ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Aggiornamenti dalla Corte Penale Internazionale. Una linea di indagine anche sui crimini contro l’umanità connessi alla tratta dei migranti nel Mediterraneo
di Ezechia Paolo Reale
Mentre l’attenzione internazionale è focalizzata sull’attività della Corte Penale Internazionale in Ucraina, numerosi sono gli sviluppi sulle altre, numerose, situazioni - per usare il termine tecnico che si ritrova nello Statuto di Roma, istitutivo della Corte, per dipingere gli scenari concreti all’interno dei quali la Corte stessa è chiamata ad esercitare la sua giurisdizione - nelle quali dall’organo della giustizia internazionale sono già state aperte indagini, sia preliminari che formali, o è stato dato inizio ai procedimenti a carico dei responsabili.
Il 31 ottobre, infatti, la Camera Preliminare ha autorizzato la riapertura delle indagini sulla situazione in Afghanistan, accogliendo la richiesta del Procuratore che lamentava l’ineffettività dei procedimenti in corso avanti le autorità giudiziari locali per i crimini internazionali che erano stati loro devoluti sulla base del principio di complementarietà che regola l’azione della Corte Internazionale, chiamata a intervenire solo quando le autorità giudiziarie dello Stato ordinariamente competente non hanno capacità o volontà di perseguire i crimini internazionali.
Analoga richiesta il Procuratore ha indirizzato alla Camera Preliminare per riaprire le indagini sulla situazione in Venezuela, dopo che le stesse erano state provvisoriamente archiviate in seguito alla richiesta di tale Stato di condurle direttamente, attraverso le proprie autorità giudiziarie nazionali, senza giungere, però, a risultati sufficienti nell’ottica della persecuzione penale dei responsabili dei crimini internazionali commessi in tale contesto.
Anche in questo caso il Procuratore ha lamentato, infatti, come le azioni intraprese a livello nazionale non abbiano, allo stato, il necessario carattere di effettività ed ha, pertanto, richiesto di riavviare le indagini in sede internazionale.
Del 26 ottobre è, poi, il rapporto periodico delle attività svolte nel biennio 2021/2022 che la Corte Penale Internazionale, per mezzo del suo presidente Piotr Hofmanski, ha sottoposto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, durante i lavori della 77ma sessione, tuttora in corso, in ottemperanza all’Accordo di Collaborazione stipulato nel 2004 tra la Corte stessa e le Nazioni Unite e della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Il Presidente della Corte ha, tra l’altro, sottolineato, nel presentare il rapporto, che solo in tale periodo sono state circa 13.000 le vittime di crimini internazionali che hanno partecipato, in varie forme, ai procedimenti pendenti, nelle diverse fasi, avanti la Corte e riguardanti le situazioni in Congo, Uganda, Repubblica Centro Africana,Darfur, Kenia, Libia, Costa d’Avorio, Mali, Georgia, Burundi, Afghanistan,Bangladesh e Myanmar, Palestina, Filippine, Venezuela e Ucraina e alle indagini preliminari in Nigeria e Guinea.
Poco prima era stato il Procuratore della Corte a sottoporre al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il suo 35mo rapporto sulle attività svolte nella situazione in Darfur, che è stata deferita alla Corte nel 2005 proprio dal Consiglio di Sicurezza, confermando, tra l’altro, che nell’aprile del 2022 ha avuto inizio il primo dibattimento a carico di uno dei soggetti incolpati di crimini internazionali commessi in tale scenario.
Dati molto interessanti si ricavano dagli analoghi rapporti presentati dal Procuratore al Consiglio di Sicurezza in ordine alla situazione in Libia, rispettivamente il 23mo, del 28/04/2022, e il 24mo, molto recente, del 09/11/2022.
Il Procuratore ha evidenziato non solo un rinnovato impegno a perseguire i crimini internazionali commessi nello scenario libico e una modifica della strategia di indagine e di persecuzione penale, ma ha con chiarezza evidenziato come sia emersa una linea di indagine che collega chiaramente l’azione dei responsabili della tratta di migranti a crimini contro l’umanità di competenza della Corte per i quali sono stati identificati, in relazione alle violenze subite dalle vittime nei centri di detenzione, i presunti responsabili nei confronti dei quali sono già stati emessi alcuni ordini di custodia che potrebbero essere resi noti a breve, unitamente ad altri ordini emessi sulla base di successive richieste.
È probabile che gli elementi emergenti dai procedimenti in corso obbligheranno a nuove valutazioni politiche e giuridiche delle azioni che oggi caratterizzano la condotta degli Stati in uno scenario mediterraneo di migrazioni, destinato a ricevere una descrizione diversa da quella sino ad oggi prevalente, con una probabile rivalutazione degli strumenti normativi predisposti dalla Convenzione di Palermo contro il Crimine Organizzato e dai suoi Protocolli Aggiuntivi in materia di contrasto alla tratta e allo sfruttamento dei migranti che, in un’ottica coerente con quella dello Statuto di Roma, pone in evidenza un aspetto spesso trascurato della tutela dei diritti umani, quello della sicurezza delle persone e degli obblighi dello Stato di assicurarla, che il prof. Cherif Bassiouni, uno dei fondatori del diritto penale internazionale, tratteggiò dal punto di vista sistematico già nel 1982, in un intervento rimasto forse famoso solo per essere stato rilanciato, in quell’occasione, il brocardo “Aut Dedere aut Judicare” che, con il tempo, avrebbe sostituito in chiave garantista il noto ”Aut Dedere aut Punire” coniato da Grozio nel 1624 nel suo De Jure Belli ac Pacis, ma il cui contenuto, in realtà, ha consentito di porre le basi per comprendere sia l’importanza del ruolo delle vittime nei meccanismi, giudiziari e non, di protezione dei diritti umani, che la difficoltà della posizione degli Stati, chiamati a non ingerirsi nell’esercizio dei diritti umani individuali fondamentali e, nello stesso tempo, a proteggere la sicurezza di ciascun individuo affinché quei diritti possano essere effettivamente goduti in modo libero da interferenze di altri individui.
Il Procuratore, infine, ha sottolineato l’importanza del lavoro della squadra investigativa comune che indaga in Libia, composta da Europol e dalla polizia giudiziaria di Italia, Olanda, Inghilterra e Spagna, cui di recente ha formalmente aderito anche la squadra investigativa della Corte stessa, e ha lanciato un appello agli Stati per essere pronti ad esercitare la propria giurisdizione universale sui crimini internazionali, ricordando le recenti estradizioni ottenute, nell’ottobre 2022, in Olanda e in Italia a carico di due trafficanti somali di migranti etiopi.
Analogo appello era stato lanciato dal Presidente della Corte Penale Internazionale nel discorso di presentazione del rapporto delle attività della Corte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel quale il Presidente Hofmanski ha sottolineato come senza un significativo progresso dell’applicazione del principio di complementarietà - compreso l’esercizio in concreto della propria giurisdizione universale sui crimini internazionali e la formazione specifica di magistrati, avvocati e ufficiali di polizia giudiziaria - lo sforzo dell’organo giudiziario internazionale per la persecuzione penale e la repressione di crimini internazionali odiosi come il genocidio,i crimini contro l’umanità, il crimine di aggressione e i crimini di guerra è destinato a non raggiungere il proprio scopo di giusta punizione dei responsabili e di indispensabile deterrenza verso coloro che, confidando sull’impunità, avessero in programma l’esecuzione di analoghi crimini.
Un preciso monito che, tra gli altri, è certamente indirizzato anche all’Italia che, dopo oltre venti anni dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma, non si è ancora dotata di un codice dei crimini internazionali, strumento indispensabile per il corretto e fluido esercizio della giurisdizione universale sui crimini internazionali da parte di ogni Stato.
Raccomandazione che l’Assemblea Generale ha prontamente recepito reiterando, nella risoluzione con la quale ha approvato il rapporto della Corte, l’invito agli Stati Parte dello Statuto di Roma ancora in ritardo a dotarsi al più presto di una normativa di esecuzione delle obbligazioni positive contenute nello strumento internazionale.
L’auspicio è, pertanto, che i lavori di redazione del codice dei crimini internazionali, commissionati dal Ministro della Giustizia in occasione dell’esplodere della guerra in Ucraina e consegnati dalla Commissione Ministeriale nel giugno 2022, possano quanto prima, dopo lo stop imposto dal termine anticipato della legislatura, essere portati dal nuovo Governo all’attenzione del Parlamento, mettendo la parola fine ad un lungo e imbarazzante ritardo nella completa esecuzione di uno strumento internazionale che non solo porta il nome di Statuto di Roma, città nella quale ha visto la luce, ma che la cronaca oggi porta all’attenzione del mondo in relazione a uno scenario mediterraneo del quale l’Italia ha profonda e interessata familiarità.
“L’inganno” prove di un populismo garantista* di Giovanni Melillo
Proverò ad indicare le ragioni di una diversa possibilità di comprensione delle cose attratte e certe volte scaraventate nel fuoco polemico di un libro che, nel denunciare veri e soprattutto immaginari abusi della cd. Antimafia, sembra ripetere non pochi dei vizi e delle perversioni del mostro giudiziario contro il quale si scaglia.
Certo, il pamphlet muove da una nobile radice culturale e dal dichiarato intento di denunciare le pericolose oscillazioni delle prassi giudiziarie sull’orlo dell’abisso che può aprirsi ad ogni passo e verso il quale tutti dovrebbero, saper volgere lo sguardo, per meglio guardarsi dal rischio di precipitazione.
Ma non è necessario dubitare, come taluni eccessi discorsivi pure consentirebbero, della sincerità degli intenti dell’Autore, bastando rammentare che di buone intenzioni sono notoriamente lastricate le strade dell’inferno.
Più interessante è tuttavia notare che se è vero, come Massimo Nobili ci mostrava nel suo addolorato attraversamento della perenne immoralità del processo penale, che l’ardore, il fervore, la passione, persino la sincerità di intenti sono doti che non mancano a quelli che scrivono le pagine più dolorose e immorali della giustizia penale, quelle stesse connotazioni della passione civile dell’Autore non bastano a porre al riparo la sua opera dal rischio di ripetere le perversioni del peggior sistema inquisitorio, per di più affiancando ai vizi di questo quelli di una paradossale corrente garantista del più acre populismo.
Il furore inquisitorio di Alessandro Barbano non risparmia nessun istituto della legislazione antimafia e nessuna delle istituzioni chiamate ad applicarla, investendo indiscriminatamente ogni aspetto del nostro sistema di contrasto della criminalità mafiosa.
Il fuoco polemico arde senza sosta e travolge ogni cosa, tutto venendo raccolto e usato come legna da ardere.
Anche quando magari si tratta di legna giovane, in grado di fare soltanto fumo, o addirittura a dar vita a piccoli fuochi destinati a spegnersi subito.
Certo, la realtà offre non pochi e persino inquietanti esempi di ciò che accade quando la giustizia si allontana, per le ragioni più varie, dall’unica strada praticabile, quella che i maestri hanno indicato: “restare coi piedi per terra, tenersi stretti alle prove e alle regole: senza voli”.
Ma questi esempi ed altri ancora non possono giustificare la conclusione tranchant che nel libro si propone, secondo la quale le indagini e i processi di mafia ordinariamente procederebbero soltanto attraverso inaffidabili delazioni o massive intercettazioni senza riscontri, nutrendosi di congetture irresponsabili e inconsistenti illazioni.
Né l’estremismo delle tesi fondamentali può giustificarsi quando investe il pur delicato impianto del sistema italiano di sequestro e confisca dei patrimoni illeciti, essendo esso coerentemente inscritto, anche sul versante delle procedure di prevenzione, all’interno di un modello comune, pur variamente declinato nei diversi sistemi giuridici degli Stati democratici, proteso ad intensificare un doveroso controllo dell’origine delle ricchezze, sul presupposto che le accumulazioni patrimoniali e la stessa libertà di impresa debbano trovare un limite nella loro derivazione dai profitti derivanti dalla commissione di gravi delitti.
Un eccesso di ius vindicandi espone qualunque accusatore al destino che inesorabilmente tocca a quanti cessano dal guardarsi continuamente dal rischio di hybris che pure si è solitamente pronti a riconoscere negli altri. Vale per tutti gli accusatori, soprattutto se animati dal furore iconoclasta che anima il libro.
Così come soltanto come provocazione potrebbe accogliersi l’idea che la legislazione antimafia sia un moloch nutrito solo di pulsioni giustizialiste, anziché un ambito della nostra giurisdizione che, al pari degli altri, è continuamente sottoposto all’opera di verifica, adeguamento ed evoluzione che naturalmente discende dal sindacato di costituzionalità, dal rapporto con la giurisdizione sovranazionale, dall’evoluzione del diritto internazionale convenzionale e, soprattutto, dal controllo che delle sue applicazioni fa quotidianamente il giudice nel contraddittorio delle parti.
Per ridurre le distanze dalle prospettive privilegiate dall’Autore potrei dar conto della mia condivisione dell’allarme conseguente:
-alla frequente, parallelo corso rispetto allo sviluppo di indagini e processi di famelici e strumentali cori mediatici;
-all’ancora attuale coltivazione in magistratura di un’idea di sé e della propria funzione come baluardo contro ogni fenomeno criminale, poiché all’idea stessa di baluardo, tanto più se, come è, formidabile, corrisponde una visione che ha in sé i semi del conflitto e dell’esaltazione dei miti punitivi e vendicativi di quella “società giudiziaria” che si nutre di ansia da complotti e di un rancore estinguibile solo imboccando scorciatoie autoritarie;
-ai pericoli di dilatazione dell’area di specialità connessa all’azione di contrasto delle mafie e del terrorismo conseguente nel tempo realizzatasi oltre ragionevole misura, e di altrettanto gravi derive securitarie rette soltanto dalla percussione del giustizialismo mediatico e politico;
-alla necessità di una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, necessaria per introdurre nella gestione degli uffici giudiziari dosi massicce di trasparenza ed efficienza, che i riti corporativi intorno ai quali si costruiscono gli esoterici testi che dettano i criteri di funzionamento dei nostri tribunali sovente accantonano, assecondando piuttosto visioni burocratiche del lavoro giudiziario;
-alla consapevolezza dei pericoli di una impossibile missione del giudice a farsi amministratore di ingenti patrimoni e manager di aziende nelle procedure di sequestro e confisca, avendo l’esperienza (e non solo gli scandali, che pure è stata la magistratura stessa a sollevare), rivelato che quel modello normativo di gestione dei patrimoni illeciti rischia di alimentare una gigantesca mano morta, capace, anche per l’intollerabile durata delle procedure, soltanto di attirare le professioni, anche accademiche, nella distribuzione di grandi e piccole prebende;
-più in generale, al perdurare dell’idea che il contrasto delle mafie sia missione esclusiva della magistratura e delle forze di polizia, anziché obiettivo prioritario del complesso delle politiche pubbliche: educative, fiscali, del lavoro, della protezione e dell’integrazione sociale, come di quelle urbanistiche e culturali, progressivamente private di visione adeguata e della stessa possibilità di coerente attuazione di programmi e interventi che richiedono una amministrazione pubblica forte e autorevole, perché competente, trasparente, efficiente, dunque assai lontana dal grave stato di debolezza strutturale nel quale versano le funzioni statuali, soprattutto nelle regioni meridionali.
Sono temi che impongono ripensamenti profondi, anche delle prassi, poiché lo stato di salute di una democrazia dipende in grande misura da corrette relazioni fra politica e magistratura e dalla capacità di entrambe di svolgersi con equilibrio e correttezza, facendo prevalere il sentimento del dovere su quello del potere, la consapevolezza del proprio limite sulla tentazione dell’arbitrio.
Così come occorre riconoscere che la realtà impone di interrogarsi sulla trasformazione delle prerogative processuali del pubblico ministero, sempre più poste a contatto con la logica della prevenzione criminale dalla gravità dei fenomeni criminali. Ma le risposte non possono ricercarsi nella progressiva burocratizzazione della funzione requirente, ormai quasi soffocata dal moltiplicarsi di adempimenti formali che nulla aggiungono all’effettività delle garanzie difensive, né tantomeno nell’indebolimento progressivo di una funzione di direzione delle indagini invece essenziale per la tenuta reale del principio di legalità processuale anche nella fase delle indagini preliminari. In queste sempre più marcate tendenze sembra esprimersi una neanche troppo celata vena nostalgica dei tempi nei quali la giustizia scorreva lungo i mattinali delle questure ed era un po’ più lontana dal finalismo dei valori costituzionali.
Tuttavia, la complessità dei nodi ancora da sciogliere nulla toglie alla radicalità del dissenso da riservare al senso profondo delle accuse rivolte alla cd. Antimafia.
La scelta dell’obiettivo polemico dell’ardore iconoclasta che permea l’intero programma accusatorio, innanzitutto: il pubblico ministero e i capisaldi della legislazione che ne sostiene da trent’anni l’azione in materia antimafia.
Non è solo un obiettivo troppo facile di questi tempi, ma è soprattutto sbagliato.
Non perché la legislazione antimafia non sia bisognosa di revisione continua ed anche profonda, né perché la cd. Antimafia non abbia rivelato gravi limiti e precise responsabilità, né, ancora, perché quello stesso dispositivo abbia acquisito meriti che sarebbe comunque sciocco svilire, se è vero, come è vero, che una secolare condizione di impunità delle mafie è venuta meno, procedendo secondo le regole dello Stato di diritto, a meno di ridicolizzare, in uno ad una trentennale stagione legislativa, il ruolo della Corte di Cassazione, della Corte Costituzionale e della Corte EDU, le quali, al pari dei giudici di merito, ad ipotetici abusi sistematici avrebbero altrimenti assistito e ordinariamente avallato.
Ma l’obiettivo prescelto è sbagliato semplicemente perché il furore iconoclasta che ne anima la cattura finisce per oscurare all’inquisitore alcune realtà, che avrebbero richiesto ben altra considerazione.
Restano, infatti, sullo sfondo, ad esempio, la relazione, intima e profonda, affatto esaurita, fra giustizialismo e populismo e quella di entrambi con la crisi che attraversa la democrazia rappresentativa e liberale, definendosi per questa strada uno dei volti di quel mostro del fanatismo che è costantemente in agguato ed il cui spettro si aggira ancora per l’Europa delle piccole patrie e dei risorgenti movimenti nazionalisti e xenofobi.
Come non risultano presi in considerazione il peso e gli effetti dell’obiettivo ritrarsi della politica dalla responsabilità di dare una risposta, diversa da quella possibile nelle aule di giustizia e secondo le categorie del diritto penale, al bisogno di verità e giustizia originato da molti dei più gravi delitti che hanno insanguinato il cammino dell’Italia repubblicana e che, obiettivamente, appaiono come brutali prove di forza ispirate e guidate da strategie di destabilizzazione ed insieme di cinica preservazione di oscuri equilibri di potere.
Se si ricordassero le parole di Carlo Azeglio Ciampi pronunciate in Parlamento all’indomani degli attentati di Roma e Milano o, più recentemente, quelle di Sergio Mattarella sulla pesantezza dell’ipoteca mafiosa e terroristica a lungo gravata sui destini italiani forse si ritroverebbe una parte almeno della spiegazione dell’anomalia italiana che vede ancor oggi i magistrati impegnati a far luce sulle stragi che vanno dal 1969 al 1980, come su quelle degli anni ’90.
Soprattutto, si eviterebbe di guardare agli sforzi ancora in atto per individuare moventi e responsabilità di quei delitti, non criticamente, come certo sarebbe legittimo, ma considerandoli con attenzione e rispetto, anziché con il disprezzo che trasuda la definizione di “fogna di maleodoranti congetture” nel quale si risolverebbe il difficile lavoro di molti magistrati.
Infine, non solo è taciuta la realtà attuale delle mafie, ma si giunge ad affermare che delle mafie non avremmo nessuna rappresentazione attuale e attendibile. Naturalmente, sempre per responsabilità di una macchina dell’investigazione giudiziaria additata come perversa e autoreferenziale.
Potrebbe, forse, convenire ricordare che l’asserita mancanza di una rappresentazione di un fenomeno sociale non dovrebbe, a meno di smentire i precetti guida del nuovo populismo garantista, richiedersi alla macchina giudiziaria, ma ai centri decisionali delle politiche di prevenzione e più in generale al patrimonio di conoscenza al servizio del complessivo sistema sociale e istituzionale.
Del resto, un tempo ciò che si sapeva delle mafie lo si doveva alla funzione parlamentare, come nel caso dell’inchiesta Franchetti-Sonnino, ovvero alla coraggiosa sapienza dell’amministrazione prefettizia, come nel caso dell’inchiesta Saredo del 1901.
Anche nei decenni successivi, il peso dell’azione di vigilanza, denuncia e contrasto ricadde quasi soltanto sulle spalle dei partiti, dei sindacati e della cultura democratica, non certo su quelle della magistratura, che anzi flirtava con le élite criminali e ne negava l’esistenza nelle pompose inaugurazione degli anni giudiziari.
Oggi, invece, le indagini e i processi consentono all’osservatore che non voglia distogliere lo sguardo di cogliere la nitida realtà dei fenomeni mafiosi, superando la vana pretesa di considerarli emergenze, persino ormai superate, anziché per ciò che sono: componenti strutturali del tessuto economico e sociale di parti significative del territorio nazionale, ma anche, osservando le dinamiche su scala globale, forze in grado di travolgere la stabilità politica e sociale di interi paesi e regioni.
Molti ancora pensano che le mafie siano espressione di società dal tessuto economico debole e arretrato. Una sorta di riflesso della povertà di quelle società. La realtà dimostra invece che quelle organizzazioni criminali sono invece espressione e strumento di ricchezza economica e di raffinati processi di espansione speculativa. Giovanni Falcone diceva dei mafiosi che “avranno sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”. Un modo semplice per indicare un dato assai più complesso, che attiene alla capacità delle organizzazioni criminali di agire nel mercato, di immettere nel mercato la loro intelligenza, la loro conoscenza della modernità e delle sue tecnologie, il loro spirito di intraprendenza e la loro spregiudicata capacità di cogliere ogni opportunità di profitto, governando il ciclo continuo della trasformazione della violenza in ricchezza.
Le mafie non sono questioni solo italiane e tanto meno solo del Mezzogiorno d’Italia. Sono questioni europee e internazionali, che investono le responsabilità di tutti gli Stati e della comunità internazionale. A questa idea è indissolubilmente legato anche il destino dei processi di integrazione europea. Basterebbe pensare a cosa accadrebbe se si diffondesse la sola percezione che le risorse del PNRR fossero disperse, perché intercettate e sottratte ai loro fini da imprese mafiose o disperse nei mille rivoli di abusi e ruberie che crescono esponenzialmente all’ombra dei condizionamenti mafiosi.
Su questi terreni si misura tutta la necessità di non rimediare alla debolezza delle funzioni di regolazione amministrativa e politica dei processi economici e delle dinamiche sociali continuando ad indebolire la capacità di azione repressiva.
Non è l’ennesimo passo indietro su questo terreno che serve, in omaggio al pendolo che regola le stagioni legislative.
Quel che serve è una incessante serie di passi in avanti sul terreno della ricostruzione della autorevolezza ed insieme della trasparenza e della controllabilità delle complessive funzioni dello Stato.
Ma di tutto questo non vi è traccia in un libro che, infine, sembra meritare la nemesi inscritta nel suo titolo, perché di un tentativo di inganno si tratta.
Ordito con sapienza ed abilità narrativa, ma che contribuisce ad erodere la speranza riposta nell’invito che fu rivolto da Zeus ad Ermes a non dimenticare, nel ripartire la giustizia fra gli uomini in parti uguali, di donare loro innanzitutto il rispetto: quel sentimento reciproco essenziale a preservare la convivenza civile e, in questo caso, la credibilità di un sistema giudiziario sempre più segnato dal vizio letale della perenne contrapposizione polemica e ideologica.
*Testo revisionato dell’intervento svolto da Giovanni Melillo alla presentazione del libro di Alessandro Barbano “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene” (Roma, 1 dicembre 2022)
Comunicazione all’interessato ed onere di motivazione nei procedimenti per il rilascio di interdittive antimafia (nota a T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, sent. 14 settembre 2022, n. 1518)
di Silia Gardini*
Sommario: 1. Inquadramento della vicenda giuridica – 2. La (ri)nascita dell’istruttoria procedimentale: l’art. 92, comma 2-bis del d.lgs. n. 159/2011 – 3. La decisione del T.A.R. Calabria – 4. Notazioni conclusive
1. Inquadramento della vicenda giuridica
La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso ha conquistato, negli ultimi decenni, spazi sempre più ampi anche sul versante del diritto amministrativo, laddove il pericolo di inquinamento criminoso ha indotto il legislatore a predisporre un sistema di accertamento preventivo volto ad arrestare “a monte” i contatti della pubblica amministrazione con soggetti potenzialmente sottoposti ad infiltrazioni mafiose, anche indirette[i].
La sentenza annotata offre l’occasione per affrontare il tema, assolutamente centrale ed ampiamente dibattuto, relativo alla partecipazione dei privati ai procedimenti amministrativi preordinati all’emanazione di provvedimenti interdittivi antimafia. Il caso sottoposto alla cognizione del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria trae origine dall’emissione di un’informativa interdittiva a carico del titolare di uno stabilimento balneare, dalla quale erano derivati – a cascata – la revoca della concessione demaniale marittima da parte del Comune ed il “rigetto” della SCIA per l’esercizio delle attività del bar annesso allo stabilimento. Il provvedimento de quo, fondato sull’esistenza di diversi precedenti penali e di polizia per reati, anche di tipo mafioso, in capo ai familiari del destinatario, era stato tuttavia emanato in assenza di comunicazione di avvio del procedimento, escludendo dunque – a monte – la partecipazione dell’interessato.
Prima di esaminare più nel dettaglio la questione giuridica e la decisione assunta a riguardo dal Giudice amministrativo, appare opportuno richiamare brevemente la disciplina sostanziale sulla quale essa si è incardinata e, in particolare, soffermarsi sulla particolare natura degli interessi coinvolti nel procedimento interdittivo, da cui discende la rilevanza della stessa vicenda processuale[ii].
L’informazione interdittiva antimafia è, com’è noto, un provvedimento di natura cautelare e preventiva che determina in capo al soggetto destinatario una particolare forma di incapacità giuridica nei rapporti con la pubblica amministrazione. Quel che vale a connotare spiccatamente tali provvedimenti è il fatto che essi si fondano su un giudizio di mera eventualità, che si esprime in un ampio grado di discrezionalità in merito a valutazioni fisiologicamente opinabili, poiché attinenti all’apprezzamento – avendo riguardo ad elementi sintomatici e indiziari – del rischio di ingerenza mafiosa e non all’accertamento della effettiva sussistenza del fatto[iii]. La valutazione è condotta, dunque, secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere ad un livello di certezza oltre “ogni ragionevole dubbio”, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa[iv].
In tale contesto, la declinazione del principio di legalità presenta una forma atipica, poiché l’esercizio del potere amministrativo non si esprime semplicemente attraverso la riconduzione del fatto ad una fattispecie normativa astratta, ma contempla la preventiva espressione di un’apposita valutazione – che definiamo “giudizio di eventualità” – sul potenziale sviluppo del fatto in questione, ai fini della sua attinenza alla fattispecie stessa.
L’estensione della normativa antimafia al sistema amministrativo presenta, invero, un tema di fondo che si sostanzia nella propensione legislativa a massimizzare l’interesse pubblico primario ad essa sotteso. Il difficile bilanciamento tra la “ragion pubblica” e le garanzie dei cittadini dinnanzi al potere viene, infatti, radicalmente operato in favore della prima. Così, l’istituto dell’informativa antimafia è passato dall’essere un elemento necessario soltanto nei casi in cui un operatore economico intendesse stipulare contratti con la pubblica amministrazione, ricevere da essa sovvenzioni o sfruttare economicamente beni pubblici, al diventare un fattore preclusivo all’emanazione di qualsivoglia provvedimento autorizzatorio da parte dell’amministrazione stessa a favore di soggetti ritenuti potenzialmenteinfluenzati da sistemi di natura mafiosa, determinando, di fatto, l’insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di tutte quelle situazioni giuridiche soggettive che determinino rapporti giuridici con la Pubblica amministrazione[v].
Emerge, allora, in tutta evidenza, la centralità e l’importanza della sottoposizione del potere prefettizio ad una attenta procedimentalizzazione, che, soprattutto attraverso l’accorta estrinsecazione della fase istruttoria, rappresenta il più importante – forse l’unico – elemento di garanzia per i cittadini, da far valere anche nella eventuale successiva sede giudiziaria.
2. La (ri)nascita dell’istruttoria procedimentale: l’art. 92, comma 2-bis del d.lgs. n. 159/2011
Il procedimento di rilascio dell’informazione antimafia è disciplinato dagli artt. 90 ss. del d.lgs. 159/2011. La vera e propria istruttoria procedimentale si apre, ai sensi dell’art. 92, laddove in sede di consultazione della Banca dati unica presso il Ministero dell’Interno si registrino profili indizianti astrattamente ostativi al rilascio dell’informazione liberatoria e si estrinseca in una serie non tipizzata di accertamenti riservati al Prefetto.
Tradizionalmente, in tali procedimenti il contraddittorio partecipativo era escluso o confinato ad ipotesi eventuali e non vincolanti[vi], come quella[vii] prevista dall’art. 93, comma 7, a ragione della particolare connotazione del provvedimento emanato e delle (presuntivamente) intrinseche necessità di celerità e segretezza.
Com’è noto, è la stessa legge n. 241/1990 a contemplare quelli in dottrina sono stati denominati “atti necessitati”[viii], ovvero provvedimenti amministrativi in cui l’urgenza di agire giustifica «modificazioni strutturali derivate»[ix] dell’atto ai fini della tutela dell’interesse pubblico[x]. Tipico esempio è la deroga all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento previsto in via generale dall’art. 7 nei casi in cui emergano «particolari esigenze di celerità» ed al fine di evitare il protrarsi di situazioni antigiuridiche[xi]. Tuttavia, in materia di informative antimafia, la giurisprudenza amministrativa era giunta a qualificare l’urgenza alla stregua di un ineliminabile presupposto di fatto dell’atto, tale da giustificare la totale assenza di qualsivoglia comunicazione all’interessato, suscitando in dottrina dubbi in merito alla stessa compatibilità dell’istituto con i principi, anche costituzionali, dell’azione amministrativa[xii].
A seguito dell’importante modifica al Codice antimafia introdotta dal d.l. n. 152/2021, lo scenario pare parzialmente differente. Il nuovo comma 2-bis dell’art. 91 prevede infatti che, laddove in sede di primo accertamento si riscontrino elementi indiziari tali da giustificare la possibile emanazione di un provvedimento interdittivo – ossia la sussistenza di cause di decadenza, sospensione o di divieto di cui all’art. 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84, comma 4 – il Prefetto debba darne tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa. Con tale comunicazione è, poi, assegnato al privato un termine non superiore a venti giorni per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere audizione dinnanzi all’autorità prefettizia, secondo le modalità già previste dall’art. 93.
L’istituto appare come una sorta di comunicazione “tardiva” di avvio del procedimento, sicuramente atipica, poiché di natura eventuale e collocata in una fase procedimentale già avanzata. La circolare del Ministero dell’Interno n. 77635/2021 l’ha qualificata come “preavviso di interdittiva”, accostandola alla ratio del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della l. n. 241/1990, del quale non può tuttavia essere considerata una species, non collocandosi nell’ambito di procedimenti ad istanza di parte.
Come opportunamente rilevato[xiii], peraltro, la previsione rischia di perdere nella prassi la sua effettività, a causa dell’ampio margine di discrezionalità che ne determina l’applicazione e che si traduce in un duplice limite. Il primo è rappresentato dalla valutazione delle «particolari esigenze di celerità del procedimento»; l’altro riguarda l’esclusione della comunicazione di «elementi informativi il cui disvelamento sia idoneo a pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l’esito di altri accertamenti finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose». Di talché, ogni qual volta l’Amministrazione prefettizia ritenga sussistente una motivata urgenza di provvedere ovvero valuti gli elementi istruttori interamente (o quasi) non disvelabili, la comunicazione diverrebbe, rispettivamente, preclusa o inutile.
Malgrado tali limitazioni, non può non rilevarsi come l’evidente capovolgimento prospettico della norma operato dalla riforma del 2021, imponga ora che l’eventuale provvedimento adottato de plano illustri – con un’adeguata motivazione – le ragioni per cui l’adempimento dell’obbligo comunicativo avrebbe potuto compromettere il soddisfacimento dell’interesse pubblico cui il provvedimento è rivolto[xiv]. In sostanza, se prima l’assenza di contraddittorio era la regola, ora è la stessa assenza a dover essere giustificata, seppur con l’agevole ricorso ad ampie fattispecie di esclusione.
3. La decisione del T.A.R. Calabria
La sentenza in commento – che interviene proprio sull’adeguatezza della motivazione in merito all’esclusione delle garanzie partecipative previste dall’art. 92, comma 2-bis del Codice antimafia – coglie perfettamente la ratio di rinnovamento della riforma legislativa sopra richiamata. Dopo aver accolto la domanda di tutela cautelare monocratica ai sensi dell’art. 56 c.p.a., il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria ha adottato la decisione con sentenza breve, ex art. 60 c.p.a., considerando assorbente e dirimente la vicenda in esame.
Nel caso di specie, infatti, le «particolari esigenze di celerità del procedimento» previste dalla norma erano state genericamente motivate dalla Prefettura di Catanzaro facendo riferimento alla necessità di interrompere tutti i rapporti tra la società destinataria del provvedimento e la pubblica Amministrazione, sulla scorta dei rapporti, anche familiari, intrecciati con ambienti malavitosi locali, nonché all’opportunità di revocare la concessione demaniale marittima di cui la stessa è titolare prima della fine del periodo estivo.
Il Giudice amministrativo ha considerato tale motivazione insufficiente ed in contrasto con la nuova disciplina normativa alla luce di due considerazioni.
La prima attiene agli elementi di “collegamento” mafioso rilevati dall’amministrazione, che pur potendo costituire la ragione per l’emissione del provvedimento interdittivo alla chiusura del procedimento, non sono ritenuti in grado di giustificare ex se le esigenze di celerità e, dunque, l’esclusione del contraddittorio. L’onere di motivazione, sotto tale punto di vista, avrebbe dovuto, diversamente, esprimersi in una “urgenza qualificata”, congruamente rappresentata con riguardo alle concrete esigenze di soddisfacimento del pubblico interesse cui il provvedimento è proteso. D’altro canto, ragionando diversamente, si finirebbe per svuotare di significato la stessa novella legislativa dell’art. 92, poiché l’istruttoria – finalizzata all’acquisizione di ulteriori rilevanti elementi conoscitivi da parte dell’Amministrazione – verrebbe assorbita a monte dai profili indiziari riscontrati in prima analisi.
La seconda argomentazione di lega alla possibile applicazione delle c.d. misure amministrative di prevenzione collaborativa, pure introdotte dalla riforma del 2021. Si tratta, com’è noto, di disposizioni volte ad evitare il pesante effetto interdittivo ed adottabili laddove in fase istruttoria emergano ipotesi di agevolazione mafiosa meramente occasionale. Tali misure consentono dunque – a fronte del carattere meramente occasionale dei tentativi di infiltrazione e coerentemente con la volontà legislativa di diversificare le azioni amministrative di prevenzione – di anticipare nella fase amministrativa le misure di self cleaning previste per il controllo giudiziario, aprendo la via ad una collaborazione tra imprese ed amministrazione[xv].
Secondo la ricostruzione del Giudice amministrativo, l’amministrazione prefettizia avrebbe dovuto, anche in questo caso, motivare adeguatamente l’impossibilità di neutralizzare il rischio di infiltrazione attraverso l’applicazione dell’art. 94-bis, facendo applicazione del principio di proporzionalità amministrativa[xvi].
4. Notazioni conclusive
La pronuncia annotata si inserisce in un filone giurisprudenziale che manifesta apprezzabili aperture verso le garanzie partecipative nell’ambito dei procedimenti amministrativi interdittivi[xvii], seppur con i temperamenti dovuti alla particolarità degli interessi coinvolti ed alla natura del provvedimento adottato. All’amministrazione prefettizia non si chiede più soltanto di rappresentare il pericolo di infiltrazione come elemento giustificativo della “specialità” della vicenda procedimentale, ma anche di adempiere correttamente agli oneri istruttori e motivazionali, giustificando espressamente il mancato coinvolgimento del privato interessato.
La strada verso la realizzazione di un contraddittorio effettivo appare, tuttavia, lunga e la “ragion pubblica preventiva” risulta ancora assolutamente prevalente nel bilanciamento con gli interessi delle imprese. Basti pensare che il termine di venti giorni previsto dall’art. 92, comma 2-bis per la presentazione di osservazioni e documenti è inferiore a quello di trenta giorni previsto dalla legge generale sul procedimento per la formazione del silenzio rigetto sull’istanza di accesso agli atti. Ciò vuol dire che, in caso di tardiva (o tacitamente negata) ostensione dei documenti da parte dell’Amministrazione, la partecipazione dell’interessato potrebbe svolgersi in assenza di elementi conoscitivi anche importanti e senza la possibilità di adire il Giudice amministrativo.
Si tratta di distorsioni che andrebbero corrette dal legislatore, soprattutto nell’ottica del necessario “recupero” dell’impresa, che dovrebbe essere connaturata a misure – quali sono quelle antimafia – di natura preventiva e non sanzionatoria[xviii]. In tale prospettiva, la valorizzazione del dialogo con il privato destinatario del provvedimento, anziché rappresentare un fattore di rallentamento o di pregiudizio dell’azione amministrativa, potrebbe determinarne invece un proficuo rafforzamento[xix].
*Ricercatore di Diritto amministrativo, Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro.
[i] Sul punto si veda, ex multis, AA.VV., Diritto amministrativo e criminalità, Atti del XVIII Convegno di Copanello, 28-29 giugno 2013, a cura di F. Manganaro, A. Romano Tassone, F. Saitta, Milano, 2013, passim.
[ii] Per un approfondimento, si rinvia a F. Figorilli e V. Giulietti, Contributo allo studio della documentazione antimafia: aspetti sostanziali e di tutela giurisdizionale, in Federalismi.it, n. 14/2021; M. Mazzamuto, Pil salvataggio delle imprese tra controllo giudiziario volontario, interdittive prefettizie e giustizia amministrativa, in Sistema penale, 2020; F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e costituzionalità della lotta «anticipata» alla criminalità organizzata, in Giustamm, 2018.
[iii] Cfr., ex multis, da ultimo Cons. St., sez. III, 21.06.2022, n. 5086, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iv] Cfr., per tutte, Cons. St., sez. III, 30.012019, n. 758; Cons. St., sez. III, 3.05.2016, n. 1743, e la giurisprudenza successiva, tutta conforme, da considerarsi qui richiamata, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina: F. Fracchia-M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l’inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell’interesse pubblico, in Il dir. dell’econ., 3/2018, 1125 ss.
[v] Cfr., Consiglio di Stato Ad. Plen., 6.04.2018, n. 3, in www.giustizia-amministrativa.it.
[vi] Cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 7 dicembre 2021, n. 8178, in www.giustizia-amministrativa.it. La giurisprudenza non mancava, tuttavia, di auspicare «un quantomeno parziale recupero delle garanzie procedimentali (…) in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l’apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale»: così, Cons. Stato, Sez. III, 30 luglio 2020, n. 4979, in www.giustizia-amministrativa.it.
[vii] L’art. 93, comma 7 del Codice antimafia, nella formulazione precedente alla riforma del 2021, riconosceva al Prefetto, ove ritenuto opportuno, la facoltà di invitare, ove lo ritenesse utile, «i soggetti interessati a produrre» documenti ed informazioni.
[viii] M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Giur compl. Cass. sez. civ., XXVII, I quadr., 1948, ora in Scritti, vol. II, 1939-1948, Giuffrè, Milano, 949 ss.
[ix] M.S. Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, cit., 952.
[x] Per un approfondimento sul tema, sia consentito il rinvio a S. Gardini, Note sui poteri amministrativi straordinari, in Il Diritto dell’economia, 2/2020.
[xi] Per un preciso inquadramento dottrinale dell’art. 7 della l. 241, si rinvia a R. Proietti, La partecipazione al procedimento amministrativo, Commento agli artt. 7-8, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M. A. Sandulli, Giuffrè, Milano, 2017, 566 ss. e, più in generale, a E. M. Marenghi, I confini del diritto alla partecipazione, Giuffrè, Milano, 2013, passim.
[xii] Cfr., F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza, cit..
[xiii] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio nel procedimento di rilascio d’informazione antimafia, intervento svolto al convegno “Il nuovo volto delle interdittive antimafia alla luce del P.N.R.R.”, T.A.R. Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria, 8 aprile 2022. Sul punto, anche M. Cocconi, Il perimetro del diritto al contraddittorio nelle informazioni interdittive antimafia, in Federalismi.it, 2022.
[xiv] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio, cit.
[xv] Cfr., M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in questa Rivista, 2022.
[xvi] La norma prevede, in particolare, che il Prefetto, quando accerti che i tentativi di infiltrazione mafiosa sono riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, prescriva all’impresa, società o associazione interessata l’osservanza, per un periodo compreso tra sei e dodici mesi, di una o più misure tra: l’adozione e l’efficace attuazione di misure organizzative, anche ai sensi del d. lgs. 231/2001, per rimuovere e prevenire le cause di agevolazione; la comunicazione al gruppo interforze di una serie di atti (di disposizione, acquisto, pagamento effettuati, di pagamenti ricevuti, di incarichi professionali conferiti e di amministrazione e gestione fiduciaria ricevuti), di valore non inferiore a 5.000 euro (o valore superiore definito dal prefetto), entro quindici giorni dal loro compimento; la comunicazione al gruppo interforze, da parte di società di persone o capitali, dei finanziamenti in qualsiasi forma erogati da parte di soci o di terzi; la comunicazione al gruppo interforze dei contratti di associazione in partecipazione stipulati; l’utilizzo di un conto corrente dedicato, per pagamenti, riscossioni e finanziamenti elencati (cfr., art. 94-bis, Cod. ant.).
[xvii] Si vedano, a riguardo, i contributi di R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020); R. Rolli, M. Maggiolini, Informativa antimafia e contraddittorio procedimentale (nota a Cons. St. sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979); Id., Brevi note sul riformato contraddittorio procedimentale in tema di interdittiva antimafia (nota a T.A.R. Lecce, sez. III, 116/2022) e la giurisprudenza ivi citata, tutti in questa Rivista, a cui si rinvia per ulteriore approfondimento.
[xviii] Cfr., N. Durante, Il contraddittorio, cit.
[xix] Cfr., M. Cocconi, Il perimetro del diritto al contraddittorio, cit.
Scheda n. 14 - Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (Art. 131-bis c.p.)
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’art. 1 comma 1 lett. c) d. lgs. 150/2022 modifica parzialmente la disciplina dell’art. 131-bis c.p. al fine di ampliare l’ambito di operatività dell’istituto in ottica di deflazione del sistema penale.
CATEGORIE DI REATI PER I QUALI È APPLICABILE L’ART. 131-BIS C.P.
ARTICOLO RIFORMATO |
Art. 131-bis. Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. 1. Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. 2. L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. L'offesa non può inoltre essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 558-bis, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583, secondo comma, 583-bis, 593-ter, 600-bis, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-undecies, 612-bis, 612-ter, nonché dall’articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194, ovvero per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, ovvero nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell'esercizio delle proprie funzioni, e nell'ipotesi di cui all'articolo 343. L’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 391-bis, 423, 423-bis, 600-ter, primo comma, 613-bis, 628, terzo comma, 629, 644, 648-bis, 648-ter, nonché per i delitti di cui agli articoli 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo, e 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. 3. Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. 4. Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69. 5. La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. |
Il nuovo art. 131-bis c.p. prevede l’applicabilità generalizzata dell’art. 131-bis c.p. a tutti i reati puniti con pena minima pari o inferiore a due anni.
Cade, invece, il riferimento al limite massimo di pena, cosicché tale causa di esclusione della punibilità potrà essere applicata anche a reati con pena edittale massima superiore a cinque anni di reclusione.
Conseguenze sul piano applicativo
Il nuovo istituto potrà applicarsi a un più ampio novero di fattispecie, tra cui, a titolo d’esempio, il delitto di falso di cui all’art. 495 c.p., la rapina tentata di cui al comma 1 dell’art. 628 c.p., il furto nelle ipotesi aggravate di cui all’art. 625, comma 1, c.p.
Le eccezioni
Il comma 4 dell’art. 131-bis introduce delle eccezioni espresse alla regola generale, avendo il legislatore ritenuto che, in relazione a determinati reati, l’offesa non possa mai essere considerata di speciale tenuità. Si tratta delle seguenti categorie di reati:
a) delitti puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, quando sono commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;
b) delitti di violenza e minaccia al pubblico ufficiale, resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio a pubblico ufficiale (quando il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni), nonché per il delitto di oltraggio a magistrato in udienza;
c) la maggior parte dei delitti, consumati o tentati, contro la Pubblica Amministrazione, segnatamente, il peculato di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., la concussione, le varie fattispecie di corruzione e l’indebita induzione a dare o promettere utilità;
d) incendio colposo e incendio boschivo;
e) costrizione o induzione al matrimonio;
f) lesioni personali nelle ipotesi aggravate:
- di cui agli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1 (quindi nei casi di lesioni commesse in occasione dei delitti di cui all’art. 612-bis, 572, 609-bis, 609-quater e 609-octies c.p.)
- di cui all’art. 577, primo comma, numero 1, e secondo comma (quindi nei casi di lesioni ai danni di ascendente, discendente, coniuge – separato o divorziato – persona stabilmente convivente o legata al colpevole da relazione affettiva, fratello o sorella, affine in linea retta);
- di cui all’art. 583, secondo comma (lesioni personali gravissime);
g) altri reati contro la persona quali pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili, interruzione colposa di gravidanza, prostituzione minorile, pornografia minorile, violenza sessuale, atti sessuali con minore, corruzione di minorenne, adescamento di minori, atti persecutori, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, tortura;
h) alcuni reati contro il patrimonio tra cui rapina nelle sole ipotesi aggravate di cui all’art. 628, terzo comma, estorsione, usura, riciclaggio e impiego di denaro o beni o utilità di provenienza illecita;
i) delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194 (interruzione volontaria di gravidanza effettuata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge);
l) reati in materia di sostanze stupefacenti di cui al d.P.R. 309/1990, fatta eccezione per le ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5;
m) reati di abuso o comunicazione illecita di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato (artt. 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58).
CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA SPECIALE TENUITÀ |
Nel comma secondo del nuovo art. 131-bis c.p. si specifica che, per stabilire se l’offesa sia di particolare tenuità, può prendersi in considerazione anche la «condotta susseguente al reato».
Con tale specificazione si chiarisce che il giudice, ai fini della valutazione del carattere di tenuità dell’offesa, può valorizzare le condotte risarcitorie o riparatorie poste in essere successivamente al fatto di reato: in tal modo il legislatore delegato pone fine alle incertezze applicative insorte in ordine alla possibilità di valutare anche tale profilo ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p.
DISCIPLINA TRANSITORIA
La norma è applicabile – a seguito della modifica introdotta dall’art. 6 d.l. 31 ottobre 2022 n. 162 che ha posticipato l’entrata in vigore della riforma introducendo il nuovo art. 99-bis – a partire dal 30 dicembre 2022.
Secondo una parte della dottrina, invece, il nuovo art. 131-bis c.p., essendo norma sostanziale più favorevole rispetto alla vecchia formulazione, potrebbe trovare applicazione anche nel periodo di prolungata vacatio legis, quindi già a partire dal 2 novembre 2022: tale opzione interpretativa si fonda sull’assunto secondo cui la ratio di garanzia della conoscibilità della legge penale, connessa al termine di vacatio legis, è un indispensabile presupposto per l’applicazione di norme penali sfavorevoli, non anche di norme penali favorevoli all’agente[1].
In ogni caso il nuovo art. 131-bis c.p. sarà applicabile anche ai fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, in ossequio alla regola generale di cui all’art. 2, comma 4, c.p., proprio perché si tratta di norma più favorevole rispetto a quella previgente.
[1] cfr. G.L. Gatta “Rinvio della riforma Cartabia: una scelta discutibile e di dubbia legittimità costituzionale. E l’Europa?” in www.sistemapenale.it
Scheda n. 13 - Riti alternativi: giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti, giudizio direttissimo, giudizio immediato
IL GIUDIZIO ABBREVIATO
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
Lo scopo della riforma è quello di incentivare l’accesso al giudizio abbreviato e di ampliare i presupposti di ammissibilità del rito, da un lato, prevedendo che il supplemento probatorio richiesto in abbreviato debba essere posto a confronto, sotto il profilo della sua compatibilità con le finalità di deflazione del rito, con l’attività istruttoria da svolgersi in dibattimento e disciplinando espressamente la facoltà di reiterare, prima dell’apertura del dibattimento, la richiesta di ammissione al rito abbreviato illegittimamente rigettata o dichiarata inammissibile, (salvo che si tratti di inammissibilità dichiarata ai sensi del comma 1-bis dell’art. 438 c.p.p., per la quale è dettata una specifica disciplina); e, dall’altro prevedendo, per il caso di mancata impugnazione della sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato, una ulteriore riduzione della pena di un sesto in fase esecutiva.
LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA RIFORMA
TESTO RIFORMATO |
Art. 438 c.p.p. – Presupposti del giudizio abbreviato (Omissis) 3. La volontà dell'imputato è espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore. (Omissis) 5. L'imputato, ferma restando la utilizzabilità ai fini della prova degli atti in- dicati nell'articolo 442, comma 1-bis, può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se, tenuto conto degli atti già acquisiti e utilizzabili, l'integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale. In tal caso il pubblico ministero può chiedere l'ammissione di prova contraria. Resta salva l'applicabilità dell'articolo 423. (Omissis) 6-ter. Qualora la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell'udienza preli- minare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del comma 1-bis, il giudice, se all'esito del dibattimento ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato, applica la riduzione della pena ai sensi dell'articolo 442, comma 2. In ogni altro caso in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato. (Omissis) |
Al comma 3 della norma in questione, avente ad oggetto le modalità e le forme di manifestazione della volontà dell’imputato di accedere al rito alternativo, risulta semplicemente specificato quanto era già previsto dal testo previgente mediante il richiamo dell’art. 583, comma 3, c.p.p. (ora abrogato), e, pertanto, anche ai sensi della nuova disciplina, la volontà dell’imputato dovrà essere espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione dovrà essere autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore.
Al comma 5 è introdotta una delle novità più significative e maggiormente incidenti sui presupposti di ammissione del rito.
Ed invero, secondo il testo previgente, il giudice, nel disporre il giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, avrebbe dovuto valutare se l’integrazione probatoria richiesta fosse necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili.
Secondo il testo novellato, invece, il giudice dispone il giudizio abbreviato se, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili, l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale.
Ciò che viene richiesto al giudice, ai fini dell’ammissione del rito, non è più dunque la valutazione circa la compatibilità dell’integrazione probatoria richiesta con le finalità deflative del rito, ma la valutazione dell’economia processuale derivante dall’accesso al giudizio abbreviato in rapporto alla prevedibile durata dell’istruttoria dibattimentale, secondo una sorta di giudizio prognostico.
Al comma 6-ter viene espressamente previsto che, in ogni altro caso - diverso dalla ipotesi di declaratoria di inammissibilità del giudizio abbreviato ai sensi del comma 1-bis della medesima norma - in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato.
È stato recepito a livello normativo l’orientamento già emerso a livello giurisprudenziale in ordine a detto specifico profilo (cfr. Cass. pen., sez. un., 27-10-2004, n. 44711, Wajib e Corte costituzionale 23 maggio 2003 n. 169).
TESTO RIFORMATO |
Art. 441 c.p.p. – Svolgimento del giudizio abbreviato (Omissis) 6. All'assunzione delle prove di cui al comma 5 del presente articolo e all'articolo 438, comma 5, si procede nelle forme previste dall'articolo 422, commi 2, 3 e 4. Le prove dichiarative sono documentate nelle forme previste dall’articolo 510. |
Al comma 6 è espressamente previsto che all’assunzione delle prove in caso di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria (art. 438, comma 5, c.p.p.), ovvero in caso di supplemento probatorio disposto dal giudice (art. 441 comma 5 c.p.p.), le prove dichiarative devono essere documentate nelle forme previste dall’art. 510 c.p.p. e, cioè, con mezzi di riproduzione audiovisiva e con trascrizione della riproduzione audiovisiva disposta solo se richiesta dalle parti.
TESTO RIFORMATO |
Art. 442 c.p.p. – Svolgimento del giudizio abbreviato (Omissis) 2-bis. Quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione. 3. Abrogato. (Omissis) |
Al comma 2-bis è stata introdotta la cosiddetta diminuente in sede esecutiva, elemento di assoluta novità rispetto alla disciplina previgente.
È stato cioè previsto che, qualora né l’imputato, né il suo difensore propongano impugnazione avverso la sentenza di condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione.
Si tratta con ogni evidenza di una disposizione finalizzata, da un lato, ad incentivare l’accesso al giudizio abbreviato e, dall’altro, a disincentivare l’impugnazione della sentenza di condanna, attraverso l’introduzione di un ulteriore meccanismo premiale in sede esecutiva.
L’APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
Come nel caso del giudizio abbreviato, anche nel caso del patteggiamento, la ratio della riforma deve essere ricondotta alla volontà di incentivare il ricorso ai riti alternativi.
Nel caso del patteggiamento, tuttavia, l’obiettivo perseguito dal legislatore è stato attuato non già mediante un ampliamento dei presupposti di accesso al rito, ma attraverso un intervento riformatore incidente, per un verso, sulla possibilità per l’imputato ed il pubblico ministero di raggiungere un accordo anche in ordine alla mancata applicazione delle pene accessorie, ovvero alla durata delle stesse, salvo quanto previsto dall’art. 444, comma 3 bis, c.p.p. (specifiche ipotesi di reati contro la P.A.), nonché in materia di confisca; per altro verso, sul ridimensionamento degli effetti extra-penali della sentenza di patteggiamento, con particolare riferimento alla esclusione dell’efficacia della sentenza di patteggiamento nei giudizi civili, tributari e disciplinari, amministrativi e relativi alla responsabilità erariale.
LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA RIFORMA
TESTO RIFORMATO |
Art. 444 c.p.p. – Applicazione della pena su richiesta delle parti 1. L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando questa, tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo, non supera cinque anni soli o congiunti a pena pecuniaria. L’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis, e di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato. (Omissis) 2. Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129, il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, le determinazioni in merito alla confisca, nonché congrue le pene indicate, ne dispone con sentenza l'applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti. Se vi è costituzione di parte civile, il giudice non decide sulla relativa domanda; l'imputato è tuttavia condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale. Non si applica la disposizione dell'articolo 75, comma 3. Si applica l'articolo 537-bis. (Omissis) |
Al comma 1 è espressamente previsto che l’imputato e il pubblico ministero possono altresì chiedere al giudice, nel caso del solo “patteggiamento allargato”, di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata, salvo quanto previsto dal comma 3-bis e, in ogni caso di patteggiamento, di non ordinare la confisca facoltativa o di ordinarla con riferimento a specifici beni o a un importo determinato.
Già sotto la vigenza della previgente disciplina, il comma 3-bis della norma in oggetto, rimasto inalterato dopo la novella legislativa, prevedeva che, nei procedimenti aventi ad oggetto i delitti di cui agli artt. 314, comma 1, c.p., 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis c.p., la parte, nel formulare la richiesta di patteggiamento, potesse subordinarne l’efficacia all’esenzione dalle pene accessorie previste dall’art. 317-bis c.p., ovvero all’estensione degli effetti della sospensione condizionale della pena anche a tali pene accessorie. Veniva altresì previsto che il giudice, qualora avesse ritenuto di applicare le pene accessorie, ovvero di non concedere l’estensione della sospensione condizionale anche a dette pene, avrebbe dovuto rigettare la richiesta.
Al peculiare assetto già contemplato dal comma 3-bis limitatamente al settore dei reati contro la P.A. sopra elencati e rimasto inalterato anche dopo la riforma, il legislatore ha voluto aggiungere una ulteriore previsione implicante un notevole ampliamento dei poteri di negoziazione delle parti, ben potendo l’accordo avere ad oggetto anche la mancata applicazione delle pene accessorie e la determinazione della loro durata con riferimento alle ipotesi di “patteggiamento allargato”, ovvero la mancata applicazione della confisca facoltativa o la sua applicazione fino a concorrenza di un importo determinato, o ancora l’incidenza della stessa solo su alcuni beni, con riferimento ad ogni ipotesi di patteggiamento.
Al comma 2 è conseguentemente previsto che il sindacato giurisdizionale in merito all’accordo raggiunto dalle parti debba estendersi anche alle determinazioni in merito alla confisca, nonché alla valutazione circa la congruità “delle pene” indicate, espressione, quest’ultima, chiaramente riferibile anche alle pene accessorie.
TESTO RIFORMATO |
Art. 445 c.p.p. – Effetti dell’applicazione della pena su richiesta delle parti (Omissis) 1-bis. La sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna. (Omissis) |
Il comma 1-bis introdotto dalla novella legislativa prevede che la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444, comma 2, c.p.p., anche se pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna.
Il legislatore, mediante l’introduzione del comma sopra riportato, ha perseguito dunque i seguenti obiettivi:
- escludere l’efficacia di giudicato della sentenza di patteggiamento nel giudizio disciplinare, mediante l’abrogazione dell’inciso contenuto nel testo previgente “salvo quanto previsto dall’art. 653”, senza dovere intervenire sulla formulazione testuale della norma in questione che, quindi, continua a riferirsi alle sole sentenze di condanna e di assoluzione;
- escludere l’efficacia di giudicato e la rilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento in tutti gli altri casi di giudizi “extrapenali” (civili, tributari, amministrativi, ivi compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile), ogniqualvolta il fatto storico oggetto della sentenza di patteggiamento possa avere una qualche rilevanza in quelle sedi;
- prevedere - con una formulazione che ricorda quella dell’art. 20 c.p., ai sensi del quale “le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa” – il venir meno di ogni effetto penale ogniqualvolta, a seguito della sentenza di patteggiamento, non si applichino le pene accessorie (e cioè ex lege, nel caso di applicazione di pena concordata entro i due anni e in caso di eventuale accordo tra le parti nell’ipotesi di cd. patteggiamento allargato).
Per effetti penali devono intendersi tutti quegli automatismi discendenti ope legis da una sentenza irrevocabile di condanna o di patteggiamento secondo una molteplicità di ipotesi previste dalle leggi speciali.
La formulazione proposta ha indubbiamente il vantaggio di non dovere intervenire sulle leggi speciali, che rimarranno dunque in vigore e continueranno ad applicarsi ogni volta che con la sentenza di patteggiamento verranno applicate delle pene accessorie.
La parte finale del comma 1-bis, che si pone quale diretta conseguenza dei periodi antecedenti, specifica la portata ed i limiti della equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, attraverso la clausola di salvezza “salvo quanto previsto dal primo o dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge”.
TESTO RIFORMATO |
Art. 446 c.p.p. – Richiesta di applicazione della pena e consenso 1. Le parti possono formulare la richiesta prevista dall'articolo 444, comma 1, fino alla presentazione delle conclusioni di cui agli articoli 421, comma 3, e 422, comma 3, e fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabilite dall'articolo 458, comma 1 o all’udienza prevista dal comma 2-bis dello stesso articolo. (Omissis) 3. La volontà dell'imputato è espressa personalmente o a mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore. (Omissis) |
Quanto al nuovo testo dell’art. 446 c.p.p., si tratta di una norma che non ha richiesto significativi interventi di adattamento a seguito della disciplina adottata in attuazione dell’articolo 1, comma 12, della legge delega, in materia di rito monocratico a citazione diretta. Le necessarie modifiche, riguardo al termine per la formulazione della richiesta di patteggiamento nei procedimenti a citazione diretta, sono state apportate, infatti, in attuazione del criterio di delega di cui all’articolo 1, comma 12, lett. a), attraverso l’interpolazione dell’art. 552, comma 1, lett. f) e la disciplina dettata con il nuovo art. 554-ter c.p.p.
Il comma 1 prevede che, nel caso di notifica del decreto di giudizio immediato, la richiesta di patteggiamento deve essere formulata entro il termine e con le forme stabilite dall’art. 458, comma 1, c.p.p., ovvero all’udienza prevista dal comma 2-bis dello stesso articolo 458 c.p.p..
Con riferimento a tale specifico aspetto, si rimanda, per un maggiore organicità e per ragioni di chiarezza espositiva, alla parte della presente scheda relativa al giudizio immediato.
Al comma 3, con formulazione testuale analoga a quella già utilizzata in tema di giudizio abbreviato al comma 3 dell’art. 458 c.p.p., vengono disciplinate le modalità e le forme di manifestazione della volontà dell’imputato di accedere al rito alternativo, mediante mera specificazione di quanto era già previsto dal testo previgente con il richiamo dell’art. 583, comma 3, c.p.p. e, pertanto, anche ai sensi della nuova disciplina, la volontà dell’imputato dovrà essere espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione dovrà essere autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore.
TESTO RIFORMATO |
Art. 447 c.p.p. – Richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari 1. Nel corso delle indagini preliminari, il giudice, se è presentata una richiesta congiunta o una richiesta con il consenso scritto dell'altra parte, fissa, con decreto in calce alla richiesta, l'udienza per la decisione, assegnando, se necessario, un termine al richiedente per la notificazione all'altra parte. Almeno tre giorni prima dell'udienza il fascicolo del pubblico ministero è depositato nella cancelleria del giudice. Nel decreto di fissazione dell’udienza è indicata l’informazione alla persona sottoposta alle indagini della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa. (Omissis) |
Al comma 1, nel caso di richiesta di applicazione di pena concordata proposta congiuntamente, ovvero da una sola delle parti con il consenso dell’altra nel corso delle indagini preliminari, viene stabilito che il giudice deve fissare con decreto l’udienza per la decisione, con eliminazione della possibilità di emettere detto decreto in calce alla richiesta e con espressa previsione che nel decreto di fissazione dell’udienza deve essere indicata l’informazione alla persona sottoposta alle indagini della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.
TESTO RIFORMATO |
Art. 448 c.p.p. – Provvedimenti del giudice (Omissis) 1 bis. Nei casi previsti dal primo comma, quando l’imputato e il pubblico ministero hanno concordato l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981 n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente. Si applica, in quanto compatibile, l’articolo 545 bis commi 2 e 3. (Omissis) |
Nei casi previsti dall’art. 448, co. 1 c.p.p. (sentenza di patteggiamento pronunciata all’esito dell’udienza di cui all’art. 447 c.p.p., all’esito di giudizio direttissimo o di giudizio immediato, sentenza di patteggiamento pronunciata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado a seguito di riproposizione dell’istanza dopo il dissenso del P.M. o il rigetto del G.I.P., sentenza pronunciata dal giudice dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione nel caso di dissenso del P.M. o di rigetto della richiesta ritenuti ingiustificati), la nuova norma prevede, al comma 1-bis, che, quando l’imputato e il pubblico ministero concordano l’applicazione di una pena sostitutiva di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981 n. 689, il giudice, se non è possibile decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente.
Poiché l’applicazione della pena concordata dalle parti può essere richiesta all’esito di una preventiva interlocuzione tra pubblico ministero e difensore dell’indagato o dell’imputato, le parti possono presentarsi al giudice con una proposta già delineata e solo da delibare, ipotesi, questa, che dovrebbe quella fisiologica o quantomeno auspicabile.
La norma in oggetto prende in considerazione, quindi, le seguenti ipotesi:
a) che le parti si trovino già davanti al giudice e non abbiano potuto o voluto per qualsiasi causa raggiungere un consenso sull’applicazione di una sanzione sostitutiva;
b) che sia raggiunto almeno un accordo sulla pena e sulla sua applicazione ai sensi dell’articolo 444 c.p.p.
Dalla relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134, si evince che l’espressione “quando l’imputato e il pubblico ministero hanno concordato l’applicazione di una sanzione sostitutiva”, deve essere intesa nel senso che l’accordo, almeno generale, deve essere già raggiunto e deve precedere la richiesta di differimento dell’udienza, di cui costituisce il presupposto, onde evitare ed anzi disincentivare richieste esplorative o dilatorie, che possano determinare un inutile aggravio del carico di lavoro dell’Ufficio esecuzione penale esterna.
In questi casi, se il giudice non può decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente. La norma contiene il rinvio all’applicazione dei soli commi 2 e 3 dell’art. 545-bis c.p.p., che disciplinano le attività e i poteri del giudice, delle parti e dell’Ufficio di esecuzione penale esterna, allo scopo di determinare i contenuti e la fisionomia della sanzione sostitutiva da sottoporre al giudice stesso.
IL GIUDIZIO DIRETTISSIMO
L’unica novità introdotta dalla riforma in materia di giudizio direttissimo ha riguardato l’art. 450, comma 3, c.p.p. e, segnatamente, la previsione che nella citazione a comparire all’udienza per il giudizio direttissimo devono essere inseriti tutti i requisiti di cui all’art. 429, comma 1, c.p.p. e, quindi, anche il requisito di cui alla lettera d-bis) della citata norma, ossia l’avviso all’imputato e alla persona offesa della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.
IL GIUDIZIO IMMEDIATO
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
Anche nel caso delle modifiche apportate alle norme che disciplinano il giudizio immediato, lo scopo del legislatore sembra essere quello di incentivare la scelta di riti alternativi successivamente alla notifica del decreto di giudizio immediato, compresa la sospensione del procedimento con messa alla prova.
I criteri di delega sono infatti finalizzati a favorire la trasformazione del giudizio immediato (ordinario) in un rito speciale con caratteristiche deflative, come si evince dalla previsione dell’obbligo per il giudice di fissare, a richiesta dell’imputato, una udienza camerale, nel corso della quale, anche nell’ipotesi di non accoglimento della richiesta originaria, l’imputato possa presentare richieste ulteriori, sempre nell’ottica di una definizione anticipata del procedimento. Solo come ultima e residuale opzione viene disciplinata l’eventualità che nessuna richiesta di rito alternativo vada a buon fine e che si debba procedere con la celebrazione del dibattimento.
LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA RIFORMA
TESTO RIFORMATO |
Art. 456 c.p.p. – Decreto di giudizio immediato (Omissis) 2. Il decreto contiene anche l'avviso che l'imputato può chiedere il giudizio abbreviato, ovvero l'applicazione della pena a norma dell'articolo 444 ovvero la sospensione del procedimento con messa alla prova. (Omissis) |
L’intervento sull’art. 456, comma 2, c.p.p. è finalizzato esclusivamente a recepire le statuizioni contenute nella sentenza della sentenza della Corte Costituzionale n. 19 del 2020, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 456, co. 2, c.p.p., per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non prevedeva che il decreto che dispone il giudizio immediato contenesse l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Si è conseguentemente ritenuto di dover menzionare la sospensione del procedimento con messa alla prova come possibile oggetto di richiesta all’udienza camerale anche negli artt. 458 e 458-bis c.p.p.. Non è stato necessario inserire la previsione del diritto di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova in via principale, perché detta possibilità è già contemplata dall’art. 464-bis, comma 2, c.p.p., secondo periodo, ai sensi del quale “se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall’articolo 458, comma 1”.
TESTO RIFORMATO |
Art. 458 c.p.p. – Richiesta di giudizio abbreviato (Omissis) 2. Il giudice fissa in ogni caso con decreto l'udienza in camera di consiglio per la valutazione della richiesta dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all'imputato, al difensore e alla persona offesa. Qualora riconosca la propria incompetenza, il giudice la dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente. Nel giudizio si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni degli articoli 438, commi 3, 5 e 6-ter, 441, 441-bis, 442 e 443; nel caso di cui all'articolo 441-bis, comma 4, il giudice, revocata l'ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato, fissa l'udienza per il giudizio immediato. 2-bis. Se il giudice rigetta la richiesta di giudizio abbreviato di cui all’articolo 438, comma 5, l’imputato, alla stessa udienza, può chiedere il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438, comma 1, l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 oppure la sospensione del procedimento con messa alla prova. 2-ter. Se non è accolta alcuna richiesta di cui al comma precedente, il giudice rimette le parti al giudice del dibattimento, dandone comunicazione in udienza alle parti presenti o rappresentate. (Omissis) |
Al comma 2 della norma in oggetto è previsto che il giudice fissa in ogni caso con decreto l’udienza in camera di consiglio per la valutazione della richiesta, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all’imputato, al difensore e alla persona offesa. Qualora riconosca la propria incompetenza, il giudice la dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente. Nel giudizio si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni degli articoli 438, commi 3, 5 e 6-ter, 441, 441-bis, 442 e 443; nel caso di cui all’articolo 441-bis, comma 4, il giudice, revocata l’ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato, fissa l’udienza per il giudizio immediato.
Come già anticipato, l’elemento di novità, rispetto alla disciplina antecedente, è costituito dall’obbligo per il giudice di fissare “in ogni caso” con decreto l’udienza in camera di consiglio per la valutazione della richiesta, mentre in precedenza l’emissione del decreto di fissazione dell’udienza implicava una valutazione in termini positivi circa l’ammissibilità dell’istanza, con particolare riferimento alla sua tempestività ed alla legittimazione del richiedente.
Altro elemento di novità, dovuto alla necessità di raccordare la disciplina del giudizio immediato con quella del giudizio abbreviato e con le modifiche normative in quella sede introdotte, è l’inserimento, tra le disposizioni richiamate in tema di giudizio abbreviato, dell’art. 438, comma 6-ter, c.p.p., già esaminato in precedenza.
Al comma 2-bis è previsto che, se il giudice rigetta la richiesta di giudizio abbreviato di cui all’articolo 438, comma 5, l’imputato, alla stessa udienza, può chiedere il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438, comma 1, l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444, oppure la sospensione del procedimento con messa alla prova
Si tratta di una previsione che amplia notevolmente la possibilità per l’imputato di accedere a diversi riti alternativi, in caso di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria e ciò indipendentemente dalla formulazione di richieste in via subordinata contestualmente alla richiesta formulata in via principale entro il termine decadenziale di quindici giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, ben potendo detta facoltà essere esercitata per la prima volta in sede di udienza camerale.
Viene dunque recepito normativamente ed esteso a tutte le possibili richieste di rito alternativo il principio che era già stato enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in materia di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria, per effetto del quale, qualora l'imputato ha tempestivamente richiesto il giudizio abbreviato condizionato e l'istanza è stata rigettata dal G.I.P., è legittima la riproposizione della richiesta di rito speciale, a diverse o senza condizioni, formulata all'udienza camerale fissata ai sensi dell'art. 458, comma secondo, c.p.p. (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, Sentenza n. 29912 del 07/06/2016 Cc. (dep. 14/07/2016) Rv. 268019 – 01). In questo caso, la Suprema Corte aveva evidenziato la correttezza di una simile soluzione, per ragioni logico-sistematiche e di economia processuale, dato che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 23 maggio del 2003, che aveva dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 458, comma 2, cod. proc. pen. (e dell'art. 438, comma 2 cod. proc. pen., come si vede assimilando le due norme), la richiesta di abbreviato condizionato, rigettata dal G.I.P., può essere riproposta davanti al giudice del dibattimento, il quale, se l'accoglie, dispone il giudizio abbreviato.
Tornado alla disamina della nuova normativa, solo in caso di rigetto di ogni richiesta di rito alternativo e, quindi, in via, con ogni evidenza, residuale, è previsto, al comma 2-ter, che il giudice debba rimettere le parti al giudice del dibattimento, dandone comunicazione in udienza alle parti presenti o rappresentate.
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 458-bis c.p.p. – Richiesta di applicazione della pena 1. Quando è formulata la richiesta prevista dall’articolo 446, il giudice fissa in ogni caso con decreto l’udienza in camera di consiglio per la decisione, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all’imputato, al difensore e alla persona offesa. 2. Nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice, l’imputato, nella stessa udienza, può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova oppure il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438. Se il giudice dispone il giudizio abbreviato, si applica l’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo 458. Nel caso di rigetto delle richieste, si applica l’articolo 458, comma 2-ter. |
L’art. 458-bis c.p.p. di nuova introduzione prevede, al comma 1, che, quando è formulata la richiesta prevista dall’articolo 446, il giudice fissa in ogni caso con decreto l’udienza in camera di consiglio per la decisione, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, all’imputato, al difensore e alla persona offesa.
L’art. 446, al comma 1, secondo la nuova formulazione, contempla la possibilità per l’imputato di formulare la richiesta di patteggiamento o entro il termine e con le forme di cui all’art. 458, comma 1, c.p.p. e, quindi entro quindici giorni dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, o all’udienza prevista dal comma 2-bis dell’art. 458 c.p.p. e, quindi, in sede di udienza camerale, anche dopo il rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria.
Al comma 2 dell’art. 458-bis c.p.p., è previsto che, nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice, l’imputato, nella stessa udienza, può chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, oppure il giudizio abbreviato ai sensi dell’articolo 438. Se il giudice dispone il giudizio abbreviato, si applica l’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo 458. Nel caso di rigetto delle richieste, si applica l’articolo 458, comma 2-ter.
Si tratta con ogni evidenza di una disposizione finalizzata ad uniformare la disciplina dettata in materia di richiesta di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. a seguito della notifica del decreto di giudizio immediato a quella dettata in materia di richiesta di giudizio abbreviato conseguente alla notifica del decreto di giudizio immediato.
Ed invero, l’art. 458-bis, comma 2, c.p.p. e l’art. 458, commi 2-bis e 2-ter, sono norme del tutto sovrapponibili ed ispirate dalla medesima ratio di deflazione e di notevole ridimensionamento dei casi di celebrazione del giudizio dibattimentale.
DISCIPLINA TRANSITORIA
Quanto al momento di effettiva entrata in vigore e applicazione di questa parte della riforma, l’art. 6 del D.L. n. 162 del 31/10/2022, ha introdotto, dopo l'articolo 99 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, l’art. 99 bis, ai sensi del quale il sopraindicato decreto entrerà in vigore il 30/12/2022.
Da ciò discende che, mentre prima di detto decreto-legge, non essendovi disposizioni specifiche e/o derogatorie, per il generale principio del tempus regit actum, sarebbe stato corretto ancorare la data di entrata in vigore delle disposizioni in precedenza esaminate al 1° novembre 2022 (15° giorno dalla pubblicazione del D.L.vo n. 150/2022), a seguito dell’introduzione della specifica disciplina sopra riportata, la data di entrata in vigore delle disposizioni in oggetto dovrà essere individuata nel 30/12/2022.
Si evidenzia, tuttavia, nel caso di giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria che implichi l’assunzione di prove dichiarative, che la norma richiamata dall’art. 442, comma 5, c.p.p. e cioè l’art. 510 c.p.p. avente ad oggetto la documentazione della prova mediante riprese audiovisive, in relazione alla quale era stata prevista l’entrata in vigore entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 150/2022 (art. 94 delle disposizioni transitorie), a seguito delle modifiche introdotte con l’art. 5-undecies del D.L. n. 162 del 31/10/2022, convertito con modificazioni dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199, entrerà in vigore nel più breve termine di sei mesi.
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