06/1995 Cc. (dep. 17/08/1995), imp. Pirani, aveva infatti precisato che “Mentre il mandato speciale a proporre impugnazione non può essere rilasciato dall'imputato al difensore con riferimento all'eventuale mandato di contumace in un momento anteriore all'emissione della sentenza, analogo limite non sussiste per la procura speciale, la quale può essere rilasciata in via preventiva, in epoca anteriore alla pronuncia del provvedimento e per l'eventualità che si verifichino le condizioni per l'espletamento dell'atto che della procura medesima costituisce l'oggetto”.
È importante evidenziare che mai si è dubitato che la procura speciale ad impugnare, diversa dal mandato specifico ad impugnare, potesse essere rilasciata anche al difensore [v].
Evidenti le implicazioni, se la ricostruzione proposta è condivisibile: oggi in favore dell’assente in realtà il difensore, di fiducia o anche d’ufficio, può proporre appello o in ragione del mandato specifico ad impugnare rilasciato dopo la pronuncia del pur solo dispositivo ovvero perché nominato procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1, con atto anche precedente tale pronuncia purchè indicante specificamente l’ambito impugnatorio della procura.
Ciò significa, in concreto, che il difensore, anche d’ufficio, che dubiti della possibilità di farsi rilasciare dall’assistito lo specifico mandato ad impugnare del comma 3 dell’art. 571, dopo la pronuncia della sentenza, o anche solo per cautela organizzativa, può proporre all’assistito di essere destinatario di una procura speciale rilasciata prima della deliberazione del primo grado per l’eventualità che, sulla base di criteri spiegati e concordati sia opportuno o necessario impugnare la pronuncia di primo grado.
Si tratta di riflessione che appare avere una rilevanza tutt’altro che secondaria quando si vanno ad esaminare le ragioni della contrarietà alla disciplina dell’art. 571, comma 3, che vengono dedotte.
3.3. Le conseguenze del contrasto SU/Corte costituzionale sulla consumazione del diritto dell’imputato ad impugnare.
L’appello proposto dal difensore quale procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1 (quindi esercitando il potere proprio dell’imputato) avrebbe questa peculiarità importante: impedirebbe la vanificazione dei gradi del giudizio che si produce invece con la sua nuovamente sollecitata e richiesta possibilità di una sua impugnazione autonoma anche nel caso in cui l’assistito nulla sappia della presentazione dell’impugnazione, quindi impugnazione proposta quale difensore senza procura e senza mandato speciale di imputato che ignori la pendenza dei giudizi di appello e di cassazione.
La previsione del mandato speciale ad impugnare introdotto per l’imputato processato in assenza dall’art. 581, comma 1-quater, è stata determinata anche dalle ancora attuali conseguenze cui ha condotto il contrasto Sezioni Unite/Corte costituzionale: la sistematica sostanziale vanificazione dei gradi di giudizio di impugnazione attivati per iniziativa autonoma dei difensori, quando questi apparentemente non avevano avuto, e non hanno, previo contatto con gli assistiti in favore dei quali propongono l’atto di impugnazione.
Come noto il contrasto è intervenuto sul tema dell’unicità del diritto di impugnazione e quindi sulla sua possibile definitiva consumazione da parte del difensore (di fiducia o di ufficio). Le Sezioni Unite (sentenza 6026/2008) avevano affermato che l’impugnazione proposta dal difensore nell’interesse dell’imputato contumace (o latitante) precludeva alcuna restituzione in termini dell’imputato per (ri)proporre l’impugnazione già proposta e deliberata. Corte costituzionale sent. 317/2009 prende atto di tale diritto vivente e giudica la soluzione contraria alle regole costituzionali, concludendo che “è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la restituzione dell'imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato”.
Orbene, nel caso di impugnazione proposta dal difensore quale procuratore speciale ai sensi dell’art. 571, comma 1, la giurisprudenza di legittimità ha già insegnato che con tale procura speciale l’imputato consuma il proprio diritto ad impugnare (L'imputato che, dopo una sentenza emessa in contumacia nei suoi confronti, conferisce al proprio difensore procura speciale per proporre impugnazione, è privo di legittimazione a chiedere o a far chiedere dal suo fiduciario di essere rimesso in termini per impugnare autonomamente la decisione, nonostante la mancata notifica dell'estratto contumaciale, essendosi spogliato, mediante il rilascio della delega, del proprio diritto all'impugnazione: Sez.6, sent. 10537/2017).
Quindi, la soluzione della procura speciale rilasciata per l’impugnazione ai sensi dell’art. 571, comma 1, impedisce che i successivi giudizi di impugnazione attivati per iniziativa (delegata e nei termini di una discrezionalità di azione concordata al momento del rilascio di tale procura) possano essere messi poi nel nulla.
4. Obbligo deontologico, responsabilità professionale e impugnazione in favore dell’imputato inconsapevole. Il ‘colloquio’ tra giudice e difensore sui contatti con l’imputato?
Obbligo deontologico/etico avverso la sentenza ritenuta comunque ingiusta e timore di responsabilità professionale indifendibile sono sostanzialmente i nuclei essenziali delle ragioni del forte dissenso.
4.1.1. È certo apprezzabile l’impostazione deontologica che la classe forense richiama per sostenere una propria anche esclusiva competenza a contestare una sentenza ritenuta ‘ingiusta’, nell’interesse obiettivo pure dell’assistito non reperito e non consapevole.
Ma occorre tuttavia prendere atto quantomeno:
- della già commentata potenziale inutilità del complesso dell’attività giurisdizionale e amministrativa cui si dà in tal modo seguito ogni qualvolta le impugnazioni non siano state giudicate fondate (la casistica è ricca di vanificazione di entrambi i gradi di impugnazione, merito e legittimità, con il conseguente ripetuto mero impiego a vuoto delle non adeguate risorse, di uomini e mezzi, disponibili; né francamente si potrebbero richiedere maggior risorse per giustificare processi che poi evaporano per quelle che sono le norme vigenti);
- della ulteriore importante stretta che la disciplina dell’assenza riceve sia per il primo grado [nuovi 420-bis, 420-ter.1, 420-quater, 604.5-bis] che per il giudizio di appello [604.5-ter e 604.5-quater]. Proprio tale articolata disciplina, volta ad aumentare esponenzialmente l’aspettativa che alla regolarità formale della citazione al giudizio di primo grado corrisponda l’effettiva consapevolezza dell’interessato relativa alla trattazione processuale, contribuisce a creare le premesse fattuali per sollecitare l’attivazione dei difensori ad un contatto personale con l’assistito, che sia caratterizzato dall’articolata spiegazione del seguito procedimentale e della necessità di una non sostituibile responsabilizzazione dello stesso interessato;
- del fatto che la rivisitazione della disciplina in primo grado ha un’immediata ricaduta in quella delle questioni di nullità nel giudizio di appello [vi];
- dell’incisività della giurisprudenza di legittimità sull’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario d’ufficio e l’indagata o imputato (SU sent. 23948/2020, così massimata: Ai fini della dichiarazione di assenza non può considerarsi presupposto idoneo la sola elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio, da parte dell'indagato, dovendo il giudice, in ogni caso, verificare, anche in presenza di altri elementi, che vi sia stata l'effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l'indagato, tale da fargli ritenere con certezza che quest'ultimo abbia avuto conoscenza del procedimento ovvero si sia sottratto volontariamente alla stessa(Principio affermato in relazione a fattispecie precedente all'introduzione dell'art. 162, comma 4-bis, cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103));
- dell’introduzione dell’art. 162, comma 4-bis (con la necessità dell’assenso alla domiciliazione).
In realtà, va riconosciuto che nel giudizio di primo grado occorre ormai e quindi un’accurata conoscenza e valutazione di cosa è accaduto nel corso del procedimento e dall’epoca delle notificazioni della citazione a imputato e difensore/i e al loro rapporto. Perché non penso sia sbagliato, o eccessivo, affermare che è difficile che il giudizio di primo grado si possa dopo il d. lgs. 150/2022 ritualmente celebrare se il difensore, anche d’ufficio, non ha mai potuto avere un contatto con l’assistito, salvo forse il caso della notifica all’imputato a mani proprie e del rifiuto di costui ad avere contatto alcuno con il difensore.
Ma, in tal caso, ritorna la centralità del tema di quale sia l’imputato/tipo considerato dai principi del giusto processo: il rifiuto al contatto con il difensore che conduca all’impossibilità di impugnare una sentenza sfavorevole è condotta che, avuto riguardo all’imputato/tipo del giusto processo impone tutela anche quando conduca alla trattazione di processi di impugnazione poi vanificabili? Il rifiuto ad ogni responsabilizzazione pur nella consapevolezza delle conseguenze dannose possibili, merita o addirittura impone tutela? Si consideri che già ora il tema della colpevole mancata conoscenza è oggetto di specifiche previsioni normative (629-bis, primo comma ultima parte ed è stato oggetto della giurisprudenza di legittimità per l’applicazione dell’art. 175).
4.1.2. Le considerazioni che precedono rendono ineludibile confrontarsi con una tematica peculiare. Infatti l’esigenza di accertare l’effettiva instaurazione di un rapporto professionale biunivoco, o le ragioni della sua mancanza, pone o accentua un problema che presenta profili delicati.
Il giudice di primo grado [e quello di appello che deve valutare se sussista questa sorta di condizione ostativa alla possibilità di eccepire o rilevare la nullità] non ha né può consultare il fascicolo del pubblico ministero, per cui diviene onere del rappresentante della parte pubblica, nei due gradi, acquisire e rappresentare i fatti di possibile pertinente rilievo procedimentale che si sono verificati nella fase delle indagini preliminari e fino all’eventuale udienza preliminare. Ma, e a me pare soprattutto, nel nuovo sistema diviene nevralgica la comprensione di quale sia stato il rapporto tra l’imputato ed il suo difensore, di fiducia o di ufficio che sia, in particolare dal momento della ricezione dell’avviso di fissazione dell’udienza da parte dello stesso difensore.
E questo aspetto, essenziale nell’economia della disciplina al fine di poter affermare o escludere anche la conoscenza della pendenza del processo, è nella conoscenza del solo difensore, quando l’imputato non sia presente ovvero manchino gli elementi documentali (una nomina, un’istanza, la presentazione di un certificato medico, ecc.) dal cui contenuto si possa evincere esaustivamente, anche solo sul piano logico, il dato della conoscenza della pendenza del processo (e non già del solo procedimento), se non specificamente della data dell’udienza.
Ed allora diviene fisiologia della relazione tra giudice e parti, con la nuova disciplina, che il primo nelle situazioni di incertezza possa, o debba in realtà, interpellare il difensore su quali siano stati i suoi contatti con l’imputato dalle notifiche, per applicare correttamente la norma? Ovvero che debba essere riconosciuto uno speculare obbligo del difensore, di fiducia o di ufficio, di rappresentare al giudice di primo grado (e dedurre specificamente e analiticamente nell’eventuale motivo di appello) l’assenza di ogni rapporto e le ragioni che la hanno determinata? [vii].
Si obietta che si tratterebbe di violazione della sacralità della segretezza del rapporto tra difensore ed assistito. Ma, si dovrebbe osservare, la ‘pretesa’ non sarebbe quella di informazioni sul contenuto del rapporto, bensì solo sul fatto procedimentale dell’effettivo contatto.
Si tratta comunque e appunto di tema delicato, meritevole di approfondimento davvero ineludibile [viii], nel quale ancora una volta emerge la nuova centralità del tema del ‘tipo’ di soggetti del processo che i principi del giusto processo orientato ai principi costituzionali e di norme e giurisprudenza Cedu considerano come presupposto della loro applicazione e del loro ambito di operatività.
4.2. Da ultimo, quale responsabilità professionale potrebbe mai configurarsi quando l’imputato informato da autorità giudiziaria e polizia giudiziaria degli oneri informativi specifici che ha nei confronti del difensore (157.8-ter ultima parte e 161.01 ultimo periodo), informato specificamente dal difensore in ordine alle tematiche del processo e della sua possibile evoluzione e degli oneri per impugnare (tutto documentabile agevolmente), si sia disinteressato al proprio processo e si sia comunque e in concreto sottratto al contatto del difensore? La previsione dell’art. 157, comma 8.quater lo conferma pienamente (“L'omessa o ritardata comunicazione da parte del difensore dell'atto notificato all'assistito, ove imputabile al fatto di quest'ultimo, non costituisce inadempimento degli obblighi derivanti dal mandato professionale”).
5. L’imputato consapevolmente disinteressato e il giusto processo Torniamo alla domanda iniziale. No, l’imputato che consapevolmente si disinteressa del proprio procedimento dopo essere stato informato di contenuto e prospettive e dell’obbligo di mantenere contatto e reperibilità non è l’imputato/tipo parametro su cui il giusto processo tara i propri principi. E lo scostamento “a lui imputabile” (157.8-quater) rimane a suo danno.
[i] Va ricordato che nel caso di difensore d’ufficio anche in Corte di cassazione si procede con le notifiche personali all’imputato (613, comma 4).
[ii] Si noti, unica soluzione per evitare l’ingovernabile ‘limbo’ della spedizione per posta o dell’invio, per posta sempre, da altro ufficio, e così acquisire all’effettiva scadenza del termine per impugnare la tempestiva informazione se la sentenza è stata impugnata o è divenuta irrevocabile.
[iii] Fin d’ora è opportuno ricordare, ci si ritornerà, quanto sia cambiata da allora la disciplina e la legislazione della difesa d’ufficio e della sua relazione con l’imputato.
[iv] Per il ricorso per cassazione, stante l’esclusione del ricorso personale dell’imputato, l’impugnazione può essere proposta solo dal difensore munito di mandato speciale, se l’imputato nel giudizio di appello era assente (e quindi per tutti i giudizi celebrati con rito a contraddittorio scritto), o autonomamente se l’imputato era presente.
[v] Commento al nuovo codice di procedura penale, Utet, 1991, sub 571, p.41, 42 e giurisprudenza lì richiamata.
[vi] La dichiarazione di assenza quando mancavano le condizioni dei primi tre commi dell’art. 420-bis determina la nullità della sentenza di primo grado, che però deve essere eccepita con specifico motivo di appello altrimenti è sanata [604, nuovo 5-bis]: non può pertanto essere rilevata d’ufficio. Quando dichiara la nullità il giudice di appello dispone la trasmissione degli atti al giudice che procedeva quando la nullità si è verificata. Non sussiste comunque nullità [604, nuovo 5-bis, ultima parte] se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo ed era nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata.
[vii] In proposito potrebbe rilevare anche il peculiare dovere di verità indicato dal n. 5 dell’art. 50 del codice deontologico forense: 5. L’avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato. In altri termini, il tema del contatto informativo con l’assistito in relazione alla fissazione e trattazione del processo costituisce “fatto di cui si ha diretta conoscenza e presupposto di un provvedimento del magistrato”?
[viii] Così come quello del contenuto della discussione nel giudizio d’appello in presenza e della possibilità che il giudice indichi al difensore appellante punti e aspetti dell’impugnazione da chiarire o approfondire senza rischiare ricusazioni, ma questo è un altro tema.
Misure di prevenzione contro il dissenso: no grazie (nota a decreto Tribunale di Milano 10-19.1.2023, sez. misure di prevenzione, F.)
di Vittorio Gaeta
“Lo sforzo di tutti i poteri costituiti, dopo le esperienze della Rivoluzione francese, per accrescere i mezzi di mantenimento dell'ordine nelle strade, culmina finalmente con la soppressione delle strade stesse”
Guy Debord, La società dello spettacolo
Sommario: 1. Il caso e la sua soluzione - 2. Il foglio di via per gli antagonisti o presunti tali - 3. L'uso antidemocratico dell'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11 - 4. Le misure di prevenzione e il neofascismo: conseguenze per l'oggi - 5. Conclusione: per la libertà delle strade.
1. Il caso e la sua soluzione
Ha destato un certo scalpore, all'inizio di questo 2023, il gesto di alcuni attivisti del gruppo ambientalista “Ultima generazione” che hanno gettato vernice lavabile rossa sul portone di Palazzo Madama per sensibilizzare l'opinione pubblica. L'episodio, ultimo di vari analoghi anche internazionali, ha finito per sovrapporsi alla trattazione da parte della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano di una richiesta di sorveglianza speciale, formulata dal Questore di Pavia nei confronti di S.F., noto attivista di quel gruppo.
All'esito dell'udienza del 10 gennaio, con il provvedimento che si commenta il Tribunale di Milano ha respinto la richiesta del Questore, condivisa dalla Procura, di ritenere la pericolosità sociale del proposto ai sensi dell'art. 1 lett. c) d.lgs 159/11.
Il decreto del Tribunale di Milano richiama diffusamente gli episodi per i quali l'attivista è stato denunciato, quasi tutti consistenti in assembramenti improvvisi in luoghi pubblici di varie città, realizzati per lo più sedendosi per terra e bloccando il traffico per brevi periodi di tempo.
Il Tribunale evidenzia che nessuno degli episodi sembra avere implicato l'uso di violenza, tanto che dalle numerosissime denunce sono finora scaturiti soltanto un decreto penale di condanna per violazione di foglio di via obbligatorio (FVO) e un'iscrizione sul registro degli indagati per un'ipotesi di danneggiamento aggravato consistente nell'avere incollato uno striscione con la dicitura “Ultima generazione” al basamento di una statua posta in un museo. Di conseguenza, il giudice della prevenzione ha ritenuto che un giudizio di pericolosità non potesse fondarsi su gravi fatti accertati di rilievo penale e che in ogni caso fossero sufficienti le misure in corso, e cioè i FVO notificati all'attivista da ben sei Questure e l'avviso orale del Questore di Pavia.
La decisione, sicuramente condivisibile nel risultato finale, non elimina i motivi di inquietudine che sussistono per lo stato delle libertà civili riconosciute dal nostro Paese agli attivisti di orientamento politico, ambientale o sindacale non convenzionale – o, come suol dirsi, antagonista[1].
2. Il foglio di via per gli antagonisti o presunti tali
A un lettore non specialistico del decreto balza subito agli occhi la sproporzione tra la quantità di denunce e di iniziative di prevenzione e l'evanescenza dei fatti che ne sono oggetto.
In passato, il ricorso massiccio al foglio di via obbligatorio era contestato da gran parte della dottrina ed era oggetto di interpretazioni giurisprudenziali che lo legittimavano per le sole persone per le quali fosse possibile, in caso di reiterazione delle condotte, la sorveglianza speciale per “traffici delittuosi” (poi dichiarata illegittima da Corte Cost. nr. 24/19) o per vivenza con proventi di delitti: non quindi, ad es., per le persone dedite alla prostituzione in assenza di pubblico adescamento.
Ben diversa è la realtà attuale, nella quale il FVO è diventato uno strumento ordinario di gestione dell'ordine pubblico nei confronti di attivisti sindacali[2] e ambientalisti[3] non conformisti, insieme o in alternativa alla sorveglianza speciale di P.S. Come nel noto caso Marcucci, oggetto di Cass. pen. nr. 32903/21, la cui massima ufficiale è: “In tema di misure di prevenzione, può ritenersi socialmente pericoloso per la sicurezza e la tranquillità pubblica, ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il soggetto che risulti dedito, in maniera non occasionale, alla commissione di fatti criminosi la cui offensività sia proiettata verso beni giuridici non meramente individuali, ma connessi alla preservazione dell'ordine e della sicurezza della collettività, quali condizioni materiali necessarie alla convivenza sociale. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto indicativi di pericolosità fatti di reato di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen.)”.
Di fatto, si è creata una sorta di senso comune di normalità e correttezza del ricorso a misure di prevenzione per i problemi di ordine pubblico che possano derivare dal dissenso politico. La stessa apprezzabile remora ad adottare la più gravosa e stigmatizzante sorveglianza speciale c.d. non qualificata (che viene iscritta sul casellario giudiziale), percepibile nel provvedimento in esame, non tocca la prassi dei FVO, la cui applicazione pure è ancorata agli stessi presupposti normativi (art. 1 lett. b)-c) d.lgs. 159/11). Anche se non appare casuale l'accenno del Tribunale di Milano a possibili future assoluzioni dal reato di contravvenzione al FVO che si fondino su un giudizio di illegittimità del provvedimento amministrativo.
Non è sempre stato così. Manifestazioni di tipo politico che creassero disagi e fastidi ai non partecipanti vi sono sempre state nella storia repubblicana, e in tempi passati in forme ben più disturbanti (per usare un eufemismo) degli eventi-happening degli ambientalisti di oggi. Ma i pubblici poteri non credevano di poterle e doverle affrontare con fogli di via o sorveglianze speciali, misure che richiamavano periodi poco luminosi della nostra storia.
Per quanto democratica possa autodefinirsi e per quanto sia legittimata da un giudice, infatti, una sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per attivisti politici non è sostanzialmente diversa dal confino di polizia che veniva somministrato a certi oppositori durante la monarchia e anche prima del fascismo, specie ai tempi di Francesco Crispi.
Sin dalla seminale sentenza nr. 2/56 della Corte Costituzionale, per la quale “la pericolosità in riguardo all'ordine pubblico non può consistere in semplici manifestazioni di natura sociale o politica, le quali trovano disciplina in altre norme di legge”, l'ordinamento repubblicano ha dato per assodata la possibilità di colpire il dissenso radicale verso gli orientamenti politici dominanti solo con il diritto penale, se si concretizza in reati, e non con misure di prevenzione fondate su un giudizio di pericolosità.
Al contrario, oggi si tende a dare per scontato che la contestazione radicale del sistema si giustifichi solo nei confronti di regimi autoritari, mentre sarebbe intrinsecamente antigiuridica nell'ambito di uno Stato democratico che garantisce i diritti fondamentali.
Sia sul piano concettuale che su quello storico, tuttavia, il discrimine tra dittatura e democrazia non è sempre netto ed evidente, e viene ridefinito ogni giorno nella vita pubblica: si pensi alla democratura turca, nella quale pesanti misure repressive della minoranza curda e di certe opposizioni coesistono con l'amministrazione delle principali città da parte di sindaci avversi al presidente Erdoğan.
Che lo si voglia o no, un sistema politico che espella preventivamente tutte le forme radicali di contestazione si trasforma inevitabilmente in una più o meno soave dittatura.
3. L'uso antidemocratico dell'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11
Lo strumento normativo con il quale si attua la distorsione antidemocratica delle misure di prevenzione è costituito dall'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11, norma alla quale - dopo che Corte Cost. nr. 24/19 ha dichiarato l'illegittimità della prevenzione per i soggetti dediti a “traffici illeciti” - si fa crescente ricorso. E' netta la sensazione che parte delle Questure e della magistratura vogliano tenersi le mani libere per applicare restrizioni della libertà personale e di circolazione in assenza di rigorosi presupposti normativi.
Di per sé, il testo dell'art. 1 lett. c) non sembrerebbe autorizzare prassi disinvolte: esso si riferisce a “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, comprese le reiterate violazioni del foglio di via obbligatorio di cui all'articolo 2, nonché dei divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla vigente normativa, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.
Non si ha tuttavia notizia di misure di prevenzione applicate a imprenditori o faccendieri dediti alla commissione di reati contro l'ambiente, che pure offendono la sanità pubblica, mentre è sempre più frequente la tutela di “sicurezza o tranquillità pubblica” mediante l'applicazione di tali misure a persone denunciate o condannate per reati di violenza privata, lesioni, resistenza/minaccia a pubblico ufficiale, anche quando espressivi di un dissenso politico e sociale.
Eppure la norma non richiama l'offesa o messa in pericolo dell'ordine pubblico, e questo dovrebbe far pensare: il testo dell'art. 1 lett. c) si preoccupa di garantire solo i beni giuridici ben meno pregnanti della “sicurezza o tranquillità pubblica”. Difficile pensare che si sia trattato di un'omissione, anziché di una precisa scelta di un legislatore repubblicano che riteneva di poter colpire con misure di prevenzione non il dissenso radicale politico-sociale, ma solo manifestazioni di antisocialità extrapolitica.
Ancora nel recente passato la dottrina[4] segnalava il rischio della dilatazione della fattispecie dell'art. 1 lett. c) mediante l'applicazione “nei confronti di persone che esprimono il dissenso o il disagio sociale”, facendo l'esempio di richieste di sorveglianza speciale, poi rigettate, per disoccupati organizzati napoletani o anarchici bolognesi.
Sull'involuzione attuale, invece, sembra calato il silenzio. Ma non per questo si può rinunciare all'analisi critica di questi temi mediante il metodo dell'interpretazione sistematica, che pure oggi sembra soppiantato dalla mimesi rassegnata dei pulviscoli normativi. Rassegnazione della quale la realtà si vendica: la previsione ad opera del secondo comma dell'art. 5 del D.L. nr. 162/22 (c.d. anti-rave, in realtà anti-raduni) di una specifica figura di sorveglianza speciale per gli indiziati della nuova figura criminosa è stata soppressa solo a seguito del confronto parlamentare che ha saputo eliminare l'obbrobrio, senza alcun significativo contributo della scienza giuridica.
4. Le misure di prevenzione e il neofascismo: conseguenze per l'oggi
Per il legislatore repubblicano, il tabù del ricorso alle misure di prevenzione per la gestione dell'ordine pubblico e il controllo del dissenso politico-sociale era così forte che, per contenere determinati gravi fenomeni di violenza politica degli anni Settanta (di certo più allarmanti delle resistenze passive delle quali si è dovuto occupare adesso il Tribunale di Milano)[5], fu istituita con l'art. 18 co. 1° nr. 3 legge c.d. Reale nr. 152/75 una figura qualificata di pericolosità riguardante “coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista (…), in particolare con l'esaltazione o la pratica della violenza“. Norma poi trasfusa nel vigente art. 4 lett. f) d.lgs. 159/11, che ha aggiunto l'ipotesi degli atti “esecutivi” diretti alla ricostituzione del partito fascista.
Pur disponendo di una norma analoga all'attuale art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11, quindi, il legislatore repubblicano degli anni della guerra civile strisciante non la considerava applicabile agli estremisti neofascisti (e, evidentemente, agli estremisti di opposto orientamento), sì da ritenere necessaria, per il contenimento dei soggetti più pericolosi, l'introduzione di una specifica ipotesi di sorveglianza speciale, peraltro riguardante coloro che, senza limitarsi ad atti pur gravi di violenza politica, intendessero addirittura preparare la ricostituzione del partito fascista vietata dalla XII disposizione transitoria della Costituzione.
In proposito, occorre tener conto della non estraneità del principio di specialità sancito dall'art. 15 del codice penale, espressione di quello che Mantovani chiamava il ne bis in idem sostanziale, alla materia comunque collegata della prevenzione.
La sorveglianza speciale “antifascista”, prevista oggi dall'art. 4 lett. f) d.lgs. 159/11, non è di certo una species di quella generica prevista dall'art. 1 lett. c), per il semplice fatto che pur riguardando condotte all'evidenza più gravi non è maggiormente afflittiva: ha la medesima durata “edittale”, comporta le medesima possibilità di misure patrimoniali e può essere seguita da riabilitazione per buona condotta dopo il trascorrere del medesimo tempo. Anzi, l'attività preparatoria della ricostituzione del partito fascista non consente neppure l'applicazione del foglio di via obbligatorio o dell'avviso orale che invece sono possibili per le persone indicate dall'art. 1 lett. c).
Doveroso è infatti il distinguere i due casi di fatto possibili:
a) se all'estremista di destra che prepari la ricostituzione del partito fascista potesse applicarsi, in alternativa, sia la misura specifica prevista dall'art. 4 lett. f) che quella generica prevista dall'art. 1 lett. c), si rischierebbe un'ingiustificata duplicazione (bis in idem), rispetto alla quale l'estremista avrebbe anzi convenienza a dedurre l'attività preparatoria di ricostituzione del partito fascista, che essa sola non gli farebbe rischiare il FVO o l'avviso orale, ma “solo” la sorveglianza speciale;
b) se all'estremista di destra che pratichi la violenza senza progettare la ricostituzione del partito fascista si applicasse la misura generica dell'art. 1 lett. c), si rischierebbe di praticargli un trattamento identico se non più deteriore - attesa la possibilità di applicazione di FVO e di avviso orale - rispetto agli estremisti più pericolosi, portatori di quel progetto.
Bisogna ricordare che la ricostituzione del partito fascista è l'unica attività politica che nel nostro Paese è vietata anche se non esercitata con metodi terroristici o apertamente eversivi, perché pone in pericolo il sistema democratico configurato dalla Costituzione. L'esaltazione e la pratica sistematica della violenza che la caratterizzano consentono quindi di prevenirla con specifiche misure, che invece – come affermato da Corte Cost. nr. 2/56 - sono precluse per ogni altra espressione sociale o politica, nessuna delle quali è oggetto di divieto o di prevenzione, fatta salva la punizione degli autori di singoli reati.
E, sia bene evidenziarlo, neppure l'attività politica di ispirazione neofascista come tale è vietata - al di là di eventuali reati dei quali rispondono gli autori secondo le regole del diritto penale - se non si traduce in quella ricostituzione del partito fascista. Come del resto comprovato dal fatto che nessuna iniziativa giudiziaria per l'ipotesi di ricostituzione formulata in passato contro il MSI è mai pervenuta neppure alla fase del dibattimento.
La stessa attività preparatoria, poi, è soggetta a prevenzione solo se svolta con l'esaltazione o la pratica della violenza che risultino obiettivamente rilevanti: non bastano quindi condotte apologetiche o violente non finalistiche, né tanto meno manifestazioni nostalgiche come saluti romani e simili. La prassi applicativa della sorveglianza speciale “antifascista” è stata del resto saggiamente misurata e ha riguardato soprattutto soggetti attivi tra gli hooligan del calcio; di recente, si è parlato di sorvegliati speciali neofascisti in occasione dell'assalto squadristico romano dell'ottobre 2021 alla CGIL.
Ora, se è lo stesso sistema normativo formatosi negli anni Settanta e tuttora vigente a dimostrare che, in omaggio a quanto sancito da Corte Cost. nr. 2/56, i problemi di ordine pubblico creati dal dissenso politico di orientamento neofascista possono essere oggetto di misure di prevenzione solo se sfociano in atti preparatori di ricostituzione del partito fascista, e non soltanto in reati violenti come tali, non si vede perché a diversa conclusione si possa o si debba arrivare per i problemi di ordine pubblico creati dal dissenso politico di diverso orientamento, che all'evidenza non potrebbe mai sfociare in ricostituzione del partito fascista.
Quando è in gioco la libertà personale, infatti, la logica giuridica non può cedere a esigenze puramente sostanziali, magari perché ispirata - per stare al caso esaminato dal decreto in commento - al comprensibile fastidio degli automobilisti per gli eventi ambientalisti. Non sembra il caso di somministrare FVO e sorveglianze speciali a chi rallenta il traffico delle strade urbane di scorrimento, non è questo che vuole la Costituzione.
5. Conclusione: per la libertà delle strade
Il decreto in commento pone un punto fermo sull'uso delle misure di prevenzione contro il dissenso politico e sociale ma, anche a causa del suo oggetto delimitato, lascia aperti una serie di interrogativi. Il testo dell'art. 1 lett. c) d.lgs. 159/11 non menziona l'ordine pubblico, che nella logica della Costituzione è estraneo alle valutazioni di pericolosità quando riguarda conflitti sociali e politici, con l'unica eccezione della preparazione della ricostituzione del partito fascista, e ovviamente del terrorismo e dell'aperta eversione. I reati vanno perseguiti, ma le strade dovrebbero tornare occupabili senza rischio di foglio di via obbligatorio anche per la dimensione pubblica, e non per il solo scorrimento delle merci e dei loro portatori. Come avevano immaginato, alla fine del periodo più confuso e vivace della storia repubblicana, gli inni di cantanti popolari come Baglioni e Gaber.
[1] Di questo e di altri temi collegati mi sono occupato nel saggio Il ritorno del diritto di classe, reperibile in https://www.giustiziainsieme.it/it/news/74-main/93-diritto-ed-economia/2453-il-ritorno-del-diritto-di-classe
[2] Attivi nei sindacati c.d. conflittuali come ad es. i Cobas
[3] Si veda ad es. la sua applicazione (in parte poi revocata dalla stessa Questura) ad attivisti ambientalisti che il 25.7.2022 scalarono il palazzo della Regione Piemonte per esporre uno striscione e incatenarsi, perché dediti a reati che mettono in pericolo la sicurezza/tranquillità pubbliche. A seguire tali criteri, chissà quali misure si sarebbero prese nei confronti degli attivisti guidati dalla cantante Gianna Nannini che nel 1995 scalarono l'ambasciata di Francia a Roma per protestare contro degli esperimenti nucleari.
Un vivido ritratto della peculiare situazione torinese è fornito dalla giornalista Selvaggia Lucarelli sul Fatto quotidiano del 7.2.2023, nell'articolo La sindrome Pd: lotta per Cospito e ignora i ragazzi coi megafoni.
[4] Menditto, Le misure di prevenzione personali e patrimoniali, vol. I, pagg. 133-134, ed. Giuffré, 2019.
[5] Anche se il Questore di Pavia è giunto a parlare, per la protesta davanti all'ingresso del teatro alla Scala di Milano (cfr. pag. 9 del decreto), nientemeno che di “sacralità del luogo”.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.