ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. L’origine della disciplina dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati in sede penale. Il costante riferimento alla disciplina di sequestro e confisca di prevenzione. - 2. La disciplina previgente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019. - 3. La disciplina prevista dal d.lgs. n. 14/2019 (in vigore dal 15 luglio 2022). 4. La disciplina prevista dal d.lgs. n. 150/2022 (in vigore dal 30 dicembre 2022). - 5. La vendita dei beni confiscati (modifica dell’art. 86 comma 1 disp. att. c.p.p.), cenni essenziali. - 6. Lo schema proposto.
1. L’origine della disciplina dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati in sede penale. Il costante riferimento alla disciplina di sequestro e confisca di prevenzione.
Per collocare la vigente disciplina, è opportuna una ricostruzione della complessa evoluzione della disciplina dell’amministrazione dei beni sequestrati contenuta nelle diverse versioni introdotte nel tempo dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p.[1]
Il riferimento costante alla regolamentazione in sede penale è rappresentato dalla disciplina in materia di sequestro e confisca di prevenzione che costituisce la regolamentazione più risalente e di maggiore applicazione pratica, che ha sempre costituito un riferimento nella materia penale che progressivamente l’ha adottata, fino alla quasi sostanziale parificazione intervenuta col d.lgs. n. 14/2019 e, poi, col d.lgs. n. 150/2022.
È noto che l’amministrazione giudiziaria del sequestro e della confisca di prevenzione ha trovato una coerenza normativa col d.lgs. n. 159/2011, cd. Codice antimafia, che, al Libro I, ha disciplinato in modo coordinato numerosi temi la cui disciplina è reciprocamente influenzata:
a) l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati (Titolo III, Capi I e II);
b) la tutela dei diversi terzi coinvolti dal sequestro e dalla confisca (Titolo IV, Capi I e II);
c) l’amministrazione e destinazione dei beni definitivamente confiscati (Titolo IV, Capo III);
d) i rapporti con le procedure concorsuali (Titolo IV, Capo III).
Le caratteristiche del sistema delineato dal d.lgs. n. 159/2011 e succ. mod., all’interno delle quali si disciplina coerentemente l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, possono essere così sintetizzate:
– l’amministrazione dei beni sequestrati nel corso del procedimento di cognizione finalizzato alla confisca (svolto dall’esecuzione del sequestro alla confisca definitiva) è regolamentata (artt. 21 e da 34 a 43 d.lgs. n. 159/2011), coerentemente con gli effetti della confisca, ivi compresa la tutela di ogni tipologia di terzo; l’amministrazione giudiziaria, fino alla confisca di secondo grado, è diretta dal giudice delegato, nominato dal tribunale tra i componenti del collegio che ha disposto il sequestro, coadiuvato dall’amministratore giudiziario; successivamente interviene l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata che precedentemente è titolare di meri compiti di ausilio al giudice delegato;
– la devoluzione del bene confiscato, privo di oneri e pesi (art. 45 d.lgs. cit.), comporta la risoluzione all’interno del procedimento di prevenzione di tutte le vicende relative al bene acquisito dallo Stato al fine di depurarlo di qualsiasi problematica e semplificarne la destinazione, in primo luogo attraverso la tutela dei terzi coinvolti a vario titolo dal sequestro e dalla confisca;
– la sorte dei contratti in corso e delle azioni esecutive individuali e collettive (fallimento) è regolamentata prevedendo: 1) la prosecuzione di alcune tipologie di contratti attraverso un apposito procedimento (artt. 56 d.lgs. cit.); 2) la sospensione delle azioni esecutive e la loro estinzione all’esito della confisca derivante dalla tutela attribuita ai terzi nell’ambito del procedimento di prevenzione (art. 55 d.lgs. cit.); 3) la prevalenza del sequestro di prevenzione per i beni assoggettati a fallimento (dichiarato prima o dopo il sequestro), con soddisfacimento dei creditori nel procedimento di prevenzione nel rispetto delle disposizioni previste per la tutela dei terzi (art. 63 ss. d.lgs. cit.);
– il pagamento delle somme dovute ai terzi avviene al termine di un apposito procedimento nel corso del quale trovano tutela i crediti sorti prima del sequestro previo accertamento di determinati presupposti e con determinati limiti (artt. 52 ss. d.lgs. cit.). Se necessario i beni confiscati sono venduti per soddisfare i creditori (art. 57 ss. d.lgs. cit.), pagati (dall’Agenzia Nazionale) secondo un ordine simile a quello previsto dalla legge fallimentare (art. 61 comma 2 d.lgs. cit.).
Interpretazioni giurisprudenziali e interventi normativi hanno progressivamente esteso, in tutto o in parte, le disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 alle diverse tipologie di sequestri e confische penali.
Va sottolineato che l’estensione della disciplina del Codice Antimafia dovrebbe tenere conto che il sistema delineato presenta una sua coerenza che impone il coordinamento della regolamentazioni dei diversi sub procedimenti che si affiancano al procedimento (di cognizione) finalizzato alla confisca:
a) amministrazione giudiziaria dei beni sequestrati;
b) tutela dei terzi, anche nell’ambito delle procedure esecutive individuali e collettive (o fallimentari);
c) gestione e destinazione dei beni confiscati.
Solo tenendo conto costantemente del coordinamento di questi tre segmenti procedurali la disciplina può assumere coerenza, tenendo conto, peraltro, delle specificità e delle funzioni delle singole tipologie di confisca[2].
2. La disciplina previgente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019.
La regolamentazione dell’amministrazione dei beni sequestrati nel procedimento penale, contenuta nell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., inserito con la l. n. 94/2009, più volte modificata, con rilevanti problematiche interpretative, si può così sintetizzarsi prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019 sulla crisi d’impresa (15 luglio 2022):
a) per il sequestro (preventivo) – impeditivo o finalizzato a ogni tipologia di confisca – il giudice che lo dispone nomina un amministratore giudiziario qualora «sia necessario assicurare l’amministrazione» (artt. 104-bis comma 1 e 1-bis disp. att. c.p.p.);
b) per il sequestro funzionale alla confisca allargata (o estesa o per sproporzione) prevista dall’art. 240-bis c.p. (e dalle norme di leggi speciali che espressamente a questo articolo rinviano[3]) o adottati per i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., si applicano le disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 in materia di amministrazione dei beni sequestrati, tutela dei terzi e destinazione dei beni confiscati (art. 104-bis, comma 1-quater, disp. att. c.p.p. e art. 110, comma 1, lett. c ed e, d.lgs. n. 159/2011);
c) per il sequestro funzionale a forme di confisca diverse dalla confisca allargata[4]:
c/1) per l’amministrazione dei beni sequestrati, si applicano le disposizioni previste dal d.lgs. n. 159/2011 (art. 104-bis, comma 1-bis secondo periodo); i compiti del giudice delegato sono svolti dal giudice che ha disposto il sequestro (e ha nominato l’amministratore giudiziario), salvo che si tratti di organo collegiale, nel qual caso questo organo nomina il giudice delegato tra i componenti del collegio (art. 104-bis commi 1-bis e 1-ter, disp. att. c.p.p.);
c/2) per la tutela dei terzi, vi sono incertezze sull’operatività delle disposizioni del d.lgs. n. 159/2011;
c/3) per i rapporti con le procedure concorsuali, si esclude l’applicabilità delle disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 e la regolamentazione si rinviene nei principi posti da una risalente sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., sez. un, 12.2.2014, Focarelli );
c/4) per la destinazione dei beni confiscati, si esclude l’applicabilità delle norme del d.lgs. n. 159/2011 e, dunque, la competenza dell’Agenzia nazionale[5], trovando applicazione le disposizione degli artt. da 86 a 88 disp. att. c.p.p. o la regolamentazione di leggi speciali.
Va aggiunto che:
– per il sequestro funzionale a ogni tipologia di confisca, si prevede la citazione, nel processo di cognizione, dei terzi titolari di diritti reali o personali di godimento su beni in sequestro, senza alcuna distinzione (art. 104-bis, comma 1-quinquies, disp. att. c.p.p.)[6];
– per la confisca senza condanna di cui all’art. 578-bis c.p.p., si prevede l’applicabilità delle disposizioni in materia di confisca allargata e di citazione dei terzi esposte supra, lett. b) e d) (art. 104-bis comma 1-sexies disp. att. c.p.p.).
3. La disciplina prevista dal d.lgs. n. 14/2019 (in vigore dal 15 luglio 2022).
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019 (15 luglio 2022), la disciplina muta considerevolmente:
a) i rapporti col sequestro preventivo previsto dall’art. 321 c.p.p. finalizzato a ogni forma di confisca penale sono regolati attraverso un rinvio generale alle disposizioni dell’intero Titolo IV del Libro I d.lgs. n. 159/2011 (art. 317 d.lgs. n. 14/2019) e, dunque, con la prevalenza della misura reale penale. La liquidazione giudiziale prevale, invece, sul sequestro impeditivo previsto dall’art. 321 comma 1 c.p.p. (art. 318 d.lgs. n. 14/2019);
b) l’art. 373 d.lgs. n. 14/2019 riscrive i commi 1-bis e 1-quater dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p. per coordinarli con la nuova disciplina introdotta dal citato art. 317, per cui:
– nel caso di sequestro impeditivo, si applicano le sole disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 «nella parte in cui recano la disciplina della nomina e revoca dell’amministratore, dei compiti, degli obblighi dello stesso e della gestione dei beni». Condivisibilmente non trovano ingresso le disposizioni in materia di tutela dei terzi e destinazione dei beni definitivamente confiscati in quanto gli effetti del sequestro impeditivo cessano con la sentenza definitiva se non è trasformato in sequestro preventivo finalizzato alla confisca (art. 323 c.p.p.). La liquidazione giudiziale prevale (art. 318 d.lgs. n. 14/2019);
– nell’ipotesi di sequestro finalizzato alla confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p. (e delle norme di leggi speciali che espressamente a questo articolo rinviano) o adottati per i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., si applicano le disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati e di esecuzione del sequestro (intero Titolo III del libro I, artt. da 35 a 51-bis)[7], nonché dell’intero Titolo IV (tutela dei terzi e rapporti col fallimento, ora liquidazione giudiziale (art. 104-bis comma 1-quater disp. att. c.p.p.). Dunque, si prevede espressamente anche il rinvio alle disposizioni sulla prevalenza del fallimento (ora liquidazione giudiziale) di cui agli artt. 63 e 64 d.lgs. n. 159/2011;
– in presenza di sequestro finalizzato a ogni forma di confisca diversa da quelle supra lett. b), oltre alle disposizioni in materia di amministrazione dei beni sequestrati (come previsto dall’art. 104-bis comma 1-bis, primo periodo, al pari del sequestro impeditivo)[8], si applicano le disposizioni del Libro I, Titolo IV del d.lgs. n. 159/2011 in materia di tutela dei terzi e rapporti con la procedura di liquidazione giudiziaria. Sono escluse, dunque, le sole disposizioni in materia di destinazione dei beni confiscati (competenza dell’Agenzia nazionale e operatività degli art. 86 ss. disp. att. c.p.p.).
Si pone il tema della disciplina intertemporale, potendo ritenersi che almeno le nuove disposizioni relative ai rapporti con la liquidazione giudiziale si applichino solo ai procedimenti avviati dopo l’entrata in vigore della riforma, in considerazione della disciplina organica della crisi e dell’insolvenza dell’impresa individuale o collettiva contenuta nel decreto legislativo e di quanto disposto dall’art. 390 d.lgs. n. 14/2019. Per le altre disposizioni, trattandosi di norme processuali e procedimentali, in assenza di disposizioni transitorie, si può ritenere che operi il criterio generale indicato nel principio tempus regit actum, sempre che non siano esauriti gli effetti e, dunque, concluso il procedimento[9].
4. La disciplina prevista dal d.lgs. n. 150/2022 (in vigore dal 30 dicembre 2022).
Il d.lgs. n. 150/2022, apporta limitate modifiche alla rubrica e ad alcuni commi dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p. in materia di amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e dei beni confiscati.
La relazione illustrativa precisa «Le norme contenute nell’art. 104-bis disp. att. c.p.p. continuano a disciplinare l’amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo, conformemente alla ratio della direttiva di cui alla lett. b) dell’art. 1, comma 14, della legge delega. La soluzione prescelta determina anche un coordinamento con la disciplina dei commi 1-bis e 1-quater dell’art. 104-bis modificata dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, entrata in vigore il 15 luglio 2022, senza necessità di ulteriori modifiche».
Le modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2022 ai singoli commi (e alla rubrica) dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., però, alla luce del dato testuale e dell’evoluzione normativa ricordata assumono un più ampio rilievo perché dirette a regolamentare non solo, come avviene oggi, l’amministrazione dei beni sequestrati, ma anche l’amministrazione dei beni confiscati, dalla definitività della pronuncia fino alla loro destinazione, colmando così una lacuna che ha comportato rilevanti incertezze applicative.
Le modifiche al comma 1 dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p.[10] consentono di riferire la nomina dell’amministratore giudiziario (non solo al sequestro ma) anche a ogni ipotesi in cui dopo la definitività della confisca sia necessario nominare un amministratore giudiziario per la gestione del bene. Dunque, in ogni caso in cui occorra iniziare o proseguire la gestione dei beni dopo la confisca definitiva l’amministratore giudiziario potrà essere nominato dal giudice dell’esecuzione che dirigerà l’amministrazione giudiziaria fino alla definitiva destinazione, anche con la vendita prevista dall’art. 86 comma 1 disp. att. c.p.p., colmando la criticità oggi presente. Viene, così, data soluzione al tema della gestione dei beni appresi dopo la confisca definitiva (diversa da quella disposta ai sensi dell’art. 240-bis c.p. e 51 comma 3-bis c.p.p. per i quali interviene l’Agenzia nazionale), per i quali mancava un’espressa regolamentazione, con le conseguenti incertezze in ordine alla competenza sui provvedimenti da adottare (generalmente individuata nel giudice dell’esecuzione) e sulla concreta gestione fino alla destinazione definitiva, non essendo espressamente prevista la nomina di un amministratore giudiziario[11].
La modifica al comma 1-bis dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p.[12], con l’inserimento, ancora una volta, del termine confisca, conferma l’interpretazione proposta con riferimento all’analoga modifica del comma 1 esaminata: l’amministratore giudiziario nominato in esecuzione della confisca definitiva applicherà le disposizioni in materia di amministrazione dei beni previste dal d.lgs. n. 159/2011[13].
L’intervento sul comma 1-quater dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., con la soppressione dell’ultimo periodo «Restano comunque salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno», che trovava applicazione solo per la confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p., va posta in relazione con l’estensione del suo contenuto a ogni ipotesi di confisca in forza dell’integrale sostituzione del comma 1-sexies dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p.
La modifica del comma 1-sexies dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., secondo cui «Le disposizioni dei commi 1-quater e 1-quinquies si applicano anche nel caso indicato dall’articolo 578-bis del codice:
– fa venire meno un’ingiustificata disparità di trattamento, estendendo opportunamente la prevalenza dei diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno in ogni ipotesi di confisca, prima prevista (dal soppresso comma 1-quater da ultimo citato) sola per la confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p;
– estende testualmente alla confisca prevista dall’art. 578-bis c.p.p. (decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione) l’intera regolamentazione contenuta nei precedenti commi dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p. e non i soli commi 1-quater e 1-quinquies in precedenza richiamati, così operando una più corretta regolamentazione.
Infine, si modifica la rubrica attuale («Amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo e a sequestro e confisca in casi particolari. Tutela dei terzi nel giudizio.») che diviene: «Amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e confisca. Tutela dei terzi nel giudizio.». Si conferma l’interpretazione che si è proposta in ordine all’inserimento della confisca ai commi 1 e 1-bis e, dunque, all’applicabilità delle disposizioni in materia di amministrazione giudiziaria (e tutela dei terzi) anche nel caso di esecuzione di confisca non preceduta da sequestro.
In ordine alle questioni di diritto intertemporale, si ritiene che trattandosi di norme processuali e procedimentali, in assenza di norme transitorie operi il principio tempus regit actum, sempre che non siano esauriti gli effetti e, dunque, conclusa la relativa fase[14], pur con inevitabili difficoltà applicative.
5. La vendita dei beni confiscati (modifica dell’art. 86 disp. att. c.p.p.), cenni essenziali.
La disciplina dell’esecuzione della confisca è contenuta negli artt. 86 ss. disp. att. c.p.p. Gli artt. 86-bis, 86-ter e 88 disp. att. c.p.p. prevedono specifiche destinazioni, mentre l’art. 86 disp. att. c.p.p. affronta il tema di carattere generale della «Vendita e distruzione delle cose confiscate».
Il comma 1 dell’art. 86, nel testo previgente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 150/2022, prevedeva: «La cancelleria provvede alla vendita delle cose di cui è stata ordinata la confisca, salvo che per esse sia prevista una specifica destinazione.». La disposizione risale all’introduzione del codice di rito del 1989, quando non esistevano le forme di confisca allargata, per equivalente e (in parte) obbligatorie, con la conseguente scarsa applicabilità in generale e, comunque solo per beni determinati costituiti, di norma, da veicoli o beni mobili.
Una specifica destinazione (e regolamentazione dell’amministrazione dei beni confiscati definitivamente), perciò con conseguente inapplicabilità del citato art. 86 disp. att. c.p.p., era (ed è) prevista (oltre che da leggi speciali) per l’Agenzia nazionale per la destinazione dei beni definitivamente confiscati all’esito del procedimento di prevenzione nonché nel caso di confisca allargata o estesa oggi prevista dall’articolo 240-bis del codice penale o dalle altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, nonché alle confische per delitti previsti dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. (cfr. Supra)
Di conseguenza, si riteneva applicabile l’art. 86 disp att. c.p.p. per l’esecuzione di ogni forma di confisca diversa da quelle ora richiamate, con difficoltà delle cancellerie del giudice dell’esecuzione e formazione di prassi operative diverse su cui non è necessario soffermarsi alla luce della nuova normativa.
Nessuna regolamentazione era prevista per l’amministrazione dei beni dalla definitività della confisca definitiva alla sua esecuzione, con la destinazione e/o vendita del bene[15].
L’art. 41 lett. i n. 1 d.lgs. n. 150/2022, modifica l’art. 86 comma 1 disp. att. c.p.p., aggiungendo un secondo periodo secondo cui «Il compimento delle operazioni di vendita può essere delegato a un istituto all’uopo autorizzato o a uno dei professionisti indicati negli articoli 534-bis e 591-bis del codice di procedura civile, con le modalità ivi previste, in quanto compatibili».
Dunque, per la liquidazione dei beni definitivamente confiscati nell’ambito di processi penali per reati per i quali non si applicano le disposizioni del d.lgs. n. 159/2011 (o di altre leggi speciali), si conferma l’applicabilità della disciplina dell’art. 86 disp. att. c.p.p. e si consente alle cancellerie penali di delegare le operazioni di vendita con le modalità prevista dagli articoli 534-bis e 591-bis c.p.c.
6. Lo schema proposto.
In considerazione della complessità della disciplina e delle difficoltà applicative si propone e allega uno schema della disciplina applicabile ai sequestri penali (finalizzati alla confisca, impeditivo, probatorio e conservativo) in ordine:
a) all’individuazione dell’Autorità Giudiziaria competente alla nomina dell’amministratore o del custode;
b) all’individuazione dell’Autorità Giudiziaria competente alla direzione dell’amministrazione/custodia;
c) alle disposizioni applicabili nell’amministrazione o nella custodia;
d) alle disposizioni applicabili per la tutela dei terzi e nei rapporti con le azioni esecutive, fallimento/liquidazione giudiziale;
e) alle disposizioni applicabili al termine del procedimento (con o senza confisca) sulla destinazione dei beni.
Lo schema si propone di sintetizza la disciplina applicabile, senza pretesa di esaustività e nel tentativo di offrire uno strumento di immediata lettura di una normativa oggetto di plurime modifiche e di continue evoluzioni interpretative come esposto in precedenza.
Per mera comodità in nota sono riportati richiami normativi e giurisprudenziali essenziali e sintetiche valutazioni, ove opportuno.
Lo schema non contempla numerose ipotesi particolari che si possono verificare, a partire dal regime transitorio relativo alle modifiche apportate dalla l. n. 161/2017, dal d.lgs. n. 14/2019 e dal d.lgs. n. 150/2022, regime talvolta solo delineato in linea molto generale occorrendo plurime specificazioni e approfondimenti.
La difficoltà di schematizzare una disciplina complessa può comportare imprecisioni che potranno essere segnalate per aggiornamenti successivi, facendosi sempre riferimento nello schema alla data dell’aggiornamento.
[1] Il presente articolo prende spunto da precedenti scritti: F. menditto, La riforma penale (l. n. 134/2021): le disposizioni in materia di sequestro e confisca dello schema di decreto delegato presentato dal governo, in Sist. pen., 14.9.2022; Id, L’amministrazione giudiziale dei beni sequestrati e confiscati. L’esecuzione della confisca, Milano, 2023, in Riforma Cartabia, La nuova giustizia penale, a cura di D. Castronuovo-M. Donini – E.M. Mancuso- G. Varraso.
L’articolo costituisce l’occasione per un’ulteriore riflessione dopo l’approfondimento del Corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura del 15 al 17 maggio 202 su L’amministrazione dei beni: dal sequestro alla definitività della confisca, nelle misure di prevenzione e nel processo penale e per presentare l’allegato Schema, predisposto con finalità eminentemente pratiche.
[2] Si pensi, ad esempio alle diversità tra confisca allargata, che interviene sull’intero patrimonio sproporzionato rispetto al reddito dichiarato di cui il condannato non può giustificare la legittima provenienza, e confisca per equivalente che riguarda singoli beni di origine lecita acquisiti in sostituzione dei beni di origine illecita non rinvenuti.
[3] Si tratta degli artt. 85-bis d. P.R. n. 309/1990 (stupefacenti) e 301, comma 5-bis, d.P.R. n. 43/1973 (contrabbando), originariamente presenti nell’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, conv. con la l. n. 356/1992, poi inseriti nelle leggi speciali dal d.lgs. n. 21/2018); nonché dell’art. 12-ter d.lgs. n. 74/2000 (reati tributari), introdotto dal d.l. n. 124/2019, conv. con la l. n. 157/2019.
[4] Confisca facoltativa di cui all’art. 240 comma 1 c.p., confisca obbligatoria prevista dall’art. 240 comma 2 c.p. e da numerose leggi speciali, confisca per equivalente prevista da alcuni delitti del codice penale e di leggi speciali.
[5] Cass., sez. III, 12.12.2019, Marchio, in Ced cass., n. 279462.
[6] La disposizione è stata inserita dal d.lgs. n. 21/2018, pur se trattavasi di delega meramente ricognitivo della preesistente regolamentazione contenuta nell’art. 12-sexies comma 4-quinquies d.l. n. 306/1992, conv. con la l. n. 356/1992, che si riferiva alla sola confisca allargata.
[7] Per un mero difetto di coordinamento alcuni dubbi possono sorgere quando, nei diversi commi dell’art. 104-bis disp. att. c.p.p., si fa riferimento, con diverse terminologie, alla disposizioni sulla nomina dell’amministratore giudiziario e sull’amministrazione giudiziaria previste dal d.lgs. n. 159/2011. Infatti:
- ai sensi del comma 1: «1. In tutti i casi in cui il sequestro preventivo o la confisca abbiano per oggetto aziende, società ovvero beni di cui sia necessario assicurare l'amministrazione, …. l'autorità giudiziaria nomina un amministratore giudiziario scelto nell'Albo di cui all'articolo 35 del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e successive modificazioni…..»;
- ai sensi del comma 1-bis «1-bis. Si applicano le disposizioni di cui al Libro I, titolo III, del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e successive modificazioni nella parte in cui recano la disciplina della nomina e revoca dell'amministratore, dei compiti, degli obblighi dello stesso e della gestione dei beni… »;
- ai sensi del comma 1-quater: «1-quater. Ai casi di sequestro e confisca in casi particolari previsti dall'articolo 240-bis del codice penale o dalle altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, nonché agli altri casi di sequestro e confisca di beni adottati nei procedimenti relativi ai delitti di cui all'articolo 51, comma 3-bis, del codice, si applicano le disposizioni del titolo IV del Libro I del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Si applicano inoltre le disposizioni previste dal medesimo decreto legislativo in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati e di esecuzione del sequestro. In tali casi l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata coadiuva l'autorità giudiziaria nell'amministrazione e nella custodia dei beni sequestrati, fino al provvedimento di confisca emesso dalla corte di appello e, successivamente a tale provvedimento, amministra i beni medesimi secondo le modalità previste dal citato decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159».
Orbene, il costante riferimento al d.lgs. n. 159/2011, anche ove non è esplicitato il riferimento al Libro I, titolo III, e la stretta interconnessione tra tale titolo e il Titolo IV, oggi espressamente richiamato, rendono evidente che quando si menzionano nomina dell’amministratore e gestione dei beni ai sensi del Codice Antimafia, il rinvio deve ritenersi unitario a tutte le disposizioni previste dal citato Titolo III:
- Capo I, L’amministrazione dei beni sequestrati, artt. da 35 a 39;
- Capo II, La gestione dei beni sequestrati e confiscati, artt. 40 a 43 (tutti relativi ai beni sequestrati) e 44, limitatamente alla parte in cui si riferisce ai beni sequestrati;
- Capo IV, Regime fiscale dei beni sequestrati e confiscati, artt. da 50 a 51-bis, esclusa la parte i cui si riferiscono ai beni confiscati.
Resta escluso, con evidenza, il Capo III relativo alla destinazione dei beni confiscati (articoli da 45 a 49) richiamato espressamente dal legislatore quando vuole riferirsi a tali disposizioni anche menzionando la competenza dell’agenzia nazionale (art. 104-bis, comma 1-quater).
[8] Cfr. nota precedente.
[9] Cfr. Corte cost., ord. 8.9.2016, n. 107; Cass., sez. un., 17.7.2014, Pinna, in Cass. pen., 2015, 534; Cass., sez. II, 12.2.2021, Macrì, in Ced cass. n. 280724; Cass., sez. IV, 29.3.2018, Nesturi, in Ced cass. n. 272746.
[10] Le parole: «Nel caso» sono sostituite dalle seguenti: «In tutti i casi»; la parola: «abbia» è sostituita dalle seguenti: «o la confisca abbiano» (art. 41 lett. l) n. 1 d.lgs. n. 150/2022.
[11] Cfr. Cass., sez. I, 3.10.2020, Synergo Consorzio Nazionale, in Ced cass., n. 279736. Solo per la gestione dei beni immobili si poteva fare riferimento all’art. 65 d.lgs. 300/1999, come da interpretazione autentica ex art. 3, comma 18, d.l. 95/2012, conv. con l n. 135/2012, con la competenza dell’Agenzia del Demanio.
[12] Le parole: «Quando il sequestro è disposto ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del codice», sono sostituite dalle seguenti: «In caso di sequestro disposto ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del codice o di confisca» (art. 41 lett. l, n. 2 d.lgs. n. 150/2022).
[13] Inoltre, troveranno applicazione le norme ivi previste per la tutela dei terzi e nei rapporti col fallimento ovvero con la liquidazione giudiziaria.
[14] Cfr. nota 9.
[15] In tal senso, in motivazione, Cass., sez. I, 3.10.2020, Synergo Consorzio Nazionale, cit. Come ricordato, per la gestione dei beni immobili si poteva individuare la competenza dell’Agenzia del Demanio.
Recensione di Salvatore Natoli a Maria Martello, Una giustizia alta e altra
Se ti ricordi…che tuo fratello
ha qualcosa contro di te,
lascia il tuo dono davanti all’altare,
va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello
e poi torna ad offrire il tuo dono
(Mt. 5, 23)
Neppure Dio può perdonare, se prima non vi sia stato un atto di riconciliazione tra chi ha subito un torto e chi lo ha perpetrato, se, in breve, lo spirito della pace non faccia aggio sul demone della lite. E dico dia/bolus proprio perché è colui che divide e fomenta la divisione. Ora, nel passo evangelico a farsi mediatore è Gesù indicando come ai fini della riconciliazione non basta una soluzione meramente rituale - al posto dell’altare potremmo metterci il tribunale - bensì relazionale. Tale via può essere percorsa solo se si animati da un vero spirito di conversione. Nessuna riconciliazione è, infatti, possibile se i soggetti in causa non si assumono la responsabilità dei loro atti. Ma, nel versetto appena citato c’è un particolare che merita d’essere messo in evidenza; il testo dice: se tuo fratello ha qualcosa contro te…. Domanda? Cosa ho fatto perché dovrebbe avercela con me? E, allora: dipende da me, gli ho apportato, pur non volendolo, danno; o magari è lui a nutrire astio contro di me per pregiudizio. Di certo vi è stata una lacerazione; ma da cosa è stata causata? Non c’è altro modo per capirlo che chiarirsi. In questo punto il tratto più rilevante del versetto è, sì, l’intimazione alla riconciliazione, ma senza aspettare chi debba fare la prima mossa senza tergiversare: appunto va prima a riconciliarti. È un criterio deciso che, certo, comporta l’assunzione di responsabilità dei propri atti - evitando lo scarica barile delle pratiche rituali - ma in questo caso vuol dire qualcosa di più: esige spontaneità, una piena volontà di pace quella che non calcola, ma anticipa.
La Martello riprende, a suo modo, questo schema cristico assumendo a figura esemplare di mediatore, Francesco d’Assisi, tra tutti quello che più si è modellato su Cristo. Nota, infatti, che nell’episodio del lupo di Gubbio San Francesco ha svolto “una vera azione di mediazione, ben scandita nelle sue parti:
*la scelta di una figura terza tra due parti in conflitto;
*l’ascolto separato delle due parti
*il riconoscimento dei ruoli vittima-persecutore;
*la responsabilizzazione del persecutore;
*la scoperta della vera motivazione;
*l’accordo separato
*il patto.[1]
E conclude sottolineando che “l’unica umanissima via” per risolvere i conflitti e cercarne le profonde reali ragioni”[2].
Perché vi sia riconciliazione è necessario accertare i torti, esibire le reciproche ragioni, ma soprattutto avere una vera intenzione di riconciliazione. Ciò vuol dire mettere in conto – come dice Manzoni - che ragione e torto non si possono mai dividere con un taglio netto. Questo è, certo, vero, ma è anche vero che non può essere un modo facile di scansarsi: d’intuito è, infatti inaccettabile il noto verso della canzone “chi avuto avuto avuto/chi ha dato ha dato ha dato/ scurdammoci u passato…Se la cosa fosse così semplice non sarebbe necessaria alcuna mediazione. D’altra parte, se è vero che ragione e torto non si possono divedere con un taglio netto non bisogna trascurare che nella realtà la partizione è di raro simmetrica: in breve le vittime esistono. Se il parlarsi è, dunque, preliminare al riconciliarsi la cosa nei fatti non è facile perché gli uomini sono naturalmente mossi dalle passioni e in particolare in stato di conflitto non è affatto spontaneo reprimere l’astio; anzi ognuno tende a far valere le proprie ragioni e - specie se colpevole - tende d’istinto a dissimulare la colpa o a ridimensionarla o a renderne in qualche modo l’altro corresponsabile. Capita in tutte le liti, immaginarsi nei delitti, nelle vite estinte, danni irrisarcibili. Peraltro nel conflitto le posizioni tendono ad irrigidirsi e per questo a spegnere l’odio, a sciogliere il risentimento, a vincere il pregiudizio sono necessarie figure di mediazione che abbiano un effetto fluidificante cosa che può avvenire solo se i mediatori hanno la sensibilità e lo stile di fare assumere all’uno il punto di vista dell’altro. Cosa tutt’altro che semplice e non a caso la Martello parla di miracolo. Ora la mediazione può fare, certo miracoli, ma – scrive - “richiede un impegno costante e una formazione continua proprio perché non è l’attesa passiva di un intervento dall’alto, ma la costruzione graduale di una nuova mentalità, di un nuovo atteggiamento, prima di fronte a se stessi e poi di fronte agli altri, a tutti gli altri, nel mondo”. [3]
Se si vuole pervenire ad una riconciliazione bisogna, dunque, predisporre un terreno adeguato e a questo non basta la semplice procedura dei tribunali; sono necessarie figure capaci di mettere in relazione le parti sia prima del processo che durante il processo e ancor più a sentenza emessa. Un accordo preliminare può evitare di andare a processo; infatti - nota la Martello – “nel profondo di ogni litigante si annida sempre la speranza che ci sia un modo per far sparire i conflitti e che si eviti di far diventare contenziosi da delegare ad avvocati e giudici”[4]. Bene fino a che si tratta di liti, più difficile se di delitti; in questo caso l’azione mediatrice può agire lungo la durata del processo evitando il radicalizzarsi dello scontro, che il legittimo risentimento lo amplifichi. Questo lungi dal negare l’effettività del fatto, evidenzia la complessità delle situazioni che presiedono alla genesi degli atti umani. E non tanto per giustificarli, ma, caso mai, per rendere al colpevole più comprensibile la sanzione – nel caso gli fosse comminata - e come tale accettabile; nella vittima faciliterebbe la remissione del risentimento con beneficio di ambedue le parti. Su questo ha ragione la Martello quando sostiene che per pervenire a questo non sono sufficienti le semplici procedure, ma bisogna toccare le sensibilità, portare alla luce il non detto, fare emergere gli aspetti umani della vicenda.
Messa in questi termini, la mediazione gioca un ruolo particolarmente importante a sentenza emessa e dovrebbe indirizzare le politiche carcerarie: tocca, infatti, al mediatore accompagnare i soggetti in un cammino di trasformazione. Cosa più che mai impegnativa perché significa condurre gli individui a formulare un giudizio il più possibile obbiettivo su sé stessi: passo decisivo per permettere loro, a pena inflitta, di non subirla passivamente. Nessuna pena è un bene in sé – quand’anche giusta – ma trae senso se fa maturare nel soggetto un sentimento di emendazione. Se non induce a questo altro non sarebbe che un mascherato spirito di vendetta o una velata voglia di crudeltà. Nel diritto questo è da tempo acquisito, ma lo è meno nel fatto almeno se si guarda alle disfunzioni presenti nell’amministrazione della giustizia. Oggi – rileva la Martello – “assistiamo a procedimenti giudiziari – specie civili – inammissibilmente lunghi, e non sempre a causa del rispetto dei principi di garanzia, mentre – su un altro piano – le carceri scoppiano per sovraffollamento; inoltre le finalità di rieducazione e riabilitazione sono contraddette dai dati sull’incidenza della recidiva”[5]. Ora, le disfunzioni si possono pur sempre eliminare – è una questione d’organizzazione - ma importante è che muti la logica della giustizia, che passi da una concezione retributiva a quella riparativa: passiva la prima, attiva la seconda perché rende i soggetti titolari del loro cambiamento. Per la verità, questa è una mutazione già ampiamente in atto nel delitto penale.
Nietzsche è notoriamente un pensatore pericoloso, ma ha l’occhio lungo quando scrive che il sentimento dell’obbligazione personale... ha avuto origine nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui per la prima volta si contrappose persona a persona…Fissare i prezzi, misurare valori, escogitare equivalenti, barattare – ciò ha occupato il primissimo pensiero degli uomini in misura tale da costituire, in un certo senso un pensiero”.[6] E’ vero: col tempo questo modo di pensare è divenuto un’abitudine. Ora, che il sentimento dell’obbligazione abbia quest’origine è tutto da discutere, ma di sicuro l’adozione di una logica unicamente risarcitoria finisce di fatto a ribadire la contrapposizione senza sanare il conflitto, né indurre il colpevole al cambiamento. Ci si limita a comminare la pena, il cui limite si mostra con particolare chiarezza innanzi a danni irrisarcibili – ad esempio, un omicidio - che nessuna pena può mai sanare. Come si può parlare di retribuzione a fronte dell’irrisarcibile? Né, d’altra parte si può dire che la pena come tale migliori l’individuo. Molte possono essere le definizioni di pena e delle sue funzioni, ma di sicuro non è essa che suscita il sentimento di colpa anzi come già notava Nietzsche “tra delinquenti e galeotti l’autentico rimorso è qualcosa di estremamente raro… e su ciò convengono tutti gli osservatori (evidentemente si riferisce a quelli della sua epoca) coscienziosi, che in molti casi esprimono un giudizio del genere molto malvolentieri e contro i loro più intimi desideri. Calcolando in grande la pena rende duri, freddi”[7]…e non è da sottovalutare che il delinquente proprio dalle procedure giudiziarie ed esecutive stesse “è impedito dall’avvertire come riprovevole in sé il suo atto, la natura della sua azione; poiché vede commettere e poi approvare, commettere con buona coscienza, esattamente le stesse cose al servizio della giustizia: spionaggi, raggiri, corruzione…”[8] Queste cose – e l’abbiamo visto - capitano anche oggi. In tutto ciò, le pene di certo non apportano alcun beneficio alla società.
Ora, se una logica risarcitoria a favore della vittima – per quel che si può - può ritenersi legittima e doverosa, non è di per sé sufficiente al recupero del colpevole alla società. Proprio in questo punto il lavoro del mediatore diviene decisivo perché proprio a partire dall’incontro con la vittima il colpevole può cogliere in vivo il danno inflitto, immedesimarsi con essa e muovere sulla via del ravvedimento. Peraltro non bisogna dimenticare che il colpevole può essere, a suo modo, anche vittima e che non ha altro modo di riparare se non impegnarsi a beneficio di tutti. Infatti, ogni colpa è di dritto o di rovescio sociale e, a ben considerare, questo non è che un modo laico di intendere il peccato originale.
In questo quadro, la mediazione tende a qualcosa di più che alla conciliazione: non si limita a sanare la lite - in base e reciproche convenienze - ma tende a individuare le ragioni scatenanti il conflitto – individuali sociali-; mira alla pacificazione che vuol dire accettazione dell’altro ed insieme dei propri limiti il cui disconoscimento o ignoranza è matrice di ogni prevaricazione. Certo, il conflitto non si risolve in questo, ma può, al contrario, rivelarsi fecondo perché mai potremmo guadagnare la misura di noi stessi se non mettendoci in gioco e nel reciproco confronto. Viviamo nei conflitti e di conflitti che ci istruiscono su di noi – cosa possiamo – e insieme ci consentono di esplorare la realtà di noi più grande. Ora, se la tentazione dell’oltre è motivo di sviluppo, non lo è la voglia incondizionata di affermazione: questa trasforma il conflitto in reciproca prevaricazione e finisce per evocare e legittimare la sanzione. Per evitare questo bisogna apprendere a governare i conflitti ed è in questo che opera il mediatore. Posta la cosa in questi termini, l’ambito del mediatore non si limita allo spazio del diritto e del processo, ma si estende a tutta la vita sociale; dovrebbe, perciò, avere una funzione determinante nei processi di formazione perché nella vita i conflitti sono direttamente proporzionali ai problemi. Questo si ricava con chiarezza dal sottotitolo del saggio della Martello: “la mediazione nella nostra vita e nei tribunali”. In effetti si tratta di produrre una mutazione di mentalità, si tratta – scrive la Martello – “di una metodologia sia per trovare le soluzioni sia per sanare il vero conflitto relazionale rafforzando la dignità di ciascuno confliggente…Questa impostazione facilita l’esercizio dello spirito critico, il coraggio della verità, la consapevolezza degli accadimenti della vita, la valorizzazione della propria dignità di esseri umani”[9] Non si tratta solo di un intervento meramente tecnico, ma – scrive la Martello - di un passo filosofico “idoneo a dare diritto di parola alle urgenze più radicali e dense di significato che sono alla base di ogni azione e anche di ogni situazione di conflitto”.[10]
Questo saggio - come si vede - non solo offre un contributo importante per gli operatori del diritto – e della mediazione sociale in generale - ma è buona guida per tutti, per meglio leggere e affrontare i conflitti che attraversano la società contemporanea.
[1] M. MARTELLO, Una giustizia altra e alta. La mediazione nella nostra vita e nei tribunali, Paoline Editoriale Libri 2022, pp. 48-49
[2] Cfr., ibid. p. 50
[3] Id.
[4] Ibid., p. 57
[5] Ibid., p. 27
[6] F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, Rizzoli, Milano 1997, pp. 109-110,
[7] ibid.,p.122
[8] ibid., p. 123 ( corsivo nostro )
[9] M. MARTELLO, ibid., p. 129
[10] Ivi
1. La mia relazione ha ad oggetto i nuovi criteri di selezione e formazione dei giudici tributari, così come introdotti dalla L. n. 130/2022, anche se alcune delle regole fissate dalla legge di riforma sono in fieri e subiranno a breve dei cambiamenti: mi riferisco al DL n. 75/2023 in attesa di conversione.
Non vi è dubbio che, con tale legge, il legislatore abbia realizzato un generale riassetto dell’apparato organizzativo dei giudici tributari e la riforma dell’ordinamento degli organi speciali di giustizia tributaria è sicuramente la più rilevante nell’apparato legislativo, cambiando le regole di reclutamento dei giudici tributari, i quali si trasformano da onorari in giudici professionali da concorso.
Mi limiterò ad alcune osservazioni sulle ricadute della professionalizzazione del giudice tributario sulle questioni dell’imparzialità e della “qualità” delle sentenze tributarie.
A mio avviso la soluzione legislativa sembra rispondere in modo univoco ad entrambe le suddette questioni che, per natura, sono evidentemente connesse.
Il nuovo status del giudice, remunerato nella misura stabilita dalla legge, secondo le disposizioni previste per il trattamento economico dei magistrati ordinari, e dedito alla funzione a tempo pieno, costituisce la pietra angolare sia dell’imparzialità del giudice sia della qualità delle pronunce.
Ricordo che il primo Presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, ha ricordato la necessità di riformare la giustizia tributaria affidandola a giudici che la trattino a tempo pieno e non come un secondo lavoro.
Queste ricadute sono enfatizzate dal fatto che alla funzione si accederà con il superamento di un selettivo concorso che accerti le capacità tecniche dei magistrati tributari.
La scelta legislativa del concorso è chiaramente connessa al principio di imparzialità e di buon andamento, cui può riferirsi la questione della “qualità” delle sentenze, e, sebbene di recente si parli tanto di dequotazione del concorso pubblico (penso al concorso abbreviato o alla selezione da elenchi), soprattutto per l’attuazione del PNRR, è evidente che, in ragione del ruolo e della funzione del magistrato tributario, non poteva che adottarsi tale decisione, dovendosi comunque riconoscere una generale primazia del concorso pubblico.
La stessa Corte Costituzionale ha più volte precisato che, pur avendo il legislatore ampia discrezionalità nello scegliere i sistemi e le procedure per la costituzione del rapporto di impiego, nondimeno il concorso pubblico resta il miglior meccanismo di selezione tecnica.
Sul tema si obietta sovente che i concorsi tradizionali appaiono sempre meno efficienti e questo per il divario tra numero dei candidati e numero dei commissari, per i criteri di definizione delle commissioni, per i criteri di scelta delle prove ecc.; tuttavia l’eliminazione del concorso pubblico non sembra la soluzione più corretta, potendosi piuttosto optare per l’affiancamento del concorso al tirocinio e alla formazione permanente, come si vedrà meglio nel prosieguo.
1.1. L’adozione di un concorso per esami, in luogo di un concorso per titoli, risponde ad una diversa funzione del concorso stesso che consiste nella verifica, concreta e attuale, dell'idoneità del candidato allo svolgimento dei compiti connessi alla posizione da attribuire.
L'accertamento della idoneità deve essere compiuta in modo coerente con il tipo di servizio richiesto.
Rispetto al disegno di legge originario, sono stati ammessi al concorso non solo i laureati in giurisprudenza (con corso di laurea di durata non inferiore a quattro anni), ma anche due classi di laureati in economia (Scienze dell'economia o Scienze economico-aziendali): la scelta legislativa sembra coerente con la struttura dei corsi di laurea di stampo economico, che prevedono in ogni caso il superamento di esami di diritto fondamentali, e soprattutto si rivela simmetrica rispetto alle competenze del difensore tributario. E del resto, il concorso si presenta particolarmente selettivo, sicché il suo superamento dovrebbe di per sé garantire l’idoneità della formazione.Va considerato, poi, che la multidisciplinarietà delle materio oggetto di concorso può giustificare l'ammissione di persone con titoli di studio diversi.
Nell’impianto originario della Legge n. 130/22, la prova scritta ha la prevalente funzione di verificare la capacità di inquadramento logico sistematico del candidato e consiste nello svolgimento di due elaborati teorici rispettivamente vertenti sul diritto tributario e sul diritto civile o commerciale, nonché in una prova teorico-pratica di diritto processuale tributario. Le prove potrebbero essere ridotte a due e una di esse potrebbe consistere nella redazione di una sentenza. La prova orale verte su numerose materie comuni anche al concorso per magistratura ordinaria, oltre ad elementi di contabilità aziendale e bilancio che caratterizzano il settore. Quindi la selezione dei candidati dovrebbe avvenire secondo criteri di completezza.
L’accesso alla funzione giurisdizionale tramite concorso e la stabilizzazione della funzione, quindi, producono effetti in termini di imparzialità e indipendenza.
1.2. A fronte delle innegabili migliorie connesse alla riforma, restano comunque alcune zone d’ombra.
La composizione della Commissione di concorso, pur alla luce delle modifiche introdotte con il DL n. 75/23, include un solo professore di diritto tributario e non richiede neanche alla componente togata una specializzazione nella materia principale del concorso.
Desta perplessità, poi, che i nuovi magistrati tributari non potranno ambire al “passaggio” in Cassazione, e quindi alla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, istituita per legge dall’art. 3, L. n. 130/2022: l’esclusione dei magistrati specializzati, assunti a seguito di uno specifico concorso e che hanno svolto la propria funzione nel settore, non garantisce certo la migliore specializzazione dei giudici di legittimità. Ne consegue che, sebbene debba ritenersi una scelta più che opportuna l’istituzione di una sezione di Cassazione, incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia tributaria, occorrerebbe consentire l’ingresso in tale sezione proprio ai Magistrati specificamente selezionati per la materia e che si sono formati nel tempo nel settore.
Sotto il profilo dell’imparzialità, resta aperta la questione della dipendenza del giudice tributario dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF): questa influenza mi sembra comunque temperata dal ruolo determinante assegnato al Consiglio di Presidenza di Giustizia Tributaria, che dovrà quindi operare in modo da raggiungere punti di equilibrio tra le disposizioni normative e tanto per garantire l’imparzialità della magistratura tributaria. In ogni caso, l’accesso tramite concorso e l’adozione delle regole stipendiali e di carriera previste per i magistrati ordinari neutralizzano almeno in parte questo vincolo di dipendenza.
Sotto il profilo organizzativo, vi è il nodo della convivenza dei magistrati tributari con i giudici tributari, presenti nel ruolo unico nazionale.
Gli attuali giudici continueranno a svolgere le loro funzioni fino al compimento dell’età limite; è poi stato previsto un transito alla giurisdizione tributaria dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili o militari, non collocati in quiescenza, sia pure entro certi limiti numerici e a seguito di interpello.
Sicché la composizione delle Corti di giustizia sarà variegata, affiancandosi a magistrati assunti con specifico concorso selettivo, magistrati di carriera diversa transitati nella giurisdizione tributaria e giudici onorari.
Infine, occorrerebbe rivedere la tempistica delle nuove assunzioni. Secondo la time line prevista dalla legge 130/2022, le procedure di assunzione dei magistrati tributari ad un ritmo di un concorso annuale di 68 posti, per completare l’organico di 576 nel 2030. Il numero è stato rivisto già con il DL n. 75/2023 ma resta esiguo per ciascun concorso e tanto moltiplica i costi e i tempi di assunzione.
2. Passando ora alle regole sulla formazione introdotte dalla Legge di riforma, è chiaro che i magistrati tributari selezionati tramite lo specifico concorso dovranno affrontare un percorso di preparazione a monte, per il suo superamento ma necessiteranno anche di un tirocinio e di un aggiornamento continuo.
Nell’ottica della migliore formazione possibile, i magistrati tributari dovranno svolgere un tirocinio formativo di almeno sei mesi presso le corti di giustizia tributaria con la partecipazione all'attività giurisdizionale relativa alle controversie rientranti nella rispettiva competenza in composizione collegiale. In caso di valutazione negativa, il tirocinio viene svolto per un nuovo periodo della durata di 6 mesi. Al termine del secondo tirocinio e all’esito della relativa scheda valutativa, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria delibera nuovamente; la seconda deliberazione negativa determina la cessazione del rapporto di impiego del magistrato tributario in tirocinio.
Questo tirocinio ha tuttavia una durata limitata e la legge non ha previsto nulla in merito alla formazione iniziale dei magistrati tributari.
Si tratta di un tirocinio diverso da quello previsto per i magistrati ordinari dall’art. 18 e seguenti, D.Lgs. 30 gennaio 2006, n. 26, che ha la durata di 18 mesi e prevede sia una formazione iniziale con approfondimento teorico-pratico e deontologico presso la Scuola Superiore della Magistratura e una pratica presso gli uffici giudiziari della durata di 12 mesi, e si conclude con un giudizio di idoneità al conferimento delle funzioni giudiziarie. Le sessioni di tirocinio, poi, sono, a loro volta, ripartite nelle fasi del tirocinio generico e del tirocinio mirato.
Mi sembra che un tirocinio uniforme sarebbe stato certamente più efficace.
2.1. L’art. 5-bis della legge di riforma ha, poi, previsto la formazione continua dei giudici e magistrati tributari, affidando al Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria la definizione dei criteri e delle modalità per garantire, con cadenza periodica, la formazione continua e l'aggiornamento professionale dei giudici, attraverso la frequenza di corsi di carattere teorico-pratico da tenere, previa convenzione, anche presso le università accreditate.
Alcuni hanno rilevato sin da subito la necessità di affidare la formazione continua e l’aggiornamento a un soggetto indipendente e dotato di autonomia organizzativa ed economica, come già avviene per magistratura ordinaria e amministrativa: si suggeriva allora un ente già esistente, come la Scuola Superiore della Magistratura, oppure un ente di nuova costituzione, come la “Scuola Superiore di formazione dei giudici tributari”.
In tale direzione si è mosso il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria che, con delibera n. 2/2023, ha istituito la Scuola Superiore della Giustizia Tributaria, con sede a Roma, per il tirocinio dei neoassunti magistrati tributari e per la formazione continua e l’aggiornamento professionale dei magistrati e dei giudici tributari: la struttura stabile ha lo scopo di rendere uniforme e permanente l'offerta formativa, in collaborazione con le Università, e sarà composta da un Comitato Scientifico e supportata da una segreteria amministrativa addetta alla logistica.
Sono stati individuati quattro quadranti geografici cosi individuati: 1 al Nord; 1 al Centro; 2 al Sud (aree ove è maggiore la concentrazione di magistrati e giudici tributari) e quattro aree universitarie aventi sede nelle aree geografiche indicate, con la possibilità all’interno di ciascuna area di costituire consorzi universitari .
La Scuola può proporre al Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria di concludere accordi, protocolli d'intesa o convenzioni con altri soggetti, pubblici e privati, italiani, dell'Unione europea o stranieri, operanti nel settore della formazione di interesse per i giudici tributari.
Il Comitato Scientifico, nella sua composizione non espressamente integrato da professori universitari della materia, si farà carico di elaborare il programma annuale di formazione, per poi essere approvato dal Consiglio ed essere trasmesso al Mef.
La partecipazione e la frequenza ai corsi della Scuola costituiscono elementi di valutazione per la carriera del giudice e del magistrato tributario e, se non sbaglio, ogni giudice e ogni magistrato tributario dovrebbe partecipare ad almeno due corsi all’anno, tra quelli organizzati dalla Scuola.
2.2. È chiaro che la formazione permanente è impresa piuttosto ardua nel settore tributario e questo perché la materia è particolarmente complessa anche in ragione della sua interdisciplinarità: si pensi alle interrelazioni con il diritto costituzionale, il diritto dell’Unione Europea, il diritto amministrativo, il diritto civile, il diritto commerciale, il diritto penale, il diritto internazionale, il diritto processuale civile. E, come evidenziato per le prove orali del concorso, la materia richiede anche la conoscenza delle regole aziendalistiche della contabilità e bilancio e i principi contabili.
Inoltre, particolarmente nel settore, vanno considerate le continue modifiche normative, i cambiamenti repentini negli orientamenti specie di legittimità, tutti fattori che impongono un aggiornamento quasi surreale. E questo mi fa venire in mente la lotta di Zeus e Kronos: Kronos, il dio del tempo, divorava tutti i suoi figli, finché suo figlio Zeus, con l’aiuto della madre Rea, riesce a ingannarlo e diviene un dio proprio perché ha sconfitto il tempo.
Ecco: il tributarista è il protagonista di una lotta titanica contro il tempo, in un aggiornamento continuo.
2.3. In questa lotta sarebbe stato opportuno fornire al giudice tributario il supporto dell’Ufficio del processo. E questo considerato soprattutto che il D.L. n. 80/2021 aveva già individuato nel modello organizzativo dell’Ufficio per il processo lo strumento principale per la realizzazione degli obiettivi del PNRR e quindi per rendere più efficiente il sistema della giustizia.
Il PNRR, infatti, ha ampliato gli orizzonti di questo strumento di supporto, ribadendo il ruolo fondamentale dell’Ufficio per il processo, che è proprio quello di offrire un concreto ausilio alla giurisdizione così da poter determinare un rapido miglioramento della performance degli uffici giudiziari, sostenere l’obiettivo dell’abbattimento dell’arretrato e ridurre la durata dei procedimenti.
In quest’ottica, lo staff del magistrato collabora in tutte le attività collaterali al giudicare (ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti), come avviene in analoghi istituti presenti a livello europeo ed internazionale. Basta pensare, in particolare, all’organizzazione della Cancelleria della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha il compito di trattare e preparare i ricorsi sottoposti alla Corte. Nello schema del D.L n. 80/21, le funzioni degli addetti all’Ufficio del processo presentano diverse similitudini con questo tipo di struttura.
Considerata la complessità della nostra materia, tale supporto sarebbe particolarmente utile per la magistratura tributaria di merito e non solo per quella di legittimità. Ed invece il legislatore ha previsto questo strumento per il giudizio di Cassazione sulla base di uno specifico progetto organizzativo del primo presidente della Corte di cassazione, con l’obiettivo del contenimento della pendenza nel settore civile e del contenzioso tributario.
La Commissione interministeriale di esperti, chiamata a pronunciarsi sulle criticità della giustizia tributaria accennava, invece, alla necessità di estendere l’Ufficio del processo anche alla giurisdizione tributaria, sottintendendo che la sua istituzione avrebbe una significativa rilevanza anche nel giudizio di merito.
Non resta allora che sperare in una futura adozione dell’Ufficio per il processo anche per la giustizia tributaria.
[1] Testo della relazione svolta dall’A. al convegno “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma. Il ruolo del prossimo Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e la sua Agenda”, svoltosi presso l’Università L. Bocconi in data 27 giugno 2023.
*Professore Associato di diritto tributario, Università della Campania – Vanvitelli
1. Il tema oggetto del convegno odierno – ossia il ruolo prospettico del Consiglio di Presidenza di Giustizia Tributaria nel nuovo sistema di giustizia tributaria – non è stato esplorato come meritava nel corso delle molteplici iniziative dedicate, nell’ultimo anno, alla riforma varata dalla Legge 31 agosto 2022, n. 130.
Meritava maggiore attenzione e approfondimenti perché di quest’ultima riforma “epocale” costituisce – a mio avviso – il perno centrale: infatti – per le ragioni che cercherò in sintesi di illustrare – il reale successo della riforma e l’effettiva affermazione della nuova giurisdizione dipende eminentemente dal ruolo concreto che il CPGT assumerà nell’autogoverno della nuova magistratura tributaria.
2. La riforma della giustizia tributaria, seppur “epocale”, risente fortemente della pressione temporale determinata dalla sua origine (ossia la necessità di raggiungere, nei rigidi termini fissati, gli obiettivi del PNRR) e, per ciò, è finita col risultare una riforma “timida” e “parziale”, negli aspetti problematici che ha affrontato, e “incompiuta” e fonte di “criticità”, per altri aspetti altrettanto urgenti e centrali dell’assetto della giustizia tributaria che non sono stati affrontati o sono stati affrontati con soluzioni di compromesso inappaganti.
Limitandomi ai profili ordinamentali, vediamo, dapprima, perché la riforma è “epocale”, e poi, in relazione alle modifiche di maggiore rilevanza, perché è anche “parziale” e “incompiuta” (e, per l’effetto, intrisa di criticità), tratteggiando il ruolo che il CPGT è chiamato ad assumere nell’attuale assetto per garantirne resistenza (se non la stessa esistenza).
3. La riforma è “epocale” perché ha determinato la nascita nel nostro ordinamento della c.d. quinta magistratura (che si affianca a quella ordinaria, amministrativa, contabile e militare), composta da giudici tributari: 1) professionali, 2) selezionati per concorso e 3) qualificati espressamente “magistrati tributari” dalla legge processual-tributaria (cfr. art. 1-bis del d.lgs. n. 545/1992)
La creazione di una vera giurisdizione speciale tributaria era attesa in Italia da circa 160 anni.
E infatti, fin dall’unità d’Italia gli organi investiti di competenza a conoscere le controversie tributarie, le “Commissioni Tributarie”, hanno dato vita a vere e proprie eccezioni rispetto al sistema giurisdizionale nel suo complesso, e rispetto al sistema di giustizia nei confronti degli atti della pubblica amministrazione in particolare.
Sfuggite alla generalizzata abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo degli Stati preunitari (realizzata con la storica legge n. 2248/1865 allegato E, per effetto della clausola di salvezza contenuta nell’art. 12 di essa), le Commissioni Tributarie hanno passato indenne anche l’introduzione della Costituzione repubblicana, per effetto di una lettura conservativa che la Corte Costituzionale ha offerto della VI disposizione finale, nel senso che i giudici speciali preesistenti non dovessero essere necessariamente aboliti, ma semplicemente riorganizzati.
Tale riorganizzazione tuttavia non avvenne, al punto che alcune pronunce della Corte Costituzionale hanno addirittura negato alle Commissioni tributarie il carattere di veri e propri giudici, ciò che avrebbe privato l’intero comparto tributario della presenza di un giudice in senso tecnico, facendo tornare la situazione alla condizione preunitaria, quando il rapporto tra il cittadino e l’amministrazione non poteva essere conosciuto da un giudice terzo e imparziale, ma soltanto da organi interni alla stessa amministrazione.
Tra gli anni ’70 e ‘90 vi è stata una miniriforma (quella di cui al d.P.R. n. 636/1972 e, poi, al d.lgs. n. 545/1992) che è stata ritenuta sufficiente per riabilitare le “Commissioni” come giudici speciali, con la conseguenza che esse si sono conservate sostanzialmente indenni con le loro radici nei sistemi preunitari.
Ciò ha comportato che, fino all’attuale riforma, le controversie aventi ad oggetto la legittimità e la fondatezza degli atti impositivi sono state decise nei gradi di merito da giudici che meritoriamente hanno svolto – e continueranno a svolgere finché la nuova riforma non entrerà a pieno regime – l’attività giudiziale nel tempo libero da altri impegni, e incardinati in una struttura organizzativa del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Quest’assetto si è tradotto in una eccessiva attenzione della giustizia tributaria verso le istanze provenienti dall’Amministrazione finanziaria, anche formali: a quest’ultimo proposito basta menzionare le circolari del MEF che indicavano ai giudici di merito gli orientamenti da assumere su certe questioni e, da ultima, a quanto mi risulta, quella contenente la direttiva di non concedere le sospensive cautelari.
La mancanza di giudici tributari professionali di merito ha generato conseguenze anche nel giudizio di legittimità: in cassazione, infatti, la materia tributaria è trattata da magistrati ordinari, e dunque professionali, ma che nella loro vita giudicante si sono trovati, nella maggior parte dei casi, a trattare tutt’altre materie ed erano privi di esperienza specifica in materia tributaria.
4. La legge di riforma ha risolto le problematiche illustrate solo in misura “parziale”, finendo addirittura con l’accentuare talune criticità pregresse, tanto che – come tutti sappiamo – lo scorso 31 ottobre la Corte di Giustizia tributaria di I grado di Venezia (ordinanza n. 408/1/22) ha già chiesto l’intervento e il vaglio delle nuove norme introdotte dalla riforma da parte della Corte Costituzionale.
Cos’è stato fatto dalla riforma è noto a tutti.
Ha previsto – come detto – l’introduzione di magistrati tributari professionali e a tempo pieno,
la selezione dei nuovi giudici tributari per concorso pubblico annuale bandito dal MEF, previa deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, a cui possono partecipare i laureati in giurisprudenza, ma anche quelli in economia, in nome (formalmente) dell’elevato tecnicismo della materia tributaria.
Nell’anno 2029, a regime, il numero complessivo dei magistrati tributari è previsto in 576 unità (numero che, invero, mi sembra molto limitato se la mole di lavoro dei giudici tributari rimane quella attuale: si consideri che gli attuali giudici tributari onorari sono 2.300 circa e, notoriamente, sono in affanno) e il loro trattamento economico è, ora, equiparato a quello dei giudici ordinari.
Gli organi giudicanti non si chiamano più “Commissioni tributarie”, ma “Corti di Giustizia tributaria”, a segnalare la nuova, piena natura “giurisdizionale” (che sarebbe stata segnalata in modo sicuramente più appropriato dall’uso di “Tribunali tributari”, espressione vagliata dalla commissione di riforma ma ingiustificatamente respinta per volere di una parte dei suoi componenti).
Se questo è, in sintesi, ciò che è stato fatto, vi sono limiti, mancanze e criticità che la rendono – come detto – una riforma “parziale” e “incompiuta”.
4.1. Innanzitutto, la riforma non prevede l’accesso dei magistrati tributari di carriera alla Suprema Corte, limite, questo, presente fin dalle prime bozze della riforma e divenuto invalicabile nel testo definitivo per la prevista possibilità di avere giudici tributari con laurea in economia.
Nel nuovo assetto riformato avremo magistrati tributari di merito con una formazione specialistica, le cui sentenze saranno vagliate da una Suprema Corte costituita in netta prevalenza (tolti i giudici di legittimità che, fino ad oggi, hanno operato anche nei gradi di merito) da magistrati privi di una formazione altrettanto specialistica, per le ragioni che ho detto all’inizio.
La situazione è aggravata da altre due previsioni a regime:
- per la prima, i magistrati di cassazione non possono più essere anche giudici delle nuove Corti tributarie, con conseguente perdita di questa fonte di apprendimento sul campo della materia tributaria;
- i magistrati ordinari che decidono di optare per la magistratura tributaria non possono tornare indietro, precludendosi così la possibilità di accedere alla Corte di Cassazione, dove potrebbero portare (se potessero rientrare nella magistratura ordinaria) la preparazione tecnica specificamente acquisita quali giudici delle Corti tributarie di merito.
Insomma, si crea un giudice tributario di merito professionale e specializzato, ma si lascia la Sezione tributaria della Corte di Cassazione, istituita dalla stessa legge di riforma (art. 3, L. n. 130/2022), in mano a giudici ordinari provenienti da altre sezioni, e dunque, in principio, non specializzati.
E ciò in un contesto – qual è quello attuale – in cui la giurisprudenza di legittimità ha assunto un ruolo para-legislativo, con orientamenti che stanno assumendo, de facto, valore di “precedente vincolante” come nei sistemi di common law.
4.2. Ma vi è un’ulteriore mancanza che rende assai critico l’assetto ordinamentale varato: non è stato reciso il legame col Ministero dell’Economia e delle Finanze, che anzi è divenuto ancora più forte e penetrante, mettendo a serio rischio indipendenza, terzietà e autonomia dei nuovi magistrati tributari.
Il problema esisteva già prima ed è noto a tutti.
La giustizia tributaria ha fatto sempre capo gerarchicamente al MEF, e non al Ministero della Giustizia o alla Presidenza del Consiglio, ossia al Ministero che, tramite la gestione dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agenzia delle Entrate Riscossione, è titolare dei rapporti di debito-credito oggetto della maggior parte delle controversie tributarie, con il cortocircuito che le cause tributarie sono state decise da un giudice incardinato nella struttura organizzativa di una delle parti in causa.
La riforma ha aggravato la situazione, portandola, forse, a un punto di rottura.
Adesso:
- i nuovi magistrati tributari sono formalmente “dipendenti” del MEF,
- il concorso è bandito con decreto del MEF, che gestisce le procedure concorsuali;
- la nomina a magistrato tributario dei concorrenti risultati vincitori avviene con decreto del MEF, che ha totale competenza in ordine allo status giuridico ed economico dei magistrati tributari;
- il MEF, tramite un’apposita Direzione, supporta l’Ufficio ispettivo che è stato istituito presso il CPGT;
- il nuovo Ufficio del Massimario Nazionale, istituito sempre presso il CPGT, deve avvalersi delle risorse e dei servizi del MEF, e le massime elaborate devono alimentare la banca dati della giurisprudenza tributaria di merito gestita dal MEF.
4.3. In questo nuovo contesto si può ancora affermare che la giustizia tributaria è autonoma, terza e indipendente?
Questa domanda se l’è posta anche la Corte di giustizia tributaria di I grado di Venezia, che, con l’ordinanza n. 408 del 30 ottobre 2022, ha sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale e di compatibilità con l’art. 6 della CEDU (che prevede una serie di garanzie in tema di equo processo) delle nuovissime norme sulla magistratura tributaria.
Nell’ordinanza di rimessione, i giudici tributari veneti hanno sottolineato le differenze che derivano dal nuovo assetto ordinamentale, denunciando che – se in occasione della precedente ordinanza della CTP di Reggio Emilia dichiarata inammissibile si poneva una questione di “apparenza” di indipendenza – oggi si pone una questione di indipendenza tout court, alla luce delle circostanze evidenziate (rapporto di lavoro dipendente con il MEF in esclusiva, con gestione completa dello status giuridico ed economico dei magistrati, ecc.).
Non credo, per evidenti ragioni, che la Corte Costituzionale giungerà a demolire la nuova disciplina della giustizia tributaria, ma sarebbe dovere del legislatore rispondere alle domande poste con l’ordinanza di rimessione. E basterebbe poco: una legge che ponga la giustizia tributaria sotto l’ombrello gerarchico del Ministero della giustizia o, meglio ancora, della Presidenza del Consiglio.
5. Se questo è il quadro generale, il ruolo del Consiglio di Presidenza di Giustizia Tributaria è cruciale nel contesto della giustizia tributaria riformata, essendo evidente che solo un CPGT forte e autonomo può tamponare il vulnus ai principi di terzietà e indipendenza che l’attuale assetto della giustizia tributaria si presta a generare.
Rispetto al passato, il CPGT è chiamato a realizzare un netto cambio di passo.
In presenza di una compenetrazione così forte tra gli organi di giustizia tributaria e il MEF – e non essendo verosimile immaginare (per motivi che tutti conosciamo) la trasmigrazione della giurisdizione tributaria sotto il Ministero della Giustizia o la Presidenza del Consiglio, su iniziativa del legislatore o come conseguenza di un intervento della Corte Costituzionale – è ben evidente che solo un CPGT robusto, resistente e autorevole, che esercita appieno e senza timore reverenziale le prerogative concesse dalla legge, può garantire l’indipendenza effettiva dei giudici tributari (che è prevista dall’art. 108, secondo comma, Cost. anche per i giudici speciali) – e l’equilibrio generale del nuovo “sistema” della giustizia tributaria: nel nuovo contesto, e in breve, il CPGT deve ergersi a “barriera invalicabile” (utilizzando la felice espressione dell’attuale Presidente Antonio Leone) tra i magistrati tributari (che soggiacciono e devono soggiacere soltanto alla legge, come prevede icasticamente l’art. 101 della nostra Costituzione) e il MEF (loro datore di lavoro e, insieme, parte in causa!).
È per queste ragioni che – come ho detto in apertura – è dal ruolo concreto che il CPGT assumerà nell’autogoverno della nuova “magistratura tributaria” che dipende il reale successo della riforma e l’effettiva affermazione della nuova giurisdizione, nella prospettiva di un ritrovato equilibrio sostanziale tra l’interesse di parte pubblica al contrasto dell’evasione e il diritto dei contribuenti a subire una “giusta imposizione”.
[1] Testo dell’intervento introduttivo svolto dall’A. al convegno “L’autogoverno della magistratura tributaria alla prova della riforma. Il ruolo del prossimo Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e la sua Agenda”, svoltosi presso l’Università L. Bocconi in data 27 giugno 2023.
*Professore ordinario di diritto tributario nell’Università L. Bocconi, Milano
Le Università italiane oggi sono chiamate a svolgere il compito difficile ma quantomai urgente di modernizzare i propri corsi di laurea per stare al passo con i tempi. Tale necessità muove dal confronto con il mondo del lavoro, che richiede neolaureati con abilità e competenze tecniche, ma anche con l’Europa che da anni propugna un adeguamento degli standard formativi.
Per soddisfare le suscitate richieste, occorre modificare sostanzialmente l’offerta formativa, accogliere una maggiore internazionalizzazione degli studi, l’apprendimento digitale e nuove forme di didattica. E se vi è un percorso di laurea che più di tutti risente dell’opportunità di un ripensamento, questo è certamente quello in Giurisprudenza.
Gli ultimi quindici anni di storia del mondo del lavoro e, più genericamente, di quello economico e sociale hanno vissuto – in un lasso di tempo brevissimo – trasformazioni epocali che necessitano di un costante e continuo aggiornamento. L’attuale percorso di studi della LMG/01 è, sotto molteplici punti di vista, inadeguato nel preparare gli studenti ad affrontare le sfide dell’universo lavorativo post – laurea. Non è pensabile che un giovane dottore in Giurisprudenza, indipendentemente dalla carriera che voglia intraprendere, non abbia mai visto un’aula di tribunale o una cancelleria, o che non abbia mai redatto un atto giudiziario. È altrettanto impensabile che un dottore in Giurisprudenza, oggi più che mai “nativo digitale”, non conosca materie sempre più diffuse quali il legal english, GDPR, blockchain e smart contracts.
La facoltà di Giurisprudenza presentandosi “scollata” dalla realtà subisce nettamente il contraccolpo delle altre facoltà pronte a recepire le sfide del mercato.
Non è una novità, anzi è un dato noto, come il percorso di laurea in Giurisprudenza mostri un appeal certamente inferiore rispetto a qualche decennio fa. Oggi i giovani percepiscono più gli svantaggi che le soddisfazioni nell’intraprendere una carriera da giurista: gli alti costi della libera professione, la concorrenza spietata, etc. Al contrario, vi sono facoltà che registrano un’impennata di matricole, soprattutto se sono a numero programmato: ingegneria, medicina, le quali sono in grado di offrire la possibilità di ottenere un lavoro sicuro, tutelato, remunerativo e soprattutto all’avanguardia.
Il pericolo è quello che sempre più giovani con maggiori capacità e più forte determinazione si orientino verso strade che queste facoltà sono in grado di offrire anziché quelle connesse all’aerea economico – giuridica. Le conseguenze non sono lontane da immaginare: minori iscrizioni comportano minori entrate economiche per le casse dell’Università, ma spostandosi dal perimetro accademico e rivolgendo lo sguardo alla professione, si riverberano in un calo di iscritti all’albo degli Avvocati, minando all’effettività della tutela previdenziale, alla tutela giurisdizionale del cittadino e alla tutela dei valori della professione forense.
L’Associazione Italiana Giovani Avvocati – AIGA – che tra i suoi obiettivi si propone proprio quello di “agevolare l’accesso alla professione forense” si è posta la domanda di come poter riportare i diplomati a scegliere il percorso di laurea in Giurisprudenza ed arginare i rischi di una c.d. “fuga di cervelli”.
La risposta non può che passare attraverso una profonda riorganizzazione dell’intero percorso accademico. Occorre infatti riavvicinare il mondo universitario a quello professionale, aiutando gli studenti a capire che cosa succederà una volta ottenuto il diploma di laurea, quali sono le c.d. soft skills che uno studente deve avere acquisito per poter essere competitivo e al tempo stesso attraente nel mercato del lavoro, quali sono i ruoli che potrà andare a rivestire.
Infatti, la capacità di scegliere il giusto percorso da intraprendere spesso non matura neppure dopo il completamento degli studi. Per questo appare necessario che l’Accademia offra allo studente gli elementi pratici e concreti di quanti più possibili sbocchi professionali. Bene da questo punto di vista il rinnovo della Convenzione quadro tra il Consiglio Nazionale Forense e la Conferenza Nazionale dei Direttori di Giurisprudenza e Scienze Giuridiche avente ad oggetto lo svolgimento anticipato di un semestre di tirocinio per l’accesso alla professione forense. In tal modo è consentito allo studente in regola con lo svolgimento degli esami di profitto dei primi quattro anni del corso di laurea purché abbia ottenuto crediti nei settori scientifico-disciplinari più importanti (diritto privato, diritto processuale civile, diritto penale, diritto processuale penale, diritto amministrativo, diritto costituzionale, diritto dell’Unione Europea) di chiedere di essere ammesso all’anticipazione di un semestre di tirocinio in costanza degli studi universitari e prima del conseguimento del diploma di laurea. La previsione di poter anticipare la pratica forense garantisce il raggiungimento di una duplice finalità: quella di accelerare l’entrata nel mercato del mercato del lavoro da parte dello studente e quella di permettere allo stesso di avere un reale contatto con l’attività professionale già durante il percorso di studi.
Questi tirocini hanno finora dato feedback positivi, mostrando come l’approccio pratico sia la carta vincente. Per questo motivo, AIGA ha elaborato una proposta di riforma del percorso universitario che ha come scopo quello di costruire un percorso di studi “orientato” che, attraverso un approccio pratico multiprofessionale, sia in grado di fornire a ciascun studente gli elementi conoscitivi necessari a scegliere l’ambito lavorativo più adatto alle proprie inclinazioni ed agli effettivi sbocchi del mercato.
In particolare, si potrebbero introdurre per ogni anno a partire dal secondo dei tirocini curriculari obbligatori presso studi legali, uffici giudiziari, studi notarili, enti pubblici, aziende, tribunali. La conoscenza di questi diversi settori consentirebbe allo studente di affinare le proprie competenze interdisciplinari, riuscendo poi nella carriera futura ad immedesimarsi anche nelle altre figure professionali.
Non solo, si potrebbe prevedere una redistribuzione dei crediti formativi attraverso l’inserimento di materie altamente professionalizzanti e specifiche (come il diritto tributario, il diritto commerciale internazionale, l’informatica giuridica): tale redistribuzione non può e non deve servire esclusivamente ad aggiungere nuovi testi da imparare a memoria. Si ritiene necessaria un’applicazione pratica, con l’ausilio anche di casistica già esistente, attraverso ad esempio dei simposi (anche multidisciplinari ed obbligatori), per far sì che venga già assimilata una forma mentis tecnico – giuridica dagli studenti ed una capacità critica rivolta a ciò che accade quotidianamente nel mondo del diritto.
È da tenere conto inoltre che le gravi carenze del percorso universitario, troppo ancorato a studi teorici, sono emerse con forza all’esito della correzione degli scritti al concorso in magistratura. In tale circostanza si è elevato il coro dei critici evidenziando che all’esito del percorso di laurea in giurisprudenza gravi sono le difficoltà che la maggior parte dei candidati affronta per le prove scritte. Eppure la giurisdizione si caratterizza e si esercita attraverso provvedimenti scritti, ordinanze, sentenze, decreti. Non distante da ciò sono i risultati riscontrati in sede di abilitazione alla professione forense, ove all’epoca della vigenza delle tre prove scritte emergevano gravi carenze nella scrittura e nell’articolazione logica di un discorso giuridico o di una strategia processuale e che oggi nella vigenza del c.d. “doppio orale” fanno trasparire la mancanza di correttezza della forma espositiva, anche sotto il profilo grammaticale e sintattico e di padronanza nell’uso del linguaggio giuridico. Diventa fondamentale perciò abbinare, sin dal primo anno, la frequenza obbligatoria di corsi di scrittura giuridica, così da consentire allo studente di acquisire la chiarezza, logicità, completezza e sinteticità richieste in sede di accesso alle varie professioni successive al percorso di laurea.
Ma la novità più rilevante sarebbe quella di programmare un percorso biennale obbligatorio di “orientamento professionale” con insegnamenti dedicati e specifici: avvocatura, avvocatura d’impresa, magistratura, notariato. L’indirizzo avvocatura ad esempio potrebbe concentrare insegnamenti di tipo pratico relativi alla redazione di atti giudiziari, l’approfondimento delle materie procedurali, la conoscenza del legal english, lezioni di deontologia. Questo percorso dovrebbe affiancarsi a quello tradizionale per materie generalmente presente nell’attuale piano di studi, non diventarne alternativo, così da aumentare la competitività e le abilità dello studente.
L’idea del percorso c.d. orientato rappresenta un’applicazione concreta di ciò che viene indicato negli “Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area (ESG)[1]” del 2015, per cui “Le Istituzioni garantiscono che i corsi di studio siano erogati in modo da incoraggiare gli studenti ad assumere un ruolo attivo nello sviluppo del processo di apprendimento e che la verifica del profitto degli studenti rifletta tale approccio”. In particolare poi le Linee Guida chiariscono che “un approccio all’apprendimento e all’insegnamento incentrato sullo studente contribuisce in maniera sostanziale a stimolare la motivazione, l’auto-riflessione ed il coinvolgimento degli studenti nel processo di apprendimento”, per cui prima di tutto “rispetta la diversità degli studenti e delle loro esigenze, consentendo percorsi flessibili di apprendimento”.
Infine, risulta necessaria la creazione di un canale di collegamento fisso tra gli ordini territoriali e le Università, garantendo la possibilità agli ordini professionali di concordare i piani didattici, anticipando di fatto le materie affrontate durante le Scuole Forensi già a livello universitario. Il beneficio sarebbe duplice: da un lato il neolaureato acquisirebbe già una base di competenze tecnico – pratiche da poter spendere fin dall’inizio e dall’altro, attraverso la costituzione di convezioni con gli studi legali territoriali, quest’ultimi sarebbero in grado di attingere da un bacino circoscritto di neolaureati con un percorso specifico rivolto alla pratica forense.
Questa è l’idea di riforma del percorso di laurea in Giurisprudenza secondo AIGA che nasce dall’ascolto delle esigenze degli studenti con l’obiettivo di porre al centro della formazione il criterio del merito. Un piccolo grande passo da abbinare alla riforma delle Scuole Forensi e dell’esame di abilitazione, per giungere ad una riforma dell’intero accesso alla professione forense.
[1] Gli ESG sono un insieme di standard e di linee guida per l’assicurazione interna ed esterna della qualità nell’istruzione superiore. Gli ESG si applicano a tutta l’istruzione superiore offerta nell’EHEA (Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore), indipendentemente dalle modalità di studio o dal luogo di erogazione. In questo documento, il termine “corso di studio” si riferisce all’istruzione superiore in senso lato, inclusa quella che non prevede il conseguimento di un titolo formale.
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