ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riflessioni sulla riforma del processo tributario in Cassazione. La nuova Sezione Tributaria della Cassazione, la pace fiscale ed il rinvio pregiudiziale
di Rosita d’Angiolella
Sommario: 1. Il PNRR sfida la Suprema Corte di Cassazione: “(R)ipresa” o “(R)esilienza”? – 2. Misure organizzative per la definizione del contenzioso tributario pendente presso la Corte di cassazione. – 3. Rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione – 4. La definizione agevolata delle controversie pendenti in Cassazione.
1. Il PNRR sfida la Suprema Corte di Cassazione: “(R)ipresa” o “(R)esilienza”?
Il traguardo (Milestone M1C1-35) posto con il Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza (PNRR) di rendere più efficace l’applicazione della legislazione tributaria italiana e di ridurre l’elevato numero di ricorsi alla Corte di Cassazione[1], è stato raggiunto con la legge 31 agosto 2022 n. 130, attuandosi, così, una delle principali misure di programmazione economico-sociale con le quali la Commissione Europea è intervenuta nei confronti dell’Italia, Paese “resiliente”.
Ed infatti, al di là dello scarso gradimento, in contesto giuridico, dell’uso del termine “resilienza”, è innegabile che tale sostantivo abbia innescato un’inusitata fortuna, in considerazione dell’attenzione riservata dalla Commissione Europea all’Italia, avviandone un’importante stagione di riforma in tutti i settori della giustizia, civile (l. 26 novembre 2021 n. 206), penale (l. 27 settembre 2021 n. 134) e tributaria (l. 9 agosto 2022 n. 130).
In tale contesto, gli spunti di riflessione che seguono - limitati al nuovo impianto organizzativo della sezione della Corte di cassazione deputata agli affari tributari ed ai nuovi istituti della “pace fiscale” e del rinvio pregiudiziale - non possono che muoversi, anche in base ai criteri interpretativi positivizzati nel nostro ordinamento dall’art. 12 preleggi, da un approccio ermeneutico funzionalmente “resiliente” considerato che l’intenzione del legislatore è ispirata alla “milestone M1C1-35” ed ai traguardi con essa posti. Il tentativo, cioè, è quello di proporre un’interpretazione che non indulga in esasperati formalismi, ma che agisca « “in maniera costruttiva, non sterile”, senza arroccarsi nella difesa dello status quo, tenendo conto che “se la qualità delle proposte è essenziale, la loro percezione non è di secondaria importanza, ma può essere determinante nel successo delle riforme”».[2]
Tale approccio ermeneutico appare necessitato dal fatto che il PNRR ha imputato ai ritardi eccessivi della giustizia italiana il principale fattore di decrescita economica del nostro Paese[3], condizionando alla messa in campo di strumenti di “riduzione dei tempi del giudizio” l’accesso ai benefici degli strumenti del Next generation EU e, quindi, l’accesso alle risorse del Recovery Found.
In tale stregua, i lavori preparatori alla legislazione di riforma hanno ben avuto chiaro che l’intervento che andava a farsi non potesse limitarsi alle sole misure di carattere processuale, ma dovesse aggredire “nodi organizzativi irrisolti”, muovendosi, contestualmente, “su tre direttrici tra loro inscindibili e complementari”, incidenti, cioè, “sul piano organizzativo, nella dimensione extra processuale e nella dimensione endoprocessuale”.[4]
La consapevolezza che, per attuare una compiuta riforma della giustizia tributaria, occorresse abbandonare l’approccio fondato esclusivamente sul rito del processo per puntare, invece, sulla dimensione strettamente organizzativa degli uffici giudiziari[5], ha portato all’adozione di misure certamente innovative che investono l’assetto ordinamentale della magistratura tributaria e, contestualmente, il sistema processuale tributario.
Ed invero, ad uno sguardo complessivo della legge n. 130 del 2022, è evidente come, a differenza delle parallele riforme del processo penale e di quello civile, la materia tributaria è stata la protagonista principale dell’attuazione degli obiettivi individuati dal PNRR per la riforma della giustizia, introducendosi novità sia sul piano strettamente organizzativo (reclutamento dei nuovi giudici tributari, elezioni componenti CPTG, nuovo assetto organizzativo della sezione tributaria della Corte di Cassazione), sia sul piano endoprocedimentale (per quel che qui interessa, rinvio pregiudiziale e pace fiscale), sia su quello extra processuale, di cui la pace fiscale e la disciplina di dettaglio delle misure organizzative ne rappresentano l’emblema.
È che, dunque, di “pietra miliare” (milestone) si sia trattato, non pare revocabile in dubbio, non foss’altro perché, con tale riforma, si sono affrontate importanti questioni, giuridiche e di prassi organizzative, di cui da tempo si reclamava una definizione.
La sfida più interessante agli occhi di chi scrive, riguarda le disposizioni che attengono alla Corte di Cassazione, frutto di un inusitato incontro tra le empiriche logiche economiche del PNRR e la sacralità delle regole del giudizio di legittimità, che pone la domanda del se, con esse, si sia intrapresa la strada della “Ripresa” o si sia soltanto enfatizzata la “Resilienza”, virtù quest’ultima da tempo funzionale all’attività giudiziaria della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, ove, come è noto, pendono la gran parte delle cause del settore civile della Corte di legittimità.[6]
Le seguenti brevi riflessioni attengono alle novità contenute nell’art. 3 (Misure per la definizione del contenzioso tributario pendente presso la Corte di cassazione) e nell’art. 5 (Definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di cassazione) della legge del 9 agosto 2022 n. 130 (entrata in vigore il 16 settembre 2022), nonché nell’art. 363 bis cod. proc. civ., come introdotto dal legislatore delegato alla riforma del rito civile (d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, entrato in vigore il 18 ottobre 2022).
2. Misure organizzative per la definizione del contenzioso tributario pendente presso la Corte di cassazione.
L’art. 3 della legge n. 130 del 2022 - rubricato: “Misure per la definizione del contenzioso tributario pendente presso la Corte di cassazione” - così dispone:
«Presso la Corte di cassazione è istituita una sezione civile incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia tributaria. 2. Il primo presidente adotta provvedimenti organizzativi adeguati al fine di stabilizzare gli orientamenti di legittimità e di agevolare la rapida definizione dei procedimenti pendenti presso la Corte di cassazione in materia tributaria, favorendo l'acquisizione di una specifica competenza da parte dei magistrati assegnati alla sezione civile di cui al comma 1.».
Del perché l’esercizio della funzione nomofilattica in materia fiscale sia stato inserito nel perimetro di attuazione della principale misura di programmazione economica sociale progettata dal Governo italiano, di concerto con l’Unione Europea, si è detto, se pur brevemente, in premessa.[7]
Come evidenziato, la leva per muovere una previsione di tal genere - che arriva a rimarcare i normali poteri di indirizzo organizzativo del Primo Presidente - è mossa dai dati statistici riguardanti il numero di ricorsi pendenti presso la sezione tributaria e dall’enorme valore economico delle controversie che da sole fanno, in realtà, la cifra economica della giustizia di legittimità.[8]
Quale consigliere di Cassazione della sezione deputata alla trattazione delle controversie tributarie (neonominata “Sezione Tributaria”), si comprende la preoccupazione di quanti hanno ritenuto che le disposizioni di cui all’art. 3 l. cit. abbiano un valore di “bandiera”, e non sostanziale, considerato, che la Sezione Tributaria e la cifra che esprime in termini di contenzioso, già esistono da tempo, così come i poteri organizzativi della massima autorità della Suprema Corte, pleonasticamente rimarcati dalla specifica disposizione normativa.[9].
Tuttavia, se, in base all’approccio resiliente di cui si è detto innanzi, il successo delle riforme è dato oltre che dalla qualità delle proposte anche dalla loro percezione,[10] non può negarsi che assume una certa significatività l’istituzione ex lege– come già fatto negli anni 70 per la Sezione Lavoro della Corte – della Sezione Tributaria, al fine di caratterizzare le sue competenze specialistiche e di differenziarla dagli altri settori del diritto civile, trattati in seno alla Corte di Cassazione.
Significativamente percettiva è, altresì, la disposizione in parola nella parte in cui ha rimarcato i poteri di indirizzo organizzativo del Primo Presidente, indicandoli come specificamente diretti alla Sezione Tributaria, al fine di a) “stabilizzare” gli orientamenti di legittimità in materia tributaria, b) porre in essere tutte le misure idonee ad agevolare la rapida definizione dei procedimenti pendenti presso la Corte di cassazione, c) di favorire l'acquisizione di una specifica competenza in materia tributaria da parte dei magistrati assegnati alla sezione tributaria.
Sebbene il potere organizzativo del Primo Presidente sia stato, nel corso degli anni, costantemente esercitato nei confronti della sezione civile deputata agli affari tributari della Corte di legittimità, con la riforma, tale potere è percepito con una specificità propria in quanto il Primo Presidente è tenuto all’adozione di misure specifiche e dirette a snellire la definizione dei procedimenti tributari pendenti in Corte di Cassazione.
Nei fatti, ciò ha coinciso, tra l’altro, con l’adozione del decreto di assegnazione dei nuovi consiglieri (n. 131 del 9/11/22) che, a memoria di chi scrive, ha tenuto conto per la prima volta, nei criteri di assegnazione, della specifica competenza dei consiglieri di assegnare alla Sezione Tributaria (svolgimento delle funzioni di giudice delle Corti di Giustizia tributaria di primo e di secondo grado). L’assegnazione stabile di magistrati specializzati in materia tributaria rappresenta senz’altro un caposaldo della riforma, ponendosi fine a misure “precarie” e non dirimenti che hanno visto l’assegnazione, di ufficio, dei giudici del Massimario – nonché di magistrati in pensione.[11]
Il momento attuativo di tale riforma non è di poco momento, considerato che la nuova organizzazione della Sezione tributaria, si innesta con la riforma del processo civile, per la quale il Primo Presidente ha messo in campo una serie di provvedimenti per dar modo da tutte le sezioni civili della Corte di attuare la riforma in maniera effettiva e coordinata. Proprio alle porte di quest’autunno, infatti, il processo riformatore avviato con la legge delega per la riforma del processo civile (l. 26 novembre 2021 n. 206), si è completato con la pubblicazione del decreto delegato del 10 ottobre 2022 n. 149, pubblicato in pari data al decreto delegato n. 151 per l’Ufficio del processo[12].
Con la riforma del processo civile, l’intervento del Governo, come esposto nella relazione tecnica[13] allo schema di decreto legislativo, è stato diretto, tra l’altro, a razionalizzare i procedimenti dinanzi alla Suprema Corte, riducendone i tempi di durata e modellando i riti sia camerali che in pubblica udienza con misure di semplificazione, snellimento ed accelerazione degli adempimenti.
In particolare, per quanto concerne il giudizio di cassazione, la delega prevede:
a) la riforma del c.d. filtro in Cassazione, con la previsione di un procedimento accelerato per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati. In particolare, se il giudice (giudice filtro, in luogo della sezione filtro) ravvisa uno dei possibili suddetti esiti, lo comunica alle parti lasciando loro la possibilità di optare per la richiesta di una camera di consiglio ovvero per la rinuncia al ricorso. Quest'ultima possibilità è incentivata escludendo, per il soccombente, il pagamento del contributo unificato altrimenti dovuto a titolo sanzionatorio.
b) al fine di dare attuazione ai criteri e principi di delega previsti dai commi 9 e 10 dell'articolo unico della l. n. 206 del 2021, l’art. 3, commi 27, 28, e 29, d.lgs. n. 206 del 2022 (i) unifica i riti camerali attraverso la soppressione della sezione di cui all'art. 376 cod. proc. civ., concentrando la relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici con il mantenimento della disciplina di cui all’art. 380 bis cod. proc. civ, con deposito immediato in cancelleria dell'ordinanza succintamente motivata; (ii) prevede, rispetto all'ordinaria sede camerale, un procedimento accelerato per la dichiarazione di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza; (iii) introduce il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale in Cassazione (v. infra, paragrafo 3), (iv) introduce anche una nuova ipotesi di revocazione delle sentenze il cui contenuto sia stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in tutto in parte contrario stato alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ovvero ad uno dei suoi protocolli, e non sia possibile rimuovere la violazione tramite la tutela per equivalente.[14]
Tornando all’art. 3, della l. n. 130 del 2022, è stato evidenziato che la disposizione in parola, nella parte in cui ha riguardo al potere organizzativo del Primo Presidente, sottintende, in realtà, «[…] evidenti responsabilità al riguardo del Consiglio direttivo della Corte ed anche di più del Consiglio Superiore della Magistratura».[15] Quest’ultimo, in particolare, sarebbe tenuto «a dare attuazione alla disposizione legislativa primaria con la normazione secondaria, sia tabellare che concorsuale, trovando i modi più appropriati per implementare l’influsso delle risorse, anche specialistiche, alla Cassazione, giacché, altrimenti, le attribuzioni presidenziali ne risulterebbero fortemente limitate e sostanzialmente la scelta riformatrice verrebbe vanificata»[16].
Al di là dei profili di eventuale responsabilità in caso di mancata attuazione dei provvedimenti del Primo Presidente – che fuoriescono dalla presente analisi - è innegabile che la nuova disposizione si innesca nel più ampio meccanismo del sistema di governo autonomo della Magistratura. L’auspicio è che la nuova normativa ponga le basi per una sinergia tra i vari attori istituzionali per operare nel senso dello snellimento del carico di lavoro della Sezione Tributaria, adottando misure organizzative organiche, omogenee e coerenti con tutto l’impianto riformatore.
In tale prospettiva, anche il potere di indirizzo formativo in carico alla Scuola Superiore della Magistratura, potrà trovare nella norma in parola specifici criteri guida per rafforzare l’offerta formativa nella materia tributaria.
3.Rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione
Il disegno di legge delega governativo conteneva due disposizioni processuali, di notevole rilievo, direttamente disciplinanti il giudizio di Cassazione: il rinvio pregiudiziale ed il ricorso del procuratore generale presso la Corte nell'interesse della legge.
In sede parlamentare si è scelto di epurare la legge n. 130 del 2022 di tali disposizioni scegliendo, da un alto, di collocare l’istituto del rinvio pregiudiziale nel codice di procedura civile (art. 363 bis) e, dall’altro, di eliminare la previsione del ricorso del procuratore generale nell’interesse della legge.
Entrambe le scelte appaiono senz’altro coerenti e funzionali al sistema ordinamentale del codice di rito in cassazione. Ed invero, il rito del processo civile in Cassazione è unico, indipendentemente dalla materia trattata, sicché le misure che investono la funzione giurisdizionale della Corte di legittimità, devono innestarsi nell’ambito dell’impianto generale che regola il processo di legittimità, evitandosi distonie processuali che finirebbero con l’incidere inevitabilmente sul diritto di difesa costituzionalmente garantito. Ciò, a maggior ragione, considerando che la Sezione Tributaria, per quanto concepita come sezione specializzata, non realizza un ordine autonomo e specializzato (art. 103 Cost.), sicché se fosse rimasta la previsione di una funzione di legittimità (nel caso il rinvio, pregiudiziale) deputata solo alla materia tributaria, tale previsione sarebbe stata sicuramente incompatibile con il sistema del nostro ordinamento processuale.
In tale cornice, si comprende anche il perché la legittimazione del procuratore generale a ricorrere nell’interesse della legge, avrebbe rappresentato una scelta del tutto spuria rispetto al sistema ordinamentale del rito civile di cassazione.[17]
L’istituto del rinvio pregiudiziale rappresenta, senz’altro, una delle principali novità del processo in cassazione.
Tale strumento, già presente in altri ordinamenti, in particolare in quello francese (cd. saisine pour avis), consiste nella possibilità per il giudice di merito di sottoporre direttamente alla Suprema Corte una questione di diritto, sulla quale deve decidere ed in relazione alla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti.
Il primo comma dell’art. 363 bis cod. proc. civ. delimita le questioni del possibile rinvio, prevedendo che: 1) la questione sia necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e che non sia stata ancora risolta dalla Corte di cassazione; 2) la questione presenti gravi difficoltà interpretative; 3) sia suscettibile di porsi in numerosi giudizi.
Il secondo comma della norma in parola, invece, instrada il giudice di merito sui paletti di inammissibilità, descrivendo le caratteristiche che l’ordinanza di rimessione deve avere; essa deve essere motivata con riferimento a tutti i requisiti previsti dal primo comma della disposizione in parola (analogamente a quelle con cui viene sollevata una questione di legittimità costituzionale) ed in particolare, con riferimento al requisito delle “gravi difficoltà interpretative”, dando specifica indicazione delle diverse interpretazioni “possibili” e, quindi, attendibili, rispetto al sistema ordinamentale[18].
Il deposito dell’ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale comporta, inoltre, l’automatica sospensione del procedimento di merito, salvo il compimento degli atti urgenti e dell'attività istruttorie, non dipendente dalla soluzione della questione oggetto di rinvio pregiudiziale.
Il terzo comma introduce il filtro delle ordinanze di rimessione da parte del Primo presidente della Corte di cassazione, il quale, ricevuti gli atti, entro il termine di novanta giorni, valuta la sussistenza dei presupposti previsti dalla norma. In caso di valutazione positiva, assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice (secondo le ordinarie regole di riparto degli affari); mentre in caso di valutazione negativa, dichiara inammissibile la questione con decreto.
La relazione illustrativa evidenzia che poiché il rinvio è possibile solo ove si tratti di questione necessaria alla definizione anche parziale del giudizio, che non sia stata risolta dalla Corte di Cassazione, che presenti gravi difficoltà interpretative, nonché sia suscettibile di porsi numerosi giudizi (art. 363 bis primo comma), si è previsto che la Corte, sia a sezioni unite che a sezioni semplici, pronunci sempre in pubblica udienza con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con la facoltà per le parti di depositare brevi memorie nei termini di cui all'articolo 378 cod. proc. civ. (363 bis, quarto comma).
Se il Primo Presidente non dichiara l'inammissibilità della questione oggetto di rinvio pregiudiziale per la mancanza di una o più delle condizioni di cui al primo comma dell'articolo 363 bis cod. proc. civ. (363 bis, terzo comma), il procedimento si conclude con l'enunciazione del principio di diritto da parte della Corte, espressamente previsto come vincolante nel giudizio nell'ambito del quale è stata rimessa la questione (363 bis, sesto comma).
Il nuovo istituto pone non poche questioni problematiche.
La prima, di carattere generale, riguarda la legittimazione a proporre il rinvio pregiudiziale, se cioè tra i “giudici di merito” rientrino, oltre ai giudici ordinari anche quelli speciali (amministrativi, contabili e tributari).
La questione, posta in maniera critica dall’Ufficio del Massimario con la relazione n. 96/2022, trova la soluzione all’interno del sistema che regola il rapporto tra le giurisdizioni speciali ed ordinarie.
In virtù di tale rapporto, senz’altro i giudici tributari sono ammessi alla proposizione di tale rinvio pregiudiziale, stante il disposto dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 che stabilisce che i giudici tributari applicano le norme del predetto decreto e, per tutto quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile. Per tale espresso rinvio, dunque, i giudici tributari possono ricorrere al rinvio pregiudiziale; alle stesse conclusioni si perviene anche tenuto conto delle intenzioni del legislatore, considerato che, come si è detto sopra, nel progetto di riforma del giudizio tributario era stato introdotto appositamente tale istituto, poi eliminato, alla luce del rinvio generale previsto dal citato art. 1, comma 2, d.lgs. n. 547 del 1992 nonché per ragioni di politica legislativa che lo ha voluto come strumento estensibile a tutti i giudici di merito al fine di consentire l’uniformità e la certezza del diritto.
Viceversa, non rientra tra i soggetti legittimati, il giudice amministrativo, le cui pronunce possono essere impugnate dinanzi alla Corte di cassazione solo per questioni di giurisdizione (art. 111, comma 8, Cost.).
Altra questione che si pone riguarda i limiti temporali entro cui la questione di diritto può essere sollevata dal giudice di merito, potendo un rinvio “precoce” rendere inattuabile il principio di diritto per la mutata situazione dei fatti accertati nel frattempo. Ci si chiede, cioè, cosa accade nel caso in cui il rinvio pregiudiziale venga sollevato in un “momento anteriore alla fissazione definitiva dei fatti”, per il concreto il rischio, in tal caso, che il principio di diritto enunciato risulti «eccessivamente opinabile per il giudice e per le parti per non corrispondenza o completezza dei fatti al principio di diritto enunciato»[19].
Nel silenzio del legislatore, che non pone alcun sbarramento temporale al rinvio pregiudiziale, tale questione deve essere affrontata in considerazione della vincolatività del principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione.[20]
Ed invero, una volta enunciato il principio di diritto, la questione giuridica è definitivamente risolta ed il vincolo diventa efficace nei confronti di tutti i giudici chiamati a pronunciarsi all’interno del procedimento, anche del giudice di appello (in caso di rinvio pregiudiziale da parte del giudice di primo grado) e della stessa Corte di Cassazione.
Analogamente a quanto accade con riguardo alla violazione del principio di diritto ex art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., la mancata applicazione da parte del giudice del procedimento del principio di diritto è denunciabile in sede di impugnazione, come violazione della regola iuris ivi enunciata. Ed infatti, il principio di diritto, non può essere sindacato o eluso dal giudice del rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale, o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile né dallo stesso giudice del rinvio, né dalla Corte di Cassazione, neppure sulla base di arresti giurisprudenziali successivi diversamente orientati.[21]
La vincolatività del principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, viene meno solo nel caso di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme in questione, ovvero di mutamento normativo prodotto da una sentenza della Corte di giustizia, oppure se la norma sia stata modificata, sostituita, abrogata per effetto dello ius superveniens, in quanto l'efficacia vincolante della sentenza della Corte, presuppone il permanere della disciplina normativa in base alla quale è stato enunciato il principio di diritto stesso.[22]
Stante, dunque, la vincolatività del principio di diritto, la soluzione alla questione posta non può che ritrovarsi in un’interpretazione di sistema che investa sia il giudice del rinvio - il quale, nel disporre il rinvio, sarà tenuto a compiere anche una valutazione del merito della controversia per dare chiarezza alla fattispecie rispetto alla quale l’enunciazione del principio è richiesta – sia, il filtro di ammissibilità esercitato dal Primo Presidente, il quale, là dove la fattispecie non consente la chiara identificabilità della questioni di fatto (dalle quali muove la questione di diritto oggetto del rinvio pregiudiziale) ben potrà ritenere la questione inammissibile per carenza delle condizioni legittimati il rinvio.
Ciò, fermo restando che, non diversamente da quanto accade per il giudizio di rinvio disciplinato dall’art. 384 cod. proc. civ., il giudice di merito rimarrà libero dal vincolo tutte le volte in cui vengano successivamente accertati – entro i limiti delle preclusioni eventualmente maturate - ulteriori e diversi profili di fatto che configurino un nuovo thema decidendum non affrontato, negli stessi termini, dalla decisione della Corte.[23]
In considerazione di tali problematiche, è stato evidenziato che « il rinvio pregiudiziale dovrebbe essere anzitutto (ed essenzialmente) disposto (e ritenuto ammissibile) in relazione a disposizioni caratterizzate da alto tasso di tecnicismo, meno incise dalle specificità delle situazioni di fatto (come per talune norme processuali e non poche proprio in ambito tributario) e, quindi, caratterizzate dalla astratta idoneità a consentire l'identificazione di una regola iuris non condizionata dalle stesse».[24]
Allo stato, stante la giovanissima entrata in vigore dalla norma introduttiva del rinvio pregiudiziale (ottobre 2022) che fa mancare una casistica applicativa, non rimane che attendere, per chiarire le incertezze che la norma pone, il successivo sviluppo giurisprudenziale che senz’altro contribuirà a dipanare anche le questioni oggetto della presente trattazione.[25]
L’ultima finale considerazione non può che riguardare l’impatto politico/giudiziario che tale previsione, anche in termini di prospettiva, pone.
Con il rinvio pregiudiziale si è voluto garantire il tempestivo intervento nomofilattico della Corte di legittimità per ovviare alle incertezze causate dalle interpretazioni divergenti e dagli orientamenti contrastanti, scaturenti oltre che da una normativa alluvionale, che incide sulla durata dei giudizi, anche dal numero delle impugnazioni in Cassazione. L'obiettivo esplicitato nelle relazioni della Commissione Luiso e della Commissione della Cananea è stato quello di ridurre i tempi del giudizio in Cassazione anche mediante un meccanismo in grado di incidere sui presupposti dell'impugnazione della sentenza con ricorso per Cassazione, assicurando il tempestivo intervento della Corte di Cassazione per prevenire, tramite l'enunciazione del principio di diritto, un probabile contenzioso su una normativa nuova o sulla quale non si sia ancora pronunciata la giurisprudenza di legittimità.
Le stesse Commissioni di studio hanno rilevato che l'istituto del rinvio pregiudiziale è «anche coerente con il ruolo di jus dicere proprio del giudice di legittimità. In questo modo infatti la Corte di legittimità assolve completamente al proprio compito di sommo organo regolatore, proteso all'armonico sviluppo del diritto nell'ordinamento»;[26] in particolare, per il diritto tributario «l'esigenza di assicurare una tempestiva interpretazione uniforme è particolarmente avvertita per due ordini di ragioni: il continuo succedersi di norme di nuove introduzioni, rispetto alle quali il giudice del merito non ha un indirizzo interpretativo di legittimità a cui fare riferimento è la serialità dell'applicazione le norme che si riflette sulla serialità del contenzioso».[27]
Nonostante il consueto approccio ermeneutico “resiliente”, rimangono notevoli dubbi sulla possibilità di realizzare, con il rinvio pregiudiziale, uno strumento di facilitazione e snellimento del contenzioso tributario, nonché di certezza del diritto. Ed infatti, se sul piano teorico, senz’altro lo strumento del rinvio pregiudiziale, integrato secondo i canoni normativi del sistema processuale del giudizio di legittimità, pone le basi per introdurre un importante strumento di nomifilachia preventiva che potrebbe giovare al giudizio tributario che risente del continuo cambio della normativa applicabile (basti pensare soltanto alle leggi finanziarie di anno in anno incidenti sulle singole disposizioni che regolano le imposte dirette, indirette e locali) e della ingente quantità dei ricorsi azionati dalla parte privata o dal Fisco, sul piano pratico, le attuali condizioni della giustizia italiana - che la stessa Commissione Europea ha attenzionato come la principale causa di decrescita del nostro Paese – sembrano preludere ad esiti negativi della nuova misura.
L’auspicio (resiliente) è che la nomifilachia preventiva riesca ad incanalarsi in un ciclo processuale virtuoso, che non sia interpretato dal giudice di merito come una facile scappatoia per eludere questioni di diritto comunque risolvibili appesantendo ulteriormente, in termini di contenzioso, l’attività giudiziaria della Corte Cassazione, che, tra filtro di ammissibilità e risoluzione della questioni di diritto, molto probabilmente si troverà a gestire un meccanismo processuale, parallelo a quello ordinario, che, anziché giovare, potrebbe ancor più limitare la funzione nomofilattica.
4. La definizione agevolata delle controversie pendenti in Cassazione.
L’art. 5 della legge n. 130 del 2022 reca la disciplina della definizione agevolata dei giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di Cassazione. Tale definizione realizza l’ultima di una lunga serie di definizioni agevolate delle liti che si sono susseguite nella legislazione degli ultimi anni (art. 16 l. 27 dicembre 2002 n. 289; art. 39, comma 12 del d.l. 6 luglio 2011 n. 98; art. 11 del d.l. n. 24 aprile 2017 n. 50; art. 6 del d.l. 23 ottobre 2018 n. 119, come conv. l. 17 dicembre 2018 n. 136).
La domanda di definizione deve essere presentata dal soggetto che ha proposto l’atto introduttivo del giudizio o da chi vi è subentrato o ne ha la legittimazione, il quale, ai sensi dell’art. 5 della legge 31 agosto 2022, n. 130, intende definire i giudizi tributari pendenti innanzi alla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 62 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546.
Sono definibili le controversie pendenti innanzi alla Corte di cassazione per le quali l’Agenzia delle entrate risulti: a) integralmente soccombente in tutti i precedenti gradi di giudizio e il valore delle quali, determinato ai sensi dell'art. 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, sia non superiore a 100.000 euro, con il pagamento di un importo pari al 5 per cento del valore della controversia, determinato ai sensi del medesimo articolo 16, comma 3; b) soccombente, in tutto o in parte, in uno dei gradi di merito e il valore delle quali, determinato ai sensi dell'articolo 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002 n. 289, sia non superiore a 50.000 euro, con il pagamento di un importo pari al 20 per cento del valore della controversia, determinato ai sensi del medesimo articolo 16, comma 3, della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
Come precisato dal provvedimento Prot. n. 356446/2022 del Direttore dell’Agenzia delle entrate, di attuazione della disposizione in esame, «per valore della controversia, da assumere a base del calcolo per la definizione, si intende l’importo dell’imposta che ha formato oggetto di contestazione in primo grado, al netto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni collegate al tributo, anche se irrogate con separato provvedimento; per le controversie relative esclusivamente a sanzioni non collegate al tributo, il valore della lite è determinato dall’importo delle stesse. Il valore della lite è determinato con riferimento a ciascun atto introduttivo del giudizio, indipendentemente dai tributi in esso indicati. Ai sensi dell’articolo 5, comma 4, della legge 31 agosto 2022, n. 130, per controversie tributarie pendenti si intendono quelle per le quali il ricorso per cassazione è stato notificato alla controparte entro la data di entrata in vigore della legge (16 settembre 2022), purché, alla data della presentazione della domanda, non sia intervenuta una sentenza definitiva. Gli effetti della definizione perfezionata prevalgono su quelli delle eventuali pronunce giurisdizionali non passate in giudicato prima dell’entrata in vigore del citato articolo 5 della legge 31 agosto 2022, n. 130».
La disposizione in parola esclude dalla definizione le controversie concernenti, anche solo in parte:
a) le risorse proprie tradizionali previste dall’art. 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione (UE, Euratom) 2020/2053 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, e l'imposta sul valore aggiunto riscossa all'importazione;
b) le somme dovute a titolo di recupero di aiuti di Stato ai sensi dell'articolo 16 del regolamento (UE) 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015.
Quanto ai riflessi processuali, la disposizione in commento dispone che le controversie definibili non sono sospese salvo che il contribuente con apposita richiesta al giudice dichiara di potersi avvalere della definizione agevolata; in tal caso il processo è sospeso fino alla scadenza del termine di 120 giorni dalla data in vigore del provvedimento in esame.
Inoltre, come per ogni definizione agevolata, è previsto il diniego da parte dell'Agenzia delle entrate da notificarsi entro 30 giorni nella modalità degli atti processuali; il diniego è a sua volta impugnabile entro 60 giorni innanzi alla Corte di Cassazione e, in mancanza di istanza di trattazione presentata dalla parte interessata, il processo si dichiara estinto.
La peculiarità della definizione agevolata introdotta dal legislatore del 2022 si ritrova nell’ambito applicativo che, rispetto alle misure condonistiche precedenti, risulta particolarmente ristretto.[28]
Ed invero, mentre per le ipotesi precedenti di definizione agevolata delle liti, la soccombenza dell’amministrazione in alcuni gradi di giudizio non definitivi incideva soltanto sul quantum della definizione (che diminuiva più erano i gradi di soccombenza per l’amministrazione e più avanzato era lo stato del giudizio), nella nuova ipotesi incide anche sull’an, potendosi definire in via agevolata soltanto le cause pendenti esclusivamente in Cassazione nelle quali l’amministrazione sia risultata soccombente in almeno un grado di giudizio di merito precedente e sempre che il valore della controversia sia contenuto entro i limiti suddetti, peraltro, abbastanza ridotti.
Il ristretto perimetro applicativo di tale definizione ha immediatamente levato critiche negative, specie confrontandola con la precedente “pace fiscale” (art. 6 d.l. n. 119 del 2018 conv. in l. 136 del 2018) che consentiva di chiudere tutte le controversie a prescindere dal valore, all’unica condizione che il ricorso introduttivo fosse stato notificato alla data del 24 ottobre 2018.
Le immediate critiche sono state da subito taciute in considerazione della finalità principale perseguita con questo nuovo istituto che è quella dello smaltimento dell’arretrato tributario pendente presso la Suprema Corte, piuttosto che, come nei precedenti condoni, dell’incasso del gettito fiscale suscettibile di essere ricavato dall’adesione alla definizione.
È quanto, del resto, espressamente chiarito nella relazione illustrativa al d.d.l. A.S. 2636 dove si afferma (pag. 12) la necessità di «incisive disposizioni legislative per la definizione agevolata delle controversie pendenti avanti la sezione specializzata, pur limitandole allo stretto necessario per raggiungere una «soglia critica» di deflazione immediata che consenta, de residuo, l’impostazione di un programma triennale di smaltimento dell’arretrato e di stabilizzazione operativa con ragionevoli probabilità di successo». Ciò sempre, in attuazione della “pietra miliare” posta dal PNRR, per lo smaltimento dell’arretrato (v. supra, paragrafo 1).
D’altro canto, dall’analisi svolta dai tecnici del Ministero della Giustizia circa i parametri del contenzioso in cassazione, si evince che una definizione delle liti di valore fino ad euro 100.000, 00, interesserebbe complessivamente circa il 63,89% del contenzioso pendente in Cassazione al 2020, per un totale di 33.337 controversie.[29]
Dall’elenco generale, predisposto dagli Uffici della Sezione Tributaria, delle cause interessate al condono in oggetto, aggiornato al 7/11/2022, risultano presentate 441 istanze e 23 dinieghi, il che dimostra l’efficacia della misura nel giro di pochi giorni di applicazione. Tale elenco contiene anche la provenienza regionale delle domande in questione, ove il primo posto è della Lombardia (con 65 domande), che precede solo la Campania (61 domande), mentre l’ultimo posto è di Bolzano (con “0” domande), cui segue la Basilicata con n. 2 domande.
Molti i nodi che rimangono irrisolti.
Se l’obiettivo era quello di ridurre il numero di ricorsi in cassazione, concreti dubbi sull'effettiva riduzione del contenzioso nascono dall’ulteriore dato statistico che la maggior parte dei ricorsi tributari definiti in cassazione è proposto dall’Agenzia delle entrate (al dicembre 2021 su un totale di 7.994 definiti, l’Agenzia delle entrate è parte ricorrente nel 51% del totale, per un valore economico di 6.880.604.918, pari al 73,3% del valore complessivo)[30]; inoltre, sempre in chiave critica, non può mancarsi di evidenziare che la definizione agevolata introdotta con la legge n. 130 del 2022 non è automatica in quanto, nonostante il contribuente abbia versato il dovuto (5%-20% del valore della controversia) l'Agenzia può sempre opporsi alla definizione, con l'effetto di creare un'ulteriore aumento del contenzioso atteso che il diniego, discrezionale, dell'Agenzia delle entrate è impugnabile entro 60 giorni innanzi alla Corte di Cassazione, generando ulteriore contenzioso.
Sotto altro e più specifico profilo, va attenzionato il comma 9 dell’art. 5 che prevede, tout court che «la definizione non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione stessa», senza curarsi di far salvi «i casi di soccombenza dell’amministrazione finanziaria dello Stato» come, invece, facevano l’art. 16, comma 5, della l. n. 289/2002 e l’art. 39, comma 12, del d.l. 98/2011, il che precluderebbe il giudizio d’ottemperanza nel caso in cui il contribuente abbia diritto alla restituzione delle somme pagate a titolo provvisorio. Ci si chiede, infatti, se tale aspetto limiterà l’appetibilità della definizione stessa, in quanto non ricevendo il contribuente la restituzione delle somme versate in maniera eccedente, ciò comporterà che non avrà interesse a definire la controversia in via agevolata, soprattutto quando, dopo la soccombenza in secondo grado, sia stato già costretto a pagare l'intero importo indicato nell'atto impugnato, come previsto l'art. 68, comma 1, lettera g), d.lgs. n. 546 del 1992.
Solo la prassi applicativa potrà dire della reale consistente deflattiva di tale misura che, nei fatti, appare già superata dalle intenzioni del Governo che, nel preparare la legge finanziaria 2022, all’art. 42 della bozza di proposta in circolazione, pur sottolineando che resta ferma, in alternativa, la definizione agevolata prevista per le controversie pendenti in Cassazione dall’art. 5 della legge n. 130 del 2022, prevede che tutte le controversie attribuite alla giurisdizione tributaria in cui è parte l’Agenzia delle entrate, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione, ed anche a seguito di rinvio, possono essere definite dall’interessato con il pagamento di un importo pari al valore della controversia, superando così, con un colpo di spugna, le maglie strette dell’art. 5 in commento.
Il Governo ha, poi, indicato una “terza via” [31] da estendere alle liti tributarie pendenti presso la Suprema Corte, rappresentata dalla conciliazione giudiziale con sanzioni al 5% di fatto dando la possibilità di trovare un accordo con il Fisco anche in ipotesi di precedente soccombenza del contribuente. In questo modo, la definizione agevolata passerà dal pagamento di un importo del 40% del valore in caso di soccombenza del Fisco in primo grado, mentre l’importo dovuto sarebbe del 15% se l’amministrazione finanziaria fosse risultata perdente in appello.
[1] La Milestone M1C1-35 prevede che: «La riforma del quadro giuridico deve avere l’obiettivo di rendere più efficace l’applicazione della legislazione tributaria e ridurre l’elevato numero di ricorsi alla Corte di Cassazione».
[2] v. L. SALVATO, in Giustizia Insieme, Verso la Riforma del processo tributario: il rinvio pregiudiziale ed il ricorso del PG nell’interesse della legge; che rimanda, tra l’altro, negli incisi virgolettati, a G. DELLA CANANEA, Perché lo status quo della giustizia è il vero ostacolo delle riforme, Il Foglio, 3 luglio 2021.
[3] “Una giustizia inefficiente peggiora le condizioni di finanziamento delle famiglie e delle imprese”, (it/component/easyarticles/composer#-ftnref9).
[4] v. lavori della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria presieduta dal Prof. Giacinto Di Cananea, consultabile su www.fiscooggi.it
[5] v. G. VERDE, La Giustizia non si risolve modificando le regole del processo, in Giustizia Insieme, 3 luglio 2021.
[6] Grazie all’impegno dei Presidenti, dei Consiglieri del personale amministrativo della Sezione Tributaria, già nel 2021 sono stati definiti 15.591 controversie di legittimità, rispetto alle 9.141 del 2022 e alle 11461 del 2019, v. Relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione 12 gennaio 2022, apertura dell’anno giudiziario 2022, pagg. 125-126, ove è, tra l’altro riportata, la percentuale dei ricorsi pendenti per il settore civile (2018 - 51%, 2019 - 55%, 2020 - 56%,2021 - 57%) e per il settore tributario (2018-49%, 2019-45%, 2020-44%, 2021-43%), con un indice di ricambio per il settore tributario pari al 166%.
[7] cfr. Relazione Commissione Luiso, (it/component/easyarticles/composer#-ftnref10) e Relazione Commissione Cananea (it/component/easyarticles/composer#-ftnref12).
[8] Con specifico riferimento ai ricorsi definiti nel 2021, la relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione del 12 gennaio 2022, apertura anno giudiziario 2022, indica che il valore economico complessivo dei ricorsi definiti in Corte, per il 2021, è di circa di 9.4 miliardi di euro; l’Agenzia delle Entrate è risultato essere l’attore più importante, con 7.994 ricorsi (pari al 51,7% del numero di ricorsi definiti) per un valore economico di quasi 7 miliardi di euro (pari al 73,3% del valore complessivo); i contribuenti hanno attivato 6.605 ricorsi (pari al 42,7% del numero di ricorsi definiti) per un valore economico di quasi 2.3 miliardi di euro (pari al 24,4% del valore complessivo).
[9] Secondo taluni, demandando integralmente al Primo Presidente le decisioni sull’organico e sul suo funzionamento, peraltro senza fornire alcun criterio e direttiva di massima, rimarrebbe incerta l’effettiva soddisfazione della riserva di legge di cui all’art. 108, comma 1 Cost., v. CONTRINO – F. FARRI, in centrostudiilvatino.it, La nuova giustizia tributaria – 3. la nuova “definizione agevolata” delle liti tributarie in cassazione: vizi, virtù e possibile (in)efficacia nel contesto dell’attuale assetto della Suprema Corte.
[10] v. nota 6.
[11] Come evidenziato dal Presidente Curzio nella relazione annuale del 12 gennaio 2022, entrambe le misure non hanno avuto il successo sperato; per i magistrati in pensione, probabilmente a causa della insufficienza dell’incentivo economico rispetto alla gravosità dell’impegno, per i magistrati del Massimario e del ruolo, sebbene abbiano fornito un contributo di una certa consistenza al lavoro della Sezione, sono stati sottratti alle preziose all’attività del Massimario.
[12] v. nota prot. 3680 del 3/11/2022 del Primo Presidente della Corte di Cassazione di attuazione della riforma del processo civile che ha riguardato anche la Sezione Tributaria.
[13] v. Dossier dei Servizi e degli Uffici del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati A.G. n. 407 del 6 settembre 2022.
[14] v. Relazione n. 96 del 6 ottobre 2022 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione.
[15] v. E. MANZON, La Cassazione civile tributaria alla sfida del PNRR, in sintesi ed in prospettiva, Giustizia Insieme, 24 novembre 2022.
[16] v. E. MANZON, cit.
[17] « (…) Si trattava di una fuga in avanti o forse meglio di un passo davvero troppo spinto verso la de-processualizzazione, quindi, è stato opportuno ripensarci e non vararla», v. E. MANZON, La Cassazione civile tributaria alla sfida del PNRR, in sintesi ed in prospettiva, Giustizia Insieme, 24 novembre 2022.
[18] Per la corretta interpretazione delle condizioni di ammissibilità, può aversi riguardo alla giurisprudenza in tema di presupposti del ricorso del PG nell'interesse della legge, del rinvio di costituzionalità e del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, questi ultimi non direttamente evocabili ma senz'altro utili nell'individuazione dei confini e delimiti del giudizio di rinvio, v., sul punto, B. CAPPONI, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, Giustizia Insieme, 19 giugno 2021.
[19] v. G. SCARSELLI, Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito, in Giustizia Insieme, 5 luglio 2021.
[20] v. L. SALVATO, Verso la Riforma del processo tributario: il rinvio pregiudiziale ed il ricorso del PG nell’interesse della legge, in Giustizia Insieme, 19 luglio 2021.
[21] « I limiti e l'oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile dal giudice del rinvio neanche alla stregua di arresti giurisprudenziali successivi della corte di legittimità”» (così, Cass., 29/10/2018, n. 27343; id., Cass. 14/01/2021 n. 448).
[22] v. Cass., 04/02/2015 n. 1995; Cass., 27/10/2006, n. 23169.
[23] v., tra le tante, Cass., 19/10/2018 n. 26521.
[24] v. L. SALVATO, in Giustizia Insieme, cit., il quale richiama, altresì, le considerazioni dell’avvocato generale Michal Bobek, secondo cui il rinvio pregiudiziale dovrebbe essere disposto, ed andrebbe giudicato ammissibile dalla Corte di Cassazione, tutte le volte che il giudice “si trovi di fronte ad una questione di interpretazione di diritto […] formulata a livello di astrazione ragionevole e appropriato. Tale livello di astrazione è logicamente definito dalla portata e dallo scopo della norma giuridica di cui trattasi”.
[25] v. C.V. GIOBADO, In difesa della Monofilachia. Prime notazioni teorico-comparate sul nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione nel progetto di riforma del Codice di procedura civile, in Giustizia Insieme, 22 giugno 2021.
[26] v. Relazione della Commissione Luiso.
[27] v. relazione della Commissione della Cananea.[28] v. A. CONTRINO – F. FARRI, in centrostudiilvatino.it, “la nuova giustizia tributaria – 3. la nuova “definizione agevolata” delle liti tributarie in cassazione: vizi, virtù e possibile (in)efficacia nel contesto dell’attuale assetto della suprema corte”.
[29] v. Contributo tecnico per la commissione interministeriale per la giustizia tributaria.
[30] v. Relazione inaugurale del 12 gennaio 2022 del Primo Presidente.
[31] Così, M. MOBILI- G. PARENTE, Tregua fiscale sui mini debiti e sanatoria lite più ampia, in NT+Fisco, 23 novembre 2022.
Rifiuto di rinvio pregiudiziale per travisamento dell’istanza di parte: revocazione della sentenza o “semplice” obbligo del giudice amministrativo di risarcire il danno? (Consiglio di stato, ordinanza 3 ottobre 2022, n. 8436, rimessione all’adunanza plenaria)
di Marco Magri
Sommario: 1. Una doverosa premessa sui termini della questione: “rifiuto” e non “omissione” di rinvio pregiudiziale. – 2. Lo schema argomentativo dell’ordinanza n. 8436/2022 (in dieci punti). 3. – La mancanza di una norma processuale sulla riapertura del processo amministrativo per violazione del diritto UE e l’orizzonte della responsabilità civile dei magistrati (legge n. 117/1988). – 4. La posizione della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale sull’art. 106 c.p.a. (con riferimento al giudicato interno contrastante con norme della CEDU). – 5. La prospettiva «tradizionale» di applicazione al caso di specie dell’art. 395 n. 4 c.p.c. (art. 106 c.p.a.) porterebbe a una pronuncia d’inammissibilità della revocazione. – 6. Il contrapposto indirizzo “innovativo” del Consiglio di Stato. La sentenza della IV sezione n. 2530/2018 e la sua analogia con il caso trattato dalla V sezione nell’ordinanza n. 8436/2022. – 7. La sentenza Caruter della Corte di Giustizia (22 aprile 2022, C-642/20) aumenta le probabilità di un giudizio di responsabilità per illecito giudiziario. – 8. Il “tranello” dell’effetto utile del diritto dell’Unione europea. – 9. A cosa serve la revocazione nel processo amministrativo? La tesi, emersa nella giurisprudenza di primo grado, dell’applicabilità al processo amministrativo dell’art. 391-bis c.p.c. (sulla revocazione delle sentenze della Cassazione) e della natura “straordinaria” del rimedio. – 10. La tesi opposta del Consiglio di Stato (V sezione, sentenza n. 3923/2918). Il “recupero” della natura ordinaria della revocazione prevista dall’art. 395 n. 4 c.p.c. (e le sue implicazioni). – 11.Rilievi critici in merito all’indirizzo (sez. V, n. 838/2021) messo a contrasto con quello della IV sezione: irriducibilità del motivo di ricorso giurisdizionale amministrativo al principio iura novit curia. – 12. L’art. 106 del Codice del processo amministrativo di nuovo davanti alla Corte costituzionale?
1. Una doverosa premessa sui termini della questione: “rifiuto” e non “omissione” di rinvio pregiudiziale.
L’ordinanza della V sezione del Consiglio di Stato, 3 ottobre 2022, n. 8436 ripropone all’adunanza plenaria un interrogativo sull’interpretazione dell’art. 395 n. 4 c.p.c., richiamato dall’art. 106 c.p.a.[1]
Il problema è se sia revocabile per «errore di fatto» la sentenza del Consiglio di Stato che abbia rifiutato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia «in conseguenza di un fraintendimento (…) in merito alla questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne da applicare per risolvere la controversia con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello».
Prima di passare a considerazioni più articolate, è bene chiarire, anche per liberarsi di una certa ambiguità terminologica dei quesiti formulati dalla V sezione – nei quali si parla di «omissione di pronuncia sull’istanza di rinvio pregiudiziale» – che qui non si tratta di stabilire se possa costituire motivo di revocazione la sentenza d’appello viziata da «omessa pronuncia»: domanda alla quale – com’è noto – l’adunanza plenaria ha dato da tempo risposta affermativa, sia pure a certe condizioni[2].
Si tratta piuttosto di stabilire se quest’ultimo orientamento, elaborato con riferimento al caso in cui l’errore di percezione del giudice abbia determinato un’omessa pronuncia in senso stretto (mancata decisione su una parte della domanda o su un’eccezione), vada seguito anche nel caso, ora sottoposto alla plenaria, in cui il giudice si è pronunciato sulla questione di conformità al diritto dell’Unione europea, respingendo il motivo d’appello che l’aveva sollevata, ma ponendo a fondamento della decisione norme di diritto nazionale che la parte non aveva mai detto di voler contestare.
Dal che l’ordinanza trae un’altra domanda: se il rifiuto di rinvio pregiudiziale, al pari dell’omessa pronuncia, sia un tipo di decisione sensibile all’errore di fatto revocatorio; o se qualsiasi svista sui termini della questione avanzata dalla parte nell’istanza di rinvio, anche la più grave, qual è il fraintendimento di giudizio, si qualifichi come errore di diritto e non consenta la riapertura del processo.
Il caso che ora viene in considerazione – spiega la V sezione – è una sentenza d’appello che non ha omesso alcunché[3], anzi ha statuito espressamente non solo sul motivo d’impugnazione, ma anche sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia. Risulta però evidente, agli occhi del giudice della revocazione, che il giudice d’appello ha deciso sul motivo d’impugnazione, contenente l’istanza di rinvio, scambiando la questione sollevata per un’altra, del tutto avulsa da quella effettivamente proposta.
Ciò che si concretizza è allora una divergenza assoluta tra due elementi: i termini della questione alla quale il giudice dichiara di voler rispondere, pervenendo al rigetto dell’istanza di rinvio pregiudiziale, e i termini della questione realmente prospettata dalla parte, rintracciabile nelle risultanze materiali del processo: un difetto, immediatamente percepibile e oggettivamente verificabile, di «corrispondenza logica tra la questione posta dall’appellante e il decisum della sentenza»[4].
2. Lo schema argomentativo dell’ordinanza n. 8436/2022 (in dieci punti).
Strutturalmente, la problematica dell’errore percettivo del giudice sulla norma interna di cui la parte chiede la devoluzione alla Corte di Giustizia non si pone in termini differenti da quelli che si presentano ipotizzando un comune equivoco del giudice sull’oggetto del processo.
La particolarità sta nel fatto che qui si tratta di errore sulla norma: non sulla norma da interpretare (cioè di un vizio dell’attività intellettiva tesa al “conoscere”) che renderebbe fin troppo evidente l’estraneità del problema alla fattispecie di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c., bensì sulla norma allegata dalla parte in forma di elemento costitutivo, modificativo o estintivo della pretesa che forma oggetto del motivo di ricorso.
Da quest’angolo di visuale diventa possibile estendere la ricerca sulla giurisprudenza, al di là di quella individuata dall’ordinanza n. 8436/2022, fino a ricomprendervi una recente sentenza della stessa V sezione; la quale, ragionando dell’errore percettivo su norme di diritto interno, ha seguito una logica che porterebbe a rispondere negativamente ai quesiti rivolti alla plenaria.
Il caso concerneva un ricorso per revocazione anch’esso riferito alla fattispecie prevista dall’art. 395 n. 4 c.p.c., in cui la parte riteneva che la sentenza d’appello non avesse percepito, per pura disattenzione, quali erano le “vere” norme giuridiche sulle quali essa fondava le proprie difese.
Il ricorrente voleva così dimostrare che la norma, una volta incorporata nell’argomentazione difensiva che la richiama, vale “come fatto” e rappresenta un elemento obbiettivo dell’atto processuale su cui può benissimo cadere l’errore revocatorio del giudice[5], non diversamente da ciò che succede nel caso di errore revocatorio riferibile ad atti e documenti di causa considerati nella loro materialità[6].
L’argomento è stato tuttavia respinto dal Consiglio di Stato con la spiegazione che l’errore percettivo del giudice sulla norma da cui la parte vuole far discendere la propria azione (la norma allegata in atti e parte obbiettivata di una “tesi difensiva”) è errore di diritto: «il vizio revocatorio non può mai riguardare il contenuto concettuale delle tesi difensive delle parti, come esposte negli atti di causa, perché le argomentazioni giuridiche non costituiscono “fatti” ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c.»[7].
Il diverso atteggiamento che si registra dell’ordinanza n. 8436/2022 non si deve ad un riesame dalle fondamenta di tale indirizzo. La sua unica ragione è la presenza in atti dell’istanza di rinvio pregiudiziale, che porta il giudice amministrativo a concentrarsi immediatamente sulla dottrina dell’effetto utile e sulle conseguenze dell’inosservanza dell’obbligo di rinvio alla Corte di Giustizia.
Ma il punto cruciale del ragionamento della V sezione – anche questo va detto subito, perché qui sta il motivo di maggiore interesse – non è neppure l’astratta esigenza di conformità del giudicato interno al diritto dell’Unione europea. Lo si comprende dall’esplicita richiesta finale, rivolta alla plenaria, di valutare la questione anche alla luce di quanto “costerebbe” concludere per l’inammissibilità della revocazione: se si dovesse affermare che l’errore percettivo sul contenuto dell’istanza di rinvio è causa di una semplice violazione di legge, non rilevante a fini del n. 4 dell’art. 395 c.p.c., la parte non potrebbe far altro che trasferire la propria pretesa sul piano della responsabilità civile dello Stato per illecito giudiziario.
Al prezzo, ecco il punto, di mettere in luce un difetto di «coerenza» dell’ordinamento giuridico. Ad avviso della V sezione, in un caso come questo – dov’è palese che il giudicato risulterà affetto da una violazione del diritto dell’Unione (adesso anche acclarata dalla Corte di Giustizia nella sentenza Caruter, come vedremo) – sarebbe irragionevole ritenere che l’errore sull’istanza di rinvio pregiudiziale non fosse «a tal punto ingiusto da portare alla revoca»[8], quando la parte che lo subisce, vistasi prelusa la revocazione, potrà farlo valere dinanzi al giudice ordinario come fatto illecito e chiedere la condanna dello Stato al risarcimento del danno ai sensi della legge sulla responsabilità civile dei magistrati (n. 117/1988).
Provando a riorganizzare – in dieci punti – gli argomenti utilizzati dalla V sezione:
1) la svista del giudice sulla norma censurata con l’istanza di rinvio pregiudiziale è pacificamente un errore sulle tesi difensive delle parti, dunque un «errore di giudizio». Altrettanto sicuro, come si diceva, è che si tratti di vizio di percezione di uno degli elementi costitutivi del petitum mediato, non di una violazione di legge commessa nell’attività d’interpretazione dell’ordinamento[9];
2) neppure si può dire con certezza tuttavia – ed ecco la complicazione – che tale errore cada sull’atto o documento processuale, giacché si risolve comunque nella falsa rappresentazione di una norma (così come interpretata dalla parte), non di un elemento materiale dell’oggetto del contendere;
4) non è certa quindi la riconducibilità all’errore alle categorie del «fatto» o del «diritto»;
5) secondo un primo orientamento (IV sezione, n. 2530/2018), l’errore di cui trattasi darebbe titolo alla revocazione in quanto cadrebbe ictu oculi «sulla percezione fattuale della questione»[10]; inoltre lascerebbe insoddisfatta la pretesa della parte a conoscere l’interpretazione della Corte di giustizia e determinerebbe perciò un difetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, assimilabile all’omessa pronuncia;
6) anche il rifiuto di rinvio sarebbe pertanto sensibile all’errore revocatorio: se viziato da svista percettiva, potrebbe essere impugnato ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., al pari dell’omessa pronuncia in senso stretto, sulla quale ha già statuito la plenaria nella sentenza n. 3/1997,
7) secondo un diverso orientamento (sezione V, n. 838/2021) invece, l’istanza di rinvio pregiudiziale non sarebbe «idonea a strutturare, sul piano formale, una domanda (o una eccezione) in senso tecnico, in ordine alla quale operi, in chiave di doveroso, necessario e compiuto riscontro, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato (cfr. art. 112 cod. proc. civ.)»[11], in quanto costituirebbe una «mera sollecitazione al rilievo officioso». Secondo questo secondo indirizzo, l’obbligo di rinvio pregiudiziale deriva dunque direttamente ed esclusivamente dal Trattato (art. 267), non dall’esercizio dell’azione;
8) la mancata attivazione del potere di cui all’art. 267 TFUE resterebbe quindi un fatto che riguarda esclusivamente il rapporto del giudice con legge (iura novit curia) e non potrebbe mai considerarsi come inadempimento di un dovere di decidere sulla controversia. Con la conseguenza che l’errore commesso dal giudice amministrativo in sede di rinvio pregiudiziale, quale che sia, non potrebbe avere la natura sensopercettiva[12] che tipicamente lo configura come errore di fatto sussumibile all’art. 395 n. 4 c.p.c. Il travisamento del contenuto dell’istanza di parte sarebbe dunque, in ogni caso, un errore di diritto e non potrebbe dar luogo alla impugnazione della sentenza d’appello per revocazione (art. 106 c.p.a.);
9) l’interpretazione più corretta, tra queste due, non può essere cercata mediante un rinvio alla Corte di Giustizia, che ha già ritenuto «insussistente il contrasto del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea»[13], con riferimento proprio all’inammissibilità della revocazione (art. 106 c.p.a.), sul presupposto che spetti allo Stato membro stabilire i rimedi atti a garantire il diritto ad una giurisdizione effettiva nei settori disciplinati dal diritto unionale (sentenza Hoffmannn – La Roche);
10) se non che, come si è già accennato, l’inammissibilità della revocazione per errore di fatto significherebbe probabile responsabilità dei giudici d’appello. Il giudizio di danno contro il magistrato, unica risorsa della parte cui è preclusa la revocazione, sembra alla V sezione un mezzo irragionevolmente gravoso rispetto a quello, più facile ed immediato, dell’impugnazione della sentenza[14]. Di qui il chiarissimo intento di instillare nella plenaria un dubbio sulla coerenza del sistema complessivamente riguardato.
Pare quindi esattissima la conclusione, cui s’è pervenuti in dottrina, che l’ordinanza n. 8436/2022 devolva alla plenaria non tanto un’interpretazione dell’art. 395 n. 4 c.p.c., quanto, ça va sans dire, una valutazione sull’opportunità di rimettere alla Corte costituzionale una questione che corregga un difetto del sistema di riparazione dell’illecito giudiziario[15]. Il quale, non consentendo la revocazione, lascia ben poche speranze alla parte che ha subito l’errore (oltre che al giudice che l’ha commesso).
Questo è appunto il problema sul quale nei paragrafi seguenti proverò a svolgere qualche ulteriore considerazione, con il solo intento di mettere in risalto la molteplicità delle tematiche che si possono collegare all’ordinanza n. 8436/2022. Inizierò proprio dalla questione della responsabilità del giudice: la più importante e con ogni probabilità la “vera” causa della rimessione alla plenaria.
3. La mancanza di una norma processuale sulla riapertura del processo amministrativo per violazione del diritto UE e la concomitante disciplina della responsabilità civile dei magistrati (legge n. 117/1988).
Nell’ordinamento italiano l’errore sulla violazione del diritto dell’Unione europea derivante da omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non è motivo di revocazione della sentenza del giudice amministrativo, non rientrando nei casi previsti dall’art. 395 c.p.c. (a cui rinvia l’art. 106 c.p.a.)[16]
La legge n. 117/1988 prevede però l’azione risarcitoria contro lo Stato per illecito civile del magistrato, la cui colpa grave può essere costituita (art. 2 comma 3) da elementi giuridico-normativi che riprendono e ricalcano in modo quasi perfetto la fattispecie dell’errore revocatorio («l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento»).
Il problema sta in ciò: che la colpa grave del magistrato, nella legge n. 117/1988, è costituita anche da un ventaglio di altre ipotesi, per le quali il Codice del processo amministrativo non prevede la revocazione: il «travisamento del fatto», la «violazione manifesta della legge», la violazione del «del diritto dell’Unione europea», quest’ultima da determinare tenendo conto «anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea» (art. 2 comma 3-bis, introdotto dalla legge n. 18/2015)[17].
La non coincidenza tra le fattispecie di revocazione (art. 395 n. 4) e quelle di colpa grave (l. n. 117/1988) significa già che la connessione oggettiva tra l’azione di responsabilità contro il giudice e l’impugnazione della sentenza viziata non è la regola, giacché l’art. 2 della legge n. 117/1988 contempla altre ipotesi, nelle quali l’azione risarcitoria è l’unica possibilità di riparazione dell’errore giudiziario.
Ambiguità che si riscontra anche sotto il profilo specificamente processuale della disciplina. Secondo la legge n. 117/1988, sulla falsariga del § 839 co. 3 BGB, l’azione di risarcimento del danno «può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione (…) e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento» (art. 4 comma 1).
Dal che si potrebbe trarre l’impressione d’un nesso di pregiudizialità necessaria tra revocazione della sentenza e azione di risarcimento del danno; specialmente ove si valorizzi la ratio, manifestata dalla norma, di preferenza del legislatore per i rimedi endoprocessuali. Sarebbe allora giocoforza chiedersi se l’ammissibilità del rimedio impugnatorio non sia, in qualche modo, già implicita nell’obbligatorietà del suo preventivo esperimento, in tutte le fattispecie di responsabilità del magistrato.
Ma il dubbio è sciolto in senso opposto dalla norma stessa. Lo stesso art. 4 comma 1, infatti, contempla l’ipotesi in cui «tali rimedi non sono previsti» e prevede che, in tal caso, l’azione di risarcimento possa essere egualmente proposta, «quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno», confermando che la colpa grave può sussistere anche quando non è ammessa revocazione (o altro mezzo «ordinario» di impugnazione).
L’art. 4 della legge n. 117/1988 rimane quindi una disposizione “neutra” rispetto alla questione della proponibilità della revocazione o – come l’ha definita la Cassazione – «una norma c.d. elastica, una valvola di apertura rispetto al mutamento nel corso del tempo dei rimedi esperibili nei confronti dei provvedimenti del giudice», espressione di un «principio di resilienza dell’ordinamento»[18].
Le sezioni unite, nella sentenza appena citata (n. 26672/2020), hanno confermato l’assenza di pregiudizialità tra il giudizio di revocazione di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c. e quello risarcitorio previsto dalla legge n. 117/1988. Hanno però aggiunto, in modo chiarissimo, che l’art. 4 della legge n. 117/1988, proprio come l’art. 30 comma 2 del codice del processo amministrativo per il risarcimento del danno da lesione d’interesse legittimo, si rifà al principio di buona fede (art. 1175 c.c.) e segnatamente al dovere del creditore di evitare o ridurre il danno risarcibile (art. 1227 c.c.). Dovere di cooperazione che, in questo caso – ha puntualizzato la Corte – risulta esteso fino a comprendere il previo esperimento di un’azione giudiziaria, normalmente non considerato rientrante nell’ambito dello sforzo diligente richiesto al creditore danneggiato.
Questi ultimi profili non sono considerati dall’ordinanza n. 8436/2022. Sono però un motivo in più per dubitare – come fa la V sezione – della razionalità di un sistema che da un lato pretende dalla parte danneggiata uno sforzo teso a evitare o ridurre il danno provocato dall’illecito giudiziario amministrativo con tutti gli strumenti ordinari messi a disposizione dalla legge; dall’altro non consente alla parte di accedere allo strumento di ripristino che sarebbe più logico e naturale, la revocazione della sentenza del Consiglio di Stato.
4. La posizione della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale sull’art. 106 c.p.a. (con riferimento al giudicato interno contrastante con norme della CEDU).
L’osservazione che le la legge n. 117/1988 – specie dopo la riforma intervenuta con la legge n. 18/2015 – lasci il magistrato alla mercé di un’azione della parte soccombente priva di filtri preventivi e ponga le premesse di un ingiusto processo di responsabilità civile a carico dell’artefice dell’errore giudiziario, rappresenta un punto di vista lungamente e vivacemente dibattuto nella dottrina processualcivilistica[19].
L’ordinanza n. 8436/2022 suggerisce quest’altro interrogativo: non sarà l’art. 106 c.p.a. foriero di un ingiusto processo anche per la parte, vittima dell’errore giudiziario?[20]
Da tempo si discute della possibilità di introdurre una disposizione di legge che garantisca la riapertura del processo conclusosi con una violazione di norme del diritto dell’Unione europea[21].
Il riferimento è a quella «nuova ipotesi di revocazione» che la Corte costituzionale ha immaginato nelle sentenze n. 123/2017 e 93/2018; soprattutto nella n. 6/2018, là dove si è riferita non solo al caso del giudicato (non penale) contrastante con una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma in genere al rapporto tra sentenze nazionali e decisioni delle «corti sovranazionali».
Non si può non ricordare tuttavia che fino ad ora l’istituto della revocazione amministrativa ha superato indenne il vaglio dell’interpretazione del giudice eurounitario. Gli esiti, anzi, sono tali da indurre la V sezione, nella decisione qui commentata, ad astenersi da un nuovo rinvio alla Corte di Giustizia avente ad oggeto all’art. 106 c.p.a., mettendo direttamente e sostanzialmente in pratica (pur senza citarlo) uno dei tre criteri elaborati dalla sentenza Cilfit (la presenza del cosiddetto acte claire).
A tal proposito l’ordinanza muove da una sintesi delle due sentenze Randstad Italia[22] e Hoffmann – La Roche[23], là dove la Corte di Giustizia ha ritenuto che il diritto dell’Unione europea non osti alla mancanza nell’ordinamento italiano di un rimedio ripristinatorio contro l’inadempimento, da parte delle giurisdizioni di ultima istanza, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale sancito dall’art. 267 TFUE.
In particolare la Corte ha negato di poter porre rimedio alla inesistenza di una norma che, dinanzi alla violazione del diritto UE, permetta alla Cassazione di annullare le sentenze del Consiglio di Stato per motivi inerenti alla giurisdizione (caso Randstad) e ha seguito analogo ragionamento riguardo alla mancanza di una norma che consenta al Consiglio di Stato di riparare, su ricorso per revocazione (art. 106 c.p.a.) alle proprie sentenze confliggenti con una sentenza della Corte di Giustizia (caso Hoffman – La Roche).
In entrambe le sentenze, peraltro, la Corte di Giustizia ha richiamato il vincolo dell’ordinamento nazionale alla garanzia della responsabilità dello Stato verso i singoli per illecito giudiziario lesivo di diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione. Vale a dire che l’obbligo degli Stati membri è soddisfatto con la garanzia dell’azione di risarcimento del danno e che eventuali problemi di coerenza del sistema processuale interno non mettono capo alla competenza della Corte di Giustizia.
Posto dunque che il diritto dell’Unione europea non esige un rimedio revocatorio, limitandosi ad imporre la previsione di un obbligo di riparazione degli errori giudiziari, è ragionevole chiedersi se non possa essere la Corte costituzionale a trovare risposta all’esigenza di un «componimento dei diversi interessi costituzionalmente rilevanti a un livello superiore a quello dei diretti interessati»[24].
Finora la Corte Costituzionale, al di là di una certa sensibilità al problema, non ha dato segnali incoraggianti. Ma neppure si può esser certi che ve ne fossero le premesse.
Basti pensare al mancato avallo, da parte della Corte, alla concezione estensiva dell’eccesso di potere giurisdizionale ipotizzata dalla Cassazione (sentenza n. 6/2018) per un più ampio sindacato sulla compatibilità convenzionale di norme interne. Oppure si può pensare alla sentenza n. 123/2017, con la quale Corte ha disconosciuto il proprio potere, in difetto di intervento legislativo, di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 106 c.p.a., nella parte in cui non prevede la revocazione della sentenza amministrativa (correttamente, «non penale») contrastante con una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ciò che occorre considerare, è che in queste occasioni la Corte ha dovuto pronunciarsi nei limiti fissati da ordinanze di promovimento che indicavano quale norma costituzionale violata l’art. 117 comma 1, in relazione al parametro interposto dell’art. 46 § 1 CEDU (obbligo degli Stati-parte della Convenzione di conformarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo).
Così è stato nella sentenza n. 6/2018, dove la Cassazione, senza successo, aveva portato all’attenzione della Corte la propria concezione dinamica dell’eccesso di potere giurisdizionale al fine di dimostrare il requisito della rilevanza (o della propria legittimazione come giudice a quo[25]) nel promovimento del giudizio di costituzionalità su norma interna contrastante con la CEDU[26].
Lo stesso dicasi per la sentenza n. 123/2017, dove l’affermata incostituzionalità dell’art. 106 c.p.a., per mancata previsione della riapertura del giudicato contrario a una sentenza della Corte di Strasburgo, era stata dedotta dall’adunanza plenaria allo scopo di far sì che lo Stato – grazie alla nuova ipotesi di revocazione – evitasse onerosi indennizzi dovuti a «responsabilità convenzionale».
Ed è sempre muovendosi sul terreno del rapporto con la CEDU che il legislatore, sollecitato dalla sentenza n. 123/2017, ha da poco compiuto un importante passo avanti sulla strada della riapertura del giudicato nazionale contrastante con il pronunciamento della Corte di Strasburgo.
Il recente decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149, recante modificazioni al codice di procedura civile, ha previsto (art. 3 comma 27 lettera b).3 e comma 28 lettera o), una nuova ipotesi di revocazione (art. 391-quater), valevole non solo per le decisioni della Corte di cassazione ma anche per le sentenze del giudice ordinario passate in giudicato (nuovo art. 360 n. 3 c.p.c.).
Il nuovo articolo 391-quater c.p.c. dispone che «Le decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli, possono essere impugnate per revocazione se concorrono le seguenti condizioni:
1) la violazione accertata dalla Corte europea ha pregiudicato un diritto di stato della persona;
2) l'equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione non è idonea a compensare le conseguenze della violazione.
Il ricorso si propone nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o, in mancanza, dalla pubblicazione della sentenza della Corte europea ai sensi del regolamento della Corte stessa. Si applica l'articolo 391-ter, secondo comma. L'accoglimento della revocazione non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi di buona fede che non hanno partecipato al giudizio svoltosi innanzi alla Corte europea».
L’art. 391-quater c.p.c. dovrebbe ritenersi applicabile al processo amministrativo anche senza una modifica dell’art. 106 c.p.a., considerato il rinvio dell’art. 106 all’art. 395 c.p.c. (che a sua volta si collega all’art. 391-quater) e comunque il più generale rinvio «esterno» di cui all’art. 39 c.p.a.
Sta di fatto però che la norma si applica alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, non alle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea[27] (tra l’altro non provviste, ai sensi del TFUE, di una clausola di esecutività analoga a quella sancita dall’art. 46 § 1 CEDU).
Quanto alla possibilità di estendere la disciplina anche alle sentenze della Corte di Giustizia, si è sostenuto che sia una soluzione compatibile con il diritto eurounitario[28]; tuttavia in assenza di una legge non è realizzabile mediante la diretta applicazione analogica dell’art. 391-quater c.p.c.[29].
E, a parte questo, la prospettiva stessa di sottoporre la disciplina dettata dall’art. 106 c.p.a. al diritto eurounitario non può fare a meno di confrontarsi con altre esigenze non meno importanti, legate all’assetto della legislazione interna ed in particolare al principio di certezza giuridica e di stabilità del giudicato amministrativo, che, com’è noto, stanno alla base dell’istituto della revocazione.
5. La prospettiva «tradizionale» di applicazione al caso di specie dell’art. 395 n. 4 c.p.c. (art. 106 c.p.a.) porterebbe a una pronuncia d’inammissibilità della revocazione.
La stessa ordinanza n. 8436/2022 mostra d’altronde i suoi snodi argomentativi di maggiore interesse laddove ricerca nel diritto interno, cioè nell’interpretazione dell’art. 395 n. 4 c.p.a., il regime dell’errore percettivo del giudice sul contenuto dell’istanza di rinvio pregiudiziale.
Torniamo dunque alla radice del problema: è revocabile la sentenza del Consiglio di Stato quando il procedimento di formazione della volontà del giudice risulta viziato da errore percettivo (abbaglio dei sensi) sui contenuti dell’istanza di rinvio pregiudiziale, cosicché appare troncato il canale di comunicazione con la Corte di Giustizia voluto dall’art. 267 TFUE? O è tutto fatalmente destinato a risolversi in un problema di responsabilità dello Stato e, mediatamente, dei giudici in persona? Volendo applicare al caso di specie le acquisizioni prodotte dalla sentenza dell’adunanza plenaria n. 3/1997, si dovrebbe «tradizionalmente» pervenire – afferma la V sezione – alla conclusione che l’errore commesso dal giudice nel rigettare l’istanza di rinvio è errore di diritto, non di fatto, e che di conseguenza la revocazione è inammissibile: se «la risposta non soddisfa la domanda», l’errore è «indubbiamente intervenuto nel compimento dell’operazione intellettuale propria e preliminare del giudicare: l’individuazione prima, e l’interpretazione poi, della questione giuridica da risolvere è un’attività della mente, se la si sbaglia e, in conseguenza di ciò, la risposta di giustizia risulta inconciliabile con la domanda posta v’è un fraintendimento che non è dei sensi, ma del giudizio».
Accanto a questo, cioè alla consistenza prettamente “giudicante” dell’attività da cui ha origine il vizio, gioca tuttavia un ruolo decisivo un secondo argomento, che la stessa V sezione del Consiglio di Stato ha svolto in una sentenza dello scorso anno (n. 838/2021) per negare l’ammissibilità della revocazione e che nell’ordinanza 8436/2022 viene richiamata quale termine essenziale del contrasto tra sezioni.
La sentenza n. 838/2021 si basa sulla natura officiosa del potere di rimessione alla Corte di Giustizia previsto dall’art. 267 TFUE, traendone il convincimento che non esista un rapporto tra «chiesto» e «pronunciato»: la decisione del Consiglio di Stato sul rinvio pregiudiziale, nonostante possa essere avvertita come pronuncia materialmente o di fatto adottata in considerazione dell’istanza di parte, non andrebbe riportata all’obbligo di pronuncia che consegue alla proposizione dell’azione, non ricreandosi, in quell’istanza, i caratteri della domanda, ma un semplice tentativo di indurre il giudice a mettere in pratica la propria conoscenza del diritto (iura novit curia, art. 113 c.p.c.) in modo convergente con l’interesse della parte.
Ridetto con le parole della sezione V, «l’istanza di rinvio pregiudiziale (non diversamente, del resto, da quello che accade nei casi in cui la questione interpretativa si collochi sul crinale del dubbio di legittimità costituzionale) va acquisita in termini di mera sollecitazione al rilievo officioso, essendo inidonea a strutturare, sul piano formale, una domanda (o una eccezione) in senso tecnico, in ordine alla quale operi, in chiave di doveroso, necessario e compiuto riscontro, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato (cfr. art. 112 cod. proc. civ.)». Di conseguenza, non sarebbe «possibile, per definizione, prospettare una omessa pronunzia sulla questione interpretativa, in ordine alla quale possa anche solo astrattamente prefigurarsi, nei sensi chiarito, un errore sensopercettivo del giudice, che – per una svista – abbia trascurato di apprezzarla». Così come non sussisterebbe «la pretesa, tutelabile ex se, a “conoscere, sulla vicenda, il punto di vista della Corte di giustizia” e tanto meno la possibilità di affidare tale pretesa ad una “istanza precisa”, articolata e formalizzata “in stretta aderenza alle censure dedotte avverso l’atto impugnato”, tale che il suo omesso vaglio (…) possa prefigurare una fattispecie revocatoria».
A tale orientamento ha aderito anche la sentenza della VI Sezione, 15 febbraio 2022, n. 1088.
6. Il contrapposto indirizzo “innovativo” del Consiglio di Stato. La sentenza della IV sezione n. 2530/2018 e la sua analogia con il caso trattato dalla V sezione nell’ordinanza n. 8436/2022.
Ciò che induce la V sezione a non seguire la strada già percorsa è una più risalente (ma solo di qualche anno) sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato (n. 2530/2018). Quest’ultima ha accolto un ricorso per revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c. nel quale la parte sosteneva che la sentenza d’appello fosse caduta in equivoco, giacché aveva «stravolto il contenuto materiale della questione prospettata, fino a sostituirla – nella sua percezione alterata – con un’altra questione, di contenuto materiale completamente diverso, non pertinente rispetto alle proprie difese» e non decisiva per la corretta risoluzione della lite.
La vicenda sottesa all’ordinanza n. 8436/2022 è sovrapponibile – afferma la V sezione – a quella da cui ha tratto origine il precedente del 2018. In tale pronunciamento si chiedeva al Consiglio di Stato di investire la Corte di Giustizia del contrasto con il diritto europeo di norme nazionali che prevedevano, per l’operatore economico partecipante a una gara pubblica, la perdita del requisito di qualificazione SOA per effetto di qualsiasi contratto di cessione (anche minima e insignificante) di ramo d’azienda.
Al che il Consiglio di Stato aveva replicato, del tutto illogicamente, citando la «decisione n.8/2015 dell’Adunanza Plenaria», che «ha reputato del tutto compatibile con il Diritto dell’Unione europea l’onere di mantenere il richiesto requisito di qualificazione per tutta la durata della procedura di gara”».
Nel giudizio di revocazione, la IV sezione aveva dato ampio risalto a questa anomalia motivazionale: era come se dalla sentenza d’appello emergessero due istanze di rinvio, quella effettivamente dedotta dalla parte e quella successivamente immaginata dal giudice, tra loro radicalmente inconciliabili. Una, riferita all’irragionevolezza dei motivi che comportano decadenza delle attestazioni SOA, l’altra, al periodo di tempo per il quale il requisito dev’essere conservato. Profilo, quest’ultimo, del tutto irrilevante e con riferimento al quale la parte non avrebbe neppure avuto interesse a ricorrere.
Grande importanza era stata data inoltre, dalla IV sezione, alla doverosità del rinvio pregiudiziale per la giurisdizione nazionale d’ultima istanza e alla gravità della violazione che si compie con la mancata rimessione alla Corte di Giustizia di una questione d’interpretazione del diritto dell’Unione, stante «il monopolio della Corte – in forza dei Trattati istitutivi – in ordine all’esatta interpretazione e uniformità di applicazione del diritto europeo (principi del primato e dell’effettività del diritto europeo)».
La sezione aveva quindi concluso che quando la decisione d’appello rifiuta il rinvio alla Corte di Giustizia con una motivazione inconciliabile con quella sollevata dalla parte, essa non è viziata da un ordinario difetto di logicità – come tale inidoneo alla revocazione – bensì da una svista di natura percettiva (abbaglio dei sensi) che concretizza la fattispecie revocatoria di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c.
Il caso all’origine dell’ordinanza n. 8436/2022 verte su identica materia.
Un raggruppamento temporaneo di imprese era stato escluso da una gara per l’affidamento di una concessione di lavori pubblici perché la capogruppo, pur presentandosi quale esecutore del contratto – ma non specificando di voler utilizzare la propria organizzazione d’impresa – non disponeva dell’attestazione SOA, posseduta invece regolarmente dalle altre imprese raggruppate, le quali assicuravano, già per loro stesse, la copertura integrale delle categorie dei lavori da eseguire.
In tal modo però non risultava rispettato il bando di gara, che richiedeva l’attestazione SOA a ciascun soggetto del raggruppamento, in caso di offerta che prevedesse la realizzazione diretta delle opere oggetto della concessione. Tanto meno la capogruppo poteva affermare di detenere i requisiti di esecuzione «in misura maggioritaria», che pure il bando prescriveva, uniformandosi all’art. 92 comma 2 del regolamento (DPR 207/2010) e all’art. 83 comma 8 del Codice dei contratti pubblici.
Nel giudizio di appello il R.t.i. aveva sollevato un autonomo profilo di ingiustizia della sentenza del TAR, sostenendo che la lex specialis – e, in subordine, la norma di legge sulla quale si basava – contrastasse con la giurisprudenza della Corte di Giustizia «che ritiene incompatibili con il diritto dell’Unione Europea (…) disposizioni suscettibili di determinare, per oggetto o per effetto, una restrizione delle condizioni di partecipazione, con particolare riferimento a previsioni che comportino una limitazione della possibilità di avvalersi di forme e strumenti di partecipazione in forma associata».
Al che, inopinatamente, la sentenza d’appello aveva replicato che «la scelta di presentarsi come raggruppamento temporaneo di imprese non è stata imposta dal bando di gara, il quale ha solo specificato i requisiti di qualificazione da possedere ove gli operatori economici avessero optato per tale forma giuridica». «Ma» – ammette il giudice della revocazione – «di questo non si dubitava, contestata, invece, era la limitazione imposta nella assunzione delle prestazioni in caso di raggruppamento temporaneo».
L’ordinanza n. 8436/2022 riconosce insomma pienamente la svista in cui è incorsa la V sezione nel pronunciamento conclusivo del giudizio d’appello: nell’invocare la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il R.t.i. non lamentava un obbligo degli operatori economici di presentarsi in raggruppamento, bensì l’onere di ripartirsi in modo orizzontale i requisiti di esecuzione, intestandone alle mandanti una percentuale minima e alla capogruppo la quota maggioritaria, anziché poterli dimostrare «complessivamente» (come consente l’art. 95 D.P.R. n. 207/2010 riguardo ai requisiti economici e finanziari).
7. La sentenza Caruter della Corte di Giustizia (22 aprile 2022, C-642/20) aumenta le probabilità di un giudizio di responsabilità per illecito giudiziario.
Il caso vuole, tra l’altro, che dopo la sentenza d’appello, nelle more del giudizio di revocazione, le ragioni dell’impresa siano state anche indirettamente riconosciute dal Giudice europeo.
La Corte di Giustizia, IV sezione, con la sentenza 28 aprile 2022, C–642/20 (Caruter S.r.l. contro S.R.R. Messina e altri, su rinvio pregiudiziale del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana) ha dichiarato l’art. 83 comma 8 del Codice dei contratti pubblici incompatibile con l’art. 63 della Direttiva 2014/18/CE diritto europeo, il quale, a giudizio della Corte, «deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale secondo la quale l’impresa mandataria di un raggruppamento di operatori economici partecipante a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico deve possedere i requisiti previsti nel bando di gara ed eseguire le prestazioni di tale appalto in misura maggioritaria».
L’ordinanza n. 8436/2022 non fa cenno alla sentenza Caruter. E’ chiaro tuttavia che, qualora la plenaria si orientasse nel senso della non revocabilità della decisione d’appello impugnata, la sentenza Caruter renderebbe più probabile la responsabilità dello Stato (e dei magistrati del Consiglio di Stato) verso l’impresa ricorrente, nei termini sanciti dall’art. 2 commi 3 e 3-bis della legge n. 117/1988.
Di questo invece l’ordinanza n. 8436/2022 è ben consapevole, come si legge ai punti 3.5.3., 3.5.4 e 3.5.5. della motivazione: «V’è un punto (…) sul quale occorre riflettere: le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea portano a ritenere che ogni vicenda giudiziaria che si sia definitivamente conclusa, in virtù dell’esaurimento dei rimedi interni con un assetto di interessi contrastante con il diritto dell’Unione europea è suscettibile di innescare un correlato e complementare giudizio nel quale discutere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea al fine di accertare se sussistano le condizioni per la condanna al risarcimento del danno a beneficio del cittadino che in ragione di tale violazione abbia subito pregiudizio ai propri diritti. (…) Sorge, però, un dubbio di ragionevolezza, poiché da una parte è preclusa la possibilità di emendare il vizio consistente nella violazione del diritto dell’Unione europea attraverso un rimedio di sicura efficacia e rapidità quale il rimedio revocatorio (da esperirsi in unico grado dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza) e, dall’altra, è ammessa l’introduzione di un giudizio risarcitorio, che per l’articolazione nei gradi ordinari è destinato in ogni caso a svilupparsi in un arco temporale più lungo con l’esito incerto dovuto all’accertamento delle condizioni per accedere al risarcimento.
L’intima coerenza dell’ordinamento – ciò che lo rende razionale – è in tensione ove lo stesso errore non è considerato a tal punto ingiusto da portare alla revoca, ma le sue conseguenze ingiuste meritevoli di essere rimediate in via risarcitoria.
(…) A parere della Sezione la soluzione delle questioni poste all’Adunanza plenaria dovrebbe essere vagliata anche alla luce delle precedenti considerazioni».
8. Il “tranello” dell’effetto utile del diritto dell’Unione europea.
Ultimato il tentativo di ripercorrere l’iter motivazionale dell’ordinanza n. 8436/2022, è il momento di una valutazione complessiva dei molti profili da essa riguardati.
La richiesta che la plenaria si faccia carico del dubbio di «ragionevolezza» di un ordinamento che offre alla parte il solo rimedio risarcitorio può essere tradotta in una questione affrontabile da due punti di vista o, se si preferisce, con due possibili criteri d’inquadramento sistematico della fattispecie di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c. Il primo è la “tradizionale” lettura del diritto di difesa (art. 24 comma 1 Cost.) rispetto al principio di incontrovertibilità e stabilità della cosa giudicata. Il secondo è l’interposizione degli articoli 2 e 4 della legge n. 117/1988, sul presupposto che l’art. 106 c.p.a. sia una norma strutturalmente partecipe e quindi responsabile della ragionevolezza di un sistema di riparazione degli errori giudiziari (art. 24 ultimo comma Cost.), la cui fonte principale è rappresentata, per l’appunto, dalla “legge Vassalli”.
Collocandoci per ora dalla prima di queste due possibili angolature (e lasciando in sospeso la seconda, sulla quale si tornerà nelle battute conclusive) è necessario iniziare dall’esatta portata dell’interpretazione contenuta nella sentenza dell’adunanza plenaria n. 3/1997.
Si è visto che uno dei due indirizzi tra loro ritenuti in contrasto – quello della IV sezione (n. 2530/2018) – vede in questa sentenza una «lettura estensiva» dell’errore revocatorio.
In verità l’opinione sembra solo parzialmente esatta, poiché l’autorevole precedente, a rileggerlo bene – ed anche a sorvolare sulle fondate perplessità che già quella decisione destò in una parte della dottrina[30] – funge più da deterrente che da stimolo ad ulteriori allargamenti.
Senza dubbio nella sentenza n. 3/1997 c’è il rifiuto di una nozione circoscritta di errore di fatto, nella misura in cui viene riconosciuto che la falsa percezione dell’atto o documento processuale apre la via alla revocazione anche quando dà luogo a semplice mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, vizio che un tempo la giurisprudenza ascriveva ex sé alla sfera dell’error iuris[31].
Non va però dimenticato che, così argomentando, l’adunanza plenaria ha voluto soprattutto allinearsi agli sviluppi della giurisprudenza della Cassazione, in merito alla revocabilità della sentenza civile d’appello per omessa pronuncia dovuta a errore su atti o documenti processuali.
La plenaria ha lasciato così totalmente in ombra, di fatto superandola, quell’interpretazione specialistica o “amministrativistica” delle sezioni del Consiglio di Stato, che prima riportavano all’art. 395 n. 4 c.p.c. vizi propriamente classificabili in termini di errore di diritto[32] (il caso più celebre: l’errore del giudice amministrativo sulla vigenza di un regolamento annullato)[33].
E da questo punto di vista la sentenza del 1997, piuttosto della premessa storica di un’interpretazione “estensiva” dell’art. 395 n. 4, sta ad esprimere una necessità di coerenza alla disciplina del processo civile[34], dunque una lettura in chiave “restrittiva” dell’errore di fatto revocatorio.
Ora, ciò che l’ordinanza n. 8436/2022 chiede all’organo della nomofilachia non è di rielaborare un’accezione prettamente “amministrativistica” dell’errore revocatorio, ma di creare una semplice eccezione per il caso in cui l’errore, pur essendo «di giudizio», si è concretizzato in una falsa percezione dei presupposti dell’obbligo di rinvio alla Corte di Giustizia.
Proprio qui sta, a mio avviso, il punto debole dell’ordinanza n. 8436/2022: essa trova il suo unico motivo di fondo nella pregiudizialità eurounitaria e fa perno sulla specificità dell’obbligo sancito dall’art. 267 TFUE per prospettare una deroga alle normali categorie interpretative. Finisce così per essere l’ennesima voce che lamenta la mancanza un mezzo d’impugnativa a critica vincolata, “dedicato” all’esigenza di rimediare all’errore del giudice sull’applicazione del diritto dell’Unione europea.
Non si tratta, a ben vedere, se non dell’approccio già mostrato dall’adunanza plenaria nell’ordinanza n. 2/2015, allora riferita al giudicato contrastante con la CEDU, cui è seguita la sentenza della Corte costituzionale n. 123/2017 (richiamata nella n. 6/2018): l’esigenza di un rimedio fondato unicamente sull’ubbidienza alla dottrina dell’effetto utile del diritto dell’Unione europea; eppure, rispetto agli elementi caratterizzanti la revocazione nel diritto interno, una sorta di “ibrido”[35].
L’elemento di cui l’ordinanza n. 8436/2002 non si accorge, così impostando il ragionamento, è che il problema della «nuova ipotesi di revocazione» si svuota di sostanza giuridica, se lo si continua a basare soltanto sull’urgenza di una norma interna che assicuri il puro e semplice primato del diritto dell’Unione. Che l’ordinamento eurounitario sia un efficace fattore evolutivo degli istituti giuridici nazionali è cosa risaputa; ma per vedere realizzato un tale effetto nel caso della revocazione, occorre che essa sia prima di tutto un efficace strumento di tutela delle situazioni soggettive nazionali: anche in questo senso opera il “principio di equivalenza” costantemente affermato dalla Corte di Giustizia.
La riprova ne è proprio l’ordinanza n. 8436/2022, che, malgrado gli accenti posti sull’importanza dell’oggetto della svista percettiva (il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia), si guarda bene dall’invocare un «nuovo» caso di revocazione. Né tocca questioni di conformità del sistema processuale amministrativo al diritto dell’Unione europea, se non nei limiti in cui ciò le serve a prendere atto della sentenza Hoffmann – La Roche (che in un certo senso tranquillizza la sezione, alla stregua dei criteri Cilfit, sulla legittimità del decidere senza un nuovo rinvio dell’art. 106 c.p.a. alla Corte di Giustizia).
Già ad una prima lettura dell’ordinanza stessa, del resto, non si può fare a meno di notare che il vigore della contrapposizione tra diversi orientamenti sulla natura dell’obbligo di rinvio pregiudiziale si stempera in quesiti finali completamente appiattiti su una “classica” questione d’interpretazione dell’art. 395 n. 4 c.p.c. – se il mancato rinvio sia «qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto» – il cui intento, chiarissimo, è lasciare l’ultima parola alla soluzione di questioni di diritto interno in merito al rapporto tra il giudice amministrativo e l’oggetto del processo.
9. A cosa serve la revocazione nel processo amministrativo? La tesi, emersa nella giurisprudenza di primo grado, dell’applicabilità al processo amministrativo dell’art. 391-bis c.p.c. (sulla revocazione delle sentenze della Cassazione) e della natura “straordinaria” del rimedio.
Arriviamo così a una seconda criticità dell’ordinanza n. 8436/2022: il trascinare con sé – certo non per colpa del giudice – la grave irresolutezza dell’art. 106 c.p.a., disposizione incompleta e impermeabile ad un inquadramento sistematico dell’istituto della revocazione amministrativa.
Può darsi che la plenaria, nel seguire l’orientamento della IV sezione (n. 2530/2018), decida di trarre spunto dal “tono eurounitario” della questione per rimeditare funditus il senso di un istituto che (come del resto l’appello) è regolato da una disciplina alquanto lacunosa. Cadrebbe a proposito un’esattissima intuizione della dottrina del processo civile: «perché è data ed a cosa serve la revocazione»[36]? Cosa vuol dire esattamente l’art. 106 c.p.a., quando stabilisce che le sentenze del Consiglio di Stato «sono impugnabili per revocazione» nel caso previsto dall’articolo 395 n. 4 del codice di procedura civile?
È fin troppo evidente che un riscontro anche solo minimamente attendibile a simili interrogativi richiederebbe di trasferire l’indagine su un piano ben diverso di quello qui consentito. Comunque non si troverebbero, anche alla più approfondita ricerca, princìpi generali atti ad indirizzare l’interprete verso una nozione “estensiva” dell’errore di fatto revocatorio nel processo amministrativo.
Nel codice del 2010 si trova mutuata dal codice di procedura civile la regola della sussidiarietà della revocazione rispetto all’appello (art. 106 comma 3, da cui deriva la conversone in motivi di gravame delle cause di cui all’art. 395 c.p.c. e l’irrevocabilità della sentenza del TAR per le fattispecie di cui ai nn. 4 e 5).
Come nel processo civile, inoltre, l’errore revocatorio, rilevato dal giudice d’appello, ovviamente e necessariamente in termini di motivazione gravemente difettosa della sentenza impugnata (ad es. omessa pronuncia o palese illogicità) non comporta – se bene s’intende la giurisprudenza della plenaria – l’applicazione dell’art. 105 c.p.a. e l’annullamento con rimessione al giudice di primo grado, ma obbliga il Consiglio di Stato al pronunciamento di merito, dovendosi dare prevalenza all’effetto devolutivo/sostitutivo dell’appello rispetto all’autonomia del rescissorio garantita dalla regressione al primo giudice[37].
Massime, queste ultime, avallate dalla Corte costituzionale (sentenza n. 58 del 2020), che ha ritenuto che l’eliminazione del doppio grado di giurisdizione, tanto per il giudizio civile (art. 354 c.p.a.) che per quello amministrativo (art. 105 c.p.a., così come interpretato dalla plenaria), non denoti profili d’illegittimità per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117, comma 1 Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU).
Infine, analogamente al codice di procedura civile, il divieto di reiterazione a catena del rimedio di cui all’art. 106, espresso dalla possibilità di esperimento degli ordinari mezzi d’impugnazione, tranne la revocazione, contro la sentenza emessa nel giudizio di revocazione (art. 107 c.p.a., cfr. art. 403 c.p.c.).
Ma l’affinità dei due modelli processuali si arresta qui.
Nel codice di procedura civile la revocazione per errore di fatto della sentenza d’appello concorre col ricorso per Cassazione (art. 398), appunto perché è uno strumento configurato per un vizio palese ed «appresta una tutela per eventualità assai prossime alle censure in Cassazione, ma in queste non ricomprese»[38]. Essa può pertanto essere proposta simultaneamente ed indipendentemente dal ricorso ex art. 360 c.p.c. Si è anzi sostenuto, in dottrina, che nel caso di errore di fatto in procedendo (ad esempio supposizione della inesistenza di un fatto risultante dal verbale di causa) la parte potrebbe persino far valere, a sua scelta, l’errore di fatto revocatorio come motivo di revocazione o di ricorso per cassazione[39].
Nel processo amministrativo questa relazione di “concorrenza” è assente, poiché le sentenze del Consiglio di Stato non sono ricorribili in Cassazione tranne che per «motivi inerenti alla giurisdizione» (art. 111 comma 8 Cost.), ai quali non è in alcuna maniera riconducibile l’errore revocatorio (nel senso che quest’ultimo non può essere fatto valere come difetto di potestas iudicandi)[40].
Non solo quindi nel processo amministrativo non è data possibilità di concorso tra revocazione per errore e giudizio di Cassazione, ma – conseguenza di gran lunga più importante – la sentenza del Consiglio di Stato, a patto di risultare rispettosa dei limiti esterni della giurisdizione, dà luogo a cosa giudicata formale anche se affetta da una violazione, non importa quanto grave, della legge[41].
Anche per ciò si potrebbe affermare che il sistema non offre solidi ancoraggi ad una lettura «estensiva» dell’errore di fatto revocatorio, né a contaminazioni tra errore di fatto ed errore di diritto. Si potrebbe anzi soggiungere, come da tempo fa la giurisprudenza, che l’art. 395 n. 4 c.p.c. va interpretato in modo tale da «evitare che un distorto utilizzo» della revocazione «dia luogo ad un inammissibile ulteriore grado di giudizio di merito, non previsto e non ammesso dall’ordinamento»[42] (e che poi questa lettura sia corretta o non pecchi di qualche, pur comprensibile, sovrapposizione concetto di straordinarietà a quello di critica vincolata, è altra questione[43], su cui non è la sede né il momento di soffermarsi).
Ma v’è di più: a guardare bene neppure la disciplina del Codice di procedura civile potrebbe ritenersi del tutto fedelmente richiamata dall’art. 106 c.p.a., considerando che il Consiglio di Stato è, nel suo plesso, giudice di ultima istanza, oltre che giudice d’appello. La revocazione per errore di fatto delle sentenze della Corte di Cassazione[44] ha infatti, per espressa disposizione del Codice di procedura civile (art. 391-bis) natura di rimedio straordinario o meglio – più precisamente – non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza d’appello impugnata per cassazione con ricorso respinto.
Per quanto l’assimilazione possa ritenersi semplicistica o suggestiva (tant’è evidente la diversità tra le due tipologie di pronuncia oggetto di revocazione) essa, come subito vedremo, non è del tutto estranea alla giurisprudenza e neppure priva di rilevanti conseguenze pratiche.
Tocchiamo qui un altro problema di un certo rilievo. Accogliendo una dicotomia pur non priva di critiche in dottrina[45] – e accettando altresì la premessa che un mezzo d’impugnazione può essere “straordinario” anche quando è collegato alla pronuncia impugnata da un termine di decadenza (per via della natura palese del vizio)[46] – una domanda non si può evitare: la revocazione per errore di fatto (art. 395 n. 4) delle sentenze del Consiglio di Stato è un rimedio “ordinario” o “straordinario”?
Al riguardo, mi limito a notare che la risposta può essere impostata – e lo è stata, in giurisprudenza – in entrambi i modi, proprio per l’ambiguità dell’art. 106 c.p.a.
Una prima tesi potrebbe essere che l’art. 106 c.p.a. qualifica la revocazione delle sentenze del Consiglio di Stato per il motivo di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c. allo stesso modo in cui il codice di procedura civile qualifica la revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione: un mezzo d’impugnazione “straordinario”, attraverso il quale la legge, al pari di quanto avviene nelle fattispecie «occulte» (art. 395 n. 1, 2, 3 e 6 c.p.c.), intende stabilire soltanto «un’eccezione alla regola dell’immutabilità della sentenza sancita dall’art. 324 c.p.c.»[47] posteriormente al perfezionamento della cosa giudicata formale.
Parte della giurisprudenza sembra schierata su questa posizione: che alla revocazione delle sentenze del Consiglio di Stato si applichino le disposizioni sulla revocazione delle sentenze della Cassazione, da intendersi implicitamente richiamate dall’art. 106 c.p.a. in forza del rinvio all’art. 395 n. 4 c.p.c. – alla luce del fatto che entrambi gli organi in questione sono giudici di ultimo grado – o, secondo altra possibile ricostruzione, direttamente applicabili per effetto del «rinvio esterno» di cui all’art. 39 c.p.a.[48]
Risulterebbe così incluso, tra le disposizioni richiamate dall’art. 106 c.p.a., l’art. 391-bis c.p.c., per cui «La pendenza del termine per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto».
Alcuni giudici amministrativi di primo grado hanno stabilito pertanto che nel processo amministrativo la pendenza del termine per la revocazione previsto dall’art. 92 commi 1 e 3 c.p.a., ove si tratti d’impugnativa per errore di fatto, non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza di appello che ha definito la questione sul piano sostanziale[49], giacché «la sentenza del Consiglio di Stato (equiparabile ai fini di cui trattasi a quella della Corte di cassazione in quanto giudice di ultimo grado) acquisisce autorità di cosa giudicata a prescindere dalla proposizione del ricorso per revocazione»[50].
Se ne sono tratte varie conseguenze: rispetto alla decorrenza del termine di 120 giorni per l’esercizio dell’azione risarcitoria cumulata a quella di annullamento (art. 30 comma 5 c.p.a.)[51]; alla qualificazione di «definitività» dell’esclusione dalla gara ai fini della proponibilità del ricorso contro l’aggiudicazione[52]; alla nozione di «procedimenti giudiziari pendenti» ai fini della definizione stragiudiziale del contenzioso in materia di concessioni demaniali (art. 1 commi 732 e 733 legge n. 147/2013)[53]; oltre che sul concetto di «giudicato» in sede di ottemperanza a sentenza civile di condanna della pubblica amministrazione[54].
Si deve aggiungere, a questo proposito, che l’art. 4 legge n. 117/1988 prevede che l’azione di risarcimento del danno contro lo Stato possa essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi «ordinari» di impugnazione. Se dunque si assumesse che la revocazione per errore di fatto della sentenza del Consiglio di Stato sia un mezzo «straordinario», anche il termine di tre anni per l’instaurazione del giudizio civile di danno decorrerebbe dal giorno del deposito della sentenza d’appello impugnata (nel caso affrontato dall’ordinanza n. 8436/2022, ad esempio, dal 19 aprile 2021 con scadenza 19 aprile 2024).
10. La tesi opposta del Consiglio di Stato (V sezione, sentenza n. 3923/2918). Il “recupero” della natura ordinaria della revocazione prevista dall’art. 395 n. 4 c.p.c. (e le sue implicazioni).
Una delle sentenze di primo grado summenzionate, la più significativa, è stata tuttavia riformata dal Consiglio di Stato, il quale ha ritenuto che nel processo amministrativo non trovi applicazione l’art. 391-bis c.p.c. «non essendo equiparabile la posizione della Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, al Consiglio di Stato che, pur giudice di ultimo grado, decide il merito della controversia»[55].
Vediamo qui prevalere un secondo punto di vista: il criterio di confronto tra la sentenza del Consiglio di Stato e la sentenza della Cassazione non verte sull’essere entrambi giudici di ultimo grado, ma sull’essere uno giudice di merito (provvisto cioè della cognitio causae),[56] l’altro giudice di legittimità.
In effetti la tesi dell’applicabilità al processo amministrativo dell’art. 391-bis c.p.c. non appare convincente. Essa trascura anzitutto che non v’è analogia di “situazione impugnatoria”, essendo chiaro che l’art. 391-bis intende assicurare il passaggio in giudicato della sentenza d’appello confermata o comunque della «impugnata con ricorso di Cassazione respinto»; mentre il rinvio del Codice del processo amministrativo agli artt. 395 e 396 c.p.c. non contiene analoga clausola, semplicemente perché concepito nella logica (opposta) della posticipazione dell’effetto di cosa giudicata formale ad esito del rimedio revocatorio.
Proprio a tal proposito, del resto, non può sfuggire la forzatura alla quale si auto-costringe la giurisprudenza favorevole all’operazione “estensiva”, allorché – consapevole che un’analogia stretta con l’art. 391-bis porterebbe, senza alcun senso, a considerare coperte dal giudicato solo le sentenze d’appello che abbiano respinto l’impugnazione e confermato la pronuncia del TAR – estende il riconoscimento dell’efficacia di giudicato genericamente alla sentenza d’appello che abbia definito la questione sul piano sostanziale, così peraltro ubbidendo ad una norma che non esiste nel codice di procedura civile.
In secondo luogo, le norme processuali civilistiche sulle impugnazioni, specie quelle sui mezzi “straordinari”, sono il frutto di valutazioni di opportunità in merito al regime di stabilità della sentenza. Non corrispondono ad esigenze di realizzazione del diritto di difesa compiutamente demarcate sul piano sostanziale, bensì a scelte di politica legislativa sulla conformazione di determinati istituti processuali. Già solo per questo, difficilmente l’art. 391-bis potrebbe ritenersi applicabile al processo amministrativo. Il fatto poi che quelle decisioni di politica legislativa siano discrezionali e censurabili «soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate»[57] vale ad escludere che l’applicazione analogica dell’art. 391-bis ubbidisca a una necessità di interpretazione “costituzionalmente orientata” dell’art. 106 c.p.a. Neppure per questa via, dunque, l’art. 391-bis c.p.c. potrebbe essere considerato un principio generale che trova ingresso nel Codice del processo amministrativo attraverso la clausola del rinvio esterno (art. 39).
Infine, non sembra che l’art. 391-bis c.p.c. sia da considerare “implicitamente” evocato dal rinvio, operato dall’art. 106 c.p.a., all’art. 395 n. 4 c.p.c. Il testo dell’art. 106 è lex posterior rispetto all’art. 391-bis e, con piena consapevolezza della disciplina delle impugnazioni civili (che si deve presumere in capo al legislatore) prevede che le sentenze del Consiglio di Stato siano impugnabili per revocazione «nei casi e nei modi previsti» dall’art. 395 c.p.c., senza alcun riferimento all’art. 391-bis c.p.c. Casie modi previsti significa che la revocazione per errore di fatto, nel processo amministrativo, è un rimedio “ordinario”, non “straordinario”.
L’effetto sospensivo della formazione della cosa giudicata, unito alla già menzionata natura sostitutiva del rimedio revocatorio, porta quindi a concludere che l’art. 395 n. 4 c.p.c. (art. 106 c.p.a.), a differenza dell’art. 111 comma 8 Cost. (cfr. art. 382 e 383 c.p.c.) rappresenti l’unico caso in cui il vizio della sentenza d’appello apre davvero la porta ad un “terzo grado” di giudizio amministrativo.
Ma, riprendendo il discorso sull’ordinanza n. 8436/2022, non si vede allora perché l’art. 395 n. 4 c.p.c. dovrebbe prestarsi a interpretazioni che ne diminuiscano la fondamentale funzione selettiva. Come si è potuto constatare, la tesi sostenuta dalla IV sezione (sentenza n. 2530/2018) non invoca una nuova ipotesi di revocazione, che non sarebbe consentita dal quadro normativo dell’Unione; eppure non lesina i propri dubbi che si possa o si debba dare una versione più elastica dalle ipotesi vigenti di errore revocatorio, tra le quali inserire qualcosa di simile a una “omessa pronuncia su questioni pregiudiziali di rilevanza europea” o, se si preferisce la “pronuncia su questioni pregiudiziali di rilevanza europea, mai sollevate dalla parte”. Sicché non è affatto chiaro, una volta scartato che ciò consegua all’applicazione del diritto dell’Unione, a quale regola o principio giuridico tutto questo possa mettere capo, e perché mai il giudice amministrativo debba darsi carico di un’interpretazione estensiva delle norme del Codice del 2010 sulla revocazione.
11. Rilievi critici in merito all’indirizzo (sez. V, n. 838/2021) messo a contrasto con quello della IV sezione: irriducibilità del motivo di ricorso giurisdizionale amministrativo al principio iura novit curia.
La sensazione, arrivati a questo punto, è che i quesiti rivolti alla plenaria possano essere affrontati senza discostarsi dalle correnti interpretazioni dell’errore revocatorio (art. 395 n. 4 c.p.c.); che non vadano per forza passati al vaglio di una reinterpretazione dell’art. 106 c.p.a. conforme all’effetto utile del diritto dell’Unione; che non impongano di accedere a una (non meglio specificata) «lettura estensiva» dell’errore revocatorio. Da questo angolo di visuale, si è avuto modo di notare che talune delle premesse ricostruttive della tesi della IV sezione (sentenza n. 2530/2018) non lasciano completamente appagati.
Ma dire questo non significa aver risolto il problema e tanto meno dare ragione al pronunciamento antagonista, per cui la svista del Consiglio di Stato sulla norma interna denunciata nell’istanza di rinvio non potrebbe mai essere sussunta all’errore revocatorio di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c.
A non minori critiche, infatti, si espone l’indirizzo messo a contrasto, la sentenza della V sezione n. 838/2021, che offre un’impostazione molto particolare del problema[58]. La decisione in parola, come si è visto, nega in partenza che l’istanza di rinvio rappresenti una domanda in senso tecnico e disconosce così l’esistenza dell’obbligo di pronuncia, sulla premessa che il rapporto processuale – sul quale ricade la decisione ex officio del giudice circa il proprio obbligo di rimessone alla Corte di Giustizia (art. 267 TFUE) – non sia quello tra il giudice e le parti, ma quello tra il giudice e l’ordinamento (iura novit curia).
La sentenza n. 838/2021 anticipa l’indirizzo citato al par. 2 (sentenza n. 5174/2022), il quale esclude in generale che l’errore di fatto revocatorio possa cadere sul contenuto delle argomentazioni difensive delle parti, non costituendo queste ultime dei “fatti” ai sensi dell’art. 395, n. 4 c.p.c.
Si prospetta senza dubbio, in questi termini, un passaggio ineludibile, forse il nocciolo della questione, che ci si augura non sfugga alla plenaria: stabilire se il modello di giudizio impugnatorio che caratterizza processo amministrativo implichi o meno il vincolo del giudice a decidere secundum alligata et probata anche con riferimento alla norma invocata dal ricorrente nel motivo di ricorso.
Il fondamento del dovere del giudice amministrativo di applicare le norme che il ricorrente assume violate è destinato a cambiare, a seconda che lo si identifichi con il principio costituzionale di soggezione alla legge (art. 101 Cost.) o con l’effetto obbligatorio dell’esercizio dell’azione, quindi con il vincolo del giudice alla domanda di parte (art. 112 c.p.c.) costituita dai motivi di ricorso.
Se si segue la prima delle due ipotesi, è corretto riconoscere che, in base al principio iura novit curia, il giudice ha tutto il diritto di stravolgere l’allegazione della norma effettuata dalla parte, giacché appunto si presume che essa non partecipi dei fatti costitutivi della pretesa azionata. Accogliendo la seconda ipotesi, si converrà invece che, in base al principio iura novit curia, il giudice può porre a fondamento della sua decisione soltanto norme diverse da quelle “erroneamente” richiamate dalle parti e, in ogni caso, può scegliere una norma differente soltanto se quest’ultima, al pari di quella sostituita, risulti applicabile ai fatti concretamente allegati, sui quali il giudice amministrativo non ha potere modificativo[59].
Il passaggio è cruciale poiché nell’istanza di rinvio pregiudiziale la norma ritenuta in contrasto con il diritto dell’Unione non è parametro, ma oggetto della questione e sollevata offre quindi l’impressione di inserirsi nel processo a quo “come fatto” piuttosto che come fonte di diritto obbiettivo.
Su questo profilo della questione, almeno, la dottrina sostanzialmente concorda: «nel processo amministrativo di impugnazione, il diritto entra quale elemento costituivo del vizio-motivo e quindi in questa veste si presenta come fatto (…) un fatto affermato dal ricorrente al pari dei fatti che concretano la asserita violazione della fattispecie normativa (…). Da ciò deriva che l’affermazione, ampia e pacifica per il processo civile, che il giudice non è vincolato alla scelta della norma e alla interpretazione giuridica dei fatti, fornite dalle parti (iura novit curia), è valida nel processo amministrativo in misura molto attenuata. La scelta della norma spetta al ricorrente; al giudice spetta solo di riconoscere quale norma il ricorrente abbia scelto»[60].
La sentenza della IV sezione n. 2530/2018 è più o meno consapevolmente debitrice di quest’ultima impostazione – salvo assumere argomenti meno condivisibili riguardo alle modalità di soluzione del problema – mentre la V sezione (n. 838/2021) ne prende le distanze.
Non si può tuttavia fare a meno di rilevare che la V sezione, non meno della IV, pecca di eccessiva astrattezza e sottovaluta alcune importanti informazioni desumibili dalla giurisprudenza, là dove arriva a disconoscere qualsiasi effetto processuale all’istanza di rinvio pregiudiziale, definita una «mera sollecitazione all’impulso officioso», non avente natura di domanda o eccezione in senso tecnico.
Viene così contraddetto l’indirizzo, espresso a più riprese dal Consiglio di Stato, secondo il quale l’istanza di rinvio pregiudiziale va «trattata come un ordinario motivo di ricorso»; al punto che, al pari delle ordinarie censure di parte, va «proposta dalla parte entro i termini di impugnazione dell’atto amministrativo, con motivo specifico, da articolarsi sin dal primo grado di giudizio»[61].
La sentenza n. 838/2021 ricorda altresì l’analogia con la pregiudizialità costituzionale; che dovrebbe però suggerire opposte conclusioni, visto che proprio a tale riguardo la giurisprudenza amministrativa, dopo alcuni orientamenti favorevoli a ravvisare il requisito della rilevanza di cui all’art. 23 comma 2 della legge n. 87/1953 a prescindere dal principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato[62], è sempre rimasta ferma[63] nel ritenere che la questione di legittimità di una norma sia rilevante solo se afferisce direttamente al thema decidendum determinato dai motivi di ricorso[64]; ricavandone altresì il logico correlato e cioè la massima giurisprudenziale per cui il ricorrente «deve dedurre la questione di legittimità costituzionale di una norma con riferimento ad un provvedimento tempestivamente impugnato»[65]
Infine, appaiono trascurate le indicazioni che provengono dalla stessa Corte di Giustizia in ordine alla ragion d’essere della natura officiosa del potere di rinvio pregiudiziale[66]. Soprattutto nelle sentenze Kelly[67] e Consiglio Nazionale dei Geologi[68], la Corte ha sì ribadito che la responsabilità del rinvio grava sul giudice e che le parti non possono modificare il tenore della questione[69], ma ha anche lasciato capire che lo scopo dell’impulso officioso è proprio la tutela della parte, poiché il dovere di cooperazione stabilito in capo al giudice nazionale dall’art. 267 TFUE serve a garantire i diritti conferiti ai singoli dall’ordinamento dell’Unione, non a tutelare gli interessi dell’Unione come ordinamento obbiettivamente inteso.
Vale a dire che, nell’istituto del rinvio pregiudiziale, la regola dell’impulso officioso si converte innanzitutto in un canone di responsabilità del giudice verso la parte, portandoci di nuovo al punto d’incontro tra le prerogative di quest’ultima e la tendenza del primo a non incorrere in responsabilità.
Com’è stato notato in dottrina, appunto, la pressione del «tema caldo della responsabilità»[70] ha condotto il Consiglio di Stato a ritenere che l’impulso officioso non corrisponda affatto a un ambito di «esclusiva disponibilità del giudicante» (come lo individua la sentenza n. 838/2021), ma, all’opposto, serva al giudice da pretesto per calibrare con molta cautela il vaglio sulle ragioni della parte, onde portare queste ultime davanti alla Corte di Giustizia malgrado l’istanza di rinvio contenga lacune o inesattezze che suggerirebbero di fare il contrario, se esistesse un filtro maggiormente discrezionale. E’ stata questa visione, alle cui spalle v’è evidentemente una rigorosa interpretazione della “dottrina Cilfit”, ad aver convinto il Consiglio di Stato, nei casi di mancanza di specifici precedenti della Corte di Giustizia contrari all’istanza di rinvio (assenza del requisito dell’acte clair), a decidere – al fine dichiarato di non voler incorrere nelle responsabilità previste della legge n. 117/1988 – di rimettere alla Corte di Giustizia anche questioni manifestamente infondate, accogliendo l’istanza di rinvio «pur consapevole della manifesta infondatezza della pretesa (…) e della ingiustificata protrazione dei tempi del processo collegati alla pendenza della questione pregiudiziale, al solo fine di ottemperare al dovere di rinvio pregiudiziale da parte del Giudice nazionale di ultima istanza»[71].
La tesi che nega l’errore percettivo sull’istanza di rinvio affermando che quest’ultima una mera «sollecitazione all’impulso officioso» si scontra quindi con una realtà in cui non solo la giurisprudenza considera l’istanza di rinvio pregiudiziale soggetta agli stessi limiti e preclusioni d’un comune un motivo di ricorso, ma «l’impulso officioso» si risolve nella gran parte dei casi nell’interpretare l’istanza di rinvio e nel sopperire, ove occorra, alla genericità o all’imprecisione del suo testo. Proprio come se esistesse, appunto, un diritto della parte di conoscere, nel caso concreto, il punto di vista della Corte di Giustizia.
12. L’art. 106 del Codice del processo amministrativo di nuovo davanti alla Corte costituzionale?
Se si condividono le cose dette sin qui, si converrà che non sia impossibile, per la plenaria, ravvisare gli indici dell’errore «di fatto» nel comportamento del giudice che, a causa di un «fraintendimento» sulla «questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne (…) con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello», decida di non operare il rinvio pregiudiziale.
In realtà non sbaglia la IV sezione (n. 2530/2018) quando ritiene che tale «fraintendimento» si possa presentare alla stregua di qualsiasi altra falsa rappresentazione di atti e documenti processuali: in fondo, che differenza c’è tra il non essersi accorto, il giudice, di un’eccezione d’inammissibilità del ricorso reiterata in appello – che pacificamente può dar luogo a revocazione (ad. plen., n. 3/1997) e il non aver visto la norma interna che la parte, nella propria istanza di rinvio, ritiene contraria al diritto dell’Unione?
Meno ragione ha invece la V sezione, a me pare, nell’ordinanza di rimessione qui commentata (n. 8436/2022), quando qualifica come errore di diritto «per tradizione» quello «intervenuto nel compimento dell’operazione intellettuale propria e preliminare del giudicare», soggiungendo che «l’individuazione prima, e l’interpretazione poi, della questione giuridica da risolvere è un’attività della mente» e che, «se la si sbaglia e, in conseguenza di ciò, la risposta di giustizia risulta inconciliabile con la domanda posta v’è un fraintendimento che non è dei sensi, ma del giudizio». Lo spunto, raccolto anche dalla sentenza dell’adunanza plenaria n. 3/1997, sta nell’adesione «all’autorevole opinione dottrinale secondo cui l'errore di fatto altro non è che un errore di percezione degli atti o documenti di causa considerati nella loro materialità»[72]. Ma il noto insegnamento per cui l’errore revocatorio può cadere su atti o documenti di causa, significa, per l’appunto, che anche l’errore di giudizio può avere natura di «errore di fatto» e, specularmente, che non v’è corrispondenza biunivoca tra errore di giudizio ed errore di diritto. L’ammissibilità della revocazione dipende da cosa ha determinato il vizio, dal processo causale che lo ha provocato; e nulla esclude che l’errore sulla consistenza dell’allegazione difensiva (motivo di ricorso) nel quale è contenuta l’istanza di rinvio pregiudiziale, possa ritenersi concretamente dovuto a falsa rappresentazione della realtà, svista o «abbaglio dei sensi».
Semmai, più spinoso è un altro problema. Usciamo per un attimo dalla logica dicotomica e polarizzante tra i due elementi sui quali può cadere l’errore percettivo del giudice – il fatto (l’atto o il documento di causa) e la norma allegata dalla parte –; contrapposizione che si è constatata, alla fine, superabile.
Un profilo di maggiore rilevanza è che l’art. 395 n. 4 c.p.c. richieda espressamente, nella definizione dell’errore revocatorio, la «supposizione» del fatto (o della sua inesistenza).
Supposizione che sarebbe facilmente verificabile se ci trovassimo nel caso di omessa pronuncia sul motivo d’appello con cui la parte ha dedotto l’istanza di rinvio pregiudiziale; qualora, cioè, la pronuncia impugnata per revocazione lasciasse intendere che il giudice si è falsamente rappresentato l’inesistenza in atti del motivo di appello contenente l’istanza di rinvio, il quale viceversa risulta formulato.
Ma come si diceva all’inizio del presente contributo, nel caso giudicato dall’ordinanza n. 8436/2022 non si tratta – anche se così la presenta, la V sezione – di «omessa pronuncia», bensì di rifiuto di rinvio pregiudiziale: nella sentenza d’appello impugnata per revocazione (V sezione, n. 3134/2021) il Consiglio di Stato aveva infatti statuito (punto 6.4.) sul motivo di ricorso con il quale era stata dedotta l’istanza di rimessione alla Corte di Giustizia, ed anche l’ordinanza n. 8436/2022 riconosce che «non v’è omissione di pronuncia sul motivo di appello perché la Sezione ha espressamente pronunciato rigettandolo»
Sembra allora piuttosto dubitabile che il giudice, che l’istanza di rinvio l’ha esaminata – tant’è che su di essa si è pronunciato – possa essere incorso in una “svista”.
Potrà certo, il Consiglio di Stato, non aver inteso ciò che la parte voleva lamentare; potrà essere incorso in una motivazione palesemente non congruente – persino macroscopicamente o grossolanamente illogica – ma non essere stato vittima di una falsa rappresentazione della realtà processuale.
Quando, con la sentenza n. 3134/2021, la V sezione ha deciso che il motivo di ricorso fosse infondato perché «la scelta di presentarsi come raggruppamento temporaneo di imprese non è stata imposta dal bando di gara, il quale ha solo specificato i requisiti di qualificazione da possedere ove gli operatori economici avessero optato per tale forma giuridica», mentre la parte lamentava alcunché di diverso, ossia che l’imposizione di un possesso maggioritario dei requisiti violasse il diritto dell’Unione europea (e le sentenze della Corte di Giustizia), il giudice – si potrebbe dire – ha statuito ciò che ha statuito: bene, male o malissimo, ma non ha «supposto» alcunché di incontrastabilmente escluso o stabilito dai documenti di causa.
Resta da dire della questione che si è lasciata in sospeso: il dubbio di «ragionevolezza» e di coerenza dell’ordinamento che la V sezione manifesta nelle battute conclusive dell’ordinanza n. 8436/2022. Ho già specificato che il punto di vista della sezione impone un cambiamento di parametro, riferito in termini costituzionali all’art. 24 comma 1 e l’art. 24 comma 4 Cost. («La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari»). Norma programmatica, quest’ultima, ma la cui attuazione da parte del legislatore non può sottrarsi ai canoni della ragionevolezza e della proporzionalità.
Quello che vorrei soggiungere al riguardo – senza cadere in uno sterile tentativo prognostico in merito a ciò che farà la plenaria – è solo questo: che la congruità delle “aperture impugnatorie” concesse dall’art. 106 c.p.a. alla parte, in termini di ammissibilità della revocazione per errore di fatto, può essere giudicata anche mediante la connessione alla legge n. 117/1988 (sulla responsabilità dello Stato per illecito commesso con dolo o colpa grave dei magistrati), così da restituire un quadro normativo sostanzialmente unitario e come tale giudicabile anche sotto il profilo della sua conformità a Costituzione.
In tale prospettiva, premessa l’impossibilità per la plenaria di far questione – non rilevante nel caso di specie – di violazione delle norme costituzionali sull’indipendenza della magistratura amministrativa (art. 108 Cost.), non si possono non condividere le argomentazioni della V sezione.
Un sistema che richiede alla parte di attivare fin dove possibile (artt. 2 e 4 legge n. 117/1988) e al tempo stesso vieta (art. 106 c.p.a.) l’auto-emendamento del processo amministrativo con i mezzi di impugnazione ordinari; un sistema che dà rilievo al concorso colposo del creditore – anche per il danno patito dalla violazione del diritto dell’Unione in conseguenza di mancato rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE) – e d’altro canto impedisce al creditore stesso d’intraprendere, prima del rimedio risarcitorio, l’azione costitutiva (revocazione per errore di fatto sui contenuti dell’istanza di rinvio), dal cui ipotetico accoglimento deriverebbe la riduzione del danno, lascia il dubbio di un bilanciamento poco coerente imputabile all’art. 106 c.p.a., proprio rispetto a quel limite della manifesta irragionevolezza delle scelte operate nella conformazione degli istituti processuali, che rappresenta un consolidato orientamento della Corte costituzionale.
Probabilmente la Corte, dinanzi a una questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 c.p.a. per contrasto con gli articoli 3, 24 commi 1 e 4 e 111 Cost. ripiegherebbe (e non si potrebbe neppure darle torto, per la delicatezza che pone in ogni caso la modifica di norme processuali) sulla necessità d’interposizione discrezionale del legislatore, come con la sentenza n. 123/2017.
D’altronde il sistema potrebbe essere ricondotto a ragionevolezza riducendo il perimetro delle ipotesi di colpa grave del magistrato (operando dunque sulla legge n. 117/1988) e non necessariamente ampliando le condizioni di proponibilità del rimedio revocatorio per errore.
Di fruttuoso in una nuova questione di costituzionalità dell’art. 106 rimarrebbe tuttavia la giustificabile aspettativa di un pronunciamento (sia pur cautamente) monitorio, che spingesse finalmente il Parlamento, “prolungando” la recente esperienza dell’art. 391-quater c.p.c. a prendersi carico di una situazione di evidente squilibrio del rapporto processuale amministrativo. Ne gioverebbero, tra l’altro[73], settori come quello del giudizio sulle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici – da cui provengono molti dei casi qui analizzati (inclusa la vicenda di specie e i due indirizzi posti a confronto) – caratterizzato da un elevato contenzioso ma anche da un criterio di accelerazione del rito, là dove il pericolo di errori veniali dovuti alla vertiginosa semplificazione può trovarsi facilmente commutato in colpa grave[74]. E dove forse non costerebbe poi troppo intervenire – ove si volesse lasciare invariato l’attuale regime della responsabilità del magistrato – per dare alla parte soccombente l’opportunità di una (altrettanto celere) riapertura del processo.
[1] Si è recentemente soffermata su questa ordinanza M.A. Sandulli, Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi, in questaRivista, 20 ottobre 2022, nel contesto di una più ampia e articolata trattazione dell’obbligo di rinvio e delle sue ricadute sul giudizio amministrativo.
[2] Cons. Stato, Ad plen., 22 gennaio 1997, n. n. 3, in Foro it., 1997, III, 388 ss. con nota di A. Travi e in Dir. proc. amm., 1997, 820 ss., con nota di F. Francario, Revocazione ordinaria e processo amministrativo, ivi, 830 ss. In questa decisione, considerata artefice di una «lettura estensiva dell’errore di fatto revocatorio» (Cons. Stato, Sez. V, 26 aprile 2018, n. 2530), fu superato l’indirizzo secondo il quale l'omessa pronuncia su censure o motivi di impugnazione non è mai un errore di fatto, ma sempre un errore di diritto, anzi un «tipico errore di diritto», perché l’omissione di pronuncia non è altro che una violazione particolarmente grave del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), non previsto tra le fattispecie di revocazione di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c. L’elasticità dello schema alternativo indicato dalla plenaria, al quale si è poi sempre uniformata la giurisprudenza amministrativa, fa perno sull’indagine caso per caso che il Consiglio di Stato deve svolgere nel giudizio di revocazione indagando la motivazione della sentenza d’appello, allo scopo di ricavarne il «processo causale che ha determinato l’evento omissivo»: può darsi che la motivazione riveli una mancata pronuncia frutto di un errore di natura intellettivo-valutativa, dunque cdi un errore di diritto; ma non va escluso «che l’omissione di pronuncia possa essere fatta valere (…) come risultato di un vizio nella formazione del giudizio: il dolo del giudice o, come nella specie, l'errore di fatto revocatorio. Nel caso di omessa pronuncia, infatti, errore revocatorio e violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato non sono in relazione di alternatività, ma il primo è possibile fonte della seconda.Pertanto, l'errore di fatto revocatorio può essere configurabile anche quando cade sull'esistenza o sul contenuto di atti processuali e determini una omissione di pronuncia, purché esso sia identificabile attraverso la motivazione della sentenza». Di qui anche (come si ripeterà più avanti, nel testo), l’allineamento alla giurisprudenza della Corte di cassazione sull’art. 395 n. 4 c.p.c., che già allora denotava una tendenza ad ammettere la coincidenza dell’errore revocatorio con la svista percettiva sul contenuto di atti e documenti processuali, non sull’esistenza di fatti materiali allegati dalle parti (per questa posizione, più di recente, Cass. civ, sez. VI, 21 luglio 2020, n. 15471; sostenuta anche in dottrina a partire da A. Attardi, La revocazione, Padova, Cedam ,1959, 197 ss.
[3] Punto 3.1.3. della motivazione: «Consegue una prima conclusione: non v’è omissione di pronuncia sul motivo di appello perché la Sezione ha espressamente pronunciato rigettandolo»
[4] Punto 3.1.3. della motivazione.
[5] Sull’argomento si tornerà in conclusione (v. infra, par. 12).
[6] A. Attardi, op. cit., 195.
[7] Cons. Stato, sez. V, 23 giugno 2022, n. 5174; conforme Cass. civ. sez. trib., 22 marzo 2005, n. 6198; v. però Cons. Stato, sez. IV, 4 agosto 2015, n. 3852, dove si ritiene ammissibile la revocazione di una sentenza del Consiglio di Stato che aveva ritenuto di non poter applicare per analogia, a un appalto nei settori speciali, la disposizione sulla revisione prezzi prevista per gli appalti di lavori pubblici; senza accorgersi che la parte, in appello, aveva fondato la propria pretesa «anche sulle specifiche pattuizioni negoziali con cui le parti» convenivano «di disciplinare il proprio rapporto negoziale in conformità a detta disposizione, a prescindere dall’appartenenza dell'appalto ai settori speciali».
[8] Punto 3.5.4. della motivazione
[9] V. per questo spunto, A. Attardi, op. cit., 191: «Motivo di revocazione è un errore di fatto. Restano, perciò, fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 395 n. 4 non solo gli errori di diritto ma anche gli errori di giudizio di fatto che derivino dalla violazione di una norma giuridica» (ad esempio, prosegue l’A., si configura errore di diritto, non di fatto, se il giudice ritiene non dimostrato un fatto per errore sull’efficacia probatoria del verbale di causa, che lo riporta). Nel caso di cui ci occupiamo invece l’errore cade direttamente sul documento (istanza di rinvio), caratterizzandosi semmai per il tipo di contenuto (la norma interna censurata dalla parte) oggetto di falsa rappresentazione.
[10] Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2018, n. 2530, al punto 9.10 della motivazione.
[11] Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 2021, n. 838, al punto 4 della motivazione.
[12] Id., loc. ult. cit.
[13] Cons. Stato, ord. 8436/2022, punto 3.5.2. della motivaizone.
[14] Gravoso per la parte quindi: è su quest’ultima che la sezione imposta il problema. Una certa pressione è chiaramente esercitata anche dal problema che riguarda l’altro soggetto-vittima dell’inammissibilità della revocazione, il giudice, la cui posizione è tuttavia disciplinata dalla legge n. 117/1988, qui non applicabile e dunque non rilevante ai fini di una eventuale proposizione della questione di legittimità costituzionale.
[15] M.A. Sandulli, op. cit., nelle considerazioni conclusive.
[16] L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con l’ordinanza 4 marzo 2015, n. 2 (F. Francario, Revocazione per contrasto con pronuncia di Corte di giustizia, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Treccani online) aveva sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. «in relazione agli artt. 117 co.1, 111 e 24 Cost. nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46 par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo». La questione è stata tuttavia respinta dalla Corte costituzionale (sentenza n. 123/2017; sulla quale F. Francario, Giudicato e revocazione, in Libro dell’anno del Diritto 2018, Treccani online e prima lo stesso F. Francario, La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata in giudicato, in federalismi.it, 21 giugno 2017)
[17] Ancora (si riporta in nota per non appesantire la lettura) «l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».
[18] Cass. civ. ss.uu., 24 novembre 2020, n. 26672; G.A. Chiesi, Decisione nel merito della Corte di Cassazione e risarcimento danni ex lege 117 del 1988: tempus fugit...talvolta inconsapevolmente!, in questa Rivista, 1 maggio 2021.
[19] G.F. Ricci, Il «travisamento» del fatto e della prova nella responsabilità del giudice, in Riv. trim. proc. civ., 2015, 1155 SS., spec. 1168-1170. Su questo ed altri profili problematici si vedano inoltre i contributi di AA.VV., pubblicati in Foro it., 2015, V, 281 ss., sul tema La nuova responsabilità civile dei magistrati (l. 27 febbraio 2015 n. 18), in particolare (per inerenza all’argomento qui trattato) V. Vigoriti, La responsabilità civile del giudice: timori esagerati, entusiasmi eccessivi, 287; C.M. Barone, La legge sulla responsabilità civile dei magistrati e la sua (pressoché inesistente) applicazione, 291 ss.; E. Scoditti, Le nuove fattispecie di «colpa grave», 317 ss.; G. Scarselli, L'eliminazione del filtro di ammissibilità nel giudizio di responsabilità civile dei magistrati, 326 ss.; A. Travi, La responsabilità civile e i giudici amministrativi, 338 ss.; R. RomboliUna riforma necessaria o una riforma punitiva?, 346 ss; F. Cortese, S. Penasa, Brevi note introduttive alla riforma della disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati, in Resp. civ. e prev. 2015, 1026 ss. Sulla legge n. 117/1988, E. Fazzalari, Nuovi profili della responsabilità civile del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1988, 1026 ss. Mi permetto inoltre di rinviare, per semplicità, ai commentari di N. Picardi, R. Vaccarella (a cura di), La responsabilità dello Stato giudice, Padova, CEDAM 1990; F. Auletta, S. Boccagna, N. Rascio, La responsabilità civile dei magistrati: commentario alle Leggi 13 aprile 1988, n. 117 e 27 febbraio 2015, n. 18, Bologna, Zanichelli, 2017.
[20] Spunti in tal senso si rinvengono ad esempio in G. Scarselli, Note de iure condendo sulla responsabilità civile del giudice, in Giusto proc. civ., 2013, 1039 ss., spec. 1047.
[21] F. Francario, opere cit. retro, nota 16.
[22] Corte di Giustizia UE, Grande sez., C-497/20 del 21 dicembre 2021. Quanto alla dottrina, sulla vicenda Randstad sia consentito rinviare a F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in federalismi.it, 9 febbraio 2022.
[23] Corte di Giustizia UE, IX sez., C-261/21 del 7 luglio 2022. Si veda al riguardo il commento all’ordinanza di rimessione, sempre del Consiglio di Stato italiano, di B. Nascimbene, P. Piva, op. cit.
[24] M.A Sandulli, Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi, cit.
[25] Ambivalenza che si ricava da Corte cost., n. 6/2018, punto 17 della motivazione.
[26] Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 6/2018, la Cassazione si è più decisamente uniformata al principio per cui «la violazione di norme Eurounitarie non produce peculiari effetti sulla funzione di riparto della giurisdizione sancita dall’articolo 111 Cost., comma 8, rimanendo inclusa nel paradigma degli errores in iudicando e sussistendo peraltro nell’ordinamento strumenti di tutela qualora in tale errore sia incorso il giudice nel suo plesso apicale, il cosiddetto giudice di ultima istanza» (Cass. civ., sez. un., 5 ottobre 2021, n. 26920, nuovo caso con ricorrenti Hoffmann – La Roche, su ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione, dopo il tentativo di far valere il vizio come errore di fatto revocatorio; Cass. civ., sez. un., 30 agosto 2022, n.25503, che chiude il giudizio di rinvio dopo il caso Randstad; v. inoltre e più recentemente Cass. civ., sez. un., 9 novembre 2022, n.33100; Id. 28 ottobre 2022, n. 32003 e 32004; Id., 10 ottobre 2022, n. 29502; Id. 4 ottobre 2022, n. 28800 e 28803; Id., 29 settembre 2022, n. 28431.
[27] Cfr. Corte di Giustizia UE, Grande Sez., C-234/17 del 24 ottobre 2018.
[28] Per taluni addirittura necessitata, come sembra desumersi dagli argomenti di B. Nascimbene, P. Piva, Rinvio pregiudiziale e garanzie giurisdizionali effettive. Un confronto fra diritto dell’Unione e diritto nazionale. Commento all’ordinanza n. 2327/2021 del Consiglio di Stato, in questa Rivista, 30 luglio 2021.
[29] Osserva che la novella non tocca il rapporto con il diritto UE A.M. Sandulli, Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi, cit.; nello stesso senso C. Schepisi, Il tormentato rapporto tra il Consiglio di Stato e la Corte di giustizia e la revocazione per contrasto con il diritto dell’Unione (brevi riflessioni a margine della sentenza Hoffmann-La Roche), in LavoroDirittiEuropa, n. 3/2022 (online 8 novembre 2022).
[30] F. Francario, Revocazione ordinaria e processo amministrativo, cit.
[31] V. retro, nota 2.
[32] A. Travi, in Foro. it., 1997, cit., 389,
[33] Con considerazioni critiche di C. Consolo, La revocazione nel processo amministrativo, i suoi odierni limiti e le sue supposte peculiarità nel concorso con l’appello, in Dir. proc. amm., 1992, 835 ss.
[34] A. Travi, op. ult. cit., 390
[35] Osserva giustamente F. Francario, Revocazione per contrasto con pronuncia di Corte di giustizia, cit., che «l’ipotesi di revocazione, di sentenza passata in giudicato per contrasto con successiva sentenza della Corte internazionale che abbia riconosciuto la violazione del diritto al giudice o all’equo processo, non è riconducibile né ad un nuovo caso di revocazione ordinaria, né ad un nuovo caso di revocazione straordinaria. Il contrasto con sentenza passata in giudicato è espressamente contemplato tra i vizi di revocazione ordinaria, ma suppone che il giudicato si sia formato anteriormente alla sentenza; così come il secondo caso di revocazione ordinaria consente l’impugnativa per errore di fatto e non di diritto, ed è tipicamente di diritto la questione sul diniego della giurisdizione. I motivi di revocazione straordinaria, dal canto loro, attribuiscono rilevanza ad un fatto sopravvenuto solo se questo è in grado di provare che il giudizio di diritto si è formato con riferimento ad una rappresentazione dei fatti falsata o in presenza del fattore inquinante del dolo di una delle parti del processo (giudice compreso), mentre nel nuovo caso il fatto nuovo non viene soltanto scoperto ma viene a maturare esso stesso successivamente al passaggio in giudicato della sentenza».
[36] A. Cerino Canova, G. Tombari Fabbrini, Revocazione (Diritto processuale civile), in Enc. giur., Treccani, Roma, 1991, vol. XXVII, 6 ss., 9.
[37] Cons. Stato, sez. II, 18 novembre 2022, n. 10164 (richiama Cons, Stato, ad. plen., n. 10, 11, 14, 15 del 2018).
[38] A. Cerino-Canova, Le impugnazioni civili, Padova, 1973, 639; nella giurisprudenza amministrativa, per uno spunto in tal senso (nullità come sostanziale censura di revocazione), Cons. Stato, sez. VI, n. 6053/2001
[39] A. Attardi, La revocazione, cit., 81. Nel senso della pregiudizialità della revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c. rispetto al giudizio di Cassazione, Cass., ord. 24 dicembre 2021, n. 41509.
[40] F. Francario, La violazione del principio del giusto processo dichiarata dalla CEDU non è motivo di revocazione della sentenza passata in giudicato, in federalismi.it, 21 giugno 2017, 2 ss., 22.
[41] Ed anche la più macroscopica “illogicità” non trova rimedio, mentre nel giudizio civile è un parametro che determina la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge (Cass. civ. sez. un. 7 aprile 2014, n. 8053 e 8054; in argomento B. Capponi, Note brevi sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c., in questa Rivista, 10 febbraio 2021).
[42] Cons. Stato, ad. plen., 10 gennaio 2013, n. 1, punto 7.1. della motivazione.
[43] «Autori e sentenze favorevoli alla revocazione hanno essenzialmente messo in evidenza che questo rimedio ha bensì carattere straordinario ma solo perché straordinari sono i motivi per i quali è concesso; come istituto deve considerarsi invece di carattere generale in quanto trova fondamento nella necessità assoluta di giustizia che impedisce di tener ferme le decisioni che siano toccate dai vizi gravissimi indicati nell’art. 395 codice di procedura civile», osservava E. Capaccioli, In tema di revocazione delle sentenze di giudici speciali, in Giur. it., 1950, I, 454 ss., 455.
[44] In dottrina, tra i primi commenti, A. Proto Pisani, La Corte costituzionale estende la revocazione per errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c. alle sentenze della Cassazione, in Foro it., 1986, I, 313 ss. e più ampiamente C. Consolo, La revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione, Padova, Cedam, 1990.
[45] C. Consolo, op. ult. cit., 204 ss., spec. 210 ss.
[46] Per questa dimostrazione, di nuovo C. Consolo, op. cit., 212 ss.
[47] A. Attardi, op. cit., 132
[48] TAR Lazio, sez. II, 13 giugno 2017, n. 6955.
[49] TAR Sicilia, Catania, 11 maggio 2022, n. 1302, in cui si aggiunge che «la revocazione non può, dunque, diventare lo strumento per procrastinare “sine die” i processi che riguardano i provvedimenti emanati a valle di decisioni giudiziarie passate in giudicato, in quanto una simile conclusione confliggerebbe con il principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost. co. 2; art. 2 c.p.a.; TAR Napoli n. 6411/2021)»
[50] TAR Lazio, sez. II, n. 6955/2017, cit.
[51] TAR Sicilia, n. 1302/2022 cit.
[52] TAR Lazio, sez. II, n. 6955/2017, cit.; cfr. al riguardo Corte di giustizia U.E., Sez. VIII, 21 dicembre 2016, C–355/15, richiamata da Corte di giustizia U.E., Sez. VIII, 10 maggio 2017, C-131/16 (punto 57).
[53] TAR Puglia, Lecce, 17 marzo 2015, n. 905.
[54] TAR Campania, Salerno, 12 maggio 2014, n. 930; TAR Marche, sez. I, 14 settembre 2012, n. 622; TAR Puglia, Bari, 13 gennaio 2012, n. 168; Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2009, n. 2173; TAR Lazio, Latina, 7 luglio 2006, n. 436.
[55] Cons. Stato, sez. V, 25 giugno 2018, n. 3923, sempre in tema di definitività dell’esclusione dalla gara.
[56] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, Il Mulino, 1983, 424 e più ampiamente Id., L’appello nel processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 1960.
[57] Si veda ad esempio Corte cost., 24 marzo 2022, n. 74 e giurisprudenza ivi richiamata (sentenze n. 213/2021, n. 95/2020, n. 79/2020, n. 58/2020, n. 155/2019, n. 139/2019, n. 225/2018 e n. 241/2017).
[58] Almeno in parte, sembrerebbe, sostenuta da. M. Lipari, L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla CGUE, dopo la sentenza 6 ottobre 2021, c-561/2019: i criteri cilfit e le preclusioni processuali, in Giustamm, 14 dicembre 2021, par. 11
[59] Orientamento pacifico in giurisprudenza; valga per tutte Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 2021, n. 2761.
[60] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, 288.
[61] Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 5 marzo 2012, in Foro it., 2012, III, con commenti (per i fini del presente lavoro) di N. Pignatelli, L’obbligatorietà del rinvio pregiudiziale tra primato del diritto comunitario e autonomia processuale degli Stati, ivi, 367 ss.; E. Scoditti, Rinvio pregiudiziale e violazione manifesta del diritto dell’Unione europea, ivi, 371 ss.
[62] Cons. Stato, Ad. plen., 8 aprile 1963, n. 8, in Giur. cost., 1963, 1214 ss.; sulla stessa linea interpretativa Cons. Stato, sez. VI, 18 marzo 1964, n. 247, in Foro. Amm. 1964, II, 135 ss., con nota critica di A. Romano, Pronuncia di illegittimità costituzionale di una legge e ricorso giurisdizionale amministrativo, ivi e loco cit.
[63] Si può constatare già un cambiamento di rotta in Cons. Stato, sez. IV, 4 giugno 1969, n, 251, con nota, questa volta adesiva, dello stesso A. Romano, in Foro it., 1969, III, 99 ss.
[64] Cons. Stato, 9 ottobre 2018, n. 5813. Sul problema N. Pignatelli, Giudizio amministrativo e giudizio costituzionale in via incidentale tra fase ascendente e discendente, in federalismi.it, 24 febbraio 2021, 97 ss., spec. 104-112.
[65] Cons. Stato, sez. IV, 18 ottobre 1977, n. 805, citato in N. Pignatelli, Le “interazioni” tra processo amministrativo e processo costituzionale in via incidentale, Torino, Giappichelli, 2008, 61.
[66] Regola più volte affermata dalla Corte di Giustizia: si veda per esempio il punto 10 della Nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali, 2011/C 160/01, in G.U.C.E. 28 maggio 2011 C 160/01, ove si ribadisce che «L’iniziativa di adire la Corte in via pregiudiziale spetta unicamente al giudice nazionale a prescindere dal fatto che le parti l’abbiano chiesto o meno».
[67] CGUE, sez. II, 21 luglio 2011, C-104/10, Kelly c. University of Ireland.
[68] CGUE, sez. IV, 18 luglio 2013, C-136/12, Consiglio nazionale dei geologi c. AGCM
[69] CGUE, Kelly, cit., punti 60-66; Consiglio Nazionale dei Geologi, cit., punti 27-31.
[70] E. Scoditti, Rinvio pregiudiziale e violazione manifesta del diritto dell’Unione europea, cit., 373.
[71] Ma, appunto, «in considerazione del fatto che l’inosservanza di siffatto dovere determina una diretta responsabilità dello Stato membro di carattere sostanzialmente oggettivo (Corte giust. 30 settembre 2003, causa C-224/01, Kobler; successivamente, 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; 24 novembre 2011, causa C-379/10, Commissione europea c. Repubblica italiana), nonché la responsabilità civile del magistrato ai sensi dell’art. 2, comma 3-bis, l. n. 117 del 1988» (Cons. Stato, sez. IV, 5 agosto 2020; 2 marzo 2018, n. 1306, n. 1307 e n. 1308; contra esplicitamente Cons. Stato, sez. II, parere 10 marzo 2021, n. 359 sulla base di un’interpretazione più flessibile della sentenza Cilfit e del criterio dell’acte cliair. Qui il problema pare identificarsi con l’area del «ragionevole dubbio» sull’incompatibilità della norma nazionale col diritto dell’Unione (F. Munari, Il «dubbio ragionevole» nel rinvio pregiudiziale, in federalismi.it, 13 luglio 2022), che porta la sezione consultiva a propendere per il rigetto dell’istanza di rinvio pregiudiziale motivata in modo generico, anche in assenza di precedenti specifici della Corte di Giustizia. Nel medesimo senso, parrebbe – contro un’interpretazione “anelastica” dell’obbligo di rinvio – anche Cons. Stato, sez. III, 12 ottobre 2021, n. 6839 e giurisprudenza ivi richiamata). Nonostante l’interesse richiamato da questi spunti, l’impressione è che non siano maturi i tempi per una “forzatura revisionale” della “dottrina Cilfit” nel senso di una più marcata importanza dell’interesse pubblico e di una maggiore accentuazione del ruolo del giudice. Cfr. infatti CGUE 6 ottobre 2021, C-561/19, Consorzio Italian Management, ribattezzata Cilfit II (M.A. Sandulli, op. cit.), nella quale sono rimaste inascoltate, come fu nella sentenza del 1982, le proposte dell’avvocato generale Bobek tese a rivedere i parametri interpretativi dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, di modo che il ruolo delle parti è rimasto invariato o forse ne è uscito addirittura rafforzato (in tal senso, L. Daniele, Si può “migliorare” Cilfit? Sulla sentenza Consirzio Italian Management, in Eurojus, fasc. n. 2/2022; da diversa angolazione M. Lipari, op. cit., secondo il quale occorrerebbe «sviluppare la regola indicata dalla CGUE, in forza della quale le deduzioni difensive delle parti non condizionano la scelta del giudice in ordine al rinvio pregiudiziale»).
[72] L’opinione è quella di A. Attardi, La revocazione, cit.
[73] Sulla prospettiva de iure condendo di nuove ipotesi di revocazione o di altre «soluzioni rimediali» «auto-sindacatorie» nel processo amministrativo, C. Consolo, La revocazione nel processo amministrativo, cit., 859.
[74] Si sofferma sul profilo della «vulnerabilità» del giudice amministrativo alla responsabilità civile, per il fatto di svolgere un sindacato sull’esercizio del potere e d’intrattenere un rapporto particolare con la legge, segnatamente con il diritto eurounitario, A. Travi, La responsabilità civile e i giudici amministrativi, cit., 339.
Scheda n. 15 - Il procedimento per decreto
OBIETTIVO DELLA RIFORMA
L’obiettivo della riforma appare essere quello, da un lato, di raccordare la disciplina dei casi di procedimento per decreto ad altre norme inevitabilmente connesse, quali quelle in materia di durata delle indagini preliminari, e di prevedere la possibilità di sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’art. 56-bis, L. n. 689 del 1981; e, dall’altro, di assicurare il pagamento della pena pecuniaria inflitta, subordinando la declaratoria di estinzione del reato anche all’avvenuto pagamento di detta pena, e di disincentivare la proposizione di opposizioni mediante la previsione della possibilità per il condannato di pagare, entro quindici giorni dalla notifica del decreto, una somma corrispondente alla pena pecuniaria inflitta ridotta di un quinto con rinuncia all’opposizione.
LE MODIFICHE INTRODOTTE DALLA RIFORMA
TESTO RIFORMATO |
Art. 459 c.p.p. – Casi di procedimento per decreto. 1. Nei procedimenti per reati perseguibili di ufficio ed in quelli perseguibili a querela se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi, il pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare soltanto una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva, può presentare al giudice per le indagini preliminari, entro un anno dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato e previa trasmissione del fascicolo, richiesta motivata di emissione del decreto penale di condanna, indicando la misura della pena. 1-bis. Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l'ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Il valore giornaliero non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare. Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l'articolo 133-ter del codice penale. Entro gli stessi limiti, la pena detentiva può essere sostituita altresì con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, se l’indagato, prima dell’esercizio dell’azione penale, ne fa richiesta al pubblico ministero, presentando il programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna con la relativa disponibilità dell’ente. 1-ter. Quando è stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, senza formulare l’atto di opposizione. Con l’istanza l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56-bis primo comma e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna. Trascorso detto termine, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. In difetto dei presupposti, il giudice respinge la richiesta ed emette decreto di giudizio immediato. (Omissis) |
Il comma 1 della citata disposizione è rimasto sostanzialmente inalterato, ad eccezione della previsione del termine entro il quale il pubblico ministero, nei casi previsti dalla medesima norma, può formulare richiesta di applicazione di decreto penale di condanna, termine di un anno e non più di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato.
Si tratta di una modifica chiaramente preordinata a consentire un raccordo tra detto termine ed il termine, parimenti annuale, di durata delle indagini preliminari per i reati diversi dalle contravvenzioni (per i quali varrà il termine più breve semestrale) e dai delitti di cui all’art. 407, comma 2 c.p.p. (per i quali varrà il termine di un anno e sei mesi).
Il comma 1-bis contiene una modifica dei criteri di ragguaglio della pena detentiva alla pena pecuniaria, attuata mediante la previsione che il valore giornaliero, al quale può essere assoggettato l’imputato e che deve essere moltiplicato per i giorni di pena detentiva, non può essere inferiore a 5 euro e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare.
La disciplina antecedente prevedeva che detto valore giornaliero non potesse essere inferiore alla somma di 75 euro di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e non potesse superare di tre volte tale ammontare
Il legislatore, con la riforma, ha pertanto notevolmente abbassato il limite minimo (da 75 euro a 5 euro) ed ha di poco innalzato il limite massimo (da 225 euro a 250 euro).
La determinazione del limite minimo appare coerente con le previsioni contenute nell’art 56-quater L. n. 689/1981 in materia di pena pecuniaria sostitutiva, cui viene fatto espresso rinvio.
È stato poi mantenuto il richiamo alla rateizzazione della pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva, ai sensi dell'articolo 133-ter c.p..
Nell’ultima parte del comma 1-bis, è prevista la possibilità di sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, se l’indagato, prima dell’esercizio dell’azione penale, ne fa richiesta al pubblico ministero, presentando il programma di trattamento elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna con la relativa disponibilità dell’ente.
Il problema che si pone, in siffatta ipotesi, è quello di coordinare le peculiarità della procedura semplificata a contraddittorio eventuale e differito con le esigenze della pena sostitutiva ed in particolare con la verificata non opposizione e la necessità di strutturare un programma di lavoro presso un ente accreditato e disponibile.
Sembra quindi che l’ultimo periodo del comma 1-bis dell’art. 459 c.p.p. riguardi il caso in cui l’indagato sia a conoscenza del procedimento a suo carico e abbia interesse ad attivarsi presso il pubblico ministero per ottenere l’emissione di un decreto penale di condanna al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, fornendo egli stesso all’Ufficio di Procura gli elementi e la documentazione necessaria; ovvero il caso di un pubblico ministero o di una polizia giudiziaria specializzata che, con la stessa finalità, prendano iniziative simili presso l’indagato ed il suo difensore.
Al comma 1-ter dell’art. 459 c.p.p., il legislatore ha deciso di ampliare le possibilità di accesso al lavoro di pubblica utilità sostitutivo anche dopo l’emissione del decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva, prevedendo che, quando è stato emesso decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva, l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, senza formulare l’atto di opposizione. Con l’istanza l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56-bis primo comma e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna. Trascorso detto termine, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. In difetto dei presupposti, il giudice respinge la richiesta ed emette decreto di giudizio immediato.
Dunque, presupposto per l’operatività del disposto di cui al comma 1-ter dell’art. 459 c.p.p. è l’avvenuta emissione di un decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di una pena detentiva e la sua conoscenza da parte dell’imputato, a seguito di rituale notificazione.
Nello stesso termine contemplato per la proposizione dell’opposizione e, cioè, nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto penale di condanna, l’imputato personalmente o a mezzo di procuratore speciale e, quindi, con modalità in deroga rispetto alle condizioni di proposizione dell’opposizione ed in coerenza con quanto disposto nell’articolo 545-bis c.p.p. in occasione della condanna a pena sostituibile, può chiedere la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 56-bis della legge 24 novembre 1981 n. 689, senza formulare l’atto di opposizione.
Si tratta di una procedura mutuata dal meccanismo contemplato dall’art. 186, comma 9-bis, C.d.S. - ed utilizzato in materia di decreto penale di condanna a pena pecuniaria per reati stradali che possono essere puniti anche con il lavoro di pubblica utilità – avallata dalla più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. IV 13 gennaio 2021 n. 6879, Parolin, a mente della quale “in caso di avvenuta emissione di decreto penale di condanna, il giudice per le indagini preliminari, può, su istanza dell'imputato presentata nel termine di quindici giorni dalla notifica del provvedimento, ed in assenza di presentazione, da parte di questi, di atto di opposizione, sostituire la pena pecuniaria di cui al decreto penale con quella del lavoro di pubblica utilità prevista dall'art. 186, comma 9- bis, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285.”).
Con la stessa istanza di sostituzione della pena della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, l’imputato può chiedere un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente o dell’associazione di cui all’articolo 56-bis primo comma della legge 24 novembre 1981 n. 689 e il programma dell’ufficio di esecuzione penale esterna.
Da ciò discende che il condannato con decreto penale, senza proporre formale opposizione, deve depositare istanza di sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità nel termine perentorio di quindici giorni e – su richiesta contestuale - ha diritto a un termine fino a sessanta giorni per presentare il programma e la disponibilità dell’ente.
Allo spirare di detto termine ed in caso di esito favorevole, il giudice che ha emesso il decreto di condanna può operare la sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità ovvero, in difetto dei presupposti, può respingere la richiesta ed emettere decreto di giudizio immediato
TESTO RIFORMATO |
Art. 460 c.p.p. – Requisiti del decreto di condanna. Il decreto di condanna contiene: a) le generalità dell'imputato o le altre indicazioni personali che valgano a identificarlo nonché, quando occorre, quelle della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria; b) l'enunciazione del fatto, delle circostanze e delle disposizioni di legge violate; c) la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, comprese le ragioni dell'eventuale diminuzione della pena al di sotto del minimo edittale; d) il dispositivo, con l’indicazione specifica della riduzione di un quinto della pena pecuniaria nel caso previsto dalla lettera h-ter); e) l'avviso che l'imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria possono proporre opposizione entro quindici giorni dalla notificazione del decreto e che l'imputato può chiedere mediante l'opposizione il giudizio immediato ovvero il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena a norma dell'articolo 444; f) l'avvertimento all'imputato e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria che, in caso di mancata opposizione, il decreto diviene esecutivo; g) l'avviso che l'imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria hanno la facoltà di nominare un difensore; h) la data e la sottoscrizione del giudice e dell'ausiliario che lo assiste; h-bis) l’avviso all’imputato della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa; h-ter) l’avviso che può essere effettuato il pagamento della pena pecuniaria in misura ridotta di un quinto, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, con rinuncia all’opposizione. (Omissis) 5. Il decreto penale di condanna non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento, né l'applicazione di pene accessorie. Nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto il condannato può effettuare il pagamento della sanzione nella misura ridotta di un quinto, con rinuncia all’opposizione. Il decreto, anche se divenuto esecutivo, non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo. Il reato è estinto se il condannato ha pagato la pena pecuniaria e, nel termine di cinque anni, quando il decreto concerne un delitto, ovvero di due anni, quando il decreto concerne una contravvenzione, l'imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale e la condanna non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena. |
L’art. 460 c.p.p., avente ad oggetto la previsione dei requisiti che deve avere il decreto penale di condanna, al comma 5, prevede espressamente che, nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto, il condannato può effettuare il pagamento della sanzione nella misura ridotta di un quinto, con rinuncia all’opposizione.
Sono direttamente consequenziali rispetto a detta disposizione le lettere d) ed h-ter) del comma 1 della citata norma, laddove è stabilito che il decreto penale di condanna deve contenere, in aggiunta rispetto agli altri requisiti già previsti, il dispositivo, con l’indicazione specifica della riduzione di un quinto della pena pecuniaria, nel caso previsto dalla lett. h-ter), e l’avviso concernente la possibilità di effettuare il pagamento della pena pecuniaria in misura ridotta di un quinto, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, con rinuncia all’opposizione.
Inoltre, il comma 1 lett. h-bis) prevede che il decreto penale di condanna deve altresì contenere l’avviso all’imputato della facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa.
Il comma 5 dell’art. 460 c.p.p. prevede infine che l’estinzione del reato è subordinata non solo, secondo quanto già stabilito dalla normativa antecedente, alla mancata commissione, da parte del condannato, nel termine di cinque anni, in caso di delitto, e di due anni, in caso di contravvenzione, di un delitto, ovvero di una contravvenzione della stessa indole, ma anche all’effettivo pagamento della pena pecuniaria.
TESTO RIFORMATO |
Art. 461 c.p.p. – Opposizione. 1. Nel termine di quindici giorni dalla notificazione del decreto, l'imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, personalmente o a mezzo del difensore eventualmente nominato, possono proporre opposizione con le forme previste dall’articolo 582 nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari che ha emesso il decreto ovvero nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trova l'opponente. (Omissis) |
TESTO RIFORMATO |
Art. 462 c.p.p. – Restituzione nel termine per proporre opposizione. 1. L'imputato e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono restituiti nel termine per proporre opposizione a norma dell'articolo 175 degli articoli 175 e 175-bis. |
Per quel che attiene agli artt. 461 e 462 c.p.p., che disciplinano, rispettivamente, il giudizio di opposizione e la restituzione nel termine per proporre opposizione, il legislatore è intervenuto esclusivamente sotto due profili e, cioè, da un lato, prevedendo (art. 460, comma 1, c.p.p.) che la presentazione dell’atto di opposizione da parte dell’imputato o del difensore nominato debba avvenire con le forme previste dall’art. 582 c.p.p. (norma, quest’ultima, che nella formulazione ultima, prevede che l’atto di impugnazione deve essere presentato con le modalità previste dall’art. 111-bis c.p.p., ossia mediante deposito telematico) nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari che ha emesso il decreto, ovvero nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trova l’opponente; e, dall’altro prevedendo (art. 462 c.p.p.) che l’imputato e la persona civilmente obbligati per la pena pecuniaria sono restituiti nel termine per proporre opposizione non solo a norma dell’art. 175 c.p.p., così come modificato, ma anche a norma dell’art. 175-bis c.p.p., di nuova introduzione, ossia nel caso di malfunzionamento dei sistemi informatici.
DISCIPLINA TRANSITORIA
Quanto al momento di effettiva entrata in vigore e applicazione di questa parte della riforma, l’art. 6 del D.L. n. 162 del 31/10/2022, ha introdotto, dopo l'articolo 99 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, l’art. 99 bis, ai sensi del quale il sopraindicato decreto entrerà in vigore il 30/12/2022.
Da ciò discende che, mentre prima di detto decreto-legge, non essendovi disposizioni specifiche e/o derogatorie, per il generale principio del tempus regit actum, sarebbe stato corretto ancorare la data di entrata in vigore delle disposizioni in precedenza esaminate al 1° novembre 2022 (15° giorno dalla pubblicazione del D.L.vo n. 150/2022), a seguito dell’introduzione della specifica disciplina sopra riportata, la data di entrata in vigore delle disposizioni in oggetto dovrà essere individuata nel 30/12/2022.
Notazioni sull’omicidio Pasolini di Giuseppe Salmè
1. Quando la mattina del 2 novembre 1975 ho sentito dalla radio la notizia del ritrovamento del corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini tra le casette abusive dell’idroscalo di Ostia ho provato, come credo molti ascoltatori, smarrimento e profonda tristezza per la tragica scomparsa di un grande artista, che, spaziando dal cinema alla poesia al romanzo, aveva occupato un posto importante nel panorama culturale, italiano e internazionale. Ma ricordo anche la preoccupazione per il venir meno di una voce pensosa e scomoda, che costringeva a riflettere senza pregiudizi sulle tumultuose vicende sociali e politiche del nostro Paese.
Dopo poche ore dal primo annuncio si diffuse la notizia che autore confesso dell’omicidio sarebbe stato un ragazzo di 17 anni. Mai avrei potuto immaginare che a distanza di pochi mesi sarei stato chiamato a comporre il collegio giudicante del processo sia perché per formazione propendevo a occuparmi, e mi occupavo effettivamente di procedimenti civili di adozione e controllo della potestà dei genitori, sia perché la mia esperienza come magistrato (da otto anni) e, come magistrato per i minorenni in particolare (da tre anni), era di gran lunga inferiore a quella di altri bravissimi magistrati del tribunale per i minorenni.
La decisione del presidente del tribunale per i minorenni, Carlo Alfredo Moro, magistrato di grande professionalità, di lunga brillante esperienza e raffinato intellettuale, di nominarmi componente del collegio giudicante mi sorprese e mi onorò, anche per la grandissima stima e per l’affetto che ho avuto nei suoi confronti fin dai primi tempi in cui l’ho conosciuto.
Ero nello stesso tempo consapevole delle difficoltà che avremmo dovuto affrontare, non tanto sul piano tecnico-giuridico [1] quanto su quello strettamente giudiziario e processuale, perché nell’opinione pubblica già si confrontavano con asprezza di toni diverse e opposte ipotesi di ricostruzione dei fatti, frutto non della conoscenza della realtà sostanziale o meramente processuale, ma di contrapposte impostazioni culturali e ideologiche. Era inevitabile che dall’opinione pubblica l’asprezza del confronto si trasferisse nei comportamenti delle parti processuali.
L’attenzione mediatica, prima, durante e dopo il processo, come era prevedibile, è stata altissima, non solo per la personalità della vittima, ma, in qualche misura, anche per la non pubblicità del dibattimento minorile che spingeva le parti del processo a continuare il confronto tra loro sui mass media, rinfocolando il naturale interesse dell’opinione pubblica. Insomma, una realtà difficile ma in fondo normale per chi fa il mestiere di giudice.
2. L’accurato studio degli atti processuali non ci risparmiò l’impegno nella soluzione di varie questioni, alcune del tutto nuove, che si sono poste nel corso del processo.
Una prima questione riguardò la testimonianza di Oriana Fallaci, la quale, dopo aver riferito di alcuni particolari della vicenda oggetto di accertamento processuale si rifiutò di indicare le fonti dalle quali l’aveva appresa. Il tribunale, anticipando la soluzione accolta dall’art. 200, 3° comma del codice di procedura penale del 1989, ritenne che non sussistessero gli estremi del reato di reticenza e quindi della possibilità per il giudice di emettere anche d'ufficio mandato di arresto del testimone prevista dall’art. 359 cod. proc. pen. all’epoca vigente, perché l’art. 2, 3° comma della legge 3 febbraio 1963, n. 69 prevede il dovere dei giornalisti di rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie ([2]).
In gran parte nuova fu anche la soluzione data al problema dell’accertamento della capacità d’intendere e di volere dell’imputato. I periti d’ufficio, quelli indicati dalla difesa dell’imputato e, sostanzialmente, anche quello della parte civile, ritenevano che Pino Pelosi non fosse sufficientemente maturo per comprendere il disvalore di ciò che aveva commesso, ma il tribunale, la cui giurisprudenza in tema di accertamento della maturità non era certo restrittiva, lo ritenne al contrario maturo Pelosi, sia sulla base del comportamento processuale dell’imputato che in considerazione dell’estrema gravità del reato percepibile anche con un minimo di consapevolezza.
Ma soprattutto eccezionale, nel senso letterale della parola, fu l’impegno nell’istruttoria dibattimentale, volta a colmare vistose lacune delle indagini preliminari (ad esempio, sulla tavoletta con la quale venne colpito Pasolini furono scoperte impronte di mani sporche di sangue, mai rilevate dalla polizia giudiziaria). Fu disposta la rinnovazione della perizia volta ad accertare la veridicità della versione di Pelosi, che aveva lamentato una lesione al dorso del naso, esclusa dalla perizia effettuata nella fase istruttoria e accertata in quella dibattimentale; fu effettuata una perizia volta a stabilire se le tracce di pneumatico sulla canottiera della vittima erano quelle dell’auto di Pasolini alla cui guida si era posto Pelosi; fu disposta un’accurata ispezione dei luoghi in cui fu consumato il delitto, anche perché i rilievi effettuati nell’immediatezza dalla polizia giudiziaria non erano significativi in quanto, inopinatamente, sul campo di calcio adiacente il luogo del ritrovamento del corpo di Pasolini, sul quale sia era svolta una parte dell’azione delittuosa, era stata rilevata un pluralità di tracce impresse successivamente alla consumazione del delitto.
La lacunosità dell’istruttoria, che in ossequio alla legge minorile si era svolta con quello che all’epoca era definito rito sommario, era peraltro conseguenza dei tempi molto ristretti che i p.m. si erano assegnati. La Procura per i minorenni se ne era occupata solo fino al 21 novembre, ma, dopo quella data, l’istruttoria era stata avocata dal Procuratore generale, che aveva ritenuto di limitare il tempo delle indagini a 40 giorni, come era imposto dal codice di procedura penale all’epoca vigente per i processi davanti al giudice ordinario, che prevedeva che trascorso quel termine il p.m. dovesse richiedere al giudice istruttore di procedere con il rito formale. Si trattò di un evidente errore, perché per il rito minorile non si applicava l’alternativa tra istruttoria sommaria e formale, essendo prevista solo quella sommaria, con conseguente inapplicabilità del termine massimo di durata dell’istruttoria stessa. Alla base dell’errore ci fu certamente la mancata esperienza delle specificità del rito minorile, ma anche gli effetti di un atteggiamento semplificatorio di tutti gli operatori coinvolti nella vicenda e della stessa opinione pubblica a fronte di un delitto del quale fin dal primo momento era noto, per sua stessa confessione, l’autore e che aveva innestato sentimenti di ansia collettiva per il disagio provocato dalla “scomodità” della vittima e delle modalità del delitto.
3. Il punto centrale della sentenza, che fu poi al centro delle successive vicende processuali, è stato certamente il tema del concorso nell’omicidio.
Come ha osservato Stefano Rodotà in nota alla sentenza di Cassazione [3] “..è proprio un “concorso con ignoti” l’estrema frontiera che i giudici Moro e Salmè riescono a raggiungere forzando il fronte delle disattenzioni, delle versioni canoniche, delle omertà mal dissimulate.”
I principali argomenti sui quali si basa questa conclusione possono sinteticamente essere così indicati:
a) nel bagagliaio (o, secondo la versione fornita dai carabinieri che bloccarono Pelosi, sul lungomare di Ostia, sul sedile posteriore) venne trovato un golf verde, di fattura dozzinale, che non apparteneva né a Pasolini né a Pelosi, come risulta dal fatto che la cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che aveva pulito l’auto la mattina del 31 ottobre, aveva dichiarato di non avere visto l’oggetto;
b) sempre nell’auto di Pasolini fu rinvenuto un plantare di scarpa destra che non era né di Pasolini né di Pelosi, anche perché le loro scarpe destre non recavano traccia dell’uso di un plantare;
c) Pelosi, accompagnato sul luogo del delitto dai carabinieri che l’avevano fermato, chiese loro di cercare un pacchetto di sigarette e un accendino, che dichiarò di aver lasciato sul portaoggetti dell’auto e che non vennero mai trovati;
d) Pasolini aveva riportato numerose lesioni e aveva perso molto sangue, Pelosi, che pure non soverchiava la vittima per prestanza fisica, aveva poche tracce di sangue di Pasolini addosso e solo una leggera frattura del setto nasale che lui stesso, peraltro, aveva giustificato con l’urto contro il volante dell’auto al momento in cui era stato fermato dai carabinieri;
e) sul luogo del delitto fu reperita una pluralità di corpi contundenti che non potevano essere stati utilizzati contestualmente da una sola persona;
f) macchie di sangue di Pasolini furono trovate sul tettino dell’auto, lato passeggero, ma nessuna macchia fu lasciata sull’auto dal lato guidatore e, soprattutto sul volante; il che dimostra le macchie non furono lasciate da Pelosi che era appunto al volante, ma neppure da Pasolini che, secondo il racconto dell’imputato, non si avvicinò mai alla sua auto dopo essere stato colpito.
Questo è l’ultimo processo penale al quale ho partecipato.
4. Qualche ulteriore sintetica notazione.
La celerità, purtroppo non usuale per la nostra giurisdizione penale, ha contraddistinto tutte le fasi del processo, non solo quella dell’istruttoria predibattimentale. Il dibattimento, iniziato nei primi mesi del 1976 si è concluso con la sentenza del 26 aprile 1976; la sentenza d’appello fu pronunciata il 4 dicembre 1976 [4] , la sentenza della Corte di Cassazione è del 26 aprile 1979 [5].
La corte d’appello, dopo aver dissentito su alcune soluzioni giuridiche, come quella sui limiti del dovere di testimonianza del giornalista, esaminati uno per uno gli argomenti di prova del concorso, “col metodo...pressappoco ...dell’Orazio superstite contro i tre Curiazi” (Giuseppe Branca, in nota alla sentenza di Cassazione,), ne contesta la rilevanza e arriva alla conclusione che pur “se non possono essere espresse in termini di totale e assoluta certezza”, le valutazioni sull’estraneità di concorrenti, le considerazioni svolte sui singoli indizi “sono tuttavia sufficientemente tranquillanti” per negare il concorso di ignoti.
Come spesso è avvenuto e continua ad avviene nell’esperienza giudiziaria, specialmente in tema di delitti di natura sessuale, sempre forte è la tentazione paradossale di contrapporre all’autore formale del delitto, la responsabilità sostanziale della stessa vittima. “Pasolini è l’autore del proprio omicidio”. E’, ripeto, paradossale, eppure è stato uno dei temi che ha percorso il dibattito pubblico e a tratti persino quello giudiziario. Offesa più grave alla dignità della vita umana non poteva essere recata.
[1] Sentenza Tribunale per i minorenni di Roma 26 aprile 1976, Foro it. 1976, II 281: “Il tribunale non è chiamato a giudicare l’attuale imputato perché ha ucciso un artista di fama internazionale, ma perché ha ucciso un uomo, ed ogni essere umano ha di fronte alla legge, e all’etica sottostante al diritto, una eguale valenza.”
[2] Sentenza 26 aprile 2976, cit.: "In proposito si deve rilevare che l'art. 2, 3° comma, legge 3 febbraio 1963 n. 69 sancisce espressamente il dovere dei giornalisti di rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse e che tale disposizione è strettamente collegata, costituendone un necessario corollario, con la disposizione di cui al primo comma dello stesso articolo secondo cui « è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ». Appare pertanto evidente che il legislatore ha voluto, con le norme in questione, riaffermare che la libertà di informazione e di critica costituisce un fondamentale e inalienabile bene sociale per la riconosciuta rilevanza pubblica che la funzione della stampa ha nello sviluppo democratico del paese; che il conseguente diritto inopprimibile del giornalista può e deve trovare dei limiti nella garanzia di altri beni fondamentali costituzionalmente protetti; che, se può e deve prevedersi una responsabilità del giornalista quando tali limiti siano valicati si deve garantire al giornalista la possibilità di proteggere le sue fonti di informazioni perché tale garanzia è funzionale al libero esplicarsi della funzione della stampa…..
Ora, se sussiste nell'ordinamento una norma di legge che afferma essere il giornalista « tenuto » (e quindi obbligato) a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie nei confronti di tutti (e quindi anche nei confronti di un magistrato in un processo penale o civile) non può non ritenersi che l'adempimento di un simile do vere imposto da una norma giuridica faccia scattare la causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. penale. Sarebbe assurdamente illogico che l'ordinamento da una parte imponesse al giornalista l'obbligo di conservare il segreto sulle fonti di informazioni e poi lo chiamasse penalmente a rispondere dell'azione doverosa posta in atto."
[3] Foro it. 1980, II, 38
[4] Foro it. 1977, II, 441
[5] Foro it. 1980, II, 31
Ricordo di Mario Petrucci, un magistrato non comune
di Giovanni Cannella
Mario Petrucci ci ha lasciato. Il ricordo di un collega o di un amico sfocia spesso nell’esagerazione, nell’eccessiva enfasi su pregi e meriti, nella necessità di riempire righe e pagine con parole altisonanti. Per Mario il rischio è inverso, e cioè di non avere spazio sufficiente per dire tutto, per descrivere compiutamente di chi stiamo parlando.
Perché Mario non è stato un magistrato comune, ha fatto la storia della giustizia del lavoro a Roma e in poche pagine riuscirò a dire solo una piccola parte di quello che ha rappresentato.
L’ho conosciuto quaranta anni fa, quando nel 1983 sono arrivato alla Pretura del lavoro di Roma, dove lui lavorava da alcuni anni ed era già, come si dice, una colonna dell’ufficio. Preparatissimo, autorevole, carismatico. Fui subito attirato verso di lui, come molti altri, ed ebbi la fortuna di diventarne presto amico.
Dicevo che Mario non era un magistrato comune, perché non gli è bastato possedere un’elevatissima preparazione giuridica, una grande capacità e un fortissimo intuito nell’applicare le norme ai casi concreti, tutto ancorato ad una solida piattaforma culturale e ad un’alta sensibilità umana. Non gli è bastato vivere il proprio ruolo di magistrato con la massima efficienza, con capacità organizzativa nel gestire i propri fascicoli. Non gli è bastato, nell’assumere le decisioni, avere come faro la Costituzione e in particolare il principio di eguaglianza sostanziale a tutela dei lavoratori, quali soggetti deboli del rapporto di lavoro. Non gli è bastato il buon senso, la ragionevolezza, l’aspirazione alla giustizia sostanziale nello svolgimento del proprio lavoro.
Non gli è bastato, in sostanza, fare bene il proprio lavoro: ha sempre guardato oltre il proprio orticello, verso l’efficienza complessiva e la trasparenza dell’ufficio. Non monade isolata, quindi, ma protagonista e guida verso il migliore e più corretto funzionamento della giustizia del lavoro.
Questo diverso modo di intendere il magistrato mi ha subito attirato nella sua orbita, come è successo per molti altri. Si è creato un gruppo intorno a lui di colleghi che avevano le stesse aspirazioni e che lo riconoscevano come capo, come guida. Mi limito qui a ricordarne solo uno, Giacinto Di Nardo, che ci ha lasciato troppo presto e che a me ha insegnato, tra le altre cose, la coerenza senza compromessi.
Ma la guida era Mario. Lui ci dava la certezza che quello che facevamo era giusto, anche quando si trattò di scelte estreme che ci esposero a reazioni negative e all’isolamento nell’ufficio.
Fu la stagione più calda, che durò una decina anni. Non potevamo accettare la nebbia intorno alle modalità di assegnazione delle cause e cominciammo a controllare i registri, scoprendo innumerevoli violazioni dei criteri automatici. Protestammo, prima direttamente con il dirigente, poi rivolgendoci al Csm.
Quanto abbiamo scritto! Intorno a Mario, nella sua stanza, redigevamo decine e decine di lettere, documenti, esposti. Ma era lui che conduceva, che dava il la’, che ci caricava. Purtroppo troppi colleghi non ci seguirono, probabilmente per quieto vivere. Eravamo comunque una decina e continuammo per anni, subendone anche le conseguenze: da pareri parzialmente negativi nelle valutazioni di idoneità, a procedimenti disciplinari privi di fondamento, a strategie di isolamento dagli altri colleghi. Alla fine la spuntammo, costringendo il dirigente al trasferimento volontario al fine di evitare il trasferimento d’ufficio. Quando lo comunicammo felici a Mario, ci smontò, perché avrebbe voluto il risultato pieno. Era fatto così: pessimista e perfezionista.
Quanto agli aspetti organizzativi gli interventi e le sollecitazioni di Mario furono a tutto campo. Mi limiterò ad indicare i più importanti.
Fu tra i primi a comprendere l’utilità e le potenzialità del computer e dell’informatica ai fini della modernizzazione ed efficienza della macchina giudiziaria, ben prima di molti giudici ragazzini, che avrebbero dovuto essere più recettivi di fronte alle novità tecnologiche. I primi tre Commodore 64 comparvero sulle scrivanie di Mario, mia e di Giacinto già nel 1986 (quando Mario aveva già 45 anni!). I primi della sezione lavoro di Roma e forse di tutta la Pretura.
Non solo! Mario si fece promotore dell’informatizzazione degli uffici di cancelleria alla fine degli anni ’80, nell’intuizione che si trattava di un obiettivo fondamentale per la trasparenza e l’efficienza dell’ufficio. Passammo due anni io e lui con i funzionari dell’IBM per lavorare al programma, ma fu soprattutto Mario determinante per una splendida analisi funzionale, nella quale le esigenze della cancelleria erano pienamente coordinate con le esigenze dei magistrati e degli utenti.
Fu uno dei promotori del coinvolgimento degli avvocati e delle forze sociali per ottenere l’aumento dell’organico dei magistrati della sezione, ampiamente sottodimensionato, che sfociò nella formazione di un Comitato, essenziale strumento di sollecitazione dell’opinione pubblica e di intervento presso varie autorità, fino agli incontri con il Ministro della giustizia Vassalli, che dopo alcuni anni portò ad un consistente aumento del numero dei giudici.
Mi piace poi ricordare una vicenda che ha dell’incredibile e che dimostra come Mario non accettasse limiti, spingendosi anche al di là dei normali canali istituzionali. Alla fine degli anni ’80 era previsto il trasferimento della Sezione lavoro da Piazzale Clodio ad un’ex caserma di viale Giulio Cesare, dove ancora oggi si trova. Ebbene scoprimmo nell’imminenza del trasferimento che i locali che ci dovevano ospitare erano privi di collaudo (dovevano sopportare il peso non indifferente di armadi, fascicoli, magistrati, personale, avvocati e utenti, con elevata densità in spazi limitati), non era previsto l’ascensore, né le scale di emergenza (si trattava di due piani, più il piano terra a cui si accedeva da una rampa di scale). Ebbene ci recammo personalmente io, Mario e Giacinto dai Vigili del fuoco e presso la ASL per pretendere gli interventi necessari, che solo grazie a questa attività extra ordinem, furono decisi e realizzati.
E mi fermo qui, ma ci sarebbe tanto altro da dire!
In sostanza Mario era il vero capo dell’ufficio, ben prima che lo diventasse formalmente, e non gli importava che tali iniziative potessero essere ascritte ai meriti del formale dirigente. A lui importava il risultato nell’interesse del funzionamento della giustizia del lavoro romana.
Alla fine degli anni ’90 le nostre strade si divisero: io andai in appello, lui dopo qualche anno diventò appunto presidente della sezione. Molti colleghi mi hanno parlato di quello che ha fatto dopo per la sezione, come l’ha riorganizzata, quante soluzioni ha ideato e realizzato, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, non poteva essere diversamente.
Ho continuato a frequentarlo come amico fino alla fine e mi si è aperto il cuore quando poco tempo fa mi ha detto che era contento di aver vissuto quegli anni di battaglie in un gruppo che gli aveva dato tanto. Sentirlo da lui che non si apriva spesso mi ha fatto stare bene.
Ciao Mario. È stato un privilegio stare al tuo fianco!
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