ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Promozione dell’energia rinnovabile e tutela del patrimonio culturale: verso l’integrazione delle tutele (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167)
di Antonio Persico
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La vicenda contenziosa. – 3. Sul bilanciamento degli interessi primari. 4. – La violazione del principio di proporzionalità. 5. Lo sviluppo sostenibile attraverso l’ integrazione delle tutele. – 6. Conclusioni.
1. Introduzione.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, nella sentenza n. 8167 del 23 settembre 2022, ha sindacato gli atti con cui il Ministero della Cultura ha imposto prescrizioni di tutela indiretta ai sensi dell’art. 45 del Codice dei beni culturali e del paesaggio su aree nelle quali era già stata autorizzata la realizzazione di impianti per la produzione di energia da fonte eolica. Interessante osservare come la scelta discrezionale dell’amministrazione preposta alla tutela del patrimonio culturale sia stata censurata, da un lato, per il mancato superamento dell’ultimo gradino del test di proporzionalità, e dall’altro, per il mancato rispetto del principio di integrazione delle tutele, funzionale al perseguimento dello sviluppo sostenibile.
2. La vicenda contenziosa.
La società ricorrente in primo grado, nonché appellante incidentale, aveva ottenuto due autorizzazioni uniche ai sensi dell’art. 12 del decreto legislativo n. 387 del 2003, per la realizzazione di pale eoliche in due distinte località. Nelle conferenze di servizi tenutesi nell’ambito dei procedimenti autorizzativi, la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Molise aveva espresso il proprio parere negativo alla realizzazione degli impianti, adducendo la presenza di beni culturali e paesaggistici in aree limitrofe e la necessità di scongiurare interferenze visive. Una volta rilasciate le autorizzazioni, la Soprintendenza avviava due distinti procedimenti di dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, i quali culminavano nella dichiarazione, da parte della Direzione ministeriale competente, dell’interesse culturale di due sistemi di croci votive e viarie, ai sensi degli artt. 10, commi 1 e 3, lettera a) e 13 del d.lgs. n. 42 del 2004, con contestuale individuazione delle aree territoriali da assoggettare a tutela indiretta, ai sensi degli articoli 45, 46 e 47 del medesimo decreto. Sennonché, tra le aree sottoposte a tutela indiretta ricadevano anche quelle interessate dalla realizzazione degli impianti eolici autorizzati. In particolare, i provvedimenti del Ministero, in ragione dell’ «esigenza di evitare che siano alterate le condizioni di contesto ambientale e di decoro, nonché di prospettiva e visuale, delle croci votive e viarie sottoposte a tutela, oltre che di scongiurare rischi all’integrità di ciascuno dei manufatti», imponevano prescrizioni particolarmente stringenti, che proibivano «la trasformazione, sia a carattere permanente che temporaneo, dell’aspetto esteriore dei luoghi ricompresi nell’ambito del vincolo indiretto», nello specifico vietando «l’apertura di cave, la posa in opera di condotte per impianti industriali e civili, la realizzazione di palificazioni».
In prime cure, il TAR adito annullava i provvedimenti ministeriali, ritenendoli viziati per difetto di istruttoria e motivazione, in quanto fondati su una superficiale ricostruzione dell’interesse storico-culturale oggetto di tutela, in mancanza di un «preciso richiamo a contributi specialistici e studi capaci di dare obbiettiva e verificabile sostanza alle valutazioni proprie dell’Amministrazione»[1]. Di contro, in accoglimento dell’appello principale proposto dal Ministero, il Consiglio di Stato nella pronuncia in commento ritiene immuni da censure le valutazioni tecnico-discrezionali dell’amministrazione preposta alla tutela del patrimonio culturale, la quale, in presenza di un apparato bibliografico ridotto, ha correttamente proceduto in modo diretto allo studio dei beni in questione. Sorge così l’interesse all’esame dell’appello incidentale, che si appunta, tra l’altro, sulle menzionate prescrizioni di tutela indiretta, censurandone l’abnorme sproporzione, indice di sviamento della funzione.
3. Sul bilanciamento degli interessi primari.
È innanzitutto meritevole di segnalazione la chiosa introduttiva al ragionamento condotto dalla Sesta Sezione circa l’illegittimità delle prescrizioni di tutela indiretta. Si tratta di una sorta di premessa logico-giuridica allo scrutinio di proporzionalità e all’applicazione del principio di integrazione, che chiarifica, alla luce dell’interpretazione costituzionale, tanto la valenza assiologica degli interessi in campo, quanto il rapporto tra i medesimi[2]. Orbene, il Consiglio di Stato prende atto che sia la tutela del patrimonio culturale sia quella dell’ambiente, in potenziale conflitto nelle fattispecie attenzionate, costituiscono valori primari dell’ordinamento. Tale qualificazione risulta coerente con la giurisprudenza costituzionale che da tempo ha affermato il carattere primario del valore estetico-culturale protetto dall’art. 9 Cost.[3], nonché la valenza primaria e assoluta del bene ambiente, ricavato dalla lettura sistematica degli articoli 9 e 32[4] ben prima della sua positivizzazione ad opera della riforma costituzionale del 2022[5].
Il punto cruciale, evidentemente, riguarda il confronto dei valori primari con altri diritti o interessi costituzionalmente protetti, nonché con gli altri valori primari protetti dalla Costituzione. Al riguardo, la pronuncia in commento riprende le asserzioni della nota sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2013 sul caso ILVA, la quale a sua volta ha dato continuità a un orientamento giurisprudenziale risalente, quantomeno, alla sentenza n. 196/2004, in tema di condono edilizio.
Com’è noto, in una datata pronuncia, la Corte costituzionale aveva fatto discendere dal carattere di primarietà riconosciuta a determinati valori, l’insuscettibilità di subordinazione a ogni altro valore costituzionalmente tutelato[6]. Secondo una certa interpretazione di tale affermazione, la primarietà riconosciuta a un determinato valore costituzionalmente protetto implicherebbe un posizionamento gerarchico prioritario del medesimo, con necessaria e indefettibile prevalenza dello stesso su ogni altro valore sottordinato. In questo senso, l’insuscettibilità di subordinazione consisterebbe nella sottrazione ai bilanciamenti con interessi contrapposti cui è generalmente chiamato il legislatore ordinario. Un altro argomento a favore di una simile ricostruzione potrebbe peraltro provenire dall’impiego del termine “assoluto”, riferito anche di recente dalla giurisprudenza costituzionale a valori preminenti dell’ordinamento come quelli paesaggistici e ambientali[7]. L’etimologia latina dell’aggettivo (ab-solutus, sciolto da vincoli/legami) potrebbe condurre a ritenere che i valori in questione siano sottratti da ogni forma di confronto con gli altri interessi protetti dall’ordinamento, dovendo necessariamente e per l’intero prevalere su questi ultimi.
Tuttavia, la lettura gerarchica del rapporto tra valori costituzionalmente protetti è apparsa sin da subito troppo rigida, in quanto imporrebbe l’aprioristico e radicale sacrificio di altre esigenze costituzionalmente tutelate, in spregio al disegno pluralista tracciato dalla Costituzione repubblicana[8].
Inoltre, detta visione condurrebbe a una fatale impasse allorché a fronteggiarsi siano degli interessi primari, come appunto nella vicenda scrutinata dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, dove da un lato si stagliava l’interesse alla protezione del patrimonio culturale, dall’altro un blocco di interessi saldati tra loro e comprensivo dell’interesse alla salvaguardia dell’ambiente e alla promozione delle energie rinnovabili[9], oltre alle ragioni legate allo svolgimento di attività imprenditoriali (peraltro già autorizzate).
Invero, già nella sentenza n. 53 del 1991 la Corte ha riconosciuto piena cittadinanza a un «principio di gradualità nell'attuazione della tutela ambientale in ragione del complesso bilanciamento dei numerosi e contrastanti interessi in gioco», necessario a salvaguardare la continuità delle attività produttive dall’incremento degli oneri economici che deriverebbero dall’obbligo di utilizzare tecnologie non ancora disponibili sul mercato per minimizzare le emissioni inquinanti industriali. È tuttavia nella sentenza n. 196 del 2004 che i giudici della Consulta hanno chiarito espressamente le implicazioni dell’insuscettibilità dei valori primari di essere subordinati ad altri valori: la Corte costituzionale nel 2004 ha negato che l’affermazione della primarietà di un interesse implichi «un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali»; la conseguenza di un simile riferimento assiologico è piuttosto la necessità che gli interessi primari che assurgono a valori costituzionali siano «sempre […] presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni».
La sentenza n. 85/2013, richiamata dal Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, ha a sua volta chiarito, in linea di continuità con la sentenza n. 196 del 2004, che la qualificazione come “primari” di taluni valori «significa che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto». Inoltre, nel 2013, i giudici costituzionali hanno avuto modo di affermare in riferimento ai bilanciamenti involgenti suddetti valori, che spetta al legislatore trovare «il punto di equilibrio […] secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale». Celebre è infine il passaggio che afferma che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca, abbisognando di una tutela sistemica, pena «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette».
Ora, è da notare che diversamente dalla sentenza del 2004, la sentenza del 2013 si riferisce, nell’ultimo passaggio cennato, ai “diritti fondamentali” e dunque a posizioni giuridiche aventi carattere di diritto soggettivo, mentre per quanto concerne i valori primari, essa allude ai soli bilanciamenti cui è chiamato il legislatore ordinario, esigendo in ogni caso la salvaguardia del nucleo essenziale di ridetti valori. Quanto al primo aspetto segnalato, occorre tenere presente che la Corte costituzionale, con sentenza n. 58 del 2018, ha trasposto il ragionamento condotto dalla sentenza n. 85/2013 con riguardo ai diritti fondamentali al bilanciamento tra valori costituzionalmente protetti, ritenendo che possa definirsi ragionevole ed equilibrato suddetto bilanciamento allorché risponda «a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati».
Tornando alla pronuncia in commento, il Consiglio di Stato fa propri gli approdi della giurisprudenza costituzionale e li applica alle valutazioni discrezionali compiute dall’amministrazione. In tal senso afferma che « Così come per i ‘diritti’ (sentenza della Corte costituzionale n. 85 del 2013), anche per gli ‘interessi’ di rango costituzionale […] va ribadito che a nessuno di essi la Carta garantisce una prevalenza assoluta sugli altri». Data la necessaria integrazione reciproca di tutti gli interessi costituzionali, la pronuncia predica la necessità di una loro tutela sistemica, fermo restando che il carattere assiologico primario della tutela del patrimonio culturale e dell’ambiente implica che simili valori non siano interamente sacrificabili al cospetto di altri interessi e che i medesimi debbano necessariamente essere presi in considerazione nei complessi processi decisionali pubblici. Il Consiglio di Stato a sua volta aggiunge qualcosa rispetto alla sentenza n.85/2013, estendendo il ragionamento in quella sede condotto anche al bilanciamento tra interessi contrapposti cui è chiamata l’amministrazione. In tal senso si arricchisce la citazione alla sentenza n. 85/2013 con un inedito riferimento alle valutazioni che l’amministrazione deve compiere in sede procedimentale: «Il punto di equilibrio, necessariamente mobile e dinamico, deve essere ricercato – dal legislatore nella statuizione delle norme, dall’Amministrazione in sede procedimentale, e dal giudice in sede di controllo – secondo principi di proporzionalità e di ragionevolezza». L’esigenza di trovare ragionevoli e proporzionati punti di equilibrio tra interessi costituzionali confliggenti si avverte peraltro «vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi».
Su una simile aggiunta, tuttavia, può risultare utile una puntualizzazione. Il Consiglio di Stato, pur senza esplicitarlo, sembra riferirsi all’esercizio della discrezionalità amministrativa, qual è quella che impiega l’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali e paesaggistici nel dettare le prescrizioni di tutela indiretta[10]. Più controverso è stabilire se la logica della necessaria considerazione e della salvaguardia del nucleo essenziale dei valori non assegnati alla cura principale dell’amministrazione vada seguita anche in caso di discrezionalità tecnica. Sul punto viene in rilievo l’orientamento giurisprudenziale che, evidenziando come nelle valutazioni tecnico-discrezionali non sia richiesto all’amministrazione un bilanciamento tra interessi contrapposti, ammette in esito all’esercizio della discrezionalità tecnica il sacrificio integrale degli interessi non direttamente curati dall’amministrazione, quand’anche essi fossero di rilievo assiologico primario[11]. Tuttavia, in senso contrario, la sentenza del TAR Molise, Sez. I, 27 ottobre 2022, n. 392[12], richiamando testualmente la pronuncia del Consiglio di Stato in commento, ha predicato per la Soprintendenza, in sede di rilascio del parere ai fini dell’autorizzazione paesaggistica, la necessità di effettuare, nel rispetto del principio dell’integrazione delle tutele (su cui si veda infra, par. 5), una valutazione tanto «del conflitto fra gli interessi contrapposti, di rilevanza costituzionale ed equiordinata, e da coordinare in base al metodo dell’integrazione», quanto «della possibilità di comporlo con accorgimenti idonei a realizzare il loro equo contemperamento sulla base dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza».
4. La violazione del principio di proporzionalità.
A questo punto, il Consiglio di Stato è pronto a effettuare lo scrutinio di proporzionalità sul bilanciamento di interessi condotto dall’amministrazione ministeriale. Appare netta, agli occhi della sezione, l’individuazione e differenziazione dei tre step di cui si compone il test di proporzionalità (idoneità, necessarietà, proporzionalità in senso stretto). Lo scrutinio infatti, segue il modello trifasico, proprio dell’elaborazione giurisprudenziale tedesca[13], così discostandosi la sentenza tanto dal filone di giurisprudenza amministrativa nazionale che limita lo scrutinio di proporzionalità a un sindacato di idoneità e necessarietà, quanto dal filone che tende a sovrapporre lo scrutinio di proporzionalità con quello di ragionevolezza[14].
Nel caso di specie, a risultare violato è «L’ultimo gradino del test di proporzionalità», il quale «implica che una misura adottata dai pubblici poteri non debba mai essere tale da gravare in maniera eccessiva sul titolare dell’interesse contrapposto, così da risultargli un peso intollerabile». La proporzionalità in senso stretto non risulta rispettata in quanto, tenuto conto dell’obiettivo perseguito dalla Soprintendenza – la tutela culturale delle croci votive, ovvero di beni visibili soltanto a pochi metri di distanza, e rispetto alla cui visione non può in alcun modo interferire l’eventuale realizzazione di altri manufatti lontani di centinaia di metri – il mezzo utilizzato appare eccessivo, determinando «il radicale svuotamento delle possibilità d’uso alternativo del territorio».
È, quella compiuta dalla Sesta Sezione, una scelta “coraggiosa” poiché, come segnala la dottrina, il sindacato sul terzo gradino della proporzionalità avvicina il sindacato di legalità a un controllo sostanzialmente di merito sull’azione amministrativa[15]. E tuttavia, pur sempre di un controllo di diritto si tratta, visto il carattere giuridico del principio di proporzionalità. La Sezione ritiene di procedere in questa direzione probabilmente per l’avvertita indifferibilità e urgenza della transizione ecologica: essa in tal senso richiama l’indirizzo politico europeo e quello nazionale, che si connotano per il sicuro favor verso la diffusione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.
Peraltro, a discapito dell’affermazione per cui il nucleo essenziale di un interesse primario debba essere sempre preservato, la sentenza in commento sembra confermare la possibilità per l’amministrazione di sacrificare del tutto un interesse anche primario sul versante assiologico. Nel ritenere la violazione del principio di proporzionalità, la Sesta Sezione precisa che «L’interesse pubblico alla tutela del patrimonio culturale non ha, nel caso concreto, il peso e l’urgenza per sacrificare interamente l’interesse ambientale indifferibile della transizione ecologica, la quale comporta la trasformazione del sistema produttivo in un modello più sostenibile che renda meno dannosi per l’ambiente la produzione di energia, la produzione industriale e, in generale, lo stile di vita delle persone». Si tratta quindi, a giudizio del Consiglio di Stato, di un’evenienza del caso concreto, quella per cui non si debba avere il sacrificio integrale dell’interesse ambientale. Nulla esclude, anzi a contrario risulta confermato, che in diversa fattispecie l’interesse ambientale possa essere del tutto recessivo. Si ricorda a tal proposito che la sentenza n. 196/2004 della Corte costituzione, riferendosi (anche) alle decisioni cui sono chiamate le amministrazioni, si limitava a richiedere la necessaria considerazione degli interessi primari in sede di bilanciamento.
5. Lo sviluppo sostenibile attraverso l’integrazione delle tutele.
La pronuncia, come accennato, si segnala anche per il ricorso al principio dell’integrazione delle tutele. Si tratta di un principio recentemente invocato dalla dottrina a garanzia della migliore soddisfazione delle istanze di protezione ambientale[16], il quale però non ha sino a questo momento trovato emersione nelle decisioni del giudice amministrativo[17].
Tale principio è cristallizzato nell’art. 11 TFUE, il quale si riferisce alle politiche e azioni dell’Unione: nella definizione e attuazione di esse, è necessario integrare considerazioni connesse alle esigenze di tutela ambientale, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile. Mutatis, mutandis, il Consiglio di Stato ritiene che il principio vada rispettato anche dalle amministrazioni nazionali, nello specifico nell’adozione delle decisioni volte a tutelare il patrimonio culturale.
Il principio dell’integrazione delle tutele può essere visto come declinazione operativa del principio di sviluppo sostenibile, altrove invocato dalla giurisprudenza senza chiarirne il contenuto e le implicazioni giuridiche[18]. Sviluppo sostenibile del quale la dottrina ha evidenziato l’indeterminatezza o vaghezza contenutistica, la debolezza logica e assiologica[19], ovvero il carattere non radicalmente innovativo rispetto agli altri principi ordinamentali[20]: in definitiva, l’inidoneità a fungere da parametro autonomo di legittimità dell’azione amministrativa.
Peraltro, la trasposizione interna del principio di sviluppo sostenibile, a opera dell’art. 3-quater del d.lgs. n. 152 del 2006, risulta alquanto problematica: a partire dai profili stilistici (mal si addice a un enunciato normativo la formula giustificativa con cui inizia il comma 3) passando a quelli contenutistici (il medesimo comma 3 richiede di individuare un equilibrato rapporto tra risorse da risparmiare e quelle da trasmettere, sennonché, le risorse risparmiate sono le stesse che verranno trasmesse alle generazioni future). Con specifico riguardo all’esercizio della discrezionalità amministrativa, il comma 2 dell’articolo 3-quater, prescrive: «nell'ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione»: una simile formulazione sembra riproporre il tema del bilanciamento tra interessi primari, senza tuttavia nulla aggiungere alle già ricordate implicazioni del carattere primario riconosciuto agli interessi in questione, anzi preannunciando una situazione di impasse allorché siano proprio gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale a fronteggiarsi. A sua volta il comma 1 prescrive che ogni attività umana debba conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, mentre il comma 4 precisa che la risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali debba essere cercata e trovata nella prospettiva di garanzia dello sviluppo sostenibile, in modo da salvaguardare il corretto funzionamento e l'evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività umane. Orbene, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, pur prendendo atto della “formulazione ellittica” dell’art. 3-quater, riconosce in detto articolo il recepimento sostanziale del principio d’integrazione delle tutele, nella specie violato dall’amministrazione preposta alla cura del patrimonio culturale.
Orbene, il principio di integrazione consente il perseguimento dello sviluppo sostenibile e ne costituisce declinazione operativa nella misura in cui fornisce una «direttiva di metodo», volta a orientare la discrezionalità della pubblica amministrazione, la quale deve abbandonare una visione totalizzante dell’interesse primario affidato alla sua cura ed evitare di assumere posizioni meramente oppositive. Ciò a maggior ragione quando altra amministrazione abbia autorizzato sulla medesima area una determinata utilizzazione del territorio, come nel caso di specie. Il tutto nella già ricordata prospettiva del bilanciamento degli interessi, alla ricerca di punti di equilibrio rispondenti a ragionevolezza e proporzionalità. Ne consegue che «La piena integrazione tra le varie discipline incidenti sull’uso del territorio, richiede di abbandonare il modello delle «tutele parallele» degli interessi differenziati, che radicalizzano il conflitto tra i diversi soggetti chiamati ad intervenire nei processi decisionali». Risulta quindi valorizzata la funzione del procedimento, quale sedes materiae nella quale «devono contestualmente e dialetticamente avvenire le operazioni di comparazione, bilanciamento e gestione dei diversi interessi configgenti».
6. Conclusioni.
In conclusione, la pronuncia in commento ritiene illegittime le prescrizioni di tutela indiretta, in quanto apposte dall’Amministrazione dei beni culturali secondo un metodo incongruo rispetto all’esigenza di contemperamento degli interessi in gioco e teso surrettiziamente a “disapplicare” gli esiti della conferenza di servizi cui aveva preso parte la Soprintendenza, a danno dei soggetti che avevano già conseguito le autorizzazioni uniche da parte della Regione per la realizzazione degli impianti eolici. Ne deriva per l’amministrazione, in sede di riedizione del potere, la necessità di «ricercare non già il totale sacrificio dell’uso produttivo di energia pulita […], secondo una logica meramente inibitoria, bensì una soluzione comparativa e dialettica fra le esigenze dello sviluppo sostenibile e quelle afferenti al paesaggio culturale».
Resta aperto il tema accennato in coda al par. 3, relativo alla portata del principio dell’integrazione delle tutele/sviluppo sostenibile. La giurisprudenza chiarirà se esso funga da parametro di legittimità delle sole decisioni discrezionali pure dell’amministrazione ovvero se, in maniera innovativa e dirompente, esso si applichi anche alle scelte tecnico-discrezionali (nelle quali tradizionalmente si ritiene non vi siano propriamente interessi da bilanciare in concreto), come sembra invece affermare il TAR Molise.
[1] TAR Molise, Sez. I, 10 agosto 2021, n. 300.
[2] Com’è noto, il tema del confronto dell’interesse alla promozione delle rinnovabili con altri interessi costituzionalmente protetti, tra cui quello alla tutela del patrimonio culturale, è di grande attualità. In dottrina, di recente, si veda A. DI CAGNO, La produzione di energia da fonte rinnovabile: tra interesse energetico, ambientale e paesaggistico, in Riv. Giur. Amb. Dir., n. 4/2022; G. SEVERINI, P. CARPENTIERI, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione, in Giustiziainsieme.it, 22 settembre 2021; G. MONTEDORO, Il ruolo di Governo e Parlamento nell’elaborazione e nell’attuazione del PNRR, in www.giustiziaamministrativa.it, 2021.
[3] Cfr., ex multis, Corte cost. sentenza n. 151/1986. Cfr. anche Corte cost. sentenza n. 269/1995, dove, in relazione all’istituto della prelazione storico-artistica si afferma che trattasi «di un regime che trova nell'art. 9 della Costituzione il suo fondamento e che si giustifica nella sua specificità in relazione al fine di salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del paese. Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali si veda P. CARPENTIERI, Paesaggio, ambiente e transizione ecologica, in Giustiziainsieme.it, 4 maggio 2021, in particolare nota 71.
[4] Per una ricognizione in open access della giurisprudenza che ha enucleato dal testo costituzionale il valore ambiente, si vedano S. GRASSI, Ambiente e Costituzione, in Riv. quad. dir. amb., n. 3/2017; P. CARPINETO, La Tutela dell’Ambiente nella Costituzione Italiana, in Anales de la Facultad de Derecho, vol. 33, 2016; M. CECCHETTI, La disciplina giuridica della tutela ambientale come “diritto dell’ambiente”, in Federalismi.it, n. 25/2006.
[5] Sulla quale si veda L. CASSETTI, Riformare l’art. 41 Cost.: alla ricerca di “nuovi” equilibri tra iniziativa economica privata e ambiente?, in Federalismi.it, n. 4/2022; F. DE LEONARDIS, La riforma “bilancio” dell’art. 9 Cost. e la riforma “programma” dell’art. 41 Cost. nella legge costituzionale n. 1/2022: suggestioni a prima lettura, in Aperta Contrada, 28 febbraio 2022; G. MARCATAJO, La riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione e la valorizzazione dell’ambiente, in Riv. Giur. Amb. Dir., n. 2/2022; M. CECCHETTI, La revisione degli articoli 9 e 41 Cost. e il valore costituzionale dell’ambiente: tra rischi scongiurati, qualche virtuosità (anche) innovativa e molte lacune, in Forumcostituzionale.it, n. 3/2021, G. SEVERINI, P. CARPENTIERI, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione, cit.
[6] Il riferimento è ancora a Corte cost. sentenza n. 151/1986.
[7] Si veda ad esempio Corte cost., sentenza n. 246/2017.
[8] Sul necessario e continuo confronto tra i plurimi valori tutelati dalla Costituzione si veda G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992
[9] La Corte costituzionale ha infatti ricavato dal sistema l’esistenza del principio, qualificato come fondamentale, di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile. Cfr. Corte costituzionale, sentenze nn. 46/2021, 86/2019, 177/2018, 13/2014.
[10] Al riguardo, la giurisprudenza ha di recente ribadito che l’apprezzamento relativo al grado di protezione da assicurare nelle aree di tutela indiretta in concreto è affidato al nucleo della discrezionalità amministrativa, e che, una volta accertati i fatti storici, che confermano l’esistenza di territori paesaggisticamente rilevanti per plurimi profili, la scelta delle misure idonee a prevenire alterazioni o interferenze del quadro di insieme tutelato spetta, invero, indeclinabilmente all’Autorità a ciò deputata per legge, e le relative valutazioni non sono sindacabili dal giudice se non manifestamente irragionevoli o sproporzionate rispetto alle esigenze di tutela del bene (TAR Molise, I, 20 luglio 2022, n. 264).
[11] Sul punto, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2015 n. 3652: «la discrezionalità tecnica, a differenza di quella amministrativa, si concentra su un unico interesse, nel caso quello paesaggistico, attraverso la verifica in fatto della sua configurazione e trasformazione nel caso concreto. Diversamente dalla discrezionalità amministrativa, la discrezionalità tecnica non può dar luogo ad alcuna forma di comparazione e valutazione eterogenea. Nell’esercizio della funzione di tutela spettante al MIBAC, l’interesse che va preso in considerazione è solo quello circa la tutela paesaggistica, il quale non può essere aprioristicamente sacrificato dal MIBAC stesso, nella formulazione del suo parere, in considerazione di altri interessi pubblici la cui cura esula dalle sue attribuzioni».
[12] Nella pronuncia si legge che «il Collegio reputa condivisibile e pienamente applicabile alla fattispecie in esame l’orientamento del Consiglio di Stato, VI Sezione, espresso dalla sentenza n. 8167/2022».
[13] D.U. GALETTA, Il principio di proporzionalità fra diritto nazionale e diritto europeo (e con uno sguardo anche al di là dei confini dell’Unione Europea), in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 6/2019; ID., Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1998.
[14] Cfr. D.U. GALETTA, I principi di proporzionalità e ragionevolezza, in M.A. SANDULLI (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, Giuffré Francis Lefebvre, Milano, III edizione, 2020.
[15] M. D’ALBERTI, Lezioni di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, VI edizione, 2021.
[16] M. CECCHETTI, La revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione e il valore costituzionale dell’ambiente: tra rischi scongiurati, qualche virtuosità (anche) innovativa e molte lacune, in Forum di Quaderni Costituzionali, 3, 2021.
[17] Cfr. invece TAR Molise, Sez. I, 27 ottobre 2022, n. 392, che richiama la pronuncia in commento.
[18] Cfr. ad esempio TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 1 settembre 2022, n. 1376.
[19] Cfr. S. PEDRABISSI, Sviluppo sostenibile: l’evoluzione giuridica di un concetto mai definito, in Revista Ibérica do Direito, n.1/2020; E. SCOTTI, Poteri pubblici, sviluppo sostenibile ed economia circolare, in Il diritto dell’economia, n. 1/2019; G. MONTEDORO, Spunti per la «decostruzione» della nozione di sviluppo sostenibile e per una critica del diritto ambientale, in Amministrazione in cammino, 30 aprile 2009.
[20] Cfr. F. FRACCHIA, Sviluppo sostenibile e diritti delle generazioni future, in Riv. quad. dir. amb., n. 0/2010.
Il ristretto ambito di applicazione della sanatoria per “doppia conformità” di cui all’art. 36 d.p.r. 380/2001 di Luca Ramacci*
Il presente lavoro prende in esame la procedura di sanatoria degli abusi edilizi “formali” considerandone le caratteristiche e l’ambito di operatività così come delineato dalla giurisprudenza amministrativa e di legittimità, i cui interventi si sono spesso resi necessari a causa di distorte prassi finalizzate la recupero di interventi abusivi che secondo una corretta lettura dell’art. 36 d.P.R. 380\2001 sarebbero, invece non sanabili. Viene posto in evidenza come, in realtà, la disposizione in esame abbia un’applicazione molto limitata e come siano conseguentemente limitati gli effetti estintivi delle contravvenzioni urbanistiche previsti dall’art. 45 del d.P.R. 380\01.
Sommario: 1. Premessa. - 2. Presupposti della sanatoria. - 3. La “doppia conformità” in genere. - 4. La sanatoria “condizionata”. - 5. La sanatoria “parziale”. - 6. La sanatoria “giurisprudenziale”. - 7. Sanatoria degli abusi edilizi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico. - 8. Sanatoria degli interventi in zona sismica. - 9. Effetti penali della sanatoria
1. Premessa
È noto che l’atteggiamento degli enti territoriali riguardo all’abusivismo edilizio, fenomeno tipicamente italiano che non ha eguali in ambito europeo, offre un contributo determinante alla costante devastazione del territorio nazionale.
L’inerzia e, talvolta, la plateale collusione, unite a disinvolte interpretazioni di una normativa di per sé perfettibile, oltre allo sporadico uso degli strumenti che la legge mette a disposizione per contrastare gli interventi edilizi illegali, incide pesantemente sullo sviluppo urbanistico del territorio, in larga parte a rischio sismico ed idrogeologico, con conseguenze talvolta molto gravi anche per l’incolumità delle persone[1].
Non si tratta affatto di una novità, perché in termini sostanzialmente simili si esprimeva, quasi trent’anni fa, la Corte costituzionale, quando venne posta in dubbio la legittimità costituzionale della legge 724\1994 che aveva riaperto i termini del condono edilizio del 1985[2].
Affermava infatti in quella occasione il giudice delle leggi che “l'entità del fenomeno di applicazione ed utilizzazione della norma impugnata nelle varie regioni (con un introito effettivo di quasi tremila miliardi limitato alla prima fase dei pagamenti), induce a ritenere la diffusione tutt'altro che isolata del fenomeno dell'abusivismo edilizio e della persistenza delle relative costruzioni, compiute nel periodo successivo al 31 ottobre 1983 (termine di riferimento dell'art. 31, della legge n. 47 del 1985), fino alla nuova data di riferimento, 31 dicembre 1993. Ciò è avvenuto non solo per il difetto di una attività di polizia locale specializzata sul controllo del territorio, ma anche in conseguenza della scarsa (o quasi nulla in talune regioni) incisività e tempestività dell'azione di controllo e di repressione degli enti locali e delle regioni, che non è valsa ad impedire tempestivamente la suddetta attività abusiva o almeno a impedire il completamento e a rimuovere i relativi manufatti”. Va peraltro rilevato come la Corte costituzionale, evidentemente consapevole del rischio di un successivo condono, osservava che “la gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilità di condono-sanatoria con conseguente convinzione di impunità, tanto più che l’abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non segua la demolizione o la rimessa i pristino), di modo che il semplice pagamento di oblazione non restaura mai l’ordine giuridico violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale”.
La risposta a tale monito, come sappiamo, è stato il condono del 2003 e la situazione, immutata, è sotto gli occhi di tutti.
In questo desolante contesto, tuttavia, la disciplina di settore offre, nonostante i reiterati interventi modificativi, non soltanto alcuni strumenti di repressione, ma anche specifiche disposizioni per il recupero di alcuni abusi edilizi, sebbene i primi vengano pressoché ignorati o scarsamente utilizzati e le seconde interpretate con disinvoltura, ampliandone oltremodo l’ambito di operatività, come avviene nel caso della sanatoria per doppia conformità di cui all’art. 36 del d.P.R. 380/2001[3].
È appena il caso di precisare che tale istituto è del tutto differente dal “condono edilizio” di cui si è detto, in quanto quest’ultimo ha un’efficacia limitata nel tempo, essendo finalizzato alla regolarizzazione di determinati abusi edilizi realizzati entro una certa data individuata dal legislatore ed il suo effetto estintivo - che riguarda anche interventi in contrasto con gli strumenti urbanistici e produce effetti anche verso reati conseguenti alla violazione delle norme antisismiche e sulle costruzioni in cemento armato - consegue al pagamento di un'oblazione, formalizzato attraverso l'attestazione, da parte dell'autorità comunale, della sua congruità, mentre la sanatoria di cui agli articoli 36 e 45 d.P.R. n. 380/01 è destinata, in via generale, al recupero degli abusi meramente formali previo accertamento della conformità degli stessi agli strumenti urbanistici generali e di attuazione, nonché alla verifica della sussistenza di altri requisiti di legge specificamente individuati[4].
Risulta dunque evidente che l’ambito di applicazione della sanatoria per doppia conformità è estremamente limitato rispetto al condono e, come si dirà in seguito, esso è stato ulteriormente ridotto dalla giurisprudenza.
Si cercherà di chiarire, nei paragrafi che seguono, come l’art. 36 del TU subisca, nella prassi, interpretazioni distorte le quali, anche attraverso la creazione di tipologie di sanatoria mai considerate dal legislatore (sanatoria condizionata, parziale, giurisprudenziale) oppure non considerando i limiti conseguenti alle caratteristiche dell’area ove insiste l’abuso (come nel caso delle aree soggette a vincolo paesaggistico o le zone sismiche) sono finalizzate a far rientrare tra gli abusi recuperabili interventi edilizi palesemente non sanabili, evitando così la inevitabile demolizione e beneficiando indebitamente degli effetti estintivi delle contravvenzioni urbanistiche che il rilascio della sanatoria produce ai sensi dell’art. 45, comma 2 del T.U.
2. Presupposti della sanatoria
Proprio nel considerare le differenze tra sanatoria “ordinaria” e condono la giurisprudenza di legittimità ha descritto la prima, poco dopo l’entrata in vigore della legge 47/1985 che l’aveva introdotta, come un istituto di carattere generale (o di regime) qualificato da una fondamentale verifica di conformità, non disciplinato da disposizioni transitorie e caratterizzato da peculiari sbarramenti amministrativi e temporali in un contesto di rigoroso controllo della sostanziale inesistenza di un danno urbanistico[5].
Come si è detto, si tratta di una sanatoria che riguarda esclusivamente gli abusi c.d. formali e, cioè, quelli relativi ad interventi edilizi che sono stati realizzati senza titolo abilitativo pur presentando tutti i requisiti per ottenerlo, segnatamente quelli eseguiti in assenza di permesso di costruire o in difformità dal permesso medesimo ovvero quelli eseguiti in assenza di SCIA alternativa al permesso di cui all’ articolo 23, comma 1 TU Ed. o in difformità da essa[6].
È stabilito anche un limite temporale per la richiesta del titolo sanante, coincidente con la scadenza del termine di cui all’art. 31, comma 3 per la demolizione imposta con l’ingiunzione di cui al precedente comma 2; con la scadenza del termine stabilito dal dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale con propria ordinanza per la demolizione o rimozione degli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1, eseguiti in assenza di permesso o in totale difformità (art. 33, comma 1) e, infine, con la scadenza del termine fissato con le stesse modalità per la demolizione o rimozione degli interventi e delle opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire (art. 34, comma primo) e, in ogni caso, fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative la quale preclude, quindi, ogni ulteriore possibilità di richiesta indipendentemente dalla scadenza dei termini suddetti.
Legittimati a richiedere la sanatoria sono il responsabile dell’abuso, l’attuale proprietario dell’immobile, cui è richiesto il pagamento di una somma a titolo di oblazione, da calcolarsi con le modalità descritte nel comma 2 dell’art. 36 ed al quale il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato.
Limiti temporali sono imposti anche per la definizione della pratica, prevedendo l’ultimo comma dell’art. 36 che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncino, con adeguata motivazione, entro sessanta giorni dalla richiesta di sanatoria, decorsi i quali la stessa si intende rifiutata[7].
Secondo la giurisprudenza di legittimità, tuttavia, il decorso di detto termine non esaurisce il potere della pubblica amministrazione di rilasciare comunque la sanatoria, riconoscendo quindi la possibilità di un rilascio tardivo quale espressione di un autonomo potere di autodeterminazione, non escluso da alcuna previsione normativa, sempreché, ovviamente, sussistano tutti i presupposti di legge per il rilascio[8].
La questione si è posta in relazione alle disposizioni relative all’azione penale di cui all’art. 45 del TU (di cui si dirà in seguito), il quale stabilisce, al comma 1, che l'azione penale relativa alle violazioni edilizie rimanga sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria, sicché la Cassazione ha ritenuto che l'inutile decorso del termine di sessanta giorni dalla data di presentazione della domanda che determina il formarsi del silenzio - rifiuto determina, quale ulteriore conseguenza, la cessazione dell'obbligo del giudice penale di disporre la sospensione del procedimento,[9] precisando, altresì, che permane anche dopo l’entrata in vigore dell'art. 10-bis della l. 7 agosto 1990, n. 241 la quale, nei procedimenti ad istanza di parte, impone la comunicazione all'interessato dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, peraltro, la presentazione della domanda di accertamento di conformità non paralizza i poteri sanzionatori comunali e non determina, pertanto, alcuna inefficacia sopravvenuta o invalidità di sorta dell'ingiunzione di demolizione, comportando unicamente che l'esecuzione della sanzione è da considerarsi solo temporaneamente sospesa[10].
Il requisito più importante che gli interventi da sanare devono possedere è, però, quello della “doppia conformità”, essendo infatti richiesto che essi siano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente tanto al momento della loro realizzazione, quanto al momento della presentazione della domanda.
3. La “doppia conformità” in genere
L’ultima parte del comma 1 dell’art. 36 del TU Ed. delinea in maniera del tutto lineare le caratteristiche della doppia conformità e ciò non dovrebbe, in teoria, creare alcun problema interpretativo se la norma fosse letta tenendo conto della finalità dell’istituto della sanatoria che, come si è detto, è quella di recuperare gli interventi edilizi che ben avrebbero potuto essere realizzati previo rilascio di un titolo abilitativo mediante una valutazione postuma dell’autorità competente. È dunque evidente che ciò non può avvenire se non quando l’intervento edilizio abbia avuto al momento della sua realizzazione e conservi all’atto del rilascio del titolo sanante quelle caratteristiche di compatibilità con la disciplina di settore che ne rendono lecita la presenza sul territorio.
Ciò nonostante, la concreta applicazione della richiamata disposizione ha creato non pochi problemi.
Una prima questione si è posta nel confrontare il disposto dell’art. 36 TU Ed. con la previgente disciplina (art. 13 l. 47/1985), che faceva riferimento alla conformità “agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati” ed alla assenza di contrasto “con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda”, circostanza che avrebbe potuto indurre a ritenere non più rilevante un eventuale contrasto con uno strumento urbanistico ancora in itinere, pervenendo tuttavia alla condivisibile conclusione che l’adozione di un nuovo strumento determina comunque l’applicazione delle norme di salvaguardia di cui all’art. 12, comma 3 cui conseguirebbe un sostanziale contrasto con la disciplina urbanistica vigente che impedirebbe all’amministrazione competente l’accoglimento della richiesta[11]. Nella medesima occasione si è anche interpretato l’ampio e generico richiamo alla “disciplina urbanistica ed edilizia vigente” nel senso che in essa rientrano, ad esempio, i regolamenti edilizi, il programma pluriennale in corso di attuazione al momento del rilascio, le prescrizioni fissate dall’art. 9 del TU per l’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica.
Sempre con riferimento alla doppia conformità ci si è interrogati anche sull’incidenza o meno, ai fini della sussistenza del requisito, di modifiche della disciplina di settore o dello strumento urbanistico sopravvenute soltanto dopo la presentazione della domanda di sanatoria, considerando che tale evenienza non impedirebbe il rilascio del titolo abilitativo in considerazione del tenore letterale dell’art. 36, che si riferisce al momento della “presentazione della domanda”.[12]
Altro aspetto considerato è quello relativo alle caratteristiche dell’opera ed al possesso di determinati requisiti soggettivi in capo a colui che richiede la sanatoria, rilevando, sulla base di considerazioni cui si era pervenuti in altre pronunce, che per l’edificazione in zona agricola la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell’opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per l’eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria[13].
Un ulteriore aspetto che è stato preso in considerazione è quello relativo alle ipotesi di lottizzazione abusiva, osservando che in una tale situazione deve escludersi la possibilità di sanatoria urbanistica delle opere realizzate in assenza di titolo abilitativo conseguente ad accertamento di conformità, dal momento che dette opere sono senz’altro non conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, sicché le stesse non sono sanabili, così come, del resto, la stessa lottizzazione abusiva[14].
Sulla legittimità della sanatoria per i soli abusi formali si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, osservando come la sanabilità di un intervento presupponga necessariamente che non sia stata commessa alcuna violazione di tipo sostanziale, in presenza della quale, invece, non può non scattare la potestà sanzionatorio - repressiva degli abusi edilizi prevista dagli artt. 27 e ss. del TU Ed., rilevando anche che “proprio la doverosità dell'esercizio di siffatta potestà, costantemente affermata dalla giurisprudenza, rafforza quanto appena detto circa la sanabilità, attraverso gli artt. 13 e 36, delle sole violazioni formali. Non può ammettersi, infatti, a pena di introdurre una contraddizione all'interno dello stesso corpus legislativo, che il legislatore da un lato imponga all'Amministrazione di reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, dall'altro acconsenta a violazioni sostanziali della normativa del settore, quali rimangono - sul piano urbanistico - quelle conseguenti ad opere per cui non esista la cd. doppia conformità, dovendosi aver riguardo al momento della realizzazione dell'opera per valutare la sussistenza dell'abuso”[15].
4. La sanatoria “condizionata”
Considerando la nozione di “doppia conformità” di cui si è appena detto, dovrebbe essere evidente che ciò che determina la possibilità di sanatoria dell’abuso formale è, appunto, la rispondenza dell’intervento da recuperare alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione ed in quello, successivo, della sanatoria, sicché dovrebbe essere altrettanto evidente che non è possibile subordinare gli effetti del permesso di costruire postumo all’esecuzione di specifici interventi finalizzati a far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che invece non hanno.
Molto frequentemente, tuttavia, gli uffici tecnici comunali ricorrono all’illecito sistema della c.d. sanatoria condizionata per conservare abusi edilizi altrimenti non recuperabili ed assicurare a chi li ha realizzati tutti i vantaggi, anche sotto il profilo penale, che la legge assicura in caso di legittima sanatoria.
I casi più frequenti sono quelli in cui il titolo abilitativo sanante viene rilasciato subordinandone l’efficacia ad interventi da eseguire, ad esempio, per ridurne il volume renderlo conforme a quello assentibile[16] o per attribuire all’immobile caratteristiche specifiche la cui assenza impedirebbe la sanatoria[17].
Tale discutibile pratica è stata più volte censurata dalla giurisprudenza di legittimità[18], la quale ha rilevato come l’art. 36 del d.P.R. 380\01 si riferisca esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisca che la doppia conformità deve sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria, osservando anche che il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della pubblica amministrazione, consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
Si è ulteriormente specificato, in maniera inequivocabile, che la subordinazione della sanatoria a condizione è ontologicamente contrastante con gli elementi essenziali dell’istituto, perché le opere eseguite non possono, all'evidenza, essere conformi allo strumento urbanistico posto che se ne impone la regolarizzazione[19].
Ciò nonostante, la casistica che si rinviene nell’esaminare, anche sommariamente, la giurisprudenza in tema è fortemente indicativa della diffusione di tale pratica sotto diverse forme, come la subordinazione della sanatoria alla modifica della destinazione d'uso previa demolizione e la riduzione del numero dei piani di un edificio[20]; il rivestimento in pietra a secco di una parte fuori terra e la piantumazione di arbusti misti a macchia mediterranea a fini di “mitigazione paesaggistica” con rilevanti interventi di adeguamento ambientale e idraulico, al fine di eliminare il rischio di cedimenti[21]; la demolizione delle scale di accesso ad un sottotetto dov'era stata realizzata una mansarda abusiva (che evidentemente non sarebbe stata eliminata)[22] e così via, fino al paradossale caso della “sanatoria temporanea” laddove, evidentemente, alla impossibilità di intervenire a posteriori sulle opere ha sopperito la creatività del firmatario dell’atto[23].
Tale stato di cose non sorprende più di tanto, perché già più di venti anni addietro, vigente la l. 47\1985, la Cassazione dava atto del fatto che “nella prassi è dato riscontrare, talvolta, provvedimenti siffatti, che subordinano la sanatoria all'esecuzione nell'immobile abusivo (non sanabile nella sua completezza) di specifici interventi finalizzati a fare acquisire allo stesso la conformità agli strumenti urbanistici”[24].
Meno netta risulta invece la giurisprudenza amministrativa, la quale in un’occasione ha ritenuto possibile che un permesso di costruire, anche in sanatoria, sia soggetto a prescrizioni intese ad imporre correttivi sull'esistente o a mitigare l'impatto paesaggistico del manufatto (sì da renderlo più coerente con il contesto ambientale), qualora si tratti di integrazioni minime o, comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non rilasciabile e ciò in quanto tale soluzione interpretativa risulta rispondente alle esigenze generali di complessiva speditezza ed efficienza dell'azione amministrativa[25].
Sembra tuttavia che la legittimità dell’apposizione di condizioni sia limitata, per i giudici amministrativi, a casi del tutto marginali e particolari, avendo recentemente il Consiglio di Stato, dopo avere richiamato alcuni precedenti, osservato che sulla base degli stessi possa in generale ritenersi legittima la prassi di apporre condizioni ad un titolo edilizio, ma sempre che queste siano previste dalla legge o comunque rispondano a rilevanti esigenze di interesse pubblico ed, inoltre, non siano idonee a snaturare il contenuto tipico del provvedimento stesso, essendo coerenti con il fine pubblico previsto dalla norma attributiva del potere[26].
In altra pronuncia dove il precedente veniva invocato si è precisato che “… le eventuali prescrizioni devono esser anzitutto consustanziali alla sanabilità d’un certo abuso che già possieda i presupposti a tal uopo” precisando come, in quell’occasione “la Sezione aveva chiarito, per un verso, che non fosse di per sé vietato, anzi era ammissibile inserire nella concessione edilizia, in via generale e non essendovi specifiche norme di legge contrarie, prescrizioni a tutela sia dell'ambiente, sia del tessuto e del decoro abitativo, stante la natura fortemente semplificativa di tali clausole, che, in loro mancanza sarebbe necessario respingere l'istanza del privato (spiegando i punti del progetto che da rivedere), ripresentare il progetto e, poi, approvarlo emendato. Però, se la P.A. può imporre prescrizioni, esse non devono contrastare con la natura e la tipicità del provvedimento, non devono snaturare l'atto (negandone la funzione) e non devono imporre sacrifici ingiustificabili, immotivati o sproporzionati. Pertanto, un PDC in sanatoria può legittimamente introdurre o recepire prescrizioni, intese ad imporre correttivi sull'esistente o a mitigare l'impatto paesaggistico del manufatto, ove si tratti di integrazioni minime o, comunque, tali da agevolare una sanatoria altrimenti non rilasciabile (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 19 aprile 2018 n. 2366; id., VI, 9 novembre 2018 n. 6327). Fuori da queste ipotesi, le prescrizioni non possono mai sostituire o attenuare i limiti di legge (come tali, vincolanti: p. es., nei casi di “doppia conformità” ex art. 36 del DPR 380/2001, cfr. Cons. St., VI, 13 gennaio 2021 n. 423), oltre o senza i quali il bene non è mai sanabile”[27].
5. La sanatoria “parziale”
Altro abusato sistema per aggirare le disposizioni in tema di sanatoria è quello della c.d. “sanatoria parziale”, in alcuni casi strettamente collegata alla sanatoria condizionata di cui si è appena detto e quasi sempre basata sull’altrettanto noto sistema della parcellizzazione dell’abuso edilizio.
Frequentemente, infatti, in presenza di situazioni che osterebbero alla lecita realizzazione delle opere, l’intero intervento viene suddiviso in più interventi di minore rilievo al fine di consentire il titolo abilitativo per ciascuno di essi, evitando l’esito, scontato, del complesso procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del permesso di costruire e facendo ricorso alla segnalazione certificata di inizio attività (SCIA).
Si tratta di una prassi la cui illegittimità è stata più volte affermata dalla Corte di cassazione[28], chiarendo che il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull’assetto territoriale e ciò in quanto l’opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva[29]. La frammentazione dell’intervento edilizio è stata utilizzata anche per altre finalità,[30] potendosi rinvenire nella casistica anche alcuni casi riferibili alla procedura di sanatoria. Anche la possibilità della sanatoria “parziale” è stata, però, fermamente esclusa sempre sul presupposto della necessaria valutazione integrale degli interventi da sanare[31], evidenziandone l’illegittimità anche nei casi in cui la conformità dell’intervento alla disciplina di settore era stata ottenuta mediante l’eliminazione delle parti di costruzione che impedivano la sanatoria.
Il meccanismo di adeguamento dell’immobile ai requisiti di legge è il medesimo della sanatoria condizionata, con la sola differenza (talvolta difficilmente individuabile nelle singole decisioni) che in questo caso l’efficacia del titolo abilitativo non è subordinata all’effettuazione degli interventi di adeguamento, che sono invece eseguiti prima di ottenere il permesso di costruire in sanatoria.
L’obiezione che viene spesso sollevata, a fronte di casi di questo genere, è che le conseguenze del ricorso a tali anomale procedure sarebbero del tutto irrilevanti perché, in definitiva, l’intervento sanato sarebbe comunque conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente non possedendo più quelle caratteristiche che lo ponevano in contrasto con essa.
Si tratta, però, si una soluzione troppo semplicistica, perché come si è detto, la sanatoria richiede specifici ed inderogabili requisiti sostanziali (la doppia conformità) e procedimentali (che non siano ancora intervenuta l’irrogazione delle sanzioni amministrative previste per la realizzazione dell'abuso), senza considerare gli effetti criminogeni di interpretazioni eccessivamente disinvolte da parte dei dirigenti o responsabili degli uffici tecnici comunali, soggetti ai quali, peraltro, la stessa normativa urbanistica attribuisce precisi compiti di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia.
Occorre inoltre ricordare che la Corte costituzionale, come recentemente ribadito[32], ha avuto modo in più occasioni di considerare la “doppia conformità” (richiamando quanto affermato dalla giurisprudenza amministrativa e di legittimità), osservando che essa costituisce “principio fondamentale nella materia governo del territorio”[33], ha lo scopo di “garantire l’assoluto rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia durante tutto l’arco temporale compreso tra la realizzazione dell’opera e la presentazione dell’istanza volta ad ottenere l’accertamento di conformità”[34], ricordando anche come la sanatoria ai sensi dell’art. 36 TU Ed. si distingua dal condono edilizio, in quanto “fa riferimento alla possibilità di sanare opere che, sebbene sostanzialmente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, sono state realizzate in assenza del titolo stesso, ovvero con varianti essenziali”, mentre il condono edilizio “ha quale effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia”[35].
6. La sanatoria “giurisprudenziale”
Altra particolare tipologia di sanatoria è quella comunemente denominata “giurisprudenziale” o “impropria”, in base alla quale sono ritenute sanabili gli interventi che, sebbene non conformi alla disciplina urbanistica ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione, lo siano divenuti successivamente e ciò sul presupposto che sarebbe insensato demolire tali opere quando, a demolizione avvenuta, potrebbero essere legittimamente assentite.
Tale suggestiva eccezione ai limiti evidenti posti dall’art. 36 TU Ed. alle possibilità di sanatoria, come ricordato anche in giurisprudenza,[36] era originariamente considerata del tutto legittima dai giudici amministrativi[37], i quali hanno tuttavia definitivamente abbandonato tale orientamento correttamente rilevandone il contrasto con il principio di legalità e dando conto del fatto che tale singolare tipologia di recupero degli abusi edilizi non è stata considerata dall’art. 36 del TU Ed. quando ha sostituito l’omologa disciplina prevista dalla previgente l. 47\1985 e ciò nonostante il parere favorevole in tal senso formulato dalla Adunanza Generale del Consiglio di Stato (il 29 marzo 2001)[38] ed osservando che l’art. 36 non è suscettibile di interpretazione analogica o riduttiva, trattandosi di norma derogatoria al principio secondo cui i lavori realizzati in assenza di valido titolo abilitativo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie[39].
I giudici amministrativi sono successivamente ritornati sull’argomento osservando che la sanatoria giurisprudenziale non può essere ammessa “(…) in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione”[40], aggiungendo successivamente che è del tutto ragionevole vietare il rilascio di un permesso in sanatoria anche quando dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico in quanto “(…) tale ragionevolezza risulta da due fondamentali esigenze, prese in considerazione dalla legge: a) evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile); b) disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico”[41].
Degli argomenti sviluppati dal giudice amministrativo aveva dato conto la giurisprudenza di legittimità, affermando, in più occasioni, che la sanatoria “impropria” era da ritenersi improduttiva di effetti estintivi dei reati urbanistici[42], determinando eventualmente conseguenze sull’ordine giudiziale di demolizione, rendendolo superfluo o revocabile[43] per poi pervenire, tenuto conto dell’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, all’attuale posizione contraria alla legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica[44], posizione ormai definitivamente assunta anche dalla giurisprudenza amministrativa[45].
7. Sanatoria degli abusi edilizi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
Tralasciando di richiamare l’ampio dibattito in tema di sanatoria degli interventi eseguiti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, è opportuno ricordare come l’attuale formulazione dell’art. 181 d.lgs. 42\2004 consenta esclusivamente una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi definibili come “minori”, compiuta la quale (e ferma l’applicazione delle misure amministrative pecuniarie previste dall’art. 167), non si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dal primo comma dell’art. 181.
Gli interventi recuperabili sono definiti “minori” in quanto riguardano, come specifica la norma, lavori, realizzati in assenza o in difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del TU Ed. Si tratta, dunque, di opere caratterizzate da un impatto estremamente modesto sull'assetto del territorio vincolato rispetto agli altri interventi considerati nella medesima disposizione di legge[46].
Tale procedura, tuttavia, riguarda esclusivamente l’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 181 d.lgs. 42\2004 ed è, come si è visto, limitata ad interventi di scarso rilievo. Essa inoltre, secondo la giurisprudenza, può avere ad oggetto le sole opere già in origine assentibili perché compatibili con il paesaggio, con la conseguenza che l’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica non può dipendere dall’esecuzione di determinati interventi, escludendosi dunque, anche in tali ipotesi, la possibilità di rilasciare titoli abilitativi sottoposti a condizione.[47]
La procedura, inoltre, è del tutto autonoma rispetto a quella di cui all’art. 36 del TU Ed. riguardando esclusivamente le contravvenzioni di cui all’art. 181 d.lgs. 42\2004 entro i rigorosi limiti di cui si è detto[48].
Si è pertanto posto il problema della sanabilità degli abusi edilizi eseguiti in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 36 TU Ed.
La giurisprudenza di legittimità aveva ripetutamente considerato la questione alla luce delle disposizioni di volta in volta vigenti e, più recentemente[49], l’ha nuovamente esaminata alla luce della attuale disciplina, considerando anche quanto già osservato dalla giurisprudenza amministrativa con riferimento agli art. art. 146, comma 4, 159, comma 5 e 167, commi 4 e 5, del d.lgs. 42/2004 e rilevando come, in estrema sintesi, costituendo l'autorizzazione paesaggistica, secondo l’art. 146, comma 4 citato, atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, il permesso medesimo resta subordinato al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica la quale, però, sempre secondo la disposizione in esame, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, tranne nei casi degli abusi “minori” di cui si è detto. Da tale stato di cose consegue il principio secondo cui, essendo la possibilità di una autorizzazione paesaggistica postuma espressamente esclusa dalla legge - ad eccezione dei casi, tassativamente individuati dall’art. 167, commi 4 e 5, relativi agli “abusi minori”- tale preclusione, considerato che l’autorizzazione paesaggistica è presupposto per il rilascio del permesso di costruire, impedisce anche la sanatoria urbanistica ai sensi dell’art. 36 d.P.R. 380\01 e l’eventuale emissione della predetta autorizzazione paesaggistica in spregio a tale esplicito divieto, oltre a non produrre alcun effetto estintivo dei reati, non impedisce neppure l’emissione dell’ordine di rimessione in pristino.
Il principio è stato successivamente ribadito in altre pronunce[50] ed anche la giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente confermato il proprio orientamento[51].
È appena il caso di aggiungere che le considerazioni svolte non riguardano le zone soggette a vincolo idrogeologico che non è contemplato dal d.lgs. 42\2004, avendo anzi la giurisprudenza ritenuto possibile, in una decisione tuttora isolata, la positiva conclusione della procedura di accertamento di conformità, sebbene subordinata, in presenza di tale vincolo, al conseguimento dell'autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del medesimo[52].
8. Sanatoria degli interventi in zona sismica
Per quanto riguarda le zone soggette alla normativa antisismica, si pone il problema del raccordo tra le disposizioni che regolano la sanatoria ex art. 36 del TU Ed. e le specifiche disposizioni di cui agli artt. 83 e ss. del medesimo testo unico e la conseguente possibilità di sanatoria degli abusi edilizi realizzati in zona sismica.
Considerando le palesi finalità di tutela dell’incolumità pubblica che la specifica disciplina persegue e la diffusa sismicità del territorio nazionale, si tratta di questione particolarmente delicata.
Ciò nonostante, l’argomento non risulta essere stato mai compiutamente trattato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha soltanto ripetutamente confermato l’ormai consolidato principio che esclude gli effetti estintivi del reato di cui all’art. 45, comma 3 del TU per tutti i reati diversi da quelli previsti dall’art. 44,[53] mentre la giurisprudenza amministrativa ha formulato interessanti considerazioni le quali, pur non pervenendo ad univoche conclusioni, offrono diversi spunti di riflessione[54].
In sintesi, la questione che si pone è abbastanza simile a quella affrontata con riferimento alla sanatoria degli abusi in zona vincolata, dovendosi invero considerare, in primo luogo, se sia o meno possibile rilasciare un’autorizzazione postuma ai fini della disciplina antisismica; quali siano i rapporti tra i titoli conseguiti in base alla disciplina antisismica ed il permesso di costruire ed, infine, se possa rilasciarsi il permesso di costruire in sanatoria per interventi abusivi eseguiti in zona sismica.
Il controllo esercitato dall’amministrazione competente per gli interventi in zone sismiche è certamente di natura preventiva, come si ricava, ad esempio, dall’art. 93 del testo unico - il quale impone, a chiunque intenda procedere ad interventi nelle zone sismiche, di darne “preavviso” scritto allo sportello unico, che a sua volta provvederà alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale – nonché dal successivo art. 94, il quale si riferisce ad una “preventiva autorizzazione”, sicché la procedura deve essere inequivocabilmente completata prima dell’esecuzione dell’intervento, nel rispetto delle formalità richieste.
Dal contenuto delle particolari disposizioni ed in considerazione delle loro specifiche finalità risulta evidente, inoltre, l’autonomia del procedimento autorizzatorio in esame rispetto a quello previsto per il rilascio del titolo abilitativo edilizio, l’obbligo del quale resta fermo, come espressamente indicato dal primo comma dell’art. 94, cosicché esso dovrà essere conseguito, in aggiunta all’autorizzazione di cui si tratta, qualora la tipologia dell’intervento da eseguire lo richieda.
Diversamente da quanto previsto per la costruzione di opere in assenza del permesso di costruire, la specifica disciplina antisismica non contempla alcuna forma di sanatoria o autorizzazione postuma per gli interventi eseguiti senza titolo, prevedendone invece la mera riconduzione a conformità, come si ricava da quanto dispone il terzo comma dell’art. 98, il quale stabilisce non soltanto che, con il decreto o con la sentenza di condanna, il giudice deve ordinare la demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformità dalla specifica disciplina, ma anche che possa impartire le prescrizioni necessarie per rendere le opere conformi ad essa, fissando il relativo termine[55]. Analoga situazione è prevista dall’art. 100 in caso di estinzione del reato, laddove è stabilito che la Regione, in alternativa alla demolizione, possa ordinare l’esecuzione di analoghi interventi finalizzati alla riduzione in conformità delle opere illecitamente realizzate.
Sulla base delle disposizioni appena richiamate deve rilevarsi che esse non soltanto non prevedono effetti estintivi del reato conseguenti alla regolarizzazione postuma, ma neppure effetti propriamente sananti, fermo restando che la demolizione dell’intervento abusivo può essere evitata qualora tale regolarizzazione sia possibile. Il tutto all’esito di un procedimento penale, come si evince dal riferimento specifico al decreto penale ed alla sentenza di condanna.
Manca, in definitiva, una procedura che consenta all’interessato di richiedere un’autorizzazione postuma[56] e pertanto, prescindendo per il momento dal considerare l’eventuale incidenza della specifica disciplina di cui all’art. 36, l’unica possibilità offerta dalla normativa antisismica per il mantenimento in essere dell’intervento abusivo è la decisione del giudice di impartire le prescrizioni per rendere le opere conformi in luogo di ordinarne la demolizione (o le ulteriori procedure regolate dagli artt. 99 e 100). Tale decisione, poi, oltre a prevedere la pronuncia di una sentenza o un decreto di condanna, dovrà ovviamente essere motivata[57] e presuppone, altrettanto ovviamente, specifiche verifiche di natura tecnica, poiché pare evidente che lo scopo sia quello di eliminare ciò che può costituire pericolo per la pubblica incolumità o, in alternativa, di scongiurare tale pericolo mediante particolari interventi.
La giurisprudenza risalente al periodo di vigenza della l. 64\1974 ha, peraltro, precisato che il giudice penale, nell'operare la scelta tra le due alternative, non può limitarsi ad esaminare se, attraverso l'esecuzione di determinati lavori, l'opera possa o meno essere adeguata alla normativa antisismica, ma deve invece esaminare, innanzi tutto, se l'opera abusivamente realizzata si presenti conforme agli strumenti urbanistici vigenti nel territorio ed, in caso negativo, non può ordinare la esecuzione di lavori di adeguamento, ma deve, invece, ordinare la demolizione del manufatto abusivo[58].
In altra occasione, invece, si è detto che la verifica di conformità da parte del giudice avrebbe dovuto riguardare la normativa urbanistica in genere (nella specie, l’allora vigente l. 10/1977)[59].
Le particolari disposizioni in materia di costruzioni in zone sismiche lasciano, dunque, uno spazio estremamente esiguo al mantenimento in essere degli interventi abusivi. Il destino del manufatto illecitamente realizzato in zona sismica resta, peraltro, comunque segnato qualora debba essere demolito perché in contrasto con la disciplina urbanistica (come, ad esempio, nel caso in cui sia configurabile anche il reato di cui all’art. 44 del TU Ed.), dal momento che, come si è detto, il legislatore regola, nell’art. 94, l’autorizzazione per l’inizio dei lavori in zone sismiche “fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio…” ed, infatti, si è in più occasioni condivisibilmente specificato che l’autorizzazione costituisce presupposto tassativo ai fini del rilascio del titolo edilizio[60].
Considerando ora l’art. 36 del TU Ed., è evidente che la stretta connessione tra autorizzazione sismica e permesso di costruire, di cui si è appena detto, incide in maniera significativa anche sulla procedura di sanatoria, venendosi a porre, in primo luogo, la questione della totale assenza di norme specifiche che consentano il rilascio di un’autorizzazione sismica postuma.
Tale evenienza risulta determinante, perché è evidente che se la possibilità di ottenere una autorizzazione simica “in sanatoria” ad intervento ormai eseguito non è prevista, viene a mancare un necessario presupposto per il rilascio del permesso di costruire ai sensi dell’art. 36 TU Ed.
La questione non è stata esaminata finora dalla giurisprudenza di legittimità, che però ha implicitamente considerato, in alcune decisioni, l’avvenuto rilascio dell’autorizzazione postuma, per lo più trattando degli effetti estintivi limitati ai soli reati urbanistici della sanatoria ex art. 36 o per altre ragioni,[61] mentre i giudici amministrativi, come segnalato in dottrina,[62] hanno assunto posizioni non concordi.
Vi è da un lato, infatti, una posizione più radicale che sembra escludere in ogni caso la possibilità dell’autorizzazione postuma[63] non soltanto sul presupposto dell’assenza di una disciplina analoga a quella prevista dall’art. 36 del TU, ma anche per il fatto che gli artt. 96 e ss. “non danno in alcun modo vita a un procedimento amministrativo di autorizzazione in sanatoria su istanza del privato, limitandosi a consentire la conservazione del manufatto eretto in difetto di autorizzazione sismica preventiva, una volta che la vicenda penale sia stata comunque definita”[64] ed inoltre, considerando che “mancando una puntuale disciplina positiva dell’autorizzazione sismica in sanatoria, va evitato il rischio di introdurre in una materia così delicata per l’incolumità delle persone – peraltro neppure pienamente disponibile da parte del legislatore regionale – una sorta di sanatoria giurisprudenziale fondata sull’accertamento postumo della conformità dell’opera comunque edificata alle norme tecniche per la costruzione in zone sismiche al momento della richiesta”[65].
Altre pronunce propendono, invece, per la possibilità, a determinate condizioni, di una autorizzazione ad intervento eseguito[66], senza tuttavia confrontarsi con l’opposto orientamento e dando, anzi, per scontata tale possibilità, sempreché sussista, anche sotto il profilo della specifica normativa sismica, la doppia conformità.
Più recentemente, ribadendo che l’autorizzazione sismica deve essere acquisita preventivamente rispetto al rilascio del titolo in sanatoria, si è osservato che l’art. 36 del TU Ed. subordina il rilascio del titolo in sanatoria alla conformità sostanziale delle opere già eseguite alla normativa edilizia ed urbanistica “occorrendo, dunque, verificare, ancora prima dell’adozione del permesso di costruire in sanatoria, se le opere possano o meno ritenersi sostanzialmente conformi alla disciplina di riferimento: a tali fini, risulta necessario accertare, tra l’altro, il previo rilascio dell’autorizzazione sismica (ove prevista), idonea ad escludere quei pericoli per la staticità delle opere abusive che, ove esistenti, impedirebbero la sanatoria, imponendo l’irrogazione della sanzione demolitoria”[67].
Si è inoltre osservato[68] che tale orientamento avrebbe trovato autorevole conferma in due pronunce della Corte costituzionale,[69] anche se il giudice delle leggi, pur affermando che la regola della doppia conformità vale anche per la normativa antisismica e che “gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, sia quelli consentiti a seguito di denuncia, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche”, cosicché “non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi nelle norme per l’edilizia, sia al momento della realizzazione dell’intervento che al momento di presentazione della domanda di sanatoria”, non pare offrire decisivi spunti di riflessione circa l’assenza, nella disciplina urbanistica, di norme che prevedano espressamente un’autorizzazione sismica postuma, in quanto, pur non negando esplicitamente tale possibilità, focalizza piuttosto l’attenzione sul requisito della doppia conformità e precisa che la stessa comprende la disciplina urbanistica ed edilizia nel suo complesso, con la conseguenza che il permesso di costruire in sanatoria non può riguardare opere non conformi anche alla disciplina antisismica.
Ulteriore conseguenza di tale condivisibile assunto è che trattandosi, appunto, di doppia conformità, deve comunque escludersi ogni possibilità di sanatoria “condizionata” nei termini in precedenza descritti o che comunque preveda l’esecuzione di interventi di adeguamento[70].
Secondo l’orientamento più permissivo, dunque, sarebbe possibile il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria per opere realizzate in zona sismica ponendo rimedio all’originaria mancanza del nulla osta sismico attraverso una valutazione postuma della conformità dell’intervento eseguito alla specifica disciplina antisismica vigente all’epoca della sua realizzazione ed al momento in cui essa avviene.
Tale soluzione, tuttavia, presenta alcuni aspetti critici.
Quello più evidente è la già ricordata assenza di specifiche disposizioni che prevedano espressamente la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità sismica, stabilendo al contrario gli artt. 93 e ss. che tale verifica deve precedere l’esecuzione dei lavori.
Per tale ragione, inoltre, la procedura regolata dalle richiamate disposizioni risulta incompatibile con la sanatoria sismica di creazione giurisprudenziale, tanto che ci si è cercato di individuare il procedimento amministrativo necessario per il conseguimento di tale sanatoria, considerando la possibilità che lo stesso sia “modellato” su quello già previsto per il rilascio della autorizzazione sismica “ordinaria”, osservando peraltro che “non è pensabile che il conseguimento del nulla osta sismico possa soggiacere al medesimo procedimento amministrativo che si sarebbe dovuto applicare all’epoca dell’intervento ove tale procedimento non sia più vigente, poiché ciò contrasterebbe evidentemente con il principio del tempus regit actum”[71].
La mancanza di una procedura puntualmente disciplinata dalla legge, inoltre, potrebbe portare alla adozione di differenti prassi nei singoli uffici competenti, aggravando ulteriormente l’attuale situazione, già caratterizzata talvolta da disinvolte applicazioni della disciplina nazionale, come si è visto, ad esempio, con la più volte menzionata sanatoria condizionata.
Si tratterebbe, inoltre, di una procedura che ingiustamente porrebbe sullo stesso piano colui che, diligentemente, agisce osservando la legge rispetto a chi realizza un intervento senza titolo, sottraendo le opere ad ogni preventivo controllo, perché il rilascio dell’autorizzazione antisismica postuma effettuato adattando il procedimento ordinario non prevede, ovviamente, a differenza di quanto stabilito dall’art. 36, alcun pagamento di somme a titolo di oblazione, né termini specifici trascorsi i quali si perfeziona il silenzio-rifiuto. Ma ciò che sembra maggiormente preoccupante è che tutto ciò avverrebbe con riferimento ad una disciplina appositamente dettata per tutelare la pubblica incolumità, offrendo la possibilità di regolarizzare interventi edilizi eseguiti in assenza del necessario preventivo controllo attraverso procedure non disciplinate dalla legge e con tempistica non prevedibile, senza contare gli inevitabili effetti criminogeni generati dalla consapevolezza di poter realizzare un intervento edilizio senza titolo con la possibilità di sanarlo a posteriori, magari solo in caso di verifica da parte delle amministrazioni competenti, come già spesso avviene per il permesso di costruire in sanatoria.
Vero è, come osservato in dottrina[72], che la soluzione interpretativa la quale ammette la sanatoria antisismica consente di colmare la mancanza di una normativa specifica e di evitare il rigetto di qualsiasi sanatoria di immobili realizzati in zona sismica anche nel caso in cui risultino pienamente conformi alla normativa tecnica di settore e, in quanto tali, inidonei a ledere l’interesse pubblico alla sicurezza delle costruzioni, ma l’orientamento più rigoroso della giurisprudenza amministrativa sembra rispondere a criteri di maggiore prudenza, in considerazione della materia trattata e conforme al dettato normativo che non ha finora previsto, nonostante le numerose modifiche, alcuna possibilità di autorizzazione simica postuma, dovendosi pertanto dubitare che l’osservanza della legge comporti la paventata violazione dei principi di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., nonché di economicità ed efficacia presidiati dall’art. 1 della L. 241/1990.
La questione è dunque meritevole di approfondimento anche da parte della giurisprudenza di legittimità che, come si è detto, non ha mai direttamente trattato i temi di cui si è ripetutamente occupato il giudice amministrativo, limitandosi a ribadire che il deposito allo sportello unico, dopo la realizzazione delle opere e, quindi, "a sanatoria", della comunicazione richiesta dall'art. 93 TU Ed. e degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica.[73]
9. Effetti penali della sanatoria
Come già detto la sanatoria per doppia conformità produce effetti estintivi dei dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti come stabilito dal comma 3 dell’art. 45 del TU Ed., il cui contenuto inequivocabile esclude che il suo ambito di applicazione possa essere esteso, come in precedenza ricordato, ad altri reati che, pur concernendo l’attività edilizia, hanno una diversa oggettività giuridica. L’efficacia estintiva della sanatoria è, inoltre, prodotta dall’emissione del permesso di costruire, con la conseguenza che solo tale titolo legittima l’intervento sanato ed estingue il reato (che, fino alla sua emissione è, quindi, pienamente sussistente) e non è surrogabile in forza di comportamenti taciti della p. a. e che non può tenervi luogo la corresponsione della somma dovuta a titolo di oblazione[74].
L'estinzione del reato quale conseguenza della sanatoria opera oggettivamente a seguito dell'eliminazione dell'antigiuridicità penale del comportamento illecito e possono conseguentemente beneficiarne tutti i soggetti corresponsabili dell’esecuzione dell’opera abusiva e non il solo richiedente.
La Corte di cassazione ha sempre tenuto conto della valenza sostanziale ed oggettiva dell'accertamento di conformità[75] evidenziato, nel ribadire il concetto, l’impropria formulazione letterale dell’art. 36 TU Ed., il quale sembra ricondurre l’effetto estintivo al pagamento della somma prevista a titolo di oblazione anziché all'effettivo rilascio del permesso successivamente alla verifica della conformità delle opere[76].
Si è anche rilevato, in assenza di esplicita previsione nell’art. 45 TU Ed., che gli effetti estintivi della sanatoria non si producano per gli abusi rispetto ai quali sia già intervenuta sentenza irrevocabile di condanna[77], avendo peraltro tale disposizione superato, riguardo a tale aspetto, il vaglio della Corte costituzionale, la quale l’ha ritenuta non in contrasto con il principio di eguaglianza e di ragionevolezza[78] e per le ragioni analoghe è stata esclusa la possibilità di revisione ex art. 629 e ss. cod. proc. pen.[79]
L’estinzione del reato a seguito di sanatoria, inoltre, prevale sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen., in quanto essa, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l'imputato, mentre la seconda lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica[80].
La richiesta di sanatoria produce anche gli effetti processuali di cui al primo comma dell’art. 45, rispetto ai quali si è precisato che la mancata sospensione del procedimento da parte del giudice, in assenza di una espressa previsione normativa, non determina alcuna lesione al diritto di difesa, potendo l'interessato far valere l'esistenza o la sopravvenienza della causa estintiva del reato nei successivi gradi di giudizio[81].
La sospensione del processo, peraltro, non opera in caso di proposizione di un ricorso al giudice amministrativo avverso il diniego del nulla osta in sanatoria di un abuso urbanistico, essendosi ritenuto che la risoluzione del giudizio amministrativo non esplica effetti sulla sussistenza del reato ma solo sulla sua possibile estinzione, che consegue, comunque, ad una rinnovata valutazione da parte dell'autorità competente[82].
Resta da aggiungere, trattando degli effetti penali della sanatoria, che la concreta validità ed efficacia della stessa, nel processo penale, resta comunque soggetta al potere-dovere del giudice penale di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire (anche in sanatoria) e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l'eventuale "disapplicazione" dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, Allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici[83]. Infine, occorre ricordare che in generale, in tema di rilascio di titolo abilitativo edilizio senza il rispetto del piano regolatore generale o degli altri strumenti urbanistici, la giurisprudenza di legittimità, considerando che l'art.12, comma 1, del TU Ed. prescrive espressamente che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi agli strumenti urbanistici ed il successivo art. 13 detta la specifica disciplina urbanistica che il direttore del settore è tenuto ad osservare, ha ritenuto integrato il delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen. anche nell’attuale formulazione con considerazioni senz’altro applicabili anche al permesso di costruire in sanatoria[84].
[1] Naturalmente quanto descritto rappresenta solo una delle concause del dilagare delle edificazioni illegali, dovendosi temere presenti, ad esempio, anche gli effetti dei reiterati ricorsi al condono edilizio, le modifiche peggiorative apportate al Testo Unico, la scarsa attenzione prestata in molti uffici giudiziari ai reati urbanistici e paesaggistici ed alla esecuzione delle demolizioni ordinate dal giudice penale all’esito del processo oltre, ovviamente, alla ingerenza della criminalità organizzata anche nel c.d. ciclo illegale del cemento che comporta, come altre attività illegali, ingenti guadagni.
[2] Corte cost. n. 416 del 21/7/1995.
[3] Relativamente agli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA ed il relativo accertamento di conformità, che non sono oggetto di questo lavoro, dispone l’art. 37 del TU Ed.
[4] In questi termini Cass. Sez. U, n. 15427 del 31/3/2016, Cavallo, Rv. 267041 in penalecontemporaneo.it. 2016 con nota di COGNIZZOLI Le Sezioni Unite sul calcolo del termine di prescrizione del reato edilizio in caso di sospensione del procedimento penale; in Cass. Pen. n. 9\2016, pag. 3173 con nota di SCORDAMAGLIA In tema di rapporti tra la sospensione del corso della prescrizione e la sospensione del processo avente ad oggetto l'accertamento di reati urbanistici ed in Giur. It. n. 8-9\2016, pag. 2016 con nota di MARTINI Sospensione della prescrizione in caso di accesso alla concessione edilizia ex post.
[5] Cass. Sez. 3, n. 9797 del 22/6/1987, Scarcella, Rv. 176643, richiamata in motivazione dalla successiva Sez. 3, n. 6331 del 20/12/2007 (dep. 2008 ), PM in proc. Latteri Rv. 238822
[6] Sul tema ex pl. TANDA I reati urbanistico-edilizi, Padova, 2022, pag. 719 e ss.; FIALE A., FIALE E. Diritto Urbanistico Napoli, 2019, p. 788 e ss. FORESTI, La sanatoria edilizia, Milano 2019; BRIGANTE Accertamenti di conformità: tracce di una controversa evoluzione in Riv. Giur. Ed. n. 3\2018 pag. 173; D’ANGELO, Abusi e reati edilizi, Rimini, 2014; SANDULLI M.A. Testo Unico dell’edilizia (d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), Milano, 2009 p. 623 e ss.; REYNAUD, La disciplina dei reati urbanistici, Torino, 2007
[7] V. Cass. Sez. III 24/6/2010, n. 24245. Il Consiglio di Stato (Sez. 4, n. 410 del 1/2/2017) ha precisato che il silenzio della p. a. sulla richiesta di concessione in sanatoria e sulla istanza di accertamento di conformità ha un valore legale tipico di rigetto, costituendo un’ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (v. anche Sez. 4 n. 2691 del 6/6/2008; Sez. 5 n. 706 del 11/2/2003)
[8] Cass. Sez. 3, n. 17954 del 26/2/2008, Termini, Rv. 240233. In tema di annullamento di ufficio della sanatoria già rilasciata v. Cons. Stato Ad. Pl. n. 8 del 17/10/2017
[9] La sospensione del procedimento assume rilievo anche per quanto concerne il calcolo della prescrizione del reato ed, infatti, le SU Cavallo, citate in precedenza, hanno stabilito che il periodo di sospensione del processo, previsto dall’art.45 deve essere considerato ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio e che in caso di sospensione del processo su richiesta dell'imputato o del suo difensore, disposta oltre il termine previsto per la formazione del silenzio-rifiuto ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, opera la sospensione del corso della prescrizione a norma dell'art. 159, comma primo, n. 3, cod. proc. pen.
[10] Cons. Stato Sez. 6, n. 8319 del 5/12/2019; Sez. 6, n. 6233 del 5/11/2018
[11] A. FIALE, E. FIALE, cit. pag. 793. Sostanzialmente negli stessi termini si è espressa la Cassazione in Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003 (dep. 2004), PM in proc. Fammiano Rv. 226871 (non massimata sul punto)
[12] In A. FIALE, E. FIALE, cit. pag. 794 si richiama tale soluzione interpretativa prospettata in dottrina rinvenendo una implicita conferma nel fatto che la medesima espressione è stata utilizzata nel d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222, Tabella A, Parte 4, punto 40
[13] Cass. Sez. 3, n. 7681 del 13/1/2017, Innamorati, Rv. 269159
[14] Così Cass. Sez. 3, n. 28784 del 16/5/2018, PG in proc. Amente ed altri, Rv. 273307 cui si rinvia anche per i richiami ai precedenti, tra cui Sez. 3, n. 38064 del 18/6/2004, Semeraro, Rv. 230039. In senso conforme Sez. 3, n. 44517 del 17/7/2019, D’Alba Rv. 277261 che prende in considerazione anche la sanatoria conseguente a condono edilizio in relazione alla lottizzazione. Il principio è stato recentemente ribadito in Sez. 3, n. 33258 del 14/6/2022, Porticelli, non massimata.
[15] Cons. Stato Sez. 2 n. 5288 del 28/8/2020
[16] V., ad es., Cass. Sez. 3, n. 41567 del 4/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro Rv. 238020 dove la Corte, nel ritenere illegittimo il titolo in sanatoria subordinato all’eliminazione di volumi in eccedenza, evidenzia anche come, in presenza di un aumento di volumetria non è corretto considerare abusivi solo i maggiori volumi rispetto all'intero manufatto, che deve dunque ritenersi completamente abusivo, anche perché l'incidenza sull'assetto urbanistico del territorio dev'essere valutata considerando l'intervento nel suo complesso. Negli stessi termini Sez. 3, n. 23726 del 24/2/2009, Peoloso, non massimata
[17] In Sez. 3, n. 7405 del 15/1/2015, Bonarota, Rv. 262422 si legge di un’illegittima sanatoria rilasciata per un intervento edilizio eseguito su particella catastale alla quale, successivamente all'abuso, era stata asservita altra particella al fine di superare il limite di cubatura stabilito dalle previsioni urbanistiche. V. anche Sez. 3 n. 8540 del 18/10/2017 (dep. 2018), Petracca, non massimata
[18] Da ultimo in Cass. Sez. 3 n. 32020 del 20/4/2022, Casciello, non massimata
[19] Così in motivazione, Cass. Sez. 3, n. 48499 del 13/11/2003, Dall’Oro, Rv. 226897
[20] Cass. Sez. 3, n. 51013 del 5/11/2015, Carratù, Rv. 266034
[21] Cass. Sez. 3, n. 28666 del 7/7/2020, Murra Rv. 280281
[22] Cass. Sez. 3, Sentenza n. 41669 del 25/10/2001, Tollon, Rv. 220365
[23] V. Cass. Sez. 3, n. 19587 del 27/4/2011, Montini ed altro Rv. 250477 relativa ad un caso in cui il titolo abilitativo in sanatoria era stato conseguito ma con "validità di mesi sei dalla data del rilascio", prevedendosi, alla scadenza, la necessità di una richiesta di rinnovo.
[24] Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10601 del 30/5/2000, Marinaro Rv. 217577 in motivazione. Conf. Sez. 3, n. 40269 del 26/11/2002, PG in proc. Nucci, Rv. 222704
[25] Cons. Stato Sez. 6, n. 6327 del 9/11/2018
[26] Cons. di Stato Sez. 6, n. 3738 del 12/5/2022
[27] Cons. di Stato Sez. 6, n. 5911 del 17/8/2021. V. anche Sez. 6, n. 5693 del 28/9/2020 la quale precisa, richiamando i precedenti che “è in tale ottica che vanno inquadrate quelle limitate aperture relative non a vere proprie condizioni quanto al più limitato concetto di prescrizioni nei termini sopra dettagliati. In materia edilizia va quindi condivisa la posizione teorica, seguita dalla migliore dottrina, secondo cui, se una condizione in senso proprio non possa essere apposta, laddove non prevista dalla legge, in quanto contrasterebbe con l’essenza stessa del permesso, che è atto di accertamento a carattere non negoziale, diverso è il caso in cui l’elemento accidentale sia più correttamente identificabile in termini di prescrizione, quale modalità esecutiva; prescrizioni che, se non ottemperate, non invalidano comunque l’atto autorizzativo e non ne impediscano gli effetti, con la conseguenza che sussisterà una semplice violazione delle prescrizioni, autonomamente sanzionata”.
[28] V., ex pl., Cass. Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep.2012), Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/4/2010, Tulipani, non massimata
[29] In questi termini Cass. Sez. 3, n. 16622 del 8/4/2015, PM in proc. Casciato, Rv. 263473 relativa a fattispecie concernente la realizzazione di opere attraverso la frammentazione degli interventi, assentiti con d.i.a., con creazione di nuovi volumi e successiva richiesta di permesso di costruire in sanatoria, titolo abilitativo, quest'ultimo, che sarebbe stato necessario fin dall'inizio per la realizzazione dell’intervento edilizio.
[30] In Cass. Sez. 3, n. 30147 del 19/4/2017, Tomasulo, Rv. 270256 la valutazione non unitaria delle opere (tre palazzine) risulta finalizzata ad una diversa individuazione del "dies a quo" per la decorrenza della prescrizione con riferimento a ciascun manufatto. Stessa situazione si rinviene in Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto ed altri, Rv. 263339 ed in Sez. 3, n. 4048 del 6/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365, mentre in Sez. 3, n. 20363 del 16/3/2010, Marrella, Rv. 247175 il sistema viene utilizzato nell’ambito di una illecita attività di lottizzazione
[31] Cass. Sez. 3, n. 22256 del 28/4/2016, Rongo, Rv. 267290. Conf. Sez. 3, n. 19587 del 27/4/2011, Montini ed altro Rv. 250477, cit. V. anche n. 45241, 5/12/2007, Alioto, non massimata che sembra però riferibile ad ipotesi di sanatoria subordinata alla demolizione di parte delle opere; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003 (dep. 2004 ) PM in proc. Fammiano, Rv. 226871
[32] Corte cost. n. 232 del 8/11/2017. V. anche Corte cost. n. 77 del 21/4/2021
[33] Corte cost. n. 107 del 11/5/2017
[34] Corte cost. n. 101 del 29/5/2013
[35] Corte cost. n. 50 del 10/3/2017
[36] Cass. Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci ed altro, Rv. 260971 in Riv. Giur. Ed. n. 1\2015 pag. 125 con nota di TANDA L'orientamento (a volte contrastante) dei giudici amministrativi e penali sull'ammissibilità della c.d. sanatoria giurisprudenziale. Sul tema della sanatoria giurisprudenziale v. anche GRAZIOSI Attualità della questione dei titoli edilizi postumi. nuove ragioni e vecchi argomenti (ancora a proposito della c.d. sanatoria giurisprudenziale), ibid. n. 1\2020, pag. 53; BRIGANTE Accertamenti di conformità: tracce di una controversa evoluzione, ibid. n. 3\2018 pag. 173; SEMENTILLI Declino e continuità della c.d. “sanatoria giurisprudenziale”: il ruolo dei principi, ibid., n. 1\2018, pag. 170
[37] V.. ad es. Sez. 5, n. 1796 del 19/4/2005
[38] Cons. Stato Sez. 4, n. 4838 del 17/9/2007
[39] Cons. Stato Sez. 4, n. 6784 2/11/2009. Nella Relazione illustrativa al testo Unico dell'edilizia, come ricordato in Cass. Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci ed altro cit., veniva dato conto dell'esistenza di un contrasto giurisprudenziale il quale impediva la formazione di un diritto vivente tale da consentire la modifica del dato testuale e del parere nettamente contrario espresso dalla Camera.
[40] Cons. Stato Sez. 5, n. 3220 del 11/6/2013
[41] Cons. Stato Sez. 5, n. 1324 del 17/3/ 2014. Conf. Sez. 5, n. 2755 del 27/5/ 2014
[42] V., ad es., Cass. Sez. 3, n. 21206 del 26/2/2008, Melluso, non massimata, dove viene dato atto del contrasto rinvenibile nella giurisprudenza amministrativa; Sez. 3, n. 24451 del 26/4/2007, P.G. in proc. Micolucci, Rv. 236912
[43] Sez. 3, n. 40969 del 27/10/2005, Olimpio, Rv. 232371
[44] Oltre alla già citata Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci ed altro, v. Sez. 3, n. 26425 del 11/2/2016, Danese, non massimata; Sez. 3, n. 45845 del 19/9/2019, Caprio, Rv. 277265 che richiama anche recenti pronunce del Consiglio di Stato conformi all’ormai consolidato indirizzo che nega la legittimità della sanatoria giurisprudenziale.
[45] V. ad esempio, tra le più recenti, Cons. di Stato Sez. 6, n. 7351 del 22/8/2022; Sez. 6, n. 7291 del 19/8/2022, ove vengono ribadite nel dettaglio le ragioni per le quali la sanatoria giurisprudenziale non è applicabile
[46] V., ex pl., Cass. Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011 (dep.2012), Falconi e altri, Rv. 251641. Conf. Sez. 3, n. 9060 del 4/10/2017 (dep. 2018), Veillon, Rv. 272450; Sez. 3, n. 44189 del 19/9/2013, Tognotti, Rv. 257527
[47] Cass. Sez. 3, n. 10110 del 21/1/2016, Navarra ed altro, Rv. 266250. In senso conforme Sez. 3, n. 14479 del 7/12/2016 (dep. 2017), Italiani ed altro, non massimata
[48] In dottrina v. GRAZIOSI Il divieto di sanatoria paesaggistica tra sopravvenienza del vincolo e sopravvenienza del divieto in Urb. App. n. 6\2019, pag. 761
[49] Cass. Sez. 3, n. 190 del 12/11/2020 (dep. 2021), Susana, Rv. 281131, cui si rinvia per l’analisi della precedente giurisprudenza penale ed amministrativa
[50] Cass. Sez. 3, n. 23427 del 29/4/2022, Sharov ed altri, non massimata; Sez. 3, n. 30426 del 24/5/2022, Polizzotto, non massimata; Sez. 3, n. 31924 del 17/5/2022, Bove, non massimata
[51] V. Cons. di Stato Sez. 6, n. 6113 del 18/7/2022.
[52] Cass. Sez. 3, n. 11960 del 22/12/2010 (dep. 2011), Comotti, Rv. 249747
[53] V., ex pl., Cass. Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018, Cardella, Rv. 274212; Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017 (dep. 2018), Franchino ed altri, Rv. 272546; Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792
[54] Per una generale (e recente) disamina v. CANAL La sanatoria edilizia e la sanatoria sismica in amministrativistiveneti.it, 27 Giugno, 2022
[55] Secondo la giurisprudenza il potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali come stabilito da Sez. 3, n. 6371 del 7/11/2013 (dep. 2014), De Cesare, Rv. 258899 ed in altre prec. conf.
[56] In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa in TAR Campania (NA) Sez. 8 n. 1347 del 1/3/2021 ove si esclude che le disposizioni di cui agli artt. 96 e ss. del TU diano “in alcun modo vita a un procedimento amministrativo di autorizzazione in sanatoria su istanza del privato, limitandosi a consentire la conservazione del manufatto eretto in difetto di autorizzazione sismica preventiva, una volta che la vicenda penale sia stata comunque definita”.
[57] Lo ha precisato, sotto la vigenza della l. 74\64 Cass. Sez. 3, n. 1509 del 6/12/1983 (dep. 1984), Pone, Rv. 162710
[58] Cass. Sez. 3, n. 1710 del 12/12/1984 (dep. 1985), Barone, Rv. 167984
[59] Cass. Sez. 3, n. 5611 del 13/5/1986, Marani, Rv. 173133
[60] Cons. di Stato Sez. 3, n. 4142 del 31\5\2021 la definisce “presupposto indispensabile”. Anche la Corte costituzionale (sent. 101\2013) ha affermato che “l’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare”.
[61] V., tra le più recenti, Cass. Sez. 3 n. 49679 del 18/5/2018, Paccusse, non massimata, ove si è ritenuto irrilevante il deposito a sanatoria del progetto e la mancanza di violazioni sostanziali delle norme tecniche che disciplinano l'edificazione nelle zone sismiche ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.
[62] CANAL La sanatoria edilizia e la sanatoria sismica cit.
[63] V. ad es. TAR Campania (NA) Sez. 7 n. 3450 del 20/5/2022; TAR Campania (NA) Sez. 8 n. 1347 del 1/3/2021; TAR Lazio (LT) Sez. 1 n. 376 del 13/10/2020. V. anche TAR Abruzzo (AQ) Sez. 1 n. 415 del 13/7/2022
[64] TAR Lazio (LT) n. 376\2020, cit.
[65] TAR Campania (NA) n. 1347/2021, cit.
[66] Cons. di Stato n. 4142\2021, cit. nell’indicare, come già detto, la natura di indispensabile presupposto dell’autorizzazione sismica per ottenere il rilascio del titolo edilizio aggiunge, tra parentesi, le parole “anche quello in sanatoria” implicitamente riconoscendo, dunque, tale possibilità, come fa anche Cons. di Stato Sez. 6, n. 3096 del 15/4/2021
[67] Così Cons. di Stato Sez. 6, n. 3963 del 19/5/2022
[68] CANAL La sanatoria edilizia e la sanatoria sismica cit.
[69] Corte cost. n.101 del 29/5/2013 e n. 2 del 13/1/2021, quest’ultima commentata da AMANTE Appunti sulla sanatoria sismica in Urb. e App., n. 2\2021, pag, 197
[70] In CANAL La sanatoria edilizia e la sanatoria sismica cit. correttamente si osserva come, in caso di intervento da regolarizzare ubicato in zona sismica, “non sia concepibile un rilascio della sanatoria in assenza della doppia conformità anche strutturale/sismica dell’intervento e ciò senza che sussista alcuna possibilità di prescrivere adeguamenti strutturali di sorta”.
[71] Così CANAL, op. cit.
[72] CANAL, op. cit. Sollecita invece “una più approfondita valutazione del complessivo rapporto che viene ad instaurarsi tra il rilascio dell'autorizzazione sismica in sanatoria (o postuma) e la (eventuale) lesione del relativo bene tutelato”, TANDA La rilevanza dell'autorizzazione sismica in sanatoria (o postuma) ai fini della sussistenza dell'illecito di cui agli artt. 94 e 95 t.u. edilizia in Riv. Giur. Ed. n. 3/2019, pag. 815
[73] Tra le più recenti, Cass. Sez. 3, n. 19196 del 26/2/2019, Greco Rv. 275757; Sez. 3, n. 11271 del 17/2/2010, Braccolino, Rv. 246462. Le stesse conclusioni sono state peraltro tratte con riferimento ai reati in materia di costruzioni in cemento armato in Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018, Cardella, Rv. 274212
[74] Come stabilito nella risalente Cass. Sez. 3 n. 6648 del 16/3/1990, Talamo, Rv. 184243
[75] V. Cass. Sez. 3, n. 3209 del 29/1/1998, Lombardi, Rv. 210291
[76] Cass. Sez. 3, n. 26123 del 12/4/2005, Colturri, Rv. 231940
[77] Cass. Sez. 3, Sentenza n. 32706 del 7/4/2015, Tufano, Rv. 264520. Con riferimento al decreto penale v. Cass. Sez. 3, n. 6050 del 27/9/2016 (dep. 2017), Verga, Rv. 268832
[78] Corte cost. n. 294 del 22/7/1996. La Corte ha infatti chiarito che in tal caso la sanatoria interviene “ (…)in un momento successivo al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, la cui definitività si è realizzata quando l'imputato si trovava ancora in situazione di illegalità (formale) per avere compiuto opere edilizie abusive senza avere il titolo abilitativo; (…) rientra nella discrezionalità del legislatore, una volta individuata una causa estintiva del reato, fissare, in relazione allo status dell'azione penale, i limiti temporali di questa causa estintiva, che deriva, si noti, da una iniziativa dello stesso responsabile dell'abuso (richiesta di concessione in sanatoria il cui rilascio è subordinato al pagamento a titolo di oblazione di una misura maggiorata del contributo di concessione, perfino in caso di concessione gratuita”
[79] Cass. Sez. 3, n. 28530 del 11/5/2018, Vivolo, Rv. 273350
[80] Cass. Sez. 3, n. 27982 del 2/3/2021, Di Sano, Rv. 281711
[81] Cass. Sez. 3, n. 19982 del 17/1/2020, Vitale, Rv. 279503. Conf. Sez. 3, n. 51599 del 28/9/2018, Mauracheea, Rv. 274095
[82] Cass. Sez. 3, n. 15752 del 16/1/2020, Campagna, Rv. 279384 ed altre prec. conf.
[83] Si tratta di questione sulla quale la giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente pronunciata per oltre un ventennio, ma che talvolta continua ad essere oggetto di discussione a causa di distorte letture di principi reiteratamente affermati, tanto che recentemente, in due diverse sentenze, la Corte di cassazione, nel tentativo di fare definitivamente chiarezza, ha ripercorso l’evoluzione della giurisprudenza in materia (Cass. Sez. 3, n. 49687 del 7/6/2018, Bruno, non massimata, Sez. 3, n. 56678 del 21/9/2018, PM in proc. Iodice, Rv. 275565 annotata in questa Riv. n. 2\2019 da DI LANDRO Reati in tema di «assenza» di autorizzazione e responsabilità del titolare di autorizzazione: un problema ancora aperto. V. anche Sez. 3, n. 17866 del 29/3/ 2019, PM in proc. De Simone, non massimata).
[84] Cass. Sez. 3, n. 33419 del 8/4/2021, Gavioli, Rv. 282234, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 26834 del 8/9/2020, Barletta, Rv. 280266. Con specifico riferimento al permesso in sanatoria v. Sez. 6 , n. 13148 del 8/3/2022 , Calabrò, Rv. 283111 nonché la più recente Sez. 3, n. 30586 del 8/6/2022, Avellone ed altri, non massimata relativa a rilascio di sanatoria in violazione dell’art. 36 TU Ed.
* Articolo già pubblicato nel n. 3\2022 di lexambiente.it
Scheda n. 9 - Disciplina del dibattimento (art. 477 e ss. c.p.p.)
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
La riforma innova fortemente la disciplina del dibattimento, da un lato eliminando norme rivelatesi inapplicabili o inefficienti, dall’altro adattando il dibattimento alle altre numerose modifiche del codice di procedura. Le nuove norme riguardano il calendario delle udienze, la verbalizzazione, la disciplina quando è assente l’udienza preliminare, la richiesta e assunzione dei mezzi di prova, le nuove contestazioni.
CALENDARIO DELLE UDIENZE
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 477 c.p.p. - Durata e organizzazione del dibattimento. 1. Quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente, dopo la lettura dell’ordinanza con cui provvede sulle richieste di prova, sentite le parti, stabilisce il calendario delle udienze, assicurando celerità e concentrazione e indicando per ciascuna udienza le specifiche attività da svolgere. (Omissis) |
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 145 disp. att. c.p.p. - Comparizioni dei testimoni, periti, consulenti tecnici e interpreti. (Omissis) 2. Se il dibattimento deve protrarsi per più giorni, il presidente, sentiti il pubblico ministero e i difensori, stabilisce il giorno in cui ciascuna parte deve comparire. |
L’art. 477 c.p.p. prevedeva che il dibattimento si svolgesse in una sola udienza, con eventuale rinvio al giorno seguente; l’art. 145 disp. att. c.p.p. stabiliva che in caso di prosecuzione, il presidente aveva facoltà di stabilire il giorno in cui ciascuna persona deve comparire.
Nella nuova disciplina viene modificato l’art. 477, dedicandolo alla “organizzazione del processo”, superando la anacronistica e mai applicata disciplina previgente: dopo l’ammissione delle prove, si stabilisce il calendario (ma si richiede la celerità e la concentrazione) indicando per ogni udienza l’attività prevista; in particolare stabilendo il giorno in cui ogni persona deve comparire.
Si osserva che la norma non tiene conto dei carichi e delle imprevedibili vicende del processo (basta una malattia o uno sciopero…) per cui nei processi complessi la calendarizzazione rimarrà lettera morta, al di là delle esortazioni di facciata.
REDAZIONE DEL VERBALE
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 483 c.p.p. - Sottoscrizione e trascrizione del verbale. (Omissis) 1-bis. Il verbale redatto in forma di documento informatico è sottoscritto dal pubblico ufficiale che lo ha redatto secondo le modalità previste dall’articolo 111 e sottoposto al presidente per l’apposizione del visto con firma digitale o altra firma elettronica qualificata. (Omissis) |
L’art. 483 c.p.p. prevedeva che il verbale di udienza sia redatto e sottoscritto dal pubblico ufficiale, poi presentato al Presidente per il visto. Nella nuova disciplina il verbale cartaceo è sostituito da quello telematico.
Disciplina transitoria: le norme si applicano a partire dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti da adottarsi entro il 2023 (art. 87 del D.L.vo n. 150/2022).
COSTITUZIONE DELLE PARTI
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 484 c.p.p. - Costituzione delle parti. (Omissis) 2-bis. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 420-bis, 420-ter, 420-quater e 420-quinquies dell’articolo 420-ter e, nei casi in cui manca l’udienza preliminare, anche le disposizioni di cui agli articoli 420, 420-bis, 420- quater, 420-quinquies e 420-sexies. (Omissis) |
L’art. 484 c.p.p. dispone l’applicazione nel dibattimento delle norme in materia di assenza, impedimento, non reperimento, ricerche dell’imputato e sospensione del processo. Nella nuova disciplina si distingue a seconda che il procedimento sia passato attraverso l’udienza preliminare o no. Se vi è stata, il processo prosegue con la posizione processuale dichiarata nell’udienza preliminare e si applica solo l’art. 420-ter che riguarda i casi in cui ad una udienza vi sia l’impedimento a comparire dell’imputato o del difensore. È invece razionalizzata – richiamando la disciplina prevista per l’udienza preliminare - la disciplina dell’instaurazione del rapporto processuale nei casi in cui manca l’udienza preliminare.
IMPUTATO CONTRO IL QUALE SI È PROCEDUTO IN ASSENZA NELL’UDIENZA PRELIMINARE
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 489 c.p.p. - Rimedi per l’imputato contro il quale si è proceduto in assenza nell'udienza preliminare. 1. L'imputato contro il quale si è proceduto in assenza nel corso dell'udienza preliminare può chiedere di rendere le dichiarazioni previste dall'articolo 494. Se vi è la prova che nel corso dell’udienza preliminare l’imputato è stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis, il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità del decreto di rinvio a giudizio e restituisce gli atti al giudice dell’udienza preliminare. 2. Se l'imputato fornisce la prova che l'assenza nel corso dell'udienza preliminare è riconducibile alle situazioni previste dall'articolo 420-bis, comma 4, è rimesso nel termine per formulare le richieste di cui agli articoli 438 e 444. La nullità prevista dal comma 1 è sanata se non è eccepita dall’imputato presente, ferma la facoltà dello stesso di essere restituito nel termine per formulare le richieste di procedimenti speciali e di esercitare le ulteriori facoltà dalle quali sia decaduto. In ogni caso la nullità non può essere rilevata o eccepita se risulta che l’imputato era nelle condizioni di comparire all’udienza preliminare. 2-bis. Fuori dai casi previsti dal comma 1, ferma restando la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza, l’imputato è restituito nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto: a) se fornisce la prova che, per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto e che non ha potuto trasmettere tempestivamente la prova dell’impedimento senza sua colpa; b) se, nei casi previsti dai commi 2 e 3 dell’articolo 420-bis, fornisce la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo e di non aver potuto intervenire senza sua colpa in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto. |
Le nuove norme riformano radicalmente la disciplina e sostituiscono quasi integralmente la preesistente prevedendo i “Rimedi per l’imputato contro il quale si è proceduto in assenza nell'udienza preliminare”; è razionalizzata la disciplina dell’instaurazione del rapporto processuale.
Nuova disciplina:
- L'imputato contro il quale si è proceduto in assenza nel corso dell'udienza preliminare può chiedere di rendere le dichiarazioni spontanee previste dall'articolo 494.
- Se vi è la prova che nel corso dell’udienza preliminare l’imputato è stato dichiarato assente in mancanza dei presupposti previsti dall’articolo 420-bis (che rinnova profondamente la disciplina dell’assenza dell’imputato) il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità del decreto di rinvio a giudizio e restituisce gli atti al giudice dell’udienza preliminare.
- Se l'imputato fornisce la prova che l'assenza nel corso dell'udienza preliminare è riconducibile alle situazioni previste dai primi tre commi del nuovo articolo 420-bis (rinuncia espressa a comparire, scelta volontaria di non comparire, latitanza) è rimesso nel termine per formulare le richieste di abbreviato e patteggiamento.
- La nullità è sanata se non è eccepita dall’imputato presente; ma egli ha la facoltà di essere restituito nel termine per formulare le richieste di procedimenti speciali e di esercitare le ulteriori facoltà dalle quali sia decaduto.
- In ogni caso la nullità non può essere rilevata o eccepita se risulta che l’imputato era nelle condizioni di comparire all’udienza preliminare.
- Fuori dei casi di nullità, rimangono validi gli atti compiuti regolarmente; l’imputato è rimesso in termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto solo se: a) prova di essersi trovato nell’assoluta impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento; o b) fornisce la prova di non aver avuto effettiva conoscenza della pendenza del processo nei casi in cui si è proceduto per assenza volontaria e latitanza.
PROVVEDIMENTI RIGUARDANTI LE PROVE
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 493 c.p.p. - Richieste di prova. 1. Il pubblico ministero, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell'imputato nell'ordine indicano i fatti che intendono provare e chiedono l'ammissione delle prove, illustrandone esclusivamente l’ammissibilità ai sensi degli articoli 189 e 190, comma 1. (Omissis) |
Nuova disciplina: l’ammissibilità può essere illustrata esclusivamente per le prove non disciplinate dalla legge, manifestamente superflue o irrilevanti. La modifica enfatizza l’introduzione di «un momento dialettico che accompagni le richieste di prova delle parti» al duplice fine di “evitare un ingresso incontrollato di prove nel dibattimento e, quindi, appesantire l’istruttoria o impedire una effettiva programmazione del lavoro”; e evitare che tale momento si trasformi in un modo surrettizio in un’occasione per veicolare al giudice elementi conoscitivi di valutazione.
Considerata la prassi consolidata, appare la superfluità delle norme.
MUTAMENTO DEL GIUDICE
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 495 c.p.p. – Provvedimenti del giudice in ordine alla prova. (Omissis) 4-ter. Se il giudice muta nel corso del dibattimento, la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, salvo che il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In ogni caso, la rinnovazione dell’esame può essere disposta quando il giudice la ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. (Omissis) |
La sentenza delle Sezioni unite n. 41736/19, Bajrami, aveva stabilito che «l'avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto” ma doveva in quest'ultimo caso indicare “specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa».
Con la nuova disciplina, dopo il mutamento del giudice, si deve ripartire dall’apertura del dibattimento (vige ancora l’art. 525 cod. proc. pen.); la parte può richiedere la rinnovazione delle prove assunte dal giudice precedente. Il nuovo giudice: a) può rigettare la richiesta se il precedente esame è stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva (modalità che già è disponibile nella maggioranza dei tribunali, ma solo nelle principali aule); b) in mancanza della documentazione sopra richiamata, deve disporre l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel contraddittorio con la persona imputata; c) può disporre in ogni caso la rinnovazione dell’esame quando la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze. Non è chiaro se le parti possono richiedere nuove prove ex art. 493, come prevedeva la sentenza Bajrami, ma l’interpretazione sistematica è in senso affermativo; non è chiaro quali siano le specifiche esigenze (del giudice o delle parti) che motivano la rinnovazione anche della prova documentata.
Disciplina transitoria: non è previsto un regime intertemporale per la regola della rinnovazione del dibattimento in caso di mutamento del giudice (salvo videoregistrazione); di conseguenza sembrerebbe applicabile il principio tempus regit actum, con applicazione della disciplina ai processi in corso (con i limiti disegnati dalla sentenza Bajrami).Tuttavia, la legge prevede che la ripresa audiovisiva (art. 30 comma 1 lett. B) diventa obbligatoria solo decorso un anno dall’entrata in vigore del decreto (art. 94): quindi l’interpretazione razionale è quella, in mancanza della ripresa audiovisiva, di riconoscere il diritto della parte alla rinnovazione delle prove assunte solo dal momento – 30.12.2023 – in cui sorge l’obbligo di videoregistrazione.
ASSUNZIONE DELLE PROVE
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 496 c.p.p. – Ordine e modalità dell'assunzione delle prove. (Omissis) 2-bis. Salvo che una particolare disposizione di legge preveda diversamente, il giudice può disporre, con il consenso delle parti, che l’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle persone indicate nell’articolo 210 e delle parti private si svolga a distanza. |
L’art. 496 disciplina l’ordine nell'assunzione delle prove, che la riforma lascia intatta. Viene aggiunta una norma - comma 2-bis - che riguarda le modalità di assunzione. La nuova modalità rientra fra i casi in cui, con il consenso delle parti, la partecipazione all’atto del procedimento o all’udienza può avvenire a distanza (Art. 1, comma 8, lett. c), della legge delega). Il nuovo art. 133-ter c.p.p. regola le modalità e garanzie della partecipazione a distanza.
ESAME DEI PERITI E CONSULENTI TECNICI
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 501 c.p.p. - Esame dei periti e dei consulenti tecnici. (Omissis) 1.bis Almeno sette giorni prima dell’udienza fissata per il suo esame, il perito autorizzato ai sensi dell’articolo 227, comma 5, deposita in cancelleria la propria relazione scritta. Nello stesso termine la parte che ha nominato un consulente tecnico deposita in cancelleria l’eventuale relazione scritta del consulente. 1-ter. Fuori dai casi previsti al comma 1-bis, la parte che ha chiesto l’esame di un consulente tecnico deposita l’eventuale relazione almeno sette giorni prima l’udienza fissata per quell’esame. 2. Il perito e il consulente tecnico hanno in ogni caso facoltà di consultare documenti, note scritte e pubblicazioni, nonché le relazioni depositate ai sensi dei commi 1-bis e 1-ter, che possono essere acquisite anche di ufficio. |
Nuova disciplina: si introduce il deposito preventivo delle perizie e delle consulenze tecniche (per consentire di realizzare un contraddittorio adeguatamente informato), nel termine di sette giorni prima dell’udienza. Non vi è però alcuna sanzione per il tardivo od omesso deposito della relazione tecnica. La facoltà di periti e consulenti di consultare documenti, note scritte e pubblicazioni (con la connessa possibilità di acquisirli), si estende alle relazioni depositate ai sensi dei nuovi commi 1-bis e 1-ter.
REDAZIONE DEL VERBALE DI ASSUNZIONE DEI MEZZI DI PROVA
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 510 c.p.p. - Verbale di assunzione dei mezzi di prova. (Omissis) 2-bis. L’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle parti private e delle persone indicate nell’articolo 210, nonché gli atti di ricognizione e confronto, sono documentati anche con mezzi di riproduzione audiovisiva. (Omissis) 3-bis. La trascrizione della riproduzione audiovisiva di cui al comma 2-bis è disposta solo se richiesta dalle parti. |
Nella nuova disciplina, l’art. 510 del codice diviene norma centrale del sistema di redazione del verbale, nel cui ambito si è prevista, in attuazione della delega, la necessità della registrazione audiovisiva (in aggiunta alla modalità ordinaria di documentazione). Questa la disciplina:
- comma 2 (invariato): l’ausiliario che assiste il giudice documenta nel verbale lo svolgimento dell’esame, riproducendo integralmente in forma diretta le domande e le risposte delle persone esaminate;
- comma 2-bis (nuovo): gli esami sono documentati anche con mezzi di riproduzione audiovisiva, salva la contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione odi personale tecnico;
- comma 3-bis (nuovo): la trascrizione della riproduzione audiovisiva di cui al comma 2-bis è disposta solo se richiesta dalle parti.
È fatto salvo il limite della contingente indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico.
DIRITTI DELLE PARTI IN CASO DI NUOVE CONTESTAZIONI
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 519 c.p.p. - Diritti delle parti. 1. Nei casi previsti dagli articoli 516, 517 e 518 comma 2, salvo che la contestazione abbia per oggetto la recidiva, il presidente informa l'imputato che può chiedere un termine per la difesa e formulare richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova. 2. Se l’imputato fa richiesta di un termine per la difesa, il presidente sospende il dibattimento per un tempo non inferiore al termine per comparire previsto dall’articolo 429, ma comunque non superiore a quaranta giorni. In ogni caso l’imputato può chiedere l’ammissione di nuove prove o formulare, a pena di decadenza entro l’udienza successiva, richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova. (Omissis) |
Per generalizzare il diritto dell’imputato ad accedere ai riti premiali, si prevede che, in caso di nuove contestazioni, l’imputato possa chiedere la definizione del processo ai sensi degli articoli 444 e seguenti o 458 e seguenti del medesimo codice; e che tale facoltà possa essere esercitata nell’udienza successiva a quella in cui è avvenuta la nuova contestazione. Sono perciò previsti due interventi:
- quello “informativo” all’art. 519, comma 1, norma che enuncia gli avvisi che il giudice dà all’imputato in caso di modifica dell’accusa;
- quello “attributivo” del potere all’art. 519, comma 2, norma che contiene i poteri che competono alla parte in caso di nuova contestazione (ottenere il termine a difesa, chiedere nuove prove, chiedere i procedimenti speciali).
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 520 c.p.p. - Nuove contestazioni all'imputato assente non presente. 1. Quando intende contestare i fatti o le circostanze indicati negli articoli 516 e 517 all'imputato non presente fisicamente in udienza, il pubblico ministero chiede al presidente che la contestazione sia inserita nel verbale del dibattimento e che il verbale sia notificato per estratto all'imputato, con l’avvertimento che entro l’udienza successiva può formulare richiesta di giudizio abbreviato, di applicazione della pena a norma dell’articolo 444 o di sospensione del procedimento con messa alla prova. 2. In tal caso il presidente sospende il dibattimento e fissa una nuova udienza per la prosecuzione, osservando i termini indicati nell'articolo 519 commi 2 e 3. |
La modifica all’art. 520, comma 2, per il caso di nuove contestazioni all’imputato non presente, è conseguente alla modifica all’art. 519. La nuova garanzia si riferisce a tutte le situazioni in cui l'imputato non sia presente in udienza fisicamente o mediante collegamento a distanza, compresi i casi in cui, per espressa previsione legislativa, l'imputato debba considerarsi presente, nonché i casi in cui quest'ultimo sia evaso durante il dibattimento o sia comparso ad una precedente udienza dibattimentale (vedi modifiche apportate all’art. 420 c.p.p.).
DISCIPLINA TRANSITORIA
Quanto al momento di effettiva applicazione di questa parte della riforma, non essendovi disposizioni specifiche e/o derogatorie, per il generale principio del tempus regit actum l’entrata in vigore è alla data del 30 dicembre 2022 (in forza dell’art. 99-bis del D.L.vo n. 150/2022, come introdotto dall’art. 6 del D.L. n. 162/2022).
Solo in relazione al nuovo art. 510 c.p.p. si dispone, con la norma transitoria di cui all’art. 94 del decreto, che la disposizione avrà applicazione a decorrere da un anno dall’entrata in vigore del decreto stesso. In relazione all’art. 483 c.p.p., le norme si applicano a partire dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti da adottarsi entro il 2023 (art. 87 del D.L.vo n. 150/2022).
Scheda n. 10 - Le notificazioni - Titolo V libro II c.p.p. (Artt. 148 ss. c.p.p.)
NORME MODIFICATE |
Riscritte in tutto o in parte: artt. 148, 149, 152, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 167, 168, 169, 170, 171.
Abrogate: artt. 150, 151, 158.
Di nuova introduzione: artt. 153-bis, 157-bis, 157-ter.
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’art. 10 del d. lgs. 150/2022 apporta diverse modifiche alla disciplina delle notificazioni con l’obiettivo dichiarato di «snellire e rendere più celeri i relativi adempimenti, ridurre le incombenze a carico degli uffici giudiziari e incrementare l’efficienza processuale, assicurando al contempo l’effettiva conoscenza da parte del destinatario delle stesse notifiche» (v. Dossier Camere del 7 settembre 2022).
L’art. 148 (Organi e forme delle notificazioni) rappresenta l’architrave della nuova disciplina, in quanto riassume tutte le novità introdotte dal decreto in materia di notificazioni penali.
Tale disposizione fissa, come regola generale, la notifica degli atti del procedimento penale con modalità telematica, il cui presupposto indefettibile è rappresentato dalla disponibilità da parte del destinatario di un “domicilio digitale”.
Infatti, il comma primo dell’articolo citato statuisce testualmente:
1. Salvo che la legge disponga altrimenti, le notificazioni degli atti sono eseguite, a cura della segreteria o della cancelleria, con modalità telematiche che, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici, assicurano la identità del mittente e del destinatario, l’integrità del documento trasmesso, nonché la certezza, anche temporale, dell’avvenuta trasmissione e ricezione. |
Se il destinatario non dispone di tale domicilio, tornano a operare le altre modalità previste dalla legge (notifica a mani, a mezzo posta, etc.), che assumono quindi carattere sussidiario.
Ciò è previsto dal nuovo comma 4 dell’art. 148, il quale recita:
4. In tutti i casi in cui, per espressa previsione di legge, per l’assenza o l’inidoneità di un domicilio digitale del destinatario o per la sussistenza di impedimenti tecnici, non è possibile procedere con le modalità indicate al comma 1, e non è stata effettuata la notificazione con le forme previste nei commi 2 e 3, la notificazione disposta dall’autorità giudiziaria è eseguita dagli organi e con le forme stabilite nei commi seguenti e negli ulteriori articoli del presente titolo. |
Nelle ulteriori disposizioni il legislatore, come nella vecchia disciplina, mantiene la distinzione fra situazione dell’imputato che abbia dichiarato/eletto domicilio e quella dell’imputato che non abbia mai dichiarato/eletto domicilio.
Viene, invece, introdotta una disciplina diversificata a seconda che la notifica abbia a oggetto atti introduttivi o atti successivi, specificando che l’elezione di domicilio vale solo per i primi.
Viene così risolto dal legislatore il contrasto giurisprudenziale insorto in ordine al soggetto al qual notificare gli atti successivi al primo (rinvii d’udienza, etc.): infatti, sulla corretta interpretazione dell’art. 157, comma 8-bis, c.p.p. – che la riforma abroga – erano insorti dubbi applicativi, poiché parte della giurisprudenza aveva ritenuto che l’elezione di domicilio prevalesse sempre, mentre, secondo un diverso orientamento, la notifica degli atti successivi al primo doveva sempre essere fatta al difensore di fiducia, anche nel caso in cui l’imputato avesse dichiarato o eletto domicilio.
Appare evidente come la nuova disciplina, nella sua pretesa di semplificare il sistema notificatorio attraverso l’introduzione della regola generale della notifica al domicilio digitale, si scontri con il dato (notorio) della scarsa diffusione fra i privati cittadini del sistema di posta elettronica certificata.
Stando così le cose, la riforma avrà almeno nel prossimo futuro una assai limitata applicazione pratica.
Di seguito si propone uno schema riassuntivo del regime delle notifiche all’esito delle modifiche introdotte dall’art. 10 del d. lgs. 150/2022.
NOTIFICA ALL’IMPUTATO DEGLI ATTI INTRODUTTIVI DEL GIUDIZIO
1. IMPUTATO DETENUTO
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 156 c.p.p. – Notificazioni all’imputato detenuto. 1. Le notificazioni all’imputato detenuto, anche successive alla prima, sono sempre eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona. (Omissis) 3. Le notificazioni all’imputato detenuto in luogo diverso dagli istituti penitenziari, anche successive alla prima, sono eseguite a norma dell’articolo 157, con esclusione delle modalità di cui all’articolo 148, comma 1. (Omissis). |
Si specifica, dunque, che la notifica dell’atto introduttivo all’imputato detenuto va fatta sempre a mani nel luogo di detenzione, senza eccezioni, con la precisazione che ciò vale anche per le notifiche successive alla prima.
La novella sembra recepire l’arresto delle Sezioni Unite secondo cui «Le notifiche all'imputato detenuto, anche qualora abbia dichiarato o eletto domicilio, vanno eseguite nel luogo di detenzione, con le modalità di cui all'art. 156, comma 1, cod. proc. pen., mediante consegna di copia alla persona» (sent. n. 12778/2020).
2. IMPUTATO NON DETENUTO (CHE NON HA ELETTO DOMICILIO)
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 157 c.p.p. - Prima notificazione all’imputato non detenuto. 1. Nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, la prima notificazione all’imputato non detenuto, che non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 01, è eseguita mediante consegna di copia dell’atto in forma di documento analogico alla persona. Se non è possibile consegnare personalmente la copia, la notificazione è eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa. Nella casa di abitazione la consegna è eseguita a una persona che conviva anche temporaneamente ovvero addetta alla casa ovvero al servizio del destinatario o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. In caso di notifica nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa, se non è possibile consegnare personalmente la copia, la consegna è eseguita al datore di lavoro, a persona addetta al servizio del destinatario, ad una persona addetta alla ricezione degli atti o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. (Omissis) 6. La consegna a persona diversa dal destinatario è effettuata in plico chiuso e la relazione di notificazione è effettuata nei modi previsti dall’articolo 148, comma 8. (Omissis). |
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 157-ter c.p.p. - Notifiche degli atti introduttivi del giudizio all’imputato non detenuto. 1. La notificazione all’imputato non detenuto dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna sono effettuate al domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’articolo 161, comma 1. In mancanza di un domicilio dichiarato o eletto, la notificazione è eseguita nei luoghi e con le modalità di cui all’articolo 157, con esclusione delle modalità di cui all’articolo 148, comma 1. (Omissis). |
La norma introduce la regola generale secondo cui la notifica dell’atto introduttivo del giudizio, nei casi in cui l’imputato non abbia domicilio digitale (art. 148, comma 4, c.p.p.) e non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. (cioè non sia stato avvertito dalla polizia giudiziaria in sede di identificazione del fatto che le notifiche successive alla prima saranno eseguite al difensore e che egli ha l’onere di comunicare a quest’ultimo un recapito telefonico o e-mail ove possa essere contattato) va eseguita preferibilmente con consegna di copia alla persona.
Se non è possibile consegnare personalmente l’atto al destinatario, la notifica è eseguita nella casa di abitazione (a una persona che conviva anche temporaneamente ovvero addetta alla casa ovvero al servizio del destinatario o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci) o nel luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa (se non è possibile consegnare personalmente la copia al destinatario, la consegna è eseguita al datore di lavoro, a persona addetta al servizio del destinatario, ad una persona addetta alla ricezione degli atti o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci).
Tali disposizioni si coordinano con l’art. 157-ter c.p.p., la quale statuisce la prevalenza in ogni caso del domicilio dichiarato/eletto.
Aspetto controverso: è possibile eseguire la notifica al domicilio digitale nei confronti dell’imputato che non abbia dichiarato o eletto domicilio? No.
Il legislatore sembra escludere tale possibilità nell’art. 157-ter, comma 1, c.p.p. ove precisa che «in mancanza di domicilio dichiarato o eletto la notificazione è eseguita nei luoghi e con le modalità di cui all’art. 157, con esclusione delle modalità di cui all’art. 148 comma 1» (quest’ultima norma introduce per l’appunto la regola generale della notifica al domicilio digitale).
3. IMPUTATO NON DETENUTO CHE HA ELETTO DOMICILIO (artt. 161 e 157-ter c.p.p.)
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 161 c.p.p. - Domicilio dichiarato, eletto o determinato per le notificazioni 01. La polizia giudiziaria nel primo atto compiuto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato, se è nelle condizioni di indicare le norme di legge che si assumono violate, la data e il luogo del fatto e l’autorità giudiziaria procedente, li avverte che le successive notificazioni, diverse da quelle riguardanti l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, la citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601 e il decreto penale di condanna, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio. Contestualmente la persona sottoposta alle indagini o l'imputato sono avvertiti che è loro onere indicare al difensore ogni recapito, anche telefonico, o indirizzo di posta elettronica o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato, nella loro disponibilità, ove il difensore possa effettuare le comunicazioni, nonché informarlo di ogni loro successivo mutamento. 1.Il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato non detenuto né internato lo invitano, a dichiarare uno dei luoghi indicati nell'articolo 157, comma 1, o un indirizzo di posta elettronica certificata ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna. Contestualmente avvertendolo che, nella sua qualità di persona sottoposta alle indagini o di imputato, ha la persona sottoposta alle indagini o l'imputato sono avvertiti che hanno l'obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, nonché nel caso in cui il domicilio sia o divenga inidoneo le notificazioni degli atti indicati verranno eseguite mediante consegna al difensore, già nominato o che è contestualmente nominato, anche d’ufficio. 1-bis. Della dichiarazione o della elezione di domicilio, ovvero del rifiuto di compierla, nonché degli avvertimenti indicati nei commi 1 e 2 è fatta menzione nel verbale. 2. Fuori del caso previsto dal comma 1, l'invito a dichiarare o eleggere domicilio è formulato con l'informazione di garanzia o con il primo atto notificato per disposizione dell'autorità giudiziaria. L'imputato è avvertito che deve comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in caso di mancanza, di insufficienza o di inidoneità della dichiarazione o della elezione, le successive notificazioni verranno eseguite nel luogo in cui l'atto è stato notificato. 3. L'imputato detenuto che deve essere scarcerato per causa diversa dal proscioglimento definitivo e l'imputato che deve essere dimesso da un istituto per l'esecuzione di misure di sicurezza, all'atto della scarcerazione o della dimissione ha l'obbligo di fare la dichiarazione o l'elezione di domicilio con atto ricevuto a verbale dal direttore dell'istituto, che procede a norma del comma 1. Questi lo avverte a norma del comma 1, iscrive La dichiarazione o elezione sono iscritte nell'apposito registro e il verbale è trasmesso immediatamente il verbale all'autorità che ha disposto la scarcerazione o la dimissione. 4. Se la notificazione nel domicilio determinato a norma del comma 2 diviene impossibile, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Nei casi previsti dai commi 1 e 3, se la dichiarazione o l'elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Tuttavia, quando risulta che, per caso fortuito o forza maggiore, l'imputato non è stato nella condizione di comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto, si applicano le disposizioni degli articoli 157 e 159. 4-bis. Nei casi di cui ai commi 1 e 3 l’elezione di domicilio presso il difensore è immediatamente comunicata allo stesso. |
Il legislatore mantiene la facoltà per l’indagato di dichiarare o eleggere domicilio ai fini della notifica dell’atto introduttivo del giudizio, con la precisazione che il soggetto può indicare a tali fini anche un indirizzo di posta elettronica certificata.
È prevista inoltre la facoltà di eleggere domicilio presso il difensore d’ufficio, il quale, come nel previgente regime, può non accettare l’elezione: in questo caso egli deve «attestare l’avvenuta comunicazione da parte sua all’imputato della mancata accettazione della domiciliazione o le cause che hanno impedito tale comunicazione» (art. 162 comma 4-bis, ultima parte, c.p.p.).
Infine, viene fatta salva la regola secondo cui, in caso di rifiuto di indicare un domicilio o di domicilio inidoneo o inesistente la notifica va eseguita mediante consegna al difensore (art. 161, comma 4, c.p.p.).
4. NOTIFICA D’URGENZA DEGLI ATTI INTRODUTTIVI (art. 157-ter comma 2 c.p.p.)
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 157-ter c.p.p. – Notifiche degli atti introduttivi del giudizio. (Omissis) 2. Quando sia necessario per evitare la scadenza del termine di prescrizione del reato o il decorso del termine di improcedibilità di cui all’articolo 344-bis oppure sia in corso di applicazione una misura cautelare ovvero in ogni altro caso in cui sia ritenuto indispensabile sulla base di specifiche esigenze, l’autorità giudiziaria può disporre che la notificazione all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione a giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna sia eseguita dalla polizia giudiziaria. (Omissis) |
L’autorità giudiziaria può disporre che la notificazione all’imputato dell’atto introduttivo sia eseguita dalla polizia giudiziaria in tre ipotesi:
- quando sia necessario per evitare la scadenza del termine di prescrizione del reato o il decorso del termine di improcedibilità di cui all’articolo 344-bis;
- quando sia in corso di applicazione una misura cautelare;
- in ogni altro caso in cui sia ritenuto indispensabile e improcrastinabile sulla base di specifiche esigenze.
NOTIFICHE SUCCESSIVE ALLA PRIMA (art. 157-bis c.p.p.)
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 157-bis c.p.p. - Notifiche all’imputato non detenuto successive alla prima. 1. In ogni stato e grado del procedimento, le notificazioni all'imputato non detenuto successive alla prima, diverse dalla notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna, sono eseguite mediante consegna al difensore di fiducia o di ufficio. 2. Se l’imputato è assistito da un difensore di ufficio, nel caso in cui la prima notificazione sia avvenuta mediante consegna di copia dell’atto a persona diversa dallo stesso imputato o da persona che con lui conviva, anche temporaneamente, o dal portiere o da chi ne fa le veci e l’imputato non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 01, le notificazioni successive non possono essere effettuate al difensore. In questo caso anche le notificazioni successive alla prima sono effettuate con le modalità di cui all’articolo 157 sino a quando non si realizzano le condizioni previste nel periodo che precede. |
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 157 c.p.p. – Prima notificazione all’imputato non detenuto. (Omissis) 8-ter. Con la notifica del primo atto, anche quando effettuata con le modalità di cui all’articolo 148, comma 1, l’autorità giudiziaria avverte l’imputato, che non abbia già ricevuto gli avvertimenti di cui all’articolo 161, comma 01, che le successive notificazioni, diverse dalla notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, della citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna, saranno effettuate mediante consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio. Avverte, inoltre, il destinatario dell’atto dell’onere di indicare al difensore ogni recapito telefonico o indirizzo di posta elettronica nella sua disponibilità, ove il difensore possa effettuare le comunicazioni, nonché di informarlo di ogni loro successivo mutamento. (Omissis) |
La regola generale è che tutte le notifiche successive alla prima all’imputato non detenuto sono eseguite mediante consegna di copia al difensore di fiducia o d’ufficio: infatti si precisa all’art. 164 c.p.p. che la dichiarazione o l’elezione di domicilio valgono solo per la notifica dell’atto introduttivo.
La nuova disciplina può essere così schematizzata:
- se si tratta di difensore di fiducia le notifiche degli atti successivi al primo sono sempre eseguite mediante consegna di copia a quest’ultimo;
- se si tratta di difensore d’ufficio e l’atto introduttivo non è stato ricevuto dall’imputato personalmente (o da persona convivente o dal portiere) e inoltre l’imputato non ha ricevuto gli avvertimenti ex art. 161 comma 01 c.p.p., le notifiche successive alla prima non possono essere eseguite con consegna di copia al difensore ma andranno effettuate ai sensi dell’art. 157 c.p.p.
- se l’imputato è detenuto, le notifiche successive alla prima andranno sempre effettuate con consegna nel luogo di detenzione.
Tale disciplina si coordina con le nuove norme in materia di avvertimenti di cui all’art. 161, comma 01, c.p.p. e all’art. 157, comma 8-ter, c.p.p. i quali prevedono espressamente che la polizia giudiziaria in sede di prima identificazione o l’autorità giudiziaria (nel caso in cui l’identificazione non abbia avuto luogo) avvertono il destinatario che le notifiche successive alla prima saranno effettuate mediante consegna di copia al difensore di fiducia o di ufficio e dell’onere di indicare al difensore ogni recapito telefonico o indirizzo e-mail ove il difensore possa contattarlo.
Aspetto critico: in sede applicativa potrebbe porsi il problema della disciplina da applicare al verbale contenente la modifica del capo di imputazione o una nuova contestazione, poiché si tratta senza dubbio di una notifica successiva all’atto introduttivo, ma l’art. 520 c.p.p. continua a prevedere che il verbale sia notificato all’imputato assente (rectius «non presente in aula» secondo la nuova dicitura dell’art. 520 c.p.p.).
LA COMUNICAZIONE DI CORTESIA
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 63-bis c.p.p. - Comunicazione di cortesia. 1. Fuori del caso di notificazione al difensore o al domiciliatario, quando la relazione della notificazione alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato attesta l’avvenuta consegna dell’atto a persona fisica diversa dal destinatario, la cancelleria o la segreteria dà avviso di cortesia al destinatario dell’avvenuta notifica dell’atto tramite comunicazione al recapito telefonico o all’indirizzo di posta elettronica dallo stesso indicato ai sensi dell’articolo 349, comma 3, del codice, annotandone l’esito. |
L’art. 63-bis c.p.p. introduce la “Comunicazione di cortesia” prevedendo che la cancelleria o la segreteria, in tutti i casi in la notificazione alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato (fatta eccezione per il caso di notificazione al difensore o al domiciliatario) attesta l’avvenuta consegna dell’atto a persona fisica diversa dal destinatario, dà avviso di cortesia al destinatario dell’avvenuta notifica dell’atto tramite comunicazione al recapito telefonico o all’indirizzo di posta elettronica dallo stesso indicato ai sensi dell’articolo 349, comma 3, del codice.
DOMICILIO DEL QUERELANTE E NOTIFICAZIONI AL QUERELANTE (ART. 153-BIS C.P.P.)
ARTICOLO INTRODOTTO |
Art. 153-bis c.p.p. - Domicilio del querelante. Notificazioni al querelante 1. Il querelante, nella querela, dichiara o elegge domicilio per la comunicazione e la notificazione degli atti del procedimento. A tal fine, può dichiarare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato. 2. Il querelante ha comunque facoltà di dichiarare o eleggere domicilio anche successivamente alla formulazione della querela, con dichiarazione raccolta a verbale o depositata con le modalità telematiche previste dall’articolo 111-bis, ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata con sottoscrizione autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore. La dichiarazione può essere effettuata anche presso la segreteria del pubblico ministero procedente o presso la cancelleria del giudice procedente. 3. In caso di mutamento del domicilio dichiarato o eletto, il querelante ha l’obbligo di comunicare all’autorità procedente, con le medesime modalità previste dal comma 2, il nuovo domicilio dichiarato o eletto. 4. Le notificazioni al querelante che non ha nominato un difensore sono eseguite presso il domicilio digitale e, nei casi di cui all’articolo 148, comma 4, presso il domicilio dichiarato o eletto. 5. Quando la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee, le notificazioni alla persona offesa che abbia proposto querela sono eseguite mediante deposito dell’atto da notificare nella segreteria del pubblico ministero procedente o nella cancelleria del giudice procedente. |
La norma introduce l’obbligo per il querelante, in sede di querela, di dichiarare o eleggere domicilio, specificando che a tal fine può dichiarare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.
Se non lo fa in sede di presentazione della querela, ha comunque la facoltà di dichiarare o eleggere domicilio in un secondo momento con deposito telematico (modalità previste dall’articolo 111-bis), con dichiarazione orale presso segreteria o cancelleria ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da persona autorizzata o dal difensore.
Ha poi l’obbligo di comunicare il nuovo domicilio dichiarato o eletto in caso di mutamento dello stesso.
DISCIPLINA TRANSITORIA
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 87 d.lgs. 150/2022 - Disposizioni transitorie in materia di processo penale telematico. 1. Con decreto del Ministro della giustizia, da adottarsi entro il 31 dicembre 2023 ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, sono definite le regole tecniche riguardanti il deposito, la comunicazione e la notificazione con modalità telematiche degli atti del procedimento penale, anche modificando, ove necessario, il regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia 21 febbraio 2011, n. 44, e, in ogni caso, assicurando la conformità al principio di idoneità del mezzo e a quello della certezza del compimento dell’atto. (Omissis) |
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 99-bis d.lgs. 150/2022 - Entrata in vigore (introdotto dal d.l. 162/2022) 1. Il presente decreto entra in vigore il 30 dicembre 2022. |
Da una prima lettura della disciplina transitoria in materia di notificazioni sembra potersi affermare che la stessa entrerà in vigore in modo progressivo.
Infatti, l’art. 99-bis statuisce che la riforma entrerà in vigore in data 30 dicembre 2022, cosicché anche le norme sulle notifiche saranno applicabili a partire da tale data.
Viene fatta salva però dall’art. 87 la disciplina concernente «la notificazione con modalità telematiche degli atti del procedimento penale», che per espressa previsione normativa entrerà in vigore dopo l’adozione di un decreto del Ministro della Giustizia contenente le regole tecniche volte a assicurare la certezza del compimento dell’atto: tale decreto dovrà essere adottato entro il 31 dicembre 2023.
In generale, trattandosi di norme di carattere processuale, vale il principio tempus regit actum, con la conseguenza che la nuova disciplina sarà applicabile solo alle notifiche effettuate dopo l’entrata in vigore della riforma.
Decreti di fissazione di udienza pubblica e di adunanze camerali in Cassazione emessi dopo il 18 ottobre 2022 e fino al 31 dicembre 2022: quali norme si applicano?
di Raffaele FRASCA
L’approssimarsi dell’entrata in vigore delle modifiche della c.d. Legge Cartabia per il processo di cassazione induce alcuni interrogativi relativi all’individuazione delle modalità regolatrici dello svolgimento dei giudizi a partire dal 1° gennaio 2023, per i quali la trattazione da parte della Corte di Cassazione sia stata fissata prima di quella data, cioè entro il 31 dicembre 2022 ed a partire dalla data di entrata in vigore della riforma, cioè dal 18 ottobre 2022.
Il legislatore delegato del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 ha dettato, nell’ambito della norma generale recante la disciplina transitoria, cioè l’art. 35, tre disposizioni espressamente concernenti il processo di cassazione, le quali, dunque dovrebbero governare – naturalmente per i profili processuali, cioè inerenti all’applicazione delle norme sul processo di cassazione – la transizione.
La prima norma, di carattere generale, si coglie nel comma 6 dell’art. 35. Essa è dettata per le modifiche recate dal decreto legislativo delegato riguardo al processo di cassazione, come emerge dal riferimento alle <<norme di cui al capo III del titolo III del libro secondo del codice di procedura civile e di cui al capo IV delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, come modificate dal presente decreto>>
Questa norma generale dispone che le novità introdotte con il decreto legislativo e, quindi, il disposto delle norme che esso ha modificato si applichino <<ai giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023
Prima di esaminare, il comma 7, v’è da segnalare che, ai di fuori di tale salvezza, il successivo comma 8 detta una disposizione transitoria speciale per la nuova norma dell’art. 363-bis c.p.c., quella che ha introdotto il c.d. rinvio pregiudiziale, stabilendo che essa entri in vigore solo a partire dal 30 giugno 2023 e per i procedimenti pendenti davanti al giudice di merito a quella data.
Il comma 7 dispone in questi termini:<<Gli articoli 372, 375, 376, 377, 378, 379, 380, 380-bis, 380-bis.1, 380-ter, 390 e 391-bis del codice di procedura civile, come modificati o abrogati dal presente decreto, si applicano anche ai giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1° gennaio 2023 per i quali non è stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio>>.
Una prima riflessione che la norma suggerisce è quella che il legislatore delegato ha assunto come oggetto di disciplina temporale la norme del giudizio di cassazione oggetto di modifiche o sostituzioni, che concernono stricto sensu il procedimento relativo allo svolgimento del giudizio di legittimità, restando così escluse le norme modificate o sostituite, inerenti ai motivi di ricorso per cassazione, ai provvedimenti impugnabili ed al contenuto-forma degli atti introduttivi del giudizio, cioè tutte quelle comprese nella Sezione I del capo del capo III, intitolata “dei provvedimenti impugnabili e dei ricorsi”, ma con la sola eccezione della norma dell’art. 372 c.p.c.
Le modifiche normative eccettuate sono tutte relative a norme contenute nella Sezione II del capo III, intitolate “del procedimento e dei provvedimenti”, con l’aggiunta del citato art. 372, che peraltro ha anch’esso carattere procedimentale.
Una seconda riflessione concerne non l’oggetto di disciplina quanto alle norme modificate o abrogate dal decreto legislativo, ma lo riguarda quanto ai giudizi cui, in evidente deroga alla disposizione generale del comma 6 dell’art. 35, esse debbono trovare applicazione. Tali giudizi sono indicati con due precisazioni, la prima relativa alla data della loro pendenza non già presso la Corte, a seguito di deposito, bensì alla data di pendenza con la notificazione; la seconda precisazione è relativa all’attività compiuta eventualmente dalla Corte riguardo ad essi.
Sotto il primo aspetto, il legislatore delegato dispone l’applicazione delle norme nuove o delle abrogazioni indicate con riferimento ai giudizi per i quali il ricorso è stato notificato alla data del 1° gennaio 2023, cioè, in effetti, fino al 31 dicembre 2022. È palese che così si considerano i ricorsi già pendenti presso la Corte prima del 1° gennaio 2023, data di entrata in vigore delle nuove norme e quelli che, anche se non depositati, saranno notificati prima di quella data.
Per essi si dispone, in deroga al comma 6, l’entrata in vigore delle norme indicate e lo si fa con riferimento a ricorsi già “pendenti” nel duplice senso indicato.
Sotto il secondo aspetto, il legislatore delegato ha ulteriormente delimitato tale applicazione di norme nuove o di abrogazioni di norme esistenti a procedimenti introdotti – nel senso indicato – prima del 1° gennaio 2023, ma lo ha fatto con una limitazione, cioè alludendo ai ricorsi <<per i quali non è stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio>>
In tal modo la disposizione del comma 7 dell’art. 35 contiene una prima norma, per così dire, in senso positivo, sebbene espressa paradossalmente con un’espressione negativa: essa è nel senso che per tutti i ricorsi notificati entro il 31 dicembre 2022 e, dunque, per quelli pendenti in questo senso a tale data, le nuove norme, per così dire procedimentali, e quella dell’art. 372, richiamate nello stesso comma, trovano applicazione quanto all’oggetto di disciplina – come s’è visto procedimentale – da esse indicato ad una condizione negativa, rappresentata dal “non essere” stato emesso prima del 1° gennaio 2023, cioè entro il 31 dicembre 2022 il decreto di fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio.
Dal comma 7 emerge, dunque, una regola positiva che è nel senso che per tutti i ricorsi notificati entro il 31 dicembre 2022 e, dunque, anche se depositati dopo, trovano applicazione le nuove norme procedimentali, cioè quelle che disciplinano il modo in cui il giudizio dev’essere trattato dalla Corte secondo le opzioni indicate rispettivamente dal nuovo art. 375 c.p.c. e dalle altre norme indicate.
La trattazione dei detti giudizi avverrà (a) o in pubblica udienza a norma del novellato art. 379 (b) o con uno dei procedimenti indicati dai novellati artt. 380-bis e 380-bis.1 c.p.c.
Questo vuol dire che le nuove norme procedimentali troveranno applicazione per tutti i procedimenti per i quali sia disposta dal 1° gennaio 2023 la trattazione, cioè venga emesso dopo quella data: a) o il decreto di fissazione in udienza pubblica a norma dell’art. 377, primo comma, (ed a tal riguardo si segnala l’ampliamento del termine dilatorio a sessanta giorni e la previsione della comunicazione dell’avviso dell’udienza al Pubblico Ministero presso la Corte); b) o – sempre in base a tale norma - il decreto di fissazione in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 novellato; c) ovvero sia attivato il procedimento ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.
Nel contempo, dal comma 7 dell’art. 35 emerge però anche una importante norma in senso negativo o, se si vuole, una diversa norma in senso positivo: essa è, intesa in senso negativo, nel senso che per i procedimenti pendenti al 31 dicembre 2022 nel senso indicato, non trovano applicazione le ricordate nuove norme procedimentali, ma quelle anteriori, cioè come sostituite o abrogate dalla riforma, se ed in quanto però la Corte abbia emesso entro quella stessa data i decreti di fissazione della trattazione rispettivamente ai sensi degli attuali artt. 377, primo comma, c.p.c. (per le udienze pubbliche), 380-bis c.p.c. (per le adunanze camerali ai sensi di questa norma) o dell’art. 377, primo comma, e dell’art. 380-bis.1. (per le adunanze camerali ai sensi di tale norma) o dell’art. 380-ter c.p.c. Intesa in senso positivo la norma è nel senso di dettare in senso positivo una disciplina per i casi di emissione di tali decreti di fissazione della trattazione.
E’ da rilevare che la formulazione dell’inciso <<per i quali non è stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio>>
Per quanto concerne la sopprimenda “apposita sezione” di cui all’attuale art. 376 c.p.c., cioè la Sesta Sezione-3, il disposto del comma 7 appena individuato comporterebbe che, se si fossero emessi decreti di fissazione dell’adunanza di cui all’art. 380-bis o 380-ter c.p.c. dal 18 ottobre 2022 per date successive al 31 dicembre 2022, ma prima di tale data, si sarebbe verificato anche una sorte di trascinamento dell’operatività della Sesta-3.
Ma, com’è noto, tale scelta non è stata effettuate, nel senso che non risulta attività di fissazione di adunanze di Sesta dopo il 31 dicembre 2022 e, quindi, è di fatto esclusa un’applicazione dopo tale data, in forza di decreti di fissazione, degli artt. 380-bis e 380-ter nel testo abrogando.
Il comma 7, quanto alla sua disposizione per così dire negativa (o in senso contrario positiva), cioè quella che esclude l’applicazione delle nuove norme che indica e dispone l’applicazione del testo vecchio di esse, concerne in pratica allora solo le udienze pubbliche e le adunanze camerali ai sensi dell’art. 380.bis.1 nel testo abrogando. I testi disciplinanti l’udienza pubblica (art. 377, 378 e 379 c.p.c.) e quello disciplinante l’adunanza camerale di Sezione Ordinaria (art. 380-bis.1 c.p.c.) troveranno applicazione ai procedimenti per i quali, con decreti di fissazione già emessi (ad oggi) dal 18 ottobre 2022 (e naturalmente a maggior ragione anche prima) o emessi entro il 31 dicembre 2022, sia stata già (ad oggi) o venga fissata un’udienza pubblica o un’adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1. per una data successiva al 31 dicembre 2022, cioè a far tempo dal 1° gennaio 2023.
Per quanto attiene alle adunanze camerali ai sensi dell’art. 380-bis.1. la conseguenza dell’applicazione del testo del comma 7 dell’art. 35 sarà che la fissazione dell’adunanza si sarà dovuta comunicare con i decreti già emessi ad oggi e si dovrà comunicare con i decreti emanandi fino al 31 dicembre 2022, agli avvocati delle parti ed al Pubblico Ministero presso la Corte, almeno quaranta giorni prima e che le attività di interlocuzione (rispettivamente memorie e conclusioni scritte) degli uni e dell’altro saranno regolate dal testo ancora vigente della norma, che così conserverà una sorta di ultrattività, quanto al decorso del termine per le conclusioni del Pubblico Ministero e del termine per le memoria delle parti, anche dopo il 31 dicembre 2022 (limitata, come s’è detto, ad adunanze fissate prima del 1° gennaio 2023).
Per quanto afferisce alle udienze pubbliche già fissate (sempre ad oggi, dopo il 18 ottobre 2022, ma anche prima) o fissande per date successive al 1° gennaio 2023 v’è da dire che diventa meno immediata una risposta circa le conseguenze applicative della norma del comma 7 dell’art. 35.
Occorre considerare, infatti, che le modalità di svolgimento della trattazione dei ricorsi in udienza pubblica in Cassazione attualmente non sono individuate o meglio non lo sono in via esclusiva dalla disciplina degli artt. 377, 378 e 379 del Codice, bensì da altra norma, espressa dalla legislazione sul COVID.
Sicché, la disposizione ricavabile dal comma 7 dell’art. 35 nel senso dell’applicabilità delle norme nuove indicate dal comma 7 ai procedimenti notificati entro il 31 dicembre 2022 per il caso di decreti di fissazione dell’udienza pubblica già emessi o che si emettano entro il 31 dicembre 2022 per udienze dopo fissate dal 1° gennaio 2023, non è rappresentata da quelle norme nel testo attualmente vigente, o meglio non lo è solo da quelle norme.
Essa è rappresentata, a ben vedere, oltre che dall’art. 377, primo comma, c.p.c. (dirò di seguito di tale limitazione), cioè dalla norma che prevede che il Primo Presidente per le Sezioni Unite e il Presidente Titolare della Sezione Semplice fissino l’udienza pubblica, e dagli artt. 378 e 379 (quest’ultima in via eventuale) anche da una norma speciale, che è il comma 8-bis dell’art. 23 del d.l n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, nella l. n. 176 del 2020, la quale così dispone: <
Questa norma è attualmente in vigore fino al 31 dicembre 2022, come emerge dall’art. 16, comma 1, del d.l. n. 228 del 2021, come modificata dalla l. di conversione n. 15 del 2022: tale norma dispone espressamente che l’art. 23, comma 8-bis sopra ricordato si debba osservare fino al 31 dicembre 2022.
Essa, come emerge dalla lettera, non si occupa direttamente della fissazione dell’udienza pubblica, ma della “decisione” dei ricorsi in udienza pubblica.
Il potere di fissazione dell’udienza pubblica, a seguito dell’introduzione della norma, rimase, in realtà, disciplinato dall’art. 377, primo comma, c.p.c. e, semmai quella introduzione, in ragione dei termini assegnati al Pubblico Ministero e alle parti per la richiesta di trattazione effettiva in pubblica udienza, determinò la inapplicabilità del secondo comma dell’art. 377 quanto al termine dilatorio e un’integrazione soggettiva al suo disposto, nel senso dell’obbligatoria comunicazione anche al Pubblico Ministero presso la Corte del decreto di fissazione dell’udienza (e ciò proprio per consentirgli quella richiesta e l’alternativa delle conclusioni scritte). L’inapplicabilità del disposto del secondo comma discendeva dalla concessione del temine di venticinque giorni a parti e pubblico ministero per la detta richiesta, il che esigeva necessariamente che il decreto fosse comunicato ben prima dei venti giorni di cui al citato secondo comma. L’obbligo di comunicazione del decreto al Pubblico Ministero, non previsto per il decreto di cui al secondo comma dell’art. 377, discendeva dalla previsione che Egli dovesse scegliere fra il presentare le conclusioni scritte e il chiedere la pubblica udienza effettiva[1].
Ora, il disposto del comma 8-bis, come ho già rilevato, regola direttamente la “decisione” e non - se non sotto il profilo appena indicato dell’ampliamento del termine per la comunicazione e della sua estensione soggettiva - il decreto di fissazione dell’udienza.
Ne consegue che, in mancanza di una norma che allo stato sia intervenuta a disciplinare le conseguenze della cessazione della vigenza del comma 8-bis indicata dall’art. 16, comma 1, del d.l. n. 228 del 2021, come modificata dalla l. di conversione n. 15 del 2022 alla data del 31 dicembre 2022, applicando il principio tempus regit actum[2], l’oggetto di disciplina della norma, del comma 8-bis essendo rappresentato dalla modalità di svolgimento dell’udienza pubblica e non dal decreto di fissazione della stessa, resterà regolato da essa fino alla data per la quale la norma che ne dispone circa l’applicabilità sotto il profilo temporale, cioè il citato art. 16, comma 1, dispone ch’abbia vigore, cioè fino al 31 dicembre 2022.
Si deve, dunque, ritenere che la permanente vigenza fino al 31 dicembre 2022 della norma del comma 8-bis debba essere predicata solo per le udienze pubbliche che si debbano tenere per date fino a tutto il 31 dicembre 2022, cioè fino alla data indicata dal citato art. 16, comma 1 attualmente vigente.
Poiché l’udienza davanti alla Corte di Cassazione è fissata allo stato con il decreto di cui all’art. 377, primo comma, c.p.c., ed esso deve rispettare in relazione alla data dell’udienza che fissa i termini indicati dal comma 8-bis, la vigenza di quest’ultimo, quanto a tale contenuto ed alle modalità di svolgimento dell’udienza si verificherà fino al 31 dicembre 2022, il che significa che riguarderà le udienze entro tale data per le quali il decreto di fissazione abbia potuto o possa, in ipotesi, ad oggi ancora osservare i termini indicati dallo stesso comma 8-bis.
Per i decreti di fissazione di udienze pubbliche da decidersi in date successive, sebbene già emessi dalla Corte o da emettersi sempre fino al 31 dicembre 2022, la norma del comma 8-bis risulterà invece inapplicabile, secondo il principio tempus regit actum perché la fissazione dell’udienza dopo il 31 dicembre 2022 la colloca al di fuori della vigenza stabilità per il suo oggetto di disciplina dal citato art. 16, comma 1 e perché, con riferimento all’emissione del decreto steso, del resto, l’oggetto di disciplina del suo contenuto, in quanto contemplante una udienza successiva al 31 dicembre 2022, non è regolato dal comma 8-bis ma dalla norma dell’art. 377 c.p.c. attualmente vigente.
Sarà, invece, applicabile a detti decreto la norma desumibile in senso negativo dal comma 7 dell’art. 36 del d.lgs. n. 149 del 2022 (cioè l’applicazione del regime dell’udienza pubblica anteriore al d.lgs. Cartabia), cioè il testo dell’art. 377 presente nel codice di procedura civile fino al 31 dicembre 2022, quello attualmente vigente, senza alcuna integrazione indiretta nei sensi del comma 8-bis.
L’art. 377 c.p.c. deve ricevere integrale applicazione nel senso che i decreti stessi sono sottoposti alla disposizione in esso contenuta nella sua interezza, cioè sia quanto al primo che al secondo comma dell’art. 377, con la conseguenza che non ne è necessaria la comunicazione al Pubblico Ministero (che potrà conoscere della fissazione per il tramite della comunicazione del calendario delle pubbliche udienze) e potrà osservarsi il termine dilatorio di venti giorni, di cui all’attuale secondo comma della norma, quello per il deposito di memorie di cui all’art. 378 c.p.c. e la modalità di svolgimento dell’udienza ai sensi dell’art. 379 nei testi attualmente vigenti. L’udienza pubblica, dunque, fissata o fissanda con decreti emessi entro il 31 dicembre 2022 per date successive sarà da tenersi effettivamente con l’obbligatoria partecipazione del Pubblico Ministero presso la Corte e la possibilità di partecipazione dei difensori.
Non è possibile ritenere che la fissazione già avvenuta o la fissazione che avvenga prima del 31 dicembre 2022 di udienze pubbliche dal 1° gennaio 2023 sia soggetta all’art. 23, comma 8-bis, perché tale norma disciplina direttamente solo le modalità di tenuta di udienze da svolgersi fino al 31 dicembre 2022 ed il tempo del decreto di fissazione di esse è da essa regolato solo indirettamente ed esclusivamente in relazione ad udienze che debbano tenersi entro il 31 dicembre 2022, giusta la norma dell’art. 16, comma 1, del d.l. n. 228 del 2021, come modificata dalla l. di conversione n. 15 del 2022.
Poiché la norma del comma 8-bis non disciplina direttamente il potere di fissazione dell’udienza pubblica, il riferimento temporale al 31 dicembre 2022 non può essere assunto, secondo il principio tempus regit actum, come idoneo a regolare l’esercizio di quel potere, trattandosi di riferimento temporale correlato alla data di svolgimento dell’udienza e come tale solo indirettamente ed in relazione al situarsi della data entro il 31 dicembre 2022 idoneo a spiegare effetti sul decreto di fissazione dell’udienza (quanto al termine dilatorio) e conseguentemente sui poteri del Pubblico Ministero e delle parti.
Ne segue che i decreti di fissazione di udienze pubbliche da tenersi a partire dal 1° gennaio 2023 già emessi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 149 del 2022, avvenuta in forza dell’art. 52 il giorno 18 ottobre 2022, e quelli che ancora potranno essere emessi fino al 31 dicembre 2022, saranno disciplinati dagli artt. 377, 378 e 379 attualmente vigenti e ciò in forza del disposto del comma 7 dell’art. 35 del d.lgs.
Di tali decreti non doveva o non dovrà essere fatta comunicazione al Pubblico Ministero, giusta il secondo comma dell’art. 377 attualmente vigente, da osservarsi anche per il termine dilatorio, l’udienza pubblica avrà svolgimento effettivo ai sensi dell’attuale art. 379 c.p.c. e le parti vedranno regolati i loro poteri dall’art. 378 e dallo stesso art. 379 c.p.c.
Inoltre, l’individuazione della modalità di trattazione in udienza pubblica sarà regolata dall’ancora vigente ultimo comma dell’art. 377 c.p.c.
Mette conto di rilevare che, ove i decreti di fissazione già in ipotesi emessi, lo siano stati con erronea indicazione della operatività dell’art. 23, comma, 8-bis, più volte citato, da parte della cancelleria, sarà opportuno, ai fine di evitare equivoci per il Pubblico Ministero e le parti, che si diano disposizioni alla Cancelleria di inviare un avviso di tenuta “normale”, “effettiva”, dell’udienza.
In fine, occorre ancora considerare che la ricostruzione fatta è basata su un dato: la permanenza dello stato emergenziale fino al 31 dicembre 2022. Ove lo stato emergenziale dovesse essere prorogato, sarebbe opportuno che il legislatore dettasse una regola transitoria, da applicarsi a decreti già emessi per udienze successive al 31 dicembre 2022.
[1] Sull’esegesi della norma, mi sia consentito rinviare al mio scritto su Questione Giustizia (gennaio 2021), L’udienza pubblica “eventuale” della Cassazione civile (cioè a libito di una parte e/o del Pubblico Ministero) (Considerazioni sull’art. 23, comma 8-bis del d.l. n. 137 del 2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 176 del 2020)
[2] Su di esso si veda Cass. n. 3688 del 2011, secondo cui nel caso di successione di leggi processuali nel tempo, ove il legislatore non abbia diversamente disposto, in ossequio alla regola generale di cui all'art. 11 delle preleggi, la nuova norma disciplina non solo i processi iniziati successivamente alla sua entrata in vigore ma anche i singoli atti, ad essa successivamente compiuti, di processi iniziati prima della sue entrata in vigore, quand'anche la nuova disciplina sia più rigorosa per le parti rispetto a quella vigente all'epoca di introduzione del giudizio.
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