ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Scheda n. 2 - Le modifiche alla costituzione di parte civile
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’obiettivo della riforma appare da un lato quello di precisare le modalità con cui il difensore nominato può essere sostituito in udienza e dall’altro quello di richiedere, in sede di costituzione di parte civile e di istanza di natura civilistica presentata all’interno del processo penale, una prova documentale più stringente delle pretese risarcitorie.
FORMALITÀ DELLA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE
TESTO PREVIGENTE | TESTO RIFORMATO |
Art. 78 c.p.p. - Formalità della costituzione di parte civile. 1. La dichiarazione di costituzione di parte civile è depositata nella cancelleria del giudice che procede o presentata in udienza e deve contenere, a pena di inammissibilità: a) le generalità della persona fisica o la denominazione dell'associazione o dell'ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante; b) le generalità dell'imputato nei cui confronti viene esercitata l'azione civile o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo; c) il nome e il cognome del difensore e l'indicazione della procura;0 d) l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda; e) la sottoscrizione del difensore. *** *** *** *** *** *** *** *** *** *** (Omissis) | Art. 78 c.p.p. - Formalità della costituzione di parte civile. 1. La dichiarazione di costituzione di parte civile è depositata nella cancelleria del giudice che procede o presentata in udienza e deve contenere, a pena di inammissibilità: a) le generalità della persona fisica o la denominazione dell'associazione o dell'ente che si costituisce parte civile e le generalità del suo legale rappresentante; b) le generalità dell'imputato nei cui confronti viene esercitata l'azione civile o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo; c) il nome e il cognome del difensore e l'indicazione della procura; d) l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda agli effetti civili; e) la sottoscrizione del difensore. 1-bis. Il difensore cui sia stata conferita la procura speciale ai sensi dell’articolo 100, nonché la procura per la costituzione di parte civile a norma dell’articolo 122, se in questa non risulta la volontà contraria della parte interessata, può conferire al proprio sostituto, con atto scritto, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione. (Omissis) |
È precisato che la costituzione di parte civile deve contenere l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda “agli effetti civili”: il legislatore sembra seguire l’orientamento maggioritario della giurisprudenza formatosi sulla causa petendi dell’atto di costituzione di parte civile prima della riforma.
Le ragioni che giustificano la domanda, anche prima della novella legislativa, dovevano concretizzarsi nella descrizione del nesso di causalità tra la condotta dell'imputato ed i danni che dalla condotta di questo sono derivati. La giurisprudenza, pressoché all'unanimità, pretendeva una descrizione, se non analitica perlomeno inequivoca, del rapporto esistente tra il danno lamentato e il comportamento attribuibile all'imputato respingendo come non pertinente al requisito di cui alla lett. d) la semplice intenzione di ottenere il risarcimento dei danni subiti o la restituzione di quanto sottratto.
La causa petendi dell'atto di costituzione di parte civile della persona offesa dal reato era ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità sufficientemente delineata con riferimento al capo di imputazione soltanto quando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risultasse con immediatezza (così da ultimo Cas. Sez. II sent. n. 23940/2020).
Il comma 1-bis art. 78 c.p.p. prevede che il difensore munito della procura, sia ai sensi dell’art. 100 c.p.p. che dell’art. 122 c.p.p., possa conferire al proprio sostituto, con atto scritto, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione, salvo che risulti volontà contraria della parte interessata.
La questione se il sostituto processuale potesse depositare la costituzione di parte civile era già stata affrontata dalla giurisprudenza con l’intervento delle Sezioni unite n. 12213 del 21.12.2017 che hanno affermato che il sostituto processuale del difensore, al quale il danneggiato abbia rilasciato procura speciale al fine di esercitare l'azione civile nel processo penale, non ha la facoltà di costituirsi parte civile, salvo che detta facoltà sia stata espressamente conferita nella procura ovvero che la costituzione in udienza avvenga in presenza del danneggiato, situazione questa che consente di ritenere la costituzione come avvenuta personalmente.
Con la novella legislativa, viene rovesciata la prospettiva, in quanto si prevede che il difensore, al quale sono state conferite entrambe le procure ex artt. 100 e 122 c.p.p., salva diversa volontà della parte, possa conferire al proprio sostituto, con atto scritto, anche successivo pertanto alla procura medesima, il potere di sottoscrivere e depositare l’atto di costituzione.
Verificata, pertanto, la sussistenza di entrambe le procure che coerentemente ai principi generali di conservazione dell’atto e di prevalenza della sostanza sulla forma possono coesistere in unico atto, occorre verificare se la parte ha espresso volontà contraria al conferimento al sostituto dei poteri indicati, per poi accertarsi se con atto scritto il difensore procuratore speciale abbia conferito a un sostituto il potere di sottoscrivere e depositare l’atto.
TERMINE PER LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE
TESTO PREVIGENTE | TESTO RIFORMATO |
Art. 79 c.p.p. - Termine per la costituzione di parte civile. 1. La costituzione di parte civile può avvenire per l'udienza preliminare e successivamente, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall'articolo 484. *** *** *** *** 2. Il termine previsto dal comma 1 è stabilito a pena di decadenza. 3. Se la costituzione avviene dopo la scadenza del termine previsto dall'articolo 468 comma 1, la parte civile non può avvalersi della facoltà di presentare le liste dei testimoni, periti o consulenti tecnici. *** *** *** | Art. 79 c.p.p. - Termine per la costituzione di parte civile. 1. La costituzione di parte civile può avvenire per l'udienza preliminare e successivamente, prima che siano ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, o, quando manca l’udienza preliminare, fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall'articolo 484 o dall’articolo 554-bis, comma 2. 2. I termini previsti dal comma 1 sono stabiliti a pena di decadenza. 3. Quando la costituzione di parte civile è consentita fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall’articolo 484, se la stessa avviene dopo la scadenza del termine previsto dall'articolo 468 comma 1, la parte civile non può avvalersi della facoltà di presentare le liste dei testimoni, periti o consulenti tecnici. |
Cambiano i termini per costituirsi parte civile, distinguendo a seconda che si celebri o meno l’udienza preliminare:
- se si tiene udienza preliminare, il termine è quello degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti in udienza preliminare e non anche in dibattimento;
- se manca l’udienza preliminare, il termine è quello degli accertamenti della costituzione delle parti ex art. 484 c.p.p. o 554-bis co. 2 c.p.p. (udienza predibattimentale di nuova applicazione).
Viene precisato che i termini sono posti a pena di decadenza (non più il termine, ma i termini al plurale) e che, se la costituzione avviene ex art. 484 c.p.p. dopo la scadenza del termine di cui all’art. 468 co. 1 c.p.p., la parte non può presentare lista testi. Sul punto non vi sono mutamenti rispetto alla disciplina previgente, fermo restando che la parte danneggiata che sia anche persona offesa può presentare lista testi nel termine dell’art. 468 c.p.p. e poi costituirsi nel termine dell’art. 484 c.p.p.
DISCIPLINA TRANSITORIA
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 85-bis d.lgs. n. 150/2022 – Disposizioni transitorie in materia di termini per la costituzione di parte civile. 1. Nei procedimenti nei quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono già stati ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare, non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 5, comma 1, lettera c), del presente decreto e continuano ad applicarsi le disposizioni dell’articolo 79 e, limitatamente alla persona offesa, dell’articolo 429, comma 4, del codice di procedura penale, nel testo vigente prima della data di entrata in vigore del presente decreto. |
La legge di conversione del d.l. 162/2022 ha introdotto l’art. 85-bis al d.lgs. 150/2022 in cui viene specificato che la nuova disciplina di cui all’art. 79 c.p.p. che muta i termini di costituzione di parte civile si applica solo nei procedimenti nei quali alla data del 30.12.2022 (data di entrata in vigore del d.lgs. 150/2022) non sono stati ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell’udienza preliminare.
I punti salienti dell’attuazione della riforma del processo civile di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149[1]
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa. La trattazione delle sole questioni principali. - 2. Gli atti processuali. - 3. Le udienze. - 4. Le ordinanze di accoglimento oppure di rigetto in via breve delle domande. - 5. L’inammissibilità dell’appello. - 6. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione. - 7. I procedimenti in materia di famiglia. - 8. Le sanzioni.
1. Premessa. La trattazione delle sole questioni principali
Il 10 ottobre 2022 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo n. 149 emanato dal Governo in attuazione della legge delega di riforma del processo civile 26 novembre 2021 n. 206.
Come previsto dall’articolo 1, comma 1, della legge delega, e come precisato nella stessa Relazione illustrativa del Ministro della Giustizia, anch’essa apparsa in Gazzetta Ufficiale del 19 ottobre 2022, il testo legislativo elaborato dal Governo si propone di realizzare un riassetto formale e sostanziale completo della disciplina del processo civile, comprensivo del processo di cognizione, del processo di esecuzione, dei procedimenti speciali e degli strumenti alternativi di composizione delle controversie, e ciò mediante interventi sul codice di procedura civile, sul codice civile, sul codice penale, sul codice di procedura penale e su numerose leggi speciali, in funzione degli obiettivi di “semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile”.
Dal punto di vista temporale il decreto legislativo è stato presentato nel rispetto delle tempistiche imposte dal comma 2 della legge delega, e in conformità a quanto stabilito nel PNRR.
Ovviamente, questo mio intervento non intende costituire guida ragionata della riforma, poiché essa necessiterebbe di spazi da monografia.
Questo mio scritto ha ad oggetto le sole novità che mi sono sembrate le principali, e, proprio per questa loro maggiore incisività, più bisognose di una qualche analisi critica.
Queste, come agevolmente può comprendersi dall’indice, sono quelle degli atti processuali, delle udienze, delle ordinanze di accoglimento oppure di rigetto in via breve delle domande, dell’inammissibilità dell’appello, del rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione, dei procedimenti in materia di famiglia, e infine delle sanzioni pecuniarie.
2. Gli atti processuali
Circa la forma degli atti processuali, la riforma ha modificato in primo luogo l’art. 121 c.p.c., che oggi ha aggiunto la statuizione secondo la quale: “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico” (aggiunte analoghe sono state poste negli artt. 163, 167, 342, 366 e 473 bis 12, c.p.c.), e poi, soprattutto, ha riscritto l’art. 46 disp. att. c.p.c. sulla base di un più ridotto testo contenuto nella legge delega[2].
2.1. Orbene, a me sembra in primo luogo che se si confronta la norma del decreto legislativo con quella della legge delega, si rileva un eccesso di delega.
a) La legge delega ribadiva il principio della libertà delle forme nella redazione degli atti processuali, stabilendo che questi possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, mentre il decreto legislativo ha abbandonato il criterio della libertà delle forme degli atti ed ha espressamente previsto che un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti, disponendo altresì che l’atto processuale debba avere in ogni caso un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso.
b) La legge delega, poi, semplicemente prevedeva che gli atti processuali dovessero essere redatti in modo da assicurare la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, mentre il decreto legislativo ha disposto, oltre ciò, che con decreto del Ministro della Giustizia sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell'intestazione e delle altre indicazioni formali dell'atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale.
Par evidente che tutta questa seconda parte non era prevista dalla legge delega, e si presenta per la prima volta nel solo decreto legislativo di attuazione.
c) La legge delega, infine, giustificava l’inquadramento e la regolamentazione degli atti processuali semplicemente sulla esigenza della raccolta dati nel processo telematico, ovvero strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo; il decreto legislativo supera al contrario questa ratio e prevede una regolamentazione ministeriale di tipo generale (……rispettano la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione……), in grado così di investire gli atti processuali in ogni momento, e non solo in quello della raccolta telematica dei dati.
Espressamente un decreto del Ministro della Giustizia stabilirà, infatti, lo ripetiamo ancora, i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti.
2.2. Se dunque l’art. 46 disp. att. c.p.c. presenta dubbi di costituzionalità per eccesso di delega, parimenti la norma non sembra rispettosa nemmeno degli artt. 24, 101 e 110 Cost.
Premesso che per atti processuali devono intendersi sia gli atti del giudice che quelli degli avvocati, e ciò non solo per il chiaro tenore letterale della norma, quanto perché altrimenti non si comprenderebbero le ragioni per le quali il decreto del Ministro della Giustizia debba essere adottato sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, e premesso che il parere di questi due organi, per come è disposta la norma, appare meramente consultivo e non vincolante (ma poco cambierebbe, a mio parere, anche ove il parere fosse vincolante), non si vede come il Ministro della Giustizia possa stabilire le modalità con le quali le parti debbano chiedere giustizia e il giudice debba renderla, ovvero non si comprende come il Ministro della Giustizia possa stabilire la struttura di una citazione, di un ricorso, di una ordinanza oppure di una sentenza.
Si deve così ricordare che l’art. 110 Cost. esclude che il Ministro della Giustizia possa avere simili poteri, poiché tutto al contrario ad esso spettano solo “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, e certo non rientrano, ne’ sono mai rientrati, nel concetto di servizi relativi alla giustizia le modalità di stesura degli atti processuali.
Dal che, non può che essere ribadito che ogni regolamentazione degli atti processuali deve concernere aspetti meramente telematici e informatici, e non può assolutamente incidere ne’ sull’esercizio della funzione giurisdizionale, ne’ sul diritto di azione, poiché altrimenti la disposizione si pone in contrasto con gli artt. 24 e 101 Cost.
E a niente serve prevedere che la violazione del regolamento ha conseguenze solo sulle spese, poiché gli spazi degli atti potrebbero essere predeterminati dal sistema informatico, cosicché, di fatto, potrebbe essere impedito a giudici e/o avvocati di inserire nel sistema atti che non corrispondano ai limiti dimensionali e/o tipologici previsti dal Ministro della Giustizia.
Si tratta di un punto fondamentale, che non può essere sottovalutato.
3. Le udienze
Per quanto concerna le udienze, la riforma prevede oggi non solo che le stesse stiano sotto la direzione del giudice, cosa che da sempre è così, ma anche che “il giudice può disporre che l’udienza si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza o sia sostituita dal deposito di note scritte” (nuovo art. 127, 3° comma c.p.c.).
Si tratta di una novità importante, che oggi trova infatti disciplina nell’art. 127 bis c.p.c. quanto all’udienza mediante collegamenti audiovisivi e nell’art. 127 ter c.p.c. quanto al deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza.
Si tratta di disposizioni in parte analoghe, ed esattamente entrambe statuiscono che il giudice possa, nelle udienze che non richiedano la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice, disporre, a sua discrezione, (può essere disposto dal giudice) ora l’udienza mediante collegamenti audiovisivi, ora il deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza.
3.1. Dunque, al giudice spetta la scelta circa le modalità di svolgimento delle udienze, e la decisione presenta queste caratteristiche:
a) si tratta di un decreto privo di motivazione, visto che i decreti sono motivati solo se la legge dispone che debbano esserlo (art. 135, 4° comma c.p.c.) e gli artt. 127 bis e ter c.p.c., al contrario, non prevedono che la decisione del giudice debba essere motivata.
b) Si tratta di determinazione completamente discrezionale, poiché la legge non prevede in quali casi l’udienza possa essere sostituita mediante collegamenti audiovisivi o mediante il deposito di note scritte, dal che il giudice può farlo liberamente e senza specifiche ragioni; fino ad oggi la scelta era motivata da ragioni di sicurezza sanitaria, ma da domani la determinazione delle modalità di svolgimento dell’udienza sarà rimessa alla piena libertà del giudice.
c) Le parti possono opporsi all’udienza con collegamento audiovisivo; tuttavia in questi casi Il giudice provvede con decreto non impugnabile, con il quale può anche disporre che l’udienza si svolga alla presenza delle parti che ne hanno fatto richiesta e con collegamento audiovisivo per le altre parti. In tal caso resta ferma la possibilità per queste ultime di partecipare in presenza.
Dal che, se il giudice può anche disporre che l’udienza si svolga alla presenza delle parti, significa, sic et simpliciter, che il giudice può anche disporre che al contrario l’udienza si tenga nei modi che questi aveva già determinato, ovvero significa che l’istanza della parte ben può essere respinta dal giudice.
E cosa analoga si ha nelle ipotesi in cui l’udienza sia sostituita con il deposito di note scritte; in questo caso, a seguito dell’opposizione, il giudice in caso di istanza proposta congiuntamente da tutte le parti, dispone in conformità; il che significa che il giudice è tenuto allo svolgimento dell’udienza in presenza solo se la richiesta proviene da entrambi le parti, poiché se al contrario la richiesta è solo di una parte, il giudice può ben disattendere la richiesta e confermare che la stessa sia sostituita dal deposito di note scritte.
3.2. Ora, io credo sia preoccupante che il giudice, con decreti non impugnabili e non motivati, abbia assoluta libertà di scegliere le modalità di svolgimento delle udienze, e ciò sia perché le norme in questione rompono un principio di trattamento paritario delle parti, in quanto i giudici, ognuno in base alla propria sensibilità, potranno fare scelte diverse, che daranno vita a diverse modalità di svolgimento dei processi tra parti e parti, e sia perché, è bene sottolineare, le modalità di svolgimento dell’udienza attengono molto più all’esercizio del diritto di azione e di difesa che non a quello decisionale, poiché, ancora, par evidente, mentre le modalità di svolgimento dell’udienza possono modificare e/o comprimere il diritto all’azione e alla difesa, le stesse lasciano invece sostanzialmente invariato il diritto/dovere del giudice di decidere.
In questi termini pareva necessario che il giudice potesse accedere a queste modalità alternative di svolgimento delle udienze solo se a questi proveniva richiesta congiunta di tutte le parti; mentre la riforma ha pensato al contrario che l’opinione delle parti non rilevassero, e che il giudice potesse determinare dette modalità a prescindere dai desiderata dei litiganti.
E in questo contesto, nessun senso ha l’opposizione prevista dagli artt 127 bis e ter c.p.c., poiché il giudice può egualmente confermare la sua decisione con provvedimento non impugnabile e non motivato, e la parte quindi non farai mai un’opposizione del genere, che non le assicura alcun risultato utile e che le servirebbe solo a rendersi antipatico agli occhi del giudice.
3.3. Seppur sia comodo fare udienze a distanza, o preferibile depositare una nota scritta piuttosto che recarsi in un palazzo di giustizia, io credo che noi dobbiamo ancora batterci per un processo che faccia dell’incontro il fulcro della sua funzione, poiché è proprio l’incontro che meglio consente, indiscutibilmente, l’esercizio dell’azione e della difesa.
Per questo mi sembra che gli artt. 127 bis e ter c.p.c. siano da ripensare:
a) perché la regola rimanga quella dell’udienza in presenza;
b) e perché l’eccezione non sia rimessa alla discrezionalità del giudice, da esercitare con decreti privi di motivazione e non impugnabili, e senza che la legge fissi le condizioni con le quali una udienza può essere sostituita con mezzi audiovisivi o note scritte.
4. Le ordinanze di accoglimento oppure di rigetto in via breve della domanda
La riforma, poi, introduce nel codice di rito due nuove norme con le quali, in limite litis, il giudice può accogliere (art. 183 ter c.p.c.) oppure rigettare (art. 183 quater c.p.c.) la domanda fatta valere in giudizio dall’attore.
Esattamente, il diritto alla difesa può subire una contrazione che consente al giudice di non portare al termine il processo accogliendo immediatamente la domanda quando “i fatti costitutivi sono provati e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate” (art. 183 ter c.p.c.), e parimenti il diritto di azione può subire egualmente una contrazione che consente al giudice, all’esito dell’udienza ex art. 183 c.p.c., di rigettare la domanda “quando questa è manifestamente infondata” (art. 183 quater c.p.c.).
Entrambe queste disposizioni avvertono: a) che le ordinane sono reclamabili ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c.; b) che in assenza di reclamo, oppure nel caso di rigetto del reclamo, le ordinanze definiscono il giudizio; c) e che infine le stesse non acquistano efficacia di giudicato ex art. 2909 c.c., ne’ la loro autorità può essere invocata in altri processi.
4.1. Queste disposizioni prestano il fianco, a mio parere, alle seguenti osservazioni:
a) in primo luogo, se queste nuove norme consentono una abbreviazione dei tempi del singolo processo ove vengono pronunciate, non consentono tuttavia una riduzione delle attività processuali in generale, in quanto l’assenza degli effetti di giudicato di queste ordinanze consentirà alla parte soccombente di ripresentare la domanda, e quindi di ripetere per la seconda volta, e in contrasto con un principio di economia processuale, il medesimo processo; inoltre, in caso di reclamo, si impegna un collegio non per stabilire se la domanda o la difesa sono fondate o infondate nel merito, bensì se le stesse sono o non sono manifestamente infondate, per poi far svolgere le attività di merito, e se del caso, ad un altro giudice, di nuovo con un raddoppio delle attività processuali necessarie alla definizione del giudizio.
b) In secondo luogo queste nuove disposizioni, per come sono congegnate, istituiscono una sorta di nuova ammissibilità della domanda e della difesa, che è quella della loro non manifesta infondatezza, cosicché, presentata al giudice una domanda oppure una difesa, il giudice non deve stabilire se queste sono o non sono fondate, ma deve preliminarmente valutare che queste non siano, appunto, manifestamente infondate, e solo se non hanno questa caratteristica esse saranno poi ammesse al giudizio di merito.
L’idea, così, dell’inammissibilità della domanda per manifesta infondatezza, che al momento esiste solo per il ricorso per cassazione ex art. 375 n. 5 c.p.c., può suscitare a mio parere dubbi se estesa ad un giudizio di merito, soprattutto quando riferita al diritto di difesa.
4.2. Ed infatti, deve rilevarsi che la manifesta infondatezza è concetto giuridico vago, e quindi le norme, nella sostanza, rimettono alla discrezionalità del giudice il proseguimento o meno del processo; e quale rovescio della medaglia gli artt. 183 ter e quater c.p.c. costituiscono per gli avvocati, e quindi per le parti, disposizioni particolarmente pericolose, in quanto consentono, senza regole precise e/o predeterminate, la chiusura del processo.
Dunque gli avvocati stiano bene attenti nella composizione degli atti introduttivi del giudizio, poiché imminente incombe su di loro sempre il rischio che tutto possa definirsi senza una reale cognizione piena dell’oggetto del contendere.
Peraltro, a mio sommesso parere, v’è da chiedersi se tutto questo sia conforme all’art. 24 Cost.
E la domanda è semplice: è costituzionalmente legittimo che il giudice, sulla base di una valutazione elastica e discrezionale, possa impedire il pieno esercizio dell’azione o della difesa chiudendo in via breve il processo?[3]
5. L’inammissibilità dell’appello
Se l’art. 121 c.p.c. statuisce che “Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico” senza aggiungere altro, e quindi senza prevedere quali siano le conseguenze di un atto processuale privo di chiarezza e sinteticità, qualcosa di più nebuloso si trova invece nel nuovo art. 342 c.p.c. in base al quale “L’appello deve essere motivato e per ciascuno dei motivi deve indicare, a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico”, ecc…….
Per questa ultima norma, infatti, sembra che la chiarezza e la sinteticità possano costituire condizioni di ammissibilità dell’impugnazione, cosicché si pone un problema di interpretazione della norma.
La cosa non è anodina poiché certo, se a qualcuno venisse in mente che le Corti di Appello, peraltro nel rispetto dell’obiettivo della riduzione dei tempi del contenzioso, possono dichiarare inammissibili tutte le impugnazioni che, prima facie, appaiono di non facile lettura, oppure non ben centrate sulle questioni rilevanti, o ancora inutilmente sovrabbondanti nelle esposizioni dei fatti o nello sviluppo delle argomentazioni giuridiche, va da sé che la classe forense, e con essa tutti i cittadini, avrebbero di che preoccuparsi.
In verità, la norma subordina l’inammissibilità dell’impugnazione all’assenza dei requisiti dei nn. 1, 2 e 3 del medesimo art. 342 c.p.c., ovvero l’appello è inammissibile, quando lo stesso non indichi il capo della decisione di primo grado che venga impugnato (n. 1), le censure proposte alla ricostruzione dei fatti (n. 2), o le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza (n. 3), il tutto secondo schemi non molto diversi da quelli già rodati con il vecchio art. 342 c.p.c.
Io, sinceramente, dubito che le Corti di Appello possano dichiarare inammissibile una impugnazione solo per carenze formali, se non addirittura per stile degli atti; e allora, forse, non è inutile precisare che:
a) l’inammissibilità dell’appello si ha quando l’atto non presenta i requisiti di cui ai punti 1, 2 e 3 dell’art. 342 c.p.c., non quando l’esposizione di tali punti è carente sotto il profilo della chiarezza, oppure della specificità, o ancora della sinteticità;
b) per contro, se l’atto contiene i requisiti di cui ai nn. 1, 2 e 3 dell’art. 324 c.p.c. ma la loro esposizione non è chiara o sintetica, il giudice dell’appello può regolare il fenomeno sotto il profilo delle spese, così come recita l’art. 46 disp. att. c.p.c., ma non già dichiarare inammissibile l’impugnazione, pena altrimenti la violazione dell’art. 342 c.p.c., nonché, probabilmente, dello stesso art. 24 Cost.
5.1. Il problema, se del caso, è che corre un filo sottilissimo tra un atto di impugnazione che manca dei requisiti di cui ai nn. 1, 2 e 3 dell’art. 324 c.p.c. e un atto di impugnazione che presenta tale esposizione in modo non chiaro oppure non sintetico ne’ specifico; e allora le Corti di Appello potrebbero essere tentate non già di affermare che la chiarezza e la sinteticità dell’atto di appello è condizione di ammissibilità dell’impugnazione, bensì che l’assenza di chiarezza e/o di specificità può comportare la carenza dei medesimi nn. 1, 2 e 3 dell’art. 324 c.p.c., e conseguentemente, e indirettamente, l’atto di appello non chiaro, sintetico o specifico può parimenti essere un atto che non consente la decisione di merito in ordine all’impugnazione.
Quid iuris?
È possibile una simile lettura della norma?
A mio sommesso parere le Corti di Appello non possono dare una esegesi della disposizione di questo genere, poiché l’inammissibilità di una impugnazione deve discendere da una condizione specifica, e non da presupposti incerti e rimessi alla discrezionalità del giudice.
È la legge che, per prima, deve indicare in modo chiaro e specifico quali siano le ragioni di una possibile inammissibilità dell’impugnazione; e tra queste non possono esservi, nemmeno in via mediata e indiretta, quelle della chiarezza e/o sinteticità dell’atto di impugnazione.
Tra il serio e faceto si potrebbe allora concludere così: che la chiarezza, la sinteticità e la specificità dell’atto non possono costituire condizioni di inammissibilità dell’impugnazione, poiché, a loro volta, non sono condizioni chiare e specifiche.
6. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione
Con il nuovo art. 363 bis c.p.c. il giudice del merito può rimettere in ogni tempo alla Corte di cassazione la risoluzione di un dubbio giuridico, se la questione è nuova, di particolare importanza e suscettibile di porsi in numerose future controversie.
In questo caso il processo è sospeso fino alla decisione della Corte di cassazione, e successivamente il giudice del merito, al pari di un giudice del rinvio, deve attenersi al principio enunciato dalla cassazione, che resta vincolante “nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione”.
Il parere anticipato della Corte di cassazione, evidentemente, è vincolante solo per il giudice che lo ha richiesto; tuttavia la riforma rischia egualmente, a mio sommesso parere, di andar oltre il principio di cui all’art. 101, 2° comma Cost. (e per il quale, come è noto, il giudice – persona fisica – è soggetto soltanto alla legge) almeno sotto due profili:
a) perché il parere dato dalla cassazione può vincolare anche un giudice – persona fisica - diverso da quello che abbia richiesto il parere; ad esempio ciò può avvenire se muta il giudice della causa, o se la stessa passa da una fase ad un'altra fase (ad esempio con un reclamo al collegio) oppure da un grado ad un altro grado (ad esempio a seguito di appello), in quanto, appunto, il parere è vincolate non per il giudice che abbia richiesto il parere ma nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione.
b) E perché, par evidente, nello spirito della riforma, una volta che la cassazione si sia pronunciata sulla questione di diritto a lei rimessa in via anticipata, tutti i giudici, e non solo il remittente, sono tenuti, in un certo modo e in una certa misura, ad adeguarsi a quel dettato, visto che la riforma si giustifica con una esigenza di uniformità delle decisioni, anche nel rispetto dell’art. 3 Cost., e non vi sarebbe alcuna uniformità, e quindi alcuna giustificazione della riforma, se non si pretendesse che tutti i giudici, e non soltanto il remittente, si adeguino poi al parere preventivo manifestato dalla cassazione.
In questo modo l’istituto, più che volto a rispettare un principio di nomofilachia, a me sembra invece finalizzato ad introdurre surrettiziamente un principio di vincolatività dei precedenti; e mi sia consentito sottolineare che non è la stessa cosa, poiché una è la nomofilachia, altra la vincolatività dei precedenti; e nella misura in cui si pretende (di fatto) che tutti i giudici e non solo i rimettenti, si adeguino nei futuri giudizi al parere della cassazione, lì si inizia a cementare un istituto che fino ad ieri si riteneva invece inesistente nel nostro ordinamento.
6.1. Qualcuno ha ritenuto però che queste lamentele siano infondate, e per dimostrare ciò ha richiamato l’art. 393 c.p.c. il quale, nel caso di estinzione o di mancata attivazione del processo di rinvio dispone comunque che: “la sentenza della Corte di Cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda”.
Si è detto che se un giudice diverso da quello del rinvio, ovvero il giudice della riproposizione della domanda, è egualmente tenuto a rispettare l’effetto vincolante della decisione della cassazione, qual è il problema a rendere vincolante il parere della cassazione a tutti i giudici e non solo al giudice che abbia rimesso in via pregiudiziale la questione?
E parimenti, se nessuno ha mai avuto niente da eccepire sulla disciplina dell’art. 393 c.p.c., perché viceversa qualcuno si lamenta della disciplina del nuovo art. 363 bis c.p.c.?
Ora, io credo che porre sullo stesso piano l’art. 393 con l’art. 363 bis c.p.c. sia errato.
Nel caso dell’art. 393 c.p.c. noi siamo di fronte ad un processo già fatto e deciso, mentre nel caso dell’art. 363 bis c.p.c. noi siamo viceversa di fronte ad un processo da fare e da decidere (e/o comunque da completare nel suo iter); in un caso si ha una vera e propria pronuncia della Corte di Cassazione a seguito di impugnazione, che, ove non fosse vincolante in assenza di rinvio o nel caso di estinzione del giudizio di rinvio, consentirebbe alle parti di raggirare la decisione stessa, permettendo l’omissione o l’abbandono del giudizio di rinvio; nel caso dell’art. 363 bis c.p.c. questa esigenza è assente, poiché siamo di fronte solo all’affermazione di un principio generale fuori da ogni meccanismo di impugnazione.
L’art. 393 c.p.c. risponde per questo al divieto del ne bis in idem, in quanto in sua assenza sarebbe consentito fare un nuovo processo in ordine ad un giudizio già svolto e deciso, tanto che la sua ratio sta infatti nel fatto che sui capi e punti non cassati si ha cosa giudicata[4]; l‘art. 363 bis c.p.c. non risponde a questa esigenza, poiché il rispetto del parere della cassazione non evita il ne bis in idem, in quanto la causa è ancora da definire[5].
Se poi si aggiunge, come abbiamo rilevato, che il nuovo artt. 363 bis c.p.c. mira altresì a superare il concetto di nomofilachia e introdurre nel nostro ordinamento un principio di vincolatività dei precedenti, ovvero mira ad obiettivi del tutto assenti con riferimento all’altra più vecchia norma di cui all’art. 393 c.p.c., va da sé che l’una non possa essere paragonata all’altra, e che quindi la novità dell’art. 363 bis c.p.c. può essere davvero fonte di legittime perplessità.
7. Dei procedimenti in materia di famiglia
E passiamo al processo di famiglia.
Brevemente, esso presenta una novità ordinamentale ed altre relative al procedimento.
7.1. Per quanto riguarda gli aspetti ordinamentali, è condivisibile l’idea di sopprimere i tribunali per i minorenni e prevedere, con il nuovo art. 49 r.d. 12/1941, un tribunale unico per le persone, per i minorenni e per le famiglie, “….il quale si articola in una sezione distrettuale e in una o più sezioni distaccate circondariali”.
Il problema, però, è che nei moltissimi piccoli tribunali della nostra penisola, è difficile avere un numero sufficiente di magistrati da assegnare alle sezioni distaccate circondariali della famiglia; dal che l’idea del tribunale unico, per quanto pregevole, appare lontana dalla possibilità di essere realizzata in concreto, e si vedrà quali accorgimenti pratici il legislatore intenderà adottare per sormontare un problema di carenza di mezzi e persone che, al momento, sembra davvero difficile.
7.2. Per quanto invece riguardi il procedimento, il decreto legislativo continua ad affidare al giudice della famiglia poteri d’ufficio che nel processo civile non sussistono, e prevede infatti, con l’art. 473 bis 2 c.p.c., che il giudice non sia tenuto ne’ al rispetto della domanda, ne’ a quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ne’ infine a quello dispositivo in ordine alle prove.
Si giustifica questa eccezione in considerazione del fatto che le deroghe vanno a tutela dei minori, e quindi concernono diritti indisponibili.
Ma, sia consentito, a parte la circostanza che il secondo comma della medesima disposizione, regolando gli aspetti economici, non precisa che il potere d’ufficio del giudice possa disporsi solo a vantaggio dei minori e non per tutte le altre parti del processo[6], ma, a parte ciò, l’indisponibilità dei diritti non comporta di regola il venir meno dei principi di cui agli artt. 99, 112 e 115 c.p.c., e tutto il nostro sistema processuale è infatti intessuto di diritti indisponibili che tuttavia mantengono i classici limiti del rispetto della domanda, di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, e dispositivo.
Si osserva che nella misura in cui al minore può essere nominato il curatore speciale, e nella misura in cui vigila sui minori anche l’ufficio del pubblico ministro, che ha tutti i poteri di cui all’art. 473 bis 3 c.p.c., non si vedono poi le ragioni per le quali, oltre ciò, il giudice possa operare fuori dalle regole della giurisdizione.
Non può quindi sostenersi che la deroga al principio della domanda sia giustificata dalla indisponibilità dei diritti o dall’interesse superiore del minore, poiché questi interessi sono assicurati dalla presenza del PM e del curatore speciale, mentre il giudice deve rimanere terzo e imparziale anche quando giudica sui minori, e non può trasformarsi in un funzionario, come diceva Piero Calamandrei, che “si mette in viaggio alla scoperta dei torti da raddrizzare”[7], poiché ciò comprometterebbe la terzietà della sua funzione.
Dal che io credo che, proprio in ossequio alla terzietà e indipendenza del giudice, norme quali l’art. 473 bis 2 c.p.c. andrebbero rimeditate.
8. Le sanzioni
Infine le sanzioni.
Non meritano commento.
Costituiscono semplicemente un altro modo di intendere i rapporti tra avvocati e giudici, tra cittadini e Stato, un’onta, a mio sommesso parere, alle nostre tradizioni processuali.
È qui sufficiente solo ricordare quelle nuove che questa ultima riforma ha ritenuto di aggiungere e/o rivedere, ricordando (tristemente) che addirittura con DM del Ministero della Giustizia 20 ottobre 2022, pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 28 ottobre 2022 n. 253, sono oggi date le “Disposizioni relative alla tenuta, in forma automatizzata, di un registro dei provvedimento di applicazione delle sanzioni pecuniarie civili”.
Art. 96, 4° comma c.p.c.: “Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad € 500,00 e non superiore ad € 5.000,00”
Art. 118, 2° comma c.p.c. e 210, 4° comma c.p.c.: “Se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giusto motivo, il giudice la condanna ad una pena pecuniaria da € 500,00 ad € 3.000,00……se rifiuta il terzo, il giudice lo condanna ad una pena pecuniaria da € 250,00 ad € 1.500,00”.
Art. 283, 3° comma c.p.c.: “Se l’istanza prevista dal primo e dal secondo comma che precede è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta al pagamento in favore della cassa delle ammende di una pena pecuniaria non inferiore ad € 250,00 e non superiore ad € 10.000,00”.
Art. 473 bis 18 c.p.c.: “Il comportamento della parte che in ordine alle proprie condizioni economiche rende informazioni o effettua produzioni documentali inesatte o incomplete è valutabile ai sensi del secondo comma dell’articolo 116, nonché ai sensi dell’articolo 92 e dell’articolo 96” (dunque può essere sanzionato con la pena pecuniaria in favore delle casse delle ammende di cui all’art. 96, 4° comma c.p.c.).
Art. 12 bis, 2° e 3° comma d. lgs. 4 marzo 2010 n. 28: “Quando la mediazione costituisce condizione di procedibilità, il giudice condanna la parte costituita che non ha partecipato al primo incontro senza giustificato motivo al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al doppio del contributo unificato dovuto per il giudizio. Nei casi di cui al comma 2, con il provvedimento che definisce il giudizio, il giudice, se richiesto, può altresì condannare la parte soccombente che non ha partecipato alla mediazione al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata in misura non superiore nel massimo alle spese del giudizio maturate dopo la conclusione del procedimento di mediazione”.
[1] Si tratta della composizione di due relazioni tenute la prima in Firenze, il 4 novembre 2022, organizzata dall’Unione nazionale delle camere civili e dalla Fondazione dell’Ordine degli avvocati di Firenze, e la seconda nel Convento di Camaldoli (AR), l’11 novembre 2022, in un incontro di studio organizzato dal Centro fiorentino di studi giuridici.
[2] L’art. 1, 17° comma, lettera d) della legge delega 26 novembre 2021 n. 206, prevedeva infatti semplicemente che: “….i provvedimenti del giudice e gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità, stabilendo che sia assicurata la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della Giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense”.
[3] Questo dubbio, tuttavia, non esclude che il legislatore possa egualmente utilizzare uno o più provvedimenti interinali al fine di evitare le attività processuali defatigatorie.
È sufficiente che gli artt. 183 ter e quater c.p.c., invece di far riferimento ad una condizione vaga qual è quella della manifesta infondatezza, facciano riferimento a tecniche più rigorose riconducibili ai criteri dell’onere della prova.
Sostanzialmente, la riscrittura degli artt. 183 ter e quater c.p.c. si sostanzierebbe in ciò: se in prima udienza, o anche successivamente nel corso del processo, sussiste la prova dei fatti costitutivi e al tempo stesso non sussiste prova dei fatti estintivi, impeditivi e modificativi fatti valere da chi si difende, e quindi in prima udienza l’attore ha provveduto all’adempimento degli oneri che la legge fa gravare su di lui ex art. 2697 c.c., e lo stesso non può dirsi per il convenuto, il giudice accoglie in via provvisoria la domanda e condanna il convenuto a quanto dovuto; al contrario, se in prima udienza, o anche successivamente nel corso del processo, manca la prova dei fatti costitutivi, oppure, anche in presenza della prova dei fatti costitutivi, v’è già la prova di almeno un fatto estintivo, impeditivo o modificativo, allora non può dirsi che l’attore abbia già l’evidenza del suo diritto, e dunque in quei casi il giudice respinge provvisoriamente la domanda; il tutto, con le medesime regole e le stesse logiche tecnico/giuridiche con le quali si pronuncia sentenza al termine della lite, e ciò anche con riferimento ad ogni altra valutazione de iure.
Se si fa questo, semplicemente si dà attuazione ad un principio secondo il quale, i tempi del processo vanno a danno della parte che ha bisogno della trattazione della causa.
Ed infatti, nel sistema attuale, la durata del processo è sempre addossata alla parte attrice, che per ottenere soddisfazione deve necessariamente attendere tutti i tempi dell’istruzione e della decisione; con questa riscrittura degli artt. 183 ter e quater c.p.c., i tempi del processo verrebbero al contrario ripartiti fra attore e convenuto in base a chi abbia bisogno della trattazione della causa; inoltre i provvedimenti anticipatori qui delineati non chiuderebbero il processo come oggi invece si prevede, poiché, tutto al contrario, il processo proseguirebbe dopo la loro pronuncia per l’accertamento a cognizione piena dei diritti e delle eccezioni, così evitando d’essere tacciati di incostituzionalità; e ciò nonostante, infine, questi provvedimenti in via breve non di meno svolgerebbero una funzione di contrasto agli abusi, poiché è evidente che dopo la loro pronuncia i processi proseguirebbero solo se seri e non defatigatori.
[4] Così espressamente Cass. 5 settembre 1997 n. 8592.
[5] Resistono così alla estinzione del giudizio di rinvio tutte quelle pronunce “già coperte da giudicato, in quanto non investite da appello o ricorso per cassazione, in base ai principi della formazione progressiva del giudicato” (v. Cass. 18 gennaio 1983 n. 465; Cass. 17 novembre 2000 n. 14892), mentre niente di ciò si dà con la disciplina del nuovo art. 363 bis c.p.c.
Ancora, ove non vi fosse l’art. 393 c.p.c. verrebbe meno, ai sensi dell’art. 2945, 3° comma c.c., il permanere dell’effetto interruttivo della prescrizione dovuto all’esercizio della domanda giudiziale (v. Cass. 27 gennaio 1993 n. 986), ed inoltre l’art. 393 c.p.c. serve altresì per coordinare l’ipotesi dell’estinzione del giudizio a quella dell’opposizione a decreto ingiuntivo di cui all’art. 653 c.p.c. (v. Cass. sez. un. 22 febbraio 2010 n. 4071), esigenze tutte di nuovo inesistenti a fronte dell’art. 363 bis c.p.c.
[6] L’art. 473 bis 2, 2° comma c.p.c.: “Con riferimento alle domande di contributo economico, il giudice può d’ufficio ordinare l’integrazione della documentazione depositata dalle parti e disporre ordini di esibizione e indagine sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, anche nei confronti di terzi, valendosi se del caso della polizia tributaria”.
[7] CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 113.
Abuso d’ufficio e “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge”. In margine a Cassazione Sez. VI n. 37341/2022, osservazioni sul problema della integrazione della norma penale con l’ordinamento amministrativo
di Alessandro Cioffi
Sommario: 1. Introduzione - 2. Posizione del problema - 3. I fatti - 4. Prime interpretazioni della giurisprudenza ed emersione del problema - 5. Le “specifiche regole di condotta”: significato e principio di legalità in senso sostanziale.
1. Introduzione
La sentenza in esame è di un certo interesse, perché riconosce che vi sia abuso d’ufficio nel rilascio di un permesso di costruire in contrasto con il piano regolatore comunale e, in continuazione (art. 81 c.p.), nell’atto di rifiuto di accesso ai documenti, adottato al di fuori delle ipotesi in cui si potrebbe escludere l’accesso ai sensi dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990.
In questo modo, la sentenza contribuisce a individuare le “specifiche regole di condotta” che oggi figurano nel nuovo testo dell’art. 323 del c.p., riformato dall’art. 23 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120.
L’esame della sentenza offre dunque l’occasione di riflettere sulla nuova versione, nella parte che più interessa il diritto amministrativo.
2. Posizione del problema
Oggi il testo dell’art. 323 è il seguente “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni” [i].
Come si vede, al centro della nuova norma figura l’espressione per cui l’abuso è in violazione di “specifiche regole di condotta”. Questa formula costituisce la parte essenziale dell’abuso e pertanto è fondamentale per intenderne la fattispecie. Pone all’interprete il problema di identificare con esattezza la norma violata. In questa prospettiva, la norma è chiara nell’escludere i “margini di discrezionalità” e dunque la giurisprudenza di esordio esclude il vizio di eccesso di potere; altresì, poiché l’art. 323 c.p. menziona regole “espressamente previste dalla legge”, si tende ad escludere tutte le norme secondarie e, talora, i principi[ii].
L’interpretazione prevalente, dunque, si va ispirando a una lettura restrittiva.
In questa prospettiva, che significa “specifica regola di condotta” ?
E quale norma dell’ordinamento amministrativo può venire a costituirla come “specifica”, integrandosi nella norma penale, con un certo valore e significato, restituendo all’abuso d’ufficio un senso compatibile con i principi dell’ordinamento penale e di quello amministrativo?
Sono i problemi dell’integrazione. Affiorano dal nuovo testo e sono ben esemplificati nei due casi particolari decisi dalla sentenza in commento.
3. I fatti
Un funzionario comunale rilasciava un permesso di costruire in sanatoria e poi rifiutava la domanda di accesso ad un soggetto terzo, controinteressato, poi “denunciante” [iii].
In particolare, quanto al primo fatto, il permesso veniva rilasciato in violazione dell’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale, in assenza di un piano di recupero e in contraddizione con un parere comunale interlocutorio, che consigliava di approfondire la questione.
Il permesso di costruire riguardava la costruzione di un portico, che ricade in una zona di “antica formazione”, nella quale, per l’art. 13 delle norme tecniche di attuazione del p.r.g., l’edificazione è sottoposta alla adozione di un piano di recupero e ad un parere comunale. Nei fatti, il piano di recupero non è stato adottato e il parere manca (al suo posto c’è solo una sorta di parere sospensivo, che consiglia di approfondire la questione). Ne consegue, per la sentenza, che il permesso è adottato in “assenza” del piano e in assenza del parere, e, dunque, che è in “contrasto con le norme di piano”. Precisamente, risulta in contrasto con l’art. 13 delle norme tecniche e, di conseguenza, con l’art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001. Difatti, secondo la sentenza, la disposizione del piano regolatore “integra la disciplina di legge relativa alla concessione del permesso di costruire”. Si ricorda che nel testo unico dell’edilizia l’art. 12 è norma legislativa e prevede che “Il permesso di costruire è rilasciato in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente.”
Si tratterebbe dunque di un caso di eterointegrazione, sul quale si tornerà, perché potrebbe rappresentare un problema, con più soluzione aperte, rispetto ai principi di legalità e di interpretazione della legge penale e della norma extrapenale.
Quanto al secondo fatto, il rifiuto di accesso era motivato per esigenze di privacy, ma in appello si accertava che “non sussisteva alcuna esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificanti”. Dunque, secondo la sentenza, non si applica l’ipotesi prevista dall’art. 24, secondo comma, lett. d), della legge n. 241 del 1990, che permette di escludere il diritto di accesso quando i documenti riguardino la “vita privata o la riservatezza”. Di conseguenza, l’atto di rifiuto che non risponde ai casi dell’art. 24 è “integralmente privo di una base legale”. La regola specifica che poi la sentenza ricava è che l’accesso era consentito, il che deriva dal principio per cui al di fuori del limite tutto è visibile, ai sensi dell’art. 22. Anche su questo aspetto si tornerà.
4. Prime interpretazioni della giurisprudenza ed emersione del problema
I problemi specifici che sorgono dal caso di specie sono in fondo comuni alle questioni decise dalle prime sentenze rese sul nuovo testo e manifestano tutta la difficoltà di identificare le “specifiche regole” utili a integrare la fattispecie dell’art. 323 c.p. Per esempio, la prima decisione nota è Cassazione sez. VI 8 gennaio 2021 n. 442, che sembra importante per i principi e i limiti che imprime all’abuso. Anzitutto, il fatto è costituito da un atto di un commissario straordinario che riorganizza una Ausl, riducendo una struttura da complessa a semplice, ma con l’effetto di demansionare il direttore della struttura; nella specie, la Cassazione stabilisce che non vi è responsabilità, perché l’atto in questione è discrezionale e, soprattutto, non viola una regola “cogente” e “puntuale”; più ampiamente, in obiter dictum, la Sezione stabilisce che la nuova fattispecie è più restrittiva di quella precedente, sottraendo al giudice penale la “inosservanza dei principi generali” e di “ogni fonte normativa di tipo regolamentare”, escludendo persino “il classico schema della eterointegrazione, cioé della violazione mediata di norme di legge interposte”. Questa prima sentenza della Cassazione fa dunque trasparire con immediatezza anche i due problemi che sono specifici alla decisione presa con la sentenza in commento.
Può la “specifica regola” essere costituita da un principio ?
Può la specifica regola di condotta essere costituita dalla eterointegrazione di una norma di legge che viene interposta ?
Per esempio, quanto ai principi e sempre osservando le prime decisioni, Cass, Sez. VI 15 aprile 2021 n. 14214 esclude la violazione dell’art. 97 Cost., nel caso di un concorso bandito dall’Università per il conferimento di un incarico, pur davanti ad uno “sbilanciamento” a favore di un candidato (cd. “favoritismo privato”), emergente da vari indizi nella redazione dei criteri e nella valutazione delle domande; la sentenza riconosce che ad essere violato potrebbe essere, in astratto, il principio di imparzialità, ma che esso non rientra nell’art. 323 c.p., perché nell’oggetto dell’art. 97 Cost. non sono contemplate regole di condotta.
Si pone dunque un problema di esatta identificazione della norma violata. Su questo punto, sembra pertinente Cass. Sez. VI, 1 marzo 2021 n. 8057. E’ il caso di un funzionario che affida un appalto senza gara, dichiarando un importo sottosoglia, che però veniva appositamente alterato, omettendo il calcolo di alcune componenti; in questo caso la Cassazione identifica la noma violata nell’art. 125 del codice degli appalti pubblici e quindi ne trae la violazione di una “specifica regola di condotta”.
Il problema emerso consente alcune osservazioni teoriche.
5. Le “specifiche regole di condotta”: significato e principio di legalità in senso sostanziale
Come si vede, la giurisprudenza di esordio rivela tutte le difficoltà e le incongruenze della nuova norma. Ne coglie però lo spirito: quello di intendere l’abuso in un senso restrittivo. Quello della restrizione è un criterio utile per identificare la “specifica regola di condotta”, il più grande interrogativo dell’abuso odierno.
In questa prospettiva, il caso deciso dalla sentenza rappresenta un buon esempio. Il caso, come visto, pone due problemi specifici e distinti: il problema della eterointegrazione della specifica regola di condotta e quello del rapporto tra regola e principio. In comune ai due termini- regola specifica e principio- c’è il problema generale della integrazione della norma penale con un elemento extrapenale, che deriva dall’ordinamento amministrativo. Sullo sfondo, dunque, c’è un problema di interpretazione e di legalità, in senso sostanziale.
Si svolgono qui alcune brevi osservazioni, al solo scopo di mostrare la dimensione dei problemi e di far intravedere alcune soluzioni.
Aprendo il capitolo della integrazione in materia penale, bisogna separare il caso dell’art. 323 c.p. dalle altre specie di integrazione, come la norma penale in bianco o il caso dell’illecito penale che stabilisce il rinvio esplicito a disposizioni extrapenali, come regolamenti, atti amministrativi, leggi regionali, e, nel contenuto, richiama standard, criteri, soglie, parametri, ovvero misure integrative di un precetto già determinato dalla legge penale, nella misura ristretta riconosciuta dalla logica della prevalente giurisprudenza della Corte costituzionale, per cui l’integrazione è ammissibile solo se la norma incriminatrice rinvia ad una disposizione precisamente denominata e soprattutto solo se la norma penale determina il nucleo essenziale della condotta, mentre la disposizione diversa può solo determinare un particolare della condotta[iv]. In ogni caso, si tratta di un rinvio a un termine eterogeneo e quindi spesso presuppone un concorso di fonti, molto visibile per esempio nelle sanzioni amministrative, in cui però il fondamento costituzionale cambia, spostandosi dall’art. 25 Cost. all’art. 23 Cost., dove la riserva di legge è relativa.
Rispetto a queste figure, la specie giusta in cui inserire il caso delle “specifiche regole di condotta” del nuovo art. 323 è la categoria dell’elemento normativo extrapenale. E’ contemplato dalla stessa norma penale. La norma lo assume in sé, quale sua parte integrante, a costituire direttamente il precetto penale; è il caso dei fatti di reato che sono costituiti dalla mancanza di un provvedimento amministrativo o dalla violazione di un provvedimento amministrativo o infine dalla violazione di una norma amministrativa; per esempio i reati ambientali o la precedente versione dell’abuso, che prevedeva la “violazione di norme di legge o di regolamento”. Questo caso, dunque, è diverso dagli altri: mentre quelli visti prima designano un rinvio ad altro ordinamento e spesso provocano un concorso di fonti, questo caso, concettualmente, presuppone che la norma penale assuma in sé l’elemento extrapenale[v]. Questo elemento diventa una parte del precetto. Rappresenta una forma di integrazione o, talvolta, si vedrà, di incorporazione.
Il caso dell’art. 323 c.p. può dunque appartenere a questa categoria, con una precisazione: qui l’elemento che viene incorporato, l’elemento normativo extrapenale, è la specifica regola di condotta ed è di rango legislativo, perché l’art. 323 vuole “specifiche regole”, “espressamente previste dalla legge”. La norma dell’art. 323 c.p. sembra dunque conforme all’art. 25 Cost. e alla riserva assoluta di legge.
Può dirsi lo stesso dal punto di vista della determinatezza e del principio di legalità in senso sostanziale?
Qui l’interprete è sfiorato dal dubbio che l’art. 323 c.p. non abbia quella “autonomia precettiva” richiesta dalla Corte costituzionale per soddisfare il principio di legalità sostanziale (C. cost. n. 199/1993). Certo è che la nuova formulazione dell’art. 323 ha un difetto, perché allude a “specifiche regole di condotta” e le nomina senza indicarle: l’art. 323 non è autosufficiente. E infatti ha bisogno di una integrazione extrapenale, che si trae dalle norme dell’ordinamento amministrativo. Il che significa, sul piano dell’interpretazione, che la norma penale va integrata con la norma amministrativa, nel senso che “l’una non può vivere senza l’altra” (C. cost. n. 199/1993). Dunque l’art. 323 c.p. non è una norma autonoma e suppone una certa integrazione. Per questo lascia aperto un interrogativo di fondo: quale è la “regola specifica”?
E ancora: il suo essere specifica che senso o valore può acquistare nel momento della integrazione tra norme?
Le norma penale, in sé considerata, non dà una risposta a questo problema di integrazione. Pertanto, si può leggere questa integrazione non come relazione tra norme ma come relazione tra due ordinamenti, tra ordinamento penale e ordinamento amministrativo, considerando che il bene giuridico protetto è comune ed è l’art. 97 Cost.; dunque non resta che vedere come quella relazione si possa atteggiare e questo, secondo la teoria generale, può avvenire solo in due modi: come dipendenza o come indipendenza dell’ordinamento penale, ovvero, si vedrà, come integrazione o come incorporazione dell’art. 97 Cost.
Prima ipotesi, l’integrazione: se si ritiene che l’ordinamento penale sia dipendente dall’ordinamento amministrativo, è possibile tutelare l’art. 97 Cost. integrando l’ordinamento amministrativo nell’ordinamento penale e allora il giudice penale – per un principio di collateralità con l’ordinamento di riferimento- può ragionare come il giudice amministrativo e quindi può trasfondere i principi in regola specifica o trasfondere una regola amministrativa in una norma di legge, ovvero, nel caso deciso, può trasfondere in regola il principio di trasparenza oppure può trasfondere l’art. 13 del piano regolatore nell’art. 12 del Testo unico dell’edilizia, compiendo una eterointegrazione. Ovvero: la regola extrapenale vive nell’abuso come regola amministrativa, perché in ogni caso è un riflesso dell’art. 97 Cost.
Seconda ipotesi, l’incorporazione: se la relazione di base si atteggia a indipendenza dell’ordinamento penale, la norma penale protegge l’art. 97 Cost. a modo suo e quindi incorpora la norma amministrativa e la trasfigura, la rende omogenea, come se fosse una norma penale e, così, la assoggetta alla regola della stretta interpretazione e la determina come “specifica regola” dell’abuso. Il che significa che qui l’interpretazione deve generare sempre una regola che sia “specifica” nel senso che deve essere ben visibile, già in anticipo. Il che porta a determinarne il senso con un criterio preciso: quello di scoraggiare una lettura dell’art. 323 c.p. che faccia uso di una ulteriore eterointegrazione, come quella di una norma legislativa edilizia con una disposizione di p.r.g che è secondaria; e lo stesso può valere per il principio di trasparenza che diventa regola specifica dell’accesso. Una interpretazione del genere, in eterointegrazione ed in estensione, potrebbe risolversi in un risultato contrario al principio di legalità sostanziale: quello di non fare comprendere in anticipo quale sia il fatto punito dalla legge penale; ovvero, nell’art. 323, quale sia la “specifica regola” espressamente prevista dalla legge. Per questo motivo, sembra preferibile un’interpretazione che dia un risultato netto. Così, nella incorporazione penale, nella scelta e nella interpretazione della norma amministrativa e del suo ordinamento, par meglio identificare ed elaborare una regola che sia adeguata alla legge penale, una regola che dia il precetto della condotta, che si risolva in un preciso dovere giuridico, senza alternative; e non a caso l’art. 323 c.p. esclude la discrezionalità. Sarebbe solo questa la scelta interpretativa che l’incorporazione dell’art. 323 c.p. permette di realizzare. Ovvero, in altro piano, il margine di creatività insito in questa interpretazione, alla luce del principio di legalità sostanziale.
Quest’ultima tesi sembra a chi scrive maggiormente aderente al principio di legalità sostanziale, per un motivo molto semplice, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale. Nel principio, infatti, vi è tutta l’idea della determinatezza, un ’idea di precisione semantica e di rispondenza alla realtà, anche alla realtà normativa extra penale.
La lunga storia dell’abuso nelle sue precedenti versioni invita a questa prudenza ermeneutica.
[i] Sulla nuova fattispecie, limitatamente ai profili di diritto amministrativo, a livello monografico, v. S. PERONGINI, L’abuso d’ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione. Con una proposta di integrazione della riforma introdotta dalla legge n. 120/2020”, Torino, 2020, e, nella dottrina più recente, per una impostazione teorica del problema della responsabilità penale, v. G. BOTTINO, Il conflitto tra il legislatore e la giurisprudenza come causa della “burocrazia difensiva”, la responsabilità penale per “abuso d’ufficio” come paradigma, Il lavoro nelle pubbliche Amministrazioni, n. 2/2022, pag. 242 ss. In questa Rivista: v. R. GRECO, Abuso d’ufficio: per un approccio eclettico, Giustiziainsieme, 22 luglio 2020. A livello di studi e seminari, v. M.A. SANDULLI (a cura di), Abuso d’ufficio e responsabilità amministrativa: il difficile equilibrio tra legalità ed efficienza, Webinar del 13 luglio 2020.
[ii] v. C. cost. sentenza 8/2022: “La norma censurata, infatti, richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare margini di discrezionalità, nega rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere, con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale - specie nel raffronto con la "norma vivente" come disegnata dalle interpretazioni giurisprudenziali -, operanti, come tali, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi).”; v. anche Cass. Sez. VI 8 gennaio 2021 n. 424, meglio analizzata nel par. 4.
[iii] “in violazione dell'articolo 13 delle Norme Tecniche di Attuazione al P.G.T. del Comune di Marone, rilasciava indebitamente (e con tempi insolitamente rapidi, domanda del 5 febbraio 2015), il permesso di costruire in sanatoria n. 4979 del 23 febbraio 2015 a (OMISSIS), nonostante il parere sospensivo emesso dalla commissione edilizia nella seduta del 5 febbraio 2015 in ragione di una piu' attenta valutazione delle opere edilizie oggetto delle difformita'; - in violazione della L. n. 241 del 1990, articolo 22 perche' negava accesso alle pratiche edilizie delle quali il denunciante (OMISSIS) aveva richiesto copia, in mancanza di motivi ostativi, atteso che non sussisteva alcuna esigenza di proteggere dati sensibili o interessi particolarmente qualificanti, come confermato dalla sentenza del Tar Lombardia Brescia sentenza 009904/2016, rifiutava indebitamente un atto del suo ufficio, che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo, cagionando un ingiusto profitto a (OMISSIS), nel mantenere le opere edili abusive, e un danno ingiusto a (OMISSIS), consistito nel ricevere un ingiustificato e illegittimo diniego di accesso alla documentazione di cui aveva diritto di accedere e prenderne copia.”
[iv] v. C. cost. Sent. n. 199/1993, C. cost. Sent. n. 282/1990, C. cost. Sent. n. 58/75 e, di recente, C. cost. Sent. n. 5/2021, C. cost. sentenza n. 134/2019.
[v] Cfr. A. CIOFFI, Eccesso di potere e violazione di legge nell’abuso d’ufficio. Profili di diritto amministrativo, Milano, 2001, 38 ss.
Scheda n. 1 - Sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato (art. 420 quater c.p.p. e ss.)
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’obiettivo della riforma è quello di prevedere che, quando non sono soddisfatte le condizioni per procedere in assenza dell'imputato, il giudice pronunci sentenza inappellabile di non doversi procedere, stabilendo, altresì, che, fino alla scadenza del doppio dei termini individuati nell'articolo 157 c.p., una volta rintracciata la persona ricercata, ne sia data tempestiva notizia all’autorità giudiziaria e che questa revochi la sentenza di non doversi procedere e fissi nuova udienza per la prosecuzione del procedimento.
SENTENZA DI NON DOVERSI PROCEDERE PER MANCATA CONOSCENZA DELLA PENDENZA DEL PROCESSO DA PARTE DELL’IMPUTATO (ART. 420-QUATER C.P.P.)
TESTO RIFORMATO |
Art. 420-quater c.p.p. - Sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. 1. In caso di regolarità delle notificazioni e fuori dei casi previsti dagli articoli 420-bis e 420-ter, se l’imputato non è presente, il giudice pronuncia sentenza inappellabile di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. 2. La sentenza contiene: a) l’intestazione “in nome del popolo italiano” e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata; b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo, nonché le generalità delle altre parti private; c) l’imputazione; d) l’indicazione dell’esito delle notifiche e delle ricerche effettuate; e) l’indicazione della data fino alla quale dovranno continuare le ricerche per rintracciare la persona nei cui confronti la sentenza è emessa; f) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati; g) la data e la sottoscrizione del giudice. 3. Con la sentenza il giudice dispone che, fino a quando per tutti i reati oggetto di imputazione non sia superato il termine previsto dall’articolo 159, ultimo comma, del codice penale, la persona nei cui confronti è stata emessa la sentenza sia ricercata dalla polizia giudiziaria e, nel caso in cui sia rintracciata, le sia personalmente notificata la sentenza. 4. La sentenza contiene altresì; a) l’avvertimento alla persona rintracciata che il processo a suo carico sarà riaperto davanti alla stessa autorità giudiziaria che ha pronunciato la sentenza; b) quando la persona non è destinataria di un provvedimento applicativo della misura cautelare degli arresti domiciliari o della custodia in carcere, l’avviso che l’udienza per la prosecuzione del processo è fissata: 1) il primo giorno non festivo del successivo mese di settembre, se è stato rintracciato nel primo semestre dell’anno; 2) il primo giorno non festivo del mese di febbraio dell’anno successivo, se è stato rintracciato nel secondo semestre dell’anno; c) l’indicazione del luogo in cui l’udienza si terrà; d) l’avviso che, qualora la persona rintracciata non compaia e non ricorra alcuno dei casi di cui all’articolo 420-ter, si procederà in sua assenza e la stessa sarà rappresentata in udienza dal difensore. 5. Alla sentenza si applicano le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 546. 6. Decorso il termine di cui al comma 3 senza che l’imputato sia stato rintracciato, la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo non può più essere revocata. 7. In deroga a quanto disposto dall’articolo 300, le misure cautelari degli arresti domiciliari e della custodia in carcere perdono efficacia solo quando la sentenza non è più revocabile ai sensi del comma 6. In deroga a quanto disposto dagli articoli 262, 317, 323, gli effetti dei provvedimenti che hanno disposto il sequestro probatorio, il sequestro conservativo e il sequestro preventivo permangono fino a quando la sentenza non è più revocabile ai sensi del comma 6. |
La nuova pronuncia di cui all’art. 420-quater definisce il procedimento, sicché il destinatario della medesima non è più imputato.
Con la pronuncia della sentenza si apre un periodo di ricerca del prosciolto, che è stato determinato nella misura del doppio dei termini stabiliti dall’art. 157 c.p. ai fini della prescrizione.
Decorso tale periodo, la sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo non può più essere revocata, ponendo fine alle ricerche. Per questo motivo, si prevede che la sentenza debba dare indicazione della data di prescrizione di ciascun reato.
Sul punto, è stato effettuato un connesso intervento sulle norme sostanziali in materia di prescrizione, per chiarire che per il tempo necessario alle ricerche -con il limite massimo del doppio dei termini previsti dall’art. 157 c.p.- la prescrizione resta sospesa.
Il destinatario della sentenza di non doversi procedere deve essere avvisato che il provvedimento sarà revocato e il processo sarà riaperto. Si è, quindi, previsto che la sentenza di non doversi procedere contenga l’espresso avviso della riapertura del processo. Per evitare il rischio che una volta rintracciato l’imputato e notificatagli la sentenza, alla successiva ripresa del procedimento, possano presentarsi problematiche analoghe a quelle che hanno impedito di procedere, si è previsto che nella sentenza sia anche già dato avviso all’imputato della data in cui si terrà l’udienza per la riapertura. Il destinatario, grazie alla notifica della sentenza, conosce, quindi, l’imputazione a suo carico, è informato dalla pendenza del processo, è informato che il procedimento riprenderà il suo corso ed è già messo nelle condizioni di sapere la data in cui il procedimento riprenderà. Per questo aspetto si è previsto che nella sentenza sia specificato che l’udienza per la prosecuzione del processo è da intendere sempre fissata: a) il primo giorno non festivo del successivo mese di settembre, se l’imputato è stato rintracciato nel primo semestre dell’anno; b) il primo giorno non festivo del mese di febbraio dell’anno successivo, se l’imputato è stato rintracciato nel secondo semestre dell’anno.
In ragione della circostanza che la sentenza di non luogo a procedere è una pronuncia del tutto sui generis, in quanto destinata, nella sua fisiologia, ad essere revocata, è divenuto necessario disciplinare gli effetti della sentenza sui provvedimenti cautelari, reali e personali, nonché su quei provvedimenti che sono adottati proprio in considerazione di una loro strumentalità all’accertamento in corso (come i sequestri probatori). Peraltro, rispetto all’ipotesi più grave (quella in cui sia stata emessa ordinanza di custodia cautelare e non ricorrano i presupposti per la dichiarazione di latitanza) sono state previste opportune deroghe alla disciplina della sentenza di non luogo a procedere. In ragione di ciò, si è stabilito che, in deroga a quanto disposto dall’articolo 300 c.p.p., le misure cautelari degli arresti domiciliari e della custodia in carcere non perdano efficacia, se non quando la sentenza non è più revocabile e parimenti che non perdano efficacia i provvedimenti che hanno disposto il sequestro probatorio, il sequestro conservativo e il sequestro preventivo, anch’essi fino a quando la sentenza non è più revocabile. In modo connesso si è dovuto disciplinare con un’apposita modalità la ripresa dell’udienza, almeno per il caso in cui ad essere rintracciato sia un soggetto ricercato (anche) per l’applicazione di una misura custodiale.
ATTI URGENTI (ART. 420-QUINQUIES C.P.P.)
TESTO RIFORMATO |
Art. 420-quinquies c.p.p. – Atti urgenti. 1. Finché le ricerche della persona nei cui confronti è stata emessa la sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420-quater sono in corso, il giudice che l’ha pronunciata assume, a richiesta di parte, le prove non rinviabili nelle forme di cui all’articolo 401. Del giorno, dell’ora e del luogo stabiliti per il compimento dell’atto è dato avviso almeno ventiquattro ore prima al pubblico ministero, alla persona offesa e ai difensori già nominati nel procedimento in cui è stata pronunciata la sentenza. 2. Per lo stesso periodo di tempo indicato nel comma 1, il giudice che ha pronunciato la sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420-quater resta compente a provvedere sulle misure cautelari e sui provvedimenti di sequestro fino alla perdita di efficacia prevista dal comma 7 dell’articolo 420-quater. |
Si prevede che, mentre le ricerche sono in corso, il giudice che ha pronunciato la sentenza debba assumere, a richiesta di parte, eventuali prove non rinviabili. A tal fine si è previsto di fare rinvio alla disciplina dell’incidente probatorio.
REVOCA DELLA SENTENZA DI NON DOVERSI PROCEDERE PER MANCATA CONOSCENZA DELLA PENDENZA DEL PROCESSO (ART. 420-SEXIES C.P.P.)
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 420-sexies c.p.p. - Revoca della sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo. 1. Quando rintraccia la persona nei cui confronti è stata emessa sentenza di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 420-quater, la polizia giudiziaria le notifica la sentenza e le dà avviso della riapertura del processo, nonché della data dell’udienza, individuata ai sensi dell’articolo 420-quater, comma 4, lettera b), nella quale è citata a comparire davanti all’autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza. 2. La polizia giudiziaria comunica alla persona rintracciata che sia rimasta priva del difensore che lo assisteva nel giudizio concluso con la sentenza, e che non provveda alla nomina di un difensore di fiducia, le generalità di un difensore d’ufficio, nominato ai sensi dell’articolo 97, comma 4, e provvede ai sensi dell’articolo 161. In ogni caso avvisa la persona rintracciata che al difensore sarà notificata la data dell’udienza individuata ai sensi del comma 1. Di tutte le attività e gli avvisi ciò è redatto verbale. 3. La polizia giudiziaria trasmette senza ritardo al giudice la relazione di notificazione della sentenza e il verbale di cui al comma 2. 4. Il giudice con decreto revoca la sentenza e, salvo quanto previsto al comma 6, fa dare avviso al pubblico ministero, al difensore dell’imputato e alle altre parti della data dell’udienza fissata ai sensi dell’articolo 420-quater, comma 4, lett. b) i). L’avviso è comunicato o notificato almeno venti giorni prima della data predetta. 5. Nell’udienza fissata per la prosecuzione ai sensi dell’articolo 420-quater comma 4, lettera b) i), il giudice procede alla verifica della regolare costituzione delle parti. Salva l’applicazione degli articoli 420 e 420-ter, si procede sempre ai sensi dell’articolo 420-bis, comma 1, lettera a). 6. Nei casi di cui all’articolo 420-quater, comma 7, quando la sentenza è revocata nei confronti di un imputato sottoposto a misura cautelare, il giudice fissa l’udienza per la prosecuzione e dispone che l’avviso del giorno, dell’ora e del luogo dell’udienza sia notificato all’imputato, al difensore dell’imputato e alle altre parti, nonché comunicato al pubblico ministero, almeno venti giorni prima. All’udienza il giudice procede alla verifica della regolare costituzione delle parti. Si applicano gli articoli 420, 420-bis e 420-ter. |
Nel caso in cui la polizia giudiziaria rintracci il destinatario della sentenza, procederà alla notifica della stessa, fornendo ulteriori informazioni sulla riapertura del processo e dando avviso della data effettiva dell’udienza, individuata nei termini predetti.
FISSAZIONE DELL’UDIENZA PER LA RIAPERTURA DEL PROCESSO (ART. 132-TER DISP. ATT. C.P.P.)
ARTICOLO DI NUOVA INTRODUZIONE |
Art. 132-ter disp. att. c.p.p. - Fissazione dell’udienza per la riapertura del processo. 1. I dirigenti degli uffici giudicanti adottano i provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la celebrazione, nella medesima aula di udienza, il primo giorno non festivo del mese di febbraio e il primo giorno non festivo del mese di settembre di ogni anno delle udienze destinate alla riapertura dei procedimenti definiti con sentenza resa ai sensi dell’articolo 420-quater del codice, nonché alla celebrazione dei processi nei quali è stata pronunciata l’ordinanza di cui all’articolo 598-ter, comma 2, del codice. |
ADEMPIMENTI IN CASO SENTENZA DI NON DOVERSI PROCEDERE PER MANCATA CONOSCENZA (ART. 143-BIS DISP. ATT. C.P.P.)
TESTO RIFORMATO |
Art. 143-bis disp. att. c.p.p. - Adempimenti in caso di sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato. 1. Quando il giudice dispone la trasmissione ai sensi dell’articolo 420-quater del codice, la relativa ordinanza e il decreto di fissazione dell’udienza preliminare ovvero il decreto che dispone il giudizio o il decreto di citazione a giudizio sono trasmessi Quando il giudice emette la sentenza di cui all’articolo 420-quater del codice, ne dispone la trasmissione alla locale sezione di polizia giudiziaria, per l’inserimento nel Centro elaborazione dati, di cui all’art. 8 della legge 1 aprile 1981, n. 121, e successive modificazioni. |
DISCIPLINA TRANSITORIA
Quanto al momento di effettiva entrata in vigore di questa parte della riforma, è stato previsto - dall’art. 89 del D.L.vo n. 150/2022 - che le nuove disposizioni relative alla disciplina della sentenza di non luogo a procedere, trovino applicazione quando il procedimento era già sospeso prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni e l’imputato non è stato ancora rintracciato. In questi procedimenti, in luogo di disporre nuove ricerche ai sensi dell’articolo 420-quinquies del codice di procedura penale vigente prima dell’entrata in vigore del decreto, il giudice provvederà ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale come modificato, con applicazione delle norme conseguenti.
Si chiarisce che, nei procedimenti che proseguono con il “vecchio rito”, si continuerà ad applicare anche la disposizione sostanziale di cui all’articolo 159, primo comma, numero 3-bis), del codice penale nel testo vigente prima dell’entrata in vigore del presente decreto legislativo, in relazione all’effetto sospensivo del corso della prescrizione conseguente alla sospensione del procedimento per effettuare le ricerche.
Si è anche disciplinata l’ipotesi di quei procedimenti, aventi ad oggetto reati commessi dopo il 18 ottobre 2021, che, pur proseguendo con il “vecchio rito”, non godono del limite massimo della sospensione della prescrizione previsto dal regime precedente, perché abrogato con la legge 134/2021 (entrata in vigore il 19 ottobre 2021). Per questi casi si fissa il limite massimo di durata della sospensione del corso della prescrizione oggi introdotto con il nuovo ultimo comma dell’art. 159.
Identica previsione è stata estesa alle ipotesi di sospensione già disposta alla data di entrata in vigore del presente decreto, sempre che, naturalmente, il procedimento abbia ad oggetto reati commessi dopo il 18 ottobre 2021.
La Stranezza. Recensione di Dino Petralia
In questo film della maturità Roberto Andò, non a caso regista pure di opere musicali e di teatro, realizza un prodotto che, per cast e trama prescelti, potrebbe dirsi all’apparenza ardito, ma che poi a luci spente si sostanzia nettamente come artificio vincente per spiegare con abile alchimia scenica il senso e l’efficacia del teatro.
E così, chiamando in campo uno dei geni della drammaturgia moderna, Luigi Pirandello, alle prese con l’ispirazione dei Sei personaggi in cerca d’autore, e affidando la trama al connubio recitativo composto dalla nota coppia comica Ficarra e Picone e dalla tempra interpretativa ugualmente nota di Toni Servillo, quest’ultimo nei panni del Maestro agrigentino, prende forma un accattivante mosaico narrativo, esso stesso a carattere teatrale, in cui il dominio degli eventi scenografici, a cavallo tra commedia degli equivoci e reality show, risiede tutto nel contrasto tra umorismo e tragicità.
Ed infatti, è proprio tra l’istintiva vis comica di Salvatore Ficarra e Valentino Picone - rispettivamente nel film Onofrio Principato e Sebastiano Vella - e l’elegante e meditabondo profilo scenico di Servillo (Pirandello) che prende vita un mix indistinto capace di illuminare di divertente ironia la severità di un tema così caro e irrisolto, l’ispirazione vitale dello scrittore, quella ricerca interiore che nei panni di un ormai maturo Pirandello, gravato nella vita familiare dalla condizione di squilibrio mentale della moglie Antonietta, aveva assunto i termini di una vera estenuante ossessione.
E il migliore spunto giunge al Maestro proprio dall’incontro con i due becchini - Sebastiano e Nofrio della ditta girgentana Vella & Principato - per via di un servizio funebre loro affidato in occasione della morte della sua vecchia balia. Il paradosso - che è poi la bizzarra e geniale trovata del film, ben potendo essa stessa fondare la stranezza propria del titolo - si compie nel dialogo a tre sul tema del teatro e nell’enfasi con cui i due comici, teatranti per diletto e animatori a loro volta del pittoresco contesto paesano, garbatamente arringano l’ignoto e (ai loro occhi) sprovveduto cliente, accusandolo con altrettanta ironica bonomia e cordiale presunzione di saperne davvero poco di teatro.
Paradosso che raggiunge infine il suo culmine quando Pirandello, invitato ad assistere alla scalcagnata e sostanzialmente fallita esibizione dell’altrettanto raffazzonata compagnia paesana, personalmente coinvolta in sala in uno scambio di accuse/difese col pubblico, conquista invece l’illuminazione che cercava e che darà vita al capolavoro dei Sei personaggi; un’ispirazione suscitata dall’ormai compiuta consapevolezza che il vero teatro è quello che vive nella coscienza della sua finzione, frantumando l’immaginaria quarta parete che lo separa dal pubblico e interagendo con questo in una realistica e suggestiva combinazione scenica.
Da inconsapevoli suggeritori di quel prodotto di visionaria drammaturgia, Nofrio e Sebastiano, invitati a spese di Pirandello alla prima romana al teatro Valle, non sapranno mai che la “fantasia” che aveva sollecitato il Maestro, e alla quale questi darà poi veste burlesca di “servetta” nella straordinaria prefazione che anni dopo premetterà al testo per renderne più agevole la comprensione, si agitava già nei palchi del rudimentale teatro paesano e che proprio il loro goffo insuccesso era stata occasione e ragione di una rivoluzionaria stranezza dello scrittore, fonte di un capolavoro in grado di condizionare l’intera poetica letteraria e teatrale del novecento.
Ritornati in sala a fine commedia per sfuggire alla turbolenta calca di un pubblico inferocito per ciò che era apparsa come un’insulsa e cervellotica messinscena, i due becchini si ritrovano da soli in teatro al cospetto di un palcoscenico ormai spoglio. Ed è lì che con sottile ironia si consuma la terza e ultima stranezza del film: quella scalcinata coppia non esiste né è mai esistita e lo stupefatto e perplesso Pirandello - in un Servillo al culmine della sua magistrale espressività - ne prende atto facendo consultare invano la lista degli invitati.
Erano anch’essi personaggi in cerca d’autore, fantasmi vaganti nella tormenta creativa dello scrittore che, all’unisono col vero Pirandello - cosi ne scrive nella sua fenomenale prefazione - “posso soltanto dire che, senza sapere d’averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro…”.
Un film colto, dallo spunto geniale, sapientemente intrecciato nella sua stessa iperbole rappresentativa; un film siciliano, scritto da un siciliano e con veri siciliani, nel dialetto, nelle attraenti tortuosità e funamboliche intelligenze dei siciliani.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.