Riforma della giustizia tributaria tra giudici professionali e giudici supplenti
di Alessia Vignoli
La riforma della giustizia tributaria, e la scelta di un giudice professionale, hanno lasciato immutati i termini del problema su quale debba essere il ruolo del giudice rispetto ai vizi degli atti dell’amministrazione finanziaria. Anche con un giudice professionale resterà quindi l’ambigua collocazione della giurisdizione tributaria in una zona grigia tra quella civile e amministrativa, secondo l’equivoca formula dell’impugnazione merito, peraltro superabile anche a legislazione vigente.
Sommario: 1. Giudice professionale e giudice supplente: spunti di riflessione dalla riforma della giustizia tributaria - 2. Dal contenzioso tributario al processo amministrativo, oltre l’impugnazione-merito - 3. I vantaggi di una giurisdizione non sostitutiva sul modello amministrativo.
1. Giudice professionale e giudice supplente: spunti di riflessione dalla riforma della giustizia tributaria
Dopo che con la riforma della giustizia tributaria si è deciso di introdurre la figura del giudice professionale, emerge con maggior evidenza il vero tema trascurato dalla legge n.130/2022, ossia quale debba veramente essere il ruolo del giudice tributario.
L’opzione in favore del giudice professionale è stata netta e anche se troverà ostacoli lungo la sua strada[1], prima o poi troverà attuazione; tuttavia nell’individuare i tratti caratteristici del ruolo del giudice tributario, quello che va tenuto presente, al di là delle indicazioni procedurali che continuano a ricalcare il modello del processo civile, è che, comunque, si tratta di un giudice che valuta l’esercizio di una funzione pubblica (quella impositiva) e ciò dovrebbe condurre a volgere di più lo sguardo verso il modello del giudice amministrativo.
La creazione della nuova magistratura tributaria potrebbe rappresentare l’occasione per rimeditare il tema dell’impugnazione – merito, in cui il giudice tributario ha finito per assumere il ruolo di supplente dell’ufficio fiscale, sostituendosi a quest’ultimo nella rideterminazione della pretesa impositiva. Numerose sono le decisioni della Corte di Cassazione che esprimono e danno attuazione a questo principio; si consideri a mero titolo esemplificativo l’ordinanza n.39660/2021 in cui si legge che: … “In ragione della natura di impugnazione-merito del processo tributario, e del rispetto dei principi del giusto processo diretti a contenere i tempi della giustizia di cui agli artt.111 Cost., 47 CDFUE e 6 CEDU, il giudice, adito in una causa di impugnazione di cartella di pagamento, ove sia accertata l'esistenza di un titolo giudiziale definitivo che abbia ridotto la pretesa impositiva originariamente contenuta nell'avviso di accertamento presupposto, con conseguente insussistenza parziale, rispetto alle originarie pretese, del suo presupposto legittimante, non può invalidare "in toto" la cartella, ma è tenuto a ricondurre la stessa nella misura corretta, annullandola solo nella parte non avente più titolo nell'accertamento originario (Fattispecie avente ad oggetto anche riprese per tributi armonizzati)”.
Certamente nel caso di specie, riferendosi all’impugnazione della cartella di pagamento e dunque ad un atto successivo alla formazione della pretesa impositiva, la decisione è in sé condivisibile; tuttavia il riconoscimento di un ruolo “supplente” del giudice, se applicato in tutte le ipotesi in cui si deve rideterminare una pretesa in contestazione sulla base delle richieste delle parti, rischia di alterare completamente i compiti delle parti nell’attuazione della pretesa impositiva e, soprattutto, di deresponsabilizzare gli uffici fiscali.
L’approdo indiscriminato all’impugnazione-merito si è probabilmente autoprodotto per una serie di concause, a partire dalla tradizione storica del contenzioso amministrativo, riguardante la determinazione dell’imposta, e dalla sua giurisdizionalizzazione avendo riferimento al giudice civile, che forniva rispetto ad esse maggiori garanzie di indipendenza e di terzietà.
Sotto il primo profilo, la remota tradizione amministrativa delle commissioni tributarie consentiva loro la rideterminazione della base imponibile (si parlava infatti di questioni estimative), senza necessità di tornare all’ufficio fiscale; anche le commissioni erano infatti portatrici di un pubblico interesse, e non avevano alcun bisogno di rinviare la vicenda controversa ad un altro organo; ben poteva infatti l’organo amministrativo contenzioso, sovraordinato, sostituirsi al precedente, proprio grazie alla funzione che è chiamato ad esercitare con imparzialità.
Del resto l’evoluzione e le oscillazioni che la giustizia tributaria ha incontrato nel suo lungo cammino sono state messe in evidenza già in altra occasione su questa rivista[2] dove, guardando alle origini del problema, si parla del binomio giudice ordinario-organi del contenzioso, con l’autorità giudiziaria ordinaria che ad esempio nelle prime leggi post Unità d’Italia ha competenza in materia di imposte indirette (salva la possibilità di ricorrere in via amministrativa prima di proporre l’azione giudiziaria), mentre le imposte dirette sono restano riservate agli organi speciali, di natura amministrativa.
Progressivamente, spinti dall’esigenza di chiedere tutela ad un organo indipendente, e terzo e di far riconoscere natura giurisdizionale alle originarie Commissioni tributarie per ovviare alle censure di cui all’art.102 Cost., non è restato che rivolgersi al modello consolidato che consentiva di confrontarsi con la prima autorità indipendente di riferimento, individuata nel giudice civile; si è così realizzato quello che in altra sede e con altra finalità è stato definito il passaggio dal contenzioso al processo[3].
Sarebbe stato più ragionevole il passaggio dal contenzioso amministrativo al processo amministrativo, anziché al processo civile; il giudice, nella determinazione dei presupposti economici d’imposta, ha infatti assunto il suddetto ruolo sostitutivo dell’ufficio mentre, invece, detta ri-determinazione dovrebbe restare riservata all’ambito amministrativo, con le precisazioni che seguono.
2. Dal contenzioso tributario al processo amministrativo, oltre l’impugnazione-merito
È evidente come il modello dell’impugnazione-merito rischia commistioni tra funzione sostanziale e funzione giurisdizionale che nel diritto amministrativo sono ben distinte.
Come rilevato da Lupi[4], il modello più efficiente quando la controparte è un soggetto che esercita una pubblica funzione è la forma del reclamo all’autorità politica, da cui ha preso le mosse la giurisdizione amministrativa; essa infatti individua errori, senza sostituirsi alle conoscenze e alle esperienze multiformi dei diversissimi sottostanti uffici pubblici.
Nel lavoro di F.G. Scoca sull’interesse legittimo[5], la “separazione” tra il ruolo del giudice e quello dell’amministrazione mi pare ben evidenziata nella formula secondo cui: …I giudici non curano interessi; li tutelano, se ingiustamente lesi. Questo perché la cura dell’interesse pubblico spetta all’amministrazione che ne è responsabile, nel nostro caso agli uffici tributari nella determinazione dei presupposti economici d’imposta.
Sempre in ambito amministrativo la “confusione” (intendendo per tale il concentrarsi in un unico soggetto delle due suddette funzioni), quella sostanziale e quella giurisdizionale, è una ipotesi assolutamente eccezionale, come confermato dal codice del processo amministrativo; quest’ultimo all’art.7, comma 6, del D.lgs. n. 104/2010 stabilisce infatti, espressamente, che: “Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie indicate dalla legge e dall’articolo 134. Nell’esercizio di tale giurisdizione il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione”. Si tratta di ipotesi molto limitate come ad esempio in materia di contenzioso elettorale, dove vi sono delle esigenze di celerità e necessità di particolare indipendenza che rendono più opportuna tale soluzione[6].
Esiste, dunque, come autorevolmente messo in evidenza[7], una specifica disposizione che legittima, in via del tutto eccezionale, la giurisdizione di merito ossia quella in cui il giudice si sostituisce all’amministrazione.
In ambito tributario il legislatore non si è soffermato sul punto, ma questo non può essere certo interpretato come l’indiscriminata eventualità che, nel silenzio della legge, il giudice possa sostituirsi all’ufficio fiscale.
Certo la recente riforma della giustizia tributaria avrebbe potuto cogliere l’occasione per affrontare anche il tema della sostituzione del potere giurisdizionale a quello impositivo, invece di soffermarsi prevalentemente sulla figura e sull’inquadramento di carriera del giudice. Si sarebbe potuto riflettere non solo su chi deve essere il giudice tributario, ma soprattutto cosa deve fare. Tuttavia non è affatto imprescindibile un intervento del legislatore, che spesso anzi porta più danni che vantaggi, come si vede a proposito delle modifiche all’art.7 del D.lgs. n.546/1992 con l’inserimento del comma 5 bis[8]. sull’onere della prova[9].
L’inadeguatezza a sostituirsi agli uffici tributari non non è tanto questione di attitudine o professionalità del giudice, che riesce a districarsi agevolmente con questioni di liquidazione dei dati dichiarati (come ad esempio il mancato versamento di imposte dichiarate, deducibilità di oneri e spese personali, detrazioni varie, redditi non dichiarati da contratti registrati, o segnalati dai sostituti) oppure nelle controversie su “tributi minori” o con la determinazione delle rendite catastali o con le c.d. questioni di rito (ad esempio riguardanti la corretta notifica degli atti impositivi)
Spesso si tratta di pratiche di importi di ammontare non elevato, ma che sono le più numerose in materia tributaria o che comunque possono essere agevolmente risolvibili attraverso riscontri documentali o basandosi su una formazione giuridica di base per ovvie ragioni richieste a chi ricopre una carica giurisdizionale. Anche se ad onor del vero la maggior parte di queste cause non dovrebbero neanche arrivare ad impegnare la funzione giurisdizionale, potendo benissimo essere affrontare nella sede più opportuna ossia quella amministrativa in fase di riesame.
La mediazione ai sensi dell’art. 17 bis del D.lgs. n.546/1992 ha cercato di rimediare a tale fenomeno di “ingolfamento” della giustizia tributaria, ma ancora una volta non ha fatto altro che testimoniare la necessità di un intervento legislativo, anche quando le cose potrebbero essere gestite, proprio perché vi è coinvolto un soggetto pubblico, attraverso il corretto esercizio di una funzione, con il giudice che interviene solo in via residuale come clausola di salvaguardia.
Considerare l’intervento del giudice come una tappa obbligata, può andare bene nel caso della risoluzione delle controversie privatistiche, comprese quelle che coinvolgono amministrazioni pubbliche nella loro attività contrattuale. L’intervento del giudice rappresenta invece un appesantimento nel momento in cui il privato si confronta con una pubblica funzione, nel nostro caso quella impositiva.
La necessità di distinguere la funzione giurisdizionale da quella sostanziale impositiva è più evidente nelle controversie in cui si tratta di stimare l’evasione per le piccole attività di commercio e servizi al consumo finale o quando si tratta di affrontare le questioni interpretative specialistiche delle grandi aziende. E sono proprio questi gli ambiti in cui il giudice incontra le maggiori difficoltà, finendo per orientarsi in favore del fisco (che comunque è e resta la parte “pubblica” della vicenda).
Infatti, se il giudice in un processo sbrigativo come quello tributario (che ricordiamolo si esaurisce spesso in un’unica udienza) per giudicare deve sostituirsi all’ufficio che dalla sua magari avrà effettuato le indagini come riportate nel PVC, sarà naturalmente e comprensibilmente orientato a dare ragione alla parte pubblica se il contribuente non riesce ad evidenziare un vizio “forte” dell’atto impositivo.
Trovo evocativa un’espressione frequentemente contenuta nei testi di Lupi secondo cui: giudice frastornato ricorso rigettato; perché nell’impugnazione-merito se il giudice non è in grado di sostituirsi agli uffici fiscali nella determinazione dell’imposta, finirà per avallare l’atto impositivo.
Non è un caso se le controversie specialistiche o in cui si tratta di compiere valutazioni siano quelle con un alto tasso di vittoria del fisco e questo accade anche dinanzi alla Corte di Cassazione, circostanza che sta a testimoniare il giudice a tempo pieno non sia una variabile determinante quando il giudice è sotto una pressione quantitativa senza che gli sia chiaro il retroterra della causa.
Questo stato di cose non viene minimamente scalfito da espressioni come la parità delle parti, la nuova concezione dell’onere della prova ecc, in quanto si tratta di condizionamenti ambientali comprensibili, evitabili solo rimeditando il pregiudizio dell’impugnazione-merito.
3. I vantaggi di una giurisdizione non sostitutiva sul modello amministrativo
Gli inconvenienti di cui al termine del punto precedente sarebbero molti di meno se la giurisdizione tributaria si limitasse al controllo della determinazione dell’imposta, senza la suddetta sostituzione dei giudici agli uffici; sarebbe una soluzione in linea col resto della giurisdizione sulle altre funzioni pubbliche, laddove è doveroso, emettere un nuovo atto, tenendo conto delle indicazioni della sentenza di annullamento[10]. I pratici del diritto tributario a questo punto obiettano che il potere dell’ufficio fiscale deve essere esercitato entro un termine stabilito a pena di decadenza, tuttavia se l’atto (sebbene annullato) sia provvisto degli elementi essenziali, compresa la motivazione, non vi è nessuna disposizione che ne vieti la riemissione.
Questa soluzione consentirebbe anche di dare attuazione concreta a tutte quelle norme procedurali (ad esempio diritto al contraddittorio, rispetto di termini procedurali, l’obbligo di valutazione delle osservazioni al PVC) che finiscono per restare lettera morta perché altrimenti rischierebbero di travolgere un accertamento fondato nel merito. Questi passaggi “procedurali”, di cui il contribuente lamenta la mancanza, potrebbero avvenire anche a posteriori, con una rideterminazione dell’imposta nei limiti della motivazione del primo atto.
L’impugnazione merito impone, invece, all’interno dell’atto impugnato, rielaborazioni troppo articolate e fuori dalla portata del giudice sia come competenze che come tempi. Per questa ragione sarebbe auspicabile che il giudice, resosi conto dei vizi, annulli l’atto, e l’ufficio tributario proceda a una rideterminazione dell’imposta dovuta nei limiti nella materia del contendere così come determinata dalla parti (con motivazione e motivi di ricorso).
La giurisdizione sulle funzioni non giurisdizionali, come quella tributaria, deve in sostanza correggere ed orientare l’azione amministrativa, in funzione di efficienza e correttezza. Annullando gli atti, o comunque rispedendoli al mittente suggerendogli la strada corretta da seguire il giudice tributario porrebbe le basi per una amministrazione finanziaria migliore.
[1] Si pensi ad esempio all’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della CGT di Venezia n. 408/2022 con la quale sono stati sollevati diversi profili di legittimità costituzionale della riforma tributaria (primo fra tutti la dipendenza amministrativa e strutturale dal MEF).
[2] Cfr. D. Pellegrini, La giustizia tributaria tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali: le oscillanti scelte di politica giudiziaria e i motivi della diffidenza verso la giurisdizione ordinaria, in Giust.insieme del 17/12/2020. Ad esempio è stato evidenziato che la legge sull’imposta di ricchezza mobile del 14 luglio 1864, n. 1830 ha istituito il doppio ordine di commissioni tributarie. Tali organi, anche se esteriormente assomigliano alle odierne commissioni tributarie, sono indubitabilmente organi amministrativi per di più preposti all’accertamento delle imposte piuttosto che alla risoluzione del contenzioso. E contro i loro provvedimenti non era possibile il ricorso all’autorità giudiziaria (possibilità di ricorso che verrà introdotta un anno dopo, e per la prima volta, solo nella legge sui fabbricati del 26 gennaio 1865, n. 2136).
[3] C. Consolo, Dal contenzioso al processo tributario. Studi e casi, Milano, 1992.
[5] Mi riferisco a F.G. Scoca, L’interesse legittimo: storia e teoria, Torino, Giappichelli, 2017, 185.
[6] Per i profili essenziali del contenzioso elettorale cfr. P. Sandulli, Il contenzioso elettorale (regolato dal Codice del processo amministrativo) in Judicium del 9/12/2020.
[7] Sul carattere eccezionale della giurisdizione di merito e i suoi contenuti salienti cfr. per tutti A. Police, Le forme della giurisdizione in F. G. Scoca (a cura di), Giustizia Amministrativa, Torino, 2020, 110 ss.
[8] Sul tema si veda G. Moschetti, Il comma 5 bis dell’art.7 D.lgs. n.546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo, Riv. Dir. trib. – supplemento telematico 28 gennaio 2023.
[9] Sul tema, senza pretesa di esaustivitá e per i richiami ad altra dottrina, si rinvia a F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, p. 81, ora in Scritti scelti di diritto tributario, vol. II, Torino, 2022, 272 e S. Muleo, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 603ss.
[10] È il caso ad esempio della rivalutazione nei concorsi pubblici.