ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria nel contesto istituzionale di Alessio Lanzi
1. A seguito della Legge 130/2022 molto è cambiato nella Giustizia Tributaria; e, conseguentemente, il suo Consiglio di Presidenza è chiamato a svolgere il ruolo e la funzione di un organo di autogoverno “adeguato” alla giurisdizione che amministra.
La prospettiva è quella di operare nel contesto dei principi costituzionali che presiedono le attività delle giurisdizioni, e, fra queste, di quella tributaria.
La principale norma di riferimento è, indubbiamente, quella di cui all’articolo 111 della Costituzione che, nel disciplinare compiutamente il “giusto processo”, espressamente prevede, al comma 2, come il giudice debba essere “terzo” e “imparziale”.
Non richiama, la norma costituzionale, anche l’“indipendenza”; e questa è una circostanza di grande rilievo perché i criteri oggettivi che la legge deve assicurare sono la “terzietà” e “l’imparzialità”; mentre “l’indipendenza” è uno status del soggetto, conseguenza del fatto di dover essere terzo e imparziale.
In pratica, un giudice cui si assicurano tali peculiarità oggettive, riesce – se vuole - ad essere anche indipendente nel contesto in cui opera; la legge gli consente e gli assicura l’indipendenza (art. 108 Cost.) proprio in quanto è terzo ed imparziale.
Ma è una indipendenza in qualche modo “condizionata”; infatti l’art. 101 della Costituzione prevede che egli è soggetto, e quindi subordinato, alla Legge.
Questa è la formidabile costruzione dello Stato di diritto di matrice illuministica: il giudice è indipendente da ogni potere ma è soggetto, solo, alla Legge.
In questa il giudice trova la matrice della propria indipendenza ma anche il suo preciso limite.
Solo grazie all’osservanza della Legge un giudice terzo ed imparziale riesce ad essere anche indipendente.
Per l’indipendenza, dunque, è richiesta – necessariamente – la piena conoscenza e l’osservanza della legge; ed è così, per quanto riguarda la giustizia tributaria, che acquista grande rilievo la nuova e specifica “Scuola superiore” di prossima apertura, che si occuperà proprio della formazione e dell’aggiornamento dei giudici tributari; aspetti essenziali per consentirne la piena indipendenza.
2. Un simile contesto normativo emerge anche dalla normativa europea.
L’articolo 6 della CEDU, a proposito del “Diritto ad un processo equo”, richiama la necessità che vi sia un tribunale “indipendente e imparziale”; e anche l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a sua volta, ribadisce una tale necessità.
Tali regole sovranazionali fortificano la disciplina costituzionale interna.
In un tale quadro gli articoli 111 e 101 della nostra Costituzione, e le norme ordinarie che li attuano, possono così trovare serena applicazione senza alcun problema di possibili contrasti con le normative dirette o convenzionali europee, e senza la prospettiva di dover ricorrere ai meccanismi previsti dagli articoli 10 e 11 della Costituzione per la loro attuazione.
3. In questo scenario, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria può dunque operare al fine di assicurare l’affermazione delle caratteristiche di terzietà e imparzialità dei giudici tributari, consentendone così l’indipendenza da ogni potere.
E questo è un rilevante e qualificante compito per tale organo di autogoverno nel contesto istituzionale.
4. Vanno poi considerate talune peculiarità di carattere generale che possono anche agevolare un buon autogoverno da parte del CPGT: fra queste l’assegnazione degli incarichi, che avviene sulla base di indici oggettivi di punteggio predeterminati qualora non ricorra un giudizio di demerito, ben tipizzato, sul candidato; con la regola che a parità di punteggio prevale l’anzianità anagrafica (art. 11 D.Lgs. 31.12.1992 n. 545, nell’attuale versione).
Una tale semplificazione e rilevanza oggettiva consente di prevenire possibili fenomeni di “correntismo” che potrebbero intervenire qualora le scelte fossero affidate a criteri eccessivamente discrezionali; come anche i casi di incompatibilità - ex articolo 8 D.Lgs. 545/1992 – sembrano ben definiti e puntuali nella loro previsione.
In un tale contesto, e precipuamente in coerenza con lo spirito innovatore alla base della riforma operata con la Legge 130/2022, il Consiglio di Presidenza può dunque ben operare e assolvere a quel ruolo istituzionale che gli compete.
Ruolo che consiste anche in numerosi rapporti – disciplinati ex lege – con altre Istituzioni.
A tal proposito va ricordato come l’articolo 16 D.Lgs. 545/1992 preveda che il procedimento disciplinare sia promosso anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri; come, secondo l’articolo 24, fra le attribuzioni del Consiglio vi sia quella di costante interlocuzione col MEF; come, ex art. 29, il Consiglio sia coinvolto nelle attività di “Alta sorveglianza” del Presidente del Consiglio dei Ministri; come, solo con provvedimento del Presidente della Repubblica, il Consiglio di Presidenza possa essere sciolto (art. 28).
Dunque, senza alcun dubbio, l’organo di autogoverno della giustizia tributaria esercita il suo ruolo nel contesto istituzionale.
L’auspicio è quello che adempia ai suoi compiti e alle sue prerogative in modo tale che la Giustizia Tributaria si possa compiutamente inserire, e correttamente operare, nel corretto quadro dei principi costituzionali e del contesto normativo previsti per tale importante tipo di giustizia; privilegiandosi così, e soprattutto, la cultura della giurisdizione.
Sommario: 1. Il Fondo di solidarietà comunale nel modello del federalismo fiscale municipale - 2. Le criticità del finanziamento del Fondo di solidarietà comunale a seguito della legge 30 dicembre 2021, n. 234 - 3. Il bilanciamento tra la tutela dell’autonomia finanziaria comunale e la necessità di «non regredire rispetto all’ “imprescindibile” processo di definizione e finanziamento dei LEP». Quali soluzioni legislative all’attuale perequazione ibrida?
1. Il Fondo di solidarietà comunale nel modello del federalismo fiscale municipale.
Nel definire i principi e criteri direttivi concernenti il coordinamento e l’autonomia di entrata e di spesa degli enti locali la legge delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione, ha classificato le spese relative alle funzioni di comuni, province e città metropolitane, distinguendo «le spese riconducibili alle funzioni fondamentali ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione» (l. 5 maggio 2009, n. 42, art. 11, co. 1, lett. a, 1), da quelle «relative alle altre funzioni» (l. 5 maggio 2009, n. 42, art. 11, co. 1, lett. a, 2).
Per le funzioni fondamentali e per i «livelli essenziali delle prestazioni da esse implicate» si prevede che il finanziamento integrale, in base al fabbisogno standard, sia «assicurato dai tributi propri, da compartecipazioni al gettito di tributi erariali e regionali, da addizionali a tali tributi, la cui manovrabilità è stabilita tenendo conto della dimensione demografica dei comuni per fasce, e dal fondo perequativo» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. b). Le spese relative alle altre funzioni, invece, sono finanziate «con il gettito dei tributi propri, con compartecipazione al gettito di tributi e con il fondo perequativo basato sulla capacità fiscale per abitante» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. c).
Secondo i principi e criteri direttivi concernenti l'entità e il riparto dei fondi perequativi per gli enti locali, il fondo a favore dei comuni dovrebbe essere rappresentato «da un fondo perequativo dello Stato alimentato dalla fiscalità generale con indicazione separata degli stanziamenti per le diverse tipologie di enti, a titolo di concorso per il finanziamento delle funzioni da loro svolte» (l. n. 42 del 2009, art. 13, co. 1, lett. a).
In attuazione della suddetta legge delega, le disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale hanno introdotto nell’ordinamento due nuove «forme di imposizione fiscale» – un’«imposta municipale propria» e un’«imposta municipale secondaria» (d. lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 7). In seguito, con le disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, è stato istituito il Fondo di solidarietà comunale (FSC) – considerato di carattere perequativo[1] –finanziato da «una quota dell’imposta municipale propria, di spettanza dei comuni» (l. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, co. 380, lett. b). Come evidenziato dalla Corte dei conti, tale fondo avrebbe dovuto essere alimentato tramite «fiscalità generale, cioè con risorse del governo centrale. Successivamente (d. lgs. n. 23 del 2011), il concorso dello Stato è venuto meno, disponendo invece che il fondo fosse alimentato da quote di gettito di tributi locali»[2]. Il modello inizialmente delineato dal legislatore si configurava come un «sistema perequativo misto, di direzione verticale per la perequazione delle funzioni fondamentali, e di natura orizzontale per la perequazione delle spese relative alle altre funzioni. Tuttavia, l’evoluzione legislativa ha in parte neutralizzato e modificato l’iniziale assetto, con il risultato di rendere meno trasparente il meccanismo di assegnazione del fondo perequativo»[3]. La Corte costituzionale ha già avuto modo di soffermarsi sul FSC evidenziando la «“distorsione” del criterio perequativo»; affermando che l’attuale struttura del FSC «è divenuta interamente orizzontale, tanto da determinare, dal 2015 al 2020, un “trasferimento negativo”, nel senso che è il comparto dei comuni a trasferire risorse allo Stato»; chiarendo che sull’evoluzione della disciplina del FSC avrebbero «inciso le difficoltà e i ritardi nell’attuazione del federalismo fiscale»[4]. Secondo questa ricostruzione «il FSC presentava – almeno in origine – una natura mista (orizzontale e verticale), in quanto veniva alimentato prevalentemente dai comuni mediante la trattenuta di una parte del gettito standard derivante dall’IMU e da una quota minoritaria di risorse trasferite dalla Stato»[5].
2. Le criticità del finanziamento del Fondo di solidarietà comunale a seguito della legge 30 dicembre 2021, n. 234.
Con alcune norme del bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024 (l. 30 dicembre 2021, n. 234, art. 1, commi 172, 174, 563 e 564) il legislatore ha incrementato la dotazione del FSC. Trattasi delle disposizioni normative sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale con ricorso promosso dalla Regione Liguria per asserito contrasto con gli artt. 5 e 119, commi 3, 4, 5, Cost. La ricorrente riteneva, in specie, che assieme all’incremento della dotazione del FSC il legislatore avesse al contempo assoggettato tali risorse aggiuntive a vincoli di destinazione, in contrasto con la disciplina costituzionale in tema di perequazione (art. 119, co. 3 e 5), violando l’autonomia finanziaria dei comuni.
La Regione riteneva che la normativa impugnata, andando a definire ulteriori finanziamenti per gli asili nido (art. 1, co. 172), dissimulasse un intervento di perequazione speciale, indicando stringenti obiettivi di servizio in violazione del divieto di «vincoli di destinazione» (art. 119, c. 3 Cost.): trattandosi di funzione attribuita ai comuni, l’ulteriore finanziamento di tal tipo non avrebbe dovuto trovare collocazione nel FSC (art. 119, c. 4 Cost.). Analogo ragionamento veniva prospettato con riferimento alla norma che aumenta il finanziamento per il trasporto di studenti disabili (art. 1, co. 174) e a quella che prevede risorse finalizzate al finanziamento e allo sviluppo dei servizi sociali comunali (art. 1, co. 563), anch’essa impugnata perché asseritamente in contrasto con il divieto di vincoli di destinazione a valere sulle quote del FSC. Infine, anche la norma che si riferisce alla rideterminazione complessiva del FSC (art. 1, co. 564) veniva impugnata, sebbene nel solo inciso inziale dove richiama le altre norme impugnate.
Fatte salve le parti delle norme che incrementano gli importi annui del FSC, la ricorrente chiedeva una «pronuncia di carattere sostitutivo» in grado di rimuovere il vincolo di destinazione e ricondurre il finanziamento al criterio generale di riparto del fondo.
L’Avvocatura generale dello Stato riteneva che «non sarebbe “‘il contenitore’ finanziario ad essere dirimente ai sensi della Costituzione” per affermare la sussumibilità delle suddette risorse nell’ambito del terzo comma o in quello del quinto comma dell’art. 119 Cost., “ma la natura e la finalità dello specifico stanziamento”»; inoltre, «l’intervento in questione darebbe attuazione al monito contenuto nella sentenza n. 220 del 2021 di questa Corte in ordine al ritardo nella definizione dei LEP, destinando coerentemente le risorse per il finanziamento degli stessi, attraverso un approccio di perequazione speciale in favore delle aree meno sviluppate»[6]. L’Avvocatura concludeva che «dalla natura perequativa del FSC non discenderebbe la sottrazione delle relative risorse alle esigenze di solidarietà o di riequilibrio ove destinate dal legislatore statale alla fruizione di diritti essenziali».
3.Il bilanciamento tra la tutela dell’autonomia finanziaria comunale e la necessità di «non regredire rispetto all’ “imprescindibile” processo di definizione e finanziamento dei LEP». Quali soluzioni legislative all’attuale perequazione ibrida?
Nella pronuncia qui commentata la Corte chiarisce che le prime tre disposizioni impugnate (art. 1, commi 172, 174, 563, l. n. 234 del 2021) «intervengono sulla disciplina del fondo di solidarietà comunale (FSC) – istituito dall’art. 1, comma 380, lettera b), della l. n. 228 del 2012 – incrementandone la dotazione, attraverso risorse statali, in modo consistente e progressivo e, nel contempo, stabiliscono specifici vincoli di destinazione sulla relativa spesa, in funzione del raggiungimento di livelli essenziali delle prestazioni o, nell’attesa della definizione di questi ultimi, di obiettivi di servizio». Con riferimento, invece, alla quarta disposizione impugnata (art. 1, co. 564), afferma che questa «ridetermina, in considerazione delle nuove risorse, l’ammontare complessivo del FSC».
Definendo «farraginoso e sempre meno trasparente il funzionamento del FSC», la Corte ha evidenziato come al suo interno abbiano nel tempo «iniziato a comparire una nuova componente perequativa, che, da un lato, ha assunto carattere vincolato anche al finanziamento di LEP contemporaneamente indicati, ma, dall’altro, ha previsto, come sanzione del mancato impiego delle risorse per tale finalità, la mera restituzione delle stesse», sicché «all’interno del FSC e in aggiunta alla tradizionale perequazione ordinaria – strutturata, fin dalla sua istituzione, secondo i canoni del terzo comma dell’art. 119 Cost. e quindi senza alcun vincolo di destinazione – è stata, dunque, progressivamente introdotta, a partire dal 2021, una componente perequativa speciale, non più diretta a colmare le differenze di capacità fiscale, ma puntualmente vincolata a raggiungere livelli essenziali e obiettivi di servizio», senza che tuttavia fosse previsto alcun meccanismo di controllo simile a quello stabilito per i livelli essenziali in sanità (c.d. LEA). A differenza del meccanismo previsto nel caso del mancato rispetto della garanzia dei livelli essenziali di assistenza in sanità (commissariamento regionale)[7], in effetti, la violazione del vincolo imposto dalle norme impugnate non troverebbe alcun meccanismo di garanzia dell’effettivo raggiungimento. Il nuovo assetto normativo – ad avviso della Corte – avrebbe generato «all’interno dell’unico FSC storicamente esistente, un’ibridazione estranea al disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria, il quale, a tutela dell’autonomia degli enti territoriali, mantiene necessariamente le due forme di perequazione».
Da tempo la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato che «nel nuovo sistema, per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed enti locali, lo Stato può erogare solo fondi senza vincoli specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all’art. 119, terzo comma, della Costituzione»[8].
La Corte afferma che «nell’unico fondo perequativo relativo ai comuni e storicamente esistente ai sensi dell’art. 119, terzo comma, Cost., non possono innestarsi componenti perequative riconducibili al quinto comma della medesima disposizione, che devono, invece, trovare distinta, apposita e trasparente collocazione in altri fondi a ciò dedicati, con tutte le conseguenti implicazioni, anche in termini di rispetto, quando necessario, degli ambiti di competenza regionali».
E, tuttavia, la Corte dichiara inammissibili tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate, adottando una sentenza monitoria in cui afferma che «il compito di adeguare il diritto vigente alla tutela costituzionale riconosciuta all’autonomia finanziaria comunale […] al contempo bilanciandola con la necessità di non regredire rispetto all’ “imprescindibile” (sentenza n. 220 del 2021) processo di definizione e finanziamento dei LEP (la cui esigenza è stata più volte, come detto, rimarcata dalla Corte), non può che spettare al legislatore, dato il ventaglio delle soluzioni possibili»[9]. La Corte, nel richiamare il legislatore a «intervenire tempestivamente per superare, in particolare, una soluzione perequativa ibrida che non è coerente con il disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria di cui all’art. 119 Cost.», afferma che sono molteplici le modalità con cui il legislatore può rimediare al contrasto di tali norme col divieto del vincolo di destinazione dei fondi (art. 119, co. 3 Cost.): «queste possono essere individuate dal legislatore senza compromettere quel percorso di definizione e di garanzia dei LEP sulla cui necessità, in più occasioni, la Corte ha insistito».
In effetti, per superare l’attuale modello di perequazione ibrida, il legislatore potrebbe distinguere tra un fondo perequativo per il finanziamento delle funzioni fondamentali e un fondo perequativo per il finanziamento delle altre funzioni: tale soluzione troverebbe fondamento proprio nei principi e criteri direttivi concernenti il coordinamento e l’autonomia di entrata e di spesa degli enti locali, dove si distingue tra un fondo perequativo per il finanziamento delle spese riconducibili alle funzioni fondamentali e di quelle relative ai «livelli essenziali delle prestazioni eventualmente da esse implicate» (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. b) e un fondo perequativo per il finanziamento delle spese relative alle altre funzioni (l. n. 42 del 2009, art. 11, co. 1, lett. c).
La questione si intreccia con quella della definizione dei LEP. Già nella citata sentenza n. 220 del 2021 la Corte ha valutato negativamente «il perdurante ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché “il nucleo invalicabile di garanzie minime” per rendere effettivi tali diritti», evidenziando che i LEP «rappresentano un elemento imprescindibile per lo svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali», trattandosi di un «valido strumento per ridurre il contenzioso sulle regolazioni finanziarie fra enti». Il dovere di definire i LEP è stato peraltro considerato «particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) (legge 1° luglio 2021, n. 101)»[10]. E la questione della loro definizione è altresì urgente nella prospettiva della realizzazione di una maggiore autonomia delle Regioni a Statuto ordinario nella forma dell’autonomia differenziata regionale[11], tanto che di recente è stato istituito un Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, da garantire su tutto il territorio nazionale[12].
L’urgenza di un intervento del legislatore per superare una «soluzione perequativa ibrida che non è coerente con il disegno costituzionale dell’autonomia finanziaria di cui all’art. 119, Cost.», i cui principi debbono trovare rispetto in ogni forma di maggiore autonomia regionale (art. 116, c. 3, Cost.), sembra andare ben al di là delle esigenze del rispetto del PNRR e della questione dell’autonomia differenziata, poiché indispensabile ai fini della garanzia effettiva dei diritti sociali attraverso la necessaria definizione dei LEP.
In tal senso il monito della Corte per una soluzione legislativa dell’attuale perequazione ibrida invita a fare chiarezza su quali risorse debba contenere il FSC, quale sia il fondo per i LEP e quello per le altre funzioni; una chiarezza che si riflette sulla garanzia del nucleo essenziale di quei diritti sociali che la Repubblica deve garantire (artt. 2, 3, 117, c. 2, lett. m, Cost.), a prescindere dalle questioni d’autonomia e di competenze, di finanziamento e di bilancio[13].
[1] Cfr. il Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 21, «la perequazione comunale avviene attraverso il fondo di solidarietà comunale, la cui alimentazione è affidata a una quota del gettito standard dell’IMU (il 22,43 per cento). […] In questa metodologia si annidano alcuni elementi di criticità del fondo di solidarietà comunale».
[2] Cit. Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 22.
[3] Cit. Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020, Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo, p. 20.
[4] C. cost., sent., n. 220/2021.
[5] C. cost., sent., n. 220/2021.
[6] Per la letteratura in materia di LEP si rinvia qui, per tutti, a M. Luciani, I diritti costituzionali tra Stato e Regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m della Costituzione), in Politica del diritto, n.3/2002, pp. 345-360; R. Balduzzi, Note sul concetto di «essenziale» nella definizione dei LEP, in Rivista delle politiche sociali, n. 4/2004, pp. 165-182; C. Pinelli, Sui «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», in Diritto pubblico, n. 3/2002, pp. 881-908; C. Tubertini, Pubblica amministrazione e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni. Il caso della tutela nella salute, Bologna, 2008, p. 46; V. Molaschi, I rapporti di prestazione nei servizi sociali. Livelli essenziali delle prestazioni e situazioni giuridiche soggettive, Torino, 2008, p. 162 ss. Per la copiosa giurisprudenza costituzionale sui livelli essenziali cfr., ex plurimis, C. cost., sent., n. 282/2002; sul livello essenziale come nucleo irriducibile cfr. C. cost., sent., n. 309/1999; C. cost., sent., n. 509/2000.
[7] F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, n. 5/2019, p. 8, dove fa riferimento all’art. 120, c. 2 Cost.
[8] C. cost., sent., n. 370/2003.
[9] Sull’ «imprescindibile esigenza di salvaguardare i valori unitari e gli strumenti per la loro tutela» nell’affrontare il tema del regionalismo differenziato M.A. Sandulli, Le tante facce (non tutte auspicabili) del regionalismo differenziato: i presidi non rinunciabili della solidarietà e i gravi rischi della competizione, in Corti supreme e salute, fasc.1/2020, p. 254; F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, 2019, n. 5, p. 5-9; L. Vandelli, Il regionalismo differenziato, in Rivista AIC, 4 settembre 2019, p. 580, «Sui livelli essenziali. Dobbiamo distinguere nettamente le diverse situazioni che caratterizzano i livelli essenziali. In qualche materia, i livelli essenziali sono vigenti; in altre, mancano completamente. Sui livelli essenziali esistenti, come è noto, il caso più evidente è proprio quello della sanità; mentre sui livelli essenziali mancanti - per fare un problematico esempio, in qualche modo adiacente alla sanità - ci riferiamo anzitutto ai servizi sociali».
[10] C. cost., sent., n. 220/2021.
[11] Cfr. F. Gallo, Dal federalismo al regionalismo differenziato, in Riv. Corte dei conti, n. 5/2019, p. 8, «Prima di dar corso ad intese sul regionalismo differenziato sarebbe, quantomeno, necessario, individuare con legge i livelli essenziali delle prestazioni (Lep e Lea) […] come si possono attribuire forme particolari e differenziate di autonomia se non si sa neppure cosa sono i livelli essenziali e se, in ogni caso, non sono stati determinati i relativi finanziamenti che lo Stato deve garantire?»; M.A. Sandulli, Le tante facce (non tutte auspicabili) del regionalismo differenziato: i presidi non rinunciabili della solidarietà e i gravi rischi della competizione, in Corti supreme e salute, n. 1/2020, p. 255, è nell’ottica «solidaristica e collaborativa, ad oggi scarsamente attuata, che deve muoversi il nuovo “regionalismo differenziato”, per evitare il rischio che esso, in un sistema finanziariamente impreparato, aumenti le diseguaglianze nella garanzia di diritti primari, come quelli all’istruzione e, prima ancora, alla salute, con inevitabili conflitti istituzionali e conseguente complessivo indebolimento del Paese»; A. Giannola; L. Bianchi, Valorizzare le autonomie e ridurre le diseguaglianze: un federalismo fiscale solidale per l’unità del Paese, in Rivista economica del Mezzogiorno, n. 3-4/2019, pp. 647-669. Sul tema del regionalismo differenziato si rinvia a B. Caravita di Toritto, Un doppio binario per l’approvazione del regionalismo differenziato?, in federalismi.it, n. 13/2019; E. Grosso, A. Poggi A., Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, in Il Piemonte delle Autonomie, n. 2/2018, pp. 1-5; F. Pallante, Nel merito del regionalismo differenziato: quali “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” per Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna?, in federalismi.it, 20 marzo 2020, n. 6/2020; D. Mone, Autonomia differenziata come mezzo di unità statale. La lettura dell’art. 116, comma 3 Cost., conforme a Costituzione, in Rivista AIC, n. 1/2019, pp. 329-350; A. Cauduro, Di Maio, A. DI Majo, Dalle aporie del decentramento regionale alla ricerca dello Stato perduto, in Rivista economica del Mezzogiorno, fasc. 1, marzo 2021, p. 103 ss.
[12] Sulla composizione del Comitato e le relative modalità di lavoro si rinvia al sito del Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie della Presidenza del Consiglio dei Ministri:
https://www.affariregionali.it/il-ministro/comunicati/2023/marzo/ministro-roberto-calderoli-annuncia-61-esperti-comitato-lep-al-lavoro-con-cabina-regia-per-individuare-e-garantire-diritti-di-tutti/
e
https://www.affariregionali.it/il-ministro/comunicati/2023/maggio/autonomia-insediato-comitato-lep-calderoli-cede-timone-a-capitano-cassese-sfida-storica-da-affrontare-buon-lavoro-a-tutti/
[13] La garanzia del nucleo essenziale dei diritti fondamentali non può essere compressa dai vincoli di bilancio, ma semmai «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione», così C. cost., sent., n. 275/2016; poi anche C. cost., sent., n. 62/2020.
Sommario: 1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta. - 2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici. - 3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
1. Un nuovo istituto da abolire: l’imputazione coatta.
Nelle ultime ore il programma di riforme del processo penale annunciato a più riprese dal Governo si è arricchito di un nuovo tassello: l’abolizione della norma che attribuisce al Giudice delle indagini preliminari la facoltà di ordinare al Pubblico Ministero, in caso di non accoglimento della richiesta di archiviazione, di formulare l’imputazione (articolo 409, 5° comma c.p.p.).
L’idea di un intervento così specifico - ed apparentemente interessante solo per i tecnici del processo penale - scaturisce, come già altre volte accaduto negli ultimi sei lustri, da una specifica ordinanza emessa da un magistrato in un procedimento che vede coinvolto un esponente politico del Governo in carica.
In particolare, al termine di un’indagine aperta a carico di un sottosegretario del Ministro della Giustizia, il Pubblico Ministero ha avanzato una richiesta di archiviazione, ritenendo insussistenti gli elementi del reato ipotizzato; il G.I.P., di contrario avviso, ha risposto emettendo un’ordinanza di “imputazione coatta”, ordinando cioè al Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale nei confronti dell’indagato.
Alla notizia del provvedimento sono seguite immediate reazioni di “fonti” governative e del Ministero della Giustizia, seguite da interviste ad esponenti politici e consiglieri giuridici della maggioranza, che hanno preannunciato l’inserimento nella ormai prossima “riforma Nordio” dell’abolizione dell’istituto azionato dal G.I.P., ritenuto anomalo ed irrazionale.
In questa sede non è possibile (né, forse, interessante) fare riferimento al merito della vicenda processuale. Suscita tuttavia qualche riflessione l’impianto teorico a cui hanno fatto riferimento i fautori della paventata abolizione normativa, poiché dai loro ragionamenti sembra emergere una concezione del nostro processo penale ed in generale del sistema accusatorio inedita e a tratti sorprendente.
2. Le paventate ragioni dell’abolizione. Spunti critici
Per comprendere la ratio della nuova determinazione di espungere dal sistema processuale un istituto mai fino ad ora menzionato nelle decine di ipotesi di riforma che hanno costellato la travagliata vita del Codice di procedura penale, occorre in primo luogo vincere la naturale ritrosia degli operatori del diritto ad argomentare criticamente su documenti anonimi.
È infatti esercizio insolito, per chi è abituato a non poter fare alcun uso nel processo penale di qualsiasi scritto o dichiarazione anonima (art. 240 c.p.p.), quello di prendere a base di un ragionamento giuridico frasi non riferibili ad alcuno.
Nel caso di specie, tuttavia, i primi accenni critici all’imputazione coatta da cui evincere le ragioni della possibile sua abolizione nella prossima “riforma Nordio” sono contenuti in una nota che i quotidiani hanno riportato genericamente come “diffusa dal Ministero della Giustizia”.
Pur se non attribuibile con certezza direttamente al Ministro, questa nota contiene però un articolato ragionamento giuridico che non può essere ignorato in questa sede.
In quella che è stata la prima reazione “ufficiale” del Ministero della Giustizia sui fatti di cronaca prima ricordati si è affermato infatti, per spiegare le ragioni per cui l’istituto è “irrazionale” e dovrà essere abolito, che il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede”.
Ad ulteriore dimostrazione dell’asserita irrazionalità dell’istituto è stato inoltre osservato che, nel processo conseguente all’esercizio dell’azione penale indotto dal GIP, “l’accusa non farà altro che insistere nella richiesta di proscioglimento in coerenza con la richiesta di archiviazione. Laddove, al contrario, chiederà una condanna, non farà altro che contraddire se stesso”.
L’assunto di base da cui il ragionamento parte è condivisibile: è fuor di dubbio che nel nostro sistema il Pubblico Ministero è l’unico organo deputato ad esercitare l’azione penale.
È proprio per non intaccare questa potestà esclusiva, del resto, che è previsto l’istituto dell’imputazione coatta: anche quando il GIP non ritiene di accogliere la richiesta di archiviazione ed è convinto che si debba procedere ad una verifica dibattimentale, non potrà mai sostituirsi al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma solo imporre a quest’ultimo di procedere in tal senso.
Potestà esclusiva non vuol dire però insindacabilità, sicché non si comprende quale sia il nesso tra l’affermare che il P.M. è l’unico ad avere il potere di esercizio dell’azione penale e il fatto che l’esercizio di questo potere non possa essere soggetto a controlli.
Peraltro, una conclusione del genere sarebbe del tutto eccentrica rispetto al nostro sistema processuale, in cui tutti gli atti delle indagini preliminari più importanti sono sottoposti al vaglio costante di un giudice terzo.
Non è forse superfluo ricordare che il cardine del nostro sistema processuale è il principio di separazione delle fasi (per il quale gli atti compiuti nelle indagini preliminari non costituiscono prova, salvo eccezioni, perché non assunti in contraddittorio davanti ad un giudice terzo).
Ebbene, uno dei corollari del predetto principio di separazione della fasi processuali è costituito dalla previsione del ruolo del giudice delle indagini preliminari, che, a norma dell’art. 328 c.p.p., “provvede sulle richieste del Pubblico Ministero, delle parti private e della persona offesa dal reato”, in alcuni casi previsti dalla legge.
In particolare, si tratta di tutti i casi in cui, durante le indagini preliminari e pur in assenza di prove (perché queste devono ancora essere formate) è consentita la compressione di diritti costituzionalmente garantiti quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la proprietà privata (art. 42 Cost.), la libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.): in queste evenienze è previsto che intervenga un giudice terzo ed imparziale per verificare che la predetta compressione dei diritti sia necessaria e bilanciata da effettive esigenze di indagine.
È dunque previsto che non sia il Pubblico Ministero procedente ad emettere le ordinanze di custodia cautelare, i sequestri preventivi, i decreti di intercettazione ma un Giudice la cui potestà viene attivata in seguito a specifiche richieste del magistrato inquirente: anche questa previsione discende dunque dalla separazione della fasi e delle funzioni di cui si è detto.
In tutte le menzionate ipotesi è consentito all’indagato una sorta di diritto al contraddittorio (al limite, nelle forme dell’impugnazione), sebbene differito ad un momento successivo all’atto in relazione alla segretezza che di norma caratterizza la fase delle indagini preliminari.
Proprio come in tutte le fasi più delicate delle indagini preliminari è previsto l’intervento di un giudice ed una forma di contraddittorio compatibile con la segretezza delle indagini, a maggior ragione tale esigenza è avvertita per il passaggio dalla fase delle indagini preliminari alla fase dibattimentale.
È dunque connaturata al sistema processuale accusatorio ed alla divisione in fasi l’immanenza di un controllo giurisdizionale su tutti i momenti di particolare rilevanza nella fase precedente al dibattimento, in cui pur non essendosi ancora formalmente aperta la “contesa” tra accusa e difesa la persona sottoposta ad indagini può subire rilevanti conseguenze negative anche dalla semplice esistenza di un procedimento penale a suo carico.
Tra questi momenti, va sicuramente annoverata proprio la scelta del Pubblico Ministero di intraprendere - o non intraprendere - un processo pubblico e con accuse formalizzate a suo carico, che comporta l’assunzione della qualità di imputato e la sottoposizione ad un giudizio.
In merito, va ricordato che le determinazioni che il Pubblico Ministero può prendere all’esito delle indagini sono immancabilmente o l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione.
Nel primo caso dunque, in ossequio ai principi esposti, il Pubblico Ministero non può direttamente determinare l’apertura di un processo a carico dell’imputato ma solo sollecitare il controllo del giudice terzo in contraddittorio tra le parti.
Come è evidente dunque, potestà esclusiva di esercitare l’azione penale non vuol dire assenza di controlli.
Per incidens, se per scelta legislativa – dettata da criteri di mera economica processuale - fino a poco tempo fa tale verifica era riservata ai procedimenti per reati più gravi (dove è prevista un’apposita fase, quella dell’udienza preliminare), con la riforma Cartabia il vaglio del giudice terzo sull’esercizio dell’azione penale è stato esteso a tutti i reati, poiché per quelli a citazione diretta è oggi stata introdotta l’udienza predibattimentale, che tra i suoi compiti più importanti ha proprio quello di affidare a un giudice terzo il vaglio sulla scelta del Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale.
Anche laddove il Pubblico Ministero ritenga che non vi siano i presupposti per processare l’imputato, tuttavia, non si può tenere aperto indefinitamente un procedimento penale che porta, per la sua stessa esistenza, conseguenze potenzialmente dannose per l'indagato: il procedimento penale deve dunque essere "archiviato", cioè inviato materialmente nell'archivio della Procura.
Il diritto dell'indagato di vedere la sua posizione definita e di non essere più considerato, a termini di legge, sottoposto ad indagini, costituisce dunque il fine principale a cui tende l'istituto dell'archiviazione.
Accanto a questo diritto vi è l'interesse dello Stato a sottoporre comunque a verifica l'operato del magistrato inquirente, che potrebbe -per colpa o addirittura dolosamente - evitare di esercitare l'azione penale pur in presenza dei presupposti per affrontare un processo.
Non va dimenticato infatti che l'azione penale è nel nostro ordinamento, per disposto costituzionale, obbligatoria (articolo 112 della Costituzione), il che implica tra l'altro che non sono consentite stasi o inerzie in tema di azione penale nè che si possa rinunciare alla stessa[1].
Pertanto, proprio come le determinazioni del Pubblico Ministero quando veste i panni della parte accusatrice sono sottoposte alla verifica da parte di un giudice terzo ed imparziale allo stesso modo anche la sua eventuale decisione di non esercitare l'azione penale deve essere sottoposta ad un vaglio da parte di un giudice.
Per questo motivo, l'archiviazione del procedimento è prevista come provvedimento finale di un procedimento articolato, eventualmente all'esito di un vero e proprio giudizio da svolgersi in camera di consiglio nelle forme disciplinate dall'articolo 127 del codice di procedura penale con la partecipazione delle parti.
Appare evidente che il controllo, per essere esercitato effettivamente e non ridursi ad una mera presa d’atto, deve implicare piena libertà da parte del giudice di determinarsi sia in senso conforme alle richieste del Pubblico Ministero (emettendo così un decreto di archiviazione) sia in senso difforme.
Quest’ultimo caso è disciplinato dai commi 4 e 5 dell’articolo 409 del codice di procedura penale, ove si prevede la possibilità per il GIP di non accogliere la richiesta di archiviazione e restituire il fascicolo al PM perché continui a svolgere indagini da lui individuate ed imposte o – se ritenga che non vi siano ulteriori indagini – perché eserciti l’azione penale.
Da quanto sopra descritto appare evidente che l’affermazione sopra riportata secondo cui il Pubblico Ministero “è il monopolista dell’azione penale e quindi razionalmente non può essere smentito da un giudice sulla base di elementi cui l’accusatore stesso non crede” appare difficilmente applicabile al nostro sistema processuale.
Di più: essa sembra tradire l’idea di un Pubblico Ministero votato inevitabilmente all’accusa, incapace di mantenere l’equilibrio necessario a valutare con serenità la sussistenza di elementi di reato.
Solo così si spiega la sorpresa che trapela dietro l’ipotesi che un giudice possa spingersi, in questa valutazione, addirittura al di là della convinzione accusatoria di un pubblico ministero.
Anche questa ricostruzione del ruolo del Pubblico Ministero contrasta di fatto con il ruolo assegnatogli dalla Costituzione e del nostro codice, che vuole invece nel magistrato inquirente un organo deputato a verificare la fondatezza delle notizie di reato ma nella piena libertà di autodeterminarsi e libero nei fini; sicché può ben verificarsi, ed appartiene anzi alla fisiologia del sistema, che egli arrivi al termine delle indagini preliminari e si determini per la richiesta di archiviazione anche in presenza di elementi che ad un altro magistrato (magari proprio il GIP che quella richiesta di archiviazione riceve) possono sembrare idonei al processo.
La stessa libertà dei fini che caratterizza l’azione del Pubblico Ministero nel corso delle indagini lo svincola dall’obbligo, pure paventato, di insistere nella sua idea, ben potendo invece egli – una volta esercitata l’azione penale su impulso del GIP – portare avanti con convinzione l’accusa e chiedere la condanna.
Tale ipotesi non vuol dire “contraddire se stesso” ma mantenere intatta fino al termine del processo la libertà dei fini, allo stesso modo in cui può accadere ed accade l’ipotesi contraria, di un PM che dopo avere chiesto il rinvio a giudizio di un imputato ne chieda poi al termine del processo l’assoluzione, dopo avere rivalutato in senso favorevole all’accusato gli elementi che in un primo momento gli erano sembrati idonei ad una prognosi di condanna.
3. Imputazione coatta e sistema accusatorio.
Ad arricchire ulteriormente il dibattito sull’abolizione dell’istituto in esame si sono successivamente aggiunte le dichiarazioni del consigliere Giuridico del Ministro della Giustizia, prof. Bartolomeo Romano, che in un’intervista pubblicata sul quotidiano La Repubblica l’8 luglio ha dichiarato: “Una cosa è vigilare su cosa chiede il pubblico ministero in materia di libertà personale, altro è sostanzialmente sostituirsi a lui. E’ vero che la legge prevede l’imputazione coatta, ma dal mio punto di vista si tratta di una possibilità che contrasta con la natura stessa del processo accusatorio, come del resto la previsione che il PM faccia indagini a favore dell’indagato”.
Si tratta di dichiarazioni particolarmente interessanti perché provengono da fonte altamente qualificata e disvelano non solo un pensiero, del tutto simile a quelli esaminati in precedenza, sull’istituto dell’imputazione coatta ma anche sul sistema accusatorio.
La prima affermazione sembra voler limitare il controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero ad un potere di vigilanza che non sfoci in un potere di sostituzione: applicato alla richiesta di archiviazione – come chiarito dallo stesso Romano in un punto successivo della sua intervista – questo renderebbe ammissibile un’ordinanza con cui il G.I.P. suggerisca indagini al P.M. (istituto già previsto dall’articolo 409, 4° comma c.p.p.) ma non l’imputazione coatta.
Sul punto appare sufficiente richiamare quanto già detto in precedenza: con l’ordinanza che impone al PM di formulare l’imputazione il Giudice non si sostituisce al magistrato inquirente nell’esercizio dell’azione penale ma gli impone di rivedere le sue determinazioni, per contrastarne l’eventuale inazione o un uso (non legittimo) discrezionale della sua potestà esclusiva di esercitare l’azione penale.
Il controllo del giudice, ineliminabile per quanto detto, non potrebbe estrinsecarsi solo nella possibilità di suggerire indagini per il semplice motivo che non sempre ci sono indagini da suggerire.
A fronte di un’indagine completa e in cui sono presenti agli atti tutti gli elementi per instaurare un processo, cosa dovrebbe fare un GIP a fronte di una richiesta di archiviazione che ritiene errata? Suggerire nuove indagini anche se non servono? E se il PM, svolte le indagini prescritte, reiterasse la richiesta di archiviazione, come si eviterebbe lo stallo, e in definitiva quale sarebbe il rimedio all’inazione del Pubblico Ministero?
Ma l’affermazione che desta maggiori perplessità della ricostruzione del consigliere giuridico del Ministro riguarda l’asserita incompatibilità dell’imputazione coatta con il sistema accusatorio.
Probabilmente il mezzo utilizzato (intervista ad un quotidiano) non consentiva approfondimenti tecnici e la necessità di sintesi ha conferito alla frase un’assertività maggiore del voluto: tuttavia, non può non sorprendere l’idea che un istituto che prevede il controllo da parte di un giudice terzo, in contraddittorio paritetico tra le parti, di una richiesta di una di esse sia incompatibile con il sistema accusatorio, che sostanzialmente in questo consiste.
La sorpresa aumenta laddove il ragionamento prosegue con l’accostamento ad altro istituto ritenuto pure incompatibile con il sistema accusatorio: la norma che impone al Pubblico Ministero di svolgere (anche) “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (articolo 358 c.p.p.).
Giova ricordare che il nostro ordinamento assegna al Pubblico Ministero una funzione particolare, facendone un ibrido: egli è al contempo una parte processuale pura – portatore di una visione parziale, quella dell’accusa - ed un organo dello Stato, che rappresenta gli interessi collettivi della giustizia; per questo motivo è tenuto non solo alla ricerca degli elementi di accusa ma anche di quelli a favore dell’indagato.
Come detto in precedenza, il Pubblico Ministero è indifferente alle sorti del processo, contrariamente alle altre parti: in nessun caso egli è obbligato a chiedere il rinvio a giudizio o la condanna dell’imputato, né è titolare di un “mandato ad accusare” analogo e simmetrico al mandato difensivo, che gli imponga di sostenere le ragioni dell’accusa anche se non ne è convinto.
Al contrario, la sua funzione è di rappresentare in ogni fase l’interesse dello Stato ad un esito del procedimento penale conforme a giustizia, ciò che vuol dire sia individuare e chiedere la punizione i responsabili dei reati che sollecitare pronunce favorevoli alla persona indagata o imputata in mancanza delle condizioni per andare avanti.
Tali caratteristiche - libertà dei mezzi e indifferenza dei fini – non sono affatto in contrapposizione con il sistema accusatorio, che impone come pure si è rilevato la separazione delle fasi e la formazione della prova in contraddittorio tra le parti davanti a un giudice terzo.
Il fatto che una delle parti sia libera nei fini e non vincolata ad accusare un imputato della cui innocenza è convinto aumenta il tasso di garantismo del processo.
Non si vede come lo svolgimento di indagini a favore dell’indagato possa dunque essere ritenuto elemento incompatibile con il sistema accusatorio, a meno di non considerare accusatorio un sistema in cui la pubblica accusa sia “costretta” a chiedere prima il rinvio a giudizio e poi la condanna dell’accusato, lasciando al solo giudice il compito di agire senza pregiudizi.
È paradossale poi che contemporaneamente ad un pubblico ministero ridotto ad accusatore non imparziale si auspichino minori controlli da parte del giudice, come avverrebbe nel caso dell’abolizione dell’imputazione coatta.
Un processo in cui l’accusatore agisce sempre e solo avendo di mira la condanna anche di un accusato che sa innocente e il giudice non ha sufficienti strumenti per limitarne gli eventuali abusi (che possono consistere, come si è visto, anche nell’esercitare l’azione penale a discrezione o scegliere di non esercitarla affatto, o per abbandonare l’accusa o per tenere un soggetto nella condizione di indagato eternamente e senza una verifica in contraddittorio) porterebbe ad un cospicuo arretramento delle garanzie ed al sostanziale tradimento del sistema accusatorio che si propugna di voler difendere.
[1] “Tale verifica opera su due versanti: da un lato, quello dell’adeguatezza al suddetto fine della regola di giudizio dettata per individuare il discrimine tra archiviazione ed azione; dall’altro, quello del controllo del giudice sull’attività omissiva del pubblico ministero, sì da fornirgli la possibilità di contrastare le inerzie e le lacune investigative di quest’ultimo ed evitare che le sue scelte si traducano in esercizio discriminatorio dell’azione (o inazione) penale” (così Corte Cost 88/1991).
Sara Zinone, giovane magistrata (DM 3/2/17) dopo la prima sede, Lodi, era Sostituto a Piacenza dal 13.06.2022. E' morta a 36 anni, dopo una breve, incurabile malattia. Pubblichiamo il ricordo di Grazia Pradella, Procuratore di Piacenza.
Sara era una giovane donna, una giovane donna magistrato. Estroversa, brillante, parlava del suo essere pubblico ministero con passione, con profondo rispetto degli interessi chiamata a tutelare, mostrando tutta la tenacia e, nel contempo, la grande umiltà nell’affrontare un mestiere che sapeva essere difficile.
Fin dal nostro primo incontro ho colto in lei una grande generosità nei confronti delle esigenze dell’Ufficio: si è resa disponibile ad affrontare qualsiasi materia, anche diversa da quelle assegnate durante la precedente esperienza presso la Procura della Repubblica di Lodi, purché utile all’Ufficio. Sapendo che la gran parte dei sostituti e io avevamo una lunga anzianità di servizio, voleva soprattutto imparare , apprendere nuove tecniche d’indagine , fare tesoro delle esperienze altrui.
Aveva capito che essere “squadra”, soprattutto in Ufficio di piccole dimensioni e con un notevole carico di lavoro, era importante e con semplicità, simpatia ed intelligenza si è inserita con facilità e rapidamente nel nostro gruppo.
Sara aveva un marito, Franco, ed una famiglia molto orgogliosi di lei e con cui condivideva i sentimenti che nutriva per la propria professione. Circondata di amici un po’ sparsi per l’Italia, mi parlava delle tante cene, delle gite e delle risate con loro. Quando ho avuto l’occasione di incontrare il marito, la madre e le sue sorelle, mi sono resa conto che loro sapevano molto di me, dei magistrati di Piacenza, della sua attività perché Sara aveva raccontato loro quale era la nostra e la sua quotidianità.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Piacenza, dopo aver discusso delle indagine da delegare in un fascicolo che le avevo appena assegnato, giunta sulla porta, si è voltata verso di me e, con aria serena, mi ha detto che l’indomani mattina sarebbe arrivata un po’ più tardi in ufficio perché doveva sottoporsi ad un accertamento medico. Probabilmente la mia espressione mostrava preoccupazione e lei sorridendomi mai ha detto : “ capo (mi chiamava così per scherzo, con quall’accento marcatamente toscano che la connotava), poi torno in ufficio e scrivo la delega, non ti preoccupare, non sarà nulla…”. Quell’immagine di Sara mi è rimasta e mi rimarrà sempre impressa: quell’ottimismo è stato stroncato da quella terribile diagnosi che in meno di un anno l’ avrebbe portato via.
Eppure, nei primi mesi di cura Sara veniva in Ufficio appena le sue condizioni glielo consentivano; era rammaricata di non poter fare quanto avrebbe voluto, ma con una forza ed un coraggio sorprendenti continuava a fare come se di quella malattia non le importasse molto, tanto era sicura di guarire, per dare il “100 per cento” (sua espressione) di sé alla Procura.
Poi, a poco a poco le sue condizioni non le hanno più consentito di venire in ufficio, così ci scrivevamo tutti i giorni, anche più volte: lei mi parlava dei dolori insopportabili e delle terapie, ma soprattutto della sua ferma convinzione di tornare a lavorare. Si faceva portare i fascicoli a casa, per poter dare indicazioni alla P.G. e continuare così a lavorare; non voleva sentire ragioni, voleva continuare a dare una mano e basta.
Nell’ultimo messaggio che mi ha scritto , circa un mese fa, mi ha chiesto se poteva prendersi le ferie ad agosto ( era sicura di poter tornare); voleva fare un viaggio in Sicilia con Franco, per trovare parenti ed amici. E così io l’ho inserita nelle tabelle feriali in agosto.
Sapevamo entrambe che quel viaggio non ci sarebbe mai stato, ma Sara era così, ottimista e forte, tanto forte.
Da quel giorno, non ha più avuto le forze né per leggere, né per scrivere e si è pian piano allontanata da tutti. Notizie di lei mi erano date quotidianamente dal marito.
Così Sara se ne è andata senza che io o altri magistrati dell’Ufficio potessimo trasmetterle un po’ delle nostre esperienze; lei, invece, ci ha insegnato tanto, il coraggio nell’affrontare una terribile sorte e l’amore incondizionato per il suo mestiere di Pubblico Ministero.
Domani , io e tutti i colleghi saremo a Pistoia per dare un’ultima carezza a Sara , per farle sentire che è e sarà sempre una di noi.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Ordinamento spagnolo - 3. Ordinamento francese - 4. Ordinamento tedesco - 5. Ordinamento inglese.
1. Introduzione
Il dibattito che si sta sviluppando intorno alla prospettata abolizione del reato di abuso d’ufficio si arricchisce frequentemente di considerazioni relative alle soluzioni offerte in materia dal diritto straniero.
Le informazioni non sono sempre coincidenti.
Da un lato vi è chi afferma che gli abusi dei pubblici funzionari, diversi da quelli che integrano forme di concussione o di corruzione, sono puniti «ovunque», in Europa e fuori dall’Europa[1]. Si puntualizza altresì che il reato è presente in altri ordinamenti europei in versioni spesso meno precise[2].
Dall’altro lato si sostiene che vi sono ordinamenti europei (come quello francese) che, pur non conoscendo una fattispecie generale di abuso d’ufficio come l’art. 323 c.p., sanzionano l’attribuzione di un vantaggio ingiustificato mediante la violazione di una norma che abbia lo scopo di garantire l’accesso libero al mercato e l’uguaglianza tra gli operatori economici[3].
Tutte queste affermazioni sono, almeno in parte, condivisibili, ma il quadro generale merita di essere arricchito, tenendo conto di un dato preliminare. È assai complesso riuscire a ricostruire con chiarezza le scelte di criminalizzazione effettuate in materia in altri ordinamenti perché gli abusi di funzione posti in essere dai pubblici funzionari sono riconducibili a diverse fattispecie.
Come è stato puntualizzato, «tali e tante sono le valutazioni in ordine agli strumenti di tutela che ogni singolo legislatore può ritenere adeguati per contrastare abusi nella pubblica funzione; come del resto dimostra la varietà di risposte che, in materia, si registra nei diversi ordinamenti»[4].
Questa affermazione è stata resa anche al fine di evidenziare come l’illegittimità di una scelta abrogativa non possa farsi convincentemente discendere da obblighi internazionali specificamente vincolanti.
A tale riguardo si può ulteriormente precisare che la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, aperta alla firma a Mérida dal 9 all’11 dicembre del 2003 e ratificata in Italia con la legge 3 agosto 2009, n. 116, non pare sancire un vincolo assoluto di criminalizzazione per l’“abuso di funzioni”, con scopo di vantaggio.
Basti osservare che l’art. 19 della Convenzione richiede soltanto agli Stati contraenti di “considerare” l’adozione della fattispecie di “abuse of functions” (shall consider adopting) e non di introdurla inderogabilmente, come viene richiesto per reati quali la corruzione (shall adopt)[5].
Allo stato, quindi, l’obbligo di criminalizzazione non sussiste nemmeno. Nel prossimo futuro, però, la situazione potrebbe cambiare. Potrebbe essere approvata infatti la Direttiva – ad oggi solo Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio presentata dalla Commissione il 3 maggio 2023 – che contiene un obbligo di criminalizzazione dell’abuso di funzioni, commesso intenzionalmente dal pubblico ufficiale (art. 11) con dolo specifico di vantaggio[6].
È in un contesto normativo arricchito da tale disposizione, allora, che l’affermazione in merito alla pluralità di risposte che si registra nei diversi ordinamenti assumerebbe un’importanza ancora più decisiva, imponendo al legislatore italiano un’attenta considerazione delle opzioni in campo.
Uno sguardo anche rapido alla disciplina di altri ordinamenti vicini al nostro ci mostra effettivamente come la criminalizzazione delle condotte illegali dei pubblici funzionari che siano variamente connotate da favoritismo o prevaricazione sia frequente, anche se prevale la significativa scelta (esclusiva o concorrente con la previsione di una fattispecie generale) di articolare l’incriminazione in una serie di fattispecie più circoscritte, relative al compimento di determinati atti.
Vediamo quindi di offrire qualche spunto che l’esperienza comparata ci sollecita.
2. Ordinamento spagnolo
Il codice penale spagnolo del 1995 ha innovato profondamente la materia dei delitti dei pubblici funzionari, disciplinati nel titolo XIX del libro II. Essi non sono più incentrati sulla fedeltà alla funzione, quanto piuttosto sulla diversa concezione per la quale la funzione pubblica è posta al servizio della cittadinanza[7].
Il reato che ricorda più da vicino l’abuso d’ufficio italiano è senza dubbio il delitto di prevaricación administrativa (art. 404), che punisce l’autorità o il funzionario pubblico che, consapevole della sua ingiustizia, adotti una decisione (resolución) arbitraria in un affare amministrativo. Per decisione si intende un atto che implichi una dichiarazione di volontà a contenuto decisorio, che incida sui diritti degli amministrati e sulla collettività in generale[8]. Il bene tutelato è quello dell’assoggettamento alla legge delle decisioni della P.A. L’arbitrarietà si coglie tuttavia soltanto se vi è una contrarietà con le norme amministrative così palese, che non esista alcuna via di interpretazione razionale delle stesse che sia in grado di supportare la decisione.
Non è sufficiente un semplice contrasto con il diritto positivo[9], ma è necessario che la decisione si collochi fuori dall’ordinamento giuridico[10] e che sia sorretta da criteri utilitaristici: l’atto cerca volutamente un risultato iniquo[11]. L’ingiustizia può coincidere con l’oggettiva contraddittorietà al diritto; l’arbitrarietà, invece, richiede qualcosa di più: la carenza di ogni fondamento di razionalità[12].
Una delle nozioni più discusse nell’ambito dell’esperienza giuridica italiana formatasi in merito all’abuso d’ufficio è quella di sviamento di potere, consistente in ogni forma di strumentalizzazione dell’azione amministrativa per finalità estranee a quelle fissate dalla legge. Nonostante le critiche che sono state rivolte da una parte della dottrina contro la possibilità di identificare l’abuso con lo sviamento – che ha l’effetto di estendere in misura ben poco controllabile la sfera di intervento dell’interprete[13] –, la giurisprudenza ci dimostra che nemmeno la riforma, intervenuta nel 2020, è riuscita nell’intento di superarla integralmente[14].
Proprio a tale riguardo, è utile ricordare che anche in Spagna, nell’accertamento del reato non mancano aperture alla nozione di sviamento di potere, e quindi ad un’indagine sullo scopo per cui l’atto è stato emesso, che deve essere diverso da quello tipico[15]. Anche in questo contesto, così, l’individuazione degli scopi sottesi alla norma attributiva del potere finisce per essere rimessa al giudice penale, con evidenti profili di criticità in termini di osservanza del principio di tassatività.
A differenza del reato di prevaricazione contenuto nel codice precedente, questo delitto si configura solo in forma dolosa. L’ipotesi speciale che riguarda i magistrati – e che si consuma quando viene pronunciata consapevolmente una sentenza o una decisione ingiusta – può essere invece sia dolosa (art. 446) che colposa (art. 447)[16].
I reati in qualche misura riconducibili al nostro abuso d’ufficio, che sono stati tipizzati nell’ordinamento spagnolo, non si riducono alla fattispecie di prevaricazione. Nell’articolo 405 è disciplinata un’ipotesi particolare di favoritismo, che concerne l’attribuzione di un incarico pubblico ad un soggetto che è privo dei requisiti stabiliti legalmente e che viene punito (art. 406) insieme al pubblico funzionario.
Tra le altre ipotesi più specifiche di abuso si possono ricordare: il traffico di influenze del pubblico funzionario (art. 428), la malversazione (art. 432), caratterizzata dal danno patrimoniale alla P.A., i delitti di frode e tassazioni illecite (artt. 436-437), gli abusi commessi nella negoziazione dei contratti o in altri affari e quelli consistenti nell’esercizio di attività incompatibili con la funzione (art. 439, art. 441). L’art. 441, in particolare, sanziona la condotta del funzionario che svolge attività professionale o di consulenza in una materia nella quale deve intervenire o è intervenuto in ragione del suo ufficio.
La definizione di un gruppo così composito di reati rende davvero difficile individuare la normativa applicabile nel caso concreto, nelle ipotesi, quasi inevitabili, di concorso di norme[17].
Come è stato lucidamente evidenziato poco dopo l’introduzione del nuovo codice, però, se, in questo quadro molto complesso, la prevaricación administrativa poteva rischiare di essere relegata ad un ruolo residuale, perché viene compressa dalle ipotesi più diversificate che incidono sullo stesso contenuto di disvalore[18], essa costituisce ancora una fattispecie centrale. L’ampiezza della sua formulazione, del resto, può contribuire al suo successo[19].
3. Ordinamento francese
L’ordinamento francese affianca ad una fattispecie più generale di pericolo, e a una di danno, delle fattispecie specifiche[20].
La fattispecie generale di “scacco alla legge” (art. 432-1 c.p. - Échec à l’exécution de la loi) è una fattispecie di pericolo – molto discussa per la sua scarsa precisione, ma, in questo caso, poco applicata – che incrimina la condotta di chi, nell’esercizio delle sue funzioni, prende misure atte, per l’appunto, a “mettere sotto scacco l’esecuzione della legge”: condotta non meglio determinata ed espressiva di un abuso di autorità contro la P.A., comprensiva per esempio delle ipotesi di cessazione illecita dell’esercizio di funzioni pubbliche[21]. La pena è molto più alta (non più 5 anni di pena detentiva e 75.000 Euro di pena pecuniaria, ma il doppio), se le condotte conseguono l’effetto di mettere sotto scacco l’esecuzione della legge: si integra il reato di cui all’art. 432-2 c.p. La prima sezione del capo secondo (contenente gli “attentati all’amministrazione commessi da persone esercenti una pubblica funzione”), titolo terzo, libro quarto del codice penale – sezione dedicata agli abusi d’autorità diretti contro l’amministrazione – si conclude con la fattispecie con cui si incrimina il pubblico agente, che continua ad operare nonostante sia stato informato della cessazione delle sue funzioni (art. 432-3).
Nella sezione dedicata agli abusi d’autorità diretti contro i privati (sezione seconda) troviamo alcune fattispecie particolari, che in Italia sono in gran parte riconducibili a reati comuni aggravati dalla qualifica. Esse includono abusi di autorità contro la libertà individuale – avvicinabili in questo caso ai reati di cui agli artt. 606-609 c.p. –, contro l’inviolabilità del domicilio e la segretezza della corrispondenza. L’abuso consistente in atti di discriminazione commessi dal pubblico funzionario, che si sostanzia nel rifiutare il riconoscimento di un diritto accordato dalla legge o nell’ostacolare l’esercizio di una qualsiasi attività economica per ragioni discriminatorie (art. 432-7), costituisce senza dubbio la fattispecie più interessante.
Infine, nell’ambito dei reati concernenti violazioni dei doveri di probità (terza sezione), insieme alla corruzione e al traffico di influenze, vi è l’art. 432-12, la presa illegale d’interessi, che evoca il nostro vecchio interesse privato in atti d’ufficio (Prise illégale d’intérêts). La sua formulazione si caratterizza per una certa complessità: “prendere, ricevere o mantenere, direttamente o indirettamente, un interesse che possa compromettere la sua imparzialità, la sua indipendenza o oggettività in un affare o in un’operazione in cui il pubblico funzionario ha al momento del fatto l’incarico di assicurare la sorveglianza, l’amministrazione, la liquidazione o il pagamento”. Il reato è estremamente dettagliato nel delimitare il tipo e prevede delle eccezioni all’integrazione del reato, che si verificano, per esempio, quando il sindaco di un comune con al massimo 3.500 abitanti acquista il bene del comune stesso per lo sviluppo della propria attività professionale (il prezzo però non può essere inferiore al valore stimato dal servizio dei beni demaniali e l’atto deve essere autorizzato da una delibera motivata del consiglio comunale).
Il reato – non diversamente da quello di “scacco alla legge” – non ha mancato di suscitare l’attenzione degli interpreti per la sua scarsa tassatività e, anche in questo caso, pare applicato raramente[22]. Come autorevole dottrina ha ben precisato, la norma si fonda sulla violazione di un obbligo di astensione, ed è giustificata sulla base della considerazione per la quale il pubblico agente, se partecipa alla stipula di un contratto o al compimento di un atto in presenza di un interesse personale, deve prima dimettersi, in quanto la corretta gestione del pubblico interesse presuppone l’incompatibilità tra affari privati e P.A.[23] In difetto, egli è tentato di fare innanzitutto il proprio interesse[24].
Non è un caso che nel 2021 – anche in accoglimento delle osservazioni contenute nel Rapporto annuale del 24 maggio 2018 dell’Haute autorité pour la transparence de la vie publique – il precedente ancor più generico riferimento, contenuto nella norma, a “qualsiasi interesse” sia stato sostituito dal legislatore francese con quello all’“interesse che possa compromettere la sua imparzialità, la sua indipendenza o oggettività”. La riforma ha permesso di circoscrivere il campo applicativo del reato, ma non ha inciso sulla sua struttura.
Nel dicembre 2021, invece, il reato di presa illegale di interessi è stato introdotto anche per coloro che esercitano una funzione giurisdizionale e sono chiamati ad assumere una decisione (art. 432-12-1).
L’ultima fattispecie francese che può essere ricordata, riformata nel 2016, è il delitto di “attentato alla libertà d’accesso e all’uguaglianza dei candidati dentro i mercati pubblici e i contratti di concessione” (art. 432-14 c.p.), che consiste nell’agire “per procurare o tentare di procurare profitto ingiusto a terzi mediante violazione di disposizioni legislative o regolamentari aventi per oggetto di garantire la libertà d’accesso e l’uguaglianza dei candidati negli appalti pubblici e nei contratti di concessione”. Questa fattispecie è interessante soprattutto per una ragione: anche se si basa sulla violazione di norme di legge o di regolamento – in ciò ricordando l’art. 323 c.p. italiano prima della riforma del 2020 – è caratterizzata da un ambito applicativo delimitato e non aperto, come il nostro abuso d’ufficio, alle regole dei più diversi comparti regolativi[25].
4. Ordinamento tedesco
Un orizzonte normativo ben diverso è quello che si apre analizzando l’ordinamento tedesco, che ha rinunciato ad una previsione generale di abuso d’ufficio, per limitare la tutela a determinate condotte abusive e, più in particolare, a quelle commesse mediante decisioni ingiuste pronunciate dai giudici e dagli arbitri.
Per queste ipotesi sussiste il § 339 StGB (Rechtsbeugung - “Perversione o abuso del diritto”), che tuttavia si applica raramente proprio nel caso in cui vi sia una violazione “oggettiva”[26], manifesta e consapevole di una norma giuridica – sia di diritto sostanziale che di diritto processuale[27] – oppure una falsificazione dei fatti nella decisione di una causa. Più letteralmente, il reato si configura quando, nella trattazione o nella decisione di una controversia giudiziaria o di un procedimento arbitrale, il giudice, altro funzionario o arbitro si sia reso colpevole di una «perversione del diritto», a vantaggio o a svantaggio di una delle parti[28].
La norma, che tutela la fiducia nella validità dell’ordinamento contro gli attacchi interni di chi dovrebbe essere chiamato a far rispettare la legge e quindi, almeno indirettamente, dell’interesse ad un operato imparziale e indipendente della magistratura[29], viene applicata raramente. Molte incertezze derivano dal fatto che si constata che il diritto sta diventando progressivamente meno prevedibile[30].
La fattispecie corrispondente delineata per gli organi d’accusa (§ 344 - Verfolgung Unschuldiger – “Persecuzione di persone innocenti”) pone problemi di coordinamento con il § 339 e, anche per questo, non gode di miglior fortuna.
Per completare il quadro è necessario ricordare infine che in Germania esiste una norma di ampia portata, il § 266 StGB (Untreue – “Infedeltà”), che si sostanzia in un abuso di fiducia[31], ma che ha una chiara declinazione patrimonialistica. Come nei settori privati in cui sussiste un obbligo analogo di gestione del patrimonio altrui che richiede lealtà[32], qualora il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio abusi dei poteri, che gli sono stati conferiti, di disporre del patrimonio della P.A. o di obbligare altri, oppure violi i doveri di curare gli interessi patrimoniali della pubblica amministrazione su di lui incombenti, arrecando pregiudizio economico alla P.A., si può configurare una responsabilità penale per “infedeltà”.
È questo un delitto contro il patrimonio che ha conosciuto un’esistenza contrastata ed un’esperienza interpretativa poco lineare[33].
Se vogliamo quindi trarre un’indicazione dall’esperienza tedesca, essa si può cogliere, in negativo, nella possibilità di fare a meno di una fattispecie generale di abuso d’ufficio.
Come la dottrina ha ben illustrato, nel caso in cui, per esempio, in Germania venga rilasciata una concessione ad edificare in assenza dei requisiti di legge, ci si trova in presenza di un provvedimento illegittimo sul piano amministrativo e il funzionario può andare incontro a conseguenze disciplinari, ma non a conseguenze penali[34], a prescindere dal fine perseguito.
Una fattispecie generale di abuso d’ufficio manca nel mondo tedesco fin dal codice penale prussiano del 1851, e quindi da prima dell’unificazione della Germania. La ragione principale viene colta nella necessità di evitare di ricorrere ad una formulazione poco precisa[35] e, quindi, di evitare un’eccessiva ingerenza della magistratura nell’operato della P.A.; un’ingerenza che una disposizione dai confini incerti renderebbe possibile.
5. Ordinamento inglese
Concludiamo questa breve rassegna con l’esame dell’esperienza inglese, nel cui contesto si discute dal 2011 della riforma del Misconduct in Public Office Offence, un delitto di common law caratterizzato da requisiti strutturali di matrice giurisprudenziale piuttosto indeterminati.
La giurisprudenza ha costruito infatti la fattispecie intorno a cinque requisiti strutturali: la qualifica di pubblico ufficiale dell’agente; la condotta abusiva posta in essere durante l’esercizio delle funzioni; la consapevolezza di abusare delle proprie funzioni; l’intensità della violazione, ossia dell’abuso, che deve essere tale da provocare la perdita di fiducia nella funzione pubblica esercitata e l’assenza di cause di giustificazioni o scusanti[36].
Nel dicembre del 2020 è stata pubblicata la relazione finale della Commissione di Riforma (Law Reform Commission)[37], dove è stata messa in luce l’inaccettabile vaghezza dei presupposti del reato. Il fulcro della sua offensività è rinvenuto nella difformità del comportamento del pubblico ufficiale rispetto a quello atteso[38], ma molti dubbi sorgono in merito al livello di gravità che deve connotare la condotta e il grado di colpevolezza affinché si realizzi “an abuse of the public’s trust in the office holder”[39].
La Commissione ha quindi elaborato tre diverse proposte di riforma, riprese nelle raccomandazioni finali.
La prima prevede l’abrogazione della fattispecie, con l’estensione di reati affini a copertura delle zone grigie lasciate scoperte. La Commissione ha tuttavia subito dichiarato di non considerarla preferibile, scegliendo di apprestare una tutela rafforzata alla pubblica funzione.
La seconda proposta riguarda l’introduzione di una forma di abuso (breach of duty offence) integrabile dai soli pubblici ufficiali ai quali sono affidati doveri di prevenire la morte o altri gravi offese, poteri di coercizione o arresto (o altri poteri di limitazione della libertà personale) oppure facoltà e poteri in favore di persone vulnerabili; è un abuso, questo, che riguarda le funzioni, i poteri o le mansioni strettamente funzionali alla prevenzione del danno o del pericolo e che richiede che si verifichi come risultato la morte, un danno fisico o psichico, un sequestro di persona o un arresto arbitrario, un grave danno all’ordine pubblico e alla sicurezza, un grave danno all’amministrazione della giustizia.
Infine, la terza proposta delinea una forma grave di abuso di funzioni o di poteri del pubblico ufficiale che svolge il suo ufficio per ottenere un vantaggio personale o a favore di un terzo o per arrecare un danno a quest’ultimo (corruption in public office offence)[40].
Dopo ampia consultazione pubblica la Commissione ha quindi suggerito di sostituire la common law offence con due statutory offences, i cui requisiti siano ben cristallizzati nella legge.
Sono state prescelte le due ipotesi di abuso d’ufficio disegnate nella seconda e nella terza proposta, con la specificazione dei potenziali autori di reato attraverso il ricorso ad un’ampia elencazione casistica. Rispetto alle proposte iniziali sopra ricordate, nelle raccomandazioni sono stati precisati meglio i requisiti della terza ipotesi, chiedendo che l’abuso apparisse tale agli occhi di una persona ragionevole e che si riflettesse sul piano soggettivo e proponendo che il pubblico ufficiale andasse esente da responsabilità nell’ipotesi in cui provasse di aver agito nell’interesse pubblico. Quando alla seconda ipotesi, invece, essa è stata limitata in misura sensibile rispetto alla proposta iniziale. È stata circoscritta agli abusi commessi dai pubblici ufficiali che avessero l’obbligo, discendente unicamente dalla funzione che esercitavano, di prevenire la morte o altre gravi offese personali, sempre che il bene tutelato venisse offeso o, almeno, messo in pericolo.
La riforma non è stata ancora introdotta, in Inghilterra. Anche nell’ordinamento inglese emerge tuttavia chiaramente come il problema centrale sia sempre quello di riuscire a definire con precisione la condotta di abuso per restituire certezza e serenità agli amministratori pubblici.
Un problema generale, che – lasciando da parte il modello tedesco che ha fatto una scelta radicale – negli ordinamenti analizzati ha trovato risposte spesso poco convincenti sul fronte della tassatività/determinatezza, soprattutto quando le fattispecie non sono davvero circoscritte a specifici comparti regolativi.
[1] G.L. Gatta, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in Sistema pen., 19 maggio 2023.
[2] M. Donini, Gli aspetti autoritari della mera cancellazione dell’abuso d’ufficio, in Sistema pen., 23 giugno 2023.
[3] C. Pagella, L’abuso d’ufficio nella giurisprudenza massimata della Cassazione: un’indagine statistico-criminologica su 500 decisioni, in Sistema pen., 17 giugno 2023.
[4] Così V. Manes, Contestazioni in eccesso e la fine dell’abuso d’ufficio, Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2023.
[5] Si riporta, per completezza, il testo dell’art. 19 – Abuse of functions: «Each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity». Nello stesso senso, con riferimento tuttavia al reato di traffico di influenze, V. Mongillo, Il traffico di influenze illecite nell’ordinamento italiano: crisi e vitalità di una fattispecie a tipicità impalpabile, in Sistema pen., 2 novembre 2022.
[6] Art.11 – Abuse of functions: «Member States shall take the necessary measures to ensure that the following conduct is punishable as a criminal offence, when committed intentionally: 1. the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the exercise of his functions for the purpose of obtaining an undue advantage for that official or for a third party».
[7] A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004, 86. Per un approfondimento in materia poi – con riferimento sia all’ordinamento spagnolo che agli altri ordinamenti qui considerati – sia consentito rinviare a E. Mattevi, L’abuso d’ufficio. Una questione aperta. Evoluzione e prospettive di una fattispecie discussa, Napoli, 2002, 304 ss.
[8] V. Manes, L’abuso d’ufficio nel nuovo codice penale spagnolo, in Dir. pen. proc., 1998, 1442, nt. 5; C.D. Delgado Sancho, Responsabilidad penal de políticos y funcionarios públicos, a Coruña, 2019, 47; E. Hava García, Los delitos de prevaricación, Cizur Menor, 2019, 52.
[9] J.L. Gonzáles Cussac, El delito de prevaricación de autoridades y funcionarios públicos, Valencia, II ed., 1997, 67. Cfr. anche A. Tesauro, Violazione di legge ed abuso d’ufficio. Tra diritto penale e diritto amministrativo, Torino, 2002, 279 s.
[10] A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., 88.
[11] M. López Benítez, Desviación de poder y prevaricación administrativa: diferencias y entrecruzamientos, in Documentaciòn Administrativa, 2018, n. 5, 177.
[12] J.L. Gonzáles Cussac, El delito de prevaricación de autoridades y funcionarios públicos, cit., 68.
[13] Come è stato efficacemente precisato: «la dottrina non è ancora riuscita a formare uno studioso di tanto acume […] da compilare, con precisione, un elenco delle leggi che indicano espressamente il fine che ognuna di loro persegue». Così S. Perongini, L’abuso d’ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione, Torino, 2020, 152. Cfr. altresì A. Tesauro, La riforma dell’art. 323 c.p. al collaudo della Cassazione, in Foro it., II, 1998, 267.
[14] Cfr. Cass., 9 dicembre 2020, n. 442, in CED Cassazione penale 2021. Per un’analisi della sentenza cfr. C. Pagella, La Cassazione sull’abolitio criminis parziale dell’abuso d’ufficio ad opera del “decreto semplificazioni”, in https://www.sistemape- nale.it/it/scheda/cassazione-2021-442-cassazione-abuso-ufficio-abolitio-criminis-de- creto-semplificazioni (19 maggio 2021).
[15] M. López Benítez, Desviación de poder y prevaricación administrativa: diferencias y entrecruzamientos, cit., 177. Cfr. anche J.L. Gonzáles Cussac, El delito de prevaricación de autoridades y funcionarios públicos, cit., 71.
[16] C.D. Delgado Sancho, Responsabilidad penal de políticos y funcionarios públicos, cit., 72 ss.
[17] A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., 90; V. Manes, L’abuso d’ufficio nel nuovo codice penale spagnolo, cit., 1445.
[18] V. Manes, L’abuso d’ufficio nel nuovo codice penale spagnolo, cit., 1441.
[19] Cfr. E. Hava García, Los delitos de prevaricación, cit., 29.
[20] Per l’analisi delle fattispecie si è fatto riferimento soprattutto a S. Corioland, Responsabilité pénale des personnes publiques, Paris, 2019, 34 ss.
[21] A. Tesauro, Violazione di legge ed abuso d’ufficio. Tra diritto penale e diritto amministrativo, cit., 281.
[22] A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., 81 s. G.L. Gatta, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, cit., par. 9, ritiene invece che la fattispecie sia priva dei contorni vaghi dell’art. 324 c.p. italiano, sbrigativamente abrogato nel 1990.
[23] S. Seminara, L’art. 323 c.p. e le ipotesi di riforma, in D. Sorace (a cura di), Le responsabilità pubbliche. Civile, amministrativa, disciplinare, penale, dirigenziale, Padova, 1998, 522.
[24] Così anche S. Corioland, Responsabilité pénale des personnes publiques , cit., 111.
[25] Cfr. A. Di Martino, Abuso d’ufficio, in A. Bondi, A. di Martino, G. Fornasari, Reati contro la pubblica amministrazione, II ed. riv. agg., Torino, 2008, 272 s.
[26] Come rileva T. Fischer, Strafgesetzbuch mit Nebengesetzen, München, 68° Aufl., 2021, 2544, essendo la teoria soggettiva ormai superata, non ha rilievo la mera convinzione soggettiva dell’autore di decidere in contraddizione con la legge applicabile. G. Heine, B. Hecker, §339 StGB, in A. Schönke, H. Schröder (Hrsg.), Strafgesetzbuch. Kommentar, München, Verlag C.H. Beck, 30° Aufl., 2019, 3255 ricordano invece che non mancano aperture verso una lettura soggettivistica dell’atto distorsivo, inteso come deviazione del giudice dalla propria convinzione giuridica. R. Kern, Die Rechtsbeugung durch Verletzung formellen Rechts, München, 2010, 162 condivide una teoria oggettiva lievemente modificata, che richiede che la norma giuridica sia applicata in modo irragionevole.
[27] Come è evidenziato in U. Kindhäuser, E. Hilgendorf, Strafgesetzbuch. Lehr- und Praxiskommentar, Baden-Baden, 9° Aufl., 2022, 1405 s., la violazione procedurale deve poter riflettersi sulla decisione, a favore o sfavore di una delle parti. La norma violata deve appartenere all’ordinamento giuridico positivo: C. Freund, Rechtsbeugung durch Verletzung übergesetzlichen Rechts, Berlin, 2006, 74 ss., 260.
[28] Il reato è sanzionato con la pena detentiva da 1 a 5 anni: § 339 StGB: «Ein Richter, ein anderer Amtsträger oder ein Schiedsrichter, welcher sich bei der Leitung oder Entscheidung einer Rechtssache zugunsten oder zum Nachteil einer Partei einer Beugung des Rechts schuldig macht, wird mit Freiheitsstrafe von einem Jahr bis zu fünf Jahren bestraft». («Il giudice, un altro pubblico ufficiale o un arbitro che, nel trattare o decidere una controversia, si rende colpevole di una perversione del diritto a vantaggio o a svantaggio di una delle parti è punito con la pena detentiva da uno a cinque anni» trad. nostra) Cfr. G. Heine, B. Hecker, §339 StGB, cit., 3251 ss.; U. Kindhäuser, E. Hilgendorf, Strafgesetzbuch. Lehr- und Praxiskommentar, cit., 1404; R. Rengier, Strafrecht. Besonderer Teil II. Delikte gegen die Person und die Allgemeinheit, Verlag C.H. Beck, München, 22° Aufl., 2021, 603 ss.
[29] R. Rengier, Strafrecht. Besonderer Teil II. Delikte gegen die Person und die Allgemeinheit, cit., 604 parla, innanzitutto, di tutela dell’amministrazione della giustizia.
[30] G. Heine, B. Hecker, §339 StGB, cit., 3256. Cfr. R. Kern, Die Rechtsbeugung durch Verletzung formellen Rechts, cit., 164. Sul punto si sofferma anche A. Manna, Profili storico-comparatistici dell’abuso d’ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 1201 ss.
[31] § 266 StGB: «Wer die ihm durch Gesetz, behördlichen Auftrag oder Rechtsgeschäft eingeräumte Befugnis, über fremdes Vermögen zu verfügen oder einen anderen zu verpflichten, mißbraucht oder die ihm kraft Gesetzes, behördlichen Auftrags, Rechtsgeschäfts oder eines Treueverhältnisses obliegende Pflicht, fremde Vermögensinteressen wahrzunehmen, verletzt und dadurch dem, dessen Vermögensinteressen er zu betreuen hat, Nachteil zufügt, wird mit Freiheitsstrafe bis zu fünf Jahren oder mit Geldstrafe bestraft» («Chiunque abusa del potere di disporre di un patrimonio altrui o di obbligare un terzo, conferitogli per legge, per ordine dell’autorità o per negozio giuridico, ovvero viola l’obbligo di curare interessi patrimoniali altrui, del quale è investito in forza di legge, di un ordine dell’autorità, di un negozio giuridico o di un rapporto fiduciario, arrecando con ciò pregiudizio a colui del quale deve curare gli interessi patrimoniali, è punito con la pena detentiva fino a cinque anni o con la pena pecuniaria» trad. nostra). Cfr. U. Kindhäuser, M. Böse, Strafrecht. Besonderer Teil II. Straftaten gegen Vermögensrechte, Baden-Baden, 11° Aufl., 2021, 327 ss.
[32] J. Eisele, Strafrecht. Besonderer Teil II. Eigentumsdelikte un Vermögensdelikte, Stuttgart, 6° Aufl., 2021, 309 sottolinea che il reato può essere commesso da chi ha un obbligo di gestione del patrimonio.
[33] L. Foffani, Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi nella gestione d’impresa. Profili penalistici, cit., 237. A. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., 123 ritiene che la norma vada inevitabilmente incontro a problemi di costituzionalità.
[34] Questo esempio è offerto da K. Alten, Amtsmißbrauch. Eine rechtsvergleichende Untersuchung zu Artikel 323 des italienischen Strafgesetzbuchs, Göttingen, 2012, 299 s., operando un confronto tra la disciplina tedesca e quella italiana.
[35] K. Alten, Amtsmißbrauch. Eine rechtsvergleichende Untersuchung zu Artikel 323 des italienischen Strafgesetzbuchs, cit., 382. L’Autore ricorda che il codice penale prussiano del 1851 ha influenzato da vicino il primo codice penale della Germania unificata, quello del 1871 (p. 445).
[36] Cfr. P. Humpherson, Paper on the English and Welsh Common Law Offence of Misconduct in Public Office, in A.R. Castaldo (a cura di), Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, Torino, 2018, 88 ss.
[37] Cfr. la relazione della Law Commission, anche in sintesi, con le raccomandazioni finali del 4 dicembre 2020, su https://www.lawcom.gov.uk/project/misconduct-in-public-office/#:~:text=The%20offence%20requires%20that%3A%20a,without%20reasonable%20excuse%20or%20justification. Cfr., per un’analisi, F. Coppola, Spazi applicativi vecchi e nuovi per la fattispecie di abuso d’ufficio riformata. Cenni comparativi con l’ordinamento inglese, in A.R. Castaldo, M. Naddeo (a cura di), La riforma dell’abuso d’ufficio, Torino, 2021, 137 ss.
[38] F. Coppola, Abuso d’ufficio: appunti per una possibile riforma dai lavori della Law Commission sulla common law offence of Misconduct in Public Office, in Archivio Penale, 2, 2020 (18 giugno 2020), 6.
[39] V. Scalia, La corruzione: a never ending story. Strumenti di contrasto e modelli di tipizzazione nel panorama comparato e sovrannazionale, Torino, 2020, 438.
[40] Cfr. F. Coppola, Abuso d’ufficio: appunti per una possibile riforma dai lavori della Law Commission sulla common law offence of Misconduct in Public Office, cit., 10 ss.
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