“Nelle scienze sociali si usa pesare, contare e misurare, per non dover pensare”
Nicolàs Gòmez Davila, Escolios a un texto implicito, I, trad. it., pag. 88.
Sommario: 1. La mesiteiafilia ovvero la “passione per il compromesso” - 2. Bilanciamento dei diritti fondamentali? - 3. Una giurisprudenza strabica - 4. Dignità della persona e originaria unitarietà dei diritti fondamentali.
1. La mesiteiafilia ovvero la “passione per il compromesso”.
Non si dice nulla di nuovo affermando che la nostra sembra lasciarsi cogliere – oltre diversi paradigmi possibili - come l’epoca del compromesso, della mediazione e, in definitiva, della vocazione insopprimibile al bilanciamento degli interessi in gioco, esteso perfino ai principi fondamentali.
Basti por mente non solo alle vicende politiche, in realtà da sempre e per loro natura luogo di emergenza di tutti i compromessi possibili; ma anche, in sede giuridica, agli istituti della negoziazione assistita o della mediazione, intesa quale specifico assetto giuridico processualcivilistico oggi capillarmente diffuso e il cui mancato esperimento conduce addirittura all’improcedibilità dell’azione; o, ancora, alla giustizia riparativa, come si va diffondendo nell’esperienza e nella riflessione penalistica degli ultimi anni, quale alternativa alla prospettiva tradizionalmente retributiva.
Ma il settore ove la prospettiva che potrei definire - con un termine aulico ma di indubbia efficacia - di autentica mesiteiafilia[1] (letteralmente, “passione per il compromesso”, perchè mesiteia in greco antico vale “mediazione”, “compromesso”) risulta particolarmente presente, soprattutto negli ultimi anni, è di certo quello dell’esperienza giurisdizionale riferita ai giudizi di legittimità sulle leggi.
In questa prospettiva, territorio particolarmente fertile per far attecchire questo paradigma interpretativo è stato poi il fiorire e l’intensificarsi delle decisioni di “incostituzionalità differita”: sono i casi, ben noti, in cui la Consulta – quasi fosse una terza Camera[2] - si è arrogata il potere – sprovvisto invero di qualsivoglia fondamento normativo – di “bilanciare” gli effetti di una immediata pronuncia caducatrice con quelli derivanti dal mantenimento in vita della norma, benché dichiarata illegittima, dando la preferenza ai secondi, attraverso un differimento ad tempus della abrogazione della norma e subordinandola ad un intervento del legislatore che si muova nel solco indicato dalla Consulta stessa.
Chiunque abbia a che fare con l’esperienza giuridica sa bene insomma come e quanto la Corte Costituzionale, seguita poi a ruota dalla Cassazione e infine dai giudici di merito, abbia avuto cura, da parecchi anni a questa parte, di leggere i principi consacrati nella Carta in modo da combinarne gli effetti operando un ormai noto “bilanciamento” fra quelli che sembravano porsi in una sorta di reciproca contraddizione.
Gli esempi sono talmente numerosi e noti che mi considero qui esentato dal compito di riproporli sia pure in parte.
Ebbene, se il bilanciamento – termine invero poco felice visto che evoca per assonanza la pesatura di formaggi e salami o, nella migliore delle ipotesi, quella messa in opera dall’orefice ( perché invece non parlare di “armonizzazione” ?) – non sembra porre particolari problemi, allorché ad esso si voglia ricorrere quando i “beni della vita” da bilanciare appartengano al regno del disponibile, al contrario, esso solleva molti e gravi interrogativi quando lo si voglia applicare alle dimensioni caratterizzate da una piena indisponibilità.
Quanto appena osservato gode già di buone ragioni quando si tratti in sede giuridica di “principi”, dal momento che il “principio” – ogni “principio” – come già notava Aristotele nella Metafisica[3], è ciò che dà forma all’essere, è ciò da cui scaturisce l’essere delle cose e del mondo e non si vede proprio come si possa bilanciare ciò che non appartiene a questo mondo, perché viene prima e abita altrove - perché delle cose del mondo è la scaturigine - con altro elemento identico quanto alla propria sostanza: sarebbe come pretendere l’assurdo, una cosa oggettivamente non fattibile e illusoria, al modo di chi volesse bagnare l’acqua: certo, costui potrà effondere acqua sull’acqua di un recipiente, ma di certo non potrà mai bagnarla, perché pensare di poterlo fare sarebbe ridicolo.
E dunque come l’acqua è già bagnata di suo perché la sua essenza consiste proprio nell’esserlo, senza che possa bagnarsi “di nuovo”, ogni “principio” è tale di suo, senza che possa mescolarsi con altri “principi” né per nutrirsene né per bilanciarsi con qualcuno di essi.
Insomma - e chiedendo venia per l’insistito paragone - così come l’acqua non può esser bagnata perché è essa stessa a bagnare le cose del mondo, allo stesso modo il principio non può esser bilanciato perché è esso stesso a bilanciare i beni della vita.
Ciò accade propriamente perché ogni principio si lascia cogliere come un “assoluto”, vale a dire – è cosa ben nota - come una dimensione sciolta da qualunque condizionamento, del tutto priva di vincoli di sorta, pena un destino di dissoluzione.
Orbene, i nostri testi di legge, le disposizioni costituzionali e anche quelle dei trattati internazionali adoperano in realtà un lessico diverso, in quanto l’aggettivo in uso è quello di “fondamentale”, declinato di solito al plurale allorché si chiamano in causa i “diritti fondamentali”.
Tuttavia, pare di tutta evidenza che con tale locuzione si voglia fare riferimento proprio alla “assolutezza” di tali diritti, al fatto che essi, in quanto svincolati da qualunque sorta di condizionamento e di compromissione possibile, sono posti a “fondamento” di tutti gli altri e dell’intero sistema dello Stato di diritto.
Prova ne sia che i diritti umani – l’affermazione indiscussa dei quali in tutte le sedi nazionali e internazionali può considerarsi il tratto caratterizzante dell’epoca contemporanea a partire dal secondo dopoguerra – vengono abitualmente qualificati come “fondamentali”, proprio allo scopo dichiarato di sottrarli ad ogni possibile compromissione, decretandone una inviolabilità di sapore addirittura sacrale[4].
Eppure, ciononostante, sbarazzandosi in modo tutto sommato abbastanza disinvolto di una pur necessaria cautela teoretica e giuridica, la giurisprudenza costituzionale, quella di legittimità e quella di merito da circa un ventennio hanno individuato, utilizzandolo come criterio ermeneutico privilegiato, l’ormai celeberrimo “bilanciamento dei diritti fondamentali”.
Ma questa opzione interpretativa così spesso e così spregiudicatamente messa in opera è giuridicamente ammissibile? In che senso i diritti fondamentali si possono impunemente bilanciare?
2. Bilanciamento dei diritti fondamentali?
Non essendo certamente questa le sede per censire le varie posizioni che si sono evidenziate nella nutrita riflessione che nel tempo si è affaticata nel tentativo di rispondere a questi interrogativi[5], mi limito ad osservare come meritevole di particolare attenzione sia la conclusione offerta per un verso da Luigi Ferrajoli[6] e per altro verso da Riccardo Guastini, il quale giunge, non senza ragione, ad affermare che il termine “bilanciamento” sarebbe soltanto un sinonimo di “soppressione”, in quanto produrrebbe semplicemente, in relazione al caso concreto, la scomparsa di un diritto (fondamentale) a vantaggio di un altro ( parimenti fondamentale).[7]
Entrambi questi studiosi, sia pure attraverso un diverso itinerario logico-giuridico, mettono dunque radicalmente in dubbio che fra diritti fondamentali possano esistere autentici conflitti da sciogliere attraverso un appropriato bilanciamento.
E in effetti, il punto da problematizzare pare proprio questo, dal momento che ogni bilanciamento suppone logicamente un conflitto fra diritti fondamentali e, implicitamente, la possibilità di individuare una sorta di gerarchia mobile – in quanto da adattare di volta in volta alle esigenze del caso concreto – capace di risolvere ogni contrapposizione.
Alla domanda se perciò possa ipotizzarsi un simile conflitto, mi pare tuttavia si debba rispondere in modo risolutivamente negativo: no, fra diritti fondamentali non è possibile ipotizzare alcuna forma di conflitto né, di conseguenza, rapporti di gerarchia che facciano prevalere l’uno a scapito dell’altro (neppure parzialmente), quale esito di un possibile bilanciamento.
Si tratta ovviamente di spiegare perché.
Il conflitto – ogni conflitto – suppone infatti che gli elementi che confliggono siano fra di loro separati in punto di fatto o almeno separabili concettualmente, in modo tale da contrapporli l’uno all’altro in chiave antagonista, delegando poi alla capacità di chi ne operi il bilanciamento il potere di sancire la priorità del primo o del secondo.
Nulla di più accattivante per la mentalità – anche giuridica – contemporanea, avvezza ormai da tempo ad assumere quale paradigma epistemologico tendenzialmente esclusivo quello proprio della conoscenza scientifica, a scapito di una prospettiva genuinamente filosofica, abbandonata e stigmatizzata, anche dai giuristi, quale inutile relitto metafisico di un passato ormai superato.
Infatti, dal momento che la scienza, per conoscere, seziona e suddivide l’oggetto della propria indagine – ed è bene che così faccia (si pensi all’anatomia o alla biologia) – anche i giuristi, sulla scorta di tale insegnamento e forse mossi dal desiderio di reperire una irraggiungibile certezza del diritto attraverso il paradigma scientifico, si sono avviati sullo stesso sentiero in tema di diritti fondamentali (e non solo).
Per questa ragione, li hanno considerati – seguendo il solco tracciato dalla Corte Costituzionale – come monadi isolate e irrelate, l’una all’altra contrapposta o comunque contrapponibile, in modo che la prima si possa espandere a patto soltanto di comprimere la seconda e viceversa: si pensi per esempio al diritto di riunione contrapposto al diritto alla sicurezza pubblica; oppure, per citare un caso a noi ancora molto vicino, al diritto a non subire trattamenti terapeutici contro la propria volontà contrapposto al diritto alla salute della collettività.
In simili casi, i giuristi hanno messo in opera un “bilanciamento” fra i contrapposti diritti fondamentali, finendo naturalmente col farsi orientare vistosamente dalle emergenze politiche del contesto sociale nel cui ambito si evidenziasse il problema da risolvere.
Così, dopo l’attacco terroristico alle “torri gemelle”, seguito da altri attentati a Londra e a Madrid, per un certo tempo il diritto alla sicurezza pubblica ebbe la meglio – negli Stati Uniti - su quello di riunione, che subì per questo una notevole compressione[8].
Allo stesso modo, a causa del diffondersi del virus, l’emergenza pandemica ha indotto il legislatore italiano e spesso anche i giudici di merito a far “pesare” il diritto alla salute della collettività assai di più del diritto a non subire trattamenti terapeutici contro la propria volontà, sancendo addirittura un obbligo vaccinale esteso indiscriminatamente a tutti, senza distinzione alcuna e assistito da apposite forme sanzionatorie[9].
Tutto ciò è stato possibile proprio in quanto i diritti fondamentali sopra menzionati sono divenuti oggetto di un “bilanciamento” - che in definitiva ne elude la fondamentalità – il quale si basa sulla loro contrapposizione, sulla irreale separatezza di ciascuno di essi rispetto a tutti gli altri: qui potenziarne uno significa comprimerne un altro e viceversa.
Ma davvero i diritti fondamentali sono correttamente pensabili in questa prospettiva di irrelata solitudine? Davvero il giurista può seriamente maneggiarli come fossero tessere di un domino che assegni la vittoria e la sconfitta a seconda di quella che di volta in volta venga deposta sul tavolo da gioco?
3. Una giurisprudenza strabica.
Nutro molti dubbi in proposito.
A ben guardare, infatti, i diritti fondamentali non possono in alcun modo essere considerati quali autosufficienti e separati ciascuno dall’altro, se non a patto di operare un pericoloso riduzionismo che, non rendendo affatto ragione della loro reale sostanza umana e giuridica, apre la strada a gravi equivoci esiziali per la tutela dei diritti delle persone.
Errore, questo, in cui purtroppo ormai cade spesso la giurisprudenza non solo ordinaria ma anche amministrativa.
Si veda per tutte quelle della giurisdizione amministrativa (ex uno disce omnes) la recente sentenza del Consiglio di Stato (sez. III, 28/2/2022, n. 1381), secondo la quale (pag. 8 della sentenza) “In disparte quanto già osservato sul tema della sicurezza dei vaccini, dette censure si svolgono su una linea di ragionamento che manca di considerare la peculiare posizione dei sanitari e, quindi, la specifica ratio dell'obbligo vaccinale loro imposto, la quale a sua volta rende ragione del punto di equilibrio che il legislatore ha individuato nel bilanciamento tra la libertà di autodeterminazione del singolo e le esigenze di interesse pubblico e tra queste, in primis, quelle concernenti la "tenuta" dei presìdi ospedalieri e la garanzia, per chi necessita di cura ed assistenza, di poterle ricevere in condizioni di massima sicurezza e di minor rischio di contagio possibile (v. par. 31.2 -31.9 della sentenza n. 7045/2021)”.
Ora, tacendo l’uso sgangherato – ma evidentemente frutto di un subdolo refuso - della locuzione avverbiale “in disparte”[10], foriero di un possibile equivoco semantico, siamo in presenza del paradigma qui criticato, in forza del quale si tenta ( senza riuscirvi) di legittimare un bilanciamento fra libertà di autodeterminazione terapeutica del singolo, da un lato – destinata a cedere - e interesse pubblico a ricevere le cure necessarie in condizioni di sicurezza e di ridotto rischio di contagio, dall’altro – destinato a prevalere.
Nulla di più errato, in quanto, così opinando, ci si basa su di una visione astratta delle cose, frutto compiuto ma irrisolto di un intellettualismo post-illuminista tanto autoreferenziale, quanto distante dalla realtà e perciò privo di ragione: eppure, è proprio questo che Tribunali e Corti hanno spesso fatto nel caso in esame, qui assunto come paradigma ermeneutico di riferimento.
Pochi giorni fa è incorsa nel medesimo errore la Consulta, la quale in due recentissime sentenze circa la legittimità dell’obbligo vaccinale, afferma:
“È costante, nella giurisprudenza costituzionale, l’affermazione della centralità di tale principio ( quello del bilanciamento: n.d.r.), soprattutto in ambito sanitario, in considerazione del «rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività» (sentenza n. 307 del 1990): «in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno può essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico» (ancora sentenza n. 307 del 1990, richiamata anche dalla sentenza n. 107 del 2012)” (sentenza n. 14 del 2023).
E ancora:
“Il bilanciamento dei principi sottesi agli artt. 4, 32 e 35 Cost., realizzato dal legislatore nella individuazione dei tempi e dei modi della vaccinazione, risulta perciò esercitato negli artt. 4, comma 7, e 4-ter, comma 3, del d.l. n. 44 del 2021, come convertito, in modo non irragionevole” ( sentenza n. 15 del 2023).
In sostanza, sia il Consiglio di Stato che la Corte Costituzionale hanno adottato una prospettiva strabica che si è conformata al modello epistemologico della scienza, la quale, per conoscere – come ho già notato – ha bisogno di segmentare le cose del mondo, di parcellizzarle allo scopo di analizzarle una per una, mentre poi soltanto raramente e con fatica esse saranno riunificate in una visione d’insieme, che tuttavia sarà compito di un'altra scienza o di una sensibilità genuinamente filosofica e insieme giuridica inaugurare[11].
L’errore epistemico di quella giurisprudenza appare in tutta la sua evidenza sol che si ponga mente ad una celeberrima riflessione di Hegel, qui assunta non quale riferimento filosofico universale, ma come semplice paradigma conoscitivo di carattere non strettamente scientifico.
Ebbene, il pensatore di Stoccarda, in una pagina assai nota, scrive: “Il boccio dispare nella fioritura, e si potrebbe dire che quello viene confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità. Tali forme non solo si distinguono, ma ciascuna di esse dilegua sotto la spinta dell’altra, perché esse sono reciprocamente incompatibili. Ma in pari tempo la loro fluida natura ne fa momenti dell’unità organica, nella quale esse non solo non si respingono, ma sono anzi necessarie l’una non meno dell’altra; e questa eguale necessità costituisce ora la vita dell’intero”[12].
Sicché Hegel può concludere che “Il vero è l’intero”[13].
Cosa vuole dirci con queste dense considerazioni il filosofo tedesco?
Egli intende rimarcare evidentemente come ogni verità umanamente rilevante ( e quella del diritto lo è per definizione ) non possa che lasciarsi cogliere nella necessaria dialettica di tutti gli elementi che contribuiscono a costituirla, perché, mancandone uno soltanto, essa si dissolve in una astratta parcellizzazione che, della verità, non è che la sterile controfigura, il controcanto stonato e nullificante.
Ne viene che, nell’esempio qui adottato, ritenere che l’interesse della collettività alla tutela della pubblica salute, da un lato, sia cosa diversa del diritto della singola persona a non ricevere trattamenti sanitari contrari alla sua volontà, dall’altro, al punto da ipotizzare un conflitto fra le due dimensioni, risolvibile soltanto tramite l’espediente tecnico del bilanciamento, significa oltrepassare la soglia del reale, per perdersi nelle nebbie dell’indeterminato, del non rappresentabile[14].
Infatti, come senza il fiore non ci potrà mai essere il frutto, allo stesso modo, senza la tutela reale e specifica della salute del singolo (anche nella forma indiretta del diritto a non subire trattamenti obbligatori) non ci potrà mai essere quella della collettività; e come il fiore è contenuto nel frutto, allo stesso modo, la salute del singolo è insita in quella della collettività.
Operare come se così non fosse, simulando una opposizione fra le due dimensioni da risolvere tramite un ipotetico bilanciamento, significa ripudiare la verità dei rapporti umani e giuridici per seguire il loro fantasma[15], al modo di chi si ostinasse ingenuamente ad affermare – contro ogni evidenza della realtà – che la verità della pianta risieda tutta e soltanto nel frutto, mentre il fiore le sarebbe del tutto estraneo ed anzi sarebbe da contrapporre al frutto: conclusione, questa, tanto irreale quanto botanicamente insostenibile.
Eppure, è proprio questo che è accaduto, come in modo esauriente dimostrano non solo la sentenza del Consiglio di Stato e quelle della Consulta sopra richiamate ma anche numerose altre, sia della giurisdizione amministrativa che di quella ordinaria, che si pongono sulla stessa linea e che qui si danno per conosciute.
In altri termini, tali decisioni hanno uniformemente affermato, sia pure con qualche lieve distinzione, che il diritto fondamentale del singolo deve cedere – in sede di bilanciamento – rispetto a quello della collettività, perché questo va riconosciuto essere, per varie ragioni, “più fondamentale” di quello ( il che induce al sorriso).
Ora, pure a prescindere dalle suggestioni che in via sub-liminale può aver prodotto La fattoria degli animali di Orwell - nella quale, come è noto, alcuni animali sono “più eguali” degli altri[16]- solo immaginare possibile una gerarchia fra diritti fondamentali da individuare e far valere in sede giuridica, tramite il meccanismo del bilanciamento, stupisce per la fragilità teoretica che vi è sottesa[17].
E ciò perché, come sopra si è argomentato, i diritti fondamentali sono consustanziali l’uno all’altro, al punto che chi ne nomina uno li contempla indistintamente tutti: libertà in tutte le sue declinazioni ( di pensiero, di culto, di espressione, di movimento ecc.), eguaglianza, lavoro, salute ecc. simul stabunt, simul cadent.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, dal momento che tutti i diritti fondamentali, senza eccezione alcuna, trovano la loro scaturigine, e ne sono ciascuno la compiuta espressione, nella dignità della persona umana. Ciascuno di essi, in modo diverso, dice totalmente quella dignità: per questa ragione - e non per altra – si appellano come fondamentali, che vale assoluti, cioè insopprimibili, incomprimibili, non negoziabili e perciò non gerarchizzabili[18].
Non essendo qui possibile scandagliare il tema abissale della dignità personale quale origine dei diritti fondamentali, basterà limitarsi ad alcune considerazioni critiche.
Innanzitutto, è indubbio che la nostra Costituzione si radichi sul principio personalista come origine e fonte indiscussa dei diritti fondamentali in essa consacrati, principio disseminato in molte previsioni normative della Carta tanto numerose quanto conosciute.
Ciò si traduce nella necessità di considerare la singola persona umana – e non una sua astratta ipostasi – come fine ultimo e sovrano della organizzazione statuale in tutte le sue articolazioni.
In altre parole, nell’ambito della cornice dello Stato di diritto costituzionale, lo Stato è in funzione della persona e non la persona in funzione dello Stato.
Naturalmente, queste sono ovvietà consacrate da molto tempo in dottrina e in giurisprudenza, ma occorre ribadirle senza infingimenti perché a volte sono proprio le porte dell’ovvio che vanno tenute ben aperte, per evitare di intraprendere sentieri che – al modo degli Holzwege di Heidegger – non conducono da nessuna parte.
4. Dignità della persona e originaria unitarietà dei diritti fondamentali.
Se dunque è sempre lo Stato che deve porsi l’obiettivo di tutelare la persona umana, in quanto questa è naturalmente connotata da una intangibile dignità, principio e origine di tutti i diritti fondamentali della persona, conviene mettere brevemente in chiaro, di questa, le caratteristiche essenziali.
Sia che si voglia considerare la dignità come il portato della comune creaturalità, propria di tutti gli esseri umani, in quanto ciascuno di noi è imago Dei[19], sia che la si voglia vedere come il proprium dell’uomo in quanto ente morale[20], essa è infatti connotata da precise caratteristiche che qui mi limito ad accennare.
La dignità umana si lascia cogliere quale originaria, indisponibile, irrinunciabile, inviolabile, imperdibile.
Originaria, perché connota, fin dalla sua origine, ogni essere umano in quanto tale.
Indisponibile, perché nessuno può disporne, neppure il suo portatore, sia pure per fini eticamente o socialmente rilevanti.
Irrinunciabile, perché chi ne sia il portatore non può in alcun modo dismetterla.
Inviolabile, perché nessuno e per nessuna ragione, pur offendendola, può eliminarla.
Imperdibile, perché nessuna evenienza, di nessun tipo e di nessuna gravità, può cagionarne la perdita[21].
Quanto precede basta a comprendere come la dignità umana si lasci cogliere quale un assoluto e come di questa assolutezza partecipino in modo pieno e completo tutti i diritti fondamentali che ne siano espressione, al punto che, come già accennato, chi ne nomini uno li contempla tutti[22], in quanto tutti e ciascuno sono appunto elementi costitutivi di quella medesima dignità.
Prova ne sia che Kant – per ribadire tale assolutezza – annotava che ciò che ha un prezzo non ha dignità, mentre ciò che ha dignità non ha prezzo[23].
Ne viene che, in questa prospettiva, soltanto immaginare un bilanciamento fra tali diritti si presenta come operazione oggettivamente impossibile e destinata al fallimento ancor prima di aver inizio[24].
Ecco perché pensare si possa ampliare la sfera di uno dei quei diritti comprimendone un altro in misura corrispondente – che in sostanza è ciò che la dottrina e la giurisprudenza qui criticate hanno fatto e continuano a fare – manifesta soltanto un disagio del pensiero.
Per meglio intendere un tale disagio, rendendolo immediatamente comprensibile, possiamo fare riferimento alle tre virtù teologali – Fede, Speranza e Carità – come predicate dalla tradizione teologica patristica a partire da San Paolo[25].
Ebbene, seguendo la teoria del possibile bilanciamento dei diritti fondamentali, qualcuno ( sprovveduto) potrebbe affermare in sede teologica – per similitudine argomentativa – che ampliando e fortificando la dimensione della Fede, quella della Speranza e quella della Carità ne verrebbero ridimensionate e viceversa.
Ovviamente, nulla di più falso e grottesco: il vero è invece che a misura che si fortifica la Fede, si alimentano Speranza e Carità e viceversa.
Infatti, la Fede alimenta la Speranza e la Carità; la Speranza sostiene la Fede e la Carità; la Carità conferma la Fede e la Speranza: il crescere di ciascuna propizia e implica immancabilmente lo sviluppo delle altre due e giammai un loro grottesco e irreale depotenziamento[26].
E ciò perché le tre virtù teologali – in quanto elargite da Dio - sono dimensioni assolute, sottratte alla disponibilità di chicchessia, così come assoluti, pro modo suo, sono i diritti fondamentali costitutivi della dignità di ogni essere umano, che ne rappresentano l’originaria e inscindibile unitarietà: l’assoluto non tollera alcun tipo di bilanciamento.
Sicché occorre concludere – oltre ogni forma di sofisma argomentativo in cui certa giurisprudenza eccelle - che vista la impossibilità radicale di ogni bilanciamento giuridicamente fondato per le ragioni sopra esposte, sia pure in modo rapido e a volte approssimativo, una tale operazione non fa altro che propiziare la nascita di una sorta di alibi interpretativo, utile a far valere un diritto fondamentale – quello che la casualità dell’emergenza politica mette in luce di volta in volta come più bisognoso di tutela – a scapito di un altro, che al primo viene più o meno arbitrariamente sacrificato, ma senza apertamente ammetterlo (neanche a se stessi).
In questo modo, al pari del medico che, soddisfatto dell’intervento operatorio, perfettamente riuscito, deve però constatare il decesso del paziente, il giurista, soddisfatto della decisione sul bilanciamento, politicamente funzionale, deve constatare l’estinzione dello Stato di diritto, piegato alla ragion politica ( in attesa della successiva, forse urgente ma giuridicamente esiziale, emergenza collettiva)[27] e, con esso, della persona umana, anche in tal modo avviata verso il trans-umanesimo[28], cioè verso il suo definitivo tramonto.
Il fatto è che entrambi hanno visto una parte, ma hanno tragicamente trascurato l’insieme: persuasi di attingere il tutto, son naufragati nel nulla. E, quel ch’é peggio, noi con loro.
[1] Cfr. J. Urbanik, Compromesso o processo? Alternativa risoluzione dei conflitti e tutela dei diritti nella prassi della tarda antichità, in E. Cantarella - J. Mélèze Modrzejewski - G. Thur, Symposion 2005. Vortrage zur griechischen und ellenistischen Rechtsgeschichte , Wien, 2007, pp. 377-400.
[2] E per di più “Alta” o “Altissima” rispetto alle altre due, in quanto queste vengono vincolate a seguire le indicazioni di quella, sotto pena della caducazione di una norma già dichiarata illegittima, ma che, assurdamente lasciata in vita anche per uno o due anni, circola liberamente nell’Ordinamento in qualità di Zombie giuridico, cioè quale entità insieme morta ( perché incostituzionale) e viva ( perché lasciata sopravvivere). A questo orizzonte spettrale siamo ormai giunti, nel silenzio quasi unanime dei giuristi, avvezzi senza rimedio al progressivo smantellamento dello Stato di diritto. Sulla rischiosa espansività della funzione normogenetica della Consulta, mi permetto di rinviare ad un mio studio certo datato, ma ancora significativo, anche perché allora ampiamente discusso con Vezio Crisafulli e pubblicato sulla rivista da lui diretta: Natura e legittimità del giuramento nel processo penale, in “Giur. Costituzionale”, 1981, pp. 2123 – 2161.
[3] IV, 16-19.
[4] Cfr. V. Mathieu, Valori fondamentali del diritto tra protezione e promozione, in Luci ed ombre del giusnaturalismo, Torino, Giappichelli, 1989, pag. 95 ss..
[5] Per una esauriente panoramica sul punto, rinvio a G. Pino, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, in “Etica & politica / Ethics & Politcs”, 2006, 1, pp. 1-57.
[6] Cfr. I fondamenti dei diritti fondamentali, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. 277-369.
[7] Cfr. L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004, pag. 219.
[8] Cfr. C. Bassu, La legislazione antiterrorismo e la limitazione della libertà personale in Canada e negli Stati Uniti, in Democrazia e terrorismo. Diritti fondamentali e sicurezza dopo l’11 settembre 2001, a cura di Tania Groppi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006.
[9] Cfr. Aldo Rocco Vitale, All’ombra del Covid-19. Guida critica e biogiuridica alla tragedia della pandemia, Il Cerchio, Rimini, 2022, soprattutto i capitoli VI e XI.
[10] Il refuso – probabilmente dovuto ad un correttore automatico - è davvero maligno perché propone questa locuzione avverbiale (come sono per esempio: “in ritardo”, “da sempre” ecc.), che significa “isolatamente”, “in modo isolato”, come fosse una preposizione destinata ad introdurre i termini successivi (“…quanto già osservato…” ), cosa che grammaticalmente non è e non può essere. Probabilmente, si intendeva scrivere “A parte quanto già osservato…”. Ne viene che il correttore automatico – come spesso accade - è incorso non in un uso linguistico innovativo, ma in un solenne strafalcione. Sulla nefanda pervasività degli errori, amo ricordare un delizioso aforisma di Goethe, per il quale “Chi sbaglia la prima asola, non si corregge abbottonandosi”.
[11] Per meglio spiegare quanto affermo, si pensi per esempio al caso delle specializzazioni del sapere medico contemporaneo, nel cui ambito l’una ignora tendenzialmente le emergenze dell’altra, sicché, per armonizzarne gli esiti in chiave terapeutica, occorre l’intervento di un sapere di rango superiore destinato a fare ciò che esse non sono in grado di fare: cfr. sul punto le illuminanti pagine di H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, tr. It., Milano, 1994, soprattutto il saggio dal titolo Apologia dell’arte medica (anche perché, detto per inciso, la medicina ha dimenticato come suo compito specifico sia curare il malato e non debellare la malattia).
[12] Fenomenologia dello Spirito, tr. It., Firenze, 1988, vol. I, pag. 2.
[13] Op. cit., pag. 15.
[14] Non è da escludere che proprio a questa indeterminatezza, a questa non rappresentabilità siano da ascrivere le molte polemiche nate in epoca pandemica fra diversi schieramenti dell’opinione pubblica, l’uno favorevole ad una vaccinazione di massa ed obbligatoria, l’altro nettamente contrario.
[15] Intendo dire che qualsivoglia sia la determinazione che si voglia dare al diritto a non ricevere trattamenti sanitari non voluti, a seconda del punto di vista da cui lo si osservi – diritto di libertà, diritto alla salute o altro – il succo del discorso non cambia: la tutela del diritto fondamentale della singola persona umana era e rimane il luogo archimedeo dal quale prendere le mosse per giungere, alla fine del percorso, alla tutela della collettività. Invece, le norme varate e le sentenze che le hanno avallate, tramite il ricorso al bilanciamento, hanno seguito il percorso inverso, dimenticando – ed ecco la pura e perniciosa astrazione – che senza le persone la collettività non esiste, perché questa è composta da quelle e non viceversa.
[16] Il che condurrà poi, alla conclusione del racconto – pour cause - alla completa indifferenziazione fra uomini e animali.
[17] Coglie la seria problematicità della questione, ma senza individuarne in pieno la matrice teoretica, F. Rescigno, La gestione del coronavirus e l’impianto costituzionale. Il fine non giustifica ogni mezzo, in “Osservatorio costituzionale”, 2020, n. 3, pag. 1 ss..
[18] Prevengo una scontata obiezione. Si potrebbe infatti ritenere che spesso, contrariamente a quanto affermato nel testo, i diritti di libertà, pur essendo fondamentali, vengono compressi o limitati da norme di legge perfettamente legittime. Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso assai frequente in cui il diritto alla manifestazione del pensiero venga limitato dalle norme che puniscono la diffamazione a mezzo stampa. In casi del genere, a ben guardare e per quanto essi siano socialmente frequenti, nessun diritto fondamentale viene tuttavia limitato o compresso. Infatti, prevedere la punizione della diffamazione non significa in alcun modo comprimere la libertà di manifestazione del pensiero, dal momento che diffamare altri non esprime alcun pensiero autentico e degno di questo nome: esprime, al contrario, il nulla del pensiero e perciò non residua alcunché di fondamentale da limitare o da comprimere. Anzi, può dirsi di più. E cioè che i limiti che l’Ordinamento giuridico pone, non essendo destinati alla manifestazione del pensiero, ma al suo contrario – vale a dire al tralignare in altro da se, appunto in diffamazione – risultano assai utili allo scopo di individuare con maggiore chiarezza come e quanto il vero pensiero sia intangibile da chicchessia: essi perimetrano il pensiero autentico versus quello fasullo, difendendo il primo con l’arginare il secondo.
Quanto qui precisato ovviamente vale, mutatis mutandis, per ogni altro diritto fondamentale.
[19] Si tratta della prospettiva teologicamente tralatizia e sviluppata, fra gli altri, da Wilfried Harle, Dignità. Pensare in grande dell’essere umano, trad. it., Brescia, 2013.
[20] Dotato cioè di libertà e responsabilità. Cfr. qui la la nota interpretazione di F. Schiller, nel delizioso saggio - che va ben oltre un confronto con Kant - dal titolo Grazia e dignità, trad. it, 2010, Milano, pag. 59, per il quale “ Dominio degli istinti attraverso la forza morale è libertà dello spirito, e dignità si chiama la sua espressione nel fenomeno” ( corsivi non miei).
[21] Seguo la linea interpretativa di R. Spaemann, Tre lezioni sulla dignità della vita umana, trad. it., Torino, 2011. In esito a queste caratteristiche, va notato come sia ingenuo predicare – come oggi si suol fare con una disinvoltura pari all’insipienza - l’estinzione della dignità in capo a chi sia rimasto disoccupato, a chi si trovi in situazione di precarietà sociale o economica, a chi abbia subito violenza morale o materiale: tutti costoro conservano infatti indistintamente la pienezza della dignità umana loro consustanziale, mentre invece eventualmente a causare un vulnus alla propria dignità saranno stati i comportamenti – appunto indegni - di coloro che siano responsabili di quelle situazioni di particolare fragilità umana e sociale. La vittima non perde mai la propria dignità: indegni sono invece gli atti del suo carnefice (e non il carnefice).
[22] Cfr. V. Mathieu, Privacy e dignità dell’uomo. Una teoria della persona, Torino, 2004, pag. 103 e ss..
[23] Nella Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Roma-Bari, 2005.
[24] Ancor più della riflessione filosofico giuridica, come spesso accade, è la pagina della grande letteratura a dischiuderci in modo inequivocabile la percezione certa della inconsistenza teoretica, morale e giuridica di ogni possibile bilanciamento fra i diritti di un solo essere umano, da un lato, e quelli dell’umanità intera, dall’altro. Cfr. F Dostojevskij, I fratelli Karamazov, tr. It., vol. I, Milano, 1964, pag. 314:
“Disse Ivan…:
- Supponi che fossi tu stesso a innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno una sola minuscola creatura, per esempio proprio quella bambinetta che si batteva col piccolo pugno sul petto, e sulle sue invendicate povere lacrime fondare questo edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni? Parla senza mentire.
- No, non consentirei, disse piano Alioscia”.
Con il che abbiamo posto una pietra tombale su ogni possibile bilanciamento. Tuttavia, si lasci ovviamente alla bravura dei nostri architetti del diritto la soluzione del dilemma del bilanciamento dei diritti fondamentali di un solo essere umano, da un lato, e della umanità intera, dall’altro, dal momento che – posti sui piatti di una bilancia – i primi pesano ben più dei secondi: almeno, nello Stato di diritto. Negli Stati totalitari, no. E comunque costoro dovranno prima vedersela non certo con me, ma con… Dostojevskij ( cosa, questa, teoreticamente abbastanza complicata).
[25] Corinzi, I.
[26] Cfr. D. Mongillo, voce Virtù teologali, in “Nuovo Dizionario di Teologia Morale”, Cinisello Balsamo, 1990, pag. 1474 ss..
[27] A null’altro che alla estinzione dello Stato di diritto conducono le recenti sentenze della Consulta citate nel testo in tema di obbligo vaccinale, semplicemente perché adottano il principio che le narrazioni evangeliche riconducono a Caifa: “ E’ meglio che muoia un uomo solo, anziché perisca tutto il popolo” ( Gv., 11, 45-56); mentre il principio assoluto che regge l’intera impalcatura dello Stato di diritto è proprio l’opposto, come sopra letterariamente rappresentato dal grande scrittore russo : “mai è lecito sacrificare o mettere a rischio un solo essere umano, sia pure allo scopo di salvare l’intera umanità”. E ciò perché dentro ogni essere umano, nessuno escluso, viene custodito l’infinito e a nessuno, per nessuna ragione, è lecito disconoscerlo o vulnerarlo. Aggiungo che la Consulta sembra aver pericolosamente dimenticato l’insegnamento che essa stessa aveva impartito con diverse sentenze degli ultimi decenni e soprattutto con la sentenza 19 Aprile 1996, n. 118, secondo la quale “nessuno può essere chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri”. In altre sentenze – la n. 218 del 1994 e la n. 5 del 2018 - la Corte Costituzionale, in applicazione del principio di precauzione, afferma che il necessario rispetto dovuto alla persona umana non identifica un valore da bilanciare con altro valore, ma un criterio che presiede al bilanciamento tra l’interesse collettivo alla salute e il diritto personale alla stessa, segnando il limite oltre il quale il legislatore non può comprimere la libertà individuale, fosse anche in funzione dell’interesse collettivo. Oggi purtroppo dobbiamo contemplare una Consulta immemore di se medesima, al punto da smentire le proprie sentenze. Ne viene che per agire in conformità ai precedenti insegnamenti della Corte, l’opera di vaccinazione avrebbe dovuto essere affidata ai medici di base, i soli a poter discernere in scienza e coscienza, tenendo conto della storia clinica di ciascuno, quali soggetti vaccinare e quali no. In tal modo, sarebbe stata assicurata la salute delle persone in prima battuta e, alla fine e concretamente, della collettività intera. Invece, si è fatto il contrario, vaccinando decine di migliaia di persone al giorno, condotte presso gli hub vaccinali, come greggi al pascolo: una massa informe di soggetti – senza nome e senza volto – vaccinati da medici che, al riparo di un apposito scudo penale, nulla sapevano di loro. In tal modo, non solo si è rinnegata la scienza – inorridita da tale procedimento antiscientifico - ma si pretendeva, illudendosi, di giungere alle persone, muovendo dalle masse. In realtà, per ragioni ideologiche, spezzando l’originaria unità fra persone e legame sociale, si è spregiata la dignità umana, per privilegiare l’anonimia astratta delle masse. Un effetto inumano, oggi antigiuridicamente benedetto dalla Consulta, che, lo si sappia o no, ci avvia verso il trans-umanesimo, cioè verso la progressiva irrilevanza, fino alla scomparsa, della persona umana, come già preconizzato nelle pagine di Camus, di Chesterton, di Heidegger, di Anders e di molti altri pensatori contemporanei. Inascoltati.
[28] Vedi nota precedente.