ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Stereotipi e pregiudizi di genere: una storia ancora attuale
di Sara Posa e Lucia Spirito
Il percorso di cui questo contributo racconta in qualche modo la storia è l’incontro tra una competenza, che stimola una nuova sensibilità, che genera curiosità, che a sua volta fa nascere competenza; un cammino che è il nostro: una sintesi tra elementi di conoscenza e di dubbio.
“La difesa è sacra ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati – e qui parlo come avvocato – si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina così come si imposta un processo per violenza carnale. Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali sicuri da difendere, ebbene, nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori: “Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere un po’ è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!”. Ecco, nessuno si sognerebbe di fare una difesa di questo genere, infangando la parte lesa soltanto (…). Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano più denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare una donna venire qui a dire “non è una puttana”. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, e senza bisogno di difensori. E io non sono il difensore della donna Fiorella, io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza, ed è una cosa diversa”.
Questo brano è un frammento dell’arringa pronunciata nel 1978 dall’avvocato Tina Lagostena Bassi, che aveva assistito la persona offesa, una giovane donna, Fiorella, nel processo per violenza carnale in cui erano imputati quattro uomini, celebrato innanzi al Tribunale di Latina. Da questo processo era stato tratto il documentario “Processo per stupro”, trasmesso nel 1979 dalla R.A.I. e conservato anche negli archivi del M.O.M.A. di New York, che voleva mostrare per la prima volta all’opinione pubblica italiana come le donne che denunciavano di aver subito uno stupro divenivano automaticamente nelle aule di giustizia le principali accusate perché costrette a dover difendere se stesse, la propria vita e la propria morale da domande, poste dalle difese degli imputati, che esulavano dai fatti oggetto dell’imputazione, volte esclusivamente a screditarle e, conseguentemente, a minarne la credibilità, facendo leva sullo stereotipo secondo cui una donna “onesta” non poteva subire una violenza sessuale[1].
Nel 2015, a distanza di trentasette anni, in plurimi passaggi della motivazione della sentenza di assoluzione emessa all’esito del processo di secondo grado relativo a fatti di violenza sessuale e violenza sessuale di gruppo, i Giudici della Corte d’Appello di Firenze si sono soffermati a descrivere il tipo di biancheria intima indossata dalla persona offesa, il suo orientamento sessuale, le sue relazioni sentimentali e ad esaminare aspetti della sua vita familiare e privata, definendola come “una vita non lineare”.
Anche in questo processo, così come tutt’ora frequentemente nei procedimenti per reati in materia di violenza di genere che si celebrano nelle aule dei Tribunali, alla persona offesa escussa come testimone non solo sono state poste domande su questioni non pertinenti e di natura strettamente personale e intime[2], ma questi argomenti sono stati utilizzati e valorizzati persino nella sentenza: ciò appare indicativo di un atteggiamento culturale, persistente, radicato e attuale, che tende a minimizzare la violenza di genere, a colpevolizzare la persona offesa, esponendola così ad una vittimizzazione secondaria, e di conseguenza a perpetuare gli stereotipi riguardanti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società.
Tale impostazione è stata infatti stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che nel caso J.L contro Italia, con decisione del 21.05.2021, ha condannato lo Stato italiano a risarcire la ricorrente, ritenendo che la citata sentenza della Corte d’Appello di Firenze abbia violato l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riconosce ad ogni persona il diritto al rispetto della propria vita privata e vieta le ingerenze delle autorità pubbliche nell’esercizio dello stesso. La Corte ha affermato che il linguaggio colpevolizzante e moraleggiante, nonché gli argomenti utilizzati nella sentenza trasmettono “i pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e sono suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente”.
L’attuale persistenza nella società italiana di diffusi pregiudizi e stereotipi di genere è stata peraltro segnalata anche da un altro organismo internazionale, il Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW), istituito proprio allo scopo di monitorare l’attuazione delle norme della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nelle sue osservazioni conclusive sul settimo rapporto sull’Italia, pubblicato il 4.07.2017, il Comitato ha rappresentato di notare con preoccupazione “il radicamento di stereotipi riguardanti i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia e nella società, perpetuando i ruoli tradizionali delle donne come madri e casalinghe e compromettendo il loro status sociale e le loro prospettive di istruzione e di carriera”.
Simili pregiudizi, come dimostrato dall’indagine relativa agli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale dell’Istat pubblicata nel 2019, condizionano anche la valutazione delle violenze agite contro le donne. In particolare, è emerso come sia tutt’ora sussistente il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita: il 39% della popolazione ritiene infatti che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole; il 23,9% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire e il 15,1% ritiene che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Per il 10,3%della popolazione, infine, le accuse di violenza sessuale sono spesso false.
A fronte di queste plurime segnalazioni di allarme, peraltro provenienti da diversi soggetti qualificati, appare opportuno che tutti i professionisti, magistrati, avvocati, forze di polizia, psicologi e assistenti sociali, a vario titolo coinvolti nei procedimenti giudiziari concernenti casi di violenza di genere o domestica, sia nel settore penale che in quello civile, prendano atto dell’esistenza di stereotipi e condizionamenti socio-culturali, che, inconsapevolmente e quindi in modo insidioso, possono incidere negativamente sull’approccio a questo tipo di vicende, influenzando così lo svolgimento delle indagini e di conseguenza l’acquisizione di tutti gli elementi necessari a ricostruire il fatto, la valutazione degli elementi emersi, delle condotte dell’indagato/imputato e della persona offesa, delle dichiarazioni di quest’ultima e infine la decisione.
È, innanzitutto, imprescindibile evitare di essere condizionati da quello che è il nostro modello culturale e comportamentale di riferimento nella valutazione delle condotte della persona offesa e della sua credibilità. L’aver sopportato violenze fisiche e psicologiche per anni prima di sporgere una denuncia per maltrattamenti nei confronti del proprio partner, ad esempio, potrebbe sembrare inconcepibile per molti uomini e molte donne, ma ciò non può tuttavia escludere che vi siano persone che invece, per diversi motivi, quali dipendenza affettiva, dipendenza economica, condizionamenti familiari, tollerino vessazioni e soprusi anche per un ampio lasso temporale.
È dunque essenziale liberarsi da pre-giudizi che si fondano su quello che è o sarebbe il nostro modo di ragionare, atteggiarci e reagire a fronte di situazioni simili a quelle riferite dalla persona offesa poiché non esiste un modello comportamentale universale, unico o corretto a fronte di episodi di violenza e, quindi, occorre essere consapevoli che ogni vittima potrebbe reagire in modo diverso dal nostro di fronte ad un medesimo fatto, senza che ciò tuttavia possa di per sé costituire un indice di non credibilità della persona offesa.
Stereotipi culturali e criteri di giudizio
Quando in un procedimento si hanno limitate fonti di prova - come quando si hanno a disposizione solo due versioni contrapposte dei fatti e nessun testimone diretto - la decisione non può che fondarsi sulla valutazione di maggior attendibilità e ragionevolezza del racconto, dunque su impressioni e sulla (percepita) logicità degli argomenti proposti.
Rispetto alle impressioni, va in particolare considerato il cosiddetto “errore di persistenza”, che dipende dall’impressione iniziale che ci si forma di un soggetto (sia esso imputato o persona offesa) e rappresenta la tendenza a resistere al cambiamento, alternando il processo di acquisizione e l’interpretazione di informazioni successive.
A sua volta, nell’opera di selezione della ricostruzione più credibile, il Pubblico Ministero, prima, e il Giudice, poi, utilizzano quelle che vengono definite “rappresentazioni cognitive”, che sono fondate sulle impressioni e sull’insieme di conoscenze sedimentatesi nella memoria sulla base dell’esperienza. Tuttavia, nonostante la pratica quotidiana, anche la psicologia del magistrato è una “psicologia ingenua”, intendendosi per tale quella tendenza tipica di ciascun individuo all’interpretazione dei comportamenti altrui, che tuttavia poco ha a che fare con la psicologia intesa come scienza[3]. Le stesse massime di comune esperienza, soprattutto quando riguardano la spiegazione di comportamenti umani, rappresentano spesso semplici convenzioni diffuse, non sorrette da un congruo sapere scientifico. Le credenze, le teorie, le convinzioni che ciascuno matura sul comportamento altrui sono, peraltro, inevitabilmente legate alla cultura di provenienza e alla cosiddetta “psicologia implicita”[4].
Alla luce di queste considerazioni deve dunque ritenersi pressoché inevitabile il ricorso, più o meno consapevole, nel giudizio a stereotipi e pregiudizi.
Esperimenti condotti da psicologi sociali hanno, in proposito, dimostrato come gli stereotipi impliciti (associazioni mentali che influiscono sui giudizi, senza che se ne abbia consapevolezza) vengano mantenuti anche quando il soggetto a livello cosciente non condivide i contenuti dello stereotipo[5].
Ecco perché nessuno (neppure le donne![6]) può dirsi esente da stereotipi e pregiudizi e, come anticipato, non possono essere sottovalutati i citati richiami provenienti – tra l’altro - da una pluralità di organismi internazionali, che evidenziano il rischio “di riprodurre stereotipi di genere nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione secondaria” (J.L. v. Italia – CEDU 2021).
Alcuni esempi di “massime di comune esperienza” basate su presupposti fallaci[7]
Una delle distorsioni cognitive (bias) spesso operanti nei giudizi relativi a reati di violenza di genere è quella definita del “doppio standard”, che consiste nel ritenere accettabile un determinato comportamento se applicato agli uomini, inaccettabile se, al contrario, applicato alle donne. Caso tipico è quello del doppio standard sessuale. La condotta sessuale femminile influenza, infatti, come sopra anticipato i giudizi sulle vittime di stupro.
L’incidenza di tale bias cognitivo è stata avvalorata da uno studio condotto in California,[8] che ha mostrato come a fronte di un medesimo racconto, una vittima vergine venisse considerata significativamente meno responsabile di una promiscua, sul presupposto implicito che la prima non si fosse posta in condizioni di essere stuprata e che la seconda avesse, invece, mentito sull’accaduto.
Rientrano a pieno titolo nelle false credenze fondate su stereotipi e pregiudizi che riguardano vittime e autori di violenza sessuale i cosiddetti “miti dello stupro”[9], responsabili della (e funzionali alla) giustificazione delle aggressioni sessuali nei confronti delle donne, con effetti discriminatori.
I principali “miti dello stupro” sono i seguenti:
1. La violenza sessuale è dettata da un irrefrenabile impulso sessuale
Il mito si basa su uno stereotipo di genere che descrive la sessualità maschile come compulsiva, riconducendo la violenza ad un istinto biologico e minimizzando il tema del desiderio di dominio. La violenza sessuale è, tuttavia, più che espressione di impulso erotico, una forma di violenza che si avvale della sessualità, una imposizione violenta su un’altra persona, un atto di potere.
In una prospettiva più generale, molto spesso la violenza di genere viene rappresentata come un gesto incontrollabile che esplode all’improvviso, modalità che deresponsabilizza l’autore della condotta. La stessa narrazione difensiva dell’autore come “brava persona”, ponendone in evidenza – come se si trattasse di elementi aventi valore dirimente - l’integrazione sociale o economica, ostacola il riconoscimento della violenza e dei relativi meccanismi, che non attengono tuttavia esclusivamente a situazioni di marginalità.
Anche la narrazione centrata sulla gelosia e sul presunto eccesso di sentimenti nasconde relazioni possessive, dinamiche di potere e di controllo, incapacità di affrontare le differenze e i conflitti.
2. Solo un certo tipo di donna viene violentata
Il mito è espressione del cosiddetto “sessismo benevolo”, ovverosia di una forma di sessismo che protegge le donne che rispettano gli standard patriarcali e del “sessismo ostile”, che – viceversa - attacca quelle donne che non si attengono ad essi. La convinzione comune sottostante è che con alcuni comportamenti (assunzione di alcool, vestiario…) la vittima se non abbia dato causa, quanto meno, abbia reso ragionevole per l’aggressore ritenerla disponibile (e, quindi, consenziente[10]).
Si tratta di stereotipo a tutt’oggi ampiamente diffuso, se solo si considera che – come sopra anticipato – secondo dati Istat il 23,9% degli italiani pensa che una donna possa provocare la violenza sessuale con il suo modo di vestire e il 15,1% che una donna che subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile.
Per una visione libera da questo stereotipo, anche implicito, è necessario non dare per scontato né normalizzare lo sguardo e il comportamento maschile sul corpo delle donne e sulle loro vite e ripartire dal riconoscimento della libertà femminile.
3. La violenza sessuale è opera di un estraneo: maggiore è il grado di relazione tra vittima e aggressore, meno probabilità ci sono che la violenza sessuale sia uno stupro
In tale prospettiva molti studi hanno mostrato come le donne stuprate da conoscenti siano ritenute maggiormente responsabili dell’accaduto[11], a fronte di dati di incidenza statistica di segno contrario rispetto all’enunciazione del mito.
Gran parte della violenza, in particolare quella più grave, è tuttavia commessa da partner, familiari o conoscenti. Gli stupri sono commessi nel 62,7% dei casi da partner, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici (Istat, 2014). Dal 2000 al 2019 sono state uccise in Italia 3.230 donne di cui 2.355 in ambito familiare e 1.564 per mano del proprio coniuge/partner o ex partner (Eures, 2019).
4. Le donne non sono affidabili/attendibili perché si inventano stupri per rimpianto o per vendetta
Secondo l’Istat, come visto, per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false.
Si tratta di mito falsificato – tra l’altro – da un’indagine condotta nel Regno Unito tra il 2005 e il 2006, che ha stimato che la percentuale di falsi abusi era pari al 2% del totale degli stupri denunciati[12].
In realtà il sommerso è molto alto: i tassi di denuncia riguardano solo il 12,2% delle violenza da parte del partner e il 6% di quelle da non partner (Istat, 2014).
Tutte le ricerche sottolineano i numerosi ostacoli che rendono difficile per una donna denunciare la violenza, fra cui il timore di non essere credute. Le denunce arrivano spesso alla fine di un lungo percorso e costituiscono solo una minima parte di un fenomeno molto più diffuso. Secondo l’Istat in Italia 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni.
5. Se la donna davvero non vuole il rapporto sessuale può sempre opporsi con resistenza attiva
Secondo dati Istat il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole.
In realtà la possibilità di evitare un’aggressione sessuale non dipende dal grado di resistenza della vittima, ma dalle caratteristiche dell’aggressore[13].
Come visto, dunque, quelle sin qui esposte sono tutte false credenze che servono tuttavia ad illuderci, da un lato di poter evitare di divenire potenziale vittima, attraverso l’adozione di comportamenti socialmente adeguati, dall’altro di marginalizzare la violenza maschile, senza dover prendere in seria considerazione i modelli culturali che sono alla base di questo fenomeno.
Una chiara stigmatizzazione del ricorso a miti dello stupro si ha nell’opinione del Comitato CEDAW luglio 2010 nel caso Vertido vs. Philippines. Segnatamente, il Comitato ha osservato come l’uso degli stereotipi di genere incida sul diritto delle donne a un processo equo e giusto. Il Comitato ha, poi, sottolineato come l’autorità giudiziaria debba prestare attenzione a non creare standard inflessibili su quel che le donne o le ragazze dovrebbero essere o quello che avrebbero dovuto fare in una situazione di stupro, basandosi solamente in nozioni preconcette di ciò che definisce una vittima di stupro e di violenza basata sul genere.
È il tema del comportamento atteso. Nel commentare una sentenza emessa nel 2017 dal Tribunale di Torino, che aveva assolto l’imputato di violenza sessuale, proprio sulla base della assenza del comportamento atteso[14], Paola Di Nicola scrive “chi può sapere qual è la reazione giusta a una violenza se non chi l’ha vissuta rispetto a quell’uomo, rispetto a quella situazione, rispetto a quel rapporto di conoscenza, rispetto a quella vicenda umana che si è consumata? Nessuno, se non la vittima”[15].
Quella che si fonda sul comportamento atteso è, appunto, un’impostazione da “psicologi ingenui”; a mero titolo esemplificativo ci sono, infatti, ricerche scientifiche condotte dall’American Association for the Advancement of Science che dimostrano come la maggior parte delle donne vittime di violenza reagisca allo stupro con una paralisi involontaria. Ci si blocca, non si urla, si resta pietrificate[16].
Se si assume una prospettiva più attenta, l’utilizzo di questo genere di stereotipi non è poi così lontano da quello della nota sentenza della Cassazione sui “jeans”[17] o dall’argomento utilizzato nell’arringa difensiva nel citato “Processo per stupro”: “Signori! una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. Passa assolutamente la voglia a chiunque di continuare e l’azione quindi mal si coniuga con la ipotesi della violenza anzi è incompatibile con l'ipotesi della violenza”.
Anche se in maniera cosciente ci riteniamo liberi da stereotipi, l’analisi della prassi giudiziaria ci mostra come nessuno possa dirsi esente da stereotipi impliciti, non meno pericolosi, sul piano della corretta comprensione e valutazione, di quelli oggetto di comune stigmatizzazione.
Altri stereotipi giudiziari nel settore penale
Il rischio di essere influenzati da stereotipi e pregiudizi si manifesta anche nei casi di c.d. progressione dichiarativa, qualora cioè il racconto della persona offesa venga arricchito nel tempo di nuovi particolari. Nelle aule dei Tribunali, l’argomento della non sovrapponibilità delle dichiarazioni della vittima viene utilizzato non solo dalle difese, ma talvolta anche dal Giudice come indice di inattendibilità del racconto. In realtà, come peraltro indicato dalla Suprema Corte di Cassazione, il contributo dichiarativo della persona offesa può arricchirsi progressivamente in occasione delle sue audizioni senza diventare automaticamente e solo per questo inattendibile, soprattutto qualora i nuovi elementi forniti costituiscano un completamento e un’integrazione dei precedenti, il racconto risulti coerente e fermo e i singoli episodi siano contestualizzati (cfr. Cass., Sez. III, sent. 23202/2018). Accade spesso infatti che le dichiarazioni accusatorie della vittima non siano immediatamente complete ed esaustive, ma che al contrario si sviluppino in un complesso percorso di disvelamento, che può essere condizionato dal timore nei confronti dell’autore del reato, soprattutto quando lo stesso è il coniuge o un familiare, dalla vergogna, dal grado di affidamento nei confronti dell’autorità procedente e dalla rivisitazione e dal superamento del trauma patito.
Queste indicazioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità in ordine agli elementi da tenere in considerazione nel vagliare le dichiarazioni della persona offesa e delle possibili cause di discrasie e di progressioni dichiarative, rendono evidente come in questa materia la preparazione e le competenze tecnico giuridiche devono essere affiancate anche da conoscenze di tipo psicologico, che possono aiutare il giurista a superare stereotipi e pregiudizi e quindi ad interpretare e comprendere comportamenti e dichiarazioni che potrebbero apparire contraddittori e sintomatici della non credibilità della persona offesa: a differenza di altre tipologie di reato, infatti, in questo ambito l’acquisizione di elementi utili alla ricostruzione del fatto ed alla responsabilità del presunto autore si fonda sostanzialmente sulle dichiarazioni della vittima, la quale a sua volta è sovente condizionata da una serie di fattori come la dipendenza economica o affettiva dal partner, con il quale la stessa, nonostante le violenze subite, potrebbe anche volersi riconciliare.
Nel corso dei procedimenti penali per reati di violenza domestica, invero, accade non di rado che la persona offesa si riavvicini al partner e che quindi, non potendo rimettere denuncia-querela sporta a causa dell’irrevocabilità prevista per i delitti di violenza sessuale e della procedibilità d’ufficio per i maltrattamenti in famiglia, sia indotta a modificare, attenuare o addirittura ritrattare integralmente le dichiarazioni accusatorie precedentemente rese, in genere senza fornire alcuna plausibile spiegazione in ordine alle diverse versioni fornite.
La riappacificazione e la conseguente ripresa della convivenza quindi, in diverse sentenze di merito e di legittimità, sono ritenute integranti quegli “elementi concreti” idonei ad incidere sulla genuinità dell’esame testimoniale di cui all’art. 500, co. 4, c.p.p., che consentono di acquisire al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni precedentemente rese dalla persona offesa e contenute nel fascicolo del Pubblico Ministero.
Il tema appare collegato a quello dell’ambivalenza dei sentimenti provati dalla vittima nei confronti dell’indagato/imputato, che emerge dalle dichiarazioni e dall’atteggiamento della donna nel corso del procedimento penale. Anche questo aspetto deve essere ponderato con attenzione e non deve condurre automaticamente ad un giudizio di inattendibilità del narrato, sebbene a chi procede possa sembrare inverosimile o incomprensibile che la vittima di violenze fisiche, psicologiche e/o sessuali possa continuare a nutrire affetto nei confronti del proprio aggressore.
In proposito, fondamentali indicazioni sono fornite ancora una volta dalla Suprema Corte di Cassazione, che, in tema di valutazione della prova testimoniale, ha osservato che l’ambivalenza dei sentimenti non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni rispetto al complesso degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice. La Cassazione ha inoltre puntualmente illustrato quei motivi di natura psicologica che potrebbero condizionare il rapporto tra la persona offesa e l’imputato, evidenziando che, “senza dover pensare al caso limite conosciuto nella letteratura scientifica come “sindrome di Stoccolma”, non è inconsueto riscontrare nella prassi, soprattutto in contesti familiari consolidati o comunque connotati da legami sentimentali particolarmente intensi, quella situazione emotiva - che la psicologia qualifica in termini di dipendenza affettiva – che induce una persona a ritenere che il proprio benessere dipenda da un’altra e la predisposizione ad accettare qualunque compromesso, piegandosi alla volontà dell’altro fino ad annullare la propria dignità, per ottenere affetto e riconoscimento. Ancora, nei rapporti tra soggetto maltrattante e vittima delle violenze e vessazioni è frequente riscontrare un’ambiguità di sentimenti suscettibile di portare quest’ultima, nonostante le sofferenze cagionate dal partner, ad accettare la prosecuzione della relazione, da un lato, per l’esistenza di un forte legame affettivo, di un “amore malato”, tale da creare una controspinta dovuta a dinamiche da dipendenza; dall’altro, per la soggezione psicologica determinata proprio dall’azione di coartazione esercitata dall’agente nei confronti della persona offesa. Ancora la resistenza a formalizzare una denuncia nei confronti del soggetto maltrattante può dipendere dal timore di compiere scelte che possano provocare la dissoluzione dell’unità familiare e comportare pregiudizi di natura economica o scompensi affettivi per i figli, piuttosto che dalla paura di subire gravi reazioni aggressive da parte di chi si sappia aduso abbandonarsi ad eccessi violenti” (Cass. Sez VI 31309/2015).
Con riguardo poi ai reati di violenza domestica, commessi all’interno del nucleo familiare, occorre inoltre tenere in considerazione le dinamiche del c.d. ciclo della violenza, che vede la condotta violenta svilupparsi in modo graduale, quasi sempre crescente e ciclico: alla prima fase in cui si realizzano le azioni preliminari alla violenza, seguono i comportamenti violenti e poi il periodo di calma e di ricostituzione del rapporto, durante il quale il partner violento promette che non reitererà le azioni aggressive, si mostra attento e premuroso e tende ad attribuire la responsabilità del proprio atteggiamento a fattori esterni o addirittura alla stessa persona offesa, in modo da riconquistarne la fiducia, anche in nome dell’interesse familiare, inducendo la vittima a sperare che la situazione possa cambiare. In questo circolo, la donna finisce per riprendere la relazione. Ebbene, in questa fase, la persona offesa verosimilmente tenderà a nascondere e minimizzare ciò che le sta accadendo fino al successivo episodio di violenza, in un ciclo ripetitivo che può protrarsi anche per molti anni.
È quindi importante tenere presente le dinamiche del ciclo della violenza nella valutazione temporale delle dichiarazioni della vittima.
Stereotipi e pregiudizi nei procedimenti civili e minorili
La recente relazione su “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale” della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio ha evidenziato come nei procedimenti civili relativi all’affidamento dei figli minori di cui agli artt. 337 bis e ss. c.c. e in quelli che hanno ad oggetto domande di limitazione o di decadenza dalla responsabilità genitoriale di cui agli artt. 330 e 333 c.c. il fenomeno della violenza domestica e nei confronti delle donne è sottovalutato.
Dallo studio condotto dalla Commissione, in particolare, è emersa l’assenza di una specifica formazione nella materia della violenza di genere e dei suoi effetti in ambito familiare sui figli minorenni da parte delle varie figure professionali che a vario titolo operano in questi procedimenti (non solo magistrati, ma soprattutto psicologi che ricoprono incarichi di consulenti tecnici d’ufficio, e assistenti sociali), che quindi non sono in grado di riconoscere la violenza domestica e quella assistita e conseguentemente di valutarla adeguatamente: ciò si pone peraltro in contrasto con l’art. 31 della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
In proposito, il rapporto redatto nel 2019 all’esito del monitoraggio sull’Italia del Grevio, il Gruppo di esperti indipendenti del Consiglio d’Europa incaricato di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul, ha segnalato come i meccanismi esistenti in questi procedimenti, anziché proteggere le vittime-madri ed i figli, si ritorcono contro le donne che tentano di tutelare i loro bambini denunciando la violenza subita, e le espongono ad una vittimizzazione secondaria.
È proprio in questo ambito infatti che trovano spazio altri stereotipi, come quelli relativi al ruolo genitoriale che si ritiene debba assumere una madre sottoposta a violenza, con assunzione di un modello colpevolizzante che presuppone, come nel caso dello stupro, un unico atteggiamento da tenere da parte della donna vittima-madre, senza indagare quale sia la ragione di eventuali omissioni o ritardi nella denuncia. La donna viene quindi ritenuta responsabile per non essersi sottratta prima alla spirale della violenza.
Il rischio è quello di una vittimizzazione secondaria che deriva dal ricollegare direttamente l’incapacità genitoriale all’aver subito violenza e al non averla tempestivamente denunciata. Ma anche in questo caso non si tiene conto del fatto che per chi decide di parlare il tempo ha una funzione di elaborazione: tempo per capire cosa sta avvenendo, riconoscerlo come reato e trovare le risorse per denunciare.
Un ulteriore stereotipo è quello che riconduce la violenza domestica ad una mera situazione di conflitto tra coniugi o conviventi. Nel suo rapporto, il GREVIO ha specificamente rilevato che i consulenti tecnici d’ufficio e gli assistenti sociali che collaborano con i giudici “spesso assimilano gli episodi di violenza a situazioni di conflitto e dissociano le considerazioni relative al rapporto tra la vittima e l’autore della violenza da quelle riguardanti il rapporto tra il genitore violento ed il bambino”: in tal modo, da un lato si minimizza fino a negarla la violenza che viene agita unilateralmente da un partner ai danni dell’altro, e dall’altro si ignora completamente la violenza assistita a cui viene esposto il minore e i suoi effetti deleteri anche in relazione al suo sviluppo psico-fisico.
Il mancato riconoscimento della violenza domestica, degradata a mero conflitto interpersonale, nonché della violenza assistita e, di conseguenza, l’omessa valutazione delle stesse sono alla base di un ulteriore pregiudizio nei confronti della donna-madre-vittima, che frequentemente – come emerge ancora una volta dal rapporto del GREVIO ed altresì dalla citata relazione della Commissione parlamentare – viene incolpata per la riluttanza dei figli ad incontrare il padre violento. L’assenza di un’indagine sui reali motivi del rifiuto del minore, quali la violenza diretta o assistita, può infatti comportare il rischio rilevante di una non corretta valutazione e comprensione di tale atteggiamento, che potrebbe essere imputato allo stereotipo della condotta alienante e manipolativa della madre, volta ad allontanare il figlio dall’altro genitore. A tali conclusioni spesso i consulenti tecnici d’ufficio giungono utilizzando la teoria della sindrome di alienazione parentale, anche nota con il suo acronimo P.A.S., secondo la quale il rifiuto del figlio nei confronti di uno dei genitori dipenderebbe dalle condotte dell’altro genitore intenzionalmente volte ad influenzare il bambino.
Tale teoria, elaborata nel 1985 dallo psichiatra Richard Gardner, ha trovato ampia diffusione in varie parti del mondo e anche in Italia, ma non è mai stata riconosciuta come sindrome dai manuali diagnostici internazionali in materia. Benché la validità scientifica della P.A.S. sia diffusamente contestata, la teoria ed i criteri diagnostici per l’identificazione di tale sindrome elaborati da Gardner hanno avuto ampia applicazione, prevalentemente ad opera dei Consulenti Tecnici d’Ufficio, nei procedimenti aventi ad oggetto l’affidamento dei figli minori e la titolarità della responsabilità genitoriale.
Anche la Corte di Cassazione, proprio in relazione ad un giudizio in cui era stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica conclusasi con la diagnosi di sindrome da alienazione parentale, ha affermato che il giudice di merito è tenuto “a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare” (Cass., 13217 del 17.05.2021)
Un ulteriore stereotipo in cui si rischia di cadere in questo tipo di procedimenti è costituito dalla convinzione che sia necessario garantire sempre la presenza del padre per assicurare l’equilibrato sviluppo del minore, a prescindere dalla disamina dei suoi comportamenti violenti: anche in situazioni di violenza domestica, il rispetto del principio di bigenitorialità è considerato preminente e, al fine di darvi attuazione, nei procedimenti in parola le parti vengono invitate alla mediazione ed alla conciliazione proprio al fine di pervenire ad accordi che prevedano l’esercizio condiviso della genitorialità, in contrasto peraltro con quanto previsto dall’art. 48 della Convenzione di Istanbul, che invece vieta il ricorso a questi strumenti di soluzione alternativa delle controversie in relazione a tutte le forme di violenza domestica e nei confronti delle donne.
Strumenti di superamento degli stereotipi culturali e dei pregiudizi di genere
L’unico modo per evitare di cadere in stereotipi impliciti e rappresentazioni fallaci è quello di prendere consapevolezza di non esserne esenti e imparare a conoscerli e riconoscerli attraverso una seria formazione, che abbracci competenze multidisciplinari.
In tale prospettiva il C.S.M., nella “risoluzione sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione di procedimenti relativi a reati di violenza di genere” ha sottolineato la necessità di una formazione specialistica per la trattazione di procedimenti in materia di violenza di genere e domestica e del possesso di un bagaglio di conoscenze non solo di natura strettamente giuridica. Il Consiglio, nella medesima risoluzione, ha indicato come buone prassi anche quelle soluzioni organizzative adottate negli Uffici di Procura e nei Tribunali volte a garantire la specializzazione dei magistrati destinati alla trattazione di questi reati.
Un ulteriore strumento utile per approfondire le proprie conoscenze e competenze in questa materia e, più nello specifico, in relazione a ciascun caso da trattare, è quello del rafforzamento della cooperazione interna al sistema giudiziario tra Procure ordinarie, Tribunale civile e Magistratura minorile. La collaborazione ed il coordinamento tra gli Uffici, anche mediante accordi e protocolli, che disciplinino le comunicazioni, lo scambio di informazioni e l’eventuale trasmissione degli atti, è infatti di fondamentale importanza ad esempio per scongiurare la sottovalutazione di situazioni di violenza domestica nei procedimenti relativi all’affidamento dei figli minori ed alla titolarità della responsabilità genitoriale.
Il richiamo alla necessità di prestare attenzione alle vittime e di contrastare stereotipi e pregiudizi non è, del resto, espressione di una “sensibilità femminista”, ma di precisi obblighi assunti dall’Italia.
In proposito, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno evidenziato come “l'interesse per la tutela della vittima costituisce da epoca risalente tratto caratteristico dell'attività delle organizzazioni sovranazionali sia a carattere universale, come l'ONU, sia a carattere regionale, come il Consiglio d'Europa e l'Unione Europea, e gli strumenti in tali sedi elaborati svolgono un importante ruolo di sollecitazione e cogenza nei confronti dei legislatori nazionali tenuti a darvi attuazione”[18]
Sul piano della formazione l’art 15 della Convenzione di Istanbul, impone alle parti di fornire e rafforzare un’adeguata formazione delle figure professionali. A sua volta, la direttiva 2012/29/UE all’art. 25 stabilisce che “Gli Stati membri provvedono a che i funzionari suscettibili di entrare in contatto con la vittima, quali gli agenti di polizia e il personale giudiziario, ricevano una formazione sia generale che specialistica, di livello appropriato al tipo di contatto che intrattengono con le vittime, che li sensibilizzi maggiormente alle esigenze di queste e dia loro gli strumenti per trattarle in modo imparziale, rispettoso e professionale”.
Il richiamo alla necessità di specifica formazione si rinviene anche dal rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria del 23.06.2021 e dalla citata relazione sulla vittimizzazione secondaria nei procedimenti civili e minorili, entrambe della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio.
Coltivare il dubbio (anche sulla oggettività dei criteri logici che utilizziamo) e una specifica formazione multidisciplinare, accogliere gli spunti di riflessione che ci vengono, tra gli altri, dagli organismi sovranazionali sono gli unici antidoti “giudiziari” a forme di vittimizzazione secondaria, che, ostacolando l’accesso alla giustizia delle vittime, finiscono esse stesse per perpetuare la violenza.
[1] Processo per stupro quando i talebani eravamo noi-documentario - YouTube
[2] Si richiama in proposito il disposto dell’art. 54 della Convenzione di Istanbul, secondo cui “le parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che in qualsiasi procedimento civile o penale le prove relative agli antecedenti sessuali e alla condotta della vittima siano ammissibili unicamente quando sono pertinenti e necessarie” e dell’art. Art. 472 co. 3 bis c.p.p. ”In tali procedimenti non sono ammesse domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se non sono necessarie alla ricostruzione del fatto”.
[3] A. Forza, G. Menegon, R. Ruminati, Il giudice emotivo, Il Mulino 2017, p. 96.
[4] Ibidem, p. 98.
[5] Ibidem, p. 113.
[6] Occorre invero considerare, tra gli altri, il fenomeno della cosiddetta misoginia interiorizzata ovverosia l’assimilazione non consapevole degli stereotipi e dei pregiudizi della cultura paternalistica, di cui è – a mero titolo di esempio - espressione il senso di colpa che la donna prova quando è vittima di molestie o violenza o, sotto diverso profilo, il mito della “donna forte”.
[7] La trattazione che segue raccoglie e sintetizza una serie di argomenti esposti nel testo “Donne e violenza. Stereotipi culturali e prassi giudiziarie” a cura di Claudia Pecorella, Giappichelli 2021.
[8] C.L: Muehlenhard, J.K. Sakaluk, K.M. Esterline, Duble standard, in P. Whelehan, A Bolin (a cura di), International Encyclopedia of human sexuality, 2015.
[9] K.E. Edward, M.D. Macleod, The Reality ad myth of rape: implications for the criminal Justice system, in Expert Evidence, 2000.
[10] Sul tema del consenso vale richiamare quanto di recente osservato dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha avuto modo di evidenziare come “non sia ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito delle entrata in vigore della legge n. 66 del 1996 […], un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, onde ritenere perfezionati gli elementi costitutivi del reato stesso, un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale; si deve piuttosto ritenere che tale dissenso sia da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare la esistenza di un sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco, consenso”.
[11] S. Ben-David, O. Schneider, Rape perceptions, gender role attitudes, and victim perpetrator acquaintance, in Sex Roles, 2005.
[12] A Walker, C. Kershaw, S. Nicholas, Crime in Engrand and Wales 2005/2006
[13] M.P. Koss, the hidden rape victim: personality, attitudinal, and situational characteristics, in Psychology of Women Quarterly, 1985.
[14] Si legge in un passaggio motivazionale “pare abbia continuato il turno dopo gli abusi. Non riferisce di sensazioni o condotte molto spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, sensazione di sporco, test di gravidanza, dolori in qualche parte del corpo”.
[15] Paola Di Nicola, la mia parola contro la sua, Harper Collins 2018, p. 174-175.
[16] Paola Di Nicola, ibidem.
[17] Si legge in un passaggio motivazionale della sentenza “È dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare, anche in parte, i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, perché trattasi di un’operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa”.
[18] SS.UU. 10959/2016.
Violenza di genere e domestica tra “difetti di comunicazione” e necessità di proposte concrete. Dialogo a due voci dalla Procura
di Alessandra Riccio* e Marco Imperato**
A. R. Nonostante la mia esperienza “recente” - da maggio 2018 - quale Sostituto Procuratore applicata alla Sezione delle cd. fasce deboli (già qui si potrebbe indugiare sulle scelte comunicative…), posso dire che l’impressione, maturata fin dalle prime ore di istruttoria, del gap comunicativo esistente tra me e la persona dall’altra parte della mia scrivania - costretta a rispondere nel dettaglio a domande sul proprio universo privato costellato sì di abusi, di violenze (molto spesso psicologiche, prima ancora che fisiche) ma anche di tanto altro, fagocitata tanto dalla paura di dimenticare quanto dal senso e di vergogna nel consegnare il proprio vissuto intimo a un* sconosciut* e di colpa di denunciare chi ti è stato o ti è ancora accanto - è diventata una certezza alla quale, tuttavia, fatico ad abituarmi e che ogni volta mi lascia frastornata, ritrovandomi a pormi sempre la stessa domanda: siamo davvero ancora così indietro?
In un tempo in cui crescono la sensibilizzazione e la consapevolezza circa la violenza di genere ed domestica e le sue forme - da quelle più evidenti e cruente, come il femminicidio, a quelle più subdole e forse ancora troppo poco riconosciute, come la violenza economica, che rappresenta la prima e più meschina sudditanza su cui spesso affondano le radici tutte le altre - davvero le istituzioni non sono state in grado di colmare quel vuoto che separa le vittime di violenza e coloro cui si rivolgono in cerca di una risposta di giustizia, o anche di semplice protezione?
La risposta è inevitabilmente di segno negativo, ma è una presa d’atto che non può vederci arresi, a meno che non si accetti la conclusione per cui il lavoro fatto finora non si riduce ad altro che a uno slogan pubblicitario (o elettorale, che dir si voglia); questo perchè in quel vuoto sprofondano i silenzi, le reticenze, le ritrattazioni, le remissioni di querela - sì, anche entro i tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato - e con loro le esistenze di chi quel vuoto non riesce a sostenerlo, moralmente, emotivamente, finanziariamente e il più delle volte non riesce a decodificare i passaggi del percorso investigativo e processuale: “non volevo che finisse in carcere - perchè avete convocato i miei figli? Non sapevo che sarebbero stati messi in mezzo - i miei vicini di casa ce l’hanno con me perchè li ho indicati come testimoni, se non togliete subito tutto da mezzo mi butto giù” sono solo alcune delle ammissioni di disorientamento rispetto al meccanismo azionato dalla denuncia di cui le vittime sono perlopiù ignare. E nell’indecifrabilità di quelle esperienze annega anche il magistrato, frustrato perchè per questo non c’è legge o orientamento giurisprudenziale che serva. C’è bisogno di altro; ma di cosa?
Inutile illudersi che gli avvisi che si susseguono al termine di ogni querela - ad esempio, circa la possibilità di nominare un difensore o di potersi rivolgere a un centro anti-violenza - e la sottoscrizione della persona offesa (che dovrebbe sancire la relativa presa di conoscenza) rappresentino qualcosa di più di un mero adempimento formale per chi vi è tenuto; così come non vi è dubbio che per costruire un canale di ascolto reale con una vittima di violenza - e sempre nel rispetto della propria posizione di imparzialità - è necessario del tempo, e proprio il tempo è quello che in questo settore investigativo spesso non c’è; tutto è (o appare), incessantemente, urgente.
Allora - mi sono detta - se è in questo labirinto di alfabeti diversi che ci stiamo perdendo è la figura del mediatore la chiave da ricercare: prevedere, per legge, che le vittime di violenza di genere siano sempre assistite da un difensore - dunque nominato d’ufficio, in mancanza della nomina di un difensore di fiducia – retribuito dallo Stato consentirebbe di recuperare, almeno sul piano processuale, quella parità di posizione con l’indagato che proprio nelle storie che qui ci interessano difetta, così potendo fornire effettivamente alle persone offese tutte le informazioni necessarie e utili sui singoli snodi procedimentali successivi all’acquisizione della notizia di reato e sulle loro possibilità difensive, filtrando tutta l’emotività del caso concreto attraverso il lavoro tecnico e, in tal modo, introducendo un vero e proprio interprete tanto di quel preciso spaccato esistenziale per il magistrato quanto dell’universo giudiziario per chi chiede giustizia; l’assistenza tecnica obbligatoria e gratuita per le vittime di violenza di genere arginerebbe concretamente il rischio di vittimizzazione secondaria e porrebbe fine alla solitudine comunicativa in cui le persone offese troppo spesso sono relegate proprio in quei procedimenti di cui invece sono protagoniste, rendendole più fiduciose del percorso intrapreso e maggiormente in grado di sopportarlo (è di esperienza comune constatare la circostanza per cui la maggior parte delle remissioni - spesso immotivate - di querela provengano da persone offese sprovviste di un difensore).
È anche da qui che passa la pienezza della tutela: poter agire e partecipare al processo ad “armi pari”.
M. I. L’esperienza di Alessandra è quella di tanti pubblici ministeri in giro per l’Italia ed è anche la mia, che mi occupo di violenza domestica e di genere ormai dal 2004, prima in Sicilia e poi in Emilia Romagna.
Da maschio poi a volte c’è un ostacolo in più da superare nel tentativo di entrare in un clima di fiducia con la persona che dobbiamo ascoltare. Anche perchè non devono semplicemente testimoniare qualcosa che gli è accaduto, ma in qualche modo è la loro vita a dover essere sintetizzata in poche pagine di racconto, come se la descrizione di alcuni episodi potesse davvero raccontare magari anni di sofferenze, fatiche, paure e silenzi. Non va dimenticato che, soprattutto se parliamo di maltrattamenti, la vittima emerge quasi sempre da un percorso sommerso, da un periodo, a volte lungo anche anni, di soggezione. Spesso solo un episodio molto grave ovvero l’intervento di qualche esterno consentono di rompere il muro di solitudine nel quale il maltrattamento aveva confinato la donna.
Tuttavia, se parliamo di comunicazione c’è un altro aspetto fondamentale su cui dovremmo riflettere insieme a coloro che si occupano di raccontare all’opinione pubblica questi fatti drammatici: quale immagine del fenomeno viene restituita ai cittadini?
Provo grande amarezza nell’osservare che l’informazione si concentra ed enfatizza quasi esclusivamente le storie finite male, le vicende tragiche nelle quali si è arrivati all’irreparabile. È comprensibile questa attenzione, ma ci sono limiti in questo tipo di approccio.
Anzitutto si asseconda un’attenzione morbosa verso i dettagli di una vicenda specifica, tra l’altro con una rappresentazione dei fatti spesso lacunosa e più volta a ottenere una narrazione ad effetto piuttosto che rigorosa nel controllo delle fonti (e qui si aprirebbe peraltro il grosso problema di una cronaca giudiziaria spesso costruita su indiscrezioni o versioni parziali di secondo o terza mano, in fasi in cui i veri atti sono coperti dal segreto investigativo).
Per altro verso, inoltre, non vi è la capacità (e forse la volontà) di spiegare il fenomeno in senso più ampio, così da far comprendere a chi legge quali sono le cause e le criticità da affrontare. La notizia suscita indignazione, commozione e poi magari rabbia e sfiducia, senza offrire invece strumenti di riflessione e conoscenza, che invece sarebbero il presupposto essenziale per un dibattito pubblico costruttivo e di stimolo alla politica.
Un certo tipo di basso giornalismo sembra solo in cerca di facili clic sulla notizia e di comodi capri espiatori da indicare alla rabbia del lettore. Intendiamoci: ci sono anche casi nei quali il tragico esito non è soltanto l’epifenomeno di una diffusa violenza contro le donne, ma anche il risultato di errori ed omissioni più o meno gravi di chi poteva e doveva intervenire (autorità giudiziaria e forze dell’ordine in primis). Ma non è sempre così, anche perché andrebbe spiegato che il diritto penale serve a punire i fatti del passato e non è uno strumento di prevenzione generale capace di anticipare e scongiurare ogni femminicidio.
Inoltre sarebbe essenziale anche raccontare le tante storie quotidiane in cui invece lo Stato ha saputo intervenire e interrompere gli abusi fisici e psicologici, avviando un percorso di emancipazione e giustizia. Purtroppo le notizie di reato di codice rosso sono migliaia (nella provincia di Bologna ne arrivano mediamente 7/8 al giorno), ma fortunatamente nella grande maggioranza dei casi il procedimento penale si attiva con efficacia e fornisce una risposta efficace e concreta a tante vittime.
Quel che vedo guardando i giornali fornisce una narrazione falsata e mistificante. Per usare una nota metafora: si racconta solo l’albero che cade e non si mostra la foresta che cresce. Ciò è frustrante non tanto per il mancato riconoscimento del prezioso lavoro svolto ogni giorno da forze dell’ordine, magistrati, avvocati, psicologi e assistenti sociali… quanto perchè in questo modo si semina quel senso di sfiducia, isolamento e ineluttabiità che è proprio uno dei fattori che perpetua e aggrava le violenze, perchè induce le vittime a non denunciare, nella convinzione che non servirebbe a nulla.
Questo drammatico luogo comune va seccamente smentito, diffondendo invece tutte le informazioni che possono invece incoraggiare la denuncia e sostenerla.
Va spiegato che ci sono molti strumenti efficaci, che la difesa è gratuita, che gli uffici giudiziari trattano in modo sempre più efficace e tempestivo questi processi e che esiste una rete di aiuto per uscire dalla trappola della violenza e della sottomissione.
A. R. È di fondamentale importanza cogliere lo spunto offerto da Marco per affermare come l’unica evoluzione possibile in tema di tutela contro la violenza di genere passi necessariamente tanto per la costruzione di canali di comunicazione reali quanto per l’abbandono di una narrazione tossica di questi fenomeni: il sensazionalismo demagogico che sempre più spesso accompagna la trattazione mediatica di questi episodi offusca la verità - anzi, le verità che si intrecciano nel vissuto di un individuo, di una relazione o di un contesto familiare - ed impedisce di progredire realmente nel percorso di adozione di misure efficaci per la prevenzione e la tutela, in ambito giudiziario ma soprattutto - mi preme sottolinearlo - extragiudiziario.
In questo senso, ad esempio, all’atto della diffusione di un comunicato stampa, così come nel corso di un intervento mediatico relativo ad un determinato episodio di violenza di genere o endo-familiare che ha condotto all’affermazione di responsabilità dell’imputat*, si potrebbe cogliere l’occasione per rappresentare l’importanza di aver acquisito un elevato numero di testimonianze a riscontro del narrato della persona offesa o, al contrario, la difficoltà di operare in un contesto caratterizzato da una pervasiva reticenza manifestata dalle persone a conoscenza dei fatti; o, ancora, evidenziare l’incisività del contributo a sostegno della persona offesa fornito dagli enti presenti sul territorio o, al contrario, l’assenza o la carenza sul territorio di servizi di assistenza per i soggetti tossicodipendenti o che soffrono di patologie psichiatriche e per le loro famiglie; ciò per consentire alla collettività che chiede sempre più a gran voce una risposta di giustizia a fronte di dette vicende di poter percepire concretamente quante risorse sono necessarie, quanti ostacoli si incontrano lungo un percorso giudiziario efficace e rispettoso dei diritti e della garanzie costituzionali, e che non spetta solo all’Autorità giudiziaria ricercare le prime e rimuovere i secondi.
È scontato osservare come il profilo della comunicazione istituzionale degli uffici giudiziari, in particolare su temi sensibili, sia estremamente delicato, lambendo i confini intoccabili dell’imparzialità propria della funzione giudiziaria - che tanto più oggi devono essere messi al riparo dagli echi di vari - ismi striscianti: opinionismo, esibizionismo, egocentrismo, tutti derivati del primo attributo da ripudiare già all’atto di giuramento sulla nostra Costituzione: la vanità personale - ma è irrinunciabile continuare a concepire la figura del magistrato come interprete, non solo delle norme, ma altresì del fatto storico oggetto del processo quale espressione dello spaccato sociale di riferimento, senza che ciò si traduca in un’indebita presa di posizione che non gli/le compete al di fuori delle aule giudiziarie, pena l’accettazione della figura del magistrato-burocrate che si limita a recepire e “ratificare” quanto sottoposto alla sua attenzione, con un impoverimento definitivo della funzione.
Pertanto sarebbe auspicabile che gli interventi richiesti ai capi degli uffici giudiziari da parte dei media, anzichè focalizzarsi sulla singola indagine o sul singolo procedimento, proponessero invece un punto di vista privilegiato e “grandangolare”, quale appunto quello del magistrato, sulla realtà su cui è chiamato ad operare, evidenziandone le criticità e le necessità, per un contrasto a questa tipologia di violenza che non resti solo vincolato ad una superfetazione delle ipotesi di reato o alla lievitazione delle cornici edittali delle pene ma che riesca a farne emergere le cause più profonde e radicate.
A tal fine mi preme condividere un’ultima riflessione: nell’arena del dibattito pubblico perchè non riservare più spazio a sanitari, sociologi, psicologi, educatori, assistenti sociali, insegnanti, e a tutti quegli operatori inseriti nelle realtà più prossime alle persone coinvolte nelle vicende di cui ci occupiamo (consultori, centri anti-violenza, scuola, servizi sociali, centri di salute mentale, etc.)? Chi meglio di loro per aiutare la collettività a superare il momento - fisiologico, ma tutto istintivo - dell’indignazione, e finanche della rabbia, per approdare a quello della presa di coscienza che una storia non è mai uguale ad un’altra e che, allo stesso tempo, non è mai di “una” storia che si parla, bensì di una rete in cui quella storia nasce, matura, sprofonda? Tracciare le fila di quella rete è complesso, e la complessità non vende e non attira, perchè richiede a ciascuno di noi molto più tempo e sforzo di quello impiegato a spulciare, ad esempio, nei meandri della vita sessuale della vittima o dell’imputat*. Bisogna lottare per spostare lo sguardo.
M. I. Per avere una magistratura capace di comprendere un fenomeno così complesso e delicato, intervenire con efficacia ed anche di comunicare in modo appropriato con l’opinione pubblica, come giustamente auspica Alessandra, va affrontata la grande sfida della specializzazione. La specializzazione si declina in molti aspetti:
1. l’aver approfondito la materia dal punto di vista giuridico ed essersi aggiornato tramite corsi di formazione e seminari;
2. aver maturato esperienza diretta, auspicabilmente accanto a colleghi più anziani che potessero dare consigli e suggerimenti;
3. approfondire anche le diverse discipline strettamente connesse con le indagini di codice rosso, confrontandosi in particolare con il mondo della psicologia giuridica, fondamentale per poter approcciare correttamente l’audizione delle vittime e soprattutto delle vittime minorenni.
Una simile specializzazione può ottenersi solo all’esito di un percorso e a condizione che (a) si riesca a dedicarsi in modo prevalente a questo settore e (b) che vi sia una reale motivazione di base.
Entrambe queste condizioni non sono scontate:
a. negli uffici medio-piccoli è raro che ci si possa permettere una reale specializzazione, specie in una materia che produce così tante pendenze e urgenze (e che quindi tendenzialmente chiede l’impegno di molti colleghi all’interno dell’ufficio); sotto questo punto di vista andrebbe fatta una riflessione sulla struttura delle piante organiche e sulla sostenibilità degli uffici più piccoli, nonostante possa per altro verso essere un fattore utile la vicinanza territoriale;
b. la motivazione è un fattore difficilmente valutabile, ma la realtà degli uffici è che non sempre si riescono a valutare e valorizzare le effettive attitudini e inoltre negli ultimi anni la materia dei reati di codice rosso tende ad essere evitati da molti pubblici ministeri, anche per il particolare stress che comporta e i rischi di esposizione a fronte di vicende non sempre controllabili e prevenibili con gli strumenti del processo penale: a questo riguardo andrebbe ribaltata la logica di sfiducia e pressione che guida le recenti riforme, cercando piuttosto di sostenere il lavoro del magistrato dal punto di vista qualitativo, investendo sulla valorizzazione dei percorsi formativi e sulla responsabilizzazione.
Conclusioni
Ci auguriamo che queste brevi riflessioni possano richiamarne altre, nell’ottica di una sempre più aperta e sincera condivisione delle questioni trattate e delle tante altre, ugualmente urgenti e trasversali, che ci interessano in tema di violenza di genere; ma il punto di partenza resta quello per cui è compito delle istituzioni coltivare e comunicare fiducia nelle Forze dell'ordine e nell'Autorità giudiziaria, che a loro volta potranno trasmetterla agli utenti della giustizia attraverso il proprio lavoro quotidiano. Al contrario, qualsiasi novella o modifica normativa, pur se mirabilmente introdotta e animata dai migliori intenti, si rivelerà del tutto inetta all’atto della prova pratica perché le vittime resteranno più fragili e nascoste nel cono d’ombra dei drammi che si svolgono spesso tra le mura domestiche: in questo senso, possiamo affermare che le innovazioni introdotte dal cd. Codice Rosso, alcune delle quali sicuramente rilevanti - come l’introduzione del co. 1ter nell’ambito dell’art. 362 c.p. che impone la sottoposizione, nell’immediato, delle vicende in oggetto all’attenzione del Sostituto Procuratore titolare del procedimento - non accompagnate da interventi organici realmente incisivi sul tessuto sociale si siano rivelate claudicanti (basti pensare alla previsione di cui al co. 5 dell’art. 165 c.p. secondo cui “Nei casi di condanna per i delitti di cui agli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612 bis, nonché agli articoli 582 e 583 quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”: la prassi processuale quotidiana ce la restituisce come lettera vuotaper mancanza di enti o strutture pubbliche cui rivolgersi per intraprendere i predetti percorsi - tralasciando, peraltro, le molteplici perplessità già di impostazione teorica circa una disposizione che, in sostanza, intende il percorso di recupero non come una scelta spontanea e genuina ma bensì condizionata all’ottenimento di un beneficio processuale).
Se quindi si rende indispensabile un grande investimento nella formazione (continua) degli operatori (magistrati, avvocati, forze dell’ordine) nell’ottica di un crescente miglioramento della specializzazione e di un costante dialogo tra loro e con le altre professioni coinvolte nell’accertamento e nel contrasto al fenomeno, al tempo stesso è la politica a dover elaborare reali percorsi di educazione (e rieducazione) al contrasto ad ogni forma di violenza, con particolare riferimento alla questione di genere (all’interno, evidentemente, di un progetto più ampio volto alla piena emancipazione del mondo femminile e alla promozione delle pari opportunità).
Infine, ci sia consentito di osservare che, pur consapevoli della grande responsabilità assegnata al processo penale, questo non potrà mai assurgere, da solo, alla funzione di risolvere fenomeni criminali con anche profondi radici culturali e sociali; soprattutto non si può pensare di delegare ad un sistema costruito per l’accertamento e la sanzione di specifiche responsabilità per fatti già commessi l’ulteriore compito di prevenire reati che si radicano in situazioni di disagio (psicologico, sociale, economico, culturale) assai profonde e che richiedono strategie di ampio respiro ad ogni livello.
*Sostituto Procuratore presso la Procura presso il Tribunale di Torre Annunziata.
**Sostituto Procuratore presso la Procura presso il Tribunale di Bologna.
La violenza di genere e gli stereotipi contro le donne in Italia
di Silvia Fornari
Parole chiave: violenza di genere – stereotipi – donne italiane.
Abstract: La gender based violence (GBV), è un fenomeno la cui dimensione ancora non emerge totalmente. Si tratta di una violazione diffusa e sistematica dei diritti umani fondamentali e una forma duratura di discriminazione basata sul genere. Le ricerche sul tema mostrano lo stretto legame con l’interiorizzazione sociale delle forme di dominio simboliche prodotte dalla cultura dominante attraverso l’uso degli stereotipi di genere e sessisti.
Sommario: 1. Breve introduzione - 2. Quali disuguaglianze e quali stereotipi di genere - 3. La costruzione di un’identità paritaria.
1. Breve introduzione
La gender based violence (GBV), è un fenomeno la cui dimensione ancora non emerge totalmente. Nel 1995, durante i lavori della quarta Conferenza delle Nazioni Unite a Pechino, si è sottolineata l’esistenza di soggettività fino ad allora destinate al nascondimento e alla subordinazione. La complessità della relazionalità maschile e femminile mostra e giustifica la superiorità dei posizionamenti maschili, attraverso l’interiorizzazione sociale del dominio simbolico (Bourdieu 1998). Nella sottomissione della donna la violenza di genere trova una risposta, anche in considerazione del fatto che la stessa è definita come una violazione diffusa e sistematica dei diritti umani fondamentali e una forma duratura di discriminazione basata sul genere. Dalla dichiarazione dell’ONU emerge l’idea ormai condivisa che la violenza contro le donne sia di fatto «la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne» (Ventimiglia 1987). Senza dimenticare che la riproduzione della violenza di genere si determina attraverso un dispositivo che Bourdieu chiama “violenza simbolica” (1998), che rende invisibili le diseguaglianze e le asimmetrie in cui si situano le violenze. Seguendo questa linea, proprio perché la violenza è un fatto culturale e politico che attiene ai rapporti di potere e alle diseguaglianze di genere in tutti gli ambiti di vita degli uomini e delle donne, non possiamo continuare a pensarla come un destino biologico. La violenza si può dismettere, tenendo fede a quanto dichiarato dalla Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata anche dall’Italia il 27 giugno 2013.
2. Quali disuguaglianze e quali stereotipi di genere
Se la violenza di genere non è un destino biologico, ma un dato culturale e sociale, giocano un ruolo centrale le disuguaglianze e gli stereotipi di genere riprodotte all’interno dei processi di socializzazione primaria e secondaria. Trattandosi di un processo che vede coinvolti tutti e tutte in diverse fasi della vita, siamo continuamente influenzati/e e definiti/e dalle agenzie di socializzazione. Tutte le diverse agenzie, formali e informali (famiglia, scuola, politica, religione, mezzi di comunicazione, ecc.) influenzano la costruzione dell’identità maschile e femminile. In una cultura patriarcale e sessista viene veicolata una rappresentazione del genere femminile sottomesso al potere maschile, elaborando l’oggettivazione del corpo femminile, in cui «le donne esistono innanzitutto per e attraverso lo sguardo degli altri, cioè in quanto oggetti accoglienti, attraenti, disponibili. Da loro ci si attende che siano “femminili”, cioè sorridenti, simpatiche, premurose, sottomesse, discrete, riservate se non addirittura scialbe. E la pretesa “femminilità” non è spesso altro che una forma di compiacenza nei confronti delle attese maschili, reali o supposte, soprattutto in materia di esaltazione dell’ego» (Bourdieu 1998: 80).
La categoria del genere ha consentito di superare l’innatismo che giustificava da sempre l’esclusione delle donne, svelandone la sua costruzione sociale; far uscire la componente femminile dall’invisibilità presunta; far emergere la disuguaglianza tra maschi e femmine nei diversi campi in cui si manifestano e come poterle oltrepassare. Il superamento della sottomissione del femminile parte dalla lettura congiunta dei fenomeni, in quanto l’una e l’altra parte sono in rapporto secondo un ordine gerarchico che avvantaggia il maschile. La lettura del duplice carattere sessuato della vita sociale e delle disuguaglianze che vengono prodotte è una delle nuove chiavi di lettura e interpretazione della complessa realtà sociale odierna (Zanfrini 2011).
Una complessità in cui il nostro immaginario quotidiano si forma attraverso i processi di astrazione e definizione della realtà, ovvero con e grazie agli stereotipi. Forme predefinite, fisse, che si imprimono nella memoria, nel pensiero, nella cultura, nelle relazioni; una forma di semplificazione rozza, con la quale si pretende di descrivere una realtà molto più complessa. Nel nostro paese è stato posto all’attenzione anche dall’ISTAT l’influenza degli stereotipi di genere in relazione ai casi di violenza di genere (https://www.istat.it/it/files//2019/11/Report-stereotipi-di-genere.pdf). Dall’indagine emerge la presenza nella nostra cultura di stereotipi di genere legati ai ruoli svolti dalle donne e dagli uomini nella nostra società italiana. Emerge soprattutto il radicamento degli stessi che esposti insieme all’atteggiamento della società verso i comportamenti violenti, giustificati dalla cultura maschilista e patriarcale, ci offrono le chiavi per leggere il fenomeno della violenza di genere. Inoltre, non possiamo dimenticare che la violenza contro le donne e in particolare della violenza domestica, sono fenomeni multiformi e complessi, radicati nella cultura di genere ed è per questo che si rende necessario rilevare i modelli stereotipati legati ai ruoli delle donne e degli uomini così come l’immagine sociale della violenza. Solo attraverso la conoscenza dei nostri comportamenti differenziati è possibile comprendere le cause della violenza e monitorarle nel tempo, al fine di valutare, almeno parzialmente, l’impatto sulla popolazione delle politiche inerenti alla prevenzione della violenza in termini di cambiamento culturale. Non dimentichiamo che gli stereotipi svolgono una funzione cognitiva e orientativa, permettendo la previsione degli eventi sulla base del sistema sociale e culturale di riferimento. Lo stereotipo è anche l’anticamera del pregiudizio, il quale ritorna nella dimensione normativa del vivere sociale (Sacca 2021). Anche per questa ragione una società patriarcale e sessista con fatica riesce a porre come centrali le politiche paritarie per gli uomini e per le donne nei diversi settori di vita (istruzione, lavoro, politica, ecc.), tali da permettere l’emancipazione di quella più svantaggiata (Biemmi, Leonelli 2016).
3. La costruzione di un’identità paritaria
La costruzione dell’identità femminile e maschile non può quindi prescindere dallo scambio dei due mondi in senso simbolico e sociale, nel superamento di stereotipi consolidati. Riuscire a cambiare i riferimenti stereotipati che vanno a influenzare le nostre scelte di vita, porterebbe alla liberazione primariamente delle donne, aiutandole nel processo di emancipazione e superamento delle barriere che le si interpongono nel corso della vita. Sono le nuove generazioni, di ragazze e ragazzi ancora in divenire che possiamo aiutare a oltrepassare preconcetti e chiusure mentali.
In questo quadro le nuove generazioni, cresciute in un mondo democratico e paritario, in cui tutte le battaglie per il raggiungimento dei diritti sono state conquistate da altri e spesso date per scontate, sono realmente scevre da stereotipi nei confronti delle disuguaglianze di genere?
L’educazione e la formazione continua sono i principali strumenti per proporre una lettura alternativa della visione stereotipata dei due generi (la donna dolce e accogliente, l’uomo freddo e dominante) (Gianini Belotti 1973). Una gerarchizzazione tra i sessi che condiziona, anche inconsapevolmente, i nostri comportamenti e ci costringe a non vedere dove e come nasce la relazione “vittima-carnefice”. Il superamento della contrapposizione e della competizione tra i generi sarà possibile quando entrambi riusciranno a leggere il proprio ruolo politico e sociale sulla base del sostegno e della reciprocità (Mapelli, 2017).
Si tratta di proporre schemi educativi volti al rispetto della differenza spostando lo sguardo, per riuscire a dare significato all’agire educativo, in quanto la differenza sessuale non è un contenuto. La dualità del mondo (Irigaray 1992), in quanto composta di uomini e donne, deve rimanere centrale se l’obiettivo è la crescita delle persone, nella visione relazionale senza far prevalere la visione dell’uno e dell’altro come prevalente, ma in uno scambio continuo. Educare nella differenza equivale a tenere in considerazione entrambi i mondi culturali, quello del femminile e quello del maschile (Ciccone 2009; Connell 1995), senza pretesa di evitamento e/o azzeramento dell’uno o dell’altro (Heritier 1997). Superare le discriminazioni culturali e di conoscenza vuol dire mostrare che oltre ai modelli presenti, che costituiscono la tradizione culturale maschile, vi è una visione femminile, che non vuole sostituirsi a quella maschile, ma che chiede di essere conosciuta, mostrata e criticata. Far conoscere nella sua complessità la visione del femminile significa anche riuscire a superare lo stereotipo dell’immagine della donna, trasmessa da secoli di tradizioni, in due immagini opposte: quella positiva della donna angelica, dedita alla famiglia e al focolare domestico; quella negativa della donna "diavolo tentatore". In mezzo vi è un mondo di sfumature, quelle delle donne che quotidianamente si muovono nel mondo e che tra cura e lavoro costruiscono e partecipano alla rappresentazione delle tante immagini del femminile. Le ragazze, ma anche i ragazzi, così come le bambine e i bambini, devono e possono essere stimolati a costruire la loro identità di genere solo se riusciranno a ricevere gli strumenti per leggere senza preconcetti il mondo circostante. Le parole necessarie per realizzare questo passaggio di consegne sono ancora oggi quelle di Virginia Wolf, che ha dimostrato con il suo impegno quotidiano quanto fosse necessario intervenire e cambiare il processo di produzione culturale unico ed indiscutibile, quello “maschile”: “Poiché c'è dietro la testa un posticino non più grande di una moneta da uno scellino, che non riusciamo mai a vedere da soli. Ed è quello uno dei servizi che il nostro sesso può rendere all’altro sesso: descrivere quel posticino non più grande di uno scellino dietro la testa. [...] Pensate con quanta umanità e con quanta eleganza gli uomini, dalle origini del mondo, hanno indicato alle donne quel posto buio dietro le loro teste! [...] Non si può dipingere un ritratto vero dell’uomo nella sua integrità, finché una donna non ha descritto quella macchia non più grossa di uno scellino” (Woolf 1998).
Bibliografia
Biemmi I., Leonelli S. (2016), Gabbie di genere. Retaggi sessisti e scelte formative, Rosenberg & Sellier, Torino.
Bourdieu P. (1998), Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano.
Ciccone S. (2009), Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, Torino.
Connell R. W. (1995), Maschilità, Feltrinelli, Milano;
Gianini Belotti E. (1973), Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Feltrinelli, Milano.
Héritier F. (1997), Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari.
Irigaray L. (1992), Io tu noi. Per una cultura della differenza, Bollati Boringhieri, Torino.
Mapelli B. (2017), Nuove intimità. Strategie affettive e comunitarie nel pluralismo contemporaneo, Rosenberg & Sellier, Torino.
Sacca F. (2021), Stereotipo e pregiudizio, La rappresentazione giuridica e mediatica della violenza di genere, FrancoAngeli, Milano.
Sartori F. (2009), Differenze e disuguaglianze di genere, il Mulino, Bologna.
Ventimiglia C. (1997). “Interrogarsi come genere. Perché la violenza maschile”, Rivista di Sessuologia (2), 145-154.
Woolf V. (1998), Una stanza tutta per sé, Mondadori, Milano.
Zanfrini L. (2011), Sociologia delle differenze e delle disuguaglianze, Zanichelli, Bologna.
“Sentiamo un po’ cosa sanno dirmi questi malandrini”: alcune riflessioni su infanzia e adolescenza nell’opera di Pasolini
di Maria Federica Moscati
L’intento di questo scritto è condividere alcune iniziali riflessioni di una ricerca ancora in corso su come l’infanzia e l’adolescenza siano rappresentate nell’opera di Pasolini e una sua comparazione con il diritto e i metodi di ricerca. Come suggerito dalla citazione nel titolo, queste brevi riflessioni si concentrano su Comizi d’Amore.[1]
In generale, infanzia e adolescenza hanno un ruolo importante nell’opera di Pasolini. Pasolini racconta la propria infanzia e l’adolescenza, ma dedica spazi importanti a bambini/e, adolescenti e giovani adulti. Mamma Roma, Edipo Re, Ragazzi di Vita sono solo alcuni esempi di tale narrazione. A ben guardare, quella che ne esce è una fotografia di bambini/e ed adolescenti non considerati ‘minori’ ma persone. Benché raccontati alcune volte di adolescenti in situazioni di degrado, e benché all’epoca la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza (1989) ancora non esistesse, bambini/e ed adolescenti sono comunque considerati/e non solo in termini di protezione ma soprattutto come agenti. Inoltre, potremmo spingerci quasi a sostenere che Pasolini adotti un approccio contestuale e intersezionale nella sua rappresentazione: età, genere, classe sociale, livello di istruzione, relazioni familiari, ambiente sono analizzati e utilizzati per raccontare l’infanzia. Lontano da una visione paternalistica italiana, per la quale bambini/e e adolescenti sono considerati estensione dei genitori, i bambini, bambine e adolescenti in Pasolini non sono infantilizzati ma empowered. Questa visione agente e partecipativa di bambine/i e adolescenti non sempre è condivisa da diritto, politiche e programmi scolastici, o dall’etica metodologica da applicare quando si sviluppano ricerche con bambini/e e adolescenti.[2]
Comizi d’Amore, film inchiesta girato agli inizi degli anni 60 e basato su interviste riguardo vari aspetti della sessualità, è un’opera in cui partecipazione e ascolto confluiscono. Tra le varie persone che Pasolini intervista vi sono bambine/i e adolescenti di varie età. Perché tutto questo sarebbe originale, qualcuno potrebbe chiedere?
L’innovativa unicità non è solo nei temi ma anche nella metodologia e nei metodi partecipativi utilizzati da Pasolini – l’autore racconta infanzia e adolescenza ma lo fa adottando metodi partecipativi anche su temi, quali la sessualità, che ancora oggi, occultati da stigma e pseudo protezione per l’infanzia, sono ritenuti non alla portata di bambine/i e adolescenti. Le domande sono dirette, il tono loquace e inclusivo ma mai infantilizzato, il linguaggio è tecnico (o meglio è lo stesso utilizzato per le domande poste agli adulti).
L’ approccio metodologico che Pasolini usa, analizzato alla luce delle procedure e principi etici da seguire per ricerche che coinvolgano minori di età, avrebbe richiesto considerevoli cambiamenti prima di essere approvato. Ad esempio, Comizi d’Amore si apre con la frase ‘Sentiamo un po’ cosa sanno dirmi questi malandrini’. Al giorno d’oggi potremmo comprendere come si eviterebbe di usare la parola ‘malandrino’ perché potrebbe essere considerata denigrante. Seguire principi etici quando si fa ricerca empirica è doveroso, e lo è di più quando bambine/i e adolescenti sono coinvolti. Ugualmente importante è cercare di proteggere chi partecipa in progetti di ricerca da rivittimizzazione, imbarazzo, domande denigratorie. Ma una riflessione sul trovare un giusto equilibrio tra protezione e infantilizzazione quando si sviluppano ricerche partecipative con bambine/i e adolescenti è necessaria.
In questo senso, non si potrebbe considerare che il tono scherzoso nel dire ‘malandrino’ non risulti comunque meno offensivo del termine ‘minore’? Il linguaggio si presta a essere adoperato come strumento sia di emancipazione sia di oppressione, sia per sottolineare posizione di potere. Come esempio di linguaggio usato per emancipare penso alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza (1989). La Convenzione adopera il termine child che non ha nessun riferimento a genere o sesso – include entrambi bambina e bambino.[3] Non è un caso che la Convenzione usi la parola ‘bambino/a’ e non ‘minore’ e che si usi il singolare e non il plurale. Questo linguaggio è sintomatico di una rinnovata visione dell’infanzia in cui ogni singolo bambino/a è titolare di diritti propri e differenti da quelli degli adulti. Come esempio invece di oppressione e sbilanciamento di potere penso al nostro ordinamento e all’utilizzo della parola ‘minore’ che ricorre spessissimo in giurisprudenza, dottrina, e in testi normativi. La parola ‘minore’ sembra quasi connotare una posizione di inferiorità di coloro che non hanno ancora compiuto 18 anni e giustificarne la relativa compressione dei diritti e subordinazione a interessi e decisioni degli adulti.
Ancora, le domande che Pasolini pone riguardano la sessualità in svariate sfaccettature incluso il divorzio, l’omosessualità, e la differenza tra sessualità e amore. Queste tematiche ci portano a considerare se e come la voce di bambine/i e adolescenti sia effettivamente ascoltata. Per esempio, ascoltare la voce di bambini/e e adolescenti durante il divorzio è un tema dibattuto da ricercatori e professionisti di vari ambiti in vari paesi e sempre di più riceve consenso includere bambini/e e adolescenti durante la mediazione familiare. La ratifica della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e Adolescenza ha contribuito allo sviluppo dell'idea che la partecipazione sia ora ritenuta necessaria nel corso del procedimento di separazione, divorzio e quelli relativi allo scioglimento della convivenza. Tuttavia, dubbi ancora rimangono sulla discrezionalità nel decidere se la partecipazione corrisponda ai best interests e sul peso che la voce di bambini/e abbia sulla decisione finale.
Altro esempio, domandare ‘che differenza fai tu tra sessualità e amore’, nel porre le domande, e nel riassumere quello che bambini/e dicono, Pasolini sembra anche cercare di educarli/e alla sessualità. Questo stride con la mancanza in Italia di politiche scolastiche che sviluppino percorsi adeguati in tema di educazione all’affettività e alla sessualità.
Più avanti nei Comizi, Pasolini fa a una madre domanda sull’orientamento sessuale del figlio. Il fatto stesso di chiedere un’opinione su tale argomento stride con l’attuale invisibilizazione di bambini/e e adolescenti LGBTIQ[4] in Italia. I diritti di bambini e adolescenti LGBTIQ sembrano scomparire o almeno diventare evanescenti dai discorsi legali. Eppure è noto che tali bambine/i e adolescenti siano sottoposti a violazioni, abusi e limitazioni. Insieme ad una cultura generale dell’eterosessualità, penso che l’approcciare la sessualità di bambini ed adolescenti quale tabù o quale argomento delicato da lasciare alla clinica, alla patologia, o relegare a discussioni da tenersi sottovoce per evitare che si urtino sensibilità e menti, ha come effetto solo il mettere ancora più a rischio le loro vite. Ho l’impressione che una certa cultura di quello che io chiamo il falso rispetto e falso interesse nella protezione dei diritti contribuisca in realtà a non rispettare tutti quei bambini/e e adolescenti che non si conformano al modello binario maschio-femmina eterosessuale. È come se consapevolmente si sia deciso di negare l’esistenza di tutto ciò che non sia eterosessuale o non rientri nel binarismo maschio/femmina.
Curiosità, rispetto e inclusione caratterizzano, a mio avviso, le conversazioni tra Pasolini e bambini/e e adolescenti in Comizi d’Amore...ciò che bambine, bambini e adolescenti necessitano anche nel diritto, sua interpretazione e applicazione.
[1] Per una generale disamina di Comizi d’Amore, si veda: Antonelli Carli, Laura (2015) ‘Comizi d’amore di Pasolini e l’Italia degli anni Sessanta’, disponibile al sito: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/approfondimenti/comizi-damore-di-ppp-mappa-italiana-della-sessualita/. Si veda anche Halliday, Jon (1969) Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Milano: Uno Guanda Editore, Capitolo 5 ‘Comizi d’amore’ e ‘La Rabbia’, pp. 93-97.
[2] Si veda ad esempio: https://childethics.com/reflexive-tool/#1638255296107-ca845caf-d8bb
[3] Bilotta, F. e Moscati, M.F (2020) “Nella Giornata dell’Infanzia si dia valore alla Convenzione che tutela i diritti dei bambini”, Il Dubbio.
[4] Lesbica, gay, bisessuale,trans, intersex, queer.
La spada penale trafigge i rave party. Osservazioni attorno al nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi (art. 434 bis c.p.)” di Licia Siracusa
Sommario: 1. La genesi politico-criminale del nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi” - 2. Il primo comma dell’art. 434 bis c.p.: la condotta di invasione arbitraria a scopo di raduno - 3. I soggetti attivi del reato - 4. Note conclusive - 5. La proposta di emendamento del Governo volta a “normalizzare” la disposizione.
1. La genesi politico-criminale del nuovo reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi”
Con il Decreto-legge 31 ottobre 2022 n.162, il governo in carica ha introdotto nel codice penale, all’art. 434 bis, la nuova figura delittuosa dell’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Il fine dichiarato dell’intervento normativo è di prevenire e contrastare il fenomeno “dei grandi raduni musicali, organizzati clandestinamente (c.d. rave party)”; come si legge testualmente nella - per la verità, stringatissima - relazione illustrativa della disposizione.
Mai, come in questo caso, la sintesi giornalistica utilizzata dai mezzi di comunicazione per commentare una nuova fattispecie di reato è riuscita ad esprimere in maniera tanto precisa le reali finalità politico-criminali perseguite dal legislatore e le effettive intenzioni del Governo: l’art. 434 bis c.p. è stato concepito sin dal principio come una norma penale “anti-rave party[1]”. Tanto la citata Relazione illustrativa, quanto le dichiarazioni ufficiali rese dalla Presidente del Consiglio dei ministri e dal Ministro degli Interni hanno chiaramente confermato come l’obiettivo dell’esecutivo sia di punire i partecipanti e soprattutto, i promotori e gli organizzatori dei c.d. “rave party[2]”.
Altrettanto di rado, lo slogan securitario posto alla base di un’opzione di politica-criminale è stato palesato in modo tanto inequivoco e senza alcun tipo di infingimento da parte delle forze politiche promotrici: si intende colpire con durissime sanzioni penali il fenomeno dei rave party. Poco importa se, così facendo, vi è il rischio di introdurre norme penali incostituzionali; o se ciò determina una pericolosa deviazione dai canoni di sussidiarietà, frammentarietà ed extrema ratio che dovrebbero guidare le scelte di incriminazione del legislatore verso un modello di diritto penale razionalmente orientato. Il fine giustifica i mezzi.
A fronte di cotanta nettezza, risulterebbe dunque ridondante - oltre che scientificamente improficuo - restringere le ragioni di un’analisi dettagliata della nuova incriminazione esclusivamente all’urgenza di stigmatizzarla come un’ennesima manifestazione di populismo penale da parte del legislatore[3]. Che si tratti di un intervento normativo generato dall’irrazionale “passione di punire” che affligge l’età contemporanea[4], non vi è alcun dubbio. Lo stesso legislatore non ne ha, del resto, fatto mistero.
Più che per i profili di politica-criminale, la nuova fattispecie incriminatrice suscita invero interesse per aspetti squisitamente tecnici. Dal punto di vista lessicale e strutturale, essa appare talmente farraginosa, sciatta e tautologica da mettere a dura prova l’abilità esegetica anche di penalisti di chiara fama[5]. Il tentativo di attribuirle un qualche plausibile significato mette di fronte ad un vero e proprio rompicapo da cui si può ricavare una cartina di tornasole rispetto ad una modalità di errato utilizzo delle categorie penalistiche; un esempio paradigmatico di come non andrebbe (mai) scritta una norma penale incriminatrice.
2. Il primo comma dell’art. 434 bis c.p.: la condotta di invasione arbitraria a scopo di raduno
Il primo errore tecnico commesso dal legislatore nella formulazione della nuova fattispecie si rinviene nell’incipit della stessa. La norma non si apre con la descrizione del fatto tipico, ma con una definizione esplicativa della rubrica che viene peraltro tautologicamente ripetuta nel contenuto della disposizione.
Com’è noto, le norme di carattere definitorio hanno lo scopo di chiarire il significato di elementi costitutivi del fatto tipico o di nozioni utilizzate dal legislatore penale con riferimento ad una pluralità di fattispecie incriminatrici (es. la definizione di pubblico ufficiale ex art. 357 comma 2 c.p.; la nozione di cosa mobile rilevante nell’ambito dei reati contro il patrimonio - art. 624 comma 2 c.p. etc.). Spetta invece alle norme penali incriminatrici il compito di descrivere la condotta tipica penalmente rilevante ed i soggetti attivi della stessa (es. chiunque cagiona la morte di un uomo etc.); ossia, contengono il precetto penalmente rilevante che opera nei confronti dei destinatari come un divieto.
Nel caso dell’art. 434 bis c.p., il legislatore compone la norma penale incriminatrice alla stregua di una norma definitoria, confondendo nella sostanza i due tipi di disposizioni e commettendo un imperdonabile errore tecnico. Bisogna così scorrere la disposizione sino ai commi successivi per riuscire ad individuare i soggetti attivi del reato; rispettivamente, i promotori e gli organizzatori dell’invasione (comma 1) e i partecipanti all’invasione stessa (comma 2). All’insolita scelta di impiegare una tecnica normativa di tipo definitorio nella redazione di una norma incriminatrice si aggiunge poi la sciatteria linguistica dell’aver utilizzato un verbo - “consistere” - che nel contesto della disposizione incriminatrice risulta del tutto pleonastico.
L’espressione “consiste” viene in genere usata per indicare gli elementi costitutivi di un dato di realtà, empiricamente definito. Il “consistere di qualcosa” ha infatti a che fare più con la dimensione ontologica di un ente materialmente esistente, che non con gli elementi di una fattispecie normativa astratta. Se anche si vuole utilizzare tale verbo per delineare i contrassegni di una fattispecie normativa tipica, l’impiego dello stesso all’interno di una norma incriminatrice suona come un’evidente tautologia. È come se, nel descrivere la condotta tipica del reato di omicidio, il legislatore esordisse nel seguente modo: «l’omicidio consiste nel cagionare la morte di un uomo». Si tratta di una trascuratezza linguistica davvero inaccettabile da parte di chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il lessico delle norme penali.
Dopo aver superato l’ostacolo espressivo, il lettore si imbatte finalmente nella descrizione degli elementi costitutivi del fatto tipico. Viene sanzionata l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici e privati. Evidente è, qui, il rinvio alla condotta tipica del reato di invasione arbitraria di terreni o edifici pubblici o privati commessa al fine di occupazione o di trarne altrimenti profitto (art. 633 c.p.). In entrambe le fattispecie incriminatrici, si punisce la condotta di invasione di un immobile realizzata arbitrariamente; ossia, commessa contra ius o in assenza di un legittimo titolo di accesso e per un periodo di tempo apprezzabile[6].
Rispetto alla fattispecie gemella, l’art. 434 bis c.p. presenta però una serie di elementi eterogenei. La prima differenza si rintraccia nel numero dei partecipanti all’invasione che nel nuovo delitto deve essere necessariamente superiore a cinquanta. Il secondo elemento differenziale investe invece il dolo specifico. Nella norma “anti-rave”, il fine di occupare o di trarre altrimenti profitto che connota l’invasione lesiva dell’altrui patrimonio viene sostituito dallo scopo di organizzare un raduno.
Nonostante le numerose affinità, la neonata disposizione non sembra tuttavia norma speciale rispetto all’art. 633 c.p.[7]; a meno di non voler ritenere che essa sia legata all’omologa fattispecie patrimoniale da un rapporto di specialità reciproca. Ciascuna delle due disposizioni incriminatrici presenta in effetti un nucleo di elementi comuni, elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra norma incriminatrice. Non si può, dunque, escludere che le due norme incriminatrici concorrano effettivamente; anche tenuto conto che ciò verrebbe avvalorato dall’eterogeneità dei rispettivi beni giuridici oggetto di tutela: il patrimonio nell’art. 633 c.p.; l’incolumità pubblica, la salute pubblica e l’ordine pubblico nel nuovo delitto di invasione arbitraria per raduni.
Dal punto di vista del reale disvalore penale sostanziale però, la soluzione del concorso effettivo non convince però del tutto. Essa determina un’irragionevole duplicazione sanzionatoria rispetto ad un fatto che esprime un significato unitario. Per questo, è preferibile ritenere che il più grave reato di invasione arbitraria a scopo di raduno assorba la più lieve fattispecie di invasione arbitraria, commessa al fine di occupazione o di profitto.
Non vi è dubbio, infatti, che perlomeno in alcuni casi, il dolo specifico di organizzare un raduno implichi anche il correlativo scopo di occupare. Nell’ambito di un normale quadro di vita, può accadere che l’orientarsi finalistico della condotta verso lo scopo di organizzare un raduno implichi una previa occupazione dell’immobile invaso, per un periodo di tempo sufficiente a consentire alla moltitudine di persone che compongono il raduno di accedervi. Non è perciò infrequente che un gruppo composto da più di cinquanta persone, il quale intenda avvalersi arbitrariamente di un’area o di un edificio altrui per organizzare un rave party, permanga nell’immobile invaso per un tempo apprezzabilmente maggiore a quello necessario ad integrare la semplice invasione, compatibile anche con la condotta di “occupare”. Ciò si verifica, in effetti, quando la carovana dei partecipanti al rave sosta con furgoni, camper o roulotte nell’area invasa per più giorni, prima e dopo lo svolgimento dello stesso rave party.
Da quanto detto emerge peraltro come l’oggettività giuridica del reato di cui all’art. 434 bis c.p. comprenda necessariamente anche la lesione patrimoniale, in quanto la condotta di invasione arbitraria risulta già di per sé offensiva del possesso e della proprietà altrui[8].
Con riguardo all’oggetto del dolo specifico di organizzazione del raduno invece, è stato correttamente osservato come il legislatore paia riprendere ivi una terminologia del codice fascista; in particolare, l’art. 655 c.p. che punisce le c.d. “radunate sediziose[9]”. Per esegesi consolidata, si ritiene che il nucleo della condotta tipica di tale norma incriminatrice imponga di leggere la nozione di radunata come inscindibile dall’aggettivo che la qualifica. A rendere penalmente rilevante la riunione di più persone è il fatto che essa risulti, per l’appunto, oggettivamente sediziosa; ossia, idonea a mettere in pericolo l’ordine pubblico in quanto volta a disconoscere i valori costituzionali dello Stato o ostile all’integrità, all’unità o all’indipendenza dello stesso; oppure, in quanto tende a determinare la discordia o il malcontento nella popolazione o atteggiamenti di ribellione e disobbedienza alla pubblica autorità[10]. Come nell’invasione arbitraria lesiva del patrimonio sussiste un nesso di interdipendenza teleologica fra la condotta materiale dell’invadere e il fine di occupare, anche nel reato di cui all’art. 655 c.p., la radunata trae interamente il proprio significato di disvalore penale dal suo orientarsi oggettivo a fini di “sedizione[11]”.
Tuttavia, la finalità di sedizione scompare nella radunata oggetto del dolo specifico della nuova norma “anti rave”; qui, è sufficiente che il raduno risulti astrattamente idoneo a porre in pericolo l’ordine pubblico, la salute pubblica o l’incolumità pubblica. La volontà di far convergere un numero indeterminato di persone nell’edificio o nel terreno arbitrariamente invaso deve, cioè, dirigersi verso l’organizzazione di un raduno di individui che non è necessario sia volto a realizzare uno specifico scopo collettivo, purché risulti potenzialmente in grado di porre in pericolo i beni collettivi sopra citati.
Come nel reato di cui all’art. 633 c.p. è il rapporto tra l’invasione e il fine di occupare l’immobile che determina il nucleo di significato penale della condotta punita, così, anche, l’invasione arbitraria ex art. 434 bis c.p. deve risultare oggettivamente conforme alla realizzazione della specifica finalità di organizzare un raduno che ne connota il vero contenuto di disvalore. L’invasione di immobili penalmente rilevante non può, cioè, che essere quella oggettivamente connotata dall’idoneità di realizzare il fine del raduno, il quale concorre a rafforzare l’offesa al bene giuridico del patrimonio, già realizzatasi con la semplice invasione arbitraria.
Dalla formulazione letterale della norma sembra poi che la capacità astratta di porre in pericolo l’incolumità pubblica, la salute pubblica o l’ordine pubblico costituisca una qualità del raduno, oggetto del dolo specifico; non una condizione obiettiva di punibilità, né un evento di pericolo che scaturisce dall’invasione arbitraria. L’espressione «quando dallo stesso può derivare un pericolo per…» è infatti chiaramente riferita nel testo della disposizione al contenuto del dolo specifico[12].
Trattandosi di un contrassegno offensivo della finalità specifica della condotta, non occorre che il pericolo si verifichi in concreto; come del resto non è necessario che abbia effettivamente luogo lo stesso raduno, essendo sufficiente che l’invasione arbitraria sia animata dalla voluntas di dar vita ad una radunata potenzialmente pericolosa per i beni protetti; a prescindere dal fatto che questa avvenga.
D’altro canto, neppure, la natura plurioffensiva dell’incriminazione può riuscire a ritagliare un qualche ambito di legittimazione ad un’incriminazione che si pone in irrimediabile contrasto con il criterio della necessaria dannosità sociale del reato. La particolare severità del trattamento sanzionatorio previsto dimostra, infatti, in modo inequivoco come nell’ottica del legislatore, l’offesa al patrimonio cagionata dall’invasione arbitraria abbia un rilievo secondario rispetto alla centralità della messa in pericolo dei beni collettivi indicati.
3. I soggetti attivi del reato
Soggetti attivi del reato sono gli organizzatori e i promotori dell’invasione. La norma non incrimina chi organizza o promuove il raduno, ma chi pianifica e dirige l’invasione arbitraria finalizzata al raduno. L’invasione arbitraria diviene però penalmente rilevante ai sensi dell’art. 434 bis c.p. soltanto se commessa da più di cinquanta persone; sicché, laddove ad invadere l’immobile sia un gruppo più ristretto di soggetti, i promotori e gli organizzatori non verranno comunque puniti, neppure se in seguito dovesse effettivamente svolgersi il raduno pericoloso di una moltitudine di gente. La soglia numerica minima di soggetti agenti è infatti riferita all’invasione, non alla radunata.
Quanto ai partecipanti all’invasione arbitraria, il comma 3 dell’art. 434 bis c.p. stabilisce che essi vengano puniti meno severamente rispetto ai promotori e agli organizzatori, ma non indica l’entità della diminuzione di pena. In assenza di espliciti riferimenti, per quantificare il relativo trattamento sanzionatorio non resta altra strada che ricorrere alle regole generali in materia di circostanze attenuanti e ritenere che ai sensi dell’art. 65 c.p. la pena debba essere diminuita in misura non eccedente un terzo. Va da sé che tali soggetti saranno puniti, anche laddove prendano parte soltanto all’invasione arbitraria e non altresì al successivo (eventuale) raduno.
Si tratta in definitiva di un reato a concorso necessario di proporzioni davvero elefantiache. Il numero minimo di compartecipi va bene oltre la soglia di tre persone richiesta per le ben più gravi fattispecie associative. Ad essere punita è, cioè, l’invasione di edifici o terreni realizzata da una massa indefinita di persone che deve essere superiore a cinquanta, ma che può anche sfiorare l’ordine delle decine di migliaia. Non vi è chi non si avveda come sia proprio la natura “massiva” della condotta materiale di ingresso nella proprietà altrui, in quanto teleologicamente orientata al successivo raduno, a venire considerata dal legislatore come di per sé sintomatica della pericolosità di quest’ultimo. Se così non fosse, non si spiegherebbe l’urgenza del legislatore di stabilire un requisito così elevato di numerosità dei soggetti attivi.
Ebbene, pur tralasciando i molteplici problemi pratici che una previsione di questo tipo genera sul versante processuale - dato l’obbligo di procedere d’ufficio nei confronti di una moltitudine di indiziati e di potenziali indagati - resta del tutto oscura la ratio che ha ispirato la scelta di fissare in più di cinquanta il numero minimo di soggetti agenti. Per quanti sforzi si facciano per rintracciare una qualche dimensione di senso, l’indicazione di tale soglia appare sostanzialmente illogica ed arbitraria.
4. Note conclusive
Numerosi, e per verti versi, insuperabili, appaiono i profili critici della norma in commento: imprecisioni linguistiche, approssimazione nell’uso della tecnica di redazione delle norme penali, eccessiva anticipazione della soglia di tutela penale, arbitrarietà nella determinazione del numero dei compartecipi necessari al reato, eccessivo rigore sanzionatorio, vaghezza delle nozioni impiegate nella descrizione del fatto tipico etc.
La ragione dell’incriminazione risiede interamente nella presunta pericolosità intrinseca dei raduni di “folle” e, soprattutto, dei soggetti che li organizzano e li promuovo. La massa indistinta di individui che si concentra in un luogo pubblico o privato - soprattutto se composta da giovani dai costumi inusuali e “alternativi” - viene ritenuta di per sé idonea a porre in pericolo l’ordine pubblico o il più indefinito interesse della collettività alla propria sicurezza; a prescindere dal fatto che il raduno si svolga poi in maniera ordinata o che esso ex post non si sia rivelato un’occasione per la commissione di reati più gravi (traffico di stupefacenti, devastazione etc.). Il raduno è avvertito dal legislatore come una minaccia talmente seria per i beni collettivi da giustificare la punizione della semplice intenzione di realizzarlo; come una sorta di istigazione collettiva alla violazione delle regole.
È sin troppo evidente, infatti, che l’oggettività giuridica della fattispecie si concentra sul dolo specifico di organizzare la radunata, più che sull’invasione arbitraria di immobili altrui, la quale viene utilizzata dal legislatore soltanto per schivare il rischio che la norma incriminatrice dei rave party finisca con il punire le mere intenzioni. Occorreva, in sostanza, individuare un fatto materiale (l’invasione arbitraria, in questo caso) cui poter ancorare l’anticipazione della tutela penale rispetto alla sanzionabilità della mera voluntas di radunarsi.
Ne è derivata una norma incriminatrice dalle incontenibili potenzialità espansive; d’ora in avanti, qualunque organizzatore o partecipante ad un’occupazione abusiva e pacifica di aree, spazi o edifici, commessa per scopi leciti, o per finalità moralmente e socialmente approvate (per esempio, per finalità di protesta politica o sociale) rischia una sanzione che va dai tre ai sei anni di reclusione, per il promotore; e sino a cinque anni e undici mesi, per il partecipante.
All’evidente effetto boomerang generato da una diposizione il cui ambito applicativo travalica di gran lunga lo specifico fenomeno dei rave party, si affianca poi l’oggettiva sproporzione dello strumento sanzionatorio impiegato, rispetto allo scopo di prevenzione prefissato. Non vi era alcuna necessità politico-criminale di prevedere una nuova incriminazione per prevenire il fenomeno. Si rinvengono già nell’ordinamento giuridico disposizioni adeguate a fornire una sicura base normativa per eventuali interventi preventivi delle forze dell’ordine, in caso di occupazione arbitraria di un terreno e di un edificio per tenervi un rave party.
Rilievi segnaletici, sgomberi e sequestri possono essere disposti dall’Autorità di pubblica sicurezza in caso di violazione dell’art. 18 del Testo Unico delle leggi in materia di pubblica sicurezza (TULPS), il quale prevede che i promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico nei diano avviso, almeno tre giorni prima, al Questore. Quest’ultimo, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione.
La violazione dell’obbligo di preavviso è di per sé punibile a titolo contravvenzionale, ai sensi del comma 1 del suddetto art. 18 TULPS; così come, viene sanzionata penalmente - sempre in forma contravvenzionale - l’inosservanza delle prescrizioni imposte dal Questore (art. 18 comma 4 TULPS). Mentre l’art. 17 TULPS prevede, in via sussidiaria, la punibilità con l’arresto o ammenda di tutte le violazioni al TULPS che non siano altrimenti sanzionate con pena o sanzione amministrativa. Infine, non è un caso che in perfetta coerenza con la finalità di prevenzione che le pertiene, la legislazione complementare di polizia stabilisca che non sia comunque punibile chi, prima dell’ingiunzione dell’autorità o per obbedire ad essa, si ritiri dalla riunione non autorizzata (art. 18, ultimo comma TULPS). Una sorta di premialità del recesso volontario che sovente rende possibili gli sgomberi pacifici.
Il quadro normativo vigente appare dunque tutt’altro che carente di strumenti adeguati a contenere il fenomeno dei rave e a prevenire gli eventuali pericoli per beni collettivi e individuali, di varia natura che da essi possono derivare. La scelta di ricorrere ad una norma penale ad hoc, sostanzialmente superflua rispetto ai fini di prevenzione generale perseguiti, rappresenta piuttosto l’eterno ritorno della tendenza del legislatore a far assurgere l’interesse generico alla sicurezza pubblica ad oggetto diretto della tutela penale; nell’erronea convinzione che spetti alla sanzione penale il compito di rafforzare le misure extrapenali di prevenzione dei pericoli, altrimenti ritenute ineffettive[13].
Rispetto all’art. 434 bis c.p., il segno evidente di tale approccio securitario si rintraccia nell’assoluta evanescenza del nesso di offensività tra il fatto punito e l’incolumità pubblica, la salute pubblica o l’ordine pubblico. Invece di orientarsi teleologicamente verso la prevenzione di una relazione di pericolo - epistemologicamente fondata - nei confronti dei beni giuridici meritevoli di protezione penale, la fattispecie incriminatrice risulta asservita alle funzioni di controllo e di prevenzione delle persone e delle folle pericolose; funzioni che sono però tipiche del diritto amministrativo di polizia[14]. Essa interviene, cioè, a coprire un bisogno, più o meno, irrazionale di sicurezza pubblica e trae in ciò la propria legittimazione.
Il meccanismo è, purtroppo, tristemente noto e di frequente reiterato dal legislatore contemporaneo. Alla base dell’incriminazione ricorre la precisa volontà di fare un uso strumentale del diritto penale per fini di consenso elettorale. Si passa dal paradigma del diritto penale quale extrema ratio, all’idea che la funzione primaria della sanzione penale consista nel tranquillizzare l’opinione pubblica, attenuandone gli stati emozionali di insicurezza collettiva[15].
Le legittime istanze di sicurezza di cui il diritto penale può farsi carico perché rivolte a fini di tutela dei beni giuridici meritevoli di protezione cedono, così, il passo alla tutela diretta di un indistinto interesse alla sicurezza tout court, che finisce con il fagocitare la sfera delle libertà individuali[16]. Quando infatti, come nel caso del delitto in questione, l’equilibrio del «rapporto obbligato tra sicurezza e libertà[17]» viene alterato e distorto, ne deriva l’effetto finale di rendere insicure le libertà fondamentali degli individui; esposte al rischio, tutt’altro che evanescente, di un’ingiusta compressione attraverso la coercizione penale.
5. La proposta di emendamento del Governo volta a “normalizzare” la disposizione
Nelle more della pubblicazione di questo contributo, l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia ha depositato una proposta di emendamento alla Legge di conversione del Decreto-legge n. 162/2022 che interviene sulla fattispecie in commento, modificandone la collocazione cocidicista ed alcuni elementi strutturali[18].
Senz’altro apprezzabile è la scelta di trasferire la disposizione incriminatrice dal titolo dei reati contro l’incolumità pubblica al titolo dei reati contro il patrimonio; in particolare, al nuovo art. 633 bis c.p. Ciò serve ad evidenziare la segnalata simmetria con l’omologa fattispecie di invasione arbitraria di immobile a scopo di occupazione (art. 633 c.p.) e rende palese la dimensione plurioffensiva del reato, necessariamente comprensiva anche dell’offesa al patrimonio, che era invece rimasta in chiaroscuro nella prima versione della disposizione. Di più, la revisione della collocazione topografica denota la precisa volontà di assegnare alla lesione patrimoniale quel rilievo centrale che nella formulazione vigente non sembra possedere.
Si restringe inoltre la tipicità della fattispecie ai soli raduni «musicali o ad altro scopo di intrattenimento», con l’intento di evitare il sopra menzionato effetto boomerang di estensione dell’area applicativa della norma a raduni realizzati anche per scopi di altra natura; per esempio, alle adunate collettive per fini di protesta, politica o sociale. Circa la ragionevolezza di tale restrizione, permangono nondimeno non pochi dubbi; non è infatti del tutto chiaro quale sia il contenuto sostanziale di (maggiore) disvalore che connoterebbe i raduni musicali o di intrattenimento, rispetto ai raduni volti ad altre finalità. La scelta conferma piuttosto l’idea che alla base dell’incriminazione vi sia una presunzione di intrinseca pericolosità oggettiva nei confronti dei c.d. “rave-party”.
Non a caso, l’emendamento si preoccupa di prevenire eventuali future obiezioni sul punto, definendo in maniera più stringente i contorni dell’offesa penalmente rilevante. Occorre che il pericolo per la salute pubblica, l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica si verifichi in concreto, a causa dell’inosservanza delle norme in materia di stupefacenti, o di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento; anche in ragione del numero dei partecipanti ovvero dello stato dei luoghi. Il reato diviene dunque di pericolo concreto e l’evento lesivo è posto in connessione causale con la condotta di invasione; e non più con l’oggetto del dolo specifico. A cagionare la situazione di concreta messa in pericolo dei beni collettivi protetti deve, cioè, essere l’invasione arbitraria.
Il tentativo di rimediare in tal modo all’oggettivo deficit di offensività della precedente versione della norma non può che essere accolto con favore. Qualche perplessità suscita invece il requisito dell’inosservanza delle norme in materia di stupefacenti o di igiene e sicurezza degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. Si tratta in questo caso di una clausola di illiceità speciale che opera come contrassegno dell’offesa tipica. La messa in pericolo dei beni collettivi cagionata dall’invasione costituisce conseguenza di un’invasione non soltanto arbitraria, ma anche realizzata in violazione delle regole indicate, le quali possono tuttavia integrare tanto meri illeciti amministrativi, quanti illeciti penali. In tale seconda evenienza, la commissione di altri reati, - per esempio, in materia di stupefacenti - da parte dei promotori e degli organizzatori dell’invasione rileva sia in modo autonomo, che come indice di concreta idoneità lesiva o di offensività della condotta di occupazione. Il che può generare evidenti problemi di coordinamento tra la nuova fattispecie e le altre norme incriminatrici la cui violazione integri il suddetto requisito di illeceità speciale. Non è invero affatto scontato che gli illeciti penali sussidiari o accessori possano considerarsi assorbiti nella nuova incriminazione.
A ciò si aggiunge poi la complessità del rapporto strutturale instauratosi fra il requisito dell’arbitrarietà dell’invasione e la violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. Considerato che le relative autorizzazioni, ove richieste, vengono rilasciate a condizione che siano garantiti i necessari standard di igiene e sicurezza, l’arbitrarietà dell’invasione può ora, di per sé, rilevare anche ai fini del diverso requisito dell’inosservanza delle specifiche regole cautelari e di prevenzione, menzionate dalla disposizione.
Nell’ottica di meglio precisare i contorni offensivi del fatto punibile, l’emendamento sopprime inoltre la necessaria numerosità dei soggetti attivi e le attribuisce un rilievo soltanto indiretto (peraltro svincolato dalla quantificazione di una precisa soglia numerica), quale possibile indice o indicatore sintomatico della pericolosità del fatto rispetto ai beni collettivi oggetto tutela; insieme alla valutazione dello stato dei luoghi. La natura massiva dell’invasione e il fatto che essa comporti un’alterazione, di qualsiasi genere, dello stato dei luoghi (es. danneggiamento, devastazione, deturpamento etc.) rilevano quali eventuali elementi di contesto; utili ad accertare la sussistenza dell’accadimento di pericolo, ma che non occorre si realizzino in ogni caso, ai fini dell’integrazione del reato.
Viene meno infine la punibilità dei partecipanti all’invasione, i quali sarebbero sanzionabili soltanto ai sensi del meno grave reato di cui all’art. 633 c.p.; mentre si indicano come unici soggetti attivi del reato i promotori e gli organizzatori. Invariata l’entità del trattamento sanzionatoria, con tutte le conseguenze che ne derivano in materia processuale. Scompare invece molto opportunamente il riferimento alla possibilità di applicare misure di prevenzione personale.
Dalla lettura della proposta di emendamento, si ricava la sensazione - peraltro confermata dalla Relazione illustrativa al testo - che il legislatore abbia voluto concentrare la principale ragione dell’incriminazione nell’offesa al patrimonio, considerando la messa in pericolo dei beni collettivi una conseguenza lesiva ulteriore, idonea a legittimare la previsione di un trattamento sanzionatorio più severo di quello stabilito nella fattispecie base di cui all’art. 633 c.p.
Sennonché, rispetto alla nuova struttura del fatto, appare eccentrica la previsione di restringere l’ambito applicativo della norma attraverso il dolo specifico del raduno musicale o per altro scopo di intrattenimento. Se, infatti, lo scopo della fattispecie è davvero quello di punire più severamente le occupazioni di edifici o immobili che siano sfociate in un’effettiva messa in pericolo - in via alternativa - dei beni collettivi selezionati, dal punto di vista empirico, non si può escludere che tale pericolo possa in concreto derivare anche da invasioni arbitrarie di immobili finalizzate a realizzare altri tipi di raduni. Vi è in sostanza un’errata generalizzazione alla base dell’idea che il fenomeno dei rave sia di per sé portatore di una carica di pericolosità oggettiva maggiore, rispetto a quella di qualunque altra riunione di una moltitudine di persone cui una condotta lesiva dell’altrui patrimonio risulti orientata.
[1] Espressione utilizzata, tra gli altri, da Micromega, 2 novembre 2022 e dal Corriere della sera online, 2 novembre 2022.
[2] Testualmente, la Presidente del Consiglio dei ministri, on. Giorgia Meloni, alla conferenza stampa del Consiglio dei ministri, 31 ottobre 2022: «Ci aspettiamo di non essere diversi dalle altre Nazioni d’Europa. Quando ci fu il famoso rave di Viterbo, mi colpì che migliaia di persone arrivate in Italia a devastare, provenivano da tutta Europa, perché l’impressione che in questi anni ha dato l’Italia è stata di lassismo rispetto alle regole. Ora l’Italia non è più la Nazione in cui si può venire a delinquere, ci sono le norme e vengono fatte rispettare, Vedremo se con l’applicazione della norma accadrà ancora o se si dovrà migliorare. Questo può essere un deterrente per proibire di venire qui a devastare».
In un’intervista rilasciata al Corriere della sera il 2 novembre 2022, il Ministro degli Interni Piantedosi ha dichiarato: «Credo sia interesse di tutti contrastare i rave illegali. Trovo invece offensivo attribuirci la volontà di intervenire in altri contesti, in cui si esercitano diritti costituzionalmente garantiti a cui la norma chiaramente non fa alcun riferimento. In ogni caso la conversione dei decreti si fa in Parlamento, non sui social. In quella sede ogni proposta sarà esaminata dal governo».
[3] Sulla nozione di «populismo penale» si rinvia al volume di Donini M., Populismo e ragione pubblica, Modena, 2019 ed al suo più recente contributo dal titolo Populismo penale e ruolo del giurista, in Sist. pen., 7 settembre 2020.
[4] Il riferimento è al saggio di Fassin D., Punire. Una passione contemporanea, Milano, 2018.
[5] Invitato dalla trasmissione televisiva, Di martedì, del 1° novembre 2022 a fornire un commento a caldo della nuova norma, il prof. Tullio Padovani non ha esitato a definirla «un caso di analfabetismo legislativo»,
[6] Nel reato di cui all’art. 633 c.p., la permanenza deve tuttavia perdurare per un periodo di tempo sufficiente a rendere evidente il nesso della condotta con la finalità di occupare tenuto conto che l’occupazione di un immobile si realizza soltanto se la presenza all’interno di esso dei soggetti attivi non sia momentanea, ma apprezzabilmente duratura. Si veda, Pagliaro A., Principi di diritto penale. Parte speciale, III, Delitti contro il patrimonio, Milano, 2003, p. 252.
[7] Ritiene invece che fra le due incriminazioni vi sia un rapporto di specialità, Ruga Riva. C., La festa è finita. Prima osservazioni sulla fattispecie che incrimina i “rave party” (e molto altro), in Sist. pen., 3 novembre 2022.
[8] Sul significato offensivo della condotta di invasione, si veda Pagliaro A., Principi di diritto penale. Parte speciale, III, Delitti contro il patrimonio, cit., p. 249 e 250.
[9] Si veda Cavaliere A., L’art. 5 D.L. 31 ottobre 2022, n.162: tolleranza zero contro le “folle pericolose” degli invasori di terreni ed edifici, in Pen. dir. proc., 2 novembre 2022.
[10] Cass. pen., sent. 17 ottobre 1958; Cass. pen., sent. 10 giugno 1957; Cass. pen., sent. 17 marzo 1953.
[11] Per tutti Panagia S., La radunata sediziosa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 570 e ss.; Bettiol R., Sulla struttura del reato di radunata sediziosa (art. 633 c.p.), in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, p. 409 e ss.
[12] In tal senso, Forzati F., Gli equilibrismi del nuovo art. 434 bis c.p. fra reato che non c’è, reato che già c’è e pena che c’è sempre, in Arch. pen., 3/2022, p. 16 e ss. Contra, Ruga Riva. C., La festa è finita. Prima osservazioni sulla fattispecie che incrimina i “rave party” (e molto altro), cit., p. 4.
[13] Amplissima la letteratura penalistica in materia, per tutti, si vedano: Militello V., Sicurezza e diritto penale: nuovi sviluppi in Italia, in Gedächtnisschrift zu Ehren von Prof. Dr. C. Dedes, Ant. Sakkoulas, Athen, 2013, p. 127-143; Pulitanò D., Sicurezza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 147 e ss.; Donini M., La sicurezza come orizzonte totalizzante del discorso penalistico, in Donini M., Pavarini M. (cur.), Sicurezza e diritto penale, Bologna, 2011, p. 11 e ss.
[14] Per una descrizione analitica dei limiti, dei contenuti e degli scopi della funzione amministrativa di «polizia di sicurezza» - la quale essenzialmente consiste nell’attività di prevenzione finalizzata alla conservazione dell’ordine pubblico, della sicurezza, della pace sociale e dell’incolumità pubblica -, si veda Ursi R., La sicurezza pubblica, Bologna, 2022, p. 80 e ss.
[15] Profilo ben evidenziato da Militello V., Sicurezza e diritto penale, cit., pp. 140 e 141.
[16] Non vi è dubbio che nell’ambito del binomio «libertà e sicurezza», il diritto penale sia tenuto a ricercare un corretto bilanciamento e ad evitare pericolosi smottamenti del sistema a favore del primo elemento - la sicurezza - e a discapito del polo delle libertà; in tal senso, tra gli altri, oltre a Militello V., op. ult. cit., pp. 142 e 143, anche Pulitanò D., Sicurezza e diritti. Quale ruolo per il diritto penale, in Dir. pen. proc., 2019, p. 1542 e ss. Come opportunamente segnalato da Ursi R., La sicurezza pubblica, cit., pp. 27 e ss.; 90 e ss., la necessità di stabilire un punto di equilibrio tra libertà e sicurezza rappresenta un contrassegno tipico del paradigma giuridico della sicurezza tanto nella sfera penalistica, quanto in quella amministrativa.
Fortemente critico nei confronti della prospettiva che il diritto penale possa farsi legittimamente carico di istanze di sicurezza, è invece Naucke W., La robusta tradizione del diritto penale della sicurezza, illustrazione con intento critico, in Donini M., Pavarini M. (cur.), Sicurezza e diritto penale, cit., p. 79 e ss.; analogamente, giudica impossibile il raggiungimento di un equilibrio tra i due poli della libertà e della sicurezza, essendo le istanze di libertà destinate a soccombere a fronte della forza espansiva dei bisogni di sicurezza, Prittwitz C., La concorrenza diseguale tra sicurezza e libertà, ivi, p. 106 e ss.
[17] L’espressione è presa in prestito da Militello V., op. ult. cit., p. 143.
[18] Per il testo dell’emendamento si rinvia a https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Emendc&leg=19&id=1361683&idoggetto=1364990
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